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MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI

Premessa

A Maurice Gross
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Il convegno di cui presentiamo gli atti si è svolto a Parigi, alla Sorbona, dal
20 al 22 settembre 2001, nell’ambito del congresso annuale della Società di
Linguistica italiana, il terzo ad essere organizzato al di fuori dell’Italia dopo quel-
li di Malta nel 1995 e Budapest nel 1998.
Il progetto, suggerito da Sylviane Lazard all’Assemblea S.L.I. di Padova, nel
1997, è stato preparato dal Comitato organizzatore comprendente Catherine Ca-
mugli-Gallardo e Louis Begioni, quindi presentato da Mathée Marcellesi all’As-
semblea S.L.I. di Napoli, nel 1999, e definitivamente accettato in questa sede.
È per noi un’onore e un piacere ringraziare

– i membri del Comitato scientifico:


Pier Marco Bertinetto, Ilaria Bonomi, Emilio Bonvini, Jacqueline Brunet, An-
nibale Elia, Maurice Gross†, Pierre Le Goffic, Rémy Porquier, Bernard Pottier;

– gli organismi che hanno sostenuto l’iniziativa del congresso:


• C.N.R.S. (Centre national de la Recherche scientifique);
• Ministero Italiano dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca;
• Istituto Italiano di Cultura di Parigi;
• Union latine;
• Université de la Sorbonne Nouvelle-Paris 3 (Conseil scientifique, Equipe
d’Accueil E.A. 2097 «Langues romanes»);
• Université de Caen (Conseil scientifique, C.R.I.S.C.O.);
• Université Vincennes-Saint-Denis-Paris 8;
• Université Charles de Gaulle-Lille 3;

– i partecipanti al congresso.

Il Verbo italiano si colloca al centro degli interventi e dei dibattiti, nelle quat-
tro sessioni corrispondenti alle quattro dimensioni, diacronica, sincronica, con-
trastiva, didattica, all’interno delle quali la sessione sincronica si articola in tre
sottosessioni parallele: “Aspetti semantico-sintattici”, “Lessico e grammatica”,
“Lingua, italiani regionali e dialetti”.
X MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI

L’aspirazione alla novità dei metodi e della terminologia è comune ai 43 rela-


tori e co-relatori che hanno cercato di mettere in luce vari aspetti della manifesta-
zione del verbo rimasti finora trascurati o presentati tradizionalmente secondo
ipotesi e teorie che si rivelano inadeguate per spiegare i fenomeni osservati.
Dai 33 interventi emergono alcuni temi principali che intercorrono traversal-
mente tra le quattro sessioni: flessione, modi, modalità, proforme, diatesi, co-
composizione, processi acquisizionali.
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Nella sezione diacronica, gli interventi vertono su problemi morfologici,


morfosemantici o semantico-sintattici che mettono in luce i tratti caratteristici del
verbo italiano. Martin Maiden sviluppa la sua conferenza introduttiva intorno alla
differenziazione allomorfica del radicale del verbo a seconda del tempo, della per-
sona e del numero, fenomeno che contraddistingue le lingue romanze rispetto al
latino ed è troppo spesso ricondotto a fatti fonologici intervenuti nei primi secoli,
quali il cambiamento dell’accento. Il concetto di Classe di Partizione Morfologica
(CPM) mette in rilievo l’originalità del verbo italiano che si rivela proprio a livel-
lo morfemico: una rassegna preliminare nelle altre lingue indoeuropee dimostra
che, nonostante la presenza delle stesse categorie morfosintattiche del verbo, sono
ignorate le distinzioni paradigmatiche CPM2 anziché CPM1.
Confrontando le forme passive latine e gli equivalenti italiani, Silvia Pieroni
nota il ritardo della concettualizzazione della strutturazione morfosintattica, e la
mancanza, nella tradizione vulgata, di un quadro formale del mutamento in que-
stione. La sua ricerca, articolata su vari punti specifici, permette di cogliere il rap-
porto non biunivoco tra forme e funzioni. La considerazione dell’opposizione
sntetico versus analitiico e della transizione dall’uno all’alto stato tipologico
acquista una concretezza operativa, visibile e verificabile.
Dall’approccio della linguistica testuale in italiano antico, Gianluca
Frenguelli, Adriana Pelo e Ilde Consales ricavano un chiarimento proficuo per lo
studio del gerundio, e del verbo o proverbo fare.
Le origini dei condizionali romanzi sono studiate in una prospettiva psico-
meccanica da Alvaro Rocchetti e Romana Timoc-Bardy. Il paragone tra le lingue
romanze occidentali mette in luce l’originalità del verbo italiano, in base alla
quale viene individuato e corretto un errore di Gustave Guillaume. Dopo gli aspri
dibattiti sull’origine del condizionale rumeno, si è così potuta avanzare un’ipote-
si valida e feconda.

La conferenza introduttiva della sezione sincronica esposta da Pier Marco


Bertinetto analizza attraverso innumerevoli «batterie» di esempi, i diversi valori
dell’infinito in vari contesti.
Nella sottosessione «Aspetti semantico-sintattici», Nunzio La Fauci chiari-
sce, con lo strumento teorico della Fissione Predicativa, il problema dei doppi
ausiliari essere e venire. Sono presentati in una nuova prospettiva i casi del con-
PREMESSA XI

giuntivo (K. Blücher) e del trapassato remoto (Iørn Korzen). Emanuela Cresti
mostra l’importanza illocutoria della 3a persona, attraverso l’analisi del corpus di
italiano parlato del LABLITA.
Nella sottosessione parallela «Lessico e Grammatica», Daniela Giani, la cui
ricerca verte sul discorso riportato, constata che il verbo dire, quello più usato nell’i-
taliano parlato, può avere funzioni informative espresse tramite il contorno tonale in
cui il verbo si trova iserito (introduttore locativo, inciso, topic, appendice, comment).
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L’esemplarità di un altro verbo rappresentativo della categoria, il verbo fare,


consente a Ignazio Mirto di individuare una ricchezza di costrutti diversi dal punto
di vista semantico e sintattico. Dalle differenze morfosintattiche che esistono tra
i costrutti esemplificati, apparentemente identici, emerge la distinzione tra un fare
«verbo supporto» e un fare «verbo proxy», distinzione che si correla ad una dif-
ferenza tra predicatività ed argomentalità.
Sulla base della co-composizione secondo la quale la semantica dei verbi
affiora pienamente soltanto in specifici contesti sintattici, Elisabetta Jezek cerca
di isolare classi omogenee analizzando i verbi italiani attraverso il filtro delle
alternanze argomentali ovvero a partire dalla gamma di realizzazioni che ogni
verbo può presentare. Una problematica non priva di affinità è condotta, con mez-
zi teorici diversi, da Mathée Giacomo-Marcellesi.
Miriam Voghera e Alessandro Laudanna si basano su studi psicolonguistici
che attestano come le proprietà categoriali vadano collegate sia con le modalità
d’uso, sia con i processi di riconoscimento, comprensione e produzione dei verbi
in lingue appartenenti a svariate famiglie linguistiche.
Nella sottosessione parallela «Lingua, italiani regionali, dialetti» sono presi in
esame il dialetto parmense, per una particolarità semanticosintattica dei verbi sintag-
matici studiata da Louis Begioni, e il dialetto sardo, nel quale Franck Floričić e Lucia
Molinu hanno individuato la specificità fonomorfologica delle forme verbali brevi.
Due studi sono dedicati alla situazione di interpenetrazione tra lingua e dialetti, osser-
vata sotto l’angolo sociolinguistico. Francesco Avolio, nell’Italia centro-meridionale
(Campania e Lazio) espone una ricerca i cui risultati permettono di individuare tre
categorie principali: 1) l’impermeabilità, 2) la coesistenza, 3) l’interferenza. Alberto
Sobrero e Annarita Miglietta osservano l’uso dei verbi modali volere e potere con
valore epistemico, esaminando le risposte raccolte attraverso le inchieste in 35 loca-
lità dell’Italia meridionale (Salento, Puglia, Basilicata, Calabria, Molise, Campania).
La competenza multipla genera perturbazioni nei sistemi in contatto, fino a proietta-
re stabilmente le microstrutture dell’uno sulle microstrutture dell’altro.
Nella sessione contrastiva, la conferenza preparata in collaborazione da
Maurice Gross e da Annibale Elia venne presentata dal solo Elia. Maurice Gross
è scomparso due mesi dopo il convegno. In omaggio, Annibale Elia ha scelto di
presentare per gli Atti, invece del testo preparato della conferenza, un capitolo di
un libro sul tempo che Maurice Gross stava scrivendo.
Confrontando i sistemi flessivi dei verbi italiani e francesi secondo un modello di
morfologia naturale, Wolfang U. Dressler, Marianne Kilani-Schoch, Rossella Spina,
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Anna M. Thornton osservano due strutturazioni che si sovrappongono in larga


misura. Entrambe le lingue hanno due macroclassi, la prima che contiene tutti i
verbi con infniito in -are (It.), -er (Fr.), la seconda che contiene tutti gli altri verbi.
Inoltre esistono le molte microclassi corrispondenti nelle due lingue (i tipi it. fini-
re /fr. finir, it. aprire/ fr. ouvrir). Ma le ramificazioni dei livelli fra macroclassi e
microclassi differiscono molto, presupponendo la distinzione fra produttività fles-
siva e produttività derivazionale, produttività e singole analogie superficiali.
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Andrea Sansò dedica il suo intervento al confronto tra lo spagnolo e l’italia-


no nello sviluppo di due costruzioni passive che, pur derivando dalle stesse strut-
ture latine (o tardo-latine) presentano differenze a livello pragmatico e testuale. Le
statistiche permettono di osservare, nello spagnolo, una diffusione del passivo
riflessivo molto più importante che in italiano. Lo spagnolo sembra conformarsi
a un pattern ben noto di alternanza fra costruzione passiva principale topicaliz-
zante (quella perifrastica in molte lingue indoeuropee) e passivo-riflessivo (o
comunque caratterizzato dalla marca della diatesi media) non topicalizzante.
L’italiano sembra postulare un pattern diverso e finora mai ampiamente descritto
negli studi sulla diatesi passiva.
I contributi di Pia Mänttäri e Roman Govorukho presentano problemi tra loro
correlati. Roman Govorukho confronta l’organizzazione degli enunciati nelle lin-
gue russa e italiana per spiegare la difficoltà che il parlante deve affrontare.
L’analisi del corpus di esempi nelle due lingue dimostra che, mentre in italiano i
primi attanti tendono a essere presentati in modo omogeneo dal punto di vista
sintattico, e ad essere coreferenti tra di loro, la lingua russa, nelle stesse condi-
zioni, preferisce presentare i primi attanti in modo sintattico diverso e senza core-
ferenza. Il passaggio dal russo all’italiano può realizzarsi nella traduzione usan-
do regole di «trasformazione» che tocchino un livello profondo di analisi, Nel
passaggio dalla struttura profonda alla struttura superficiale, il secondo elemen-
to non viene rappresentato da una situazione indipendente, ma viene trasforma-
to in un gruppo predicativo dipendente. Tra i predicati capaci di svolgere questa
funzione, ci sono i verbi di percezione, di azione attiva, e i verbi causativi. Pia
Mänttäri affronta il problema della traduzione da una lingue passivante ad un’al-
tra senza passivi, partendo dalla lingua dei testi italiani letterari di cui cerca la
traduzione possibile in finnico. Il finnico non possiede un passivo vero e proprio
ma dispone di tre tipi di soluzione impersonale: soluzione morfologica «il lavo-
ro viene fatto» o «si cammina nel bosco», soluzione sintattica (tipo equivalente
finnico di «sta notte le stelle si vedono bene)», e soluzione lessicale con uso di
un gruppo particolare di verbi intransitivi, i cosidetti rifessivo-passivi, che vei-
colano una qualità del soggetto.
Emanuele Banfi e Anna Giacalone-Ramat sviluppano uno studio tipologico e
contrastivo del sistema verbale italiano e cinese, evidenziando la complessità mor-
fologica del primo e la relativa «leggerezza» del secondo. Vengono individuate e
analizzate diverse strategie attuate dagli apprendenti entro i due sistemi per ciò che
si riferisce alla codificazione delle categorie temporali, aspettuali, modali.
PREMESSA XIII

La conferenza di Rémy Porquier apre la sessione didattica con un avvio


metodologico. In base ad un esempio preciso di paragone tra due costrutti speci-
fici in italiano e in francese, gli corro dietro / “je lui cours après”, viene illustrata
la complementarietà tra i metodi della linguistica contrastiva, della linguistica
acquisizionale e della didattica delle lingue, che mira anche a dimostrare lo stret-
to legame tra le categorie semantico-referenziali grammaticali e lessicalizzate.
Cecilia Andorno osserva l’evoluzione del trattamento da parte di apprendenti
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cinesi, tigrini, inglesi, tedeschi di un insieme di avverbi di predicato – anche,


ancora, appena, già, mai, più- accomunati nella varietà nativa dalla collocazione
in posizione interausialiare. L’indagine mostra attraverso varie tappe le ristruttu-
razioni categoriali del sistema da parte degli apprendenti che passano dalla ini-
ziale preferenza per la collocazione preverbale alla distribuzione propria della
varietà nativa.
Sempre nell’ambito della linguistica didattica e/o acquisizionale, Monica
Barni, Fiammetta Carloni, e Silvia Lucarelli studiano i manuali per gli immigrati
stranieri in Italia, mentre Carla Bagna individua, attraverso l’apprendimento in
italiano L2 da parte di apprendenti di varie madrelingue, l’emergere di regole
implicazionali da una varietà basica a una varietà avanzata.
Saša Moderc prende in considerazione le difficoltà dell’apprendimento del-
l’italiano L2 che, per i parlanti di serbocroato, che permangono anche a livelli
superiori di conoscenza dell’italiano. Ai quattro tempi passati dell’italiano (cin-
que se si aggiunge il poco usato trapassato remoto), corrisponde un unico tempo
in serbocroato, il perfektat, i cui diversi valori impliciti pongono problemi di rico-
noscimento.
La ricerca di Tjaša Miklič, verte sulla ricezione di testi italiani da parte di pro-
fessionisti di vari settori, di lingua materna diversa dall’italiano. La scelta di un
dato tempo verbale dipende organicamente da tutta una serie di parametri, ma c’è
un apporto funzionale specifico della singola forma verbale. L’ipotesi che emer-
ge dalle analisi sistematiche delle forme verbali nei testi è quella di un funziona-
mento in forma di team, per cui le forme verbali si comportano solidariamente,
come se fossero raggruppate in “squadre”.
Fuori sessione, Sarah Labat-Jacqmin dimostra quanto una descrizione gene-
rale del comportamento del verbo italiano e della proposizione possa rivelarsi uno
strumento utile per i sistemi di elaborazione del Linguaggio Naturale (TALN).

Nel quadro storico della Sorbona, nell’anfiteatro Louis Liard, nell’aula


Bourjac, nell’atrio Pierre de Coubertin, all’Istituto Italiano di Cultura, gli scambi
verbali intorno al verbo italiano si sono svolti tra rappresentanti di gruppi scienti-
fici provenienti da vari paesi europei, vicini e lontani. Esempio di cooperazione
internazionale e di interattività istituzionale, il presente volume assume l’impor-
tanza di un evento scientifico incontestabile, crogiolo di infinite prospettive per la
linguistica del verbo.
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XIV
MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI
Partecipanti al Congresso

ALBANO LEONE Federico (Napoli), ANDORNO Cecilia (Pavia), ANTONI-


NI Anna (Pisa-Scuola Normale Superiore), AVOLIO Francesco (L’Aquila),
BAGNA Carla (Siena-Università per Stranieri), BANFI Emanuele (Milano-
Bicocca), BARNI Monica (Siena-Università per Stranieri), BEGIONI Louis (Lille
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3-Charles de Gaulle), BERTINETTO Pier Marco (Pisa-Scuola Normale Superio-


re), BLÜCHER Korlbjorn (Bergen), CAMUGLI-GALLARDO Catherine (Caen),
CARETTI Franco (Firenze), CARLONI Fiammetta (Siena-Università per
Stranieri), COLOMBO Adriano (Bologna), CONENNA Mirella (Bari), CONSA-
LES Ilde (Roma Tre), CORDIN Patrizia (Trento), CORRA` Loredana (Padova),
CRESTI Emanuela (Firenze), CRISTOFARO Sonia (Pavia), DARDANO Mauri-
zio (Roma-La Sapienza), DE MAURO Tullio (Roma-La Sapienza), DE SANCTIS
Cristiana (Bologna), DELLA CORTE Federico, DOGLIONI Anna (Bergamo),
DRESSLER Wolfgang (Wien), ELIA Annibale (Salerno), FERRERI Silvana
(Viterbo), FLORIČIĆ Franck (Toulouse-Le Mirail), FORESTI Fabio (Bologna),
FRENGUELLI Gianluca (Roma Tre), GAETA Livio (Padova), GIACALONE–RA-
MAT Anna (Pavia), GIACOMO-MARCELLESI Mathée (Paris 3-Sorbonne
Nouvelle), GIANI Daniela (Lablita, Firenze), GOVORUKHO Roman (Mosca),
IORIO Alfredo (Napoli-Federico II), JEZEK Elisabetta (Pavia), KILANI-SCHO-
CH Marianne (Losanna), KORZEN Iørn (Copenaghen), LA FAUCI Nunzio
(Zurigo), LABAT-JAQMIN Sarah (Nice-Sophia Antipolis), LAUDANNA Ales-
sandro, LAZARD Sylviane (Vincennes-Saint-Denis-Paris 8), LE GOFFIC Pierre
(Sorbone Nouvelle-Paris 3), LEONE Vittorio (Napoli), LUCARELLI Silvia
(Siena-Università per Stranieri), MAIDEN Martin (Oxford), MÄNTTÄRI Pia
(Helsinki), MARASCHIO Nicoletta (Firenze), MAROTTA (Pisa), MIGLIETTA
Annarita (Lecce), MIKLIČ Tjaša (Lubjana), MIRTO Ignazio (Palermo), MO-
DERC Šasa (Belgrado), MOLINELLI Piera (Bergamo), MOLINU Lucia
(Toulouse-Le Mirail), MONCHELLI Angiolo, PANI Giuseppina (Lugano), PAN-
ZIERI Chiara, PASSAROTTI Marco (Lugano), PELO Adriana (Roma Tre),
PESCOSTA, PETRALLI Alessio (Lugano), PIERONI Silvia (Università della
Tuscia), PORQUIER Rémy (Paris 10- Nanterre), RAMAT Paolo (Pavia), RENZI
Lorenzo (Padova), RESTIVO Chiara (Lugano), ROCCHETTI Alvaro (Paris 3-
Sorbonne Nouvelle), ROMEO Silvia (Paris), SAFFI Sophie (Aix-Marseille 3),
SALVI Giampaolo (Budapest), SANSÒ Andrea (Pavia), SCARANO Antonietta
(Firenze), SILLER Heidi Maria (Pavia), SOBRERO Alberto (Lecce), SORNICO-
LA Rosanna (Napoli), SPINA Rossella (Vienna), SPRUGNOLI Laura (Napoli),
SQUARTINI Mario (Pisa–Scuola Normale Superiore), STAMMERJOHAN Hano
(Frankfurt), STEFANELLI Stefania (Firenze), STEFINLONGO Antonella (Roma
Tre), STRUDSHOLM Erling (Copenaghen), SUOMERA Elina (Helsinki), TER-
ZOLO Luca (Torino-UTET), THORNTON Anna M. (L’Aquila), TIMOC-BARDY
Romana (Aix-en-Provence), VANELLI Laura (Padova), VARVARO Alberto
(Napoli), VOGHERA Miriam (Salerno), ZABBAN Aldo.
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PARTE PRIMA
«STUDI DIACRONICI»
Conferenza Introduttiva

MARTIN MAIDEN
(Oxford College)

Il verbo italoromanzo: verso una storia autenticamente morfologica


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Una differenza fondamentale quanto generalmente trascurata che distingue le


lingue romanze dal latino è l’allomorfia del radicale nel verbo. Se il latino cono-
sceva distinzioni allomorfiche nel radicale collegate all’aspetto perfettivo o imper-
fettivo, era invece pressoché inesistente la differenziazione allomorfica a seconda
del tempo, della persona e del numero. Il posto centrale che occupano tali alter-
nanze nella compagine morfologica del romanzo si deve, in primo luogo, a due
cambiamenti fonologici avvenuti (o comunque avviati) prima della fine del quin-
to secolo, intendo le due ‘ondate’ di palatalizzazione delle consonanti, e la diffe-
renziazione della qualità vocalica condizionata dall’accento.
Mi si osserverà che, lungi dall’essere ‘trascurati’, questi sono fatti arcinoti,
facilmente reperibili in qualsiasi manuale di linguistica storica romanza. Gli stu-
denti di storia dell’italiano imparano che le alternanze vocaliche che distinguono
le forme del singolare presente e la terza persona plurale presente dal resto del
paradigma in verbi come morire, sedere, udire, dovere, ecc., risalgono a processi
fonetici, di varia antichità, tendenti a dittongare le vocali medie in sillaba tonica
aperta, o a chiudere le medie in sillaba atona; si sa anche che gli allomorfi che uni-
scono e caratterizzano la prima persona singolare, la terza persona plurale del pre-
sente indicativo, e le forme del congiuntivo presente sono effetti di due ondate
successsive di palatalizzazione, una davanti a yod primitivo (come in soglio) e
l’altra davanti a vocale anteriore (come in legge). Se questi fatti sono stati neglet-
ti credo che sia dal punto di vista propriamente morfologico. Si sa che i relativi
cambiamenti si ripercuotono sul sistema morfologico, dando luogo ad alternanze,
ma da questa prospettiva esse non sarebbero altro che un effetto regolarissimo di
banalissimi cambiamenti fonologici. Tutto qui. Immagino che la tendenza a vede-
re l’alternanza del radicale come un fenomeno in fondo fonologico si dovrà anche
all’impossibilità, in molti casi, di collegare le alternanze risultanti a funzioni
morfosintattiche chiaramente delineate. In linea di massima, si ritiene che il cam-
biamento fonologico si produca automaticamente ed indifferentemente dal conte-
nuto lessicale e grammaticale, motivo per cui i suoi effetti sono spesso incoeren-
ti dal punto di vista della funzione morfologica. Prendendo l’esempio delle alter-
nanze già menzionate, è impossibile assegnare un valore comune e fondamentale
ad un insieme costituito dal congiuntivo presente più la prima persona singolare
del presente indicativo più la terza persona plurale del presente indicativo; altret-
4 MARTIN MAIDEN

tanto difficile è scoprire nell’insieme delle forme singolari del presente più la
terza persona plurale del presente un tratto morfosintattico comune che le distin-
gua dal resto del paradigma. Se dovessi riassumere in poche parole l’essenza di
questo saggio, direi che dobbiamo riconoscere che la stessa incoerenza funziona-
le conferita dal cambiamento fonologico al paradigma flessivo del verbo si può
trasformare in una caratteristica fondamentale della struttura morfologica dell’i-
taloromanzo, non solo ‘passiva’, in quanto dovuta storicamente alla fonologia, ma
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anche attiva, in quanto essa si rivela ripetutamente plasmatrice della forma para-
digmatica verbale.
Le idee che esporrò qui fanno capo al brillante libro di Mark Aronoff Mor-
phology By Itself (1994) e anche all’idea di ‘deep morphology’ proposta negli an-
ni 70 da Yakov Malkiel, alla quale mi ero ispirato in un mio studio del 1992. È
inoltre una corrente di pensiero che ha trovato recentemente appoggio, dall’ottica
della morfologia computazionale, nei lavori di Vito Pirrelli e collaboratori.
Aronoff riesce a dimostrare l’esistenza, in molte lingue, di regolarità strutturali
astratte (‘morphomes’), ricorrenti all’interno del sistema morfologico paradigma-
tico, ed autonomamente morfologiche, in quanto non si lasciano rappresentare né
in termini fonologici né in termini di una funzione grammaticale coerente.
L’ottica prevalentemente sincronica adottata dallo studioso canadese non poteva
però garantire la «realtà psicologica» del morfoma. Può sorgere il dubbio che le
regolarità osservate da lui siano l’effetto di una specie di ‘inerzia’ diacronica per
cui i parlanti imparano, per così dire ‘alla spicciolata’, i paradigmi di singoli les-
semi verbali senza mai rendersi conto di generalizzazioni macroparadigmatiche
più astratte, che eventualmente rispecchiano stati sincronici oramai decaduti. Nel
mio studio del 1992 credo di aver identificato, ‘avant la lettre’, certi criteri dia-
cronici atti a garantire la realtà psicologica del morfoma, criteri elaborati ulterior-
mente in tre studi recenti (Maiden 2000; 2001a,b):

coerenza: l’inscindibilità formale, diacronica, del morfoma: l’identità


formale tra diverse parti del paradigma rimane inviolata; il rapporto di
mutua implicazione paradigmatica si mantiene sempre intatto, nono-
stante la eterogeneità fonologica e funzionale.
convergenza: il morfoma si ‘concretizza’ fonologicamente, perdendo
attraverso il tempo una parte della sua eterogeneità fonologica a questi
ne aggiungerei un altro, che sarà al centro di questa relazione, e cioè
l’attrazione.
attrazione: una distribuzione funzionalmente e fonologicamente etero-
genea si riproduce e si diffonde attraverso il tempo attraendo a sé nuove
alternanti.

Prima di passare ad un’analisi dettagliata dei fatti italoromanzi, premetterei


che dovremo combattere un atteggiamento profondamente radicato nello studio
dell’evoluzione del sistema flessivo (italo)romanzo che spartisce il cambiamento
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 5

paradigmatico esclusivamente tra fattori fonologici (generatori di allomorfia, neu-


tralizzazioni, ecc.), da una parte, e riassestamenti funzionalmente ossia morfosin-
tatticamente motivati (livellamenti analogici, analogia proporzionale), dall’altra.
Sono approcci il cui valore non è in questione, ma non devono comunque emar-
ginare quanto c’è di autenticamente ed autonomamente morfologico nella storia
morfologica, soprattutto perché è proprio al livello ‘morfomico’ che si rivelano i
tratti più caratteristici della struttura di una lingua come l’italiano.
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Una storia ‘morfomica’ della morfologia italoromanza è ancora tutta da scri-


versi, ma sono emersi finora almeno tre fenomeni che ne farebbero parte. Il primo,
su cui non mi soffermerò in questa sede perché è già stato discusso in Maiden
(2000, 2001a), è la sorte dei radicali perfettivi latini – fonologicamente eteroge-
nei sin dall’inizio, e diventati funzionalmente incoerenti nel romanzo – caratte-
rizzata da coerenza e da una serie di convergenze formali. Mi occuperò invece di
due altri fatti, ai quali darò rispettivamente l’etichetta di ‘CPM1’1 (‘classe di par-
tizione morfomica 1’) e CPM2. CPM11 è il tipo di allomorfia prodotta dalle due
palatalizzazioni, e in cui la 1a pers. sing. pres. condivide con il cong. pres. un radi-
cale che contraddistingue queste persone dal resto del paradigma. CPM2 è il tipo
di allomorfia associata alla differenziazione della qualità vocalica dovuta all’al-
ternanza dell’accento. I radicali delle tre persone singolari e della terza persona
plurale del presente condividono una vocale che li contraddistingue da altri tempi,
modi e persone:

Tabella 1

Tabella 2

1 L’etichetta è volutamente opaca. ‘CPM’ sta per ‘classe di partizione morfomica’. Per il
termine ‘classe di partizione’, vedasi Pirrelli (2000).
6 MARTIN MAIDEN

Intendo occuparmi soprattutto in questa relazione dei verbi a CPM2, ma pre-


metto un breve aggiornamento di quanto avevo detto nel 1992 sul tipo CPM1. Si
confrontino i seguenti paradigmi del presente in toscano antico (a) e le corrispon-
denti forme moderne (b):

Tabella 3
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Tabella 4

Si nota che i verbi con [ʎʎ], [], [d] li hanno persi a favore di varianti vela-
ri ([l], [ŋ], []) – e così anche molti altri verbi, come dolgo, ecc., salgo ecc.,
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 7

tengo ecc., rimango ecc., veggo ecc. rispettivamente con [ʎʎ], [], [d] nella
lingua antica, anche se ci sono superstiti del sistema antico, quali voglio ecc.,
soglio, ecc. Verbi come leggere, cogliere, spegnere, piangere, invece, mantengo-
no intatte le alternanze antiche. Nel complesso possiamo dire che c’è stata una
tendenza a far convergere CPM1 su una forma fonologica comune, la quale con-
tiene una consonante velare. È inoltre da osservare che:
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a. Il fenomeno interessa un insieme di celle morfosintattiche essen-


zialmente eterogeneo. ‘1a pers. sing. indic. pres.’, ‘pres. cong.’ e ‘3a
pers. plu. indic. Pres’2,
b. Nonostante l’eterogeneità funzionale e fonologica di CPM1, il feno-
meno rivela una straordinaria coerenza diacronica (cfr. Maiden
1992). Un cambiamento (come l’estensione della velare) che inte-
ressa il cong. pres. interessa ugualmente le due forme dell’indic.
pres., e viceversa.
c. L’estensione della velare a volte non si lascia interpretare come un
caso di banale ‘analogia proporzionale’. Infatti si creano delle alter-
nanze del tutto nuove e senza precedenti nella lingua, per esempio
[ŋ] – [n] (vengo vieni), [l] – [l] (valgo vali), [] – vocale (trag-
go – trai) ed anche, in certi dialetti, altre ancora più spinte (e, pace
Fanciullo 1998, non spiegabili in termini fonologici) come beggo
bevi, ecc., nella zona perugina. Si tratterebbe, a tutti gli effetti, di
una specie di convergenza, di un concretizzarsi, formale per cui l’in-
sieme eterogeneo di categorie morfosintattiche avrebbe acquisito
una veste fonologica sempre più uniforme.

Un esempio di reazione ‘fonologizzante’ è Fanciullo (1998), il quale, segna-


lando che la velare appare sempre ed esclusivamente davanti a desinenze in -a o
-o, ipotizza una specie di ‘allofonia’ particolare per cui si avrebbe variazione tra
una consonante che appare davanti a vocale anteriore ed un’altra, non palatale,
che appare davanti a segmento non palatale: così, in base al tipo colgo cogli
(colto), ecc., spengo spegni (spento), ecc., la velare viene interpretata come un
inserto che consente la depalatalizzazione della consonante finale del radicale
davanti a vocale non palatale. In quanto alla successiva creazione di alternanze
come [ŋ] – [n], [l] – [l], [] – vocale, si tratterebbe secondo Fanciullo di una

2 È quanto riconoscono, per lo spagnolo, Bybee e Pardo (1981: 958, anche Bybee 1985:
71:74), ma non risulta spiegato niente quando le studiose americane assumono in modo arbitra-
rio che una prima persona singolare dell’indicativo., forma relativamente ‘autonoma’ rispetto al
congiuntivo, serva di base dalla quale sarebbe derivato il congiuntivo. Ciò descrive il rapporto
di mutua dipendenza tra la prima persona del singolare e il congiuntivo, ma non lo spiega – e lo
descrive invocando un processo derivazionale del tutto ipotetico.
8 MARTIN MAIDEN

specie di semplificazione puramente fonologica per cui non solo [n] e [l] ma tutti
i segmenti più sonori (incluse le vocali), verrebbero ad alternarsi con forme ad
inserto velare. Così si potrebbe rendere ragione di casi, comuni in non poche
varietà toscane meridionali ed umbre (cfr. Hirsch 1886:435s.; Rohlfs 1968:260),
come il senese 1sg. corgo – 2sg. corri ecc., o ´mɔro ´mɔre ´mɔrono di
Pietralunga (AIS). E il tratto ‘sonorante’ spiegherebbe, infine, anche traggo – trai,
visto che le vocali comportano il più alto grado di sonorità.
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Alla tesi fonologizzante di Fanciullo si oppongono però non pochi fatti dialet-
tali. Innanzitutto, la consonante palatale può apparire davanti a vocale posteriore.
Oltre a forme italiane quali conosciuto, abbiamo nei dialetti e nel toscano antico
vagliuto, piangiuto, scegliuto, piangiuto, ecc. (v. Rohlfs 1968:370). Nei dialetti si
ha la variante non palatale anche davanti a desinenze in /e/ (p. es. umbro ant. morgo;
(che io) morga, (che tu) morghe, ecc.)3. Per di più, i dialetti umbri e toscani meri-
dionali hanno alternanze come [] – [v] in ´beo 3sg. ´beve 1pl. ba ´veno 3pl.
´beano, (Civitella Benazzone); nel cortonese lo stesso verbo cogliere, insieme
con salire e dolere, ha [] al posto di [l] o [ʎ], producendosi così un’alternanza
tutta nuova tra [l] o [ʎ] e []: p. es., cogga, dogga, saggo. Già negli scritti di
Iacopone da Todi abbiamo il congiuntivo moga ‘muoia’ (3sg.) e il 2sg moghe in
alternanza con mor-, insieme a pago (sia ‘paio’ che ‘paiono’), cong. paga ‘paia’, in
alternanza con par-. In tali casi non è lecito parlare di un ‘inserto’ velare dipenden-
te dal carattere della consonante precedente, perché sembra che sia stato introdotto
analogicamente il [()] tipico di verbi come leggo – leggi...; legga, ecc., in modo
che viene sostituita una consonante con un’altra, ai danni della trasparenza lesse-
matica, ma con rafforzamento e ipercaratterizzazione di CPM1. Anche l’Italia meri-
dionale è ricca di creazioni di alternanze nuove con velare, e per le quali non si può
ricorrere alla nozione di semplificazione fonologica in base alla ‘sonorità’ di una
delle alternanti. Nella zona del Golfo di Napoli (cfr. Capozzoli 1889; Freund 1933;
Radtke 1997:87) si riscontrano alternanze quali (1sg. vs. 3sg.): ´mεkkə ´mεttə,
atikə at´irə, ´parkə ´partə, ´sεŋə ´sεndə, ´pɔrkə ´pɔrtə, ´aʃpεkkə
a´ʃpεttə, ´rakkə ´rattə. Scartata l’ipotesi ‘fonologizzante’ (per una risposta più
dettagliata a Fanciullo, si vedano Pirrelli 2000 e Maiden 2001b), CPM1 emerge
come un ottimo esempio di ‘convergenza’ morfomica.

I verbi a CPM2 rivelano un nuovo aspetto diacronico della struttura morfo-


mica, e cioè il suo ruolo come ‘forza di attrazione’, regolatrice di alternanze erra-
tiche e sporadiche sorte nella storia dell’italoromanzo. Quasi tutte le lingue
romanze conoscono una classe di partizione nata dalla differenziazione di qualità
vocalica condizionata dall’accento. Alla stessa distribuzione paradigmatica ven-

3 Critiche simili si potrebbero muovere a Vogel (1993:226), la quale propone un processo


sincronico di ‘cancellazione’ della velare davanti a desinenze che non contengano /a/ o /o/.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 9

gono a conformarsi – in diversi periodi e luoghi – le seguenti alternanze del tutto


indipendenti da fattori fonologici prosodici:

a. Il propagarsi analogico di [g] finale di radicale caratteristico del con-


giuntivo si produce secondo CPM2, in molte varietà (cfr. anche la
frequente assenza della velare nella 1a e 2a plu. pres. cong. in ita-
liano moderno):
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Tabella 5

b. Accade spesso che la fusione suppletiva di due verbi si regoli secon-


do CPM2. Il caso di gran lunga più noto (cfr. Aski 1995) riguarda
l’integrazione in un unico paradigma lessicale dei continuatori di
UADERE, AMBITARE, IRE. L’alternanza particolare di uscire si deve alla
fusione di escire da EXIRE col sostantivo uscio da OSTIUM (Maiden
1995). Numerosi dialetti settentrionali (cfr. AIS 1994) fanno prova
di una contaminazione del tipo CPM2 tra potere e volere. Per esem-
pio, Roncone (AIS 340):

Tabella 6

A Minerbio (AIS 446) il congiuntivo presente di essere ha assunto [p], appa-


rentemente dal verbo ʃa ´vεr ‘sapere’, ma solo seguendo la CPM2:

Tabella 7

Il radicale a struttura sillabica CV di STARE e DARE si riproduce in altri verbi


frequenti:
10 MARTIN MAIDEN

Tabella 8

Tabella 9
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Nella Sicilia sudorientale (Leone 1980:36-39;91s.) si ha suppletivismo tra


DONARE e DARE, tra AFFLARE (> (a)ʃ´ʃare) con *TROPARE4 e tra SAPERE o FACERE, e
STARE:

Tabella 10

Un altro esempio della stessa distribuzione è la perdita, facoltativa, della -l


finale dei verbi valiri e vuliri appunto nel singolare e nella terza persona plurale
del presente5. Lo stesso vale per la dentale di putiri.
Uno degli esempi più spiccati, e meglio noti, di conformità alla CPM2 riguar-
da gli aumenti (‘infissi’) aggiunti al radicale. Gli affissi latini -ISC-/-ESC-, detti
‘incoativi’ ma dal valore piuttosto ‘ingressivo’ (cfr. Sihler 1995:506), apparivano
in tutte le forme imperfettive e, cosa ancora più importante, indifferentemente
dalla persona o dal tempo. Se vediamo invece le varietà romanze moderne, con-

4 Mi pare poco probabile la spiegazione che di questa integrazione dà Leone (1980:39),


secondo il quale s’introduce tr(w)ov- per supplire ad una supposta forma aferetica ʃʃ- (da aʃʃ-),
incapace di portare l’accento. In realtà l’aferesi sarà stata sicuramente solo delle forme atone, in
modo che sarebbe stato da aspettarsi una semplice alternanza tra aʃʃ- in sillaba accentata e ʃʃ-
altrove.
5 Nel caso di vuliri si sovrappone a CPM2 anche CPM1, conferendo alla prima persona sin-
golare un radicale a consonantismo diverso.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 11

statiamo che è andata persa la correlazione aspettuale e che, nell’italoromanzo6 ed


in molte altre varietà romanze, l’aumento si conforma perfettamente alla CPM2.
Lo stesso vale per i continuatori di -*edj- protoromanzo, che fanno capo alla clas-
se di verbi greci in -izein. Tale infisso doveva essere presente, all’origine, in tutto
il paradigma verbale, situazione che si mantiene tutt’oggi nel sardo, nonché nella
maggior parte delle lingue romanze occidentali. Se guardiamo invece all’italoro-
manzo, vediamo che in una zona dell’Italia meridionale delimitata da Matera,
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Taranto e Foggia, in Corsica, ed anche nel Veneto settentrionale, in Ladinia, e


nell’Istria (come pure nel dalmatico e nel romeno), -*edj- si conforma alla CPM2.
È da notare che la presenza dell’aumento da *-edj- presuppone sempre e dapper-
tutto quella dell’aumento in -*isk-:

Tabella 11

Tabella 12

6 In alcune località (S.Elpidio a Mare, Serrone, Nemi, Teggiano, Serrastretta, S. Chirico


Raparo -v. AIS carte 1687) l’aumento appare in tutto il paradigma. Qua e là nel Lazio meridio-
nale e in Calabria, l’aumento si ha in tutte le persone del presente. Certe varietà toscane (Rohlfs
1968:243) avrebbero l’aumento in tutte le persone del congiuntivo presente (ma si tratterà di una
distribuzione a CPMI sobrappostasi alla CPM2). Il fatto che in alcuni dialetti merdionali l’au-
mento si presenti anche nell’infinito sembra ascrivibile alla frequente identità formale tra infini-
to e terza persona singolare presente nei relativi dialetti (cfr. Iannace 1983:69).
12 MARTIN MAIDEN

Le interpretazioni diacroniche degli aumenti – particolarmente di -isk-,


abbondano (p. es., Maurer 1951; Rohlfs 1968:242-4; Lausberg 1965:§921-23;
Blaylock 1975; Wolf 1998). Nel latino l’infisso in -ivein- si limitava alle forme
imperfettive per ovvi motivi di compatibilità semantica. Il sostanziale crollo nel
romanzo delle antiche distinzioni morfologiche aspettuali avrebbe fatto sì che si
perdesse anche il valore distintamente ingressivo dell’infisso: già nel tardo latino
la presenza dell’infisso era facoltativa, senza apparenti connotazioni di ingressi-
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vità (cfr. nell’italiano moderno tosso o tossisco, mento o mentisco ecc.). L’infisso
diventa, quindi, un elemento semanticamente vuoto. L’aumento *-edj- / *-edz-
risale (cf. Lausberg 1965:§801; Rohlfs 1968:244s.; Väänänen 1974:116;173;
Tekavčić 1980:239s.; Zamboni 1980/81) all’infisso derivazionale -iv-, introdotto-
si nel tardo latino particolarmente attraverso il lessico religioso (p. es., bapti-
vein). Nel romeno, esso caratterizza la stragrande maggioranza dei neologismi e
dei verbi denominali della prima coniugazione, ma ha una distribuzione lessicale
del tutto arbitraria. Per i dialetti della zona Matera – Foggia – Taranto, l’aumento
si presenterebbe (cfr. Lausberg 1939:156) proprio in quei verbi i cui primo secon-
do e terzo singolare e terzo plurale altrimenti avrebbero l’accento sdrucciolo (cfr.
1sg. mattsə ´ki j e màstico). Una distribuzione simile si ha nell’antico venezia-
no, nell’istriano moderno e nel còrso. Esistono, sì, dialetti meridionali in cui l’au-
mento è presente in tutto il paradigma e in cui la sua presenza sembra corrispon-
dere tuttora in certi casi ad una distinzione semantica tra azione e stato (cfr.
Iannace 1983:86; Ledgeway 1995:225; Leone 1980:40), ma prevale dappertutto
una nuova distribuzione, conforme alla CPM2 ed indipendente da considerazioni
semantiche.
Molti (p. es., Rohlfs 1968:242; Bourciez 1956; Meyer-Lübke II:241; Tekavčić
1980: II, 258) hanno cercato di rendere conto della distribuzione dell’aumento da
un’ottica ‘fonologizzante’ e teleologica, facendo richiamo al cosiddetto ‘allinea-
mento dell’accento’. Limitandosi l’aumento alle forme che altrimenti sarebbero
rizotoniche, l’accento diventa postradicale, e quindi arizotonico, in tutto il paradig-
ma. Agli occhi di molti, questa nuova regolarizzazione dell’accento non è solo un
effetto del cambiamento ma ne sarebbe addirittura la motivazione. Questo è un
approccio che oltre ad avere il grosso difetto della circolarità, non riesce nemmeno
a rendere conto in modo soddisfacente della realtà distribuzionale dell’aumento.
Innanzitutto, la teoria dell’allineamento dell’accento non tiene assolutamente conto
del fatto che in tutte le lingue romanze la schiacciante maggioranza dei verbi conti-
nua ad avere l’accento mobile: finisce per creare, cioè, un’apparente irregolarità
accentuale all’insegna della regolarizzazione! Alberto Zamboni (1983) ha proposto
che l’aumento *-isk- / -esk- avrebbe un accento tonico inerente, e che quindi esso
non può apparire insieme a desinenze accentate, ma almeno da un’ottica diacronica
ciò non spiega come mai l’aumento sia venuto ad essere caratterizzato dall’accen-
to. Secondo Zamboni l’aumento -isk- avrebbe conservato una parte del suo signifi-
cato originale derivazionale, ma il fatto che -isk- possa avere mantenuto un valore
derivazionale non spiega nemmeno perché esso avrebbe dovuto portare l’accento.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 13

Rimane sempre una linea di spiegazione apparentemente fonologica. Esiste


una stretta correlazione positiva tra la CPM2 e la rizotonia (la presenza dell’ac-
cento sul radicale lessicale). Personalmente sarei incline a vedere anche nella
distribuzione dell’accento un fatto puramente morfologico sensibile ad un assetto
paradigmatico astratto che unisce le tre persone del singolare presente e la terza
persona plurale del presente, e le differenzia dal resto del paradigma. Ma qualcu-
no – per esempio Vogel (1993:224-26), la quale invoca ad esempio una curiosa
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regola di ‘cancellazione’ dell’aumento 7 davanti a sillaba accentata – ha voluto


vedere nella CPM2 un fenomeno in parte fonologico in quanto condizionato dalla
posizione dell’accento. Innanzitutto bisognerebbe obiettare che, a prescindere
dalle alternanze vocaliche che sono, o meglio erano diacronicamente, effetti fono-
logici dell’accento, gli altri fenomeni a CPM2 non corrispondono a nessun prin-
cipio fonologico naturale, e non trovano riscontro al di fuori del paradigma ver-
bale. E difatti sono quanto mai innaturali da un punto di vista fonologico, ma
rimangono irriducibilmente morfologici in quanto limitati al verbo! Quindi, anche
a voler far dipendere la CPM2 dall’accento, dovremmo sempre specificare la
distribuzione dell’accento radicale nel verbo – e rieccoci di nuovo di fronte alle
solite 1,2,3 singolari e 3 plurale del presente8. Inoltre sembra esserci una con-
traddizione fondamentale tra la distribuzione degli aumenti e l’ipotesi di alter-
nanze condizionate dall’accento. Nell’italoromanzo l’aumento e non il radicale
lessicale porta sempre l’accento tonico, e quindi la sua presenza ha come effetto
di distruggere lo stesso assetto accentuale che ne avrebbe condizionato la distri-
buzione. Diacronicamente, sembra poco probabile che l’aumento s’introduca
nelle forme rizotoniche se ne risulta appunto uno spostamento dell’accento. Anzi,
se la distribuzione dell’aumento dipendesse davvero dall’accento radicale, sareb-
be da aspettarsi esattamente il contrario di quello che in realtà osserviamo, vale a

7 La sopravvivenza di una forma derivata aggettivale ad infisso come appariscente mette


ancora di più in dubbio l’ipotesi di un processo fonologico.
8 Si noti che nel caso di un verbo il cui radicale esistesse anche come sostantivo o aggetti-
vo, sarebbe da aspettarsi che forme derivate da questi ultimi, in cui l’accento si spostasse su un
suffisso, subissero la stessa alternanza come nel verbo. Esempi adatti scarseggiano, ma mi sem-
bra poco probabile che nel siciliano sudorientale, per esempio, a ´runu ‘dono’ si alterni un dimi-
nutivo ra´ittu, come a ´runa ‘dà’ si alterna ´ramu, ecc.. L’ipotesi della dipendenza dall’accento
verrebbe confirmata anche nel caso di uno spostamento dell’accento dalla desinenza sul radica-
le, al quale si dovrebbe accompagnare la comparsa dell’alternante ‘tonica’. In realtà, non si tro-
vano esempi adatti nel dominio italoromanzo (un esempio ipotetico ne sarebbe > uscìte >
**èscite anziché **ùscite.), ma esistono varietà romanze (cfr. Maiden in preparazione), in cui la
creazione di nuove forme rizotoniche si verifica senza che s’introduca l’allomorfo ‘tonico’. Per
ultimo, se ci fosse uno stretto legame tra alternanza e accento, sarebbe da aspettarsi che nel
verbo avere usato come ausiliare e quindi, di solito, protonico, prevalesse la forma ‘atona’ (così
che in italiano si avrebbe ha un libro, avete un libro ma **ave fatto). Esistono dialetti (come pure
in romeno) in cui avere ha, sì, una forma ridotta in tutto il paradigma dell’ausiliare’, ma in cui
essa corrisponde alla forma tonica del verbo ausiliare: p. es. siciliano (Leone 1980:134s.) 1pl.
a´vjemu ´tjempu 3pl. ´anu ´tjempu di contro a 1pl. amu ´fattu, ecc.
14 MARTIN MAIDEN

dire aumenti limitati esclusivamente a quelle forme del paradigma in cui il radi-
cale, appunto, non porta l’accento.
C’è anche chi sostiene una linea che potremmo chiamare ‘semiotica’, propo-
sta ad esempio da Lausberg (1965:§801, 921): la regolarizzazione dell’accento
rende tutti i radicali arizotonici, ciò che ovvierebbe ad eventuali effetti allomorfi-
ci collegati all’accento: si stabilisce così un rapporto di biunivocità tra forma e
significato. Se è vero, come vuole Elwert (1943), che ciò può facilitare l’integra-
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zione dei neologismi nel sistema verbale, il fatto che l’infisso appare anche nei
verbi derivati da sostantivi o aggettivi è sempre contrario al principio di traspa-
renza. Nell’italromanzo l’accento cade quasi sempre ed esclusivamente sul radi-
cale del sostantivo e dell’aggettivo: aggiungendo un suffisso ai verbi derivati, il
radicale diviene però atono e quindi deve subire tutte le alternanze allomorfiche
collegate (come si crede) allo spostamento dell’accento. Vale a dire che la traspa-
renza del rapporto tra sostantivo/aggettivo e verbo viene offuscata. Così nel sopra-
silvano (cfr. Elwert 1943:144) si ha ta´mεi
ʃ ‘setaccio’ ma tame´ ea ‘(egli) setac-
cia’, laddove sarebbe stata più ‘trasparente’ una forma verbale **ta´mεi a. Visto
che nell’italoromanzo i verbi col radicale in [u], [i] ed [a] dimostrano un grado mini-
mo di allomorfia vocalica, sarebbe inoltre da aspettarsi che la presenza dell’aumen-
to si limitasse tendenzialmente ai verbi a vocale radicale media: ma l’italoromanzo
non sembra dimostrare neppur minimamente una tale tendenza. Aggiungerei che l’i-
potesi di Lausberg presuppone che i parlanti incontrerebbero difficoltà a produrre le
alternanze voacliche dipendenti dall’accento, cosa che sembra poco probabile se
teniamo conto della folla di verbi in cui tali alternanze si manifestano regolarissime.
E nel caso di alternanze lessicalizzate e non più dipendenti da processi fonologici,
perché i parlanti dovrebbero darsi la pena d’introdurre un aumento quando invece
potrebbero ricorrere al livellamento analogico (come infatti succede spessissimo –
si pensi all’estensione del dittongo in chiedere)? Ma l’approccio semiotico ha un
difetto ancora più grave: non spiega l’assenza dell’aumento nel resto del paradigma.
Difatti si raggiungerebbe il più alto grado di regolarità all’interno del paradigma,
sempre mantenendosi la trasparenza del radicale lessicale, se l’aumento si presen-
tasse in tutto il paradigma9. Se la tesi di Lausberg sembra in sostanza difettosa, va
sempre riconosciuto che secondo lo studioso tedesco la distribuzione dell’aumento
sarebbe stata in qualche modo un effetto delle differenziazione vocalica dovuta
all’accento. Ma io vorrei proporre che anziché essere una reazione contro gli effet-
ti antiiconici di questo cambiamento, la distribuzione dell’aumento ne sarebbe in
qualche modo una amplificazione.
Immaginiamoci in quale situazione sconcertante si sarebbero trovati quei par-
lanti nativi dell’antico romanzo davanti ad un elemento ereditato dalla struttura

9 Lo stesso dicasi di quei dialetti italiani meridionali che manifestano l’aumento dove altri-
menti si avrebbe accento proparossitono. Ciò non spiega come mai l’aumento sia diventato
esclusivamente accentato.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 15

morfologica verbale latina ma oramai privo di contenuto semantico proprio e dif-


ficilmente collegabile ad una classe morfosintattica: esso appariva nel presente,
nell’infinito, nell’imperfetto, nel participio presente, ma non nel preterito e nem-
meno nei continuatori del piucchepperfetto congiuntivo ed indicativo latino, né
nel participio passato. Per colmo, in alcuni verbi la presenza dell’aumento era
facoltativa. Da un’ottica panromanza, abbiamo a quanto sembra due ‘soluzioni’
prevalenti, ed in entrambe l’aumento viene analizzato come parte integrante del
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radicale: nell’iberoromanzo come nel sardo, esso si estende all’intero paradigma;


nell’italoromanzo (ed altrove) si conservano i due alternanti del radicale (p. es.,
finisk- a fianco a fin-), ridistribuendosi l’aumento secondo l’assetto l’astratto
creato dalla differenziazione accentuale. A questo viene a conformarsi anche l’au-
mento in -edz-: sebbene fosse all’origine presente in tutto il paradigma verbale,
sembra che il modello di -isk- abbia indotto anche l’aumento -edz- nelle relative
varietà romanze ad adottare la distribuzione che gli conosciamo. Va sottolineato,
inoltre, che i tentativi di spiegare la distribuzione degli aumenti in termini della
trasparenza morfologica perde di vista una generalizzazione più profonda e certo
non casuale, vale a dire che l’aumento ubbidisce allo stesso principio di distribu-
zione degli allomorfi suppletivi già visti.
Sono concepibili anche spiegazioni che cercano di rendere conto di tutti i casi
di CPM2 in termini di ‘marcatezza’ dell’insieme di categorie morfosintattiche
intersessate10. Giacché il plurale è più marcato del singolare, le prime e seconde
persone più marcate della terza, e i tempi non presenti più marcati del presente,
non ne conseguirebbe che la CPM2 distingue le forme non marcate da quelle mar-
cate? Ma si badi che non si tratta di una nozione di marcatezza binaria (marcato
vs. non marcato), ma di un tipo di marcatezza molteplice in cui s’intrecciano ben
tre parametri di marcatezza distinti: sotto quest’aspetto la CPM2 è quanto mai
arbitraria: perché non si dovrebbero distinguere presente e non presente, o con-
giuntivo e non congiuntivo, o singolare e plurale? Perché l’alternanza si dovreb-
be conformare proprio a questa combinazione delle categorie morfosintattiche, e
non a tante altre possibili ed anch’esse compatibili con nozioni di ‘marcatezza’?
L’idea che la CPM2 si sia sviluppata diacronicamente non come effetto diret-
to dell’accento, ma come generalizazzione di una distribuzione allomorfica
impressa al paradigma verbale dall’alternanza vocalica trova appoggio nella sto-
ria del sardo. Il sardo – o comunque le varietà logudoresi – si discosta da tutte le
altre lingue romanze in quanto non ha la minima traccia della CPM2. Ha, sì, la
solita alternanza tra rizotonia e arizotonia, ma manca della relativa differenzia-
zione vocalica, se facciamo astrazione di una variazione di apertura delle vocali
medie la quale era, almeno fino a non molto fa, del tutto automatica ed allofoni-

10 Sul possibile ruolo della marcatezza nella struttura paradigmatica dell’italiano, cfr.
Anche Matthews (1981:63).
16 MARTIN MAIDEN

ca11. Per la precisione, [e] ed [o] apparivano in posizione atona e anche, in voca-
le tonica, davanti a vocale metafonizzante, mentre [ε] ed [ɔ] apparivano in tutti gli
altri casi. L’assenza delle alternanze di CPM2 si manifesta persino in un verbo
come andare, forse mutuato all’italiano, in cui o si ha and- in tutto il paradigma,
o si hanno i due allomorfi and- e va(d)-, ma distribuiti secondo criteri esclusiva-
mente morfosintattici: così a Baunei (AIS 959) sg. ´vao vas ´vaðe pl. an´damus
an´dais ´andanta; mentre nel nuorese le fome in ba- si limiterebbero (facoltati-
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vamente) al solo imperativo. Stando a Wagner (1939:166), è possibile che l’anti-


co sardo abbia avuto vad- in tutto il presente. In quanto ad avere, nessuna traccia
dell’alternanza tra radicale a consonante finale e radicale a vocale finale, nota in
tutte le altre lingue romanze12

Tabella 13

Appena scendiamo nel campidanese troviamo però esempi di alternanze a


CPM2: così a Villacidro (AIS 973) ´bandu ´bandas ´bandaða an´daus an´dais
´bandanta13. Qua e là si ha anche il congiuntivo di ‘dire’ (< NARRARE) (Blasco
Ferrer 1984:231) ´nεri ´nεris ´nεridi na´reus na´reis ´nεrinu, con creazione ana-
logica di un’alternanza dovuta a quanto pare (cfr. Wagner 1939:169) all’influenza
dell’[ε] del congiuntivo di dare (ma si badi che in dare la vocale è di tutte le per-
sone). Ora, un tratto che differenzia le varietà campidanesi da quelle logudoresi è
appunto la natura fonemica (e quindi spesso imprevedibile) della distinzione tra
vocali medie chiuse e quelle aperte, dovuta soprattutto alla neutralizzazione stori-
ca dell’opposizione tra vocali atone metafonizzanti ([i] ed [u]) e vocali atone non
metafonizzanti medie ([e] ed [o]). Ciò avrebbe conferito una maggiore prominen-
za ed imprevedibilità all’alternanza tra vocali aperte e chiuse nel radicale del verbo

11 Esiste, sì, una tendenza facoltativa (Pittau 1972:118) alla chiusura in /i/ e /u/ delle voca-
li medie protoniche, ma non sembra essere molto antica.
12 Cfr. Wagner (1939:156-6).
13 Sulle possibili origini di quest’alternanza, si veda anche Jones (1993:238).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 17

(p. es. 3sg. ´βeniði < *βenit e ´pεrdiði < pεrdet si alternano a forme atone in
[βen] e [perd] entrambe con vocale chiusa).
Può ancora sorgere il dubbio che CPM2 abbia una motivazione funzionale
‘nascosta’, ma che siamo davanti ad una idiosincrazia strutturale unica delle lin-
gue romanze lo indica anche una mia rassegna preliminare (e certo da approfon-
dirsi) di altre lingue indoeuropee (slavo, celtico, greco, germanico, albanese,
indo-ariano, per non dimenticare il latino stesso) che nonostante la presenza delle
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stesse categorie morfosintattiche nel verbo (persona, tempo, numero), sembrano


ignorare distribuzioni paradigmatiche paragonabili a CPM2 (nonché a CPM1).

CONCLUSIONI

L’esistenza, e soprattutto la persistenza diacronica, di classi di partizione


morfomiche porta ad interessantissime riflessioni sul modo di apprendimento del
proprio sistema morfologico da parte dei parlanti, per le quali rinvierei all’ottimo
libro di Vito Pirrelli (2000). Mi trovo del tutto d’accordo con quanto dice a que-
sto proposito lo studioso italiano:

[...] la struttura paradigmatica di associazioni lessicali tra forme costi-


tui[rebbe] un dominio cognitivo autonomo. In altre parole, il parlante
sarebbe portato ad estendere sistematicamente l’alternanza radicale
variabile attestata in una certa cella ck ad un’altra cella cj, se e solo se
ck e cj appartengono alla stessa classe di partizione.
Generalizzazioni paradigmatiche di questa natura hanno il ruolo di
alleviare considerevolmente il peso della variabilità fonologica e
morfologica sul processo di apprendimento del sistema verbale di una
lingua, ponendo dei vincoli d’identità formale non locali. In linea con
questa ipotesi, le alternanze variabili, indipendentemente dalla loro
natura intrinseca, dovrebbero manifestare una fondamentale congruen-
za dal punto di vista della loro distribuzione nel paradigma, cioè
dovrebbero risultare sistematicamente associate alle stesse classi di
partizione. (Pirrelli 2000:61)

Aggiungerei che la stessa ricerca di ‘generalizzazioni paradigmatiche’ sem-


bra manifestarsi, diacronicamente, come resistenza ad eventuali cambiamenti ten-
denti a contraddire tali generalizazzioni, nonché come ‘rafforzamento’ formale
delle classi di partizione, attraverso l’astrazione ed estensione di tratti fonologici
caratteristici del morfoma. Questi fatti potrebbero essere interpretati come una
specie di ‘deriva antisemiotica’ (cfr. Pirrelli 2000:102), in quanto sembrano con-
trari al principio di biunivocità nel radicale lessicale tra contenuto e forma. Io però
sarei incline a vedere in essi fenomeni che hanno invece una motivazione profon-
18 MARTIN MAIDEN

damente semiotica14. In Maiden (1992;2000) interpreto casi di convergenza come


una specie di ‘livellamento analogico’, simile a quello tra contenuto lessicale e
forma che si ha nella storia di verbi come suonare, con questa straordinaria diffe-
renza che il ‘signatum’ sembra essere un’entità puramente morfologica – vale a
dire la classe di partizione stessa (per altri esempi di ‘signata’ autonomamente
morfologici, cfr. anche Carstairs-McCarthy 2001). Da quest’ottica, la convergen-
za, e il fenomeno dell’attrazione che è stato al centro di questa comunicazione,
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sembrano essere in netta contraddizione, giacché la prima tende a minimizzare la


variazione allomorfica, e la seconda ad aumentarla, attraendo a sé nuovi alternan-
ti eterogenei. In realtà credo che i due fenomeni, insieme con la coerenza, vada-
no concepiti come sottovarietà locali di un principio semiotico di biunivocità ine-
rente alla morfologia lessicale di tutte le lingue. Si tratta di quella che si potrebbe
chiamare una ‘teoria del segno all’italiana’ (o meglio ‘alla romanza’ giacché essa
caratterizza quasi tutte le lingue romanze, ma appunto solo queste), una specie di
‘distorsione’ ovvero ‘deformazione’ paradigmatica e localizzata del rapporto ‘nor-
male’ tra contenuto lessicale e forma (cfr. a questo proposito l’idea di una lingui-
stica ‘imperfezionista’ proposta da Aronoff 1999 nel trentunesimo congresso
SLI). Coerenza, convergenza ed attrazione sono strategie cui il parlante ricorre
quando impari che questo rapporto non è perfettamente isomorfico, facendo così
ripiego su una specie di ‘compromesso’15, che tende a garantire un specie di iso-
morfismo rendendo il più possibile prevedibili gli anisomorfismi. A questo pro-
posito i casi di attrazione di alternanti suppletivi hanno una caratteristica alta-
mente interessante. Mentre coerenza e convergenza mantengono e rafforzano
alternanti già esistenti, l’attrazione assegna alternanza a delle forme varianti e lo
fa come parte del processo stesso di creare un’unità lessicale. Così nel siciliano
sudorientale i due radicali sinonimi run- (<DON-) e ra- (<DA-) erano invarianti in
quanto a tempo, numero e persona, ma vengono distribuiti secondo la CPM2. Ciò

14 Così non condividerei del tutto il giudizio piuttosto negativo che, sul ruolo della biuni-
vocità, dà Pirrelli (2000:197):
[...] non sembra che l’associazione diretta tra unità di contenuto morfosintattico e
costituenti formali minimi che convogliano dette unità rappresenti una priorità dal
punto di vista cognitivo, nonostante la sua naturale rispondenza a criteri astratti di
funzionalità semiotica. La coniugazione dell’italiano non sembra essersi evoluta
diacronicamente, né appare strutturata sincronicamente, in modo tale da massimiz-
zare la corrispondenza tra unità minime di forma e contenuto al suo interno. Il ricor-
so a nozioni di corrispondenza biunivoca governata dal contesto morfologico non
cambia la sostanza del problema, ma anzi si espone all’obiezione di essere una stra-
tegia di ripiego puramente descrittiva, priva di qualsiasi valore esplicativo.
15 Siamo assai lontani dall’interpretazione che di fatti simili dà Wurzel (1987), in chiave di
‘Morfologia naturale’ in cui strutture morfologiche ‘dipendenti dal sistema’ starebbero in oppo-
sizione a fatti naturali ed universali come la biunivocità. Sembra infatti che per Wurtzel fatti
‘dipendenti dal sistema’ sarebbero favoriti dalla preponderanza numerica di un dato tipo morfo-
logico. Per una critica a quest’approccio, si veda Maiden (1996;1997).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 19

dimostra innanzitutto che gli eventuali valori morfosintattici che possono essere
associati agli alternanti sono secondari rispetto all’unità formale del lessema (cfr.
Pirrelli 2000:197): CPM2 è una specie di ‘modulo’ ossia ‘template’ (per usare il
termine inglese) che riconcilia la coesistenza di forme diverse alla loro integra-
zione in un lessema unico16.

Spero di essere riuscito, per lo meno, a dimostrare l’importanza da accorda-


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re, nello studio della storia morfologia paradigmatica italoromanza, e più gene-
ralmente romanza, a strutture autonomamente morfologiche in quanto sincroni-
camente indipendenti da condizionamenti sia fonologici che morfosintattici, ma
che si prestano diacronicamente ad una funzione altamente semiotica: quella di
garantire l’integrità formale del segno.

16 È interessante a questo proposito notare come, in alcuni dialetti italiani (d’altronde anche
nel romeno; per il siciliano cfr. Leone 1980: 135) CPM2 si presenti nel verbo lessicale avere,
mentre l’ausiliare corrispondente ha il radicale /a/ in tutto il paradigma. Ci si può chiedere se ciò
non rispecchi il fatto che CPM2 è una caratteristica dei verbi lessicali?
20 MARTIN MAIDEN

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GIANLUCA FRENGUELLI
(Università degli Studi di Roma Tre)

Tra narrazione e argomentazione: il gerundio nella prosa d’arte dei primi


secoli*
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1. IL GERUNDIO IN ITALIANO ANTICO

In italiano antico il gerundio assume diverse funzioni e si presenta con diver-


si aspetti in rapporto al livello di scrittura, alla testualità e, naturalmente, al perio-
do storico. Per tale motivo l’uso di questo modo verbale è senza dubbio un para-
metro da non trascurare nel fondare una tipologia sintattica e testuale dell’antica
prosa. Come è noto, per quanto riguarda l’uso del gerundio, esistono, tra le lingue
romanze (per es. tra italiano, francese e spagnolo) differenze funzionali, che
hanno anche una dimensione diacronica1. L’italiano antico mostra alcune diffe-
renze rispetto all’italiano moderno (gerundio con funzione di participio; gerundio
preposizionale, maggiore frequenza del gerundio assoluto, ecc.); al tempo stesso
mostra, all’interno delle sue varietà, differenze di carattere pragmatico: le tipolo-
gie testuali e gli scopi del testo ne condizionano l’uso. Innanzi tutto cerchiamo di
illustrare queste differenze.
Come si nota dalla tabella 1, il gerundio è frequente nella nostra prosa d’arte
fin dalle Origini: un testo come Parlamenti ed epistole di Guido Faba presenta un
rapporto gerundi/parole del 6,62‰.
Non è possibile definire, almeno con statistiche di questo tipo, uno sviluppo
in diacronia dell’uso del gerundio, uso che si presenta piuttosto altalenante: si va
da un minimo di 0,8‰ nel volgarizzamento della Metaura di Aristotele a un mas-
simo del 17,79‰ nel Decameron.
Il gerundio sembra raggiungere la sua massima diffusione nel XV secolo2,
per poi diminuire gradatamente: i costrutti gerundiali sono sempre più sostituiti

* La presente ricerca si è giovata del fondo ex 60%, relativo al programma “Archivio della
sintassi dell’italiano antico” (coordinatore: Maurizio Dardano, Università Roma Tre).
1 A tal proposito cfr. per il francese antico Ménard (19944: 169-72), per un confronto tra il
francese moderno e l’italiano Arcaini (2000: 249-54, 432); per lo spagnolo cfr. Fernànder
Lagunilla (1999); per un confronto con l’italiano Carrera Díaz (1997).
2 Da alcuni assaggi effettuati con la LIZ 4.0 (2000) in un corpus di testi del ’400 emerge
che il gerundio raggiunge una frequenza media (parole/gerundi) del 13,70‰, contro il 6,57‰
dei due secoli precedenti. La frequenza relativa va da un massimo del 23,04‰ dei Detti piace-
voli del Poliziano a un minimo del 5,52‰ nei Motti e facezie del Piovano Arlotto. Tuttavia, a
parte il caso di quest’ultima opera e dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti (con
24 GIANLUCA FRENGUELLI

Tabella 1
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da costrutti espliciti (Tesi 2001: 143 e 236); l’esigenza di chiarezza perseguìta dalla
prosa umanistica e il confronto con il latino classico provocano una razionalizzazione
dei rapporti tra proposizione principale e subordinata (Dardano 1963 / 1992: 324) che
portano alla rarefazione di forme quali il gerundio e il participio
Nella nostra prima prosa il gerundio si sviluppa seguendo vie in parte diverse:
in Guido Faba, ad esempio, ricorre il gerundio assoluto, espresso nella quasi totalità
dei casi con il verbo essere e spesso posto a fianco di un gerundio con soggetto.

il 6,16‰), in tutti i testi la frequenza del gerundio non è mai inferiore all’11‰. I restanti testi
del corpus, con le relative frequenze sono: Giovanni Gherardi, Il Paradiso degli Alberti
(18,92‰), Lorenzo De’ Medici, Comento de’ miei sonetti (13,07‰), Id., Novelle (17,04‰),
Iacopo Sannazaro, Arcadia (15,33‰), Gerolamo Savonarola, Trattato circa il reggimento e
governo della città di Firenze (11,31‰), Leonardo Da Vinci, Scritti letterari (12,92‰).
3 La percentuale di incidenza del gerundio è ottenuta mettendo in relazione il numero dei
gerundi presenti nel testo con il numero delle parole. Sono consciente del fatto che, data la diver-
sità delle opere considerate, analisi del genere rischiano talvolta di fornire dati poco utili (se non
si tiene conto al tempo stesso dell’estensione dei periodi): tuttavia in questa occasione m’inte-
ressava soltanto avere un’indicazione di riferimento per capire quanto il gerundio sia usato in
una data opera. Si vedano a tal proposito le perplessità espresse da Policarpi/Rombi (1998: 339-
340) su questo tipo di analisi statistiche.
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 25

(1) Unde noi te mandamo x libre a removere la tua indigentia, consi-


gliando te che tu altro modo supra lo to facto deipe [= debba] provi-
dere, sipando [= essendo] che contra conscientia no volemo espen-
dere lo patrimonio dei Iesu Cristo (Faba Parlamenti, II p. 9-10);
(2) A vui, sì como ad altro meo deo in terra in lo quale è onne mia
fidança, seguramente recurro in le mie necessitade, sperando ch’eo
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no podrave essere offeso u gravado da alcuno omo u persona, scì


che la vostra potentia defensando (Faba Gemma, 20, p. 7).

Nella prima delle Lettere di Guittone (a Gianni Bentivegna) ricorrono ben 31


gerundi. Per quanto riguarda la loro disposizione, si nota la tendenza a collocare
il gerundio nella parte finale del periodo, in modo da ricavarne effetti ritmici. Il
condizionamento ritmico nella prosa d’arte è, come si vedrà a proposito del
Boccaccio, uno dei fattori che regolano l’uso del gerundio. Per tale motivo in
Guittone sono numerosi i fenomeni di cumulo e soprattutto le coppie di gerundi.
Eccone una serie di quattro:

(3) Ché Dio fece la bestia chinata inver’ la terra, e gli occhi e la bocca
tenendo [= ‘che tiene’] in essa sempre, e solo d’essa conoscere l’a-
maiestrò, mostrando che sopra d’essa no ha che fare; ma l’omo fece
ritto, la testa, la bocca, li occhi, tenendo al Cielo [c.s.], dandoli inten-
dimento che la sua eredità era lassù (Guittone, Lettere, p. 8).

Si noti qui che i due gerundi tenendo hanno la funzione del “participio con-
giunto” latino 4. Tale funzione, non più presente in italiano, si ritrova invece con
qualche differenza nello spagnolo moderno 5. Invece mostrando e dandoli hanno
lo stesso soggetto della principale Dio.
Bisogna inoltre tener conto del fatto che in Guittone il gerundio trova un con-
corrente, seppur limitato (5 occorrenze) nel costrutto “in + infinito”: cfr. nel testo
ora citato: in iscampare e agiare le povere suoie ricchezze (p. 6).
Rispetto a Guittone, Brunetto usa meno frequentemente il gerundio e non con
fini retorici, ma, per così dire, “di servizio”, ovverosia per costruire sequenze
esplicative di semplice fattura:

4 Cfr. Ernout-Thomas (19532, 274-75 e 282-83). Per l’uso del gerundio in funzione parti-
cipiale nell’italiano antico cfr. Skerlj (1926: 35-42).
5 Nello spagnolo il gerundio assume tale valore in più casi: 1) frasi composte in cui il sog-
getto del verbo reggente e quello del gerundio sono diversi: Oigo a Pedro subiendo las escale-
ras ‘sento Pietro che sale le scale’ con verbi di percezione, di ritrovamento (encontrar, coger,
ecc.) e di rappresentazione (pintar, dibujar); 2) frasi in cui, a prescindere dal significato e dalle
caratteristiche del verbo reggente, il g. funziona praticamente come un aggettivo: Ha pasado por
aquí un niño llorando? ‘che piangeva’; 3) gerundio con valore specificativo (non accettato nello
26 GIANLUCA FRENGUELLI

(4) Onde Tulio purgando questi tre gravi articoli procede in questo
modo: che in prima dice che sovente e molto àe pensato che effet-
to proviene d’eloquenzia (Brunetto Rettorica, I XIV, p. 8);
(5) Nella quarta parte sì mette le pruove sopra questi tre articoli che
sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recan-
do a cciò molti argomenti, li quali muovono d’onesto e d’utile e
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possibile e necessario (Brunetto Rettorica, I XIV, p. 9) 6.

Anche le coppie di gerundi hanno questo carattere:

(6) Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di
colui che lla mette in opera, l’uno insegnando l’altro dicendo.
(Brunetto Rettorica, I VII, p. 6) 7.

Invece Bono Giamboni anticipa, in un certo senso, quei fenomeni di cumulo,


presenti soprattutto in posizione incipitaria, che diverranno frequenti nel Decameron:

(7) Considerando a una stagione lo stato mio, e la mia ventura fra me


medesimo esaminando, veggendomi subitamente caduto di buon
luogo in malvagio stato, seguitando il lamento che fece Iobo nelle
sue tribulazioni, cominciai a maladire l’ora e ’l dì ch’io nacqui e
venni in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m’avea
nutricato e conservato. (Giamboni Vizî, I 6-7, p. 3).

Nel Milione di Marco Polo ricorrono con una certa frequenza i gerundi pre-
dicativi e le perifrasi aspettuali con il gerundio del tipo “andare + gerundio”8, di
cui ritroviamo 27 casi su 136 gerundi totali (8), e il gerundio coordinativo9 (9) che
ricorre in 26 casi:

(8) Alotta lo Signore fece fare carte bollate come li due frategli e ’l suo
barone potessero venire per questo viaggio, e impuosegli l’amba-

scritto) Ley prohibiendo fumar ‘legge che proibisce di fumare’ Carrera Díaz (1997: 538-49).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 27

sciata che volea che dicessero, tra le quali mandava dicendo al


papa che gli mandasse C uomini savi e che sapessero tutte le VII
arti (Milione, VII 6, p. 10);
(9) regni di quelle grandissime parti, ebbe udito de’ fatti de’ latini dagli
due frategli, molto gli piacque, e disse fra se stesso di volere man-
dare mesaggi a messer lo papa. E chiamò gli due frategli, pregan-
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doli che dovessero fornire questa ambasciata a messer lo papa.


(Milione, VII 2, p. 10).

Spesso all’interno della produzione di un autore, l’uso del gerundio varia,


anche notevolmente, nelle diverse opere a seconda del tipo di testo (narrativo,
argomentativo, espositivo ecc.). Le scelte pragmatico-testuali condizionano le
scelte sintattiche. Per quanto riguarda Dante, l’uso libero e il cumulo dei gerundi
presente nelle Rime e nella Vita Nova non si ritrova nel Convivio (v. infra e Segre
1963: 240). Qui di seguito vedremo meglio gli aspetti del fenomeno.
Occorre notare che in italiano antico il gerundio si presta a esprimere diverse
funzioni sintattiche, non sempre chiaramente distinguibili le une dalle altre, ma
spesso convergenti nel perseguire lo sviluppo narrativo e la progressione dei temi.
Per questo motivo il gerundio sembra essere preferito soprattutto nei testi narrati-
vi e nelle sequenze narrative (sia autonome sia inserite in contesti più ampi). Ciò
appare evidente se si osservano le modalità d’uso e la frequenza di un tipo parti-
colare di gerundio: quello causale. Infatti, soprattutto in italiano antico, l’espres-
sione della causalità appare fondamentale in vari tipi testuali. Nelle narrazioni la
causalità dà spesso l’avvio a una vicenda; nei testi argomentativi costituisce la
struttura portante del ragionamento, che si attua sovente mediante schemi sillogi-
stici. Attraverso uno spoglio selettivo di testi in prosa dei secoli XIII e XIV, cer-
cherò di mettere in luce le differenze di uso del gerundio causale tra testi narrati-
vi e testi argomentativi e di mostrare come il modo verbale qui considerato sia
peculiare della prosa narrativa. Infatti il gerundio ha, per così dire, una “specia-
lizzazione narrativa”. L’analisi si svolgerà a partire dagli usi presenti nel
Decameron, opera centrale della mia ricerca.
Tornando all’indefinitezza sintattica del gerundio, va notato che le ricerche
sviluppatesi negli ultimi decenni non hanno fornito, su tale problema, significati-
vi progressi. Mentre studi “classici” (ovvio il riferimento a Skerlj 1926)10 offrono
ancora validi punti di riferimento, minore efficacia sembrano avere avuto talune
proposte formulate a proposito dell’italiano moderno (per es., la distinzione tra
gerundio predicativo e gerundio frasale; cfr. Lonzi 1991). Per tale motivo, piutto-
sto che cercare di attribuire al gerundio un valore invece di un altro, appare oppor-

6 Cfr. anche: «e dicendo “nostro comune” intende Roma» (Brunetto Rettorica, I XV, p. 10);
«Manifestamente abbassa ’l male e difende rettorica, dicendo che…» (Brunetto Rettorica, I XV,
28 GIANLUCA FRENGUELLI

tuno, in molti casi, parlare di “predominanza” di un valore rispetto all’altro


(Antonini 1974-75) o di “condivisione di relazioni” (Frenguelli 2001 e 2002).
In italiano antico il gerundio presenta spesso la condivisione del valore cau-
sale e del valore temporale. Ciò accade perché i due valori sono strettamente con-
nessi tra loro; il succedersi della causa e dell’effetto presuppone sempre una suc-
cessione temporale. Così, mentre nelle causali esplicite i connettivi specializzati
il più delle volte pongono in primo piano l’uno o l’altro valore, il gerundio ne per-
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mette la compresenza. Si tratta di una caratteristica peculiare del gerundio e delle


forme indefinite dei verbi11 usata dagli autori anche per favorire la progressione
narrativa. Tuttavia la compresenza dei due valori era possibile, già in latino, nelle
proposizioni costruite con il participio e in quelle introdotte da cum e postquam e
in italiano antico con poi che 12.

2. IL GERUNDIO NEL DECAMERON

Per le sue caratteristiche la gerundiva causale e causale-temporale appaiono


adatte a rendere un ampio sviluppo della narrazione, dal momento che esse svol-
gono la duplice funzione di marcare la successione degli eventi e di segnalare la
presenza di un’implicazione tra due fatti. In effetti la gerundiva causale e causa-
le-temporale rappresentano due dei tipi di gerundio più frequentemente usati nel
Decameron: opera in cui il numero elevato di causali espresse al gerundio si addi-
ce perfettamente a una modulazione ritmica del periodo, prossima alle cadenze
della prosa latina.
Nel Decameron l’uso del gerundio assume infatti aspetti particolari (quantità,
varietà di configurazioni e di usi, fenomeni di cumulo). Nel Filocolo invece tro-
viamo modalità d’uso più semplici e contesti più lineari: l’apprendista scrittore
sperimenta gli strumenti di una “macchina sintattica”, che perfezionerà in seguito.
L’assoluta preminenza che il gerundio causale ha all’interno del Decameron
è resa più significativa dal frequente ricorrere delle successioni serrate e dei feno-
meni di cumulo:

p. 11).
7 Cfr. anche «la difende abassando e menimando la malizia» (Brunetto Rettorica, X, XV, p.14).
8 Serianni (1988: 336) parla di perifrasi formate con verbi fraseologici, ausiliari di tempo o
aspettuali; Brianti (1992 e 2000) fornisce tra l’altro una cronologia del fenomeno. Su questo
argomento cfr. anche Giacalone Ramat (1995). Questo tipo di perifrasi è espresso, in italiano
antico e, in particolare, nel nostro corpus, con un numero limitato di verbi: andare (65,1%),
venire (18,6%) e mandare (11,7%); altri verbi rientrano in esempi occasionali e hanno una fre-
quenza irrilevante (tutti insieme raggiungono il 4,6%).
9 Sul quale cfr. Serianni (1988: 408-9).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 29

Tabella 2
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Come risulta dalla tabella (2), nonostante prevalgano i gerundi singoli, in


quasi il 40% dei casi il gerundio appare in serie doppie, triple, come in (10), in cui
si succedono tre gerundi, con diversi valori:

(10) Per che, usando molto insieme il vescovo e ’l maliscalco, avven-


ne che il dí di San Giovanni, cavalcando l’uno allato all’altro veg-
gendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una
giovane […] il cui nome fu monna Nonna de’ Pulci (Dec, VI III 8,
p. 728).

Di questi tre gerundi soltanto il primo è causale: gli altri due hanno, almeno
apparentemente, valore temporale. In realtà in veggendo si avverte con chiarezza
anche un significato causale, che tuttavia non è prevalente: se il vescovo e ’l mali-
scalco non avessero guardato le donne, non avrebbero certo notato monna Nonna.
Abbiamo qui quella condivisione di valori di cui abbiamo parlato poco fa. Tali valo-
ri sfumati che il gerundio assume, sono comunque funzionali allo sviluppo della
narrazione. Infatti, se in questo passo l’autore avesse voluto mettere in rilievo il rap-
porto di causa-effetto avrebbe fatto ricorso a una proposizione esplicita. Se non l’ha
fatto, vuol dire che era più interessato al ritmo del periodo e allo sviluppo tematico.
Il Boccaccio arriva ad accumulare fino a undici gerundi, come in (11), dove
la lunga serie è composta da quattro gerundi causali (si noti che causale è anche
il participio rimaso), due gerundi modali e, nella seconda parte del periodo (lega-
ta alla prima da un’avversativa), altri due gerundi causali (il secondo dei quali
incassato in una causale esplicita), un gerundio modale, un gerundio concessivo
e, a conclusione, un altro gerundio causale.

(11) Rinaldo, rimaso in camiscia e scalzo, essendo il freddo grande e


nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo già
sopravenuta la notte, tremando e battendo i denti, cominciò a
riguardare se da torno alcuno ricetto si vedesse dove la notte
potesse stare, che non si morisse di freddo; ma niun veggendone,
per ciò che poco davanti essendo stata guerra nella contrada v’era
ogni cosa arsa, sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò verso
30 GIANLUCA FRENGUELLI

Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò che il suo fante là o


altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrar vi potesse,
qualche soccorso gli manderebbe Idio (Dec, II II 15, p. 145).

La serie di gerundi è qui funzionale alla progressione narrativa. I primi quat-


tro gerundi coordinati, insieme al participio rimaso, servono a specificare le circo-
stanze, le “concause”, che accompagnano lo svolgersi dell’azione. Per sottolinea-
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re la situazione disperata del mercante, l’autore mette in rilievo una serie di cause,
che insieme alle successive, tutte espresse al gerundio, contribuiscono al progre-
dire dell’azione. Si tratta di una progressione narrativa “globale”: cioè tutte le cau-
sali del periodo spingono la narrazione verso un’unica azione: l’arrivo del prota-
gonista a Castel Guiglielmo. Una serie di circostanze (l’essere rimasto in camicia,
il freddo, la neve, il non saper che fare, la notte che sopravviene) fa sì che Rinaldo
si guardi intorno cercando riparo per la notte. Altre due circostanze, marginali
rispetto alle precedenti (il fatto che non ci sia riparo, a causa della distruzione por-
tata dalla guerra, e il fatto che qualche soccorso si poteva trovare nel castello),
inducono Rinaldo a dirigersi al castello, luogo della risoluzione della novella. Ho
provato a rappresentare la situazione descritta con il seguente schema:

Tabella 3
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 31

Si noti la che le due causali per ciò che v’era ogni cosa arsa e poco davan-
ti essendo stata guerra nella contrada, presentano, nell’ambito della progressio-
ne narrativa, una funzione diversa rispetto alle altre: introducono infatti una cir-
costanza accessoria, secondaria rispetto allo svolgimento. In questo caso si po-
trebbe parlare di una differenza tra valore causale “di primo piano” e valore cau-
sale “di sfondo”. Il primo tipo di causale interessa fatti necessari allo svolgi-
mento dell’azione, il secondo tipo riguarda invece fatti marginali, circostanze
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secondarie.
Abbiamo detto che questo modo di esprimere la causalità ha lo scopo di far
progredire la narrazione, assecondando, al tempo stesso, il ritmo interno del
periodo, un fine ricercato con costanza dal Boccaccio13. La duplice funzione vol-
ta dalla gerundiva di marcare la successione temporale e di segnalare la presen-
za di un’implicazione tra ciò che è espresso dal gerundio e ciò che è espresso
nella sovraordinata appare lo strumento ideale per rendere lo sviluppo della nar-
razione.
La progressione narrativa è ottenuta in tre modi diversi, dal più semplice al
più complesso, abbiamo: 1) progressione lineare con stesso soggetto, 2) progres-
sione lineare con cambio di soggetto, 3) progressione “a catena”.
La progressione lineare con stesso soggetto è la modalità più semplice: una
lunga serie di gerundi con lo stesso soggetto appunto, introduce le circostanze che
promuovono un determinato svolgimento dell’azione. Segue la principale, espres-
sa di solito (e significativamente) con un verbo di moto (13). Anche qui i quattro
gerundi sono “paralleli”: sono tutti posti sullo stesso piano sintattico e nella stes-
sa prospettiva. A rendere lineare il passo contribuisce la presenza del soggetto in
prima posizione:

(12) Arrighetto, avendo il governo dell’isola nelle mani, sentendo che


il re Carlo primo avea a Benevento vinto e ucciso Manfredi, e tutto
il regno a lui si rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede de’-
ciciliani e non volendo suddito divenire del nimico del suo signo-
re, di fuggire s’apparecchiava (Dec, II VI 6, p. 202).

Il secondo tipo di progressione è quello con cambio di soggetto (13), dove i


quattro gerundi (temporale il primo, causali gli altri tre) presentano diversi attan-
ti: nei primi tre il soggetto sono le monache, nel quarto Masetto. Tale alternanza
genera un cambio di prospettiva nella narrazione pur lasciando inalterato il ritmo.
La successione dei gerundi, oltre a esprimere rapporti logici fondamentali allo

10 Al quale si aggiungono i più recenti Brambilla Ageno 1978 e, per il gerundio composto,
Menoni 1982.
32 GIANLUCA FRENGUELLI

svolgimento della vicenda, contribuisce a creare una narrazione ritmicamente


uniforme, che potrebbe con difficoltà realizzarsi mediante l’uso di connettivi espli-
citi (dei fattori ritmici che condizionano l’uso del gerundio si è già parlato nel § 1):

(13) Ultimamente della sua camera alla stanzia di lui rimandatolone e


molto spesso rivolendolo e oltre a ciò più che parte volendo da lui,
non potendo Masetto sodisfare a tante, s’avisò che il suo esser
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mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare


(Dec, III I 36, p. 335).

Nel terzo tipo di progressione, che chiameremo “a catena”, il fenomeno del


cambio di soggetto si ripete più volte e assume un valore particolare quanto più il
periodo stesso si estende. In (14), ognuno dei tre gerundi causali presenta un sog-
getto diverso: avendo mandati è riferito a Bonifazio papa; essendo è riferito a essi
nobili ambasciadori; trattando è riferito a messer Geri Spina:

(14) Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer
Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi
nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in
casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del
Papa trattando, AVVENNE CHE, che se ne fosse cagione, messer
Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mat-
tina davanti a Santa Maria Ughi passavano (Dec, VI II 8, p. 721).

La “progressione a catena” del discorso narrativo consiste nel fatto che cia-
scuna gerundiva contiene al suo interno quello che sarà il soggetto della gerundi-
va seguente come in una catena, nella quale ogni anello è legato al precedente: gli
ambasciadori, oggetto della prima, diventa il soggetto della seconda: messer
Geri, complemento della seconda diventa soggetto della terza. I tre gerundi
(avendo mandati, essendo, trattando) sono al centro di tre eventi successivi e fra
loro connessi: sono tre momenti di un’unica sequenza temporale. Il risultato è un
periodo più ampio rispetto al precedente (13); le tre subordinate gerundiali
appaiono isolate rispetto alla coppia principale-completiva, tanto da richiedere
l’uso di una formula narrativa “marcata” di ripresa: in questo caso avvenne che.
Il gerundio presenta anche un’altra fondamentale funzione narrativa: quella di
introdurre semanticamente le cause e le circostanze che danno il via all’azione.
A tal fine il Boccaccio avvia spesso il periodo con due gerundi. Si tratta di
una formula ricorrente in tutta l’opera. I due verbi presentano nella maggior parte
dei casi valore temporale e causale, come in (15), dove il primo gerundio è tem-
porale, il secondo causale:

(15) E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata,


avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per pic-
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 33

col pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli,


passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi
starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» (Dec, II V 4,
p. 178).

Le configurazioni possibili sono diverse: dal punto di vista del tempo e del
modo verbale possiamo avere due gerundi presenti, come nell’esempio appena
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visto; oppure due gerundi, il primo dei quali passato il secondo presente, come
accade per avendo fornite e tornandosi (16).
In questi casi il passato esprime l’avvenimento accaduto nel punto più lonta-
no della linea temporale, mentre il gerundio presente indica che il tempo è simul-
taneo a quello della narrazione:

(16) Era adunque, al tempo del marchese Azzo da Ferrara, un merca-


tante chiamato Rinaldo d’Asti per sue bisogne venuto a Bologna;
le quali avendo fornite e a casa tornandosi, avvenne che, uscito di
Ferrara e cavalcando verso Verona, s’abbatté in alcuni li quali
mercatanti parevano, e erano masnadieri e uomini di malvagia vita
e condizione, con li quali ragionando incautamente s’accompagnò
(Dec, II II 5, p. 142).

È invece molto meno frequente la successione gerundio presente – gerundio


passato, che vediamo in (17); probabilmente per il fatto che non segue la natura-
le disposizione degli eventi lungo l’asse temporale:

(17) E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo
disposto, [Marato] alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si
guardava, sconosciutamente se n’andò con alcuni suoi fidatissimi
compagni li quali a quello che fare intendeva richesti aveva, e
nella casa, secondo l’ordine tra lor posto, si nascose (Dec, II VII
34, p. 234).

Poco frequente è anche la successione di due gerundi passati:

(18) Alla fine, forse dopo tre o quatro anni appresso la partita fatta da
messer Guasparrino, essendo [Giannotto] bel giovane e grande
della persona divenuto e avendo sentito il padre di lui, il quale
morto credeva che fosse, essere ancora vivo ma in prigione e in cap-
tività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato vaga-
bundo andando, pervenne in Lunigiana (Dec, II VI 33, p. 209).

A volte, invece dei due gerundi, ritroviamo a inizio di frase un participio e un


gerundio. In questo caso il participio ha valore prevalentemente temporale (19):
34 GIANLUCA FRENGUELLI

(19) Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo era, e
conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di
Bernabuccio e fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo
commesso da lui mansuetamente passare; (Dec, V v 37, p. 647)

Dal punto di vista del valore sintattico, la successione gerundio temporale –


gerundio causale (15) è come abbiamo detto, la più frequente. Tuttavia il primo
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elemento della coppia può avere a volte un valore temporale-causale:

(20) Costoro [i masnadieri], veggendol [Rinaldo d’Asti] mercatante e


estimando lui dovere portar denari, seco diliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo (Dec, II II 5, p. 142).

Questo particolare uso incipitario del gerundio risponde probabilmente all’e-


sigenza di iniziare una sequenza narrativa, mettendo subito in evidenza le coordi-
nate temporali e le cause che avviano l’evento narrato.
La successione temporale e la progressione narrativa avvengono di preferen-
za mediante una coppia di verba sentiendi. I verbi di percezione si trovano infat-
ti in posizione incipitaria nel 63% dei casi. Di questi, nel 75% dei casi è presente
udendo. Dal punto di vista sintattico, mentre in prima posizione troviamo per lo
più gerundi con valore temporale o temporale-causale, in seconda posizione si
trovano per lo più gerundi causali, tuttavia non sono infrequenti quelli causali-
temporali.
È degno di nota il fatto che tali coppie di gerundi ricorrano per lo più con for-
mule fisse, attraverso la selezione di un numero ridotto di verbi e di combinazio-
ni. Il che ci fa comprendere quanto, anche in un autore come il Boccaccio, lo stile
formulare abbia un notevole rilievo. Le formule più diffuse sono indicate nella
seguente tabella:

Tabella 4

Il gerundio è quindi il modo preferito dal Boccaccio per portare avanti la nar-
razione: da un lato la successione dei verbi al gerundio comporta una linearità e
un’omogeneità nel ritmo del discorso, dall’altro, mediante la varia combinazione
dei vari elementi della proposizione gerundiva, usata anche in abbinamento con il
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 35

cursus e la prosa rimata, il nostro autore fa sì che tale ritmo sia sempre diverso a
seconda delle situazioni.

3. STRUTTURE NARRATIVE E STRUTTURE ARGOMENTATIVE

Veniamo al secondo punto della nostra ricerca: nelle strutture argomentative


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l’uso del gerundio appare ridotto, mentre sono frequenti le causali esplicite. Ciò
vale nella duplice dimensione macrotestuale e microtestuale. Cominciamo dalla
prima. Nella tabella comparativa (15), nella quale abbiamo indicato le percentua-
li delle causali espresse col gerundio rispetto al totale delle causali. Risulta chia-
ramente che il Decameron è l’opera in cui si fa un uso frequente del gerundio cau-
sale e causale-temporale:

Tabella 5

Al polo opposto della frequenza troviamo un esempio di prosa scientifica: il


trattato-volgarizzamento della Metaura, in cui tale percentuale scende al di sotto
dell’1%. Per fissare un termine di confronto si osserverà che nel Convivio, tratta-
to dalla struttura sintattica complessa, i gerundi causali superano di poco il 6%.
36 GIANLUCA FRENGUELLI

Come si potrà notare, ad eccezione del Milione, tutte le opere narrative si tro-
vano nella parte alta della tabella: presentano infatti le maggiori percentuali di uso
del gerundio causale, rispetto alle più basse frequenze delle opere argomentative
(dal Fiore di rettorica alla Metaura).

Tabella 6
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Dalla tabella 6 risulta che, nell’ambito dell’uso complessivo del gerundio, il


valore causale riguarda in primo luogo i testi narrativi: si va dal 36,89% del Libro
de’ vizi e delle virtudi al 4,17% della Metaura.
Passiamo dalla considerazione generale del testo all’analisi di singole sequen-
ze testuali. Se quanto abbiamo detto finora è valido, i pochi esempi di gerundio
presenti nei testi della parte bassa della tabella dovrebbero trovarsi per la maggior
parte in microstrutture narrative. Ciò è vero innanzi tutto per il Convivio.
L’argomentazione, di tipo scolastico, di questo trattato privilegia la chia-
rezza espositiva e pertanto non rappresenta un ambiente ideale per la prolifera-
zione del gerundio, il cui significato «non è reso evidente da nessun segno par-
ticolare e risulta unicamente dal contesto» (Brambilla Ageno 1978: 296). In
effetti Dante fa un uso pressoché costante di nessi causali espliciti: ché, però
che, con ciò sia cosa che, ecc.
Dei 441 casi di gerundio presenti nel Convivio, per la maggior parte aventi
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 37

valore temporale e modale, solo 49 hanno un valore causale. Questi gerundi cau-
sali, presenti quasi esclusivamente in strutture narrative caratterizzate dall’uso di
tempi storici, hanno il valore di “Motivo di Fare”, che ricorre particolarmente
nelle strutture narrative. La sequenza in cui compare il gerudio può essere di tipo
prettamente storico-narrativo, come in (21) e (22); nel secondo passo il gerundio
è ripetuto tre volte:
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(21) combattendo [Ercule] collo gigante che si chiamava Anteo, tutte


[le] volte che lo gigante era stanco [ed] elli ponea lo suo corpo
sovra la terra disteso o per sua volontà o per forza d’Ercule, forza
e vigore interamente della terra in lui risurgea, nella quale e della
quale era esso generato. Di che acorgendosi Ercule, alla fine prese
lui; e stringendo quello e levatolo dalla terra, tanto lo tenne sanza
lasciarlo alla terra ricongiugnere, che lo vinse per soperchio e
uccise (Cv, III III 8, p. 164);
(22) lo suo obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e
soperchia. Per che li filosofi eccellentissimi nelli loro atti aperta-
mente lo ne dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l’altre cose,
fuori che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito,
della propia persona non curando, né barba né capelli né unghie si
tollea; Platone, delli beni temporali non curando, la reale dignita-
de mise a non calere, ché figlio di re fue; Aristotile, d’altro amico
non curando, contra lo suo migliore amico – fuori di quella – com-
batteo, sì come contra lo nomato Platone (Cv, III XIV 8, p. 238).

La sequenza può esporre, con modalità narrativa, il procedere di un ragiona-


mento (23). Anche in questo caso non si può parlare propriamente di struttura
ragionativa, perché il passo narra i presupposti, l’origine e l’articolarsi del pen-
siero dell’autore: le causali rientrano tutte nell’ambito del “Motivo di Fare”, non
in quello del “Motivo di Dire”, che è proprio del ragionamento14:

(23) Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia dell’amico fa


l’uomo sollicito a lunga provedenza. Onde, pensando che lo desi-
derio d’intendere queste canzoni [a] alcuno illitterato averebbe
fatto lo comento latino transmutare in volgare, e temendo che ‘l
volgare non fosse stato posto per alcuno che l’avesse laido fatto
parere, come fece quelli che transmutò lo latino dell’Etica – ciò
fue Taddeo ipocratista –, providi a ponere lui, fidandomi di me più

11 Tali forme verbali, chiamate anche “converbi” (per una definizione del termine cfr.
Haspelmath 1995: 3), hanno come caratteristica principale proprio l’indefinitezza. A tal propo-
38 GIANLUCA FRENGUELLI

sito König (1995: 58) nota come «the interpretation of a converb in a specific utterance is the
result of an interaction between a basic vague meaning of the converb and a wide variety of syn-
tactic, semantic and contextual factors». Uno dei punti principali del dibattito sui “converbi”
riguarda il quesito se essi esprimano “vaghezza” oppure “polisemia” (König 1995: 59-67).
12 Secondo Rohlfs (1969: 180-181) poi che deriva dal latino tardo post quod, che in origi-
ne aveva il valore di postquam. Sugli usi causali e temporali nel latino cfr. Ernout/Thomas
(19532: 350, 361-62). Originariamente in latino postquam aveva valore comparativo: «Les pro-
positions introduites par antequam, priusquam, postquam […] sont, pour la structure, des com-
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paratives; mais elles ne peuvent pas être séparées des temporelles ou des conditionnelles dont
elles font partie pour le sens» (Ernout/Thomas 19532: 354).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 39

13 In altri testi, ad esempio la Cronica di Dino Compagni, il gerundio ha invece funzione


opposta: contribuisce, insieme al participio, alla segmentazione del periodo. Si veda il caso di
Cronica, III, XXIII, pp. 167-8, dove ricorrono un gerundio e quattro participi passati. Sono grato
a Maurizio Dardano per avermi segnalato il passo.
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40 GIANLUCA FRENGUELLI

14 Sulle causali di “Motivo di dire” e “Motivo di fare” cfr. Previtera (1996) e Frenguelli
(2001 e 2002).
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41 GIANLUCA FRENGUELLI

che d’un altro (Cv, I X 19, p. 43).

Anche negli altri testi del corpus la situazione è simile. Solo in rari casi il
gerundio introduce progressioni argomentative. In (24), dove l’emittente cerca di
convincere il destinatario del messaggio a prestargli il proprio cavallo, la gerun-
diva introduce l’argomento che dovrebbe spingere l’interlocutore a compiere il
gesto:
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(24) ve faço conto che abesono multo del vostro pallafreno, lo quale
me vogliati prestare e mandare in presenti, saipando ch’el me
convene andare all’emperiale corona in servisio de la nostra terra
(Faba Parlamenti, XXVII, p. 17).

In (25) il gerundio esprime la motivazione per la quale il protagonista dovreb-


be essere allegro dopo aver perduto ricchezze e gloria:

(25) se tu hai perdute le ricchezze e la gloria del mondo, non te ne


dovresti crucciare, ma esserne allegro, pensando che se’ meglio
acconcio di venire a quel fine glorioso per che fosti fatto da Dio.
(Giamboni Vizî, v 23, p. 15).

In (26) l’autore, mediante la gerundiva, introduce il motivo che lo spinge a


tener cara l’amicizia dell’interlocutore:

(26) Cum ço sia cosa che ’l bono amigo scia meglio ca lo reo parente,
la vostra amistade voglio tenere cara, cognoscando inutile essere
lo stranio parentado (Faba Gemma, 28, p. 8).

Come appare, queste strutture argomentative hanno un andamento lineare;


andamento che si complica e si inspessisce quando il ragionare diventa comples-
so, mediante distinctiones, suddivisioni e connettivi di tipo esplicito.
In (27) troviamo un esempio significativo ai fini della nostra analisi: il microte-
sto narrativo è reso mediante il gerundio, mentre l’unica argomentazione è espres-
sa, in forma di discorso indiretto, mediante una causale introdotta da per ciò che:

(27) essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse


che ciò in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era
terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere
(Dec, II V 35, p. 186).

Un’ultima constatazione: si è detto che nel Libro de’ vizî e delle virtudi di
Bono Giamboni il gerundio è usato con una certa frequenza e presenta spesso
fenomeni di cumulo. Analizzando la prima parte dell’opera, si nota che i primi
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 42

quattro capitoli, nei quali l’autore esprime la propria triste condizione, sono ric-
chi di gerundi (soprattutto in posizione incipitaria), mentre il quinto capitolo, il
discorso consolatorio (e argomentativo) della Filosofia ne contiene appena due.

4. CONCLUSIONE
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Di quel settore, assai ricco di fenomeni e di implicazioni, che è la sintassi del


gerundio in italiano antico, abbiamo esaminato un aspetto particolare, ma non
privo di interesse: la specializzazione narrativa del gerundio. Forse ci siamo sof-
fermati troppo su aspetti riguardanti lo stile. Ma alcuni degli autori trattati sono
grandi autori la cui prosa non può essere descritta solo mediante una mera anali-
si sintattica. E in ogni modo abbiamo cercato di affrontare problemi di carattere
generale, sempre utili nell’esame dell’antica prosa, dando al tempo stesso spazio
a considerazioni di carattere pragmatico e testuale.
ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
(Università degli Studi di Roma Tre)

Fare “vicario”, “fare + N”, “fare + V”. Per un’analisi del verbo fare nell’ita-
liano antico*
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1. Ci si propone di fornire alcuni dati e indicazioni sul verbo fare nell’italia-


no antico. Tale verbo sarà analizzato secondo le seguenti tipologie di funzioni: 1)
fare vicario, 2) fare di supporto, 3) fare causativo o operatore.
I tre percorsi di ricerca saranno svolti tenendo in considerazione recenti studi
sul verbo; particolare attenzione sarà prestata alle proposte metodologiche e teo-
riche riguardanti la natura e il ruolo del verbo fare 1. A tali prospettive si farà rife-
rimento di volta in volta con il procedere dell’analisi che non potrà prescindere da
considerazioni riguardanti la testualità e la teoria dell’enunciazione.
È noto che il verbo fare abbraccia un’estensione vastissima di significati; viene
genericamente a identificarsi con numerosi verbi, molti dei quali indicano un’azio-
ne. La penetrazione smisurata in tutti i contesti possibili di alcuni verbi universali,
come appunto fare, si può osservare in moltissime lingue, specialmente nel parlato2.

* La presente ricerca, che si è giovata di un finanziamento ex 60% coordinatrice Adriana


Pelo Università degli Studi di Roma Tre, è stata ideata e condotta congiuntamente dalle due
autrici, ciascuna delle quali è responsabile dei metodi seguiti e dei risultati raggiunti. Il fare vica-
rio e il fare di supporto (§§ 1 e 2) si devono a A.P. Il fare causativo o operatore a I.C. (§ 3).
1 Cfr. Brambilla Ageno (1964), Delcorno (1970), Giry-Schneider (1978), (1987), La Fauci
(1979), Robustelli (1993) (1994) e (1995), Ponchon (1994), Cerbasi (1998).
2 Si pensi al ted. tun, al francese faire, all’inglese do. È noto il carattere generico di FĂCĔRE
nello stesso latino familiare (per i valori del verbo in latino, cfr. Hofmann (1980: 335-337). Del
resto fare in italiano moderno assume numerose connotazioni a cui non sono estranei gli ele-
menti (sostantivi, aggettivi, avverbi) a cui si accompagna. A seconda della gamma di varietà lin-
guistiche in cui il verbo si stabilisce e in base anche al suo grado di desemantizzazione ha acce-
zioni e caratteristiche specifiche spesso con particolari riflessi pragmatici. Molti casi si potreb-
bero citare. Ricorderemo soltanto, in maniera cursoria, alcuni impieghi diffusi soprattutto nel-
l’italiano colloquiale attuale: usato in senso assoluto, quanto fa? per “quanto costa?”; il ’vuoto’
fa per “dice”. Frequente poi, nell’italiano medio colloquiale, la I persona plurale del verbo (cioè
facciamo) come segnale discorsivo indicatore di esemplificazione (su cui v. Bazzanella 1995:
249). Si consideri poi farsi nel senso di “drogarsi” (probabile ellissi di locuzioni come farsi una
pera, farsi un trip). Sono numerosi anche vari fraseologismi e sintagmi fissi con fare (cfr.
Berruto 1987: 143-144). Rinviano a un ambiente, a una moda o a un costume espressioni del
tipo: “la sua giacca fa molto francese”, “un caffè che fa oriente”. Interessante è, inoltre, la pre-
senza di fare in un costrutto interrogativo di spiccata marcatezza regionale, tipico del parlato
contemporaneo, cioè il tipo “che ce lo dici a fare?”, analizzato da D’Achille / Giovanardi (2001).
Per un’indagine statistica sulle funzioni più frequenti svolte da fare in base alle occorrenze nei
vari contesti frastici del LIP, v. D’Agostino (2001: 555-565).
44 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

Per quel che riguarda l’italiano antico, si può rilevare che il verbo fare trova
attestazioni omogenee sia nella prosa media che in quella d’arte e ricopre presso-
ché tutta l’area semantica che il vocabolo riveste nella lingua moderna. In effetti,
nella grande varietà di testi antichi, di diverso livello stilistico, si nota in varie cir-
costanze una notevole preferenza accordata a fare 3: basti pensare che tale verbo,
unito a un sostantivo, può sostituire un verbo più specifico4. Tra gli instrumenta
indispensabili del lessico e della grammatica, al pari di altre forme verbali “uni-
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versali”, il verbo fare figura in vari ambiti sintattici e, per la sua duttilità d’impie-
go, trova spazio in numerose situazioni pragmatico-retoriche. È significativo il
passo del discorso di Agamennone nei Conti di antichi cavalieri 5:

Voi sapete, signori, che quello ch’ora ha fatto Paris no è facto per noi
ed a noi propriamente, ma è facto e pertene a noi ed a voi ed a ciascu-
no de Grecia comunamente, che ciò che quelli de Troia han fatto noi
l’hanno facto per quello che li antecessori nostri ai loro fecero, unde è
’l grande onore ch’essi a loro e a Gretia acquistaro. Non se perda ora
in voi el facto.

L’artificio del poliptoto è attuato con la ricorrenza dello stesso vocabolo (in que-
sto caso il nostro verbo) con funzioni sintattiche diverse: facto come participio
passato e come sostantivo. Anzi sembra, talvolta, che la scelta lessicale del verbo
generico fare sia saturata dalla particolare spinta retorica dell’enunciato in cui è
collocato, quasi a calibrare stilisticamente la vaghezza semantica del verbo 6.
Indubbiamente, il carattere passe-partout del verbo fare, nell’italiano antico
doveva essere avvertito in maniera preponderante, non solo sul piano semantico
ma anche su quello funzionale 7. Proprio a quest’ultima componente dedicheremo
in particolare la nostra analisi, che si avvarrà di alcuni campioni di prosa media e
d’arte dei secoli XIII e XIV 8. In questa sede non ci occuperemo, se non margi-

3 In Dante, per es., nell’intera sua opera, le occorrenze di fare «assommano a 2061»
(Delcorno 1970: 795).
4 È un aspetto che ha precedenti nel latino tardo quando tale tendenza si rafforza: cfr.
Hofmann (1980: 336) e La Fauci (1979: 37-40).
5 Il brano è indicato da Dardano (1995: 39) per evidenziare la finalità retorica, in alcuni
contesti, della ripetizione a breve distanza di parole.
6 La stessa tensione retorica si riscontra, per es. in un enunciato della confessione-beffa di
ser Ciappelletto, nel Decameron, dove è indicativa la presenza del verbo fare, più volte ripetu-
to: «ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte netta-
mente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca», (Dec I 1 43).
7 Per un primo assaggio su tali aspetti, v. Brambilla Ageno (1964: 236-443; 468-485) e per
quel che riguarda il nostro verbo in Dante, v. Delcorno (1970:794-803).
8 Per l’elenco dei testi presi in esame nel nostro spoglio, rimandiamo alla bibliografia pri-
maria.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 45

nalmente, delle proprietà semantiche e delle accezioni del verbo nella frase 9. Nel
prospettare le funzioni di fare si è cercato, nel contempo, di delineare l’intorno
sintattico-situazionale in cui il verbo è collocato al fine di poter meglio caratte-
rizzare il suo impiego.
Esaminiamo subito una funzione molto frequente sia in poesia che in prosa,
quella del fare vicario.
Il verbo fare, data appunto la sua genericità e universalità, può sostituire o
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’rappresentare’ alcuni verbi già espressi (o che saranno espressi successivamen-


te)10. L’effetto che si ricava è quello di evitare una ripetizione. Se prendiamo i
passi seguenti del volgarizzamento anonimo del XIV sec. della Metaura riscon-
triano che nel primo viene reiterato il verbo escire; nel secondo invece fare sosti-
tuisce il verbo rigettare 11:

E questo asub, imperciò ch’è grosso e terrestre, hae la fiamma torbida


e non chiara, ed esce dell’aiere freddo e nuvoloso com’esce il fuoco
d’una canna, (Met I 19 43-45);
Altri furono che dissero che la comata è uno lume che gettano le stelle nel-
l’aiere umido e puro, e quello aiere puro lo rigetta poscia in su come fa lo
specchio, e quel lume rigittato in su pare una coma, (Met I 16 42-44).

Manca uno studio complessivo sul costrutto presente in italiano antico.


L’importanza del verbo fare vicario nella nostra prima prosa è segnalata, tuttavia,
nelle osservazioni e annotazioni di Adolfo Mussafia all’edizione del Decameron
curata da P. Fanfani12. Anche Giuseppe Vidossich13 ricorda la presenza di fare
vicario in alcuni passi del Tristano veneto. A quest’ultimo studioso si riferiscono
poi Franca Brambilla Ageno14 e Carlo Delcorno15, i quali indicano tale particola-

9 Per rilevare entrambe è sufficiente consultare, per le varie fasi dell’italiano, dizionari ampi
come il GDLI o come il GRADIT (quest’ultimo ricco in particolare di espressioni della lingua par-
lata). Le locuzioni con il verbo fare, nei dizionari antichi (dalla Crusca al Tommaseo / Bellini),
sono oggetto di analisi in Pietrobono (1986).
10 Per una rapida trattazione di questo particolare ruolo del verbo, nell’italiano contempo-
raneo, v. Salvi (1988: 82) il quale sottolinea che il verbo fare, dato il suo significato, «può sosti-
tuire solo verbi che abbiano un soggetto agentivo», cioè un soggetto che compie attivamente l’a-
zione espressa dal verbo.
11 In realtà, riscontri più approfonditi in spogli ampi e articolati di italiano antico, consen-
tirebbero di evidenziare meglio l’effettivo ruolo semantico-sintattico di fare, al di là di conside-
rarlo, in molti casi, come un semplice mezzo di variazione stilistica. Quest’ultima, nel secondo
esempio infatti, può sembrare quasi imposta, considerata la presenza nell’enunciato della ricor-
renza parziale rigetta…. rigittato.
12 Mussafia (1857/1983: 58-63).
13 Vidossich (1905: 162-164).
14 Brambilla Ageno (1964: 484).
15 Delcorno (1970 alla voce fare).
46 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

re funzione del verbo rispettivamente nell’ambito più generale del “fare fraseolo-
gico” e nell’uso di Dante.
Per il francese antico la situazione è diversa. Il volume di Thierry Ponchon16,
che analizza e studia il verbo faire in testi francesi medievali, dedica un ampio
capitolo al faire “vicaire”17. Lo studioso, nel cercare di mettere in luce la polise-
mia e la plurifunzionalità del verbo fare, costruisce la sua metodologia partendo
dalla nozione di “subduction”. Si tratta di un processo di desemantizzazione di
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una parola: in particolare il verbo fare (che originariamente, ha un valore pieno e


primario di “fabbricare”) trova una sua collocazione lungo un percorso all’inter-
no del quale sono individuabili diverse e minime sfumature di significato che con-
ducono progressivamente alla perdita dell’integrità semantica del verbo e al suo
successivo impiego con un valore solo formale. In altre parole, il verbo perde in
taluni casi la sua valenza lessicale per assumere quella grammaticale18. È inevita-
bile pertanto che in base a tale desemantizzazione, fare possa sostituire un altro
verbo (ma anche un sintagma verbale o un’azione o un’idea) che questi rappre-
senta. Per tale motivo il fare vicario nella terminologia moderna ha assunto anche
la denominazione di pro-verbo19, perché ha, in rapporto agli altri verbi, un ruolo
analogo a quello che hanno i pronomi nei confronti dei nomi: vale cioè come un
sostituente 20.

16 Ponchon (1994: 251-341).


17 Per la fase moderna, basterà riferirsi a Eriksson (1984) e (1985) e Grevisse (19882). In
particolare Eriksson (1985), a proposito della «suppléance verbale» attuata con faire, nel fran-
cese contemporaneo, concentra la sua attenzione, evidenziandone le proprietà, su altri due pro-
cedimenti che con essa hanno relazione: la ripetizione e l’implicazione del verbo. Alcuni fatto-
ri, presi in considerazione dallo studioso svedese (per es., la presenza di faire come verbo sup-
plente e strumento sintattico specifico nelle comparative più complesse) trovano un’applicazio-
ne anche nell’italiano antico.
18 Si vedrà più avanti (§ 3) come alla graduale opacizzazione semantica del verbo fare si
sia sovrapposta una manifestazione altrettanto graduale di grammaticalizzazione. Tale sviluppo
morfogenetico, rientra infatti nella grammaticalization chain di cui parla Heine (1992). Si trat-
ta di un processo ancora in fieri di un fenomeno, una sorta di compromesso tra fasi di deseman-
tizzazione e fasi di grammaticalizzazione che, in realtà, in un dato momento, potrebbero coesi-
stere. Cfr., a tal proposito, almeno Giacalone-Ramat (1998: 442).
19 Cfr. Beaugrande / Dressler (1981/1984: 93-94); Eriksson (1985: 9). Non è così in
Ponchon (1994: 29). che con l’etichetta di pro-verbe assegna al verbo faire il valore semantico
di «arranger, mettre en état quelque chose, redonner à quelque chose sa fonction première. […]
Pour prendre un exemple en français moderne, faire la cuisine est pourvu d’un [V-prb], quand
l’expression signifie nettoyer/arranger la cuisine». In questo caso il verbo non sostituisce un
altro verbo, bensì si pone nel processo di desemantizzazione appena al di sotto del suo signifi-
cato primario, detenendo ancora un suo valore specifico.
20 Nella classe dei sostituenti è da annoverare anche to do: cfr. Halliday / Hasan (1976: 112-
123). Tuttavia Vignuzzi (1986:325) osserva che «l’impiego vicario di fare non è comparabile
con quello assolutamente grammaticalizzato di to do inglese»; cfr.anche Eriksson (1985: 13-14,
con esplicito rinvio a Ellegård (1953) e Simone (1994: 217 e 419). Lavinio (1990: 15) com-
prende il verbo fare (insieme a cosa e dire) sotto l’etichetta di “parola ombrello”.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 47

Il fare vicario sembra intimamente legato alla struttura comparativa, poiché si


presenta abitualmente in costrutti di questo genere 21. Ecco un brano tratto dal
Volgarizzamento della Metaura:

E segno di ciò si è che quando l’acqua calda è posta in luogo d’a-


ghiacciare, aghiaccia più che non22 fa la fredda, imperciò che il freddo
è contrario al caldo, e mostra più la sua virtude quando truova il suo
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contrario, (Met T II 10 2-6).

Nel fornire altri esempi ci siamo soffermati in particolare sulla prosa del
Decameron. Il nesso comparativo, che occupa un posto preminente nell’architet-
tura sintattica e testuale dell’opera, si serve non raramente del fare vicario, che
raggiunge pertanto una discreta frequenza. Soprattutto nelle comparative di ana-
logia o di conformità, caratterizzate da un andamento binario di proposizioni in
correlazione e da un’attenta collocazione dei componenti nella frase, il predicato
verbale presenta il nostro verbo in più occasioni. Accade così che il generico fare
svolga il suo ruolo vicario, sostituendo verbi che possiedono tratti più specifici23:

così lei poppavano come la madre avrebber fatto, (Dec II 6 17);


con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva […] che
fanno i gran bevitori il vino, (Dec I 1 41).

È vero che un’esigenza di variatio può essere sottesa alle scelte lessicali.
Infatti, in altre occasioni, Boccaccio nell’attuare una disposizione ordinata dei
vari componenti nella struttura periodale, privilegia alcuni caratteri che presenta-
no simmetria di situazioni e ripetitività di forme. Il ruolo vicario di fare, in effet-

21 Anche nella struttura modale-comparativa senza elementi di correlazione è ricorrente il


suo impiego: si osservi il passo «currenno e sparienno da onne lato, como fae la spinosa alli
cani», (Cron XI 13), in cui fare sintetizza e sostituisce addirittura una coppia di verbi.
22 Per il non “pleonastico” in strutture comparative nella lingua antica (fenomeno che è
anche strettamente legato alla determinazione del modo del verbo), si vedano almeno Brambilla
Ageno (1955), Ulleland (1965: 71-72); Jonas (1971).
23 Mussafia (1857/1983:59) distingue i casi del Decameron in cui il verbo fare «logica-
mente, per il proprio suo valore lessicale, rappresenta il verbo antecedente» («ne va al re del
Garbo, come prima faceva, per moglie», Dec II 7 rub) da quelli in cui appare una desemantiz-
zazione totale del verbo, che manifesta in quest’ultimo modo il suo effettivo ruolo di vicario («se
così avesse saputo consigliar sé come gli altri faceva», Dec II 10 5). Tra i due gruppi lo studio-
so individua casi in cui emerge invece un attenuamento del significato primario di fare: cioè
quando il verbo ricorda intransitivi che non indicano azione («così muoiano i lavoratori, come
fanno i cittadini», Dec In 68) e quando regge gli stessi oggetti indiretti del verbo che sostituisce
(«il quale forse credendosi con quelle medesime opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli
studii», Dec II 10 5). Sulla «puissance de répresentation» come proprietà specifica di fare vica-
rio, insiste anche Eriksson (1985: 81).
48 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

ti, non sembra emergere negli esempi seguenti in cui il verbo ricorre sia nella pro-
posizione sovraordinata che nella reggente; le uniche variationes, per quel che
concerne il predicato verbale, sono affidate al mutamento del tempo24:

Siccome per adietro era stato fatto così fece ella, (Dec V C 2);
sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente, (Dec II
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In 3).

Sarebbe forse lecito considerare in un’unica prospettiva l’analisi del nesso


comparativo e la selezione, operata dal Boccaccio, degli elementi costitutivi dei
membri del costrutto25. Sono infatti significativi i casi che presentano fare vicario
nella proposizione ’subordinata’ comparativa antecedente (qui introdotta da sì
come):

sì come essi hanno fatto così intendo che per lo mio comandamento si
canti una canzone, (Dec IV C 9);
sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese, (Dec VIII 9 62).

Tale verbo, come si vede, anticipa in maniera generica e sostituisce il verbo della
’reggente’ comparativa che segue; il fenomeno appare interessante ai fini del rap-
porto sintattico di correlazione tra le due proposizioni che costituiscono il com-
parato e il comparante. Si tratta, in altre parole, di verificare se la ’subordinata’
comparativa, cioè il secondo membro del periodo comparativo, nell’italiano anti-
co, debba essere considerata prolettica rispetto alla ’reggente ’26.
Si è evidenziato fin qui come la funzione vicaria del verbo fare possa proce-
dere parallelamente all’analisi di strutture sintattiche e come esso si esprima e

24 Uno studio attento sulla determinazione dell’uso dei tempi, soprattutto nella prosa tosca-
na del Duecento, è in Ambrosini (2000).
25 In effetti si può notare, in più occasioni, soprattutto in un membro del costrutto, l’ellissi, o
meglio l’omissione del predicato verbale. Il fenomeno, speculare alla ricorsività, permette in molti
casi di ipotizzare, come facilior, fare vicario sottinteso: per es., «essi di gran lunga sono da molto
meno, sì come quegli che, per viltà d’animo non avendo argomento, come [fanno] gli altri uomini
di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar, come [fa]’l porco» (Dec III 3 3).
26 Per quel che riguarda l’italiano moderno, Serianni (1988: 515) osserva che «quanto alla
posizione, che di massima è libera […] le comparative tendono ad anteporsi alla sovraordinata
quando questa contenga un elemento correlativo». La collocazione della subordinata compara-
tiva rispetto alla reggente, in effetti, è uno dei punti cardine di tale struttura. Da essa dipendono
numerosi fenomeni: da una modalità retorica che lasci intendere un valore ritmico dei membri
del costrutto, a una precisa strategia discorsiva con finalità dimostrativa (con il dovuto risalto per
la prospettiva funzionale della frase e per l’articolazione dell’informazione). Per alcuni di que-
sti aspetti nella prosa di Dante e di Boccaccio, cfr. rispettivamente, Agostini (1978: 402) e Pelo
(1980: 27-51).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 49

trovi una sua configurazione nel nesso comparativo. Tuttavia anche in altre circo-
stanze fare vicario assume un rilievo spiccato. In questo ambito sono da eviden-
ziare infatti, varie modalità d’uso. Particolarmente evidente, anche ai fini prag-
matici e testuali, ci è sembrato il ruolo svolto dal verbo come “incapsulatore co-
testuale” di eventi, circostanze o anche indicazioni che si sono svolti in enunciati
antecedenti: (così) fu fatto o (e) così fece sono espressioni che ricorrono frequen-
temente nei testi antichi e inglobano varie ’azioni’ già espresse27. La fenomeno-
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logia in cui tali espressioni ricorrono è molto varia 28. Qui forniamo soltanto alcu-
ni ragguagli di base. Prendiamo il passo seguente:

ordinò che tornasse a la città di Firenze. E così fece, colla sua gente e
con molti altri Fiorentini e Toscani e Romagnuoli, (NC IX XLIX 2).

È questo un caso in cui l’espressione con il fare vicario, realizza una sorta di lega-
me sintattico-testuale tra l’enunciato precedente e quello seguente; quest’ultimo
possiede una precisazione aggiuntiva (colla sua gente e con molti altri Fiorentini
e Toscani e Romagnuoli).
Analogamente in

Disse missore Marsilio: «No. Torna in reto. Va’ in la mea cammora».


Così fu fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de
Missore Marsilio, (Cron VIII 31c-34c).

è evidente che, nell’organizzazione interna degli enunciati, l’intero sintagma29,


attuando una precisa strategia dell’informazione, segmenta la narrazione svolgen-
do un ruolo anaforico e al tempo stesso cataforico: in tal modo conferma le indi-
cazioni degli enunciati precedenti e introduce il passaggio all’azione effettiva e
risolutiva30.

27 Anche la forma sintagmatica fare con l’oggetto pronominale neutro lo appare un idoneo
procedimento di sostituzione di un altro sintagma verbale. È sufficiente un solo esempio: «ma
perché li parve aspro cammino a entrare in Toscana, no ’l fece», (Compagni, III XXXIV 28-29).
Per espressioni analoghe in italiano moderno, v. Salvi (1988: 83).
28 Dardano (1999: 186) nell’analizzare un passo del Decameron (V 6 40-42), che presenta
la formula finale e così fu fatto, osserva come talvolta tale formula «frequente nel Novellino e
nella narrativa del secolo precedente» si inserisca a conclusione di una struttura argomentativa
del tipo ’convinzione + effetto’, concretizzando così la soluzione positiva dell’evento.
29 Non è estraneo alla funzione vicaria del verbo, l’impiego di così (non sempre presente
tuttavia nella nostra formula con il fare) come tratto marcato ulteriore a cui affidare un esplici-
to richiamo del contesto precedente.
30 In una direzione diversa è orientata la nostra locuzione che è presente, ancora una volta,
in un passo dell’Itinerario dugentesco per la Terra Santa (v. Dardano 1966/1992: 181): «Mandò
questo giovano che tutta questa giente fosse menata dinanzi da llui. Fu fatto». Si tratta di quei
casi in cui il verbo concentra su se stesso il focus informativo, senza possibilità di progressione
50 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

Finalizzata alla progressione del discorso e dotata di particolare efficacia


comunicativa si può considerare una locuzione con il verbo fare, diversa dalle pre-
cedenti, connotata come formula di collegamento cataforico:

Ch’el fece dalla gioventudine infino alla senettute ordinare la vita al


figliuolo […]. E più fece: che tesoro li ammassoe grandissimo […]. E
più fece: che incontanente poi si brigò […]. E più fece: che lo dottrinò
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del corso delle stelle. […] E tutte queste cose fece perché Roboam
regnasse dopo lui, (Nov VII 9-13)31.

Si noti l’aspetto seriale del sintagma (E più fece) e l’aggancio anaforico finale (E
tutte queste cose fece): si tratta di una sorta di ’cerniera’ che introduce un fatto
nuovo e prende le mosse dall’esplicito richiamo agli eventi precedenti; è signifi-
cativo che tale richiamo si avvalga di due forme “generali”: il sostantivo cosa e il
verbo fare.
È indubbio l’influsso che questi particolari costrutti con il verbo fare vicario
esercitano sulla compagine testuale. Ciò accade anche quando in uno o più enun-
ciati l’analogia delle circostanze è espressa da una formula conclusiva che, oltre
ad evidenziare la particolare struttura circolare del testo, ripropone il verbo in que-
stione più volte:

Ora vedesi onne die currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano.
Curro Turchi, lo simile faco, (Cron, XIII 32c-34c).

Interessante ai nostri fini anche la variatio tra la forma nominale analitica del
verbo, cioè «currerie fare» e quella piena «Curro», reiterata32. In particolare la
forma perifrastica (Fare +N) ci consente di prendere in considerazione un’altra
tipica funzione del nostro verbo che, in alcuni casi, trova un riscontro formale
nelle procedure di nominalizzazione 33.

2. Fare infatti rientra anche nella categoria dei cosiddetti verbi supporto
(insieme a avere, dare, essere). Il significato originario è quasi neutro; serve a

del discorso. Non è disgiunta da tale funzione la forma passiva del verbo. Si osserva, inoltre, a
dimostrazione dell’impiego vicario del verbo, che una variante della redazione francese
dell’Itinerario reca: «Fue ubbidita la sua volontà».
31 Il che, posto dopo E più fece, ha funzione di “tematizzatore”: v. Bertuccelli Papi (1995).
32 La forma perifrastica, volutamente marcata dall’autore con la posposizione del verbo
dopo il sostantivo, risponde a esigenze espressive tempo-aspettuali: presenta cioè uno svolgi-
mento ’dinamico’ che non sembra avere quella semplice.
33 Per alcuni riscontri sui processi di nominalizzazione, cfr., almeno per l’italiano moder-
no, Dardano (1978) ma anche da ultimo, Dardano / Frenguelli (1999: 352-354), con aggiornata
bibliografia.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 51

sostenere un nome il quale funge così da complemento 34. In questa sede è stato
possibile approntare soltanto una sintetica tipologia di alcune combinazioni di
fare + N. Rinviamo a un’altra occasione l’analisi dello stretto rapporto delle locu-
zioni con le strutture testuali in cui compaiono, nonché l’esame di numerosi aspet-
ti legati alla configurazione e alle condizioni di uso del costrutto con il nostro
verbo quali per es., l’impiego “coalescente” di fare +N35.
Schematicamente, osserviamo che la locuzione può presentare specifiche
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caratterizzazioni: 1) quando l’espressione ha puntuale corrispondenza con un


verbo della stessa radice del nome: far(e) badalucchi “badaluccare” cioè “fare
scaramucce”, “dare qualche assalto”, far(e) comandamenti “comandare”, far(e)
giuramento “giurare”, far(e) mercatanzia “mercanteggiare”, far(e) menzione
“menzionare”, far(e) perdonanza / perdono “perdonare”, far(e) (del) torneamen-
to “torneare”, far(e) onore “onorare”; 2) quando sussiste un rapporto semantico
ma non corrispondenza lessicale tra la locuzione analitica e il verbo equivalente:
far(e) agio “compiacere” e non nel senso di “agiare”; far(e) (i) comandamenti nel
senso di “ubbidire” e non in quello di ’comandare’, far(e) (la) lega “unirsi in
alleanza politica o militare”; 3) in perifrasi particolari in cui l’eventuale corri-
spondenza con il verbo pieno non ha nessun rapporto lessicale e semantico col
nome compreso nella locuzione formata da fare +N: far(e) forza nel senso di
“importare”, far(e) mestiere “giovare”, far(e) mobile, “mettere assieme, accumu-
lare ricchezze”, far(e) taglia “formare un esercito di confederati”.
Come si può osservare, questo tentativo di classificazione non ci permette una
visione d’insieme del costrutto. Risultati in questo ambito sono stati conseguiti da
Giry-Schneider (1978) e (1987), per il francese moderno, da La Fauci (1979), per
l’italiano antico36. Pur essendo diverso il campo d’indagine, entrambi i settori di

34 Per alcuni esempi in italiano moderno, v. Salvi (1988: 79-82).


35 Si intende con “coalescenza” il legame molto stretto tra un verbo di supporto e il sostantivo
(cfr. da ultimo, Ponchon 1994: 65-67). L’inserimento in tale sintagma riguarda vari elementi: l’ar-
ticolo determinativo o indeterminativo, l’aggettivo con o senza articolo, l’avverbio. Un’attenzione
particolare deve essere posta alla posizione prenominale o postnominale delle forme aggettivali o
avverbiali e soprattutto alle relazioni che esse intrattengono nella nostra costruzione. L’assenza o la
presenza di “determinanti” crea infatti considerevoli riflessi sullo statuto del costrutto: si ha, talvol-
ta, una vasta gamma di coloriture semantiche desumibili di volta in volta dal contesto (per es.,: «lo
padre […] comanda alle veloci ore che giungano i cavalli. Le frettolose iddie fanno i comandamenti
e menano i cavalli», Simintendi II 19-23 in Corpus testuale del TLIO; non si esclude qui, infatti,
che l’articolo e il ’numero’ del sostantivo diano il senso di “ubbidire” all’espressione). È da notare
infine il valore ’durativo’ di alcuni suffissi del sostantivo a cui si accompagna fare: si pensi, tra l’al-
tro, al tipo fare dimoranza, fare perdonanza, rispetto alla forma piena del verbo corrispondente (cfr.
al proposito, Ponchon 1994: 70-71,e con una diversa prospettiva, Gaeta 1999). Per un’analisi della
formazione delle parole nella prosa antica, v. Dardano (1990/1992). Sull’enantiosemia, fenomeno
per cui una parola sviluppa sensi opposti, v. Basile (1996).
36 Corti (1953: 75) aveva sottolineato, con diversa modalità, la tendenza comunissima negli
scrittori della nostra tradizione prestilnovistica a usare tali forme che si inserivano perfettamen-
te in una visione reificante e ontologizzante propria dell’epoca.
52 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

ricerca possiedono un obiettivo comune: fornire un ampio terreno di riflessione


sul problema del rapporto e dell’integrazione tra lessico e sintassi. Si tratta di un
percorso di ricerca che ha avuto in Francia un punto di riferimento fondamentale
in Maurice Gross 37. Tuttavia i criteri che regolano le caratteristiche distribuzionali
delle funzioni di fare sono fluidi; a tali funzioni sono state attribuite più “etichet-
te”, generate appunto dalla eterogeneità delle procedure e dalle diverse modalità
di analisi38. A tale proposito gli studiosi tedeschi parlano di Funktionverb; gli stu-
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diosi spagnoli definiscono hacer come verbo lexico-funcional e verbo lexical 39.
Queste ultime denominazioni corrispondono grosso modo alla designazione, che
abbiamo indicato, di verbo “supporto”. La fondamentale nozione approntata da
Harris (1970)40 di “operatore” ha indotto poi gli studiosi, in alcuni casi, a consi-
derare il nostro verbo anche con tale attributo. In questa sede analizzeremo fare
come verbo operatore, quando può indurre ad una trasformazione della frase, in
particolare quando riveste una funzione causativa.

3. Per il suo contenuto semantico fare è anche il verbo base per la creazione
di costruzioni causative, atte ad esprimere un’azione non attuata dal soggetto, ma
fatta compiere da un altro agente. In particolare, prenderemo in considerazione i
costrutti in cui fare compare in perifrasi verbali come fare che, fare sì che, alle
quali fa seguito una proposizione consecutiva esplicita41:

voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la


forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la
tua puerizia. […]. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu
non parli a lei immediatamente, (VN V 14);

37 Una continuità di intenti del programma francese si ritrova, sia pur con diverso sviluppo,
in indagini descrittive lessico-grammaticali dell’italiano. Si veda in proposito D’Agostino
(1992).
38 Cfr. al riguardo, Ponchon (1994: 47-48) che constata come gli studiosi francesi degli
indirizzi di ricerca a cui abbiamo fatto riferimento «en se penchant sur le mots qui accompagnent
le verbe», siano giunti «à une syntaxe du nom, plutôt qu’a une syntaxe du verbe» e che tali teo-
rie generativo-trasformazionali possano particolarmente applicarsi e valere per la fase scritta e
orale della lingua solo di epoca attuale. In effetti si consideri che molti casi di fare +N dell’ita-
liano antico si adattano male a schemi costruiti per l’italiano moderno. Pensiamo al fare +N che
dà luogo a locuzioni fisse che sono più difficilmente identificabili o deducibili nella lingua anti-
ca. Per gli aspetti metodologici legati a tali costruzioni, cfr. Gross (1996); Casadei (1996); Ruiz
Gurillo (1997).
39 Cfr. Von Polenz (1963) per il tedesco; per lo spagnolo, Solé (1966).
40 Si veda più avanti il § 3.
41 In italiano antico un caso di cancellazione del costrutto causativo appare nel verbo rubel-
lare, che spesso vale far ribellare: «i Ciciliani il disideravano a signore, e prometteano di rubel-
lare l’isola al re Carlo», (NC VIII 59). Cfr. a questo proposito Brambilla Ageno (1964: 34).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 53

Nel datore adunque dee essere la providenzia in far sì che della sua
parte rimagna l’utilitade dell’onestade, che è sopra ogni utilitade, e far
sì che allo ricevitore vada l’utilitade dell’uso della cosa donata, (Conv
I VIII 8).

Il significato espresso da tali perifrasi è quello di “sforzarsi per ottenere”, “indur-


re”. Indicheremo questi costrutti, che rappresentano la più chiara espressione del
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valore causativo in forma sintattica e analitica, come “analitici puri”, riprendendo


la classificazione proposta da Comrie (1981); li distingueremo inoltre dai causa-
tivi, anch’essi analitici, con fare + infinito (tipo far fare qualcosa a qualcuno),
ampiamente studiati soprattutto da Robustelli (1993, 1994, 1995, 2000) e Cerbasi
(1998) in prospettiva diacronica, e da Skytte (1976, 1983), per quanto concerne
l’italiano moderno42.
Chiariamo prima il concetto di causatività: in generale, le costruzioni causa-
tive servono a descrivere un rapporto di causa / effetto tra due eventi. La situazio-
ne di cui esse sono l’espressione linguistica è complessa: al suo interno possono
essere distinti un evento causale (ad es. Luca ha spinto Giovanni) e un evento
risultativo (ad es. Giovanni è caduto). I causativi nascono dalla combinazione di
queste due fasi (Luca ha fatto cadere Giovanni).

In italiano l’espressione della causatività può essere affidata a mezzi morfo-


logici, lessicali e sintattici. Nei primi due casi, si parla di causativi sintetici; nel
terzo, di causativi analitici, formati cioè da perifrasi verbali.
Nei causativi espressi da mezzi morfologici, l’idea del “far fare qualcosa a
qualcuno” è realizzata mediante il morfema derivativo -ificare (beatificare = “fare

42 Per uno studio sulle costruzioni causative in generale, v. invece Shibatani (1976).
54 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

beato”, fortificare = “rendere forte”), tratto direttamente dal latino e connesso al


verbo FĂCĔRE:

E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare […]:
Mossimi prima per magnificare lui, (Conv I X 7)43.

Fenomeni analoghi sono attestati anche in altre lingue: l’indoeuropeo posse-


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deva una regolare formazione di causativi per mezzo del suffisso *-EY44, di cui si
conservano tracce in greco antico, in verbi iterativo-causativi come fobew (“fac-
cio temere” ~ febomai, “temo”), dokew, sobew, e in latino, in verbi come MONĔO
(“faccio ricordare” ~ MĔMINI “ricordo”), DOCĔO, FOVĔO.
In turco tutti i verbi possono diventare causativi mediante l’inserzione degli affis-
si -dir- o -t-: yaz-mak “scrivere” → yaz-dir-mak “far scrivere”, anla-mak “ascol-
tare” → anla-t-mak “far ascoltare”; analogamente in swahili45 alcuni verbi pos-
sono assumere valore causativo con l’aggiunta di un particolare suffisso46.
Anche i causativi lessicali constano di un verbo singolo invece che di una
perifrasi verbale; in questi casi però l’idea della causatività non viene espressa
attraverso un suffisso, ma è affidata interamente al lessico: ne sono esempi verbi
come avvisare, mandare, mostrare, uccidere, che hanno lo stesso significato e
sostituiscono perifrasi quali far sapere, far andare, far vedere, far morire 47.
Soffermiamoci infine sui causativi espressi da mezzi sintattici. È a questa
categoria che appartengono le costruzioni con fare+che, delle quali ci vogliamo
occupare. Tuttavia, prima di inoltrarci nella descrizione di tali costrutti, riteniamo
opportuno confrontarli con un altro tipo di causativo sintattico, il già citato far
fare qualcosa a qualcuno, in cui fare è seguito da un infinito48. Si tratta di una

43 Nell’esempio citato il termine magnificare viene usato da Dante proprio con il suo pre-
ciso valore etimologico di “rendere grande”. Cfr. Tateo (1971 alla voce magnificare): «Chiarito
dallo stesso Dante nel suo significato etimologico (“magnificare”, cioè “fare grandi”, in Cv. I X
7) […]. La “grandezza” e nobiltà del volgare, consistenti soprattutto nella capacità di esprimere
i concetti della mente […] vengono, secondo D[ante], “attualizzate”, “palesate”: sicché può dirsi
veramente che egli “magnifichi” il volgare, ossia ne realizzi la grandezza».
44 Cfr. Robustelli (1993: 143).
45 Cfr. Comrie (1981) e Giannini (1994 alla voce causativo).
46 Il tedesco è ricco invece di causativi che derivano dai verbi primitivi mediante il cam-
biamento della vocale tematica: si pensi a fallen “cadere” ~ fällen “far cadere”, trinken “bere”~
tränken “far bere”, liegen “giacere” ~ legen “far giacere”. Cfr. Mussafia (1857/ 1983: 14).
47 Per quanto riguarda l’inglese, la non intercambiabilità tra to kill e to cause to die è dimo-
strata da Fodor (1979), il quale constata che in alcuni tipi di frase la sostituzione di to kill alla
forma analitica to cause to die dà luogo a enunciati agrammaticali. Cfr. anche Shibatami (1972).
48 Costruzione molto simile è quella composta da lasciare + infinito. Fare e lasciare hanno
in comune il contenuto causativo, ma non possono essere considerati sinonimi. Se lasciare può
essere sostituito da fare, non sempre invece può avvenire il contrario: lascialo parlare → fallo
parlare, ma: glielo faccio sapere →??glielo lascio sapere. Sul piano semantico, lasciare ha un
suo significato autonomo, vicino a quello di “permettere”, e il significato causativo del costrut-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 55

tipica innovazione romanza (si confrontino il costrutto francese faire faire quel-
que chose à quelqu’un, e in spagnolo e portoghese le costruzioni con hacer e fazer
+ infinito49). In italiano tale complesso verbale ha le stesse modalità di realizza-
zione di un verbo unico. La coesione tra fare e l’infinito è infatti così forte che i
due elementi sintatticamente si comportano come un solo costituente nella frase50:
il nostro verbo, perdendo il suo significato distintivo, diventa un ausiliare51 e
assolve la funzione di modificare in senso causativo il significato dell’infinito. Ci
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troviamo, in altri termini, di fronte a un caso di grammaticalizzazione52: fare,


delessicalizzandosi, diviene un semplice indicatore di categorie grammaticali
(persona, tempo, modo), mentre l’altro verbo, in forma non finita, conserva il con-
tenuto lessicale.
In virtù dell’avanzata desemantizzazione di fare, in alcuni casi questi costrutti
possono avere anche un significato causativo più attenuato: l’intervento dell’a-
gente causatore può essere infatti anche indiretto e involontario53.
Nei causativi analitici puri con fare +che, invece, il verbo non perde del tutto
il proprio contenuto semantico e non si riduce a mero ausiliare: queste costruzio-
ni non constano infatti di un unico predicato verbale complesso, ma di due pro-
posizioni distinte, come vedremo meglio fra poco; per tale motivo riteniamo che
in casi di questo genere non si possa parlare di una completa grammaticalizza-
zione, ma piuttosto di uno stadio intermedio rispetto all’ausiliarizzazione del

to è molto attenuato (Skytte: 1983). Mentre fare rappresenta la forma positiva del causativo (fare
che), lasciare ne rappresenta quella negativa (non fare che). Un’altra differenza risiede nel fatto
che la proposizione retta da lasciare in forma esplicita è una completiva, mentre quella retta da
fare è una consecutiva esplicita: lascialo restare → lascia che resti, fallo restare → fa’ che resti
(Serianni 1988: 465). Alcune perifrasi con lasciare si sono affermate in italiano come espres-
sioni cristallizzate: lasciare stare, lasciar perdere, lasciar correre. Ma, in generale, «i costrutti
con il verbo lasciare vengono considerati dagli italofoni meno grammaticali, più pesanti»
(Vanvolsem 1995).
49 Rispetto alle costruzioni con fare + infinito, i causativi con hacer e fazer presentano una
minore compattezza sintattica (vedi infra): questi due verbi infatti «sembrano aver subito lo
svuotamento sintattico in misura più limitata rispetto al loro omologo italiano» (Cerbasi 1998:
465).
50 Trattandosi di un unico predicato verbale complesso, raramente viene tollerato l’inseri-
mento, tra i due membri, di altri elementi, almeno per quanto riguarda l’italiano moderno (per
l’italiano antico, v. Robustelli 1994); inoltre il soggetto logico dell’infinito diventa un argomen-
to dell’intero complesso verbale; l’infinito, anche quando è intransitivo, nel costrutto può diven-
tare transitivo; i clitici, argomento dell’infinito, non si attaccano a quest’ultimo ma a fare; l’in-
finito non può essere negato.
51 Cfr. per il francese antico Ponchon (1994: 175-250), che dà al faire causativo seguito da
infinito l’etichetta di auxiliaire.
52 Il fenomeno della grammaticalizzazione è stato ampiamente trattato nella letteratura lin-
guistica degli ultimi decenni. A tale proposito, cfr. almeno Hopper-Traugot (1993) e Giacalone
Ramat (1998).
53 In questi casi molto spesso il causatore è rappresentato da un agente inanimato (Cerbasi:
1998). Cfr. inoltre Salvi-Skytte (1991: 500).
56 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

verbo. Una riprova risiede nel fatto che i costrutti analitici puri non rappresenta-
no eventi causativi in senso lato, in cui cioè l’agente causatore esercita un con-
trollo minore sull’azione54: quest’ultimo infatti è sempre dotato di intenzionalità,
perché promuove direttamente il compimento dell’azione. Definiamo per questo
motivo fare come un verbo “operatore”, in quanto il suo soggetto grammaticale
mette in moto l’azione di un altro soggetto. L’etichetta di “operatore” è stata intro-
dotta da Zellig S. Harris (1970) secondo tre modalità: a) verbi che operano sui
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nomi, (tale denominazione è stata poi ripresa da Giry-Schneider 1978 e da La


Fauci 1979)55; b) verbi che operano su altri verbi; c) verbi che operano su intere
proposizioni56. Quest’ultima proprietà sembra particolarmente adatta per i causa-
tivi analitici puri, in cui fare regge e introduce una consecutiva57.
Ancora in uso nell’italiano contemporaneo, questi costrutti rivestono nell’ita-
liano antico un notevole interesse soprattutto perché rappresentano la diretta pro-
secuzione delle costruzioni causative analitiche latine. Nel latino classico infatti
l’idea della causatività era più frequentemente espressa, con mezzi sintattici,
mediante una proposizione principale contenente un verbo di comando, costrizio-
ne o persuasione, seguita da una secondaria, introdotta da un complementatore o
infinitiva. Si poteva infatti avere:

COGO / SUADĔO / IUBĔO + UT e congiuntivo / AD e gerundivo


IUBĔO + accusativo / dativo e infinito
FĂCĬ O / EFFĬ CĬ O + UT e congiuntivo58
FĂCĬ O + accusativo e infinito.

FĂCĬ O, pur essendo meno usato nella lingua letteraria, per la sue maggiori
genericità e duttilità cominciò già nel latino tardo a essere impiegato per espri-
mere eventi causativi, a discapito delle forme concorrenziali (Cerbasi: 1998).
In ciascuno dei casi sopra esposti, la causatività era espressa da strutture
biproposizionali: la proposizione con FĂCĬ O, e la proposizione ad essa seguente.
Non possiamo parlare di un unico complesso verbale neppure per quanto riguar-
da i costrutti con FĂCĬ O seguito da infinitiva: si trattava, anche in questi casi, di
due predicati distinti che richiedevano argomenti separati.

54 Ponchon (1994: 184) osserva inoltre che, per quanto riguarda il francese, l’impiego di
faire+ que «entraîne une idée de résultat visé, idée qui est absente avec faire auxiliaire de verbe
infinitif».
55 Anche Ponchon (1994) si serve dell’etichetta di opérateur, ma per riferirsi al faire con
valore effettivo: «Feites moi chevalier», (Perceval 970), «Orgiuelz fait home maigre et pale»
(Miracles de Nostre Dame 10, 1938).
56 V. Harris (1970) e cfr. La Fauci (1979: 24).
57 Per un’analisi delle proposizioni consecutive nell’italiano antico, v. Dardano / Frenguelli
/ Pelo (1998).
58 In latino i costrutti causativi per eccellenza erano proprio quelli rappresentati da FACIO
/ EFFICIO+ UT e congiuntivo (Robustelli 1993: 143).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 57

Allo stesso modo, in italiano, nella costruzione fare + che la predicazione è


rimasta radicalmente distinta in due proposizioni59: la reggente con fare e la
secondaria consecutiva esplicita. È il motivo per il quale abbiamo definito i cau-
sativi di questo tipo “analitici puri”.
A tale proposito, ci sembra indicativo che i costrutti con fare + che compaia-
no con netta preponderanza rispetto a quelli con fare + infinito proprio in un vol-
garizzamento dal latino: una traduzione dell’Ars amandi di Ovidio eseguita, pro-
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babilmente da Andrea Lancia, prima del 1313 60. Abbiamo confrontato il volga-
rizzamento con l’originale latino, tenendo conto che nei versi ovidiani le scelte
lessicali e la giacitura delle parole possono essere condizionate da esigenze metri-
che, mentre il testo in prosa ubbidisce alle regole della retorica medievale. Fare +
che compare spesso in corrispondenza di FĂCĔRE all’imperativo seguito dal con-
giuntivo, con una traduzione quasi letterale:

Seu pedibus uacuis illi spatiosa teretur/ Porticus, hic socias tu quoque
iunge moras, / et modo praecedas facito, modo terga sequaris, (Ars I
489-491);
O se i-largo portico fia pestato da-llei con iscalzi piedi, tu altresì com-
pagnevole dimoranza farai co-llei; e farai ch’alcuna volta tu vadi
dinanzi, alcuna volta di drieto le sue spalle, (Arte Am I 491-494);
Fac primus rapias illius tacta labellis/ Pocula, quaque bibit parte puel-
la, bibas, (Ars I 573-574);
Fa’ che tu pigli il bic[c]hiere, col quale ella bevendo, toccherae colli suoi
labbretti, e berai da quella parte ch’ella avrae bevuto, (Arte Am I 575-576);
Cede repugnanti; cedendo uictor abiis;/ Fac modo, quas partis illa
iubebit agas, (Ars II 197-198);
Da’ luogo a chi ti ripugna e partira’ti vincitore; fa’ che tu solamente
vadi là ov’ella ti comanderae, (Arte Am II 197-198);
Iussus adesse foro iussa maturius hora/ Fac semper uenias nec nisi
serus abi, (Ars II 223-224);
S’ella ti comanda andare a-llei, fa’ che tu vi sia più tosto che l’ora
comandata e non ti partire se non tardi, (Arte Am II 223-224).

59 La rianalisi sintattica che nei causativi con fare + infinito porta dalla struttura bifrasale lati-
na a una struttura monofrasale romanza non è pertanto in questi casi completa (Cerbasi 1998: 459).
60 Vanna Lippi Bigazzi, che ha curato l’edizione critica del testo, fornisce alcune indica-
zioni per stabilire il termine ante quem del volgarizzamento: «sappiamo da una chiosa dei
Rimedi che il volgarizzatore operava al tempo della discesa in Italia di Arrigo del Lussemburgo;
poiché nel prologo di quella stessa opera si allude all’Arte come già volgarizzata [...], anche
l’Arte non varca il 1313». Per quanto riguarda l’identità del volgarizzatore, la studiosa osserva:
«le affinità più clamorose si rilevano con il volgarizzamento dell’Eneide autorevolmente attri-
58 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

Spesso ci troviamo però anche di fronte ad ampliamenti operati dal tradutto-


re, di modo che l’espressione latina risulti “arricchita” nel testo volgare. Nel
primo degli esempi qui sotto riportati, il volgarizzatore si avvale di fare + che per
tradurre un UIDEARE all’imperativo, mentre negli altri tre passi la perifrasi ricorre
in corrispondenza di un semplice congiuntivo:

Si dederis aliquid, poteris ratione reliqui […]; / At quod non dederis,


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semper uideare daturus, (Ars I 445-447);


Se tu darai alcuna cosa alla femina, di ragione ella ti potrae abbando-
nare […]. Ma fa’ che paia che tu sempre le debbi dare: così lo sterile
campo spesse volte ingannoe il suo signore, (Arte Am I 447-450);
Hoc decet uxores; dos est uxoria lites./ Audiat optatos semper amica
sonos, (Ars II 155-156);
Questo si conviene alle mogli, cioè che lite nasca della sua dote; ma tu,
amante, fa’ sì che la tua donna oda sempre quello ch’ella disidera, (Arte
Am II 155-156);
Conueniunt tenues scapulis analeptrides altis;/ Angustum circa fascìa
pectus eat, (Ars III 273-274);
Alle alte spalle si è convenevole sottili vestimenta, chiamate “aneliti-
de”, e intorno de lo stretto petto fa’ che vada una fascia, (Arte Am III
273-274);
Se quoque det populo mulier speciosa uidendam, (Ars III 421);
La bella femina faccia che ella sia veduta dal popolo, (Arte Am III 421-
422).

Registriamo un caso in cui la struttura bifrasale compare in corrispondenza di


un FĂCĔRE con valore effettivo, seguito da complemento predicativo (tuam):
Fac plebem, mihi crede, tuam; sit semper in illa/ Ianitor et thalami qui
iacet ante fores, (Ars II 259-260);
Credi a me: fa’ che la gente minuta sia tua, e sia sempre tra coloro il
portinaio e colui che giace dinanzi alla porta della camera, (Arte Am II
259-260).

Riportiamo infine un passo in cui la presenza di fare + consecutiva in luogo


dell’interrogativa retorica dell’originale manifesta un chiaro intento glossatorio ed
integrativo da parte del traduttore, secondo un procedimento comune ad altri vol-
garizzamenti trecenteschi:

«Effugere hunc non est» quare tibi possit amica / Dicere? non omni
tempore sensus obest, (Ars II 531-532);
Non fare sì che la tua amica possa dire: «Fuggi quinci!». Il senno non
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 59

puote in ogni tempo riparare, (Arte Am II 531-532).


Si è detto che i causativi analitici puri constano di una struttura bifrasale: in que-
sti costrutti l’espressione della causatività è affidata pertanto a due predicati, che ri-
chiedono argomenti separati. Anche per questo riguardo le nostre costruzioni si distin-
guono dai causativi con fare +infinito, in cui il soggetto logico dell’infinito diventa un
argomento, diretto o indiretto a seconda dei casi61, dell’intero complesso verbale.
Di solito, in particolare nel Decameron, il soggetto della principale con fare
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non coincide con quello della subordinata consecutiva:

quelli ch’era di mia condizione, figliuolo di re, e che portava corona di


re, […] per la sua follia avea <sì> fatto che i sudditi suoi l’aveano cac-
ciato, (Nov VIII 25);
Folco e Ughetto […] ogni studio ponevano in far che dal fuoco la
Ninetta dovesse campare, (Dec IV 3 25);
«Deh! vammi per la mia fante e fa sì che ella possa qua su a me veni-
re», (Dec VIII 7 136).

Disponiamo tuttavia di diversi brani in cui la consecutiva e la reggente hanno


lo stesso soggetto: in questi casi fare ha valore perifrastico (Del Corno, 1978); in
tutte le occorrenze inoltre appare all’imperativo o al futuro con valore iussivo, e
riveste una funzione conativa (Serianni 1988: 444):

Disse il monaco: «Di questo ti dovevi tu avvedere mentre che eri di là e


ammendartene; e se egli avvien che tu mai vi torni, fa che tu abbi sì a
mente quello che ti fo or, che tu non sii mai più geloso», (Dec III 8 52);
Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse:
«Prenderai quel cuor di cinghiare e fa che tu ne facci una vivandetta la
migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai, (Dec IV 9 16);
«Adunque» disse Bruno «fa che tu mi rechi un poco di carta non nata
e un vipistrello vivo e tre granella d’incenso, (Dec IX 5 47);
Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò
io il ti dono e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa
notte che viene tutta trapassi. E acciò che questo abbia effetto, farai che

buito ad Andrea Lancia [...]».


60 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

61 Infatti, se l’infinito è intransitivo o se comunque non regge alcun complemento oggetto,


il suo soggetto logico diventa l’oggetto diretto del complesso verbale causativo: Marco esce →
faccio uscire Marco; ma se l’infinito, transitivo, regge un complemento oggetto, il suo sogget-
to logico diventa argomento indiretto dell’unità verbale causativa, e il complemento oggetto
argomento diretto: Lucia canta una canzone → faccio cantare a Lucia una canzone. Ciò acca-
de perché nella proposizione italiana il verbo può avere un solo argomento oggetto diretto, e non
è ammesso il doppio accusativo: *faccio cantare Lucia una canzone.
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61 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

in su la mezzanotte tu venghi alla camera mia, (Dec VII 7 24-25);


Disse il medico: «Non aver pensiero. Io ti farò fare una certa bevanda
[…] e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia savio e più
non incappi in queste sciocchezze, (Dec IX 3 28).

Vorremmo concludere con due osservazioni: sia nell’italiano antico che in


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quello moderno l’ordine “fare che + consecutiva esplicita” è fisso; c’è contiguità
tra fare e il complementatore che. Precisiamo tuttavia che non sono assenti
esempi che presentano vari tipi di inserzioni tra i due membri; nella maggior
parte dei casi, l’elemento che si frappone tra fare e il che è rappresentato da un
avverbio:

La giovane è figliuola di Marin Bolgaro, la cui potenza fa oggi che la


tua signoria non sia cacciata d’Ischia, (Dec V 6 39);
L’abate contentissimo disse: «E noi faremo che egli v’andrà inconta-
nente; farete pure che domane o l’altro dì egli qua con meco se ne
venga a dimorare», (Dec III 8 29);
Allora disse il maestro: «Troppo mi piace ciò che tu ragioni; e se egli
è uomo che si diletti de’ savi uomini e favellami pure un poco, io farò
bene che egli m’andrà sempre cercando, per ciò che io n’ho tanto del
senno, che io ne potrei fornire una città, (Dec VIII 59);
Madonna, io non so come piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la
pure avrem noi: fate adunque che alle vostre bellezze l’opere sien
rispondenti, (Dec VIII C 1).

Talvolta è il pronome personale soggetto della reggente, posposto al verbo


fare, a precedere il che:

Disse allora Bruno: «Sozio, io ti spierò chi ella è; e se ella è la moglie


di Filippo, io acconcerò i fatti tuoi in due parole, per ciò che ella è
molto mia dimestica. Ma come farem noi che Buffalmacco nol sappia?,
(Dec IX 5 18).

Nell’esempio che segue, l’elemento di inserzione è un complemento indiretto:

Due usano insieme: l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro,


avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa,
sopra la quale […] con la moglie dell’un si giace, (Dec VIII 8 rub).

Registriamo infine alcune occorrenze in cui tra fare e il che si frappone un’in-
tera proposizione (un’altra reggente coordinata, in endiadi; un’ipotetica; una tem-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 62

porale):

E però quanto più posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a
fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi
sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole,
(Dec VIII 9 44);
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Facciano gl’iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa
ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me […] adope-
ri, (Dec X 8 41);
Dioneo, questa è quistion da te: e per ciò farai, quando finite fieno le
nostre novelle, che tu sopr’essa dei sentenzia finale, (Dec VI In. 12).
63 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

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SILVIA PIERONI
(Università della Tuscia)

Forme del passivo latino e italiano: identità e differenze funzionali*


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1. Il confronto tra le forme passive latine e gli equivalenti funzionali italiani


mette in luce i problemi di un’analisi che muova dalla considerazione di un rap-
porto biunivoco fra forme e funzioni. La tavola 1 visualizza schematicamente i
punti critici sia delle equivalenze sincroniche che delle corrispondenze diacroni-
che, tramite la distinzione fra strutture passive e inaccusative (in ragione della
rispettiva assenza o presenza, dal punto di vista concettuale, di un soggetto diver-
so da quello finale) e, all’interno di queste ultime, fra strutture con predicato ver-
bale e nominale:

Tabella 1

Trascurando in questa sede la questione delle forme con doppio ausiliare del
passivo composto romanzo (per cui si veda La Fauci 2000c; 2000d), i punti criti-
ci del confronto sono riassunti in (2):

* Sono grata a Nunzio La Fauci non solo per l’ispirazione del lavoro ma anche per l’entu-
siasmo con il quale mi ha segnalato i molti problemi che restano da risolvere. Una precedente
versione di questo lavoro ha inoltre beneficiato della lettura del prof. Riccardo Ambrosini: pur
senza offrire qui una soluzione ai quesiti e alle critiche di specifici punti, desidero ringraziarLo
per avermi indicato, con le sue stesse domande, le direzioni in cui orientare la futura elabora-
zione della ricerca.
68 SILVIA PIERONI

Tabella 2
LATINO ITALIANO
• non corrispondenza fra il tempo dell’ausilia- • corrispondenza fra il tempo dell’ausiliare e il
re e il tempo del nucleo predicativo1 passivo tempo del nucleo predicativo passivo (sono
(laudatus sum perfetto) lodato presente)
• distinzione formale, al perfetto, fra la strut- • coincidenza formale della struttura copula +
tura participio + copula e la struttura passiva participio con la struttura passiva (fui felice
(felix vs. laudatus sum) vs. fui lodato)
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• forma sintetica e analitica del passivo • forma soltanto analitica del passivo

Più o meno esplicitamente, le descrizioni della transizione attualmente disponibi-


li si sono concentrate esattamente su tali questioni, privilegiando tuttavia l’analisi se-
mantica dello slittamento temporale, in particolare per quanto riguarda i correlati
aspettuali. La concettualizzazione della strutturazione morfosintattica non è invece
avanzata di pari passo e la descrizione vulgata continua a soffrire della mancanza di
un quadro formale eventualmente falsificabile del mutamento in questione.
Scopo di questo intervento è tentare un inizio di formalizzazione morfosin-
tattica e sondarne la validità come strumento analitico operativo integrabile nel
quadro tradizionale.

2. Il rapporto non biunivoco fra forme e funzioni può essere colto tramite un
procedimento di scomposizione della struttura passiva basato sull’articolazione in
tratti grammaticali, secondo il modello proposto da La Fauci (2000c), che recu-
pera e convoglia indicazioni suggerite anche in lavori di diversa impostazione teo-
rica (quali Dubinsky e Simango 1996).
Innanzitutto, è necessario sottolineare che l’informazione lessicale e quella
morfosintattica non sono distribuite omogeneamente nel nucleo predicativo, il
quale si compone funzionalmente di:

– una sezione responsabile della legittimazione degli argomenti e rap-


presentata dal participio (dall’ultimo participio nell’ordine lineare,
nel caso che ce ne sia più di uno);
– una sezione di pura operatività morfosintattica in cui non sono legit-
timati nuovi argomenti, rappresentata da una o più forme verbali di
supporto (ausiliari) e in italiano completata da una forma verbale
finita, con la funzione di verificare morfologicamente l’esistenza di
un soggetto finale. La flessione del participio, infatti, al pari di quel-

1 Con ‘nucleo predicativo’ si intendono qui le ‘unioni predicative’ (Davies e Rosen 1988;
Rosen 1997) che contengono un solo predicato con portata argomentale, distinte quindi da quel-
le che ne contengono più di uno (ad esempio, le unioni causative).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 69

la dell’aggettivo, è inadatta a tale verifica, come risulta dall’impos-


sibilità di participi e aggettivi di ricorrere quali unici predicati di una
proposizione 2.

Dal punto di vista diacronico, il quesito specifico da porsi riguarda dunque la


possibilità che, nel mutamento generale del sistema, non solamente gli ausiliari,
ma anche i participi perfetti e quindi le interazioni funzionali fra gli elementi delle
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strutture sintattiche nel loro complesso possano non essere rimasti funzionalmen-
te identici. Il problema teorico generale è evidentemente quello dell’opposizione
fra costrutti con predicazione verbale e costrutti con predicazione non verbale;
tuttavia, la distinzione fra valore verbale e aggettivale del participio non pare sod-
disfacente per cogliere il modo in cui si correlano la disponibilità della forma par-
tecipiale a più interpretazioni e la sua partecipazione a strutture diverse, che, in
diacronia, comporta la sostituzione delle forme sintetiche e analitiche del passivo
latino con le forme soltanto analitiche del passivo italiano (e romanzo).
L’ambiguità categoriale del participio (che ovviamente non riguarda la sola
struttura passiva, per cui una chiara definizione formale del tratto grammaticale
[± passivo] si rende preliminarmente necessaria) e conseguentemente gli aspetti
innovativi del passivo analitico romanzo possono essere articolati in termini
morfosintattici grazie all’individuazione del tratto grammaticale [± flessivo]. I
due tratti in questione sono definiti in La Fauci (2000c: 83) come segue:

– [± passivo] = il settore predicativo del participio contiene ([+ passi-


vo]) oppure non contiene ([– passivo]) la rimozione di un soggetto
iniziale per via dell’avanzamento di un oggetto diretto;
– [± flessivo] = la formazione del participio è un processo morfosin-
tatticamente funzionale localizzato nella struttura proposizionale
([+ flessivo]) oppure un processo morfolessicale esterno alla struttu-
ra proposizionale propriamente detta, perché collocato in un livello
sub- o infrasintattico ([– flessivo]).

In questo quadro, La Fauci propone che la distinzione fra il passivo italiano con
ausiliare essere e quello con ausiliare venire sia formalizzabile come in (3) e (4)3

2 Eccettuali usi ellittici del tipo Bella, la vita di quel tale che saranno qui trascurati.
3 I diagrammi stratigrafici che accompagnano gli esempi devono essere letti dal basso verso l’al-
to: la prima riga corrisponde infatti alla struttura di superficie. Ciò dovrebbe rendere chiaro che le for-
malizzazioni fornite non sono in alcun modo intese in senso derivazionale, ma piuttosto come rap-
presentazioni concettuali delle strutture. Una maggiore suddivisione di livelli non riflette perciò il cor-
relato di possibili ‘movimenti’, ma semplicemente la maggiore complessità strutturale dal punto di
vista morfosintattico. I termini “Carico” e “Neutro” indicano rispettivamente il settore responsabile
dell’assegnazione degli argomenti e quello devoluto all’integrazione delle funzioni morfosintattiche.
I simboli relativi alla struttura argomentale sono quelli della Grammatica Relazionale.
70 SILVIA PIERONI

(2) Andrea è stato lodato dal padre

Tabella 3
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(4) Andrea viene lodato dal padre

Tabella 4

In (3) il participio ([– flessivo]) entra nella struttura proposizionale come


tale e i Settori Neutri sono rappresentati dagli ausiliari. In (4) il primo Settore
Neutro è quello devoluto alla formazione del participio stesso ([+ flessivo]) e
un solo Settore Neutro è rappresentato dall’ausiliare. La positività o meno del
tratto di flessività non caratterizza perciò il participio in quanto tale, ma il par-
ticipio in quanto componente di una struttura predicativa complessa. In altre
parole, l’ambiguità categoriale del participio è risolvibile nel diverso funzio-
namento morfosintattico che esso mostra in strutture morfosintatticamente
diverse.
Diviene così possibile rendere ragione della diversità fra i due costrutti con
essere e venire, e in particolare del diverso numero di elementi ausiliari ammessi
(sono stato lodato ma non *sono venuto lodato), che risulta coerente con i princi-
pi parametrici individuati da La Fauci (2000d: 101) per la ‘gemmazione predica-
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 71

tiva’ delle strutture italiane4, semplificabili ai fini di questo lavoro nelle due restri-
zioni che seguono:

– dopo il Settore Carico di un predicato, non meno di un Settore


Neutro: Andrea è lodato ma *Andrea lodato;
– dopo il Settore Carico di un predicato, non più di due Settori Neutri,
di cui il secondo è sempre quello di un ausiliare (nel senso tecnico
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di predicato che eredita il suo soggetto dal settore predicativo pre-


cedente): è stato lodato ma *è venuto lodato.

Anche senza entrare nel merito della direzione del rapporto causa-effetto fra
la strutturazione morfosintattica e il valore tempo-aspettuale, la concettualizza-
zione formalizzata dei tratti in questione, di per sé non assenti nelle intuizioni
della descrizione vulgata, sembra permetterne l’utilizzo concreto come strumento
per un’analisi strutturale e funzionale che integri adeguatamente l’interpretazione
semantica tradizionale5.

3. Il primo passo dell’analisi diacronica consiste nel supporre che il passivo


analitico latino con sum (nelle forme del perfetto, quindi) sia caratterizzato, diver-
samente da quello italiano, da participio [+ flessivo]. In sostanza, si può proporre
che la struttura di una proposizione come Abs te est Popilia, mater vestra, lauda-
ta sia quella fornita in

(5) Abs te est Popilia, mater vestra, laudata (Cic. de or. 2,44)
“Da te fu lodata Popilia, vostra madre”

Tabella5

4 Tali parametri sono individuati sulla base di campioni che non riguardano le sole struttu-
re verbali, ma anche quelle copulari: Andrea è stato felice ma Andrea è venuto felice.
5 Si vedano le osservazioni di Ambrosini sulla natura di veri e propri passivi delle struttu-
re con venire, non stative, a differenza di quelle con essere (sui casi del tipo mi viene / è venuto
detto, non passivi, si tornerà nella sezione 3.1).
72 SILVIA PIERONI

Il participio latino nella struttura passiva sarebbe cioè il risultato di un pro-


cesso flessivo, esattamente come nel passivo italiano con venio in (4)6, ma diver-
samente da quanto avviene nel passivo con essere in (3). Da questo punto di
vista, la transizione dal passivo latino a quello italiano consisterebbe dunque,
come emerge confrontando (5) e (3), nell’oscuramento di un processo morfosin-
tattico e nella sua elezione a fatto infrasintattico (morfolessicale con terminolo-
gia più tradizionale, riguardante cioè il Settore Carico). A questo stadio del lavo-
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ro, la proposta qui avanzata costituisce un’ipotesi in parte solo speculativa. È


possibile tuttavia verificarne la capacità esplicativa tramite l’analisi dei punti
enucleati in (2).

3.1. L’esame che soggiace alla formalizzazione in (5) comprende gli elemen-
ti concettuali atti a spiegare il valore temporale perfetto del nucleo predicativo
laudata est, sanando l’aporia della forma presente dell’ausiliare. Infatti, essendo
il participio [+ flessivo], la sua formazione morfosintattica è collocata nel primo
Settore Neutro: l’informazione temporale, caratteristicamente una categoria fles-
siva, può essere collocata senza difficoltà in questo preciso settore. (Si confronti-
no le osservazioni sulla primarietà del valore anteriorizzante del participio in
Kurylowicz 1931 e quelle in Pinkster 1987/ 193-194; benché in quest’ultimo caso
le strutture considerate non siano passive 7). Confrontando la struttura con la sua
corrispondente italiana in (3), si nota che anche in quest’ultima l’informazione
temporale è fornita nel primo Settore Neutro, in questo caso il settore predicativo
del participio dell’ausiliare stato: nella struttura italiana, infatti, il processo di for-
mazione del participio è invisibile alla morfosintassi. La ristrutturazione formale
sarebbe così correlata a equivalenza funzionale, ragione profonda della continuità
fra le due strutture.
L’analisi modulare e la risoluzione tramite essa dell’ambiguità del participio
permettono a questo punto il confronto con le strutture in cui la formazione del
participio non avviene a livello morfosintattico, ma morfolessicale. Di fatto,
anche il latino possiede strutture con participi [– flessivi]: è il caso di strutture
come (6) e (7).

(6) Gallia est omnis divisa in partes tres (Caes. Gall. 1,1,1)
“Nel suo complesso, la Gallia è divisa in tre parti”

6 È chiaro che il confronto è unicamente strutturale, senza alcuna implicazione diacro-


nica.
7 Non mi pare del resto che l’analisi di proposizioni con elissi di esse (pure preferenzial-
mente legate a contesti con valore gnomico) si correli necessariamente a un’interpretazione pre-
sente (o stativa; si pensi anche alla possibilità di omissione del verbo finito nel caso di imperso-
nali passivi. Sulle strutture nominali si veda la sezione 4 (es. 17, in particolare).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 73

Tabella 6
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(7) Omnia quae sunt conclusa nunc artibus, dispersa et dissipata quon-
dam fuerunt (Cic. de or. 1,187)
“Tutti gli elementi che ora sono contenuti nelle arti furono un tem-
po senza ordine e correlazione”

Tabella 7

Una descrizione fine di queste strutture è già nelle grammatiche tradiziona-


li (in particolare Juret 1926: 43:44; Ernout-Thomas2: 228-229), che sottolineano
il carattere predicativo del participio e ls funzione «anteriorizzante» del perfetto
di esse in casi come (7).
Mentre per casi come (7) il tempo perfetto dell’ausiliare sum (escluso dal
paradigma del passivo) rivela immediatamente che la struttura è costituita da
copula e participio [– flessivo] piuttosto che da una coniugazione perifrastica, al
presente la coincidenza formale superficiale fra le strutture copulari e quelle pas-
sive ne oscura la diversità strutturale. Una rappresentazione stratificata aiuta in
questo senso a rendere evidente che il caso (8) è una struttura passiva8, a diffe-
renza di (6) che, come (7), è una struttura inaccusativa (ma si veda Vesler 1985,

8 L’esempio (8), come (5) precedente, sono stati scelti per chiarezza anche in quanto impli-
cano un complemento d’agente. Tuttavia, benché il complemento d’agente sembri favorire l’in-
terpretazione +flessiva del participio, non si intende in alcun modo dire che esso sia responsa-
bile della distinzione di funzioni e strutture.
74 SILVIA PIERONI

che preferisce parlare di «passivi non agentivi») come del resto suggerisce l’ordi-
ne lineare, che inserisce omnis fra est e divisa.

(8) Ab eodem rege ... divisa sunt loca (Liv. 1,35,10)


“Dal medesimo re furono suddivisi i luoghi”
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Tabella 8

Una conferma della validità della struttura proposta in (6) è il fatto che all’in-
terpretazione temporale presente si associa un oggetto indiretto piuttosto che un
complemento d’agente. Si confrontino (9) e (10):

(9) nulla tamen vox est ab eis audita populi Romani maiestate et supe-
rioribus victoriis indigna (Caes. Gall. 7,17,3)
“Tuttavia, non fu udita da loro alcuna voce indegna della grandez-
za del popolo romano e delle precedenti vittorie”

Tabella 9

(10) quod nondum auditum Caesari erat (B. Alex. 25,1)


“la qual cosa non era ancora nota a Cesare”
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 75

Tabella 10
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La diversità strutturale di (9) e (10) è in grado di rendere conto sia della


diversa interpretazione temporale (rispettivamente selezionata dal participio o
dall’ausiliare), sia degli altri aspetti semantici che conseguono (è stato udito vs.
è noto).
Il tipo di struttura in (10), eventualmente da confrontare con il tipo italiano Il
tema mi è venuto scritto male (in cui il participio ha chiaro valore non flessivo: La
Fauci 2000c: 91-93), può così essere applicato a una serie di casi la cui struttura-
zione morfosintattica resta altrimenti problematica:

(11) Mihi bibere decretum est aquam (Pl. Aul. 572)


“Sono risoluto a non bere che acqua”
(12) est ambulantibus ad hunc modum sermo ille nobis institutus. (Cic.
Tusc. 2,10)
“Ecco come era iniziato il dibattito fra noi che camminavamo.”

3.2. Se il caso (7) visto in 3.1. è una struttura inaccusativa, sono tuttavia atte-
state in latino strutture che anticipano il passivo romanzo non solo formalmente, ma
anche funzionalmente.
Un caso non ambiguo è:

(13) Cyrene autem condita fuit ab Aristaeo (Iust. 13,7,1)


“Cirene fu fondata da Aristeo”
76 SILVIA PIERONI

La diversità strutturale che intercorre fra le strutture del tipo (7) e quelle del
tipo (13), riconosciuta, come si diceva, nelle grammatiche, non è però in grado da
sola di rendere ragione dei modi del cambiamento intercorso. Lo slittamento
verso il passivo del tipo (13) è tradizionalmente ricondotto alla presenza di un pre-
dicato agentivo (e all’esigenza di marcarne la differenza rispetto a quelli stativi).
Ora, poiché le due strutture costituite da sum + participio (quella inaccusativa
degli esempi 6 e 7 e quella passiva degli esempi 8 e 13) si trovano per tutto l’ar-
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co della latinità con medesimi verbi, come emerge dalla considerazione dei casi
(6)-(12), non è possibile ipotizzare una distribuzione complementare delle strut-
ture riconducibile solo a fatti lessicali. D’altra parte, la coesistenza di due struttu-
re sotto un’apparente equivalenza superficiale (come nei casi latini 6 e 8) non con-
tiene in sé nessuna radice causale per il cambiamento, essendo la biunivocità
forma-funzione una possibilità, favorita dalla facilità e dalla chiarezza, ma non un
critero ineccepibile della lingua. Secondo l’ipotesi qui proposta, in (13) il partici-
pio è il primo elemento predicativo della struttura, esattamente come in (7)
(rispetto al quale la distinzione strutturale riguarda la presenza di un soggetto
diverso da quello finale9). Il perfetto di esse trova così ragione nel fatto che
l’informazione temporale di perfetto non è soddisfatta al livello della formazione
del participio. In questo senso, il processo che da una complesso esse + participio
predicativo porta a una forma perifrasica non è da riportare né solamente alla clas-
se lessicale dei singoli verbi o delle loro singole accezioni, né semplicemente
all’ausiliarizzazione di esse, ma al mutare complesso delle relazioni fra gli ele-
menti (considerando qui principalmente quelli predicativi) della proposizione, che
vedono mutare la scelta dell’ausiliare (da infectum a perfectum) in conseguenza
della diversa interazione funzionale con il participio.

3.3. In 3.1 si è visto che nel passivo analitico latino del tipo (5) l’informa-
zione temporale è collocata nel settore devoluto alla flessione del predicato con
portata argomentale (ossia al livello di formazione del participio); nel passivo
analitico italiano del tipo (3), invece, nel settore predicativo dell’ausiliare (sta-
to). In questo senso, l’equivalenza funzionale dell’ausiliare stato e della flessio-
ne del participio implica che la categoria temporale, al pari di quella diatetica,
sia espressa rispettivamente in modo analitico (in italiano) e in modo sintetico
(in latino). Da ciò risulta che la corrispondenza delle strutture analitiche latine
con quelle romanze è più apparente che reale, in quanto le forme analitiche lati-
ne contengono in ogni caso un grado di flessività e di sinteticità di cui quelle ita-
liane sono prive.

9 In quest’ottica, pur nella diversità delle interazioni funzionali, è ovvia l’analogia con le
coppie costituite da habeo (+ oggetto) + participio predicativo dell’oggetto e le strutture peri-
frastiche anticipatrici del passato prossimo (attivo) romanzo.
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 77

Questa considerazione consente fra l’altro di spiegare la contraddizione che


sembra emergere qualora si confronti la diversa interpretazione temporale della
forma italiana del passivo con venire in (4) e della forma latina del passivo son
sum in (5), che abbiamo rappresentato come strutturalmente identiche. Mentre nel
caso in (5), infatti, la formazione del participio include, sinteticamente e in modo
caratteristicamente flessivo, sia i processi inerenti la categoria diatetica (passiviz-
zazione) che quelli inerenti la categoria temporale (perfettivizzazione)10, in italia-
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no ciò non avviene e la formazione pur morfosintattica del participio, coerente-


mente con il minor grado di flessività della lingua, si presta o alla funzione diate-
tica (così in casi del tipo viene lodato) o a quella temporale (così nei casi attivi e
medi del tipo ha camminato, è giunto), ma non a entrambe contemporaneamente.
D’altra parte, la struttura latina e quella italiana, pur nel differente grado di
sinteticità di cui si è appena detto, finiscono per essere più simili di quanto non
appaiano: un Settore Carico; due Settori Neutri, al primo dei quali è da ricondur-
re l’informazione temporale.
In quest’ottica, un’equivalenza strutturale completa si osserva nel presente,
dove semplicemente si ha un unico Settore neutro (invece di due):

(14) Andrea è lodato dal padre

(15) cum id honestum putent, quod a plerisque laudetur (Cic. Tusc. 2,63)
“ritenendo onorevole ciò che è lodato dai più”

10 Si intende, nelle strutture in questione. È infatti noto che si hanno in latino non solo
stutture in cui il participio non ha valore perfettivo (di cui si è in parte detto), ma parimenti
strutture in cui non hanno valore passivo (con iuratus, cenatus, etc.)
78 SILVIA PIERONI

Diviene in questo modo evidente la corrispondenza funzionale fra la flessio-


ne sintetica latina e quella analitica romanza, connessa al diverso ordine lineare,
che vede l’indicazione morfosintattica spostarsi tendenzialmente a destra e a sini-
stra (si veda, su questo, Rosen 1987).

4. Per questa via, parrebbe quindi di poter sostenere che i principi parametrici
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individuati da La Fauci per l’italiano (non meno di un Settore Neutro, ma non più di
due per ogni struttura) siano gli stessi che valgono per il latino. Un’obiezione a que-
sta affermazione potrebbe venire dalla considerazione della possibilità, in latino a dif-
ferenza che in italiano, delle strutture cosiddette ‘nominali’ del tipo in (16) e (17):

(16) omnia praeclara rara (Cic. Lel. 79)


“tutte le cose nobili sono rare”
(17) ubi id a Caesare negatum (Caes. civ. 1,84,2)
“quando ciò fu negato da Cesare”

Si aprono a questo punto due ipotesi. La prima individuerebbe una differenza


parametrica fra latino e italiano per quanto riguarda il numero dei settori neutri: il
latino ammetterebbe cioè un grado zero di operatività morfosintattica, ossia struttu-
re del tutto prive della sezione neutra. Si tratta però di un’ipotesi che si limita all’os-
servazione superficiale e non considera la presenza di una flessione completa, per
numero, genere e caso: i primi due variabili, a seconda dell’accordo richiesto dal
soggetto; il terzo anch’esso definito sulla base dell’accordo col soggetto, ma in quan-
to tale non variabile e necessariamente nominativo (o accusativo, in caso di accusa-
tivus cum infinitivo). È vero che anche in italiano (e nelle lingue romanze) participi
e aggettivi hanno una flessione: concordano infatti in genere e numero con l’ele-
mento nominale a cui si riferiscono. Tuttavia, la flessione non garantisce loro la pos-
sibilità di ricorrere come unici predicati di una proposizione finita11, per la quale è
necessaria, come si diceva all’inizio, la verifica morfologica del soggetto. Si può
allora riconoscere al caso nominativo latino (o l’accusativo nell’accusativus cum
infinitivo) questa precisa funzione: si tratta di ammettere, in considerazione delle
relazioni funzionali, che la verifica morfologica del soggetto possa avvenire non solo
tramite la morfologia verbale, ma anche tramite quella nominale. In latino, insom-
ma, la concordanza del predicato nominale con il soggetto può (può, non deve) esse-
re il sostituto funzionale della desinenza di una forma verbale finita12. I fenomeni di

11 Almeno per quanto riguarda la proposizione indipendente dichiarativa non marcata,


come si diceva alla nota 2.
12 Non si tratta, d’altronde, di una sostituzione meccanica, come dimosta il fatto che inter-
linguisticamente non basta la presenza di morfologia casuale a garantire la possibilità di struttu-
re ‘nominali’ (prive cioè di una forma verbale finita).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 79

accordo con il soggetto (tramite il caso nominativo o tramite la desinenza di per-


sona) vedrebbero così reintegrata un’unitarietà funzionale altrimenti sfuggente.

5. In chiusura, qualche osservazione sulle strutture deponenti. In base a quanto si


è detto, la struttura di una proposizione come Caesar profectus est è quella in (18):
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(18) (Caesar) in Transalpinam Galliam profectus est (Caes. Gall. 7,6,1)


“Cesare partì per la Gallia Transalpina”
La differenza con il perfetto passivo consiste, naturalmente, nel tratto diateti-

co (nell’impossibilità, cioè, di essere accompagnato da un complemento d’agen-


te, essendo il verbo intransitivo13). Nessuna differenza per quanto riguarda il trat-
to [ flessivo], positivo nel medio come nel passivo: lo dimostra il valore tempo-
rale, questa volta conservato nelle strutture medie italiane del tipo è giunto.
Nella struttura deponente, la presenza di un oggetto indiretto non si correla
perciò a una differenza temporale, come avveniva nel caso dell’es. (10): visum est
a me o visum est mihi si distinguono puramente per la diatesi, come risulta dagli
esempi (19) e (20), rispettivamente passivo e medio, e entrambi perfetti. Il valore
non perfettivo si ha, come è logico, solo col tema del presente, come in (21).
(19) nec prius ab hoste est visus quam loco quem petebat appropin-
quavit (Liv. 7,34,7)
“e non fu visto dal nemico prima di essersi avvicinato al luogo che
desiderava raggiungere”
(20) Haec cogitanti accidere visa est facultas bene rei gerendae (Caes.
Gall. 7,44,1)
“A lui che rifletteva su queste cose sembrò offrirsi una possibilità
di azione”

13 Lasciando qui da parte i casi dei cosiddetti ‘deponenti transitivi’, che ci porterebbe trop-
po lontano dall’obiettivo prefisso.
80 SILVIA PIERONI

(21) Ac nonnullae eius rei praetermissae occasiones Caesari videban-


tur (Caes. civ. 3,25,1)
“Ma a Cesare sembrava che alcune opportunità fossero state tra-
scurate”

Anche fra le strutture deponenti, non sembrano mancare, d’altra parte, casi
[– flessivi]: così possono essere considerati i noti casi di perfetti con valore di pre-
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sente, individuati nelle grammatiche tradizionali nei participi come usus, com-
plexus, gavisus (Ambrosini 2001: 177):

(22) Quos sibi Caesar oblatos gavisus, illos retineri iussit (Caes. Gall.
4,13,6)
“Cesare, lieto che essi gli fossero stati offerti, ordinò di trattenerli”

D’altra parte, la stessa perdita di capacità sintetica che nel presente passivo
porta alla rideterminazione tramite mezzi analitici (ess. 14 e 15) è forse alla radi-
ce della convergenza del deponente con l’attivo, nell’ambito della quale potrebbe
essere utile riconsiderare le cosiddette ‘intransitivizzazioni’ attestate nell’intero
arco della latinità, ma sempre più frequenti in tardo latino (si veda Flobert 1975:
568-571; Feltenius 1977; Cennamo 2001), quali rappresentate dalla proposizione
con adsiccaverit in (23):

(23) ... donec adsiccetur totus humor ... Quod cum adsiccaverit ...
(Chiron 476)
“finché tutto l’umore non si secchi ... e una volta che sia seccato ...”

Si comprenderebbe così il motivo per cui le strutture intransitive (risultato di


intransitivizzazione) sono spesso caratterizzate (a detta del Feltenius nel 70% dei
casi) dalla presenza di una controparte riflessiva o mediopassiva, anche nel mede-
simo testo, come si vede nell’esempio che precede.
Si tratta anche in questo caso di riconoscere nella transizione latino-romanza
una superficializzazione nella segnalazione delle relazioni morfosintattiche, che
finiscono per non distinguere (nelle forme semplici delle strutture inaccusative,
delle strutture inaccusative, delle strutture cioè che non conoscono soggetti diver-
si da quello finale) fra i soggetti finali che sono anche soggetti iniziali e quelli che
non lo sono, salvo poi recuperare la distinzione (nelle forme composte) tramite la
selezione di un diverso ausiliare, ancora una volta quindi con mezzi analitici (La
Fauci 1992: 218). La presenza di una diatesi scissa fra forme dell’infectum e del
perfectum è, d’altra parte, fatto anche latino, come testimoniano i cosiddetti
‘semideponenti’ del tipo di soleo, solitus sum (su cui si veda Ambrosini 2001:
178-179), ai quali potrebbero essere raffrontati, pur in via del tutto speculativa, gli
usi di alcune strutture inaccusative formate da participio (aggettivo) + sum, fun-
zionalmente equivalenti a perfetti attivi (Tuttle 1986: 250-251), come in
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 81

(24) quia sciret aquam nigram esset, unde illa (scil. nix) concreta esset
(Cic. ac. 2, 100)
“poiché sapeva che l’acqua, da cui quella (scil. la neve) si era soli-
dificata, era nera”

6. Riassumendo: un’analisi funzionale articolata in tratti grammaticali di for-


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me e categorie implicate nel passivo latino e italiano sembra permettere, almeno


in nuce, una descrizione morfosintattica non solo integrabile nei resoconti seman-
tici e aspettuali della transizione, ma anche dotata di una propria capacità espli-
cativa.
La proposizione con passivo composto latino (da distinguere tramite precise
differenze strutturali dalle proposizioni inaccusative) si presta a una definizione
sulla base del tratto [+ flessivo] del participio, che la oppone alla proposizione pas-
siva italiana (con essere). Il cambiamento strutturale qui semplificato supponendo
l’inversione da positivo a negativo di tale tratto crea il presupposto della necessità,
in italiano, di marcare la categoria temporale sull’ausiliare, spiegando, in ultima
analisi, i modi dello ‘slittamento’ dei tempi, che semanticamente si correla alla rein-
terpretazione stativa del perfetto passivo latino. Che la flessività del participio lati-
no in tali strutture sia la ragione morfosintattica del suo valore di perfectum impli-
ca d’altronde che la categoria temporale sia in latino pienamente flessiva, ossia
espressa sinteticamente.
La considerazione dell’opposizione sintetico versus analitico e della transi-
zione dall’uno all’altro stato tipologico acquista così una concretezza operativa,
visibile e verificabile. Ad esempio, anche le forme analitiche del perfetto passivo
latino svelano in questo modo un grado di sinteticità di cui l’italiano è privo. In
altre parole, l’intera coniugazione verbale latina (e non solo le forme semplici) ha
ceduto la sua capacità flessiva e sintetica, al pari di quanto è avvenuto nella decli-
nazione nominale.
Anche quanto a quest’ultima, del resto, la perdita di sinteticità (nella fattispe-
cie, del caso) ha implicazioni più profonde sulla struttura della proposizione di
quanto non si tenda a riconoscere: in particolare, l’accordo al nominativo fra sog-
getto e predicato nominale in proposizioni prive di una forma finita del verbo
(ammesse in latino a differenza che in italiano) risulta l’equivalente funzionale
della desinenza di persona e, in quanto tale, capace di per sé di verificare morfo-
logicamente il soggetto.
La ragione ultima di questa serie di cambiamenti interrelati trova la sua veri-
dicità tipologica nell’individuazione delle condizioni di oscuramento dei proces-
si morfosintattici (in particolare, della formazione del participio, ma così delle
altre desinenze verbali e, ugualmente, della desinenza casuale) che innescano la
necessità di una nuova marcatura, secondo un diffuso processo di assorbimento
della morfosintassi nella morfologia lessicale e un conseguente rinnovamento
morfosintattico.
82 SILVIA PIERONI

In questo modo, diviene possibile comprendere la continuità funzionale


profonda che soggiace alla ristrutturazione formale evidente. Diviene inoltre pos-
sibile inserire nello stesso quadro fenomeni in genere studiati indipendentemente,
quali il prevalere delle forme attive (intransitive) sulle corrispondenti medie nelle
fasi tarde del latino, riscoprendo infine la comunanza di processi funzionali non
solo in stadi diacronici diversi, ma anche nell’evoluzione diacronica di strutture
distinte.
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FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 83

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84 SILVIA PIERONI

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ALVARO ROCCHETTI
(Université de la Sorbonne Nouvelle – Paris 3)

Il condizionale in italiano e nelle lingue romanze:


“Mi disse che sarebbe venuto/me dijo que vendría/il m’a dit qu’il viendrait”
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Lo spunto per questa communicazione mi è venuto dalle belle pagine che il


Prof. Maiden ha dedicate all’evoluzione del condizionale nel suo volume sulla
“Storia linguistica dell’italiano”. Si sa in effetti che, per questo tempo verbale ine-
sistente all’epoca del latino ma presente oggi nelle principali lingue romanze, l’i-
taliano antico offriva tre costruzioni tra le quali ha esitato per molti secoli: dap-
prima una forma verbale ereditata dal piuccheperfetto dell’indicativo. La trovia-
mo ad esempio nei primi testi della poesia siciliana come il Contrasto di Cielo
d’Alcamo: cantara [< cantavera(m/t)], amara [< amavera(m/t)], fora [< fuerat],
ecc., tutte forme che sussistono nello spagnolo moderno: quisiera (= ‘vorrei’),
hubiera (= ‘avrei’). La seconda costruzione è quella che è stata scelta dal france-
se, dallo spagnolo e dal portoghese. Si tratta dell’infinito seguito dall’ausiliare
avere coniugato all’imperfetto: cantarìa [< cantare + habeba(m/t)], sarìa (fr.
chanterait, serait; sp. cantaría, sería). La terza costruzione – tipica dell’italiano –
è originale rispetto alla altre lingue ed è basata sull’infinito seguito dall’ausiliare
avere coniugato non più all’imperfetto, ma al passato remoto: canterebbe [< can-
tare + ebbe, con una modifica (a > e) della vocale accentata dell’infinito diventa-
ta atona nel condizionale], sarebbe. Maiden spiega che la scelta definitiva di que-
st’ultima forma è avvenuta attorno al 1650. È un’osservazione interessante, ma
rimane una costatazione che, a sua volta, pone il problema delle cause dell’evo-
luzione: infatti, le ragioni della scelta sfuggono. Il nostro intento, in questo con-
tributo, è appunto di cercare di capire perché l’italiano, dopo aver esplorato la
stessa strada del francese, dello spagnolo e del portoghese, si è orientato diversa-
mente, preferendo una soluzione originale, non contemplata dalle altre lingue
romanze. Faremo un accenno anche a un’altra evoluzione originale verso il con-
dizionale: quella messa in atto nella lingua rumena.

Per capire le cause, le condizioni e le conseguenze di questa scelta nella sto-


ria linguistica dell’italiano, dobbiamo rivolgerci a un tipo di linguistica che non
guarda solo i fatti, ma risale alle strutture mentali che li condizionano: ed è appun-
to quello che ci permette di fare la linguistica operativa, che studia le operazioni
necessarie all’attività linguistica. Questa linguistica chiamata anche Linguistica
teorica, psicosistematica o psicomeccanica del linguaggio, è stata proposta dal
linguista francese Gustave Guillaume scomparso nel 1960.
86 ALVARO ROCCHETTI

Essa si basa sul concetto di “tempo operativo”, un tempo che funge da sup-
porto alle operazioni mentali e può essere percepito dalla coscienza del locutore
(come, ad esempio, durante la costruzione della frase che inizia, si svolge e si con-
clude) o non essere percepito (come nell’opposizione tra articolo definito e arti-
colo indefinito). La non percezione non è un criterio valido per rifiutare l’esisten-
za di un tempo operativo come possiamo osservare con il computer che può dare
una risposta immediata ad una pressione su un tasto oppure richiedere un tempo
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più o meno lungo, mentre sappiamo che, in un caso come nell’altro, una serie di
operazioni – più o meno complesse – si sono svolte tra la pressione sul tasto e
l’apparizione del risultato finale sullo schermo. Queste operazioni si susseguono
talvolta così rapidamente che la nostra coscienza non riesce a registrare il tempo
impiegato. Eppure il risultato apparso sullo schermo ci dimostra che, in uno spa-
zio di tempo impercettibile per la nostra coscienza, possono svolgersi centinaia,
migliaia e perfino milioni di operazioni.
Il tempo durante il quale si sono svolte queste operazioni ha una caratteristi-
ca costante: è sempre progressivo, va sempre nella stessa direzione, aggiungendo
nuovi risultati a quelli già acquisiti. Non torna mai indietro e se il programmato-
re vuol cancellare un risultato, deve fare una programmazione “ulteriore” – quin-
di inserirsi nel tempo operativo successivo al risultato, poiché evidentemente non
può cancellare un risultato ancora... “inesistente”. Succede la stessa cosa per le
operazioni mentali: un’operazione può sempre essere sospesa prima che arrivi al
termine, ma quando vi è giunta non può più essere cancellata. Ad esempio, se
accettiamo come normale la successione: “ho visto un uomo entrare nel negozio;
l’uomo si è diretto verso la cassa...” quando si tratta dello stesso uomo e invece
come anormale la successione inversa: “ho visto l’uomo entrare nel negozio; un
uomo si è diretto verso la cassa...”, è perché l’articolo indefinito è concepito in un
primo momento e l’articolo definito in un secondo momento. Si passa infatti nor-
malmente, senza cambiare concetto, sull’asse del tempo operativo, da un’opera-
zione parziale (un uomo) a un’operazione completa (un uomo =>l’uomo), men-
tre il passaggio da un’operazione completa a una parziale implica una rottura, un
cambiamento di oggetto: non si tratta dello stesso concetto di ‘uomo’ (l’uomo ≠>
un uomo).

Gli altri postulati della linguistica operativa sono tutti legati al tempo opera-
tivo. Si tratta dell’orientamento ineluttabilmente progressivo del tempo (“non si
torna mai indietro!”), della possibilità di intercettare ogni movimento, come nel
caso del congiuntivo che è un’intercettazione del movimento che porta all’indica-
tivo, esattamente come una decisione virtualmente presa è l’anticipazione di una
decisione realmente presa. In questa prospettiva, l’opposizione saussuriana della
lingua e della parola diventa, come nella linguistica chomskyana, l’opposizione
tra una competenza (acquisita anteriormente e che viene chiamata “la lingua”) e
una “performance” concepita come un “discorso” (orale o scritto) che sfrutta
momentaneamente questa competenza. Nello stesso modo, l’opposizione tra dia-
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 87

cronia e sincronia è da rianalizzare: si tratta solo di un problema di prospettiva


poiché la sincronia è sempre il risultato della diacronia. Saussure ha voluto iden-
tificare la linguistica sincronica con la parola, mentre per Gustave Guillaume essa
studia i sistemi linguistici che ci permettono di parlare, quelli appunto che la dia-
cronia ha elaborato durante i millenni, i secoli, gli anni precedenti. Gustave
Guillaume concepisce la parola come la messa in opera dei meccanismi linguisti-
ci acquisiti. La sua linguistica si accentra dunque sulla transizione dalla lingua al
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discorso. Non possono dunque esistere contrasti tra diacronia e sincronia, ma solo
continuità. Per questa ragione vedremo, nel caso che c’interessa, che il problema
sincronico dell’uso del condizionale trova la sua spiegazione nell’evoluzione dia-
cronica.

Nell’indo europeo tutto il campo del tempo futuro era coperto dal congiunti-
vo. Mentre il passato, nel latino classico, presenta forme che risalgono all’in-
doeuropeo (come il perfectum) o sono una creazione più recente ma già ben
affermate nel latino preclassico (come l’imperfetto), l’espressione del futuro
rimane ancora legata al modo congiuntivo. Questa situazione sopravvive ancora
nelle lingue romanze poiché i tempi del passato (imperfetto e perfectum) si sono
per lo più conservati mentre i tempi del futuro sono presenti in forme ricostruite.
Visto nella prospettiva delle future lingue romanze, il latino classico presenta
abbozzi di futuro validi solo per alcuni gruppi di verbi (quelli in -are e in -ere:
amabo, monebo) mentre per gli altri usa forme derivate dal congiuntivo: dicam,
faxo, fiam, ecc. Il futuro, nelle lingue romanze, sarà ristrutturato con la creazione
di forme valide per tutti i verbi, composte con l’infinito al quale si aggiunge l’au-
siliare avere al presente: amare+ho = amerò.
È interessante soffermarci un momento su questa tappa dell’evoluzione per
capire qual è il sistema dal quale si esce (quello del latino classico) e qual è il
sistema nel quale si entra (quello delle lingue romanze). Il latino classico ha ten-
tato di generalizzare, al presente dell’indicativo, un sistema a tre livelli con l’in-
coativo -sc- (amasco), il presente (amo) e il perfectum -v- (amavi). Ma l’incoati-
vo ha avuto un’estensione limitata perché il momento iniziale di un processo non
è sempre facile da cogliere né interessante da rappresentare: se “comincio ad
arrabbiarmi” (irasco) o “comincio a finire” (finisco) sono momenti da cogliere,
molti altri inizi non presentano alcun interesse (ad esempio: “cominciare a canta-
re - *cantasco -, cominciare a sentire - *sentisco -, a ricordarsi, a... cominciare,
ecc.). Per questa impossibile generalizzazione, l’opposizione morfologica si è
presto limitata all’infectum e al perfectum, cioè a due livelli.
Possiamo rappresentare il modo indicativo del latino classico con il seguente
schema:
88 ALVARO ROCCHETTI

Figura 1
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Come si può osservare, si tratta di un sistema molto equilibrato nel quale ogni
tempo dell’infectum ha un suo corrispondente al livello del perfectum. Questo secon-
do livello è segnalato con l’infisso –v– che è invece assente al primo livello e verrà
sostituito nelle lingue romanze dalle forme composte con l’ausiliare: avevo amato –
ho amato – avrò amato. Tuttavia, malgrado la sua solida costituzione, questo sistema
ha un difetto che darà lo spunto per l’evoluzione futura. Infatti la forma amavi, da per-
fectum del presente che era all’origine, è scivolata, con il passar del tempo, verso il
passato ed ha acquistato anche il valore di passato più o meno remoto, senza però per-
dere, nel latino classico, il suo valore di perfectum del presente: si può dire “dixi” (=
ho finito di dire, ‘ho detto’), ma anche usare “dixi” come l’italiano “dissi” per un’a-
zione passata da molto tempo, che non ha più nessuna relazione con il presente.
Uno schema più rappresentativo della realtà dovrebbe quindi introdurre nel
passato il perfectum amavi. In questo caso, lo schema diventa:

Figura 2
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 89

Se escludiamo da questo schema le forme verbali (amaveram e amavero) che


saranno presto sostituite dalle forme composte con l’ausiliare e il participio passa-
to per indicare non più il perfectum ma l’anteriorità rispetto ad un’altra azione (es.:
avevo finito prima che partisse; quando saremo usciti dal cinema, andremo a pren-
dere una bibita al bar), lo schema si riduce alle forme verbali fondamentali:

Figura 3
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Ci si rende conto così che il sistema che si sta preparando è squilibrato, poiché pos-
siede due tempi nel passato (uno in corso – l’imperfetto –, l’altro visto globalmente –
il passato remoto –), due tempi anche nel presente (uno in corso – il presente –, l’altro
giunto al termine – il perfectum –), ma nel futuro presenta un solo tempo per rappre-
sentare l’azione in corso. Manca la rappresentazione di un’azione futura vista global-
mente, espressa dal passato remoto nel passato e dal perfectum nel presente. Il sistema
che erediteranno le lingue romanze è dunque rappresentabile con lo schema seguente:

Figura 4
90 ALVARO ROCCHETTI

Questa rappresentazione evidenzia lo squilibrio fondamentale tra il passato –


già molto simile a quello delle lingue romanze, nonostante la forma di perfectum
copra tre funzioni: quella di perfectum del presente (≈ ho amato), quella di pas-
sato più o meno remoto (≈ amai) e quella di passato anteriore (≈ ebbi amato) – e
il futuro. Questo squilibrio sarà avvertito in tutte le lingue romanze le quali met-
teranno in atto diverse strategie per colmare la lacuna evidente nel futuro.
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La prima occasione si presenta al momento in cui il futuro viene sostituito da una


forma analittica (infinito + presente dell’ausiliare avere). Questa ristrutturazione dà la
possibilità di introdurre anche nel futuro un’opposizione tra un’azione vista dall’inter-
no, nel suo svolgimento, e un’azione vista globalmente, sul modello di ciò che è avve-
nuto nel passato. Infatti è possibile costruire, accanto a questo nuovo futuro un altro
tempo usando sempre l’infinito ma completandolo con l’ausiliare avere coniugato,
non più al presente, ma a uno dei due tempi del passato: sia l’imperfetto, sia il perfet-
to. Tutte le lingue romanze sapranno cogliere quest’occasione, anche se il romeno,
separato fin dal 270 dalle altre lingue romanze, dovrà trovare una via un po’ diversa.
Per l’italiano e le lingue romanze occidentali, due sono le possibilità che si
presentano:
1) se accanto al nuovo futuro delle lingue romanze si accosta un tempo
formato con l’imperfetto, cioè costruito per esprimere un’azione in
corso, vorrà dire che il futuro sarà portato a esprimere l’altra visio-

Figura 5
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 91

ne, quella globale, e avremo l’opposizione delle lingue romanze


occidentali: j’aimerais (azione incipiente)/j’aimerai (azione vista
globalmente) per il francese; cantaría / cantaré per lo spagnolo. Ad
esempio, nel caso del francese, la ristrutturazione dell’indicativo
può essere rappresentata come nella figura 5;
2) se invece si accosta al futuro un tempo formato con l’ausiliare al
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passato remoto (per esprimere un’azione vista globalmente), vorrà


dire che il futuro esprimerà l’azione in corso e avremo l’opposizio-
ne dell’italiano: amerò (azione in corso nel futuro)/amerei (azione
globalmente futura). In questo caso, la rappresentazione dell’indica-
tivo diventa:

Figura 6

Le conseguenze di questa scelta saranno notevoli e avranno un influsso deci-


sivo, in particolare sulla sintassi del verbo: nel primo caso – quello scelto dalle
lingue romanze occidentali –, il futuro deve subire un’evoluzione che lo porta da
una posizione d’infectum (che aveva nel latino) a una nuova posizione, di tipo
perfectum, che corrisponde, nel futuro, a quella assunta dal passato remoto nel
passato. In questo caso non sarà più in grado di esprimere l’ipotesi poiché essa
richiede un’azione incipiente. Per questa ragione, lo spagnolo e il francese non
possono usare il futuro in una frase ipotetica anche se l’azione è esplicitamente
92 ALVARO ROCCHETTI

situata nel futuro: se verrò a casa tua domani, ti porterò un regalo non può tradur-
si in francese con *si je viendrai chez toi demain..., né in spagnolo con *Si iré maña-
na a tu casa... Si devono usare tempi che possano lasciare una parte dell’azione
ancora da compiere, come il presente: “si je viens chez toi demain”/”si voy maña-
na a tu casa”, o l’imperfetto “si je venais chez toi demain” oppure, come fa il por-
toghese, il futuro del congiuntivo. Quando, in queste lingue, il futuro è usato dopo
“se”, non esprime un’ipotesi, ma un’azione già decisa, programmate nel futuro.
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Ecco due esempi in francese contemporaneo di uso del futuro dopo si (Le
Monde, 2 maggio 1998, pag. 3, in un article intitolato Même sans pièces ni billets,
l’euro pour tous en 1999, col. 1-4, di Henri de Bresson e Sophie Faye):

“Le basculement des opérations interbancaires et des avoirs des Etats


en euros, le 1er janvier 1999, ne va pas susciter de révolution dans les
foyers. Le premier signe tangible du changement pour le public va être
l’ouverture de la Bourse du lundi 4. De ce jour-là, dans les onze pays
euro, les cotations ne seront plus faites dans les monnaies nationales,
mais dans la monnaie européenne. Les petits détenteurs de titres peu-
vent toutefois se rassurer. Si les coupons des sicav se calculeront en
euros, ils afficheront aussi la contre-valeur en francs.” (col. 1-2)
“Pour les salariés, le changement ne sera pas immédiatement visible.
La feuille de paie restera libellée en francs, même si progressivement
les entreprises ou les administrations devraient inscrire la contre-valeur
en euros. [...] Il en sera de même pour les relevés bancaires. S’il fau-
dra attendre 2002 pour régler en euros sa tournée au bistrot, rien
n’interdira dès 1999 de demander un carnet de chèques dans la
monnaie européenne.” (col. 2-3)

Sempre nel giornale Le Monde del 6 febbraio 1999 (p. 3, col. 6) ma sotto la
penna di un altro giornalista, Michel Bôle-Richard, in un articolo che riguarda
l’Italia: “L’Italie rejette les critiques de Bruxelles sur son insuffisante rigueur
budgétaire”:

“Ce qui inquiète Yves-Thibault de Silguy [commissario europeo per gli


affari economici e monetari] est l’année en cours et tout particulière-
ment les prévisions de croissance de 2,5% qui lui semblent ambitieu-
ses et qu’il faudra sans doute réduire. Ce qui implique un nouveau cor-
rectif budgétaire qui a été évalué à 7000 ou 8000 milliards de lires
(entre 3,5 et 4 milliards d’euros). Cette perspective a immédiatement
été rejetée par Massimo D’Alema qui a exclu toutes mesures d’ajuste-
ment, tandis que Carlo Azeglio Ciampi, ministre du Trésor, a expliqué
à Yves-Thibault de Silguy que, si la croissance sera vraisemblable-
ment inférieure à ce qui avait été prévu (2% ou peut-être moins), il
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 93

ne sera pas pour autant nécessaire de procéder à de nouvelles cou-


pes pour respecter le taux de déficit public fixé à 2% par rapport au
PIB”.

Ultimo esempio sentito alla televisione su FR3 il 30/12/00:

“Dès le 1er janvier prochain, les boutiques se mettent à l’heure de


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l’EURO. Si on ne pourra payer en billets qu’à partir de 2002, les


étalages affichent déjà les prix dans la nouvelle monnaie”

In tutti i casi, il verbo che segue la particella ipotetica “si” indica un’azione
ammessa da tutti. Nel terzo esempio, l’avverbio “vraisemblablement” interviene
appunto per evitare che si possa interpretare la proposizione “si la croissance sera
(...) inférieure à ce qui avait été prévu” come una mera ipotesi, mentre per il mini-
stro del tesoro italiano si tratta di ammettere le previsioni del Commissario euro-
peo Yves-Thibault de Silguy. L’insieme della proposizione equivale a: “anche se
(= ammesso che) la crescita sarà (sia) inferiore a quanto previsto, non sarà neces-
sario tuttavia procedere a nuovi tagli”.

Come si vede, il sistema adottato dalle lingue romanze occidentali, con un


condizionale che è solo un abbozzo di futuro e un tempo futuro ormai diventato
un “perfectum” di futuro, ha la conseguenza paradossale di impedire l’uso del
futuro per fare un’ipotesi che, nella maggior parte dei casi, si svolgerà nel...
futuro!

Ma la soluzione ritenuta dall’italiano ha anche essa le sue restrizioni. Vedia-


mo quali sono.

Mentre le lingue occidentali sembrano non aver avuto nessuna esitazione


nello scegliere il primo tipo di opposizione (il condizionale in posizione incipien-
te e il futuro visto globalmente), l’italiano ha conservato per alcuni secoli le due
possibilità. Ognuna di loro aveva infatti vantaggi e inconvenienti propri. Abbiamo
visto quelli della soluzione “occidentale”. L’adozione di un condizionale del tipo
“perfectum” del futuro ha il vantaggio di corrispondere esattamente al valore che
si può prevedere per un “condizionale”, cioè per un avvenimento “irreale” situa-
to nel presente (ad es. “vorrei ma non posso”) o nel futuro (“se tu venissi doma-
ni, ti darei...”). Ogni azione espressa dal futuro è sempre, più o meno, un’azione
incerta: “saranno le due” equivale a ‘sono forse (circa, probabilmente...) le due’.
Concepire il condizionale come “un perfectum di futuro” vuol dire quest’incer-
tezza al suo massimo grado, fino a esprimere una mera ipotesi, un’azione perfet-
tamente irreale. Tale procedimento ha permesso di non trasformare il futuro ere-
ditato dal latino, conservandolo per l’espressione dell’ipotesi, tanto nella protasi
quanto nell’apodosi: “se verrai domani, ti darò...”.
94 ALVARO ROCCHETTI

Ma, quando si tratta di esprimere il futuro nel passato, il condizionale italia-


no non è uno strumento adeguato. Se funziona perfettamente come “perfectum”
di futuro finché l’azione è posta nel futuro o nel presente, è inadeguato per l’uso
nel passato. Infatti, mentre l’azione “perfettamente” passata è espressa in modo
adeguato dal perfectum del passato, l’introduzione di un “perfectum di futuro” nel
passato non permette di esprimere correttamente il “futuro nel passato”. In questo
caso, l’azione espressa dal futuro nel passato può certo rimanere “futura”, ma può
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anche essersi realizzata prima del momento dell’elocuzione, il che non è mai il
caso per un “perfectum di futuro”. Per questo motivo, l’italiano ha conservato fino
alla metà del seicento l’altra costruzione (quella della Romania occidentale) che
gli ha permesso di compensare alcune insufficienze del suo condizionale “perfec-
tum di futuro”. Finché non ha trovato la soluzione.
Infatti, attorno al 1650, s’impone una nuova struttura: poiché il condizionale
non può agevolmente entrare nel passato, si divide il “futuro nel passato” in due
parti, attribuendo l’espressione del passato alla forma composta del verbo (e non
più alla forma semplice: essere venuto invece di venire) e mantenendo il condi-
zionale solo per l’espressione del futuro. Una volta trovata la costruzione del tipo
mi disse che sarebbe venuto per esprimere il futuro nel passato, in opposizione
alla costruzione ipotetica “mi disse che sarebbe venuto se...” usata dalla maggior
parte delle altre lingue romanze, l’uso del condizionale con la desinenza dell’im-
perfetto poteva sparire. Infatti, a partire da quel momento, sarìa, avrìa, potrìa,
vorrìa, ecc. escono a poco a poco dall’uso e il condizionale composto s’impone
per l’espressione del futuro nel passato, come si era già imposto il condizionale
semplice – basato sull’infinito + il perfectum dell’ausiliare avere – per l’azione
irreale nel presente e nel futuro.
Resta ancora da capire la terza forma presente nell’italiano antico, quella
venuta dal piuccheperfetto indicativo amaveram. Questa forma si spiega abba-
stanza facilmente: dopo la creazione del nuovo piuccheperfetto delle lingue
romanze, con l’ausiliare all’imperfetto + il participio passato – avevo amato –, la
forma latina amaveram ha perso l’infisso -v-, come amavi (> amai) e la maggior
parte delle forme del perfectum (amavissem --> amassem --> amasse --> amas-
si). Si arriva così alla forma del condizionale di Cielo d’Alcamo: amara, canta-
ra, ecc. Ma l’evoluzione del significato – dal piuccheperfetto dell’indicativo al
condizionale – richiede qualche chiarimento. Se infatti partiamo da un significa-
to vicino a “avevo amato” non è facile arrivare al condizionale italiano “amerei”.
Dobbiamo quindi analizzare meglio la sua funzione: il piuccheperfetto era legato
all’imperfetto a cui serviva, come indica il nome, da perfectum, cioè portava “fino
alla perfezione” l’azione dell’imperfetto. Siamo dunque rimandati al significato
dell’imperfetto. Si tratta di un tempo che presenta l’azione in parte realizzata e in
parte da realizzare, in legame con un’altra azione che interviene nel corso della
realizzazione: es. quando uscii, pioveva
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 95

Quando uscii
|
|<–––––––v. . . . . . . . . . . . . . . . >|
pioveva

Rendere quest’azione “perfetta” come fa il “perfectum” può dunque voler


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dire due cose opposte: o è resa “perfetta” la parte dell’azione già realizzata – e in
questo caso ci si trova con un’azione interamente compiuta – o è resa “perfetta”
la parte ancora da realizzare – e in questo caso ci si trova con un’azione intera-
mente da realizzare –. Questo meccanismo permette di capire perché il piucche-
perfetto latino poteva avere due significati opposti: fuerat = 1) era stato; 2) sareb-
be stato.

Figura 7

Ora, quando il piuccheperfetto latino amaveram è stato sostituito dal nuovo


piuccheperfetto delle lingue romanze avevo amato, la sostituzione non è stata
completa: avevo amato ha sostituito amaveram solo per l’espressione del per-
fectum della parte realizzata. Ha quindi lasciato la stessa forma disponibile per
esprimere il perfectum della parte non ancora realizzata. E quest’azione “intera-
mente da realizzare”, che cos’è? se non un condizionale, cioè un’azione poten-
ziale eventualmente dipendente da una condizione. In questo modo si capisce
come l’italiano e lo spagnolo abbiano sfruttato questa forma per l’espressione del
condizionale: cantara (= ‘canterei’) per Cielo d’Alcamo e hubiera (= ‘avrei’) per
lo spagnolo contemporaneo non sono altro che la sopravvivenza dell’antico piuc-
cheperfetto latino “imperfettamente” sostituito dal piuccheperfetto romanzo. Ma
lo spagnolo ha, per lo più, usato questa forma in -ra per un nuovo tempo impro-
priamente chiamato “imperfetto del congiuntivo” trattandosi di un congiuntivo
perfetto, tanto per la sua origine quanto per il suo significato.
96 ALVARO ROCCHETTI

Si noterà che lo stesso tipo di evoluzione permette di capire la trasformazio-


ne del piuccheperfetto del congiuntivo amavissem in amassi – congiuntivo per-
fetto anch’esso, impropriamente chiamato “imperfetto del congiuntivo” – dopo la
creazione del nuovo piuccheperfetto avessi amato. La trasformazione inversa è
avvenuta in rumeno per cantavissem con la sostituzione in questo caso della parte
virtuale ad opera dell’ausiliare a fi, il quale, a differenza dell’ausiliare avere, vir-
tualizza l’azione che esprime. Il nuovo congiuntivo să fi cântat ha dunque par-
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zialmente sostituito cantavissem lasciando questa forma disponibile per l’espres-


sione della realtà: oggi, in rumeno, cântasem significa “avevo cantato” e non ha
più alcun legame con il congiuntivo. Questi due spostamenti inversi – del con-
giuntivo latino cantavissem verso l’indicativo rumeno cântasem e dell’indicati-
vo latino cantaveram verso il congiuntivo spagnolo cantara – mostrano che i
modi (indicativo e congiuntivo) non sono dei compartimenti stagni che si passa
con facilità da un modo all’altro ma nella misura in cui la realtà o la virtualità
viene meno o aumenta.

L’evoluzione comparata delle lingue romanze permette quindi di capire le


caratteristiche proprie di ogni lingua e anche di correggere un errore di interpre-
tazione di Gustave Guillaume. Possiamo osservare infatti (vedi Principi di lingui-
stica teorica di Gustave Guillaume nella traduzione di Roberto Silvi uscita nel
2000 presso Liguori), come il parallelismo tra il futuro francese e il passato remo-
to (j’aimerai/j’aimai, tu aimeras/tu aimas, il aimera/il aima...) abbia portato
Gustave Guillaume a situare il passato remoto al livello del futuro. Ma il lingui-
sta ha pensato che il futuro francese esprimesse solo la virtualità e ha quindi inter-
pretato il passato remoto come un “perfectum di virtualità”. La sua raffigurazio-
ne deve solo essere capovolta: l’imperfetto e il condizionale (con le medesime
desinenze) occupano il livello dell’infectum, mentre il passato remoto e il futuro
occupano il livello del perfectum.
Abbiamo visto che il sistema verbale italiano è tutt’altro, poiché il livello del-
l’infectum è occupato dall’imperfetto e dal futuro, mentre il passato remoto e il
condizionale si situano al livello del perfectum.
Tra le lingue romanze, lo spagnolo si accosta al francese, mentre il romeno,
pur seguendo altre vie, si è accostato all’italiano. In effetti, la lingua romena pre-
senta, nel cinquecento/seicento, un condizionale ereditato dal latino volgare (infi-
nito + ausiliare “a avea” al presente: cântare ai) che ha ancora alcuni usi di futu-
ro. L’estensione delle numerose forme di futuro (tra le quali vei cânta, ai să cânţi
e oggi o să cânţi) ha spinto il futuro ereditato dal latino (cântare ai diventato oggi
ai cânta) verso la posizione di perfectum di futuro, come è avvenuto per il con-
dizionale italiano. Ritroviamo dunque nella costruzione del sistema verbale l’op-
posizione tra la Romania occidentale e la Romania orientale.
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 97

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Guillaume, Gustave, 2000, Principi di linguistica teorica. Raccolta di testi inediti sotto la
direzione di Roch Valin. Presentazione di Arturo Martone. Traduzione di Roberto
Silvi. Nota bio-bibliografica di Alberto Manco. Napoli, Liguori, 232 p.
Guillaume, Gustave, 1965, Temps et verbe, théorie des aspects, des modes et des temps
(134 p.), suivi de l’architectonique du temps dans les langues classiques (66 p.), Paris,
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Champion.
Guillaume, Gustave, 1964, Langage et science du langage, Paris, Nizet, Québec, PUL, 287 p.
Maiden, Martin, 1998, Storia linguistica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 312 p.
Moignet Gérard, 1981, Systématique de la langue française, Paris, Klincksieck, 346 p.
Rocchetti, Alvaro, 1987, «De l’indo européen aux langues romanes: une hypothèse sur
l’évolution du système verbal», Chroniques italiennes, n° 11/12, pp. 19-40.
Touratier, Christian, 1996, Le système verbal français. Paris, Armand Colin, 253 p.
ROMANA TIMOC-BARDY
(Aix-en-provence)

Du futur roman au conditionnel roumain


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1.

Nos recherches sur le conditionnel ont été effectuées comme partie d’un tra-
vail plus ample, portant sur l’ensemble du système verbal du roumain (Timoc-
Bardy 1999: 281-542), sur son agencement, sur sa construction, vue de façon
dynamique. Dans la conception qui a présidé à ce travail (la psychosystématique
du langage), il nous importait en premier lieu de bien comprendre la morphologie du
conditionnel, de parvenir à nous expliquer son origine – la périphrase de départ –; en
deuxième lieu, de corroborer cela à la fois avec le système verbal dans son ensem-
ble et avec l’évolution de celui-ci; et, en troisième lieu, sachant que les construc-
tions morphologiques entraînent des conséquences syntaxiques, d’examiner le
plan du fonctionnement syntaxique.
Ce sont ces mêmes points qui nous occuperont ici, bien plus schématique-
ment toutefois – autant que le permettent les dimensions d’une communication –:
morphologie et fonctions du conditionnel, vues à travers la structure générale du
système verbal roumain, ensuite en rapport avec l’expression du futur. Enfin, nous
essaierons de tirer quelques conclusions d’une portée plus théorique et plus géné-
rale, en incluant la comparaison avec d’autres langues romanes, notamment avec
l’italien.

2. LA QUESTION DE L’AUXILIAIRE DU CONDITIONNEL

Dans les grammaires du roumain, dont beaucoup demeurent encore fidèles à


la vieille conception qui met un signe d’égalité entre la modalité et le mode, le
conditionnel est déclaré mode à part, dit “conditionnel-optatif”. Y voir un mode,
du moins sur cette base-là, est pour nous sujet à caution, mais ce n’est pas ce qui
nous intéresse en premier lieu ici. Disons pour l’instant que le conditionnel se pré-
sente comme une forme verbale composée: auxiliaire a avea (avoir), conjugué à
toutes les personnes, suivi de l’infinitif. Soit pour le verbe a cânta (chanter): aş
cânta, ai cânta, ar cânta, am cânta, ar cânta “je chanterais”, “tu chanterais”, “il
chanterait” etc. Dans la langue moderne – et déjà d’ailleurs dans celle des textes
les plus anciens conservés (XVIe siècle) –, cette forme verbale composée est
réservée à l’expression modale, essentiellement celle d’une action désirée (fonc-
tion dite d’“optatif”):
100 ROMANA TIMOC-BARDY

(1) Ar pleca. “Il partirait” avec le sens de “il aimerait partir”.


ou bien, celle d’une action simplement possible:
(2) Se zice că ar pleca mâine. “On dit qu’il partirait demain.”
ou bien, celle d’une action dépendant d’une condition;
(3) Dacă ar veni, ar vedea. “S’il venait, il verrait.”
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Le conditionnel roumain présente des difficultés ardues en étymologie gram-


maticale, qui ont leur source dans les réductions formelles que peuvent subir dans
cette langue les verbes remplissant un rôle d’auxiliaire. L’attestation tardive du
roumain accroît la difficulté d’interprétation de ces formes réduites et exige par
conséquent de la part du linguiste qui les aborde de posséder une technique d’a-
nalyse qui lui permette d’approcher, par un raisonnement linguistique adapté aux
phénomènes examinés, des faits non attestés. Le chercheur se trouve souvent dans
la situation de faire des hypothèses, des déductions théoriques, de développer des
raisonnements, dont il doit ensuite vérifier la pertinence par un retour obligé et
constant aux faits du discours, afin d’atteindre ainsi un degré de plausibilité qui
puisse être jugé satisfaisant dans l’état actuel de nos connaissances. C’est ainsi
que nous avons dû procéder.
La réduction de forme des verbes auxiliaires, trait morphologique majeur du
roumain, est telle que, parfois, elle peut même cacher aux chercheurs l’apparte-
nance claire d’un paradigme auxiliaire à un verbe donné. Cela arrive notamment
dans le cas du conditionnel, comme le reconnaît la Grammaire de l’Académie
roumaine elle-même, évitant ainsi de se prononcer sur la question (1966, I: 204).
Et cela explique que l’on en soit venu, en effet, à pouvoir faire remonter le para-
digme de l’auxiliaire du conditionnel à l’imparfait du verbe a vrea (vouloir).
C’est là une théorie bien connue, élaborée il y a un siècle par Weigand (1896:
139-161) – et encore aujourd’hui reprise par certains –, qui soutenait que le
paradigme aş provenait de la réduction à l’extrême de l’imparfait lat. vulg. vole-
bam. Sa démonstration nécessitait, il est vrai, quelques acrobaties étymolo-
giques, et pour cause: dans le paradigme aş il est tout de même plus facile de
reconnaître, dès le prime abord, plus de ressemblance avec certaines formes de
l’héritier de habere (a avea) plutôt qu’avec des formes représentant volere. En
effet, trois personnes (2e ai, 4e am, 5e aţi) du paradigme de l’auxiliaire du
conditionnel coïncident avec celles (ai, am, aţi) de l’auxiliaire du passé compo-
sé. Or, dans ce dernier, on s’accorde unanimement à reconnaître le présent (de
forme spéciale!) de a avea (<habere) ! Quant à ar du conditionnel (3e et 6e per-
sonnes), il rappelle bien are, la troisième personne du verbe plein. Qui plus est,
au XVIe siècle, ar du conditionnel apparaissait parfois sous la forme are (ou ăr).
Cela signifie en fait quatre formes identiques pour ces trois paradigmes (présent
du verbe plein, auxiliaire du passé composé, auxiliaire du conditionnel, cf. ci-
après).
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 101

Pourtant, la théorie volere – source d’une longue polémique, et que nous ne


pouvons pas présenter in-extenso ici, ni discuter dans les limites de cette étude1 –
a fait école, a convaincu nombre de linguistes de renom, parmi lesquels Meyer-
Lübke, qui avait d’abord soutenu l’origine habere 2. Certaines grammaires rou-
maines optent encore aujourd’hui pour l’origine volere.
Prenant position pour l’étymologie habere, nous nous situons, quant à nous,
dans une autre lignée de linguistes, qui, par le passé, ou bien à l’époque contem-
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poraine, ont soutenu ce point de vue. Tels sont, par ordre chronologique, Hasdeu
(1887-1893: s.v.), Tiktin (1904: 691-704), Titova (1959: 561-571), Bourciez
(1967: 604), Rosetti (1968: 156), Bugeanu (1970: 543-563), et, plus récemment,
Coteanu (1982: 212) et Avram (1986: 162), pour ne nommer que les principaux.
Les deux derniers, du moins dans les ouvrages cités, ne s’occupent pas de l’ori-
gine des paradigmes, car il s’agit là de grammaires destinées non à des spécialis-
tes, mais à un très large public. Quant aux autres contributions, surtout les plus
anciennes, on peut dire pour l’essentiel, qu’elles abordent beaucoup plus le niveau
de l’évolution phonétique que celui de la fonction. Lorsque le côté fonctionnel est
envisagé, les solutions proposées ne sont pas suffisamment motivées, voire pas du
tout. Ainsi, après avoir constaté les coïncidences de formes sus-mentionnées –
point de départ en fait de la théorie habere –, et étant donné qu’il est impossible
d’expliquer phonétiquement le reste du paradigme à partir du présent du verbe
latin, les adeptes de l’étymologie habere ont été obligés d’inclure dans leur expli-
cation des formes subjonctives. Ainsi, pour aş, dont l’origine est la véritable pier-
re d’achoppement de toutes les théories proposées, Hasdeu suggérait un archaïque
habessim (pour habuissem), peut-être dans l’idée d’expliquer phonétiquement le
résultat par la suite s+i, évolution normale en roumain. Tiktin proposait habuis-
sem pour a, mais le subjonctif imparfait, haberem, ou parfait, habuerim, ou même
habueras, habuerat pour le reste du paradigme. De nos jours, A. Rosetti a accep-
té – avec réserve, il est vrai, et sans référence à la valeur d’emploi – l’étymon
habuissem pour a, considérant que cette évolution comportait des difficultés pho-
nétiques, mais qu’il ne voyait toutefois pas d’autre dérivation possible pour la pre-
mière personne. On constate en fait que les linguistes ne savaient pas trop com-
ment prendre en considération le côté fonctionnel. On peut se demander en effet
sur quoi repose le recours aux paradigmes haberem et habuerim. Sur le fait qu’en
latin ils pouvaient servir à dire l’hypothèse? Comment accepter ce mélange de
formes sans un support théorique qui le motive? De quelle manière peut-on relier

1 Nous prions pour cela le lecteur de bien vouloir se reporter à notre discussion Timoc
Bardy (1999: 312-337).
2 Après avoir indiqué, dans le tome II (§ 114) de sa Grammaire des langues romanes, l’é-
tymon habere, Meyer-Lübke s’est rétracté dans le volume III (§ 323), au profit de la théorie de
Weigand, mais en manifestant sa réserve pour l’origine de la 1ère personne, proposée par ce der-
nier.
102 ROMANA TIMOC-BARDY

l’emploi de ces formes latines au système roumain de l’hypothèse? Ces questions


restent sans réponse. Elles n’étaient d’ailleurs pas, le plus souvent, explicitement
évoquées.
Les contributions plus récentes (Titova, Bugeanu) ont le mérite d’asseoir la
réflexion sur le plan théorique. Titova a affirmé avec justesse que le paradigme du
conditionnel est construit sur le modèle du futur roman avec habere, ce qui cons-
titue pour le chercheur un indice important. Bugeanu propose une solution plus
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complexe, dans laquelle il s’agirait, à l’origine, du passé simple de l’auxiliaire, sur


le modèle, en somme, de l’italien. Sa solution ne nous apparaît pas plus que celle
de Weigand, adaptée à la structure générale du système verbal roumain, d’autant
plus que la dérivation phonétique proposée est difficile et oblige l’auteur à de
nombreuses manipulations, ce qui, selon nous, donne à cette hypothèse un carac-
tère trop aléatoire.
Le recours exclusif à la phonétique, même au prix de forcer l’explication, est
un grief auquel n’échappe pas non plus, bien sûr, la théorie volere. Ainsi, on peut
d’emblée réfuter l’explication de aş par la “phonétique syntaxique” (aş < volebam
sic), proposée par Weigand et répandue comme méthode explicative à l’époque.
Une telle postposition s’est-elle jamais pratiquée en latin? Et d’ailleurs pourquoi sic
se serait-il agglutiné seulement à la première personne? Cette agglutination devait
peut-être paraître problématique à Weigand lui-même, puisqu’il proposait, pour en
étayer la vraisemblance, une influence analogique supplémentaire venant de la pre-
mière personne des passés simples sigmatiques de l’ancien roumain, en –ş. Donc,
aş, par analogie avec les anciens arş (<arsi) ou duş (<duxi). Par ailleurs, comme l’a-
vait déjà mentionné Tiktin dans sa critique à la théorie de Weigand, dans l’hypothè-
se ou ar cânta représenterait la forme réduite de vrea cânta, comme celui-ci le pen-
sait, comment se fait-il que les textes du XVIe siècle ne présentent que ces deux for-
mes, celle supposée être la forme de départ et celle d’aboutissement, sans que
jamais n’apparaisse aucune des étapes intermédiaires de l’évolution phonétique
vrea(+ şi) >vreaşi >reaşi >aş, postulées par l’auteur?
Ce qui a favorisé le succès de la théorie volere a été la non compréhension de
la spécificité du système roumain sur le plan structurel et fonctionnel. Dans les
langues romanes, et plus largement encore en anglais, ou en allemand, le condi-
tionnel et le futur sont généralement construits à l’aide du même auxiliaire, habe-
re pour le domaine roman, werden pour l’allemand etc. Weigand appliquait au
roumain le même raisonnement: futur construit avec volere, par conséquent
conditionnel construit également avec volere. En nommant le conditionnel rou-
main un imparfait du futur, Weigand commettait en fait une impropriété, celle de
supposer au système roumain des vues constructives similaires à celles du fran-
çais, où le conditionnel apparaît effectivement comme une amorce de temps futur
(Guillaume 1968: 54-57), une sorte d’infectum de futur (ce qui se reflète dans le
temps de l’auxiliaire, qui est à l’imparfait). Il méconnaissait ainsi le fait que le
système du roumain moderne est assis sur un seul plan fondé sur le présent, et non
sur deux comme celui des autres langues romanes. En roumain, la “concordance
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 103

des temps” ne se fait pas de la même manière: le passé est toujours du passé et le
futur toujours du futur, que ce soit par rapport au passé ou au futur. Une catégo-
rie “futur dans le passé” n’y existe pas.

3. NOTRE SOLUTION
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Selon nous, l’actuel conditionnel n’est autre que l’ancien futur roman du type
habeo cantare, dans lequel l’auxiliaire n’est pas devenu flexion. Quoique réduit,
il a gardé son statut de mot. Cette conception est en accord avec la structure géné-
rale du système verbal roumain, qui n’a établi aucun parallélisme entre les temps
du passé et les temps du futur. La conséquence en est que le roumain peut toujours
exprimer le futur par les formes du “temps futur”, qu’il soit dans le passé ou dans
le futur, et n’a pas besoin d’une concordance des temps. On dit dans cette langue

(4) A zis că va veni (en utilisant le futur). “Il a dit qu’il viendra”, au lieu
de “Il a dit qu’il viendrait” du français, ou de “Disse che sarebbe
venuto” de l’italien.
Si on utilisait le conditionnel,
(5) A zis că ar veni. litt. “Il a dit qu’il viendrait”

on n’exprimerait pas un futur dans le passé mais une éventualité relative à


l’ancrage dans le temps de la principale (ici, le passé). Comme le présent demeu-
re présent (ou simultané) sur tout l’axe du temps, le conditionnel va lui aussi
exprimer une éventualité ou une hypothèse dans le présent qui, devient contem-
porain de n’importe quel moment sur l’axe du temps, présent, passé ou futur. Ce
qui explique l’utilisation d’un auxiliaire conjugué au présent.

3.1. Notre conception permet de considérev autremen l’étude de l’auxiliaire et


la recherche sur l’origine de ses formes. Car si ce conditionnel est, à l’origine, le
futur avec habeo, il devient évident que l’étude de son auxiliaire est indissociable
de celle de l’ensemble dont il fait partie intégrante, à savoir les trois paradigmes du
présent de a avea: verbe plein, auxiliaire du passé composé et auxiliaire du futur:

Auxiliaire du passé composé Verbe plein Auxiliaire du futur


am am a
ai ai ai
a are ar
am avem am
aţi aveţi aţi
au au ar
104 ROMANA TIMOC-BARDY

Nous pouvons, entre autres, faire les constatations suivantes:

– une distinction sémiologique s’installe à certaines personnes entre le


verbe plein, d’un côté, et les deux auxiliaires, de l’autre, de forme
réduite. Are, avem et aveţi appartiennent exclusivement au verbe
plein. La réduction de forme que subit en roumain le verbe auxiliai-
re, est également constatable dans le cas de l’héritier de volere (a
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vrea), devenu auxiliaire du futur. Celui-ci, à travers une longue évo-


lution, a abouti à une morphologie très réduite, sous laquelle il est
même parfois méconnaissable. Parallèlement, la langue a construit
un autre paradigme pour le verbe plein, de sorte que nous avons
aujourd’hui voi, vei, va, vom, veţi, vor, pour l’auxiliaire, et vreau,
vrei, vrea, vrem, vreţi, vor, pour le verbe plein. Au XVIe siècle, les
deux paradigmes ne sont pas encore séparés, ce qui rend possible de
suivre historiquement la réfection du verbe plein et la réduction pro-
gressive de l’auxiliaire. Cela amène la constatation intéressante que
la grammaticalisation du futur avec habeo est bien antérieure dans
le temps à celle du futur avec volere, car, déjà au XVIe siècle, – et
excepté la troisième personne ară, qui pouvait apparaître à cette
époque comme are, ar – a avea auxiliaire du futur avait déjà abouti
à la forme qu’on lui connaît aujourd’hui. La mise en place de ces
trois paradigmes est bien antérieure aux témoignages écrits.
– La deuxième constatation concerne les différences entre les deux
paradigmes auxiliaires. Etant donné que nous travaillons selon une
conception linguistique qui postule que le signe signifie, nous nous
sommes demandé ce que le système indique à travers la scission qui
touche la troisième et la sixième: a/au pour former le passé (com-
posé), contre ar pour former le futur, et même la première, qui pré-
sente am pour le passé, mais aş pour le futur. Ces oppositions
concernent justement les personnes qui ont posé le plus de problè-
mes aux chercheurs par le passé.

Dans la théorie de Gustave Guillaume, fondatrice de la psychomécanique du


langage, le présent, et en particulier le présent latin, correspond à un espace de
temps étroit, mais possédant néanmoins une certaine étendue où se conjoignent
une partie passée et une partie future. Nous avons émis, comme hypothèse de tra-
vail, que, par cette sémiologie différenciée à certaines personnes, le système indi-
querait la séparation mentale opérée entre les deux parties du présent, la partie
passée et la partie future. Pour construire le futur, on n’utiliserait, dans cette hypo-
thèse, que la partie future du présent, alors que pour construire le passé, on n’uti-
liserait que la partie passée. C’est sur cette base que nous avons cherché une
explication pour les formes de l’auxiliaire du futur (aujourd’hui conditionnel).
Nous allons ici nous limiter, à titre d’exemple, à quelques remarques succintes sur
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 105

les formes les plus problématiques, aş et ar, en essayant de montrer qu’il est possi-
ble de les relier également au présent de habere.
Aş peut provenir tout simplement de la première personne du présent de habe-
re. Les linguistes se sont abondamment penchés sur l’origine de am, forme inno-
vée, mais apparemment sans se demander, quelle forme am a remplacé. Les lan-
gues romanes occidentales ont montré que la première personne de leur héritier
de habere rendait nécessaire de postuler l’existence en latin vulgaire de formes
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inattestées, telles que *ajo ou *ao ! Il est logique de penser que des formes popu-
laires autres que le classique habeo ont existé également dans les régions où le
roumain a pris naissance et que c’est leur héritier qui a été remplacé par am. Il
serait même étrange que seul le latin vulgaire dont est issu le roumain n’ait pas
connu une pareille forme ! Nous pensons aussi que l’existence de multiples issues
dialectales italiennes de *ajo étayent notre hypothèse. Il nous semble pouvoir pro-
poser pour aş cet étymon *ajo, dont l’évolution phonétique régulière aboutirait à
až 3. Il y aurait donc pour aş le problème d’une étape supplémentaire, irrégulière,
propre seulement à l’auxiliaire, l’évolution ž > š, également doublée d’un décala-
ge d’époque, car au XVIème siècle, on trouve déjà le mot noté comme [a_]. On
pourrait aussi penser à une perte de sonorité en position finale, l’auxiliaire étant
fréquemment postposé dans la langue ancienne.
En ce qui concerne ar, il est à relier à are, dont il provient. Nous pensons
avoir trouvé des raisons fonctionnelles pour étayer l’origine habuerit ou habue-
rint. Cela présente les avantages suivants. Nous savons avec certitude que l’héri-
tier du subjonctif parfait latin a vécu dans la langue et ce jusqu’au XVIIe siècle.
Cette forme, que la linguistique roumaine appelle “conditionnel synthétique”
(forme en -re), a fonctionné comme conditionnel (potentiel) et comme futur. Elle
est donc en affinité avec l’époque future. Le lien entre subjonctif et futur, propre
déjà à la langue latine, se manifeste en roumain moderne par la situation du sub-
jonctif dans le plan du futur. Le subjonctif parfait habueri(n)t nous paraît donc
convenir, du point de vue fonctionnel, en tant que forme virtuelle liée au futur. Cet
étymon a déjà été proposé, notamment par A. Rosetti, mais sans que ce linguiste
ait motivé son choix ou ait proposé une évolution phonétique.
Dans notre hypothèse, are se serait introduit dans le paradigme du présent,
par le biais de l’auxiliaire du futur, par le présent-futur lors de la réfection du pré-
sent de habere, sans doute à l’époque romane, où commençait la grammaticalisa-
tion des périphrases à l’origine du passé composé et du futur. Selon toute appa-
rence, dans cette fonction, la présence de are était appelée par la nécessité de don-
ner un signe spécial à la partie purement virtuelle du présent, qui allait participer
à l’expression du futur, ne contenant aucune part d’accomplissement ni d’accom-
pli. Or habuerit > are était justement un perfectum d’inaccompli, dont le caractè-

3 Par les étapes *ajo> adžu> až(u) >až. L’issue dž du yod initial de syllabe est régulière en
roumain.
106 ROMANA TIMOC-BARDY

re de virtualité était d’autant plus appuyé qu’il s’agissait d’un subjonctif 4. Dans
sa fonction d’auxiliaire, are s’est progressivement réduit à ar (à travers le stade
ară, attesté au XVIe siècle).
Nous deions, dans le cadre de ce travail, nous restreindre à ces quelques
remarques.
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3.2. Notre conception est également étayée par le témoignage de textes


anciens. Les attestations, à date ancienne, de l’actuel conditionnel, avec une
valeur de futur proprement dit – ou proches d’une telle valeur –, dans des contex-
tes qui aujourd’hui réclameraient nécessairement l’emploi du futur ont déjà été
signalées par Titova qui soutenait que aş cânta(re) devait être initialement «un
futur qui pose» (futur thétique). Voici un des exemples cités par Titova (1959:
568): “Ce folosu e omului să ară toată lumea dobândi iară sufletul deşerta-l-va?
(Ev. Matei, XVI, 26)”, littéralement: Que sert à l’homme s’il gagnera le monde
entier et si, dans le même temps, il perdra son âme?
À trente ans de distance, l’étude de C. Călăraşu (1987: 223-224), portant sur
l’emploi des temps verbaux dans des textes originaux roumains des XVIe-XVIIIe
siècles, arrive aux mêmes conclusions. Nous citerons, à partir de cette étude:

“Acesta să nevoia să – şi lăţească împărăţia neodihnindu-se ziua şi noap-
tea, gîndind în ce chip ar supune ţările.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Celui-ci s’efforçait d’agrandir son royaume, sans repos, jour et nuit,
pensant à la manière dont il soumettrait les pays.
“Socotind boierii pe cine ar pune domnu să fie de sămînţă domnească,
după obiceiul cel vechi al acestor ţări.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Les boyards considérant que celui qu’ils mettraient sur le trône devrait
être de souche princière, suivant la vieille coutume de ces pays.

Cet auteur considère que, à l’époque étudiée, le conditionnel présent ne s’é-


tait pas encore constitué comme forme spécifique pour marquer le caractère hypo-
thétique d’une action et que le processus de l’acquisition du sens modal par cette
forme n’allait s’achever pleinement qu’en roumain moderne (Călăraşu cit. 226).

4 Pour l’évolution formelle que nous supposons pour relier habuerit à are nous renvoyons,
comme ci-dessus, à Timoc-Bardy (1999: 361-367). Cette évolution est liée à la réfection des par-
faits et ferait que habuerit serait représenté en ancien roumain par deux formes: are étymolo-
gique, pénétré dans le paradigme du présent, et avure, analogique, continuant à fonctionner
comme subjonctif (“conditionnel synthétique” en linguistique roumaine) dans le système de
l’hypothèse.
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 107

“Striga cu toţii să fie Lupu vornicul, însă îi da şi legături, ce va lua den ţară,
ce s-ari lega pentru dări, atuncea, la acel ales”. (Călăraşu cit.: 224).

3.3.

Si aş cânta était initialement un futur, par quelle évolution est-il devenu condi-
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tionnel? Qu’est-ce qui le prédisposait à plus de virtualité que le futur voi cânta?
Dans la mesure où le paradigme voleo cantare remonte également au latin, on
peut se demander d’où vient alors le décalage chronologique que l’on observe
entre la constitution des paradigmes auxiliaires spécifiques des deux futurs, aş
cânta et voi cânta? Pourquoi le paradigme du premier est, déjà au XVIe siècle,
complètement constitué, alors que les formes du second ne sont pas encore bien
séparées de celles du verbe plein?
Pour répondre à cette question, on peut faire remarquer que la situation de ces
deux auxiliaires n’est pas la même. Pour a avea, il y avait un triple problème: la créa-
tion des deux paradigmes auxiliaires pour séparer la partie passée du présent de la
partie future et en même temps la réfection du présent du verbe plein. Il y a tout lieu
de penser que ce problème a dû être réglé très tôt pendant la phase romane, lorsque
s’est institué le nouveau système verbal et qu’ont été créées les positions clés de ce
système: la structure du présent et le nouvel axe passé-présent-futur reposant sur l’u-
tilisation de l’auxiliaire habere, lequel assure la subséquence du verbe aussi bien en
direction du passé qu’en direction du futur. Pour a vrea, le problème était plus sim-
ple. Il s’agissait seulement de redonner un paradigme au verbe plein, puisque le pré-
sent de voleo se spécialisait pour ne dire que la partie future du présent en tant
qu’auxiliaire du futur. L’on peut présumer que le glissement du futur aş cânta à la
valeur de conditionnel (futur modal) a pu se produire à peu près dans les conditions
suivantes: le futur voi cânta, plus récemment grammaticalisé, s’imposait comme futur
qui pose. À mesure que son degré de grammaticalisation avançait, il “poussait” aş
cânta vers un supplément de virtualité. Ce processus a dû être favorisé pour le fait que
le paradigme aş s’était – par la plupart de ses formes – détaché du paradigme pro-
prement dit du présent, ce qui le prédisposait à l’expression du virtuel. La flexion de
a vrea auxiliaire était encore identique à celle du verbe plein, donc repérable en tant
que présent. Le futur voi cânta pouvait donc rester plus facilement ancré dans le réel.
Parallèlement, ce glissement est à mettre en rapport avec un autre fait: la déli-
quescence du subjonctif en -re, anciennement utilisé dans l’expression de l’hypo-
thèse. Faut-il voir entre ces deux réalités une relation de cause à effet? Est-ce la
faiblesse du conditionnel en -re appelant une forme de remplacement qui a déter-
miné le glissement du futur aş cânta, ou est-ce le glissement de ce futur vers la
virtualité – amorcé, de toute manière, bien avant le XVIe siècle – qui a éliminé
l’ancien conditionnel en -re? Ce qui paraît évident, c’est que les deux phénomè-
nes sont complémentaires l’un de l’autre et que, par la disparition de la forme en
-re, un nouvel équilibre s’est installé.
108 ROMANA TIMOC-BARDY

3.4.

Le roumain présente donc l’originalité d’avoir spécialisé un ancien futur pro-


prement dit aux fonctions de conditionnel.
Du point de vue des formes qui expriment le futur, nous pouvons constater en
revanche que l’italien et le roumain ont procédé d’une manière analogue. La res-
semblance se manifeste à un niveau conceptuel, à savoir dans la façon de consi-
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dérer l’époque future: le futur est un infectum de futur en italien, et le condition-


nel un perfectum, comme l’indique leur morphologie (présent ou bien passé sim-
ple de l’auxiliaire), ce qui, comme l’a montré ici la communication d’Alvaro
Rocchetti, a d’importantes conséquences, notamment dans l’expression de l’hy-
pothèse. De la même manière, en roumain, voi cânta est un infectum de futur, et
aş cânta, qui est le plus virtuel, est un perfectum de futur. Cela relève d’une
conception du futur commune à ces deux langues, et qui tient compte de la spéci-
ficité de ce temps: plus une action est plongée dans le futur, plus elle contient
d’hypothèse. Mais, pour le roumain, où l’expression du futur se fait par morpho-
logie externe (forme composée), la notion de perfectum et d’infectum de futur
nous paraît applicable uniquement au sens de la hiérarchisation des deux formes
aş cânta et voi cânta, l’une par rapport à l’autre.
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 109

BIBLIOGRAPHIE SÉLECTIVE

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Bourciez Edouard, 1967, Eléments de linguistique romane, Paris, Klincksieck.
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+++ Gramatica limbii române, 1966, Bucureşti, Editura Academiei R.S.R.
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PARTE SECONDA
«STUDI SINCRONICI»
Conferenza Introduttiva

PIER MARCO BERTINETTO


(Scuola Normale Superiore, Pisa)

Sulle proprietà tempo-aspettuali dell’Infinito in italiano


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Per Theo Vennemann

1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI1

Sull’Infinito italiano esistono importanti studi di carattere descrittivo (Skytte


1983; Skytte et al. 1991), che hanno validamente dissodato il terreno, facilitando
il compito per chi voglia riavventurarsi in questo comparto della grammatica. Mi
sembra tuttavia di poter affermare che non esista, a tutt’oggi, un tentativo siste-
matico di riassumere le proprietà tempo-aspettuali di questa forma verbale, nono-
stante le molte osservazioni disseminate nei lavori disponibili (in particolare, i due
studi sopra citati)2. Lo scopo del presente lavoro sarà dunque quello di affrontare
per la prima volta la questione.
Mi pare necessario premettere che, nel far ciò, mi proporrò soprattutto di for-
nire un’esemplificazione il più possibile rappresentativa dei diversi usi tempo-
aspettuali dell’Infinito, senza ambire ad una trattazione esauriente e lasciando da
parte il problema della classificazione organica degli impieghi sintattici. Circa
questi ultimi, mi rifarò a precedenti tentativi di classificazione, traendo spunto
soprattutto dal lavoro di Pérez Vázquez (2001), che si ispira a sua volta a
Delbecque / Lamiroy (1999). Mi accontenterò dunque di mostrare la gamma di
possibilità tempo-aspettuali che si aprono all’Infinito, anche in rapporto alle inte-

1 Nel preparare questo lavoro mi sono avvalso dei suggerimenti di Mario Squartini e di
Valentina Bianchi, cui va la mia gratitudine.
Per comodità del lettore, fornisco qui l’elenco delle abbreviazioni usate nel testo: IFC =
Infinito Composto; IFS = Infinito Semplice; ME = momento dell’enunciazione; MR = momen-
to di riferimento. Inoltre, per le valenze azionali: [a] = ‘attività’, [a/c] = ‘attività/conseguimen-
to’ (tipo azionale misto), [c] = ‘conseguimento’, [i] = incrementativo, [r] = ‘realizzazione’, [s]
= stativo, [s’] = ‘stativo [+controllo]’ (del tipo stare/restare/rimanere seduto, che ammette
l’Imperativo pur rifiutando la perifrasi progressiva, con ciò mostrando il mantenimento di un
certo margine di agentività; cf. Bertinetto 1986, § 4.1.2)).
2 Non vanno dimenticati comunque gli studi dedicati alla Concatenazione dei Tempi (in
particolare, Vanelli 1991), che toccano anche questioni attinenti l’uso dell’Infinito. E si veda
anche Berretta (1990), relativamente all’acquisizione dell’Infinito italiano in L2.
114 PIER MARCO BERTINETTO

razioni tra valenze aspettuali ed azionali3. Semmai, si potrà osservare – quale sot-
toprodotto dell’analisi – come le classificazioni su base sintattico-semantica risul-
tino non di rado sfuocate rispetto al comportamento tempo-aspettuale: ad un iden-
tico assetto sintattico possono corrispondere proprietà tempo-aspettuali fortemen-
te diversificate, e viceversa. Tuttavia, data la complessità della materia e la natu-
ra puramente esplorativa di questo saggio, non mi azzarderò a mettere in mutua
relazione i due ambiti. Un siffatto lavoro, e non è certo impresa da poco, resta
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tutto da fare (ma vedi intanto Bianchi 2001).


Una cosa si può comunque dare per assodata: l’uso dell’Infinito Composto
(IFC) implica sempre, necessariamente, il valore aspettuale di ‘compiutezza’,
così come esso è definito in Bertinetto (1986), dove si osserva che la compiutez-
za è valutabile in rapporto ad un ‘momento di riferimento’ (MR) contestualmen-
te dato, da intendersi precipuamente come ‘stato risultante’ (cf. la nozione di
‘Perfect’ nella grammatica inglese). L’IFC è dunque una forma assolutamente uni-
voca dal punto di vista aspettuale4. E lo stesso si può dire per quanto riguarda il
punto di vista temporale, nonostante il fatto che l’IFC sia del tutto privo di auto-

3 Circa la definizione delle nozioni di Aspetto ed Azionalità, mi limiterò qui a rimandare


alla trattazione contenuta in Bertinetto (1986; 1997).
4 Per chi avesse familiarità coi miei studi precedenti, potrà emergere a questo proposito un
dubbio circa l’effettiva interpretazione aspettuale di IFC come quelli in (i):
(i) Marco si ricordava di essere uscito alle 5.
dove l’avverbio temporale localizza con precisione il momento dell’avvenimento, anziché indi-
care il MR. Si confronti, a verifica, quanto accade negli esempi seguenti:
(ii) a. Alle 5, Marco era uscito.
b. Marco era uscito alle 5.
In (ii,a), l’avverbiale temporale indica di preferenza il MR; in (ii,b), invece, ciò che viene
designato è il momento dell’avvenimento, esattamente come in (i). È dunque lecito sospettare che
il Piucheperfetto di (ii,b) – così come l’IFC di (i) – esprima un valore aspettuale parzialmente
connotato da ‘aoristicità’, piuttosto che un valore di compiutezza in senso stretto. Tuttavia, va
subito precisato che non si tratta di pura ‘aoristicità’, poiché nei casi appena citati è possibile far
emergere il valore di compiutezza, arricchendo opportunamente il contesto, come in (iii,a), in
modo da fornire un plausibile MR. Per contro, (iii,b) mostra che ciò non può accadere con altret-
tanta naturalezza col Passato Semplice, un Tempo di natura squisitamente aoristica:
(iii) a. Erano le 7. Marco era uscito alle 5. Elina aspettava con impazienza.
b. ?? Erano le 7. Marco uscì alle 5. Elina aspettava con impazienza.
Ora, si noti che, in parziale analogia con (iii,a), possiamo avere:
(iv) Alle 7, Marco prese improvvisamente coscienza di essere uscito alle 5, anziché
alle 4; non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto sbagliare a leggere l’o-
rologio.
Anche in questo caso non abbiamo dunque a che fare con l’aoristicità propriamente detta,
bensì appunto con un’accezione debole dell’aspetto compiuto, in cui la compiutezza (ossia, lo
‘stato risultante’ al MR) viene messa in secondo piano – ma non certo annullata – rispetto alla
localizzazione dell’evento.
Non si confondano comunque questi usi aspettualmente ‘deboli’ con gli usi autenticamen-
te aoristici del Piucheperfetto, assai più rari e stilisticamente marcati, studiati in Bertinetto
(1999).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 115

noma capacità di designazione a tale livello (ma questa, come vedremo, è una
caratteristica di tutte le forme non finite del verbo). L’informazione temporale tra-
smessa dall’IFC si riflette nel valore retrospettivo – ossia di anteriorità non deit-
tica – associabile all’aspetto compiuto; quanto all’effettiva collocazione dell’e-
vento sull’asse temporale, in rapporto al ‘momento dell’enunciazione’ (ME), essa
dipenderà da fattori strettamente contestuali, ossia dalla collocazione del MR. Si
veda infatti come, nell’esempio seguente, l’IFC esprima compiutezza – e dunque
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retrospettività – in rapporto ad un MR situato rispettivamente nel passato (cf. 1a),


nel presente (cf. 1b), nel futuro (cf. 1c):

(1) a. Gianna pensò di aver fatto bene.


b. Gianna pensa di aver fatto bene.
c. Gianna penserà di aver fatto bene.

Sarà bene prevenire un fraintendimento: il MR non viene creato dalle forme


verbali contenute nelle proposizioni reggenti (cf. pensò, pensa, penserà in 1). Esso
viene autonomamente proiettato dall’IFC, come accade con tutte le forme che
esprimono compiutezza. Tuttavia, esso ha bisogno di un ancoraggio contestuale,
non potendosi collocare autonomamente sull’asse temporale. Tale compito è
appunto svolto, negli esempi citati, dal Tempo della principale, che essendo dota-
to di autonoma capacità deittica è in grado di precisare la collocazione del MR.
Questo fa sì che, pur nella comune interpretazione retrospettiva, l’evento indicato
dall’IFC sia situato nel passato in (es. 1a-b), e possieda invece una collocazione
indeterminata in (1c), dove può situarsi tanto prima quanto dopo il ME.
L’Infinito Semplice (IFS) è invece una forma polivalente. Dal punto di vista
temporale, può esprimere simultaneità, prospettività, e perfino (sia pure eccezio-
nalmente, come vedremo) retrospettività. È bene ribadire che neppure l’IFS pos-
siede un’autonoma capacità designativa; al contrario, la deriva dal contesto. Esso
instaura dunque, inevitabilmente, una designazione temporale non deittica, come
mostra la stessa terminologia qui adottata (‘retrospettivo / simultaneo / prospetti-
vo’, invece di ‘passato / presente / futuro’). A riprova, si considerino i seguenti
esempi, da cui si evince che l’orientamento dell’IFS – in simili contesti – resta
sempre prospettivo, indipendentemente dalla collocazione, in rapporto al ME,
dell’evento designato dall’IFS:

(2) a. Gianna pensò di rientrare a casa.


b. Gianna pensa di rientrare a casa.
c. Gianna penserà di rientrare a casa.

È importante, a questo proposito, riflettere sull’interpretazione temporale


dell’IFS dipendente da un Tempo perfettivo passato. Come mostrerò nel seguito,
benché l’interpretazione retrospettiva sia effettivamente accessibile anche a que-
sta forma verbale, si tratta pur sempre di una circostanza molto rara e dunque –
116 PIER MARCO BERTINETTO

almeno in senso statistico – piuttosto marginale. Tuttavia, con certi verbi reggen-
ti (si veda, in proposito, 3a) si può erroneamente credere che l’IFS possieda un
orientamento retrospettivo, laddove un esame più accurato rivela una situazione
ben diversa. Si tratta di una sorta di ‘illusione ottica’: l’orientamento è in realtà
prospettivo, come si può evincere da (3b), dove il semplice uso del Futuro nella
principale – in accezione, si badi, perfettiva – annulla l’apparente retrospettività
di (3a):
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(3) a. Piero dimenticò di spegnere il gas.


b. Piero dimenticherà certamente di spegnere il gas.

Evidentemente, il miraggio di retrospettività in (3a) dipende dal riferimento


temporale passato del Tempo reggente. Poiché l’intero contesto si colloca ante-
riormente al ME, può sorgere la fallace impressione che l’IFS designi uno stadio
temporale anteriore a quello indicato dalla principale. Ad ulteriore conferma di
quanto detto, ed a titolo di opportuna ginnastica mentale in vista di ciò che
seguirà, si considerino i seguenti enunciati:

(4) a. Piero pensa che è sconveniente uscire alle 5.


b. Piero pensa che sia sconveniente uscire alle 5.
c. Piero pensa che era sconveniente uscire alle 5.
d. Piero pensava / pensò che fosse sconveniente uscire alle 5.
e. Piero pensa che sarà sconveniente uscire alle 5.
f. Piero pensa che fu sconveniente uscire alle 5.
g. Piero pensa che sia stato sconveniente uscire alle 5.
h. Piero pensava / pensò che fosse stato sconveniente uscire alle 5.

Si consideri soprattutto l’interazione tra l’IFS ed il Tempo della prima dipen-


dente (in corsivo), da cui l’IFS dipende a sua volta. Laddove tale Tempo è imper-
fettivo ed esprime inoltre simultaneità rispetto al Tempo della principale (cf. a, b,
d), l’interpretazione dell’IFS oscilla tra simultaneità e prospettività, con preferen-
za per quest’ultima. Per es. in (4a) Piero può alternativamente: (i) pensare, nel
momento stesso in cui sta uscendo (ovvero, alle 5), che sia sconveniente farlo
(simultaneità), oppure: (ii) pensare ora che sarà sconveniente uscire all’ora indi-
cata (prospettività). In tutti gli altri casi, l’IFS esprime unicamente simultaneità
rispetto al tempo da cui dipende sintatticamente, ossia quello della prima dipen-
dente. Per esempio, in (4c), il giudizio di sconvenienza emesso da Piero si riferi-
sce al momento in cui l’evento espresso all’IFS si è verificato; pertanto, la clau-
sola infinitivale, pur designando un evento passato (cioè anteriore al ME), non può
indicare un evento autenticamente retrospettivo, ossia anteriore al momento indi-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 117

viduato dal Tempo che regge l’IFS5. Di tutto ciò occorrerà tener conto nell’inter-
pretazione degli esempi che seguiranno, per non cadere nella trappola di scam-
biare per retrospettività tutti i casi di anteriorità rispetto al ME. Ciò che conta, per
definire l’orientamento temporale dell’IFS, non è la collocazione deittica dell’e-
vento espresso da tale forma, bensì la sua collocazione rispetto all’ancoraggio
temporale (che, negli esempi qui considerati, è fornito dal Tempo Verbale della
prima clausola dipendente).
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Quanto alla dimensione aspettuale, l’IFS può esprimere valore perfettivo o


imperfettivo, a seconda del contesto. Dunque, persino la valenza aspettuale, a dif-
ferenza di quella dell’IFC, non è predefinita. Ciò non significa, tuttavia, che essa
sia del tutto neutra. L’IFS è, in pratica, in distribuzione complementare rispetto
all’IFC. Ad esso resta preclusa, tra le accezioni perfettive, la valenza di ‘compiu-
tezza’ (riservata all’IFC), mentre risulta accessibile la valenza ‘aoristica’, che a
giusto titolo potrebbe definirsi come la quintessenza della perfettività, ovvero – se
si preferisce – come “perfettività senza compiutezza” (secondo l’analisi dei fatti
tempo-aspettuali proposta in Bertinetto 1986). Risultano inoltre accessibili, per
quanto attiene al comparto dell’imperfettività, le valenze progressiva e continua
(con l’esclusione, come sotto verrà argomentato, di quella abituale).
Ciò comporta un’immediata conseguenza. Nel caso dell’IFC, l’interpretazio-
ne tempo-aspettuale dipende crucialmente (come già sottolineato) dalla presenza
del MR proiettato da tale forma verbale, nonché dalla collocazione (contestual-
mente determinata) del MR stesso. Nel caso invece dell’IFS, l’interpretazione
tempo-aspettuale dipende da complesse interazioni tra fattori pragmatici e seman-
tici. Questi ultimi vanno identificati, almeno per quanto riguarda le strutture intro-
dotte da verbi: (a) nella semantica lessicale del verbo reggente; (b) nella valenza
aspettuale ad esso attribuita; (c) nel tipo azionale cui appartengono quest’ultimo
e l’Infinito. Il risultato di questa interazione (sempre condizionata, sarà opportu-
no ribadirlo, da imprescindibili fattori pragmatici) è appunto ciò che ci porta a
costruire – anche solo come interpretazione privilegiata – una determinata rap-
presentazione temporale, cui corrisponderà una precisa sequenza di eventi.
Per coloro che non sono sufficientemente addentro alle questioni concernen-
ti l’analisi tempo-aspettuale, la distinzione sopra accennata per quanto riguarda la
struttura dell’IFS e dell’IFC potrà apparire sottile; tuttavia, sul piano teorico ed
empirico le differenze sono cospicue. Non potendo attardarmi eccessivamente su

5 Si badi bene, però: il fatto che il giudizio di sconvenienza si applichi al momento in cui
l’evento si è verificato, non significa che il protagonista dovesse esserne consapevole in quel
medesimo momento. Piero potrebbe infatti essersi accorto solo in seguito che l’atto di uscire alle
5 era sconveniente; e tuttavia, ciò non toglie che tale atto fosse sconveniente già al momento in
cui si è verificato. Qui non conta la prospettiva soggettiva del protagonista, interna all’evento nel
suo compiersi, ma il carattere obiettivo dell’evento stesso.
118 PIER MARCO BERTINETTO

questo punto (ma si veda di nuovo Bertinetto 1986), mi limiterò a fornire una suc-
cinta esemplificazione, attingendo da fatti inerenti all’uso del Gerundio, in cui si
osserva un analogo contrasto tra forma Semplice e forma Composta. Come nota
Solarino (1996) – sull’impianto della cui analisi concordo, al di là di dissensi rela-
tivamente marginali (ma su ciò mi riprometto di tornare in altra sede) – il
Gerundio Semplice dell’italiano può esprimere, a seconda del contesto ed al pari
dell’IFS, retrospettività (cf. 5a), simultaneità (cf. 5b-c) e prospettività (cf. 5d)
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(occorre appena ribadire che le interpretazioni qui suggerite non sono necessaria-
mente le uniche, ma soltanto le più salienti):

(5) a. Studiando con accanimento (E1), Leo ottenne la promozione


(E2) [retrospettività di E1 rispetto a E2].
b. Passeggiando (E1), Leo incontrò Veronica (E2) [inclusione di
E2 in E1].
c. Passeggiando (E1), Leo parlava con Veronica (E2) [contempo-
raneità di E1 ed E2].
d. Il presidente Bush si fece andare di traverso un salatino (E1)
perdendo coscienza (E2), al punto di cadere a terra e battere
violentemente il capo [prospettività di E2 rispetto a E1].

Si noti, innanzi tutto, la natura non deittica di queste designazioni temporali.


Il Gerundio di (5a) designa un evento anteriore al ME (e dunque passato), mentre
quello di (5e) qui sotto indica – secondo la lettura più ovvia – un evento poste-
riore al ME (ossia futuro), pur mantenendo il proprio valore retrospettivo rispetto
all’evento della principale, che funge in entrambi i casi da ancoraggio temporale.
Considerazioni analoghe si possono fare per (5f) in confronto con (5d):

(5) e. Studiando con accanimento, Leo otterrà la promozione.


f. Leo si metterà davanti alla TV (E1), addormentandosi (E2)
come al solito quasi subito.

Ciò conferma quanto sopra affermato circa l’assenza di intrinseche connota-


zioni temporali nelle forme semplici non finite del verbo. Ma, per tornare al pro-
blema dell’aggancio temporale, si noti ora la differenza tra Gerundio Semplice e
Gerundio Composto:

(6) a. Studiando con accanimento (E1), Leo sarà promosso (E2).


b. Avendo studiato con accanimento (E1), Leo sarà promosso (E2).

Benché entrambi gli enunciati esprimano retrospettività, il contrasto è tangibile.


In (6a) si ha mera anteriorità di E1 rispetto a E2 (che funge da ancoraggio temporale),
mentre in (6b) l’anteriorità espressa dal Gerundio Composto può essere interpretata in
due modi diversi, a seconda della collocazione del MR. Quest’ultimo può infatti coin-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 119

cidere con: (i) il ME; (ii) un non meglio precisato momento futuro, ovviamente situa-
to prima di E2. La facoltà di agganciarsi al ME, preclusa al Gerundio Semplice, dipen-
de crucialmente dalla già notata proprietà del Gerundio Composto di proiettare auto-
nomamente un MR, rispetto a cui si instaura uno stato risultante (o di compiutezza).
Quando il contesto non fornisce altre indicazioni, il MR tende ad ancorarsi al ME.
Da quanto sono venuto esponendo fin qui, si possono trarre alcune conclu-
sioni, alla conferma delle quali – limitatamente al comportamento dell’Infinito –
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saranno dedicati i prossimi paragrafi. Le forme non finite composte (Infinito e


Gerundio Composti) – ma anche, aggiungo ora, il Participio Perfetto – sono uni-
vocamente orientate ad esprimere l’aspetto compiuto, benché non di rado in
forma aspettualmente debole (cf. la nota 4). Ciò comporta un obbligato orienta-
mento retrospettivo dal punto di vista temporale. Le forme non finite Semplici
(Infinito e Gerundio Semplici, con l’esclusione del Participio Imperfetto ormai
desueto6) sono invece aperte ad una molteplicità di letture: aspettualmente, pos-
sono indicare valore imperfettivo (progressivo o continuo) e perfettivo-aoristico;
temporalmente, possono ricevere interpretazione di simultaneità, prospettività, e
(specie col Gerundio Semplice, ma in misura marginale anche coll’IFS) retro-
spettività. È dunque evidente che – dal punto di vista tempo-aspettuale – esistono
due soli tratti costanti, comuni a tutte le forme non finite:

(a) l’orientamento temporale non deittico;


(b) l’univocità aspettuale – e derivatamente temporale – delle forme
Composte (e del Participio Perfetto).

Passo ora all’esemplificazione del comportamento dell’Infinito, sofferman-


domi soprattutto sugli usi della forma Semplice, data l’assoluta aproblematicità di
quella Composta. L’univocità di quest’ultima ci fornirà comunque un valido punto
di riferimento per l’analisi.

2. L’INFINITO DIPENDENTE DA VERBI

2.1. Orientamento prospettivo

Poiché un’opinione vulgata, basata su un affrettato confronto coll’IFC, tende


ad assegnare all’IFS il valore prospettivo come interpretazione temporale privile-
giata, prenderò le mosse da tale accezione. Essa si ritrova tipicamente nell’IFS
retto da verbi volitivi (volere, desiderare; cf. 7) e causativi (obbligare, proibire,
ordinare, promettere, supplicare, suggerire etc.; cf. 8), nonché nelle seguenti pro-

6 Circa la natura di relitto del Participio Imperfetto, cf. Luraghi (1999).


120 PIER MARCO BERTINETTO

posizioni infinitivali: finali (cf. 9), relative (cf. 10), interrogative indirette (cf.
11)7, temporali introdotte da prima di (cf. 12).
Prima di esaminare gli esempi, sarà utile fornire qualche indicazione circa la strut-
tura degli enunciati, che verrà prevalentemente mantenuta anche nel seguito. Gli
esempi contrassegnati dalla sigla ‘S’ contengono degli IFS, mentre quelli contrasse-
gnati da ‘C’ contengono degli IFC. Inoltre, ovunque possibile, il verbo reggente è pre-
sentato sia all’Imperfetto (per lo più in accezione continua8), sia al Passato Semplice
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(aspetto aoristico). Infine, i predicati all’Infinito esemplificano le quattro fondamenta-


li accezioni azionali vendleriane (Vendler 1967), nel seguente ordine: ‘stativo’, ‘atti-
vità’, ‘conseguimento’ (= achievement), ‘realizzazione’ (= accomplishment)9.
Non sarà vano richiamare ad un opportuno esercizio di cautela, soprattutto
per quanto riguarda l’ultimo punto: l’accettabilità o meno di una determinata
valenza azionale, in un certo contesto, può dipendere da sottili condizionamenti
pragmatici, che andrebbero verificati sulla base di un’esemplificazione molto più
ampia di quella che potrò esibire10. Occorre insomma rendersi conto che la clas-
sificazione vendleriana, benché utile per una valutazione orientativa dei dati, pre-
senta maglie troppo larghe rispetto al problema qui discusso. Dovremo dunque
accontentarci (ma questo vale in generale, non solo per l’interpretazione dei fatti
azionali) di estrarre delle indicazioni di tendenza, piuttosto che ferree regolarità.
Nella seguente batteria di esempi, l’unica restrizione di natura azionale
riguarda la tendenziale esclusione dei verbi stativi in (8/S, 11/S, 12/S), verosimil-
mente dovuta al tenore complessivamente agentivo di molti di questi contesti. Se
tuttavia (come mi suggerisce Mario Squartini) questo tratto viene in qualche
modo neutralizzato, anche gli stativi possono risultare accettabili, com’è dimo-
strato da (12/S’). Va del resto segnalato che gli stativi sono in alcuni casi compa-
tibili con la lettura simultanea: per es., in (7/S) l’intenzione di essere scostante ed
il relativo comportamento possono largamente sovrapporsi. Quest’ultima osser-

7 L’orientamento prospettivo delle interrogative indirette non è peraltro generalizzato.


Come mi fa notare Valentina Bianchi, esso non vale con le proposizioni introdotte da perché, che
possono anche avere orientamento retrospettivo:
(i) Mi chiedo perché arrabbiarsi in questo modo. Avresti almeno potuto tener
conto delle attenuanti.
8 Per sottolineare tale lettura aspettuale, molti esempi sono introdotti dall’avverbiale a quel
tempo; per segnalare invece la lettura progressiva, si userà – ove necessario – l’avverbiale a quel
punto.
9 Per una discussione approfondita di questa materia, rimando a Bertinetto (1986, cap. 2;
1997, cap. 2)
10 Per dare una sia pur vaga idea del problema, si considerino i seguenti enunciati, in cui
l’IFS è invariabilmente costituito da un ‘conseguimento’. Come si noterà, il grado di accettabi-
lità dei predicati impiegati varia significativamente in ragione della presenza di un modificatore
avverbiale appropriato:
(i) Meo sospettava di *partire / partire troppo presto / ??incontrare Emma / incon-
trare Emma nel posto meno adatto.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 121

vazione potrebbe forse essere estesa ai verbi atelici in generale, dato che la
sovrapposizione temporale potrebbe verificarsi, nel medesimo enunciato, anche
con il predicato di ‘attività’ disegnare; ma in tal caso si rende probabilmente
necessaria la focalizzazione del verbo reggente, il che fa una differenza. Sul piano
aspettuale, è poi da notare la scarsissima accettabilità dell’aspetto perfettivo nella
principale di (11/S). Per il resto, si può osservare una generalizzata agrammatica-
lità dell’IFC (ma cf. la nota 14)11.
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(7) S Quel giorno, Elio voleva / volle essere scostante / disegnare


/ incontrare Anna / mangiare una mela.
C * Quel giorno, Elio voleva / volle essere stato scostante / aver
disegnato / aver incontrato Anna / aver mangiato una mela.
(8) S Quel giorno, Ugo suggeriva / suggerì di ??essere a casa / dor-
mire a lungo / incontrare Anna / mangiare una mela.
C * Quel giorno, Ugo suggeriva / suggerì di essere restato a casa
/ aver dormito a lungo / aver incontrato Anna / aver mangiato
una mela 12.
(9) S Quel giorno, Marta gli chiese l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la
spesa più in fretta.
C * Quel giorno, Marta gli chiese l’auto per essere stata in tempo
all’appuntamento / aver dormito più a lungo / aver incontrato
Lapo / aver fatto la spesa più in fretta.
(10) S Ezio cercava / cercò un luogo dove rimanere per il week-end /
studiare / incontrare la zia / fare colazione.
C * Ezio cercava / cercò un luogo dove essere rimasto per il
week-end / aver studiato / aver incontrato la zia / aver fatto
colazione.
(11) S Quel giorno, Gino ignorava / *ignorò dove ??rimanere per il
week-end / esaminare le sue carte/ incontrare la zia / fare cola-
zione.

11 Qui, come in seguito, gli esempi sono introdotti dall’avverbiale quel giorno, allo scopo
di escludere la possibile intrepretazione abituale dell’Imperfetto nella reggente. La ragione di
questa mossa diverrà chiara tra breve, quando discuterò il problema dell’abitualità.
Si tenga presente che la comparsa di un diacritico all’inizio dell’enunciato indica diffusi
problemi di agrammaticalità, mentre i problemi di accettabilità riferibili a singole valenze azio-
nali od aspettuali sono segnalati subito prima della forma incriminata.
12 L’accettabilità degli stativi diventa piena nel caso degli ’stativi [+controllo]’; cf. ad es.
(10/S). Va tuttavia notato – e sia detto qui una volta per tutte – che questi ultimi sono stativi
impropri, come osservato nella nota 1).
122 PIER MARCO BERTINETTO

C * Quel giorno, Gino ignorava / ignorò dove essere rimasto per


il week-end / aver esaminato le sue carte / aver incontrato la
zia / aver fatto colazione.
(12) S Quel giorno, prima di ??essere scostante / dormire nel proprio
letto / incontrare Edo / dipingere la parete, Claudia verificò
che non ci fossero alternative13.
C * Quel giorno, prima di essere stato scostante / aver dormito
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nel proprio letto / aver incontrato Edo / aver dipinto la parete,


Claudia verificò che non ci fossero alternative.
S’ Quel giorno, prima di essere scostante, Claudia fu anche cafona.

Una variante dell’accezione prospettiva è costituita dal senso imminenziale,


osservabile nelle temporali introdotte da al momento di (13):

(13) S Quel giorno, al momento di restare assente / dormire nel pro-


prio letto / incontrare Edo / dipingere la parete, Gina verificò
che non ci fossero alternative.
C * Quel giorno, al momento di essere restata assente / aver dor-
mito nel proprio letto / aver incontrato Edo / aver dipinto la
parete, Genoveffa verificò che non ci fossero alternative.

In tutti questi esempi, il tratto saliente sembra essere la sostanziale inaccettabilità


dell’IFC. Mi esprimo con una certa cautela, dato che la situazione può subire lievi ma
significative variazioni in ragione di specifiche scelte lessicali, come mostra il seguen-
te esempio di IFC retto da un verbo volitivo diverso da quello di (7/C), in cui mi pare
che l’accettabilità aumenti qualora si ponga un accento enfatico sul verbo reggente, e
più ancora se si assegna valore controfattuale all’Imperfetto14:

(14) ? Quel giorno, Elio DESIDERAVA / DESIDERÒ essere stato al


centro dell’attenzione / aver dormito bene / aver incontrato Amil-
care / aver fatto una sauna.

13 In questo caso non ho usato l’Imperfetto nella principale, perché l’aspetto imperfettivo
presuppone un intervallo aperto, mentre qui l’evento della principale deve necessariamente chiu-
dersi prima dell’inizio della subordinata temporale. Per ragioni tutto sommato analoghe si
incontrano qui forti restrizioni con gli stativi, e con certi verbi di attività, in quanto l’evento della
subordinata deve avere un inizio nettamente individuabile, onde fornire un inequivocabile ter-
mine ante quem, che eviti la sovrapposizione temporale con l’evento della principale; ma que-
sto non è sempre compatibile con gli stativi, che tendono ad avere contorni temporali sfumati.
14 Si noti, del resto, che l’IFC diventa pienamente accettabile coi volitivi retti da un
Condizionale controfattuale:
(i) Quel giorno, Elio avrebbe voluto essere stato scostante / aver dormito a lungo /
aver incontrato Anna / aver mangiato una mela, ma si rendeva conto che le cose
erano andate diversamente da come aveva ipotizzato.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 123

Non c’è dubbio, tuttavia, che la tendenza generale vada verso il rifiuto
dell’IFC; il che non desta sorpresa, considerata la spiccata ipoteca retrospettiva di
tale forma. Da ciò non si può peraltro concludere che all’orientamento prospetti-
vo dell’IFS si accompagni obbligatoriamente l’ostracismo verso l’IFC. Ciò è
dimostrato per es. dai casi di Infinito retto da verbi dichiarativi (dire, affermare,
dichiarare, certificare, giurare, narrare, rimproverare etc.; cf. 15), in cui l’orien-
tamento prospettivo dell’IFS può convivere con quello retrospettivo dell’IFC; si
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vedano, al riguardo, le osservazioni riepilogative esposte in § 4):

(15) S Quel giorno, Ezio dichiarava / dichiarò di essere nel giusto /


dormire da sua zia / incontrare Amilcare alle 5 / scrivere la
relazione entro il giorno seguente.
C Quel giorno, Ezio dichiarava / dichiarò di essere stato nel giu-
sto / aver dormito da sua zia / aver incontrato Amilcare alle 5
/ aver scritto la relazione.

Si noti comunque che l’IFS stativo di (15/S) riceve una netta interpretazione
di simultaneità, che può emergere anche con certi verbi di ‘attività’ (cf. disegnare
con gusto). Per contro, gli IFS dei verbi eventivi di (15/S) mantengono un orien-
tamento generalmente prospettivo, benché l’uso di questi predicati subisca restri-
zioni di ordine pragmatico. In effetti, (15/S) migliora qualora si introduca il verbo
volere (cf. dichiarò di voler dormire da sua zia)15.
Occorre a questo punto interrogarsi sul valore aspettuale degli IFS contenu-
ti negli enunciati esaminati in questo paragrafo, ferma restando invece la sconta-
ta interpretazione degli IFC (ove essi siano ammessi). Ovunque emerga una let-
tura chiaramente prospettiva, e dunque con l’esclusione dei pochi casi accessibi-
li alla lettura simultanea (prevalentemente ascrivibili agli stativi), l’IFS assume
valore perfettivo, che costituisce il tratto non marcato per le accezioni prospetti-
ve e futurali. È infatti evidente che nel concepire prospettivamente, a partire da
un momento dato, lo svolgimento di un evento, se ne ‘intravede’ globalmente il
compiersi.

15 Tra i verbi dichiarativi che reggono l’Infinito, merita segnalare il caso di dire, che mani-
festa un comportamento ambivalente (Skytte et al. 1991: 489):
(i) Gianni disse a Giorgioi di PROi uscire
(ii) Giannii dice di partire PROi domani.
Benché l’orientamento sia prospettivo in entrambi i casi, (i) esprime senso iussivo, (ii)
senso intenzionale.
124 PIER MARCO BERTINETTO

2.2. Excursus sui contesti di abitualità

Sempre in merito all’interpretazione aspettuale, c’è da osservare che l’IFS può


comparire in contesti di abitualità, indotti dal Tempo imperfettivo della principale:

(16) Ogni giorno, Marta gli chiedeva l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
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più in fretta.

Occorre tuttavia interrogarsi sull’effettivo valore aspettuale dell’IFS in questi


casi. Il fatto che il contesto complessivo sia abituale non costituisce di per sé un
argomento dirimente per attribuire questa interpretazione all’Infinito. Si conside-
ri l’esempio seguente, in cui la principale contiene un Tempo aoristico che acqui-
sisce interpretazione iterativa per via dell’avverbiale reiterativo:

(17) Ogni giorno, Marta gli chiese l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
più in fretta.

Il Tempo della reggente in (17) non possiede autentico valore abituale, dal
momento che l’interpretazione iterativa è un mero effetto contestuale indotto dal-
l’avverbiale (mentre, per converso, la lettura abituale potrebbe mantenersi in (16)
anche senza il sussidio dell’avverbiale iterativo). Il Passato Semplice di (17) con-
serva insomma il proprio consueto valore aoristico, com’è dimostrato dalle anali-
si di Bertinetto (1986: §§ 3.1.4-5; 1997, cap. 9 e Lenci / Bertinetto (2000). Di
conseguenza, allo stesso modo in cui gli IFS di (17) possono soltanto avere valo-
re iterativo anziché abituale – non esistendo alcuna forma verbale in grado di tra-
smettere una siffatta interpretazione – si può ritenere che anche gli IFS di (16) si
limitino ad ereditare il valore puramente iterativo – anziché abituale in senso pro-
prio – indotto dal contesto di abitualità. Si noti infatti che, mentre l’abitualità
implica iteratività, l’inverso non è vero. Mi pare quindi più parsimonioso asserire
che gli IFS di (16), pur inseriti in contesto abituale, abbiano valore aoristico.
Questa conclusione è del resto confortata, a fortiori – dalla ben nota osservazio-
ne, secondo cui i microeventi iterati, compresi entro un macroevento abituale,
sono di per sé perfettivi, a dispetto del valore spiccatamente imperfettivo dell’a-
spetto abituale (per la dimostrazione di questo fatto, cf. Bertinetto 1997, cap. 9;
Lenci / Bertinetto 2000). A riprova, si osservi che in (18) la supposta interpreta-
zione abituale è unicamente dovuta alla presenza dell’avverbio abitualmente,
mentre non sembra facilmente accessibile in sua assenza (a meno di presupposi-
zioni contestuali):

(18) Gigi ammise di dormire abitualmente da sua zia / mangiare abi-


tualmente una mela prima di andare a dormire.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 125

È ben noto, invece, che simili avverbi non sono affatto indispensabili per otte-
nere la lettura abituale con i Tempi imperfettivi.
Un’ipotesi alternativa che si potrebbe avanzare a questo riguardo consiste nel-
l’assumere che, nei contesti di abitualità, l’IFS esprima nonostante tutto valore abi-
tuale, con l’unica differenza – rispetto ai Tempi Semplici dell’Indicativo – che le
diverse valenze aspettuali dell’IFS appaiono soggette ad un forte effetto di neutra-
lizzazione, avendo sempre bisogno di un contesto disambiguante. Questa considera-
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zione poggia sul fatto che persino le accezioni progressiva ed aoristica dell’IFS di
(19a), allo stesso modo della presunta lettura ‘abituale’ di (16-18), sembrano richie-
dere una disambiguazione contestuale per poter emergere con chiarezza (cf. 19b-c):

(19) a. Giorgio vide uscire Lucia. /progressivo o aoristico/


b. Alle 5, Giorgio vide Lucia uscire. /progressivo; cf. …mentre
stava uscendo/
c. Giorgio vide Lucia uscire alle 5. /aoristico; cf. *…mentre
stava uscendo alle 5/

Tuttavia, una situazione analoga si osserva anche a proposito dell’Imperfetto


Indicativo, con riferimento alla distinzione tra aspetto progressivo ed abituale,
come si vede in (20a-c). Eppure, ciò non impedisce che l’Imperfetto si distingua
nettamente dal Passato Semplice, data l’incapacità di quest’ultimo si assumere
lettura iterativa se non attraverso esplicite aggiunte lessicali (cf. 20d-e):

(20) a. Giorgio andava al lavoro a piedi. /progressivo o abituale/


b. Alle 5, Giorgio andava al lavoro a piedi. /progressivo/
c. Ogni giorno, Giorgio andava al lavoro a piedi. /abituale/
d. Giorgio andò al lavoro a piedi. /aoristico/
e. Giorgio andò sempre al lavoro a piedi. /aoristico-iterativo/

Mentre dunque il valore abituale sembra appartenere intrinsecamente al cor-


redo aspettuale dei Tempi di natura imperfettiva dell’Indicativo, lo stesso non può
dirsi dell’IFS, che si limita ad ereditare la lettura iterativa della frase reggente, sia
essa autenticamente abituale o meramente aoristico-iterativa16.

16 Benché quella qui proposta mi paia l’interpretazione più plausibile, devo ammettere che
questo problema conserva margini di incertezza. Siamo chiaramente in presenza di un effetto di
neutralizzazione, la cui portata è difficilmente valutabile. Comunque sia, nulla di sostanziale
muterebbe nell’impostazione di questo lavoro, qualora si dovesse riconoscere pieno statuto all’a-
spetto abituale anche nel caso dell’IFS.
Un ulteriore invito alla cautela mi viene dall’es. (18), in cui la presenza dell’avverbio abi-
tualmente coll’IFS non stride minimamente, in analogia con quanto accade coll’Imperfetto in (i)
e a differenza di quanto si osserva col Passato Semplice in (ii):
(i) Gigi dormiva abitualmente da sua zia
(ii) ?? Gigi dormì abitualmente da sua zia
126 PIER MARCO BERTINETTO

2.3. Orientamento simultaneo

La stretta simultaneità è osservabile nel caso degli IFS retti da verbi di per-
cezione fisica (vedere, osservare, sentire, ascoltare, udire etc.; cf. 21), nonché in
certi costrutti pseudorelativi con IFS introdotto dalla preposizione a (cf. 22):

(21) S Quel giorno, Ettore #*vedeva / vide Lucio *restare a casa / dor-
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mire in giardino / #*incontrare Amilcare / mangiare una mela.


C * Quel giorno / quest’oggi / domani, Ettore vedeva / vide Lucio
essere restato a casa / aver dormito in giardino / aver incon-
trato Amilcare / aver mangiato una mela.
S’ ? In quel momento, Ettore vedeva Lucio e Amilcare incontrar-
si in giardino.
(22) a. Rimasero tutti a guardare la TV (*aver guardato)
b. Fu sorpreso a cospirare (*aver cospirato).

Si noti, innanzi tutto, l’agrammaticalità generalizzata dell’IFC; un fatto sot-


tolineato, per le strutture del tipo di (22), anche da Skytte et al. (1991: 530)17. Le
ragioni sono diverse da – ma pur sempre analoghe a – quelle che incidono sull’e-
sclusione di tale forma con le strutture infinitivali orientate prospettivamente, discus-
se nel paragrafo precedente. Per ciò che riguarda i costrutti del tipo di (21), va osser-
vata l’impossibilità di impiegare verbi stativi. Una situazione statica non può essere,
per definizione, direttamente percepita; ciò che si percepisce è sempre un evento.
Inoltre, va sottolineato che l’Imperfetto del verbo reggente appare difficilmen-
te compatibile con l’Infinito dei verbi di ‘conseguimento’, com’è indicato dal-
l’indice ‘#’ associato al diacritico di agrammaticalità. La ragione è la seguente.

Dunque, benché non vi siano indizi certi per asserire che l’aspetto abituale rientra tra le
possibilità semantiche dell’IFS, è doveroso precisare che questa forma manifesta una flessibilità
assai maggiore rispetto ai Tempi inerentemente perfettivi.
17 Si noti che l’esclusione dell’IFC nei costrutti introdotti da a sembra essere assoluta,
anche indipendentemente dall’interpretazione simultanea. Nell’esempio seguente, infatti, è pos-
sibile avere un’interpretazione potenziale – ossia tendenzialmente prospettiva, e dunque non
strettamente attuale e simultanea – dell’IFS, eppure l’uso dell’IFC resta escluso:
(i) Non c’era nessuno ad avvertirlo (*averlo avvertito).
Secondo Skytte et al. (1991: 530), i costrutti di questo tipo sarebbero caratterizzati dal fatto
di non esprimere “mai un tempo indipendente da quello del verbo reggente”; ciò sarebbe in par-
ticolare dimostrato dal fatto che “l’infinitiva non può contenere un elemento circostanziale con
valore temporale”. Tuttavia, benché questo sia vero in molti casi, mi sembra che vi siano delle
eccezioni:
(ii) * È venuto ieri a vederla oggi
(iii) Ieri era intenzionato a farlo oggi, ma poi ha cambiato idea.
In quest’ultimo esempio, l’interpretazione è chiaramente prospettiva. Non sembra dunque
possibile attribuire un’interpretazione temporale unitaria ai costrutti infinitivali introdotti da a.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 127

L’interpretazione aspettuale imperfettiva associabile ad un ‘conseguimento’ può


soltanto essere progressiva o abituale; l’aspetto continuo (imperfettività durativa)
è a priori escluso, data la natura non durativa di questi predicati. Nel contesto qui
in discussione, dunque, l’unica lettura ammissibile sarebbe quella progressiva; ma
dato che il verbo reggente è un durativo coniugato all’Imperfetto, inserito in un
contesto atto a favorire piuttosto l’accezione continua che non quella progressiva,
si produce inevitabilmente un forte attrito18. Se però, come in (21/S’), l’avverbia-
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18 Si badi, dunque, che ciò non dipende dal fatto che i ‘conseguimenti’ siano di per sé restii
ad esprimere valore progressivo. Il problema è abbastanza delicato, e merita un attimo di rifles-
sione. A giudizio di alcuni (per es., Giorgi / Pianesi (1997)), i ‘conseguimenti’ usati all’Imperfet-
to non avrebbero valore progressivo, in quanto designano eventi completi (in altre parole, impli-
cano chiusura telica), ed anzi il loro uso appare spesso poco felice (cf. (i)). A riprova di ciò, si
cita il fatto che in tali casi si ricorre spesso alla perifrasi progressiva proprio per forzare la let-
tura imperfettiva (annullando la chiusura telica; cf. ii).
(i) ? Quando arrivai, Lapo moriva.
(ii) Quando arrivai, Lapo stava morendo.
Tuttavia, a me pare che le cose non stiano in questi termini. Innanzi tutto, non è sempre
necessariamente vero che l’Imperfetto dei ‘conseguimenti’ comporti una chiusura telica (cf.
(iii)); inoltre, può anche succedere che la chiusura telica permanga pur in presenza della peri-
frasi progressiva (cf. (iv), almeno secondo la lettura più ovvia).
(iii) Quando entrai, Luca usciva; feci appena in tempo a trattenerlo
(iv) Quando puntai il binocolo, vidi che Teo stava proprio in quel momento rag-
giungendo la vetta.
Mi pare dunque che la questione vada impostata altrimenti. L’Imperfetto dei ‘conseguimen-
ti’ – anche senza perifrasi – può esprimere nei contesti appropriati la lettura imperfettiva, indipen-
dentemente dal fatto che vi sia o no chiusura telica dell’evento. Trattandosi di verbi composti di
una fase preparatoria (di durata imprecisabile) e di una brevissima fase culminante (cui è in ultima
analisi imputabile il loro carattere convenzionalmente non durativo), la visione progressiva può
alternativamente, e con pari legittimità (pur con ostacoli pragmatici difficilmente preventivabili; cf.
i), fissarsi sulla fase preparatoria dell’evento (cf. ii-iii) – producendo la tipica lettura imminenzia-
le associabile ai ‘conseguimenti’ in accezione progressiva – ovvero sulla fase culminante (cf.iv).
Da cosa nasce dunque la difficoltà riscontrata coi ‘conseguimenti’ nell’es. (21/S)? Essa è
dovuta al fatto che un verbo durativo all’Imperfetto nella reggente impone severi ostacoli all’in-
staurarsi della visione progressiva, in quanto (a meno che non vi siano avverbi puntuali, come
in (21/S’), non consente di individuare un singolo istante di focalizzazione (cf. v; che potrà sem-
mai essere interpretato in accezione abituale, come una serie di azioni ripetute). Si noti che un’a-
naloga restrizione non grava sui verbi di realizzazione (cf. vi), perché in tali casi è possibile asso-
ciare la lettura continua ad entrambi gli eventi, cosa ovviamente esclusa per i ‘conseguimenti’ a
causa della loro natura non durativa:
(v) ?? Livia vedeva che Teo usciva
(vi) Livia vedeva che Teo mangiava una mela.
A questo si aggiunga che la perifrasi progressiva non può comparire in dipendenza di verbi
di percezione diretta, neppure quando il verbo reggente è al Passato Semplice (cf. vii). Ma ciò è
probabilmente dovuto ad idiosincratiche restrizioni a carico dell’Infinito italiano, piuttosto che
a restrizioni aspettuali, dato che è qui perfettamente possibile dare un’interpretazione progressi-
va dell’lFS:
(vii) Quel giorno, Ettore vide Lucio mangiare / *stare mangiando / che stava man-
giando una mela.
128 PIER MARCO BERTINETTO

le durativo quel giorno viene sostituito dal puntuale in quel momento (perfetta-
mente compatibile con l’interpretazione progressiva), l’attrito si attenua sensibil-
mente. Quando invece il Tempo reggente è di natura perfettiva – e più specifica-
mente aoristica – allora le possibili interpretazioni aspettuali dell’IFS emergono
con chiarezza, con la seguente distribuzione: (i) lettura progressiva, accessibile
agli eventivi durativi (‘attività’ e ‘realizzazioni’); (ii) lettura aoristica, accessibile
nuovamente ai medesimi verbi ed obbligatoria coi ‘conseguimenti’, dato il loro
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carattere non durativo. Significativamente, nel primo caso, è possibile parafrasare


l’enunciato mediante la perifrasi progressiva (lo vide che stava dormendo / man-
giando una mela)19.
Oltre a ciò, l’IFS di simultaneità può comparire in contesti di abitualità:

(23) a. Ogni giorno, Ettore vedeva Lucio dormire in giardino.


b. Teresa trovava sempre il passero a beccuzzare le briciole sul
suo balcone.

Considerando tuttavia le avvertenze fornite sopra circa l’effettiva interpretazione


aspettuale di tali IFS (aoristico-iterativa, anziché propriamente abituale), mi asterrò
d’ora in poi dal segnalare questa circostanza. L’accessibilità di questi impieghi è
garantita a priori dalla possibilità di assegnare valore aoristico all’IFS nei contesti
appropriati. L’unica differenza, rispetto al caso di (21), con IFS retto da un Passato
Semplice nella principale, sta nel fatto che in (23), come già in (16), il verbo reggen-
te, coniugato imperfettivamente, esprime abitualità. Ma, come abbiamo visto in § 2.2,
l’abitualità del verbo reggente crea un contesto aspettualmente ‘opaco’, in cui gli
eventi della dipendente possono essere interpretati come microeventi iterati di natura
aoristica. L’abitualità in senso stretto non sembra rientrare, come si è detto, tra i valo-
ri aspettuali dell’Infinito. Tant’è vero che possiamo anche avere enunciati di senso ite-
rativo costruiti su Tempi di natura intrinsecamente aoristica, come in (17).

2.4. Orientamento retrospettivo

L’IFS con valore retrospettivo compare nelle completive infinitivali di tipo

Per la definizione degli aspetti progressivo e continuo, cf. Bertinetto ( 1986: §§ 3.1.1-3,
3.1.6-7). Circa invece il problema posto dall’interpretazione dell’Imperfetto coi ‘conseguimen-
ti’, cf. Bertinetto (2001).
19 Le due interpretazioni aspettuali dell’IFS italiano sono esplicitamente disambiguate in
inglese dall’alternanza tra Infinito e Gerundio:
(i) John saw Mary eat the apple /aoristico/.
(ii) John saw Mary eating the apple /progressivo/.
Siller-Runggaldier (1997) discute di analoghe costruzioni gerundivali in rumeno e in talu-
ni dialetti ladini dolomitici.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 129

causale (cf. 24) o nelle temporali introdotte da dopo (cf. 25):


(24) S * Quel giorno, lo licenziarono per restare a casa / dormire trop-
po / incontrare un pregiudicato / mangiare un panino fuori orario.
C Quel giorno, lo licenziarono per essere rimasto a casa / aver
dormito troppo / aver incontrato un pregiudicato / aver man-
giato un panino fuori orario.
S’ Quel giorno, lo licenziarono a causa del suo essere troppo
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negligente.
(25) S * Quel giorno, dopo stare assente / dormire nel proprio letto /
incontrare Edo / pulire la cucina, Lucia recuperò il tempo per-
duto.
C Quel giorno, dopo *essere stata assente / aver dormito nel pro-
prio letto / aver incontrato Edo / aver pulito la cucina, Lucia
recuperò il tempo perduto.

La situazione che si osserva è, in un certo senso, speculare rispetto a quelle


studiate finora. Qui è l’IFS ad essere escluso, mentre l’IFC trova piena leggitti-
mazione, il che sancisce l’orientamento retrospettivo di questi costrutti. Semmai,
l’IFS può comparire in forma nominalizzata, come si osserva in (24/S’).
Qualche commento si rende necessario circa l’esclusione degli stativi in (25/C).
Si tratta in realtà di una restrizione pragmatica, dovuta al fatto che tali verbi presenta-
no, di norma, contorni temporali indefiniti. Se tuttavia i contorni vengono implicita-
mente o esplicitamente indicati, come in (26), la situazione cambia radicalmente:

(26) a. Dopo aver posseduto un’auto, non ci rassegna più ad andare a


piedi.
b. Dopo aver posseduto un’auto per dieci anni, mi impigrii ad un
punto tale da doverne provare vergogna.
c. Dopo aver avuto mal di pancia per due giorni, mi decisi a
chiamare il medico.
d. Dopo essere stata in vacanza per due settimane, Elisa si
ritrovò con una montagna di arretrati.

Circa l’interpretazione aspettuale di questi IFC, non occorre dilungarsi,


dopo quanto asserito nel § 1. È tuttavia utile sottolineare che, nelle temporali
introdotte da dopo, sembrerebbe di primo acchito accessibile anche la lettura
inclusiva, che sappiamo essere di norma disponibile per l’aspetto compiuto coi
verbi atelici:

(27) Dopo aver avuto mal di denti tutto il santo giorno, mi sono alla
buon’ora deciso a chiamare la guardia medica.

In questo enunciato, in effetti, l’evento indicato dall’IFC non è necessaria-


130 PIER MARCO BERTINETTO

mente concluso – ed anzi, con ogni probabilità non lo è – al MR (coincidente qui


col ME). Ciò sembra appunto suggerire una lettura aspettualmente ibrida, com’è
tipico dell’accezione inclusiva dell’aspetto compiuto (cf. Bertinetto 1986: §
3.3.1). Va tuttavia notato che tale lettura appare accessibile soltanto agli stativi, di
nuovo a causa della natura frequentemente indefinita del loro contorno tempora-
le. Per contro, con i verbi di ‘attività’ questa accezione non sembra facilmente
ottenibile, contrariamente a quanto dovremmo aspettarci, visto che l’accezione
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inclusiva è di per sé disponibile (salvo idiosincratiche restrizioni) per i verbi ate-


lici in generale, ossia per stativi ed ‘attività’:

(28) Dopo aver studiato tutto il pomeriggio, mi rassegnai a fare un


ulteriore sforzo, dato che l’esame era pericolosamente vicino.

Qui abbiamo infatti a che fare, verosimilmente, con un primo evento com-
piuto, cui ne segue un secondo, della stessa natura ma pur sempre distinto. Si può
dunque concludere che l’apparente comparsa della lettura inclusiva in (27) è un
mero effetto pragmatico, legato alla frequente assenza di netti contorni temporali
negli stativi; i quali, per giunta, si sottraggono al controllo agentivo del soggetto,
e non ammettono quindi la possibilità di un intervento consapevole mirante a por
fine alla situazione. Ma nonappena l’evento stativo viene esattamente delimitato
sul piano temporale, come in (26), l’impressione di inclusività si dissolve.

2.5. Orientamento temporale ibrido

A differenza dei casi precedenti, che presentano un orientamento temporale


univoco (con l’eccezione delle completive rette da verbi dichiarativi; cf. 15), i
costrutti che mi accingo ora a discutere sono caratterizzati da un comportamento
ibrido.
Le completive rette da verbi epistemici ([i] sospettare, credere, pensare, ricor-
darsi etc., cf. es. 29-30; [ii] sperare, temere, etc., cf. 31) ammettono l’IFC con il suo
consueto valore di compiutezza e retrospettività. Per quanto riguarda l’IFS, la situa-
zione è invece abbastanza variegata. Cogli stativi emerge una generalizzata lettura
di simultaneità – indipendentemente dal valore aspettuale del verbo reggente –
mentre cogli eventivi possono sorgere problemi di accettabilità. Conviene conside-
rare separatamente gli esempi (29-31). Cominciando da (29/S), appaiono decisa-
mente problematici gli IFS retti da un Tempo aoristico, come mostra l’indice ‘+’
associato ai consueti diacritici indicanti i diversi livelli di grammaticalità. Legger-
mente diversa è la situazione con gli IFS retti dall’Imperfetto, contrassegnato dal-
l’indice ‘°’. È da notare che, nell’uno come nell’altro caso (ma con l’eccezione per-
sistente dei ‘conseguimenti’, e certo a causa del loro carattere non durativo), l’ac-
cettabilità aumenta qualora il verbo reggente sia sostenuto da un qualche grado di
enfasi (cf. 29/S’), ovvero se ne delimiti la durata (cf. 29/S”). Con tali espedienti, si
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 131

viene infatti a creare una struttura avversativa (del tipo: ‘invece di A, B’), che favo-
risce una lettura aspettualmente imperfettiva e temporalmente simultanea. Vale anche
la pena di ricordare che i giudizi di grammaticalità possono drasticamente mutare a
seconda dei predicati infinitivali prescelti; si riconsideri, a tal riguardo, la nota 10. In
tutti questi casi, comunque, l’orientamento temporale punta decisamente verso la let-
tura simultanea, sempre nei limiti in cui si crei una situazione di tendenziale accetta-
bilità. In (30), la situazione si presenta in modo simile, anche per quanto riguarda l’o-
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rientamento temporale. Bisogna tuttavia tener conto del fatto che, in questo caso, l’o-
rientamento può essere modificato in senso prospettivo attraverso l’inserimento di un
opportuno avverbio temporale (cf. 30/S’). Nettamente diversa è invece la situazione di
(31); in questo caso, l’IFS dei verbi eventivi acquista un netto valore prospettivo:

(29) S Quel giorno, Ezio °sospettava / +sospettò di avere ragione /


+?disegnare la cosa sbagliata / °?/+??uscire troppo presto /
°?/+??costruire la casa su terreno franoso.
C Quel giorno, Ezio sospettava / sospettò di aver avuto ragione
/ aver dormito nel letto sbagliato / essere uscito troppo presto
/ aver costruito la casa su terreno franoso.
S’ Quel giorno, Ezio SOSPETTÒ di disegnare la cosa sbagliata,
ma poi si convinse che non era vero.
S” Quel giorno, Ezio sospettò per un po’ di disegnare la cosa sba-
gliata, ma poi si convinse che non era vero.
(30) S Quel giorno, Ezio °credeva / +credette di essere nel giusto /
+??comportarsi da gentiluomo / ?°/+??uscire troppo presto /
?°/+??costruire la casa su terreno franoso.
C Quel giorno, Ezio credeva / credette di essere stato nel giusto
/ essersi comportato da gentiluomo / essere uscito troppo pre-
sto / aver costruito la casa su terreno franoso.
S’ Ezio credeva di incontrare suo zio l’indomani, ma le cose
andarono diversamente
(31) S Quel giorno, Ezio sperava / +sperò di essere nel giusto / farsi
onore / +?uscire in tempo / +?risolvere il problema.
C Quel giorno, Ezio sperava / sperò di essere stato nel giusto /
essersi fatto onore / essere uscito in tempo / aver risolto il pro-
blema.

È degno di nota il fatto che l’accettabilità di questi enunciati può talvolta


aumentare in contesto di abitualità (cf., per contrasto, 29/S):
(32) a. Nei primi giorni di ora legale, Ezio pensava immancabilmen-
te di uscire troppo presto dall’ufficio.
L’orientamento potrebbe qui anche apparire retrospettivo (cf.: ‘pensava di es-
132 PIER MARCO BERTINETTO

sere uscito troppo presto’), oltreché di simultaneità. Ma ritengo che si tratti di una
falsa impressione: in realtà, l’apparente retrospettività è unicamente dovuta al
fatto che il contesto abituale presuppone un precedente accumulo di esperienze
del tipo pertinente. Ossia: ogni giorno, Ezio pensava erroneamente che l’ora del-
l’uscita fosse anticipata rispetto all’orario canonico. Se davvero si trattasse di
orientamento retrospettivo del singolo microevento iterato, avremmo in questi
casi l’IFC (pensava di essere uscito troppo presto). Si noti comunque che, anche
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assegnando correttamente una lettura simultanea all’IFS di (32a), i singoli


microeventi iterati vengono pur sempre visti come interamente realizzati, ossia
perfettivi (cf. la discussione in § 2.2). Ciò spiega forse la non impeccabile accet-
tabilità di (32b), dove l’ampia durata dell’evento designato impedisce la visione
iterativa, obbligando a dare dell’IFS un’interpretazione aspettuale continua (gros-
so modo: ‘Ezio veniva periodicamente colto dal sospetto di andar facendo la cosa
sbagliata’). In ogni caso, al di fuori dei contesti abituali, l’interpretazione aspet-
tuale degli IFS di (29-30) è prettamente imperfettiva (per lo più: continua), come
mostra la seguente parafrasi: ‘Quel giorno, Ezio sospettava / sospettò di andar
facendo la cosa sbagliata’).

(32) b. ? Nei giorni di cattivo umore, Ezio sospettava di costruire la


casa su un terreno cedevole.

Da quanto si è visto, è d’uopo concludere che i verbi epistemici costituiscono


un insieme non del tutto omogeneo dal punto di vista dell’orientamento tempora-
le; cosa, del resto, tutt’altro che sorprendente, visto che la classificazione dei con-
testi infinitivali su cui mi baso non è stata concepita in vista del comportamento
tempo-aspettuale di questi predicati. Comunque sia, ciò che importa soprattutto
mettere in luce qui è l’orientamento temporale ibrido di questi costrutti: i quali,
oltre a tollerare in generale, coll’IFC, l’orientamento retrospettivo, ammettono in
varia misura, coll’IFS, la lettura simultanea (segnatamente cogli stativi), e con talu-
ni verbi reggenti (cf. sperare, ma in parte anche credere) persino la lettura pro-
spettiva, limitatamente ai predicati eventivi. È appena il caso di sottolineare che il
diverso orientamento indotto sull’Infinito dal verbo reggente è un’ulteriore prova
dell’assenza di intrinseco contenuto temporale in questa forma verbale.
Non meno variegato è il comportamento dei costrutti infinitivali retti da verbi
di percezione intellettuale ([i] dimenticare, ricordare etc., cf. 33; [ii] constatare,
percepire, osservare, accorgersi, scoprire etc., cf. 34). Anche qui, l’IFC è gene-
ralmente ammesso, anche se l’Imperfetto nella reggente non appare perfettamen-
te naturale con tutti i tipi di predicato in (34/C). Quanto all’IFS, si verifica una
biforcazione di comportamenti, che non riguarda peraltro gli stativi, i quali gene-
rano sempre la lettura simultanea, senza restrizioni per quanto riguarda il valore
aspettuale del verbo reggente. La biforcazione è lieve nei contesti introdotti da
Tempi imperfettivi: in tal caso, i verbi del gruppo [i] ammettono con difficoltà
l’IFS dei verbi eventivi, mentre coi verbi del gruppo [ii] tale restrizione sembra
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 133

limitarsi ai soli predicati telici (superfluo aggiungere che l’inglobamento entro un


contesto abituale può agevolmente riscattare le difficoltà d’uso dell’Imperfetto
nella principale, come mostra 33/S’). L’interpretazione temporale dell’IFS è, in
questi casi, invariabilmente di simultaneità. La divaricazione aumenta invece nei
contesti introdotti da Tempi perfettivi: in tali circostanze, coi verbi del gruppo [i]
i predicati eventivi danno adito alla lettura prospettiva (non ci si lasci ingannare,
in 33/s, dal senso del verbo dimenticare; ci si dimentica di ciò che deve ancora
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essere fatto), mentre coi verbi del gruppo [ii] permane la lettura di simultaneità:

(33) S Quel giorno, Ugo °dimenticava / dimenticò / dimenticherà di


avere ragione / °*dormire a casa / °*incontrare Alma / °*to-
gliere i vasi dal balcone.
C Quel giorno, Ugo dimenticava / dimenticò / dimenticherà di
aver avuto ragione / aver dormito a casa / aver incontrato
Alma / aver tolto i vasi dal balcone.
S’ Ugo dimenticava sempre di chiudere il gas.
(34) S Quel giorno, Edo °si accorgeva / si accorse di avere ragione /
disegnare bene / °?partire troppo presto / °?fare i compiti con
molta fatica.
C Quel giorno, Edo ?si accorgeva / si accorse di aver avuto ragio-
ne / aver disegnato bene / essere partito troppo presto / aver
fatto i compiti con molta fatica.

Ulteriormente diverso è il comportamento delle infinitive soggettive introdot-


te da verbi implicativi di sensazione psicologica ([i] allettare, rallegrare, spaven-
tare, deprimere, suscitare, risvegliare (per es. sintomi depressivi) etc., cf. 35; [ii]
appassionare, interessare, divertire, infastidire etc., cf. 36; [iii] entusiasmare, ral-
legrare, rattristare, riempire d’orgoglio, sorprendere, stupire etc., cf. 37-39). Si
noti che, in questi contesti, tali verbi tendono a comparire in forma riflessiva. Con
i verbi del gruppo [i], l’orientamento è decisamente prospettivo, come è del resto
suggerito dall’agrammaticalità dell’IFC (cf. 35/C). Coll’IFS, emerge la difficoltà
di utilizzare l’aspetto perfettivo nella reggente, a meno che non si frapponga un
sintagma come l’idea / il fatto di (cf.: mi allettò l’idea di dormire nel mio letto)20.
Viceversa, con l’aspetto imperfettivo nella reggente, emerge la lettura simultanea
cogli stativi, e la lettura prospettiva con i verbi eventivi. I verbi del gruppo [ii]
sono decisamente refrattari all’IFC ‘nudo’ (cf. 36/C). Quanto all’IFS, si osserva la
seguente situazione: l’aspetto perfettivo della reggente induce la lettura simulta-
nea; l’aspetto imperfettivo, per contro, produce la lettura simultanea con gli stati-

20 L’uso di siffatti sintagmi sembra obbligatorio qualora, invece che in forma riflessiva, il
verbo reggente compaia in forma passiva:
(i) Dora era allettata *(dall’idea) di dormire in tenda.
134 PIER MARCO BERTINETTO

vi, e la lettura prospettiva con i verbi telici, mentre le ‘attività’ ammettono entram-
be le letture. Con i verbi del gruppo [iii], infine, l’IFC risulta pienamente accetta-
bile solo se preceduto da il fatto di (cf. 37/C). Dunque, l’orientamento è solo
apparentemente retrospettivo; in realtà, tali costrutti sono molto più probabilmen-
te orientati verso l’onnitemporalità indotta dalla nominalizzazione. Quanto
all’IFS, valgono a grandi linee le osservazioni avanzate per il gruppo [ii], salvo
forse che in certi casi l’accettabilità aumenta sensibilmente inserendo il sintagma
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il fatto di (cf. 38-39/S).

(35) S Quel giorno, mi allettava / +allettò +??essere al centro dell’at-


tenzione / +??dipingere per strada / +??cogliere un frutto proi-
bito / +??mangiare una mela del giardino.
C * Quel giorno, mi allettava / allettò (l’idea di) essere stato al
centro dell’attenzione / aver dipinto per strada / aver colto un
frutto proibito / aver mangiato una mela del giardino.
(36) S Quel giorno, mi appassionava / appassionò essere al centro
dell’attenzione / dipingere per strada / incontrare Edo / man-
giare una mela del giardino.
C * Quel giorno, mi appassionava / appassionò (l’idea di) essere
stato al centro dell’attenzione / aver dipinto per strada / aver
incontrato Edo / aver mangiato una mela del giardino.
(37) S Quel giorno mi entusiasmava / entusiasmò essere al centro del-
l’attenzione / dipingere per strada / incontrare Edo / mangiare
una mela del giardino.
C Quel giorno mi entusiasmava / entusiasmò ??(il fatto di) esse-
re stato al centro dell’attenzione / aver dipinto per strada / aver
incontrato Edo / aver mangiato una mela del giardino.
(38) S Quel giorno, mi °rallegrava / +rallegrò °?/+?essere in disparte
/ dipingere per strada / incontrare Edo / mangiare una mela del
giardino.
C Quel giorno, mi rallegrava / rallegrò ??(il fatto di) essere stato
in disparte / aver dipinto per strada / aver incontrato Edo / aver
mangiato una mela del giardino.
(39) S Quel giorno, mi °stupiva / +stupì alquanto essere al centro del-
l’attenzione / °?/+?correre con tanta scioltezza / °?incontrare
Edo / °??risolvere il problema con tanta facilità.

Ancora più intricata è la situazione delle infinitive soggettive introdotte da


verbi che danno vita a strutture di senso ‘consequenziale’, ossia indicanti la con-
seguenza di un dato evento ([i] comportare, implicare, rischiare etc.; [ii] scatena-
re, migliorare, irritare, aggravare, acuire, rovinare, aumentare, creare, sminuire,
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 135

causare, ritardare, semplificare, rianimare, aiutare, forzare, incitare, indurre,


obbligare, cambiare etc.; [iii] riempire di ricordi, esaurire la pazienza, ingenera-
re, estenuare etc.). Come nel caso precedente, anch’esso costituito da strutture
soggettive, è sempre possibile inserire prima dell’Infinito la locuzione il fatto di
oppure l’articolo determinativo (ovvero ancora, ma solo nei rari casi in cui sia
ammesso il senso prospettivo, l’idea di); anzi, coll’IFC questi espedienti di nomi-
nalizzazione sono praticamente indispensabili al fine di ottenere piena grammati-
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calità. Data la pervasività del fenomeno, negli esempi che seguono mi limiterò a
sottolinearlo soltanto nelle circostanze in cui mi parrà che la presenza di tali ingre-
dienti sia imposta dall’esigenza di migliorare l’accettabilità dell’enunciato21.
I verbi che introducono queste strutture sembrano appartenere a due tipi azio-
nali (gli indici numerici rinviano all’elenco del precedente capoverso): [i] stativi;
[ii-iii] predicati ibridi, oscillanti tra una lettura di ‘attività’ (durativo-atelica) negli
impieghi imperfettivi, ed una lettura di ‘conseguimento’ negli impieghi perfetti-
vi22. È indispensabile, nella circostanza, considerare l’interazione delle variabili
azionali in entrambi i predicati coinvolti: quello introduttore e quello all’Infinito.
Per facilitare la lettura degli esempi, indicherò le diverse valenze azionali con le
seguenti sigle: [s] per stativo, [a] per ‘attività’, [c] per ‘conseguimento’, [r] per
‘realizzazione’, [i] per incrementativo23, [a/c] per il tipo misto ‘attività/consegui-
mento’.
Il comportamento tipico dell’IFC è mostrato in (40/C, 41/C), in cui viene
segnalata la quasi obbligatorietà dell’inserzione di il fatto di o dell’articolo deter-
minativo. Trattandosi tuttavia (come già segnalato) di un dato praticamente
costante, mi asterrò nei successivi esempi di questa batteria dal produrre ulteriori
enunciati coll’IFC, a meno che non occorra segnalare qualche variazione rispetto
alla tendenza generale (cf. 52/C). Valgono, ovviamente, le considerazioni già fatte
circa l’effettiva interpretazione temporale delle clausole introdotte da siffatti stru-
menti di nominalizzazione, che indirizzano piuttosto verso l’onnitemporalità che
non verso l’autentica retrospettività. Circa invece l’orientamento dell’IFS, la
situazione appare piuttosto articolata, fatta salva l’osservazione che i predicati del

21 È appena il caso di sottolineare che la propensione di questi predicati ad accompagnarsi


(specie coll’lFC) alla locuzione il fatto di ne denuncia l’inequivocabile carattere fattivo. Si noti
comunque che la fattività non implica assolutamente perfettività, né orientamento retrospettivo,
potendo essa convivere senza attriti con l’imperfettività (nell’accezione continua) e con altri tipi
di orientamento temporale.
22 Per apprezzare l’ibridismo di tali predicati, si consideri la possibilità di accostarli, alter-
nativamente, ad avverbi temporali che normalmente disambiguano ‘attività’ e ‘conseguimenti’:
(i) Gianni lavorò [a] per un’ora / *praticamente di colpo.
(ii) Gianni partì [c] *per un’ora / praticamente di colpo.
(iii) La presenza dei muratori lo irritò [a/c] per due giorni [= ‘lo tenne irritato’] /
praticamente di colpo [= ’lo fece irritare’].
23 Per una trattazione dei predicati incrementativi, cf. Bertinetto / Squartini (1995).
136 PIER MARCO BERTINETTO

sottogruppo [iii] appaiono inadatti ad orientare prospettivamente l’IFS (essi sono


dunque unicamente capaci di orientarne la lettura in senso simultaneo o retro-
spettivo). Per facilitarne la comprensione del problema, discuterò in due tappe
successive il comportamento delle diverse classi azionali coniugate all’IFS: dap-
prima con verbo introduttore coniugato imperfettivamente (a), in seguito con
verbo introduttore coniugato perfettivamente (b).
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(a) Verbo introduttore coniugato imperfettivamente (es.: implicava).


Cogli stativi, si ottiene la lettura simultanea (cf. 40-1), che perma-
ne ovviamente anche cogli stativi permanenti (cf. 42). Coi verbi di
‘attività’, oltre alla lettura simultanea (cf. 44), può emergere in
aggiunta una lettura pseudoprospettiva di natura ipotetica (cf. 43):
‘se avesse dipinto, ciò avrebbe comportato’). Quest’ultimo fenome-
no, beninteso, può manifestarsi solo con verbi introduttori dei tipi
[i-ii], non certo con introduttori del tipo [iii], che escludono – come
già detto – l’orientamento prospettivo. La situazione muta ulterior-
mente coi ‘conseguimenti’: possiamo infatti avere interpretazione
simultanea (cf. 47), pseudoprospettiva (cf. 45, 47), e perfino pro-
spettiva tout court (cf. 48). Va tuttavia segnalato che, in qualche
caso, la pragmatica ci porta ad escludere – almeno tendenzialmen-
te – le letture simultanea o prospettiva, il che rende di dubbia accet-
tabilità l’Imperfetto coi verbi del tipo [iii], a meno che non si voglia
darne un’interpretazione ‘narrativa’ (cf. 46). Quanto ai verbi di ‘rea-
lizzazione’, essi oscillano tra la lettura simultanea e quella pseudo-
prospettiva (cf. 49-50), tranne con introduttori del tipo [iii], che
escludono la seconda possibilità (cf. 51). Ciò vale anche per gli
‘incrementativi’ (cf. 52-53), salvo il fatto che in queste circostanze
l’IFC risulta del tutto agrammaticale (cf. 52/C)24.
(b) Verbo introduttore coniugato perfettivamente (es.: implicò). Cogli sta-
tivi (cf. 40-2) e con le ‘attività’ (cf. 43-44) viene confermata la lettura
simultanea, cui si affianca – solo per gli stativi – la lettura prospettiva.
Ma le conseguenze più notevoli si osservano coi verbi telici (‘conse-
guimenti’, ‘realizzazioni’, ‘incrementativi’): in tutti questi casi, l’o-
rientamento può essere di simultaneità oppure retrospettivo, in rela-
zione al singolo contesto. La lettura simultanea mi sembra soprattutto
prominente in (51), mentre quella retrospettiva emerge con particola-
re evidenza in (45, 47, 49, 50/S’, 53). Nei casi restanti, mi sembrano

24 Molto simili alle strutture appena discusse sono quelle di carattere equativo, che specifi-
cano il valore o il significato dell’evento infinitivale, anziché indicarne le conseguenze:
(i) Finire il lavoro in tempo equivaleva a / significava potersela spassare.
(ii) Finire il lavoro in tempo appariva estremamente allettante.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 137

ugualmente accessibili entrambe le interpretazioni. Questo è un punto


che va messo nel debito risalto: si tratta infatti, fra i dati finora consi-
derati, di uno dei pochissimi casi di autentica retrospettività docu-
mentabili per l’IFS italiano 25. Tenuto conto della struttura semantica
di questi costrutti (che indicano, come si è detto, la conseguenza di
una certa situazione od evento), questo dato non è in sé e per sé sor-
prendente; lo diventa solo in rapporto all’estrema rarità di questa inter-
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pretazione temporale coll’IFS italiano 26. Particolarmente significativo


mi pare (48): il medesimo avverbiale temporale (alle 8 di sera), che
riceve un’interpretazione prospettiva con verbo introduttore all’Imper-
fetto, riceve invece un’interpretazione nettamente simultanea o retro-
spettiva con verbo introduttore al Passato Semplice. Superfluo dire
che l’opzione tra simultaneità e retrospettività non è sempre libera, ma
dipende dal contesto: si confrontino, a tal proposito, (50/S-S’):

(40) S Quel giorno, aver mal di denti [s] implicava / implicò la rinun-
cia ai suoiprogrammi [s].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) aver avuto mal di denti [s] impli-
cava / implicò la rinuncia ai suoi programmi [s].
(41) S Quel giorno, essere di cattivo umore [s] gli alienava / alienò le
simpatie di tutti [a/c].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) essere stato di cattivo umore [s]
gli alienava / alienò le simpatie di tutti [a/c].
(42) S Quel giorno, essere alto [s] gli dava / diede degli indubbi van-
taggi [a/c].
(43) S Quel giorno, dipingere dal vero [a] comportava / comportò un
forte impegno [s].
(44) S Quel giorno, osservare i dintorni [a] lo riempiva / riempì di
ricordi [a/c].
(45) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] implicava / implicò gros-
se conseguenze [s].
(46) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] tanto precocemente lo
? riempiva / riempì d’eccitazione [a/c].
(47) S Quel giorno, tagliare le pensioni [c] così inaspettatamente pro-

25 Un altro caso lo abbiamo in verità già trovato nella nota 7, a proposito delle proposizio-
ni interrogative indirette introdotte da perché.
26 Ma non, si badi, in spagnolo. Su ciò ritornerò in § 4.
138 PIER MARCO BERTINETTO

vocava / provocò forti proteste [a/c].


(48) S Quel giorno, partire alle 8 di sera [c] lo irritava / irritò profon-
damente [a/c].
(49) S In quel periodo, costruire una staccionata [r] comportava /
comportò un esborso ingente [s].
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(50) S Quel giorno, nuotare fino al molo [r] produceva / produsse in


lui uno stato di eccitazione [a/c].
S’ Quel giorno, nuotare fino al molo [r] subito dopo pranzo pro-
vocò in Aldo un terribile stato di spossatezza, che lo invase a par-
tire dalle 5 costringendolo ad andare a letto prima del solito [a/c].
(51) S Quel giorno, mangiare la pasta scotta [r] esauriva / esaurì la sua
sopportazione [a/c].
(52) S Quel giorno, aumentare a più riprese il livello dell’acqua nel
bacino [i] implicava / implicò una situazione di autentica
emergenza [s].
C Quel giorno, °*/+?(il fatto di) aver aumentato a più riprese il
livello dell’acqua nel bacino [i] °implicava / +implicò una
situazione di autentica emergenza [s].
(53) S Quel giorno, complicare di continuo le procedure [i] creava /
creò molto disagio tra gli impiegati [a/c].
La retrospettività è osservabile anche con il verbo principale al Futuro, come
in (54), dove la localizzazione dell’evento infinitivale è sì futura rispetto al ME,
ma pur sempre anteriore rispetto all’evento della principale. Si noti, peraltro, che
anche in questo caso si tratta di orientamento temporale non deittico, com’è dimo-
strato dal fatto che gli avverbi deittici non sono tollerati (cf. 55a, in contrasto con
54b), a meno che non si creino delle strutture di tipo correlativo, in cui la localiz-
zazione temporale svolge un ruolo di designazione relativa piuttosto che di loca-
lizzazione assoluta (cf. 55c; il che è del resto comprovato dal fatto che gli avver-
bi deittici impiegati non sono qui assunti nel loro senso letterale):

(54) Approvare la legge sulle rogatorie internazionali creerà a lungo


andare effetti devastanti sul piano della repressione dell’illegalità.
(55) a. * Approvare ieri la legge sulle rogatorie internazionali creerà
a lungo andare effetti devastanti sul piano della repressione
dell’illegalità.
b. Aver approvato ieri la legge sulle rogatorie internazionali
creerà a lungo andare effetti devastanti sul piano della repres-
sione dell’illegalità.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 139

c. Approvare ieri la legge sul falso in bilancio, oggi quella sulle


rogatorie internazionali e domani quella sul rientro dei capita-
li illegalmente esportati, creerà a lungo andare effetti deva-
stanti sul piano della repressione dell’illegalità. Di questi
tempi27 c’è da vergognarsi di essere italiani.

Quanto all’interpretazione aspettuale di questa varietà di IFS, essa appare


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chiaramente influenzata – a differenza di quanto normalmente si osserva – dal


valore aspettuale del verbo introduttore. Essa è infatti continua (e dunque imper-
fettiva) in contesto continuo con lettura simultanea; aoristica (e quindi perfettiva)
altrimenti, inclusi i contesti di pseudoprospettività.

3. L’INFINITO INTRODOTTO DA ELEMENTI NON VERBALI

3.1. L’Infinito retto da aggettivi

Se consideriamo il comportamento dell’Infinito dipendente da aggettivi, ritro-


viamo sostanzialmente la stessa gamma di possibilità già individuate per l’Infinito
retto da verbi. Pur senza alcuna pretesa di esaustività, credo si possano additare
quanto meno i fenomeni qui di seguito elencati.

3.1.1. Orientamento prospettivo e simultaneo

Un orientamento nettamente prospettivo è individuabile nel caso dei costrut-


ti infinitivali introdotti da aggettivi come intenzionato a, interessato a, incline a,
deciso a, disposto a, prossimo a, avido di, ansioso di. Significativamente, in tutti
questi casi l’IFC risulta agrammaticale. Per ciò che riguarda l’uso dell’IFS, vanno
fatte le seguenti considerazioni. Innanzi tutto, i verbi stativi ammessi – soprattut-
to con gli aggettivi che reggono la preposizione a – tendono ad essere quelli meno
rappresentativi di tale classe, vale a dire gli ‘stativi [+controllo]’. In secondo
luogo, la scelta della copula non è priva di conseguenze. Mentre in generale non
sembrano esserci problemi con i Tempi imperfettivi, con quelli perfettivi essere
suona non di rado inappropriato (cf. *fu / *è stato intenzionato a dormire in alber-
go). Quanto al valore aspettuale, si tratterà evidentemente del valore aoristico tipi-
camente assegnato agli usi prospettivi:

(56) S Quel giorno, Maria appariva / apparve intenzionata a ??essere

27 Autunno 2001.
140 PIER MARCO BERTINETTO

ultimo [s] / restare [s’] / dormire in albergo / dissotterrare l’a-


scia di guerra / mangiare un pasto vegetariano.
C * Quel giorno, Maria era / fu intenzionata ad essere restata /
aver dormito in albergo / aver dissotterrato l’ascia di guerra
/ aver mangiato un pasto vegetariano.
(57) S Quel giorno, Paco appariva / apparve ansioso di *avere ragio-
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ne [s] / restare solo [s’] / giocare a pallone / uscire di casa /


scrivere la sua relazione.
C * Quel giorno, Paco appariva / apparve ansioso di essere resta-
to solo / aver giocato a pallone / essere uscito di casa / aver
scritto la sua relazione.

Il bando dell’IFC si osserva anche, comprensibilmente, con gli aggettivi che


inducono un orientamento di simultaneità sull’Infinito, come: stufo di, stanco di.
Il valore aspettuale è qui decisamente imperfettivo, e più specificamente continuo,
il che spiega la restrizione sui ‘conseguimenti’; a meno che, beninteso, essi non
siano interpretati iterativamente e dunque, con tale espediente, durativizzati (a ciò
allude il diacritico ‘%’).

(58) S Quel giorno, Edo appariva / apparve stanco di essere poco con-
siderato / giocare a pallone / %uscire di casa / scrivere la sua
relazione.
C * Quel giorno, Edo era / fu stanco di essere stato poco consi-
derato / aver giocato a pallone / essere uscito di casa / aver
scritto la sua relazione.

In questi casi, può talvolta sorgere il sospetto che l’orientamento sia retro-
spettivo (cf. Edo era stanco di giocare a pallone). Ritengo tuttavia che questa sia
una conseguenza illusoriamente indotta dal contesto. Benché, nell’esempio dato,
l’insofferenza sia fondata su un certo accumulo di esperienze passate, tale sensa-
zione vale al momento designato dal Tempo della copula, indipendentemente dal
fatto che vi siano stati episodi precedenti. Le considerazioni appena svolte si
applicano, con identica plausibilità, agli IFS retti da abituato a, avvezzo a, solito,
che ovviamente possono solo creare contesti di iteratività28:

(59) S Giorgio era / ??fu abituato ad aver sempre ragione / correre

28 Benché non necessariamente di abitualità, come dimostra la possibilità – nei contesti


appropriati – di impiegare Tempi perfettivi:
(i) Gianni fu sempre avvezzo, fin da piccolo, ad ottenere quanto desiderava.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 141

ogni giorno mezzora / uscire di casa alle 5 / bere una spremu-


ta d’arancia a colazione.
C * Giorgio era / fu abituato ad aver avuto sempre ragione / aver
corso ogni giorno mezzora / essere uscito di casa alle 5 / aver
bevuto una spremuta d’arancia a colazione.

Esistono inoltre degli aggettivi che possono orientare l’Infinito in senso


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tanto prospettivo quanto simultaneo. È il caso, per esempio, di: facile, difficile,
bello, brutto, impensabile, necessario, sufficiente, indispensabile, costretto a,
degno di. Anche in questo caso l’IFC risulta agrammaticale. Per quanto riguar-
da l’IFS, valgono invece le osservazioni seguenti. Se si ha l’Imperfetto nella
proposizione principale, l’orientamento può essere prospettivo ovvero simulta-
neo (benché, in quest’ultimo caso, possano esserci forti vincoli pragmatici coi
‘conseguimenti’). Se invece si ha un Tempo perfettivo nella principale, l’orien-
tamento tende alla simultaneità, almeno in contesto passato, anche se con il
Futuro riemerge – come una delle possibili interpretazioni – la lettura prospet-
tiva (es.: sarà difficile uscire alle 5). Si noti infatti che neppure la presenza di
un opportuno avverbiale temporale consente la lettura prospettiva con un passa-
to perfettivo nella principale (cf. 60/S’). Una siffatta divergenza tra passato e
futuro va debitamente sottolineata, visto che, di solito, il diverso valore tempo-
rale non comporta conseguenze, a parità di valore aspettuale. Quanto a que-
st’ultimo, esso sarà, del tutto prevedibilmente, continuo nella lettura simultanea,
aoristico nella lettura prospettiva:

(60) S Quel giorno era / fu difficile restare in disparte / dormire tran-


quilli / incontrare Amilcare / dipingere la parete.
C * Quel giorno era / fu difficile essere restati in disparte / aver
dormito tranquilli / aver incontrato Amilcare / aver dipinto la
parete.
S’ Quel giorno fu difficile uscire alle 5.
(61) S Quel giorno, Massimo era / fu costretto a essere presente / gio-
care onestamente / uscire di casa senza stampelle / scrivere la
sua relazione.
C * Quel giorno, Massimo era / fu costretto a essere stato pre-
sente / aver giocato onestamente / essere uscito di casa senza
stampelle / aver scritto la sua relazione.

Da questi usi vanno peraltro tenuti distinti casi come i seguenti, apparente-
mente simili, in cui tuttavia alcuni degli aggettivi sopra elencati compaiono
accompagnati da una preposizione (cf. facile a, brutto a, necessario per, suffi-
ciente per). Ciò altera significativamente la prospettiva temporale, imponendo
anche forti restrizioni lessicali. In (62-3), per esempio, l’IFS deve preferibilmen-
142 PIER MARCO BERTINETTO

te presentarsi in forma di pseudoriflessivo, il che esclude le ‘realizzazioni’ e limi-


ta fortemente anche gli stativi. Quanto alle strutture esemplificate in (64), esse
ricordano quelle, di tipo ‘consequenziale’, viste nel § 2.5 (cf. 40-53). In tutti que-
sti casi, l’orientamento è nettamente prospettivo:

(62) S Sembrava / sembrò facile a dirsi / ottenersi.


C * Sembrava / sembrò facile a essersi detto / essersi ottenuto.
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(63) S Era / fu brutto a vedersi.


C * Era / fu brutto a essersi visto.
(64) S Quel giorno, la riparazione della caldaia era / fu sufficiente per
avviare un netto miglioramento della situazione / placare gli
animi.
C * Quel giorno, la riparazione della caldaia era / fu sufficiente
per aver avviato un netto miglioramento della situazione /
aver placato gli animi.

3.1.2. Orientamento temporalmente ibrido e retrospettivo

Esistono anche aggettivi che inducono sull’Infinito un orientamento tempo-


rale che varia a seconda dell’interazione tra i diversi fattori aspettuali ed azionali
implicati.
Un primo tipo è costituito dagli aggettivi che sembrano accettare anche l’IFC,
sia pure con l’accompagnamento di locuzioni quali il fatto di: cf. sconveniente,
importante, significativo etc. Ma, come sappiamo, questa restrizione suggerisce
che la retrospettività propriamente detta non sia, a rigore, contemplata. Quanto
all’IFS, esso sembra ammettere tanto la lettura simultanea (imperfettiva), quanto
quella prospettiva (aoristica), il che ci riporta alla tipologia studiata nel paragrafo
precedente:

(65) S Quel giorno appariva / apparve sconveniente restare a casa /


dormire a lungo / incontrare Amilcare / mangiare il dessert.
C Quel giorno appariva / apparve sconveniente ?(il fatto di) esse-
re restati a casa / ?(il fatto di) aver dormito a lungo / ?(il fatto
di) aver incontrato Amilcare / ?(il fatto di) aver mangiato il
dessert.

Un secondo tipo è invece costituito dagli aggettivi che accolgono senza pro-
blemi l’IFC, e che mantengono coll’IFS una duplice possibilità di orientamento,
prospettivo o simultaneo, sia pure con le eventuali difficoltà pragmatiche ingene-
rate – nel secondo caso – dai ‘conseguimenti’, e con la netta propensione degli
stativi per la lettura simultanea. Si pensi a: felice di, contento di, lieto di, soddi-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 143

sfatto di, compiaciuto di, certo di, sicuro di, convinto di etc.:

(66) S Quel giorno, Isa era / fu lieta di possedere una bici nuova / gio-
care a carte con Tino / uscire di casa / scrivere la sua relazione.
C Quel giorno, Isa era / fu lieta di aver posseduto una bici nuova
/ aver giocato a carte con Tino / essere uscita di casa / aver
scritto la sua relazione.
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(67) S Quel giorno, Aldo era / fu certo di avere ragione / giocare bene
/ ritrovare la serenità / scrivere la relazione in maniera con-
vincente.
C Quel giorno, Aldo era / fu certo di aver avuto ragione / aver
giocato bene / aver ritrovato la serenità / aver scritto la rela-
zione in maniera convincente.

Un caso a parte è costituito da capace di, che ammette l’IFC solo in unione con
Tempi imperfettivi nella principale, e solo – adoperando beninteso un registro sub-
standard – con accezione epistemica (per es., con riferimento a 68/C: ‘è più che mai
possibile che Leo avesse avuto ragione’; a ciò allude il diacritico ≠). Quanto all’IFS,
esso oscilla nuovamente tra simultaneità e prospettività, benché gli stativi tendano
decisamente a prediligere la prima possibilità (con una netta sfumatura epistemica) 29:

(68) S Quel giorno, Leo era / fu capace di ≠ avere ragione / giocare


bene / uscire di casa senza stampelle / scrivere la sua relazione.
C ≠ Quel giorno, Leo era / *fu capace di aver avuto ragione / aver
giocato bene / essere uscito di casa senza stampelle / aver
scritto la sua relazione.

Si osservi ancora come il cambio di preposizione possa produrre rilevanti conse-


guenze nel comportamento del medesimo aggettivo (cf. nuovamente 62-64). In (69)
emerge, coll’IFS, la lettura simultanea, che appare anzi obbligata con gli stativi, ben-
ché si possa anche avere orientamento prospettivo, specie coi Tempi perfettivi nella
principale. Per contro, lo spiccato senso causale di (70) esclude l’IFS, mentre l’IFC
sembra ammissibile (anche se l’accettabilità aumenterebbe con poteva / poté dirsi for-
tunato per). Abbiamo dunque un orientamento spiccatamente retrospettivo:

(69) S Quel giorno, Memo era / fu fortunato a essere presente / dor-


mire nel suo letto / uscire di casa con l’ombrello / scrivere la
sua relazione per ultimo.
C Quel giorno, Memo era / fu fortunato a essere stato presente /

29 Va detto che lo stativo avere ragione appare difficilmente impiegabile in dipendenza di


un Tempo perfettivo, a meno che non gli si attribuisca un’accezione chiaramente non stativa
(ossia, ‘fu capace di ottenere / farsi dare ragione’). Questo non è certo un caso isolato.
144 PIER MARCO BERTINETTO

aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.
(70) S * Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere presente /
dormire nel suo letto / uscire di casa con l’ombrello / scrivere
la sua relazione per ultimo.
C Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere stato presente
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/ aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.

Con aggettivi come consapevole di o cosciente di, lo spostamento dell’IFS


verso l’interpretazione simultanea, già in parte osservabile in (69), risulta piutto-
sto marcato. Si noti che, con questi aggettivi, l’uso del Passato Semplice della
copula essere appare scarsamente accettabile (ma questo non è certo il primo caso
finora incontrato). Resta, peraltro, la possibilità di impiegare l’IFC, il che garan-
tisce anche la lettura retrospettiva:

(71) S Quel giorno, Maria appariva / apparve consapevole di avere


ragione / agire senza riguardi / incontrare una celebrità / man-
giare una mela bacata.
C Quel giorno, Maria appariva / apparve consapevole di aver
avuto ragione / aver agito senza riguardi / aver incontrato una
celebrità / aver mangiato una mela bacata.

L’orientamento sembra infine decisamente inclinare verso la retrospettività


con dimentico di, che impone severe restrizioni sull’IFS dei verbi telici, mentre
pare semmai accettare – in accezione di simultaneità – gli stativi ed i verbi di ‘atti-
vità’, purché introdotti da un Tempo imperfettivo:

(72) S A quel punto, Aldo appariva / *apparve dimentico di avere


ragione / giocare senza parastinchi / ??ritrovare il portafoglio
/ ??scrivere la sua relazione.
C A quel punto, Aldo appariva / apparve dimentico di aver avuto
ragione / aver giocato senza parastinchi / aver ritrovato il por-
tafoglio / aver scritto la sua relazione.

Un orientamento spiccatamente retrospettivo emerge spesso anche con


(in)consapevole di in presenza di ‘conseguimenti’, come in: Aldo sembrava
inconsapevole di *ritrovare / aver ritrovato il portafoglio.

3.1.3. L’infinito retto da un aggettivo ‘nudo’

Il quadro emerso attraverso l’analisi dell’Infinito retto da aggettivi ricalca


SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 145

dunque, nelle grandi linee, quello offertoci dall’Infinito sotto dipendenza da verbi.
L’IFC conserva il proprio carattere univoco, mentre l’IFS si presta ad esprimere
un’ampia gamma di valori tempo-aspettuali. La cosa non sorprende, se si conside-
ra che i contesti sopra esaminati presentano sempre l’aggettivo in unione con un
ausiliare, cui sono affidate le valenze tempoaspettuali. Dunque, anche in tali circo-
stanze agiscono in pratica i medesimi fattori che abbiamo visto all’opera nella sezio-
ne dedicata all’Infinito introdotto da verbi: semantica lessicale dell’elemento reg-
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gente (l’aggettivo), sua valenza tempo-aspettuale (espressa dall’ausiliare), carattere


azionale dell’Infinito. L’unico fattore che manca parzialmente all’appello è il carat-
tere azionale dell’aggettivo reggente, nel senso che il valore azionale sembra inva-
riabilmente tendere verso la statività. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze,
non saprei dire se ciò dipende da un’intrinseca proprietà degli aggettivi, ovvero dal
fatto che non disponiamo di analisi specificamente dedicate all’argomento, analo-
gamente a quanto è stato fatto per i nomi deverbali30.
Ma che succede se l’ausiliare viene omesso? Dobbiamo forse aspettarci che
le spiccate propensioni tempo-aspettuali sopra descritte vadano disperse?
L’analisi della prossima batteria di esempi dimostra che non è affatto così: da essi
sembra emergere un preciso orientamento temporale, benché non si tratti di enun-
ciati pienamente formulati, bensì soltanto di sintagmi aggettivali che introducono
un Infinito fuori contesto. Nell’ordine: (73-4) contengono locuzioni esprimenti,
rispettivamente, prospettività e simultaneità (e che difatti escludono l’IFC); (75)
contiene locuzioni ambivalenti, oscillanti tra simultaneità e prospettività (e quin-
di parimenti refrattarie all’IFC); (76) esibisce locuzioni esprimenti retrospettività,
e dunque incompatibili con l’IFS; (77), infine, contiene locuzioni polivalenti, che
svariano dalla prospettività alla simultaneità alla retrospettività, e che di conse-
guenza ammettono entrambe le forme dell’Infinito31:

(73) Intenzionato a mangiare / *aver mangiato, ansioso di restare /


*essere restato, costretto a uscire / *essere uscito, sufficiente per
avviare / *aver avviato...
(74) Abituato a correre / *aver corso, facile a dirsi / *essersi detto,
brutto a vedersi / *essersi visto32, capace di uscire / ??essere usci-

30 Cf. Brinton (1995) e, per l’italiano, Gaeta (1997).


31 Come già si poteva osservare nel paragrafo precedente, nelle locuzioni aggettivali non
sembrano esistere esempi in cui l’IFS esprima orientamento retrospettivo. Ciò va tuttavia preso
con riserva, dato il carattere tutt’altro che esauriente dell’esemplificazione prodotta.
32 Con facile a e brutto a, l’evento indicato dall’IFS può anche essere considerato alla stre-
gua di una mera potenzialità (eventualmente corroborata da un accumulo di esperienze prece-
denti, come in abituato a). Ciò non toglie che vi sia simultaneità tra lo stato disposizionale cui
fa riferimento l'aggettivo e un tale evento potenziale.
33 Con capace di è possibile, marginalmente, attribuire all’IFC un’interpretazione episte-
mica (= “è possibile che sia uscito”). Cf. anche l’es. (68).
146 PIER MARCO BERTINETTO

to senza stampelle33, stanco (stufo) di essere / ??essere stato poco


considerato...
(75) Costretto a rispondere / *aver risposto...
(76) Stanco per *viaggiare / aver viaggiato, dimentico di aver avuto
ragione...
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(77) Lieto di scrivere / aver scritto, certo di avere / aver avuto ragione
ragione, fortunato a ottenere / aver ottenuto, consapevole di
incontrare / aver incontrato un pregiudicato...

Questi esempi mostrano con assoluta evidenza che l’IFS (a differenza, come
ormai ben sappiamo, dell’IFC) non contribuisce alcunché all’interpretazione tem-
porale, data l’ampia gamma di letture ad esso accessibili. Si noti inoltre, a con-
ferma di quanto osservato nel paragrafo precedente, che neppure in questi casi
l’interpretazione temporale dipende esclusivamente dalla semantica lessicale del-
l’aggettivo, ma risente anche del carattere azionale del verbo. Per es., l’IFS retto
da dimentico di (cf. 76) esibisce un orientamento temporale di simultaneità coi
verbi atelici, mentre risulta agrammaticale coi verbi telici (cf. dimentico di avere
ragione [s] / giocare senza parastinchi [a] / *ritrovare il portofoglio [c] / *scrive-
re la sua relazione [r]...). Questo è dunque, a rigore, un caso di parziale ambiva-
lenza, piuttosto che di orientamento retrospettivo tout court.
Del resto, neanche in queste circostanze viene a mancare il contributo – non
immediatamente evidente, ma non per questo meno essenziale – delle valenze
aspettuali. Non ci si deve lasciare trarre in inganno dal fatto che, negli esempi appe-
na considerati, non compaiano ausiliari debitamente coniugati. In assenza di ulte-
riori specificazioni, prevale qui l’interpretazione generica solitamente associata, nei
contesti appropriati, ai Tempi imperfettivi (tipicamente, Presente e Imperfetto).
Fuori contesto, una locuzione aggettivale che regga un Infinito tende infatti a desi-
gnare una – sia pur temporanea – condizione statica, piuttosto che un’accezione
ingressiva (beninteso, ove quest’ultima sia accessibile). Tuttavia, mi parrebbe erra-
to attribuire un peso eccessivo a questa circostanza; l’orientamento temporale attri-
buibile all’Infinito in queste locuzioni non sembra dipendere in maniera determi-
nante dalla natura aspettuale del Tempo eventualmente associato all’ausiliare (cf.
Leo appare / appariva / apparve / apparirà costretto ad accettare, che mantiene
sempre il proprio carattere prospettivo). Il Tempo dell’ausiliare contribuisce (quan-
to meno in proposizione principale) a specificare la localizzazione deittica dell’e-
vento indicato dal predicato aggettivale – cui si aggancia anaforicamente l’Infinito

34 Si badi che questo dato è tutt’altro che scontato. Nel caso delle infinitive soggettive intro-
dotte da verbi che danno vita a strutture di senso ‘consequenziale’, infatti, la commutazione tra
Tempi perfettivi o imperfettivi influisce anche sull’orientamento temporale dell’Infinito. Si
riconsiderino gli ess. (45-53).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 147

– nonché la natura dell’interpretazione aspettuale (perfettiva o imperfettiva), ma non


sembra poter influire sull’orientamento temporale dell’Infinito34.
3.2. L’Infinito retto da nomi

Il fatto che gli aggettivi trasmettano agli Infiniti da essi retti un preciso orien-
tamento temporale può anche non sorprendere, data la natura in parte nominale e
in parte verbale di questa classe grammaticale35. Ci si potrebbe invece aspettare
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una totale mancanza di reattività nel caso dell’Infinito dipendente da nomi. Ma le


cose non stanno in questi termini: come vedremo tra breve, l’Infinito manifesta
una notevole flessibilità interpretativa anche in dipendenza da nomi, benché que-
sti godano di minore autonomia sintattica rispetto agli aggettivi. I nomi che reg-
gono un Infinito subiscono infatti forti restrizioni quando danno vita a strutture
predicative. Di ciò è indizio il fatto che la vasta gamma di ausiliari che può
accompagnare gli aggettivi (essere, apparire, risultare, sembrare, trovarsi, rive-
larsi etc.) si restringe in pratica al solo essere 36. Inoltre, le strutture sintattiche in
cui i nomi che reggono un Infinito compaiono con valore predicativo sembrano
poter essere soltanto del tipo equativo; ossia, strutture in cui il sintagma nomina-
le che ingloba l’Infinito può svolgere – con quasi identica plausibilità, sia pure
con conseguente variazione di senso – il ruolo di soggetto o quello di predicato
(cf. La forza di Zorro fu sempre la consapevolezza di aver ragione vs. La consa-
pevolezza di aver ragione fu sempre la forza di Zorro). In sostanza, all’interno di
un sintagma con testa nominale, l’Infinito appare come in una sorta di nicchia pro-
tetta, su cui ben poco possono influire le valenze azionali dell’ausiliare (che è
sempre essere), mentre persino le sue valenze aspettuali non possono pesare più
di tanto, data la relativa fissità delle strutture equative. È lecito dunque aspettarsi
che (quasi) tutto ciò che attiene all’interpretazione dell’Infinito dipenda dall’inte-
razione tra la semantica lessicale della testa nominale e le proprietà azionali
dell’Infinito (lasciando sullo sfondo il problema delle eventuali tracce azionali
annidate nel nome). Per togliere ogni dubbio a questo riguardo, negli esempi che
presenterò saranno esibiti soltanto nomi ‘nudi’, ossia privi di ausiliare.
Poiché la raccolta di dati non può per definizione risultare esauriente (trat-
tandosi di un insieme aperto), l’elenco che segue va inteso come prima approssi-
mazione: non è escluso che ulteriori possibilità emergano ad un esame più atten-
to. Gli esempi sono raggruppati in base all’orientamento temporale indotto
sull’Infinito. Come già nel § 3.1.3, anche in questo caso si tratta, per lo più, di

35 Com’è noto, la vocazione piuttosto verbale o – a seconda dei casi – nominale degli agget-
tivi costituisce un importante fattore di variazione tipologica. Su questo punto, mi limito a rin-
viare a Bhat (1994).
36 Trascuro qui, per ragioni che mi appaiono ovvie, i predicati complessi che sembrano con-
tenere un sintagma infinitivale con testa nominale (cf. aver l’aria di sentirsi a proprio agio). In
questi casi, infatti, si ha una locuzione predicativa sintagmatica pienamente lessicalizzata (aver
l'aria di), anziché una struttura nominale.
148 PIER MARCO BERTINETTO

locuzioni fuori contesto, anziché di autentici enunciati. Ciò è stato fatto intenzio-
nalmente, per depurare l’interpretazione da ogni effetto contestuale estraneo al
mero rapporto tra la testa nominale e l’Infinito. Non sarà comunque inutile
richiamare una volta ancora all’esercizio della prudenza; l’interpretazione effetti-
va di un dato esempio può infatti dipendere da sottili condizionamenti pragmati-
ci, che andrebbero verificati sulla base di un’illustrazione molto più ampia di
quella che potrò qui esibire:
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(78) PROSPETTIVITÀ
es.: L’obbligo / la decisione / la scelta / l’ordine / la volontà / il
tentativo di + INFINITO; il modo / il mezzo / il sistema / l’e-
spediente / le iniziative / il motivo per + INFINITO; l’autoriz-
zazione / l’esortazione / l’invito / la riluttanza / la spinta / lo
stimolo / la tendenza / l’impulso a + INFINITO.
a. S La decisione di *essere in bolletta [s] / restare alzati fino a
tardi [s’] / dormire vestiti [a] / rientrare tardi [c] / bere una
spremuta a colazione [r]...
C * La decisione di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti [a] / essere rien-
trati tardi [c] / aver bevuto una spremuta a colazione [r]
b. S Il motivo per possedere una Mercedes [s] / restare uniti [s’]
/ giocare in notturna / uscire in anticipo [c] / restaurare la
facciata [r]...
C * Il motivo per aver posseduto una Mercedes [s] / essere resta-
ti uniti [s’] / aver giocato in notturna [a] / essere usciti in
anticipo [c] / aver restaurato la facciata [r]
c. S Il modo per aver ragione [s] / restare a lungo svegli [s] / dor-
mire senza interruzion [a] / trovare l’uscita [c] / bere tutto
d’un fiato [r]...
C * Il modo per aver avuto ragione [s] / essere restati a lungo
svegli [s’] / aver dormito senza interruzioni [a] / e aver tro-
vato l’uscita [c] / aver bevuto tutto d’un fiato [r]...
d. S Le iniziative per ?? possedere una Mercedes [s] / restare
uniti [s’] / giocare in notturna (a) / ottenere il giusto ricono-
scimento [c] / restaurare la facciata [r]...
C * Le iniziative per aver posseduto una Mercedes [s] / essere
restati uniti [s’] / ave giocato in notturna [a] / aver ottenuto il
giusto riconoscimento [c] / aver restaurato, la facciata [r]...
e. S L’autorizzazione a (??)essere in ritardo [s] / restare seduti
[s’] / giocare in notturna [a] / uscire dalla porta di servizio
[c] / scrivere al sindaco [r]...
C * L’autorizzazione a essere stati in ritardo [s] / essere resta-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 149

ti seduti [s’] / aver giocato in notturna [a] / essere usciti dalla


porta di servizio [c] / aver scritto al sindaco [r]...
(79) PROSPETTIVITÀ / SIMULTANEITÀ
es.: Il fenomeno / l’istinto / l’abitudine / l’imbarazzo / la vergo-
gna / la persuasione / la convinzione / la fissazione / l’im-
pressione di + INFINITO.
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a. S Il diritto di essere in bolletta [s] / restare alzati fino a tardi


[s’] / giocare di pomeriggio [a] / rientrare tardi [c] / bere un
superalcolico [r]...
C * L’abitudine di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver giocato di pomeriggio [a] / esse-
re rientrati tardi [c] / aver bevuto un superalcolico [r]...
(80) SIMULTANEITÀ
es.: Il fenomeno / l’istinto / l’abitudine / l’imbarazzo / la vergo-
gna / la persuasione / la convinzione / la fissazione / l’im-
pressione di + INFINITO.
a. S L’istinto di aggrapparsi [c] al dito dell’adulto compare pre-
cocemente nel neonato
C * L’istinto di essersi aggrappati [c] al dito dell’adulto com-
pare precocemente nel neonato
b. S L’abitudine di ??essere in bolletta [s] / restare alzati fino a
tardi [s’] / dormire vestiti [a] / rientrare tardi [c] / bere una
spremuta a colazione [r]...
C * L’abitudine di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti [a] / essere rien-
trati tardi [c] / aver bevuto una spremuta a colazione [r]...
c. S La vergogna di essere in bolletta [s] / restare a letto fino a
tardi [s’] / scrivere in maniera illeggibile [a] / rientrare tardi
[c] / bere una coca-cola a colazione [r]
? La vergogna di essere stati in bolletta [s] / essere restati a let-
to fino a tardi [s’] / aver scritto in maniera illeggibile [a] / esse-
re rientrati tardi [c] / aver bevuto una coca-cola a colazione [r]...
(81) RETROSPETTIVITÀ
es.: Il rimorso di + INFINITO; l’irritazione, la vergogna, l’imba-
razzo per + INFINITO
a. S L’irritazione per essere in ritardo [s] / (*)restare in piedi
tutto il tempo [s’] / (*)giocare da solo contro tutti [a] / (*)
entrare dalla porta di servizio (c) / (*) scrivere la tesi senza
assistenza [r] [piuttosto: l’irritazione per il fatto di].
C L’irritazione per essere stati in ritardo [s] / essere restati in
piedi tutto il tempo [s’] / aver giocato da solo contro tutti [a]
150 PIER MARCO BERTINETTO

/ essere entrati dalla porta di servizio [c] / aver scritto la tesi


senza assistenza [r]...
b. S Il rimorso di possedere sostanze mal guadagnate [s] / *resta-
re alzati fino a tardi [s’] / *dormire vestiti [a] / *rientrare
tardi [c] / *bere una coca-cola a colazione [r]...
C Il rimorso di (*) aver posseduto sostanze mal guadagnate [s]
/ essere restati alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti
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[a] / essere rientrati tardi [c] / aver bevuto una coca-cola a


colazione [r]...
c. S La vergogna per essere in bolletta [s] / ??restare a letto fino
a tardi [s’] / ?? scrivere in maniera illeggibile [a] / *rientra-
re tardi [c] / *bere una coca-cola a colazione [r]...
C La vergogna per essere stati in bolletta [s] / essere restati a
letto fino a tardi [s’] / aver scritto in maniera illeggibile [a]
/ essere rientrati tardi [c] / aver bevuto una coca-cola a cola-
zione [r]...
d. S Il dolore di nascere lo accompagnò / accompagnerà per tutta
la vita.
C ?? Il dolore di esser nato lo accompagnò / accompagnerà per
tutta la vita.
(82) PROSPETTIVITÀ/SIMULTANEITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: La persuasione / la convinzione / la fissazione / l’impressio-
ne di + INFINITO.
a. S La persuasione di essere in bolletta [s] / rimanere a lungo
[s’] / giocare bene [a] / rientrare tardi [c] / mangiare cervel-
la di mucca pazza [r]...
C La persuasione di ??essere stati in bolletta [s] / essere rima-
sti a lungo [s’] / aver giocato bene [a] / essere rientrati tardi
[c] / aver mangiato cervella di una mucca pazza [r]...

A differenza di quanto notato a proposito delle strutture rette da aggettivi, qui


l’IFS sembra capace di esprimere autonomamente il senso retrospettivo, almeno
in selezionatissimi contesti (cf. 81d/S)37. Ciò accomuna le locuzioni con testa
nominale alle strutture introdotte da verbi. Quanto invece al fatto che l’ammissi-
bilità dell’IFC sia un chiaro indizio di retrospettività, la cosa apparirà scontata,
alla luce di quanto già visto. Si noti inoltre – ammesso che l’esemplificazione qui
prodotta rispecchi fedelmente l’effettiva distribuzione nel lessico – come le locu-
zioni indicanti prospettività predominino sul piano numerico, e come quelle espri-
menti retrospettività siano di gran lunga le meno frequenti. Meritevole di specia-

37 L’esempio mi è stato suggerito da Patrizia Tabossi. Si noti, per contro, la scarsa accetta-
bilità di (81d/C).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 151

le menzione sono infine le locuzioni dall’interpretazione polivalente (cf. 79, 82),


che orientano verso la prospettività o la simultaneità con l’IFS e verso la retro-
spettività con l’IFC (quando quest’ultimo sia accessibile). Come già in (77), anche
qui l’orientamento prospettivo sembra particolarmente richiesto dai ‘conseguimen-
ti’, mentre la lettura di simultaneità appare ineludibile cogli stativi (cf. 78c).
Ovviamente, l’orientamento temporale dell’Infinito dipende dalla semantica
lessicale del nome reggente. Tuttavia, il comportamento effettivo può riservare
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qualche sorpresa. Benché l’imbarazzo di, la vergogna di e il rimorso di sembrino


appartenere tutti alla medesima sfera semantica, i primi due inducono simulta-
neità (cf. 81c), mentre l’ultimo implica retrospettività, come anche l’imbarazzo
per e la vergogna per (cf. 81b-c).
L’esempio (80a) denuncia la presenza di forti restrizioni pragmatiche nella
scelta dell’Infinito retto dal nome. Presumibilmente, i pochi verbi ammessi sono
tutti di carattere telico. Ma le restrizioni azionali sono attive anche in altre circo-
stanze. Per es., aver l’abitudine di (cf. 80b) esclude gli stativi puri. Tuttavia, ciò
non dipende dallo specifico orientamento temporale: se *la decisione di essere in
bolletta appare decisamente inaccettabile (cf. 78a), non altrettanto si può dire di
?il modo per aver ragione (cf. 78c), benché entrambe le locuzioni orientino
l’Infinito verso la lettura prospettiva. Nel secondo caso, si direbbe peraltro che lo
stativo slitti verso un’accezione telica (equivalente a: ‘per ottenere ragione’).
L’esclusione degli stativi puri dipende comunque da sottili condizionamenti prag-
matici, come dimostra il confronto tra (78b) e (78a, d, e), tutti imperniati su locu-
zioni implicanti prospettività. Diversa sembra invece essere la situazione nei casi
di retrospettività (cf. 81), in cui la restrizione verso l’IFS sembra allentarsi pro-
prio nel caso degli stativi puri. Ma va precisato che, in siffatte circostanze (sia
pure con la citata eccezione di 81d/S), l’orientamento temporale degli IFS stativi
inclina verso la simultaneità; si tratta quindi, a ben vedere, di un caso di parziale
bivalenza, pur fortemente limitato dal fatto che tutti gli altri tipi di predicato sem-
brano refrattari all’IFS.
Veniamo ora all’interpretazione aspettuale. Nei casi di lettura prospettiva e
retrospettiva, l’Infinito appare nettamente orientato verso la perfettività.
Ovviamente, nelle circostanze – e sono la maggioranza – in cui la retrospettività
è affidata alla presenza dell’IFC, il valore aspettuale è (più specificamente) di
compiutezza. Circa invece le locuzioni orientate verso la simultaneità, documen-
tate in (80), mi pare lecito supporre che, per lo più, vi sia neutralizzazione aspet-
tuale. Queste locuzioni sembrano infatti alludere spesso alla dimensione della
mera potenzialità/genericità, piuttosto che a quella dell’effettiva ‘attualità’ (cf.
80a-b). In tali circostanze, l’IFS non esprime valore progressivo o continuo, ma si
colloca nella sfera dell’indeterminatezza tempo-aspettuale tipica degli eventi
generico-abituali. Per es., l’abitudine di restare alzato fino a tardi non vale sol-
tanto nel caso in cui l’evento indicato sia in corso al momento pertinente (desi-
gnato dal Tempo verbale che potremmo trovare in un enunciato completo), bensì
si applica ad una situazione intemporale: colui che agisce in questo modo può
152 PIER MARCO BERTINETTO

farlo in qualsiasi momento pertinente (ossia, ogni sera). Il senso di ‘attualità’


emerge tuttavia – senza peraltro escludere una possibile lettura generica – in
(80c), così come emerge con le interpretazioni di simultaneità dei tipi misti; ossia,
con l’IFS degli stativi nelle locuzioni tendenti verso la retrospettività (cf. 81) e con
l’IFS del tipo polivalente (cf. 82). In tali circostanze, l’interpretazione aspettuale
è di tipo progressivo o continuo.
In definitiva, ferma restando l’univocità aspettuale dell’IFC, va sottolineato
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che le diverse attitudini aspettuali palesate dall’IFS nei costrutti con testa nomi-
nale dipendono dall’interazione tra i medesimi fattori che ne determinano l’inter-
pretazione temporale: semantica lessicale del nome, valenza azionale
dell’Infinito, eventuali condizionamenti pragmatici. Una volta di più dobbiamo
dunque constatare l’ambiguità tempo-aspettuale dell’IFS.

I fatti descritti in questo paragrafo rivestono un notevole interesse dal punto


di vista teorico e tipologico, in quanto denunciano la presenza di tracce
tempo-aspettuali nella semantica dei nomi; i quali – secondo la visione tradizio-
nale – dovrebbero contrapporsi nettamente ai verbi. In realtà, è ormai noto che la
distanza tra queste due categorie è tutt’altro che incolmabile.
A livello tipologico, è stata segnalata, almeno fin dal lavoro sul nootka (lingua
Wakashan meridionale) di Swadesh (1939), l’esistenza di lingue in cui le radici les-
sicali sembrano prestarsi altrettanto bene a svolgere il ruolo di argomento o quello
di predicato, dotandosi caso per caso dell’opportuno corredo morfologico. Secondo
la versione più estrema, ciò starebbe ad indicare che, in alcune lingue, nomi e verbi
sono al più due sottoclassi di una medesima categoria (Schachter 1985). Tuttavia,
un esame approfondito dei dati mostra che, almeno nelle lingue amerindiane che
hanno fornito lo spunto iniziale per questo tipo di riflessione (si pensi anche alle lin-
gue Salish), la distinzione tra nomi e verbi non giunge mai ad obliterarsi del tutto,
dato che certe operazioni morfologiche restano inaccessibili ad alcune classi di radi-
ci lessicali, che sembrano costituire, rispettivamente, il nucleo prototipicamente
nominale e quello prototipicamente verbale (Haag 1998; Mithun 2000).
Pur senza addentrarsi in questa materia, mi limiterò a fare le due seguenti
osservazioni, direttamente pertinenti per la materia qui trattata. Innanzi tutto, va
sottolineato che la discussione relativa alla possibile (ed occasionale) assenza di
confine categoriale tra nomi e verbi suggerisce che la distinzione tra queste due
classi grammaticali può essere tutt’altro che perentoria, fino a sfumare in una ten-
denziale convergenza. Il che mostra, una volta di più, come i fatti linguistici si
dispongano nel senso della transizione graduale tra poli prototipici contrapposti,
piuttosto che divaricarsi lungo il crinale dicotomico di categorie mutuamente
esclusive. In secondo luogo, emerge chiaramente che, fra i tratti suscettibili di rea-
lizzare questa parziale convergenza tra nomi e verbi, rientrano anche quelli
tempo-aspettuali. Pur rappresentando questi ultimi un contrassegno prototipico
della componente verbale del lessico, essi sono ben lungi dal costituirne un cor-
redo esclusivo. Non potrà quindi sorprendere troppo la presenza di consistenti
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 153

indizi tempo-aspettuali nei dati riguardanti la reggenza dell’Infinito da parte dei


nomi in italiano.
Del resto, pur senza scomodare lingue esotiche, il carattere sfumato della
distinzione tra nomi e verbi emerge anche solo ad un esame approfondito del
comportamento dell’italiano; una lingua che sembrerebbe, di primo acchito, esi-
bire un solido steccato tra queste due categorie. Anche a voler trascurare il caso
fin troppo ovvio dei nomi deverbali, che inglobano chiare vestigia azionali (in
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parte mantenendo ed in parte alterando le valenze della base verbale; cf. la nota
30), la morfosintassi dell’italiano mostra chiari indizi circa la gradualità dell’op-
posizione in questione (Simone / Jezek, in stampa). Ciò riconferma che, a saper
usare il microscopio, ogni lingua ricapitola almeno in parte, nelle linee di tenden-
za generali, gli orientamenti osservabili macroscopicamente a livello tipologico.

3.3. L’Infinito retto da locuzioni preposizionali

In questa sezione considererò brevemente la situazione delle locuzioni pre-


posizionali che reggono un Infinito. Anche in questa circostanza emergeranno
precisi orientamenti temporali, che non possono certo essere attribuiti alla seman-
tica intrinseca dell’IFS, passibile di molteplici letture (diverso, come ben sappia-
mo, è il caso dell’IFC). Pertanto, le tendenze osservabili sono interamente da
ascriversi all’interazione tra i valori azionali dell’Infinito e la semantica intrinse-
ca della testa preposizionale, essendo per quest’ultima escluso l’eventuale contri-
buto dell’azionalità. Ci sarebbe forse qui argomento per ulteriori digressioni tipo-
logiche riguardanti lo statuto delle preposizioni, che taluno potrebbe considerare,
comparativamente, più ‘verbali’ dei nomi, e dunque maggiormente disponibili ad
ospitare valenze tempo-aspettuali. Ma, dopo quanto sopra osservato, tali conside-
razioni mi parrebbero oziose. La lezione generale che dobbiamo apprendere, a
mio avviso, riguarda il fatto che le tracce tempo-aspettuali sono ampiamente
distribuite nel lessico, ben al di là di quanto ci si potrebbe aspettare. Il fatto che la
loro presenza sia massima nei verbi denuncia soltanto il valore caratterizzante e
prototipico che tali valenze assumono nella circostanza, ma non riveste carattere
di esclusività.
Scorrendo la batteria di esempi sotto riportata, si noterà che in non poche cir-
costanze abbiamo a che fare con locuzioni preposizionali imperniate su di un
nome. Ciò potrebbe indurre il sospetto che questi casi non siano altro che una sot-
tospecie di quelli considerati nel § 3.2.1. Tuttavia, benché sia giusto riconoscere
che anche la semantica intrinseca dei nomi cristallizzati entro le locuzioni prepo-
sizionali contribuisca alla semantica complessiva, non si può trascurare che molte
locuzioni preposizionali che reggono un Infinito non inglobano alcun nome.
Dunque, le tendenze tempo-aspettuali osservabili andranno ascritte, in ultima ana-
lisi, alla testa preposizionale nel suo complesso.
Si considerino i seguenti esempi, raggruppati a seconda dell’orientamento
154 PIER MARCO BERTINETTO

temporale indotto sull’Infinito:

(83) PROSPETTIVITÀ
es.: A costo, in attesa, al fine, a meno, piuttosto, invece, al posto
di + INFINITO; piuttosto che, anziché + INFINITO.
a. S A costo di ??essere nel torto [s] / restare ultimo [s´] / dormi-
re vestito / entrare dalla porta servizio / scrivere la tesi da
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solo...
C * A costo di essere stato nel torto / essere restato ultimo /
aver dormito vestito / essere entrato dalla porta di servizio /
aver scritto la tesi da solo...
b. S In attesa di *essere nel torto [s] / restare da solo [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la tesi
C * In attesa di essere stato nel torto / essere restato da solo /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi...
c. S Invece di avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la
tesi da solo...
C * Invece di aver avuto buoni voti / essere restato seduto /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
d. S Piuttosto che avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dor-
mire nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scri-
vere la tesi da solo...
C * Piuttosto che aver avuto buoni voti / essere restato seduto
/ aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
(84) SIMULTANEITÀ
es.: In atto di, a forza, a furia di + INFINITO.
a. S In atto di *avere ragione [s] / restare deliberatamente sedu-
to [s´] / correre a più non posso / entrare dalla porta princi-
pale / scrivere la tesi...
C * In attesa di avere avuto ragione / essere restato delibera-
tamente seduto / aver corso a più non posso / essere entrato
dalla porta principale / aver scritto la tesi...
b. S A furia di *avere ragione [s] / restare seduto [s´] / agire senza
riguardo / entrare in ritardo / preparare la lezione all’ultimo...
C * A furia di aver avuto ragione / essere restato seduto / aver
agito senza riguardo / essere entrato in ritardo / aver prepa-
rato la lezione all’ultimo...
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 155

(85) PROSPETTIVITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: A condizione di + INFINITO.
S A condizione di avere buoni voti [s] / restare ultimo [s´] /
dormire nel proprio letto / entrare dalla porta principale /
scrivere la tesi da solo...
S A condizione di aver avuto buoni voti [s] / essere restato
ultimo [s´] / aver dormito proprio letto / essere entrato dalla
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porta principale / aver scritto la tesi da


(86) PROSPETTIVITÀ/SIMULTANEITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: Oltre a + INFINITO.
S Oltre ad avere buoni voti [s] / rimanere ultimo [s´] / dormi-
re nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere
la tesi da solo...
C Oltre ad aver avuto buoni voti [s] / essere rimasto ultimo [s´]
/ aver dormito nel proprio letto, / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...

Si noterà innanzi tutto che, in qualche caso, si hanno restrizioni sugli stativi
puri. Si veda per es. (oltre a 83a-b): *piuttosto di avere buoni voti, da contrastar-
si – pur nel comune orientamento prospettivo – con (83d)38.
Quanto alle locuzioni temporalmente ambivalenti, merita segnalare che in
(85) l’orientamento è complementarmente distribuito sulle due forme, con l’IFS
che implica prospettività e l’IFC che presuppone retrospettività. L’orientamento
temporale è invece prettamente polivalente in (86), dove anche la simultaneità
rientra tra le possibilità designative. Degno di speciale menzione è però il fatto
che la retrospettività possa qui esplicarsi direttamente coll’IFS, oltreché con
l’IFC. A conferma, si consideri la localizzazione temporale dell’IFS in corsivo
nell’esempio seguente, che può – anche se non deve necessariamente – precedere
il momento indicato dal Tempo della principale:

(87) Oltre ad evitare sistematicamente di farsi interrogare dai giudici,


Berlusconi e Previti li hanno per giunta attaccati con accuse che a

38 Le locuzioni di carattere ‘sostitutivo’ (piuttosto, invece, al posto di + INFINITO; piutto-


sto che, anziché + INFINITO) possono facilmente trarre in inganno. Si consideri infatti:
(i) Invece di correre a casa, Mario si attardò a discutere con il giornalaio.
Come già denunciato a proposito degli esempi (3-4), la presenza di un Passato nella prin-
cipale può ingenerare l’impressione che l’evento designato dall’IFS preceda quello della princi-
pale. Ma si tratta di un’illusione prospettica. Qualunque sia il punto individuato sull’asse tem-
porale, queste espressioni designano sempre un evento non ancora realizzato. Difatti, in: Invece
di uscire ha preferito restare, l’evento effettivamente realizzatosi è quello di ‘restare’, mentre
l’evento di ‘uscire’ non si è compiuto e soprattutto (nell’ancoraggio temporale dato) viene assun-
to prospettivamente come di là da venire.
156 PIER MARCO BERTINETTO

molti appaiono artatamente fabbricate.

Ciò costituisce un’ulteriore prova (se mai ancora ne occorressero) circa la


flessibilità designativa dell’IFS, capace di svariare sull’intera gamma delle possi-
bilità tempo-aspettuali, sia pure con la già notata parsimonia per quanto riguarda
l’orientamento retrospettivo, normalmente appannaggio dell’IFC.
Circa il problema dell’interpretazione aspettuale, valgano le poche annota-
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zioni che seguono. Nei casi di prospettività e retrospettività, la lettura è netta-


mente perfettiva (più specificamente, di compiutezza con l’IFC), sia pure con la
possibile eccezione di (83c-d), dove si assiste presumibilmente ad una neutraliz-
zazione aspettuale. Negli esempi esprimenti simultaneità si ha invece interpreta-
zione imperfettiva, con diverse sfumature; dalla pura progressività implicata da in
atto di in (84a), alla continuità – innescata dalla reiterazione dell’evento – sugge-
rita da a furia di in (84b).

4. OSSERVAZIONI IN MARGINE

Nel presente paragrafo toccherò, sommariamente, alcuni problemi emersi in


margine all’analisi dell’Infinito italiano.
Si sarà notato – e ciò non costituisce sul piano generale una sorpresa – che gli
stativi puri mostrano spesso un comportamento autonomo rispetto ai predicati even-
tivi39. Questa circostanza è stata di volta in volta segnalata negli esempi sopra
discussi. Degno di speciale menzione è però il fatto che, non di rado, l’IFS dei verbi
stativi e l’IFC (in generale) si comportino in maniera solidale. Questa convergenza
è documentata da vari esempi tra quelli sopra considerati, come: (21, 56-57, 78a,
78d-e, 81a-b, 83a-b, 84a-b). Ciò suggerisce l’idea che tale solidarietà derivi da una
recondita affinità, per la quale si potrebbero ipotizzare giustificazioni tutt’altro che
peregrine. È infatti noto che le forme esprimenti l’aspetto compiuto includono una
valenza stativa, legata all’idea di ‘stato risultante’. Di ciò sembrano addirittura esi-
stere prove neurolinguistiche, stando ai risultati ottenuti da Finocchiaro / Miceli
(2002). Tuttavia, esistono anche non poche circostanze che smentiscono questa ten-
denza: di ciò fanno fede esempi come: (59, 61, 78b, 83d). Ciò induce quindi a con-
siderare con una certa cautela queste tendenziali convergenze, e più in generale il
tema delle mutue implicazioni semantiche inferibili dai dati qui considerati. Il cor-
redo semantico dell’IFS sembra essere potenzialmente molto ricco, e soprattutto
alquanto duttile nell’adattarsi ai diversi contesti.

39 Si pensi al comportamento degli stativi in inglese, che in dipendenza di un Tempo pas-


sato possono indicare – ed anzi di preferenza indicano – simultaneità, anziché anteriorità:
(i) John said that Mary was ill [simultaneità o anteriorità]
(ii) John said that Mary left [anteriorità].
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 157

Un’ulteriore prova a favore di questa conclusione si ricava dal fatto che l’IFC
appare perfettamente ammissibile anche in taluni contesti in cui l’IFS, per parte
sua, è caratterizzato da un netto orientamento prospettivo. Ciò accade per es. in (15,
85); ma qualcosa del genere si verifica anche nelle circostanze in cui l’IFC convive
– a livello paradigmatico – con un IFS esprimente simultaneità, come in (29, 71),
ovvero simultaneità/prospettività, come in (30-31, 66-67, 82, 86)40. Per converso, si
noti come in non pochi casi le due forme dell’Infinito manifestino un orientamento
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radicalmente divaricato sul piano della grammaticalità. Questo si osserva ad es.:

– in (7-13, 56-57, 62-64, 78, 83), dove alla spiccata prospettività


dell’IFS fa da contrasto l’agrammaticalità dell’IFC (il che dovrebbe
costituire il caso non marcato, visto che questa forma è esclusiva-
mente deputata ad esprimere compiutezza);
– in (21, 58, 80, 84), dove la stretta simultaneità inerente a questi
costrutti esclude, per ragioni non dissimili, l’IFC;
– in (36, 79), dove l’IFS può assumere, a seconda delle circostanze,
valore prospettivo o simultaneo, mentre l’IFC continua ad essere
escluso;
– in (2425, 60-61, 70, 81), dove l’inaccettabilità dell’IFS è pienamen-
te corroborata dalla grammaticalità dell’IFC, il che sancisce lo spic-
cato orientamento retrospettivo in questi costrutti.

Benché, quindi, si possa con buona plausibilità asserire che l’inaccettabilità


dell’IFC sia un buon indizio per sancire l’orientamento prospettivo e/o simultaneo
del contesto infinitivale considerato, e viceversa che l’inaccettabilità dell’IFS, a
fronte della grammaticalità dell’IFC, sia un altrettanto valido indizio circa il carat-
tere retrospettivo del contesto, si deve al contempo ammettere – sulla base dei dati
riportati all’inizio di questo capoverso – che il quadro delle compatibilità è più
articolato di quanto non si sarebbe tentati di credere.
Meritevole di attento approfondimento è il tema delle differenze interlingui-
stiche. A questo problema non potrà essere dedicato qui che un rapido cenno, con
riferimento al confronto tra italiano e spagnolo (i dati sono tratti da Perez Vazquez
2000/01). In effetti, benché queste due lingue siano geneticamente e tipologica-
mente affini, il comportamento dell’Infinito differisce in alcuni tratti fondamenta-
li.
Va innanzi tutto sottolineato il diverso comportamento che si osserva nelle

40 Per alcuni degli esempi qui citati, come pure per altri subito sotto ricordati, valgono
ovviamente le precisazioni fatte – al momento della loro prima presentazione – in merito al com-
portamento delle diverse classi azionali o con riferimento all’effetto prodotto dalla natura aspet-
tuale del verbo reggente.
158 PIER MARCO BERTINETTO

strutture causali o nelle temporali introdotte da dopo / después de, in cui l’italia-
no reclama l’IFC, mentre lo spagnolo esige l’IFS:
(88) a. Il giocatore fu espulso per *insultare / aver insultato il
guardalinee.
b. El jugador fue expulsado por insultar / *haber insultado
al juez de linea.
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(89) a. Dopo *lavorare / aver lavorato alla tesi, si riposò.


b. Después de trabajar / *haber trabajado a la tesis, se
descanzó.

Qualcosa di molto simile accade in strutture aggettivali rette da colpevole /


culpable, dove in italiano l’IFS può al limite comparire solo con valore iterati-
vo-generico, non certo in accezione semelfattivo-specifica:

(90) a. Colpevole di *rubare / aver rubato...


b. Culpable de robar / *haber robado...

Per converso, si osservi come l’italiano prediliga l’IFS in enunciati come il


seguente, laddove in spagnolo si deve ricorrere all’IFS progressivo (una struttura
non impossibile, ma decisamente infrequente in italiano, probabilmente a causa
della sua pesantezza):

(91) a. Credevo di picchiare / ??stare picchiando il ladro, e inve-


ce stavo picchiando mia suocera.
b. Creía *pelear / estar peleando al ladrón, pero estaba
peleando a mi suegra.

Questo induce ad ipotizzare che l’IFS spagnolo sia molto più caratterizzato in
senso perfettivo del suo omologo italiano, tanto da dover essere esplicitamente
marcato come imperfettivo in frasi come (91), o da potersi sostituire all’IFC in
frasi come (88-90).
Si noti, infine, come l’IFS nominalizzato dello spagnolo tenda, coi consegui-
menti, ad assumere un’accezione iterativo-generica, a differenza dell’analoga
struttura italiana, che può senza difficoltà esprimere senso semelfattivo-specifico
(come in: quest’anno, il fiorire dei garofani mi ha colto di sorpresa):

(92) a. Il fiorire dei garofani. (= iterativo-generico o semelfatti-


vo-specifico)
b. El florecer de los claveles. (= iterativo-generico)

Ciò conferma l’esistenza di sottili disparità nel corredo semantico di queste


forme nelle due lingue considerate, sulla cui natura sarebbe interessante saperne
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 159

di più. Né, d’altra parte, quelle indicate sono le uniche differenze nell’uso
dell’Infinito, visto che anche a livello sintattico il comportamento di italiano e
spagnolo può divergere in maniera piuttosto netta41. Ma l’esame di questi fatti
esula dall’orizzonte del presente lavoro.

5. SULL’ASSETTO TEMPO-ASPETTUALE DELLE FORME NON FINITE DEL VERBO


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Un dato costante, che emerge dall’analisi qui condotta sulle proprietà aspet-
tuali dell’Infinito, è rappresentato dalla netta divisione di lavoro tra IFS e IFC.
Quest’ultimo, come più volte sottolineato, è specificamente deputato ad esprime-
re l’aspetto compiuto; l’IFS, invece, assolve una gamma più ampia di funzioni,
potendo manifestare – a seconda dei casi – l’aspetto aoristico o l’aspetto imper-
fettivo (nelle fattispecie della progressività e della continuità). Ciò propone un
problema teorico non banale, dato che si sarebbe piuttosto portati – e per ragioni
tutt’altro che peregrine – ad associare gli aspetti aoristico e compiuto sotto il
comune vessillo della perfettività. Questo, almeno, è quanto risulta dallo studio
del comportamento delle forme finite del verbo, che dununcia un’evidente affinità
semantica tra aoristicità e compiutezza; affinità manifestata, per esempio, dalla

41 A titolo di breve illustrazione, riporto qui una scelta di enunciati tratti da Pérez Vázquez
(2000/01), che denunciano alcuni punti di divergenza. Per una proposta di analisi formale,
rimando al lavoro citato:
(i) a. Me suspendieron por no contestar / *haber contestado nada.
b. Mi sospesero per non *rispondere / ??aver risposto nulla [semmai: ... per il
fatto di non aver risposto nulla].
(ii) a. Al tener Marta tantos hijos, entiende muy bien a los niños.
b. * Per aver Marta tanti figli, comprende molto bene i bambini.
(iii) a. El irse Juan de Madrid carece de sentido.
b. * L’andarsene Juan da Madrid è privo di senso.
(iv) a. Busco gente que dibujar (el mes próximo).
b. * Cerco gente che disegnare (il mese prossimo).
(v) a. Nada mas llegar el invierno, los osos se retiran a dormir.
b. * Nient'altro che arrivare l'inverno, (e) gli orsi cadono in letargo.
L’es. (i) mostra, in aggiunta alle già notate restrizioni riguardanti l’uso di IFS e IFC nelle strut-
ture causali, come il soggetto dell’Infinito possa in certi casi essere omesso con una certa liberalità.
Per contro, gli ess. (ii-iii) mostrano come proprio il soggetto dell’Infinito possa non di rado compa-
rire esplicitamente in contesti nei quali l’italiano preferirebbe ometterlo (il che darebbe peraltro a (iii)
un senso generico), magari trasferendolo nella principale (una mossa possibile in (ii) , anche se la
frase tenderebbe comunque ad avere un valore concessivo, piuttosto che causale).
Anche gli ess. (iv-v) illustrano costrutti che esigerebbero una diversa struttura. In (iv)
dovremmo infatti usare il Congiuntivo, il che manterrebbe il senso temporalmente generico
ovvero prospettivo (specie in presenza di un avverbiale di futurità) che si osserva nella frase spa-
gnola. In (v), invece, dovremmo cambiare la struttura sintattica della temporale (per es., all 'arri-
vare dell'inverno; ed anche qui, per inciso, il soggetto non potrebbe essere espresso, se non
mediante un sintagma preposizionale).
42 Rimando nuovamente a Bertinetto (1986, cap. 2-3) per la dimostrazione.
160 PIER MARCO BERTINETTO

similarità delle reazioni indotte, in queste due categorie aspettuali, dagli avver-
biali temporali sensibili alle valenze aspettuali ed azionali42.
Siamo insomma avvezzi a concepire il dominio aspettuale secondo lo schema
seguente:
Aspetto
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imperfettivo perfettivo

... aoristico compiuto

(A)

Dall’analisi delle forme non finite sembra invece emergere una struttura radi-
calmente diversa:
Aspetto

non compiuto compiuto

non aoristico aoristico


(= imperfetto)

...

(B)
Il problema è costituito dalla scissione osservabile in (B) all’interno dell’a-
spetto perfettivo, le cui sottocategorizzazioni (aoristico e compiuto) si ripartisco-
no sotto snodi diversi.
Prima di tentare una giustificazione di quest’ultima ipotesi interpretativa, è
opportuno valutarne la plausibilità. L’obiezione che si affaccia subito alla mente
riguarda il fatto che anche nel sistema delle forme finite si osservano convergen-
ze, in una stessa forma verbale, di valori aspettuali contrastanti, appartenenti al
comparto perfettivo ed imperfettivo. Il caso più lampante, in italiano, è quello del
Presente Indicativo, che può agevolmente esprimere, oltre alle valenze imperfet-
tive, anche quella aoristica (cf. per esempio, il Presente ‘pro futuro’ o il Presente
‘performativo’). Tuttavia, l’esistenza – almeno nel comparto passato – di una netta
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 161

ripartizione di compiti tra Imperfetto e Passato Semplice conferisce credibilità


allo schema proposto in (A). Di conseguenza, benché tra le forme finite Semplici
si abbiano esempi di caratterizzazione parzialmente ambigua43, l’assetto com-
plessivo del sistema non sembra essere messo in causa. Nel campo delle forme
non finite Semplici, invece, la commistione che si osserva in italiano tra valenze
imperfettive e valenza aoristica appare un dato incontestabile (fatta salva l’ecce-
zione del Participio Perfetto). Inoltre, a differenza di quanto si osserva con le
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forme finite, non è neppure possibile individuare, al di sotto dell’ambigua carat-


terizzazione aspettuale, l’esistenza di un valore non marcato, e pertanto dominan-
te. Tanto nell’IFS quanto nel Gerundio Semplice, le due caratterizzazione aspet-
tuali disponibili (imperfettiva ed aoristica) stanno assolutamente sullo stesso
piano; solo il contesto può selezionare la lettura di volta in volta suggerita, attra-
verso l’interazione tra – da un lato – le proprietà tempo-aspettuali (nonché azio-
nali, quando si tratti di un verbo) dell’elemento introduttore e – dall’altro – le
valenze azionali della forma non finita.
Si potrebbe obiettare che, in fondo, il Presente Indicativo manifesta in italia-
no praticamente lo stesso tipo di neutralizzazioni aspettuali osservabili nelle
forme non finite Semplici, potendo ammettere tutte le valenze aspettuali ad esclu-
sione della compiutezza. Tuttavia, ciò non solo non risolverebbe la questione, ma
addirittura la renderebbe ancora più ingarbugliata, perché ribalterebbe il proble-
ma della scissione dell’aspetto perfettivo sul comparto delle forme finite (o
meglio su un suo sottoinsieme). A me pare invece che sia più coerente coi dati, e
soprattutto più solido dal punto di vista dell’architettura strutturale, ritenere che il
Presente abbia una caratterizzazione aspettuale non marcata di tipo imperfettivo,
con la possibilità aggiuntiva di veicolare l’aspetto aoristico – nei contesti appro-
priati – onde supplire alla mancanza di un Presente perfettivo. Un fenomeno, que-
st’ultimo, che di certo non si verifica in lingue che possiedano una distinzione
aspettuale esplicita nel Presente. Quanto poi al fatto che il Presente non possa
esprimere compiutezza, questo mi sembra il meno, visto che tale funzione è assol-
ta in italiano – nei contesti appropriati – dal Passato Composto. Dunque, a rigore,
qui non si tratta tanto di scissione della perfettività, quanto piuttosto di assorbi-
mento (per neutralizzazione) dell’unica funzione perfettiva accessibile (l’aoristi-
cità), in quanto priva di autonomo strumento espressivo. Per converso, ciò che
caratterizza l’IFS italiano è il fatto che per esso non si possano assolutamente
additare usi primari (non marcati) ed usi secondari (marcati), fatta eccezione per
l’interpretazione temporale retrospettiva che appare decisamente rara in italiano

43 Si consideri, oltre al Presente Indicativo, anche il Futuro Semplice, per il quale si potreb-
bero fare osservazioni molto simili. La differenza sta nel fatto che, mentre il Presente assegna
valore marcato alle valenze perfettive, il Futuro Semplice predilige proprio queste ultime, salvo
accollarsi l'onere di esprimere anche le valenze imperfettive, per supplire all’assenza di un appo-
sito strumento morfologico.
162 PIER MARCO BERTINETTO

(ma non così in spagnolo). I dati discussi nei paragrafi precedenti mostrano che,
per guidare la scelta tra accezione simultanea vs. prospettiva – e, corrispondente-
mente, tra valenza aspettuale imperfettiva vs. perfettiva – non appaiono assoluta-
mente disponibili criteri ancorati al relativo grado di marcatezza. Credo dunque che
si debba prendere atto dell’identica disponibilità dell’IFS italiano ad assumere l’una
o l’altra di queste coppie di valori semantici, a seconda del contesto in cui compare.
Ma a parte queste considerazioni, mi pare che le ragioni che militano in favo-
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re dell’interpretazione qui proposta siano di natura più profonda, ed abbiano a che


vedere con le diverse inclinazioni delle forme finite e non finite. Le prime sono
infatti propriamente verbali, mentre le seconde partecipano, in qualche misura,
della natura delle forme nominali, com’è dimostrato dalla forte propensione
dell’Infinito a subire processi di (più o meno accentuata) nominalizzazione, ovve-
ro dalla netta predisposizione del Participio Perfetto ad assumere valore aggetti-
vale. Ciò comporta una drastica divaricazione. Nel comparto delle forme finite, la
distinzione aspettuale fondamentale riguarda il fatto che l’evento sia visto come
completo (perfettività) o incompleto (imperfettività). Nel comparto delle forme
non finite, invece, la distinzione fondamentale sembra essere quella tra ‘stato’ e
‘dinamismo-eventività’. La prima categoria è necessariamente evocata dalle
forme Composte e dal Participio Perfetto, che – esprimendo l’aspetto compiuto –
implicano l’esistenza di uno ‘stato risultante’ conseguente al compiersi dell’even-
to. La seconda categoria è invece implicata dalle forme Semplici (tranne il
Participio Perfetto), indipendentemente dall’effettivo valore aspettuale.
Il quadro è complicato dal fatto che, tra i verbi coniugati alle forme non finite,
esistono anche gli stativi propriamente detti, per i quali non è mai possibile parlare
di una connotazione dinamico-eventiva, qualunque sia la loro concreta manifesta-
zione aspettuale. Tuttavia, pur consapevole di questa complicazione (sulla quale
peraltro tornerò tra breve), vorrei sottolineare la possibile analogia con la struttura di
fondo di un’altra tipica categoria che partecipa della duplice natura del verbo e del
nome, vale a dire l’aggettivo. Si noti, infatti, che anche gli aggettivi possono essere
orientati – in una qualche misura – sia verso la condizione dinamico-eventiva (cf.
sorridente, convergente, calante, consolante), sia – e questo non sorprende di certo
– verso la condizione statica (cf. aperto, addormentato, forte, rosso). Ora, non mi
pare casuale che nelle lingue indo-arie (tra l’altro, geneticamente imparentate con
l’italiano) le costruzioni aggettivali possano acquisire valore ‘dinamico’ o ‘statico’,
in ragione del morfema aspettuale associato alla radice (rispettivamente, imperfetti-
vo o perfettivo). Si considerino questi esempi di punjabi (Bhat 1999: 127-8):

(93) a. sau-ndi: kuRi:


dormire-IMPERF ragazza
‘ragazza dormiente’ (glossa di Bhat: “in the action of
sleeping”).
b. su-tti: kuRi:
dormire-PERF ragazza
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 163

‘ragazza addormentata’ (glossa di Bhat: “in the state of


sleeping”).
c. bai-ndi: kuRi:
sedere-IMPERF ragazza
‘ragazza che si siede’.
d. bai-Thi: kuRi:
sedere-PERF ragazza
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‘ragazza seduta’.

Ciò sembra suggerire che, in questa lingua, la codificazione aspettuale prima-


ria riguardi appunto lo snodo ‘dinamismo-eventività’ vs. ‘stato’. Ma se questa è la
situazione che si osserva in una lingua a stretta prominenza aspettuale, come sem-
bra essere tipico delle lingue indo-arie attuali (Bhat 1999), non mi parrebbe implau-
sibile sostenere che la peculiare organizzazione del sistema aspettuale delle forme
non finite italiane rechi appunto traccia dell’originaria ‘prominenza aspettuale’ del-
l’indoeuropeo. Gli studi di Di Giovine (1990/96) sul Perfetto indoeuropeo hanno
mostrato la forte connessione tra Perfetto e statività nella struttura morfologica delle
più antiche attestazioni indoeuropee. È dunque possibile che, in una fase arcaica,
l’aspetto compiuto, legato all’idea di uno ‘stato risultante’ e per questa via collega-
to alla categoria dei verbi stativi, possedesse una spiccata caratterizzazione all’in-
terno del sistema verbale. Sta comunque di fatto che, secondo le osservazioni tipo-
logiche di Bhat (1999: 149-155), nelle lingue a ‘prominenza aspettuale’ non solo si
osserva che gli aggettivi tendono a comportarsi in analogia coi verbi piuttosto che
coi nomi, potendosi generalmente flettere secondo una morfologia prettamente
aspettuale, ma soprattutto si nota di solito l’esistenza di una classe morfologica-
mente individuabile di verbi stativi. Se dunque la categoria dello ‘stato’ assume in
tali lingue una simile evidenza, non c’è da sorprendersi del fatto che proprio quella
parte del sistema verbale italiano che manifesta maggiori affinità con le forme nomi-
nali abbia mantenuto – se è giusta l’ipotesi qui avanzata – il tipo di articolazione
aspettuale originaria indicato in (B), fondato sull’opposizione ‘compiuto / non com-
piuto’ (ossia, in ultima analisi, ‘stato (risultante) / evento’).
Resterebbero da comprendere le ragioni della pacifica convivenza, nell’IFS e
nel Gerundio Semplice, di valenze aspettuali tanto contrastanti quanto quella aori-
stica e quella imperfettiva, connesse rispettivamente con l’idea di un evento com-
pleto vs. incompleto. Ma, a ben vedere, entrambe sono accomunate dalla prerogati-
va di insistere soprattutto sul carattere dinamico dell’evento verbale; manifestato in
un caso dal suo esser giunto a compimento, e nell’altro dal suo inconcluso divenire.
Viceversa, la convergenza di aspetto aoristico ed aspetto compiuto sotto un medesi-
mo snodo nella struttura aspettuale delle forme finite (come indicato in A), potreb-
be a sua volta spiegarsi sulla base del fatto che, quando se ne metta in sordina la
componente ‘statica’, l’aspetto compiuto manifesta tratti semantici affini a quelli
dell’aspetto aoristico. Entrambi sono infatti accomunati dalla propria indole perfet-
tiva, esprimibile nel fatto di concepire l’evento come concluso, ossia riferito ad un
164 PIER MARCO BERTINETTO

intervallo temporale ‘chiuso’. Prova ne sia il frequente slittamento del Perfetto (inte-
so come ‘Presente Compiuto’) nel mero Passato Aoristico.
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SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 165

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1.
Aspetti semantico-sintattici
KOLBJÖRN BLÜCHER
(Università di Bergen, Norvegia)

Modalità, modo, “concordanza modale”. Una prospettiva teorica


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Sono numerosi i punti di vista formulati riguardo ai modi e le loro funzioni


in italiano e nelle lingue romanze in generale, di solito imperniati sull’interpreta-
zione del congiuntivo e dei suoi valori. Variano dalle considerazioni fondamen-
talmente semantiche alle interpretazioni puramente strutturali o funzionali, o alle
pure e semplici descrizioni dell’uso concreto nella lingua senza una chiara base
teorica. I punti estremi dei vari pareri sul congiuntivo si può dire che sono da una
parte sostenere che il congiuntivo in linea di massima esprime “incertezza” e dal-
l’altra interpretare questo modo primariamente come un indicatore sintattico di
subordinazione. L’idea che il congiuntivo italiano abbia una semantica più o meno
unitaria o chiaramente definibile è tenace. Un difetto di logica non raro parlando
dei modi è attribuire al congiuntivo significati che in realtà fanno parte del conte-
nuto degli elementi linguistici che determinano tale modo. In un volume sulla lin-
gua italiana odierna pubblicato nel 1991 si parla ancora di “congiuntivo volitivo”,
“dubitativo” e “tematico”1.
A nostro parere è vano cercare di attribuire tutta la gamma di impieghi del
congiuntivo in italiano a un solo denominatore semantico, a una semantica più o
meno unitaria o chiaramente definibile, la quale così sarebbe in opposizione
semanticamente netta e concretamente definibile all’indicativo. Il solo aspetto
unitario incontestabile del congiuntivo è il lato dell’espressione, cioè quello for-
male, morfologico, in opposizione a tale livello all’altro modo principale, l’indi-
cativo (canta ≠ canti). Dal punto di vista funzionale, il congiuntivo è un ele-
mento sintattico che nella lingua svolge una varietà di funzioni diverse a vari livel-
li, sfruttando sempre la sua opposizione formale all’indicativo, ma è un’opposi-
zione che, secondo il tipo di funzione in questione, in ciascun caso riveste un
carattere distinto. Semanticamente il congiuntivo ovviamente fa parte del lato del
contenuto delle strutture diverse e semanticamente distinte in cui si trova, ciò che
di per sé indica che la sua semantica è varia, con caratteristiche distinte, e quindi
non unitaria. I valori semantici del congiuntivo così risultano un effetto, un “pro-
dotto” delle strutture formali e funzionali di cui fa parte. In base a queste premes-
se il grammema “congiuntivo” si può definire un monema funzionale il cui lato
del contenuto considerato come un’unità ha un carattere vasto, vago e generi-
co/astratto. Un parere simile è espresso da José Álvaro Porto Dapena a proposito

1 Wandruszka (1991: 415-481).


170 KOLBJÖRN BLÜCHER

dello spagnolo, lingua che ha una sintassi modale molto simile a quella dell’ita-
liano, il quale nel suo libro “Del indicativo al subjuntivo” dice che “(---) en reali-
dad, como veremos, los modos verbales presentan un contenido de modalidad
bastante general y abstracto (---)”2.
Sono dunque del parere che in un’analisi della sintassi modale dell’italiano,
o di un’altra lingua romanza, i criteri di base debbano essere formali/strutturali e
funzionali, mentre i criteri semantici siano da considerarsi nella seconda fase del-
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l’analisi. D’altra parte non si può affrontare la problematica dei modi senza tener
debitamente conto del lato del contenuto del segno linguistico. Un equilibrio
appropriato fra questi criteri è oggi, ci pare, un principio generalmente accettato
nella linguistica.
L’obiettivo che ci si propone nel presente succinto contributo allo studio della
sintassi modale dell’italiano è sostanzialmente di giungere a una definizione più
soddisfacente della “natura” del congiuntivo e delle sue funzioni.
In base al ruolo funzionale che il congiuntivo svolge nella lingua, si distin-
guono tre livelli funzionali3, i quali si possono presentare come una gerarchia:

(1) Modo abituale/obbligatorio (grosso modo).


(2) a. Alternanza indicativo/congiuntivo – differenziazione semantica.
b. Alternanza indicativo/congiuntivo – modo più o meno facolta-
tivo/scelta stilistica/assenza di differenziazione semantica.

Torniamo a questo punto sull’opposizione dei due modi: (canta ≠ canti), e


cerchiamo di determinare il carattere funzionale complessivo di questa opposi-
zione formale. Siccome è un opposizione di modi, si tratta dunque di forme con
caratteristiche modali distinte, cioè di due modalità distinte del discorso espresse
grammaticalmente, vale a dire espresse per mezzo di grammemi, modalità che si
possono denominare rispettivamente MOD.I e MOD.C. La definizione general-
mente accettata dell’indicativo è che è il modo del puro riferimento e comunica-
zione di un fatto, che di per sé esprime questo e nient’altro. Il congiuntivo, inve-
ce, si può definire il modo che esprime un di più rispetto al semplice riferimento
e comunicazione, un di più che però ha un carattere distinto e particolare secon-
do le strutture di cui questo modo fa parte. In base a queste premesse ci risulta
fondato considerare l’indicativo il membro non marcato estensivo dell’opposizio-
ne, che cioè esprime una modalità MOD.I Ma÷, e il congiuntivo il membro mar-
cato intensivo, che dunque esprime una modalità MOD.C Ma+. È questa moda-
lità MOD.C Ma+ del congiuntivo che ne fa lo strumento sintattico di cui si serve
la lingua, come già detto, in numerose funzioni diverse.

2 Porto Dapena (1991: 21).


3 Ved. Blücher (1979: 16-58).
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 171

Esaminiamo ora nei particolari alcune delle funzioni del congiuntivo e così il
ruolo sintattico svolto dalla sua MOD.C Ma+. Come un primo approccio in que-
st’analisi occorre fare una distinzione fra due gruppi di funzioni fondamental-
mente diverse del congiuntivo, i quali si possono definire uno di carattere indi-
pendente e l’altro di tipo dipendente. Nel primo gruppo, in cui è solo l’opposi-
zione binaria all’indicativo a produrre un effetto sintattico e semantico, i tipi fun-
zionali sono ben pochi, e sono tutti limitati alla proposizione principale. Troviamo
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qui la funzione di imperativo di cortesia del congiuntivo: dica (≠ dice), e quella


esortativa/desiderativa con o senza l’elemento introduttivo che: Viva il re; Che
Dio ti protegga; Che sia/Sia nominato tenente. Si tratta in tutti questi casi di una
differenziazione semantica in opposizione ai medesimi tipi di frasi con l’indicati-
vo (Vive il re /È nominato tenente, e devono quindi essere classificati come ap-
partenenti al livello funzionale II.A. Lo stesso si dica del tipo Volesse il cielo che
non lo incontrassi più (Voleva il cielo /Il cielo voleva che non lo incontrassi più).
È però, come sappiamo, nelle subordinate che troviamo la stragrande mag-
gioranza delle funzioni del congiuntivo. Esaminiamone prima alcune del livello
funzionale 1, analizzando il ruolo della modalità MOD.C Ma+ del congiuntivo
nella completiva. Un grande numero di elementi, più precisamente i lessemi di
verbi, di sostantivi, di aggettivi, che fanno parte della proposizione alla quale è
subordinata la completiva, richiedono, come si dice comunemente, l’uso del con-
giuntivo in questa. Tali elementi lessicali contengono come parte del loro piano
del contenuto vari tipi di componenti, denominati modalità, Queste modalità les-
sicali sono più o meno circoscritte nel loro significato, in altri termini hanno una
identità semanticamente definibile, definite come per esempio “volitivo”, “sog-
gettivo”, “dubitativo” ecc. Si può dunque affermare che si tratta di un tipo di
modalità semanticamente molto più limitato e definibile rispetto alla modalità
MOD.C Ma+ vasta, generica e astratta che caratterizza il lato del contenuto del
congiuntivo. In una frase come Temevano che il bambino si ammalasse il verbo
della completiva si trova in un “ambiente” sintattico e semantico contrassegnato
dalla modalità inerente al lessema di temevano. Come si può spiegare, analizza-
re, individuare il principio linguistico fondamentale da cui scaturisce l’uso del
congiuntivo in questa e simili completive, quale è il meccanismo linguistico che
determina questa “reggenza”, termine di uso comune a questo proposito? Il primo
passo è tener conto di tutti i fattori sintattici pertinenti, cioè la presenza di una
proposizione principale e di una subordinata, e il rapporto sintattico fra queste, più
precisamente il fatto che la proposizione subordinata, vale a dire la completiva, si
trova in un rapporto di dipendenza rispetto alla parte del periodo alla quale è unita,
segnata dall’elemento introduttore formale che. Ciò che conferisce un carattere
particolare a tale rapporto di subordinazione/dipendenza è che la completiva, con-
siderate le funzioni sintattiche che essa svolge nel periodo, in un certo senso vi
appare grammaticalmente “incorporata”. Poi è la volta dei fattori semantici perti-
nenti, qui particolarmente importanti, e cioè i due tipi di modalità, quella con un’i-
dentità circoscritta, semanticamente definibile del lato del contenuto del lessema
172 KOLBJÖRN BLÜCHER

della principale, e la modalità vasta, generica e astratta del lato del contenuto del
grammema che esprime il congiuntivo. A nostro parere, l’interpretazione più logi-
ca e soddisfacente dell’influsso esercitato dal lessema della principale sulla scel-
ta del modo nella completiva, influsso collegato al rapporto sintattico subordina-
zione/dipendenza/incorporazione grammaticale fra le due proposizioni, è vedere
in questo fatto una corrispondenza semantica fra la modalità del lessema in que-
stione e la modalità che caratterizza il modo scelto nella completiva. La modalità
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emessa da un tale lessema “reggente”, la quale può essere di vari tipi, ma sempre
limitata a una determinata sfera modale, cioè semanticamente circoscrivibile e
definibile, richiede un riscontro alla sua modalità nel verbo della subordinata.Nel
caso del congiuntivo tale riscontro lo costituisce la modalità MOD.C Ma+ del
grammema di questo modo, semanticamente vasta, vaga, generica, astratta, ma
dunque modalmente affine alle modalità semanticamente circoscritte, espresse
lessicalmente. Questa corrispondenza fra la modalità di un elemento lessicale e
quella di un elemento grammaticale che è il grammema “congiuntivo” si può in
ultima analisi considerare e definire una concordanza modale. L’effetto della con-
cordanza modale nel contesto è poi quello di sottolineare, mettere in risalto la
modalità particolare, semanticamente definibile, dell’elemento lessicale concor-
dato con il modo congiuntivo, ma il modo non esprime semanticamente questa
modalità come tale. Si può dire che è l’uso combinato del lessema che seleziona
il modo e del modo selezionato a trasmettere nella sua totalità il messaggio inte-
so dal parlante. Lo stesso tipo di concordanza modale obbligatoria avviene in frasi
come È giusto che si riposino dopo tanto lavoro; C’era qualche probabilità che
quel giorno la incontrasse all’università e così via.
In altri tipi di subordinate del livello funzionale I, e cioè non completive, ci
sono elementi diversi da quelli finora discussi, più o meno con caratteristiche
modali proprie, a determinare una simile concordanza modale. Le subordinate
introdotte da congiunzioni o locuzioni congiunzionali quali purché, a meno che,
a condizione che, affinché, benché, come se, senza che, prima che, da pronomi
e proavverbi relativi come chiunque, dovunque, e vari altri tipi di subordinate
hanno regolarmente il congiuntivo.
Sia nelle subordinate completive discusse che in queste ultime il congiuntivo
è così un elemento sintattico formale fisso, caratteristico, o in concordanza con la
modalità di un elemento nella proposizione dalla quale dipende la subordinata,
come nelle completive, o in sintonia con l’elemento introduttore della subordina-
ta stessa, come è il caso degli altri tipi di subordinate citati. In altri termini, il
modo caratterizza la completiva nel suo contesto sintattico/modale, mentre in que-
gli altri tipi di subordinate il modo è un elemento sintattico caratteristico della loro
struttura interna, senza rapporti sintattici/modali con elementi esterni. In tutti e
due i casi il congiuntivo risulta quindi dal punto di vista formale una marca gram-
maticale fissa della struttura di cui fa parte. In certe strutture, quest’aspetto sin-
tattico/funzionale del congiuntivo sembra essere in primo piano. Nella completi-
va dislocata a sinistra, cioè anteposta, il congiuntivo è d’obbligo, e la sua funzio-
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 173

ne in tali strutture sembra essere quella di semplice marca grammaticale della


struttura di anteposizione, in cui il modo è staccato dall’influsso di modalità esi-
stente nella posizione non dislocata della completiva. Un caso formalmente simile,
ma per altri aspetti anche diverso, sono le relative del tipo Che io sappia, (---). Qui
il congiuntivo certo è una marca fissa della struttura, ma allo stesso tempo tem-
po sembra sia in primo luogo il modo a dare al costrutto il suo significato spe-
cifico.
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Per quanto riguarda l’influsso di modalità, essa può in vari casi anche prove-
nire da elementi che non hanno un rapporto sintattico diretto con la proposizione
in cui c’è il verbo concordato modalmente. Questo è il caso in periodi come per
esempio Preferirei un colore che si accordi con questa maglia. Qui il verbo pre-
ferirei, si può dire, impregna della sua modalità il sintagma nominale un colore,
antecedente semanticamente indeterminato della relativa che segue, il quale attra-
verso il suo sostituto e “prolungamento” sintattico che trasmette questa modalità
al verbo della relativa determinando la concordanza modale. È il carattere seman-
ticamente indeterminato dell’antecedente in questione, indeterminezza creata dal
contesto, che permette il passaggio dell’influsso di modalità, contribuendo così a
tale tipo di “trasmissione” modale.
Se il congiuntivo, come dimostrato, in una varietà di strutture, e in primo
luogo nelle subordinate, dal punto di vista puramente formale costituisce una
marca grammaticale fissa, obbligatoria, lo è in opposizione formale ad altre strut-
ture in cui questo modo non ricorre oppure nelle quali ha funzioni di tipo diverso.
Nei tipi di subordinate discussi il congiuntivo ovviamente s’inserisce nella tota-
lità dei fattori sintattici che caratterizzano tali subordinate. La funzione primaria
di indicatore sintattico di subordinazione, che è il ruolo che Schmitt Jensen nel
suo studio Subjonctif et hypotaxe en italien del 1970 attribuisce al congiuntivo
nelle subordinate, a nostro parere non trova riscontro nella realtà linguistica se si
tiene conto di tutti gli aspetti diversi della sintassi del congiuntivo e della sintassi
modale in generale. Il grammema che esprime il modo congiuntivo l’abbiamo
definito un monema funzionale, ma come non è unitaria e varia la sua semantica,
tale è il caso anche delle sue funzioni. Una proposizione completiva come per
esempio Tutti sanno che quell’uomo mente quando gli conviene non si può dal
punto di vista formale considerare sintatticamente meno subordinata delle com-
pletive con un congiuntivo. L’uso dell’uno o dell’altro modo in tali completive e
in vari altri tipi di subordinate avviene per effetto del meccanismo della concor-
danza modale, non primariamente per indicare la subordinazione. Siccome però,
come è stato detto, il congiuntivo è uno tra i fattori caratteristici delle subordina-
te in questione, in questa qualità contribuisce a mettere in rilievo la funzione sin-
tattica della proposizione, avendo così un effetto secondario, sussidiario, di indi-
care la subordinazione. È questo ruolo sussidiario che si colloca funzionalmente
in primo piano in costrutti come Credevo fosse una bugia, con l’omissione del-
l’indicatore di subordinazione che.
174 KOLBJÖRN BLÜCHER

La posizione del congiuntivo nella lingua standard al livello funzionale I


risulta molto solida4, fatto che è di grande interesse teorico. In senso stretto, for-
male, il suo ruolo a tale livello funzionale è un elemento ridondante, benche obbli-
gatorio. La nota instabilità del congiuntivo in questione in certi registri della lin-
gua si può interpretare come una ripercussione del suo carattere ridondante. Nei
casi in cui invece del congiuntivo si usa l’indicativo, ciò non impedisce la com-
prensione del messaggio, ma viene interpretato connotativamente come “errore”,
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come un registro linguistico “familiare”, “popolare” e simili. Nondimeno, il ruolo


del congiuntivo come marca formale d’obbligo di strutture sintattiche nella lingua
è molto frequente, il più frequente, sembra, sul piano quantitativo. A nostro pare-
re, questo fatto mette in rilievo l’importanza della ridondanza in generale in un
sistema linguistico come quello italiano.
Al livello funzionale 2.a ci troviamo di fronte a una funzione del congiuntivo
nella quale la scelta del modo non si può definire ridondante, cioè quella di diffe-
renziazione semantica. Qui l’uso dell’uno o dell’altro modo è decisivo per la com-
prensione del messaggio, vale a dire che il congiuntivo o l’indicativo servono a
dare significati diversi all’enunciato. Troviamo tale funzione dei due modi in
completive come per es. Capisco che sei contrario alla soluzione proposta
/Capisco che tu sia deluso, Scrissi a casa che cercavo un lavoro in città, che mi
lasciassero provare, in relative quali Cercava una persona che sapeva/sapesse
l’inglese, e in una varietà di altri tipi e strutture. I lessemi che determinano la scel-
ta del modo nella completiva nel tipo di esempi citati hanno la proprietà di rive-
stire, a scelta del parlante, modalità distinte. La modalità intesa dal parlante deter-
mina la concordanza modale fra questa e il modo del verbo nella completiva, il
che ha come effetto di dare al costrutto, a seconda del modo, un significato diver-
so. Nel tipo di periodo con una relativa come nell’esempio riportato c’è un verbo
che contiene come parte del suo significato un elemento di modalità atto a richie-
dere la concordanza modale con il congiuntivo. In questo caso concreto il verbo
cercare racchiude l’elemento modale “mira temporale futura”. Quando l’oggetto
diretto di tale verbo, che anche è l’antecedente della relativa, per il parlante rive-
ste un carattere semanticamente indeterminato e la qualità di “sapere l’inglese”
così è una qualità richiesta, l’elemento di modalità “si trasferisce” a questo ante-
cedente indeterminato, il quale attraverso il suo sostituto sintattico che influisce
modalmente sul verbo della relativa determinando la concordanza modale
MOD.C Ma+. Se invece l’antecedente in questione per il parlante ha un carattere
determinato e ciò che si esprime nella relativa quindi è una qualità esistente del
detto antecedente, la determinatezza dell’antecedente neutralizza questo tipo di
modalità e il modo che ne risulta nella relativa è l’indicativo. Dal punto di vista di

4 Cfr. Serianni (1997: 386): “Alcuni grammatici parlano di una presunta ‘morte del con-
giuntivo’ nell’italiano di oggi (---). Ma in realtà il congiuntivo è ben saldo nell’italiano scritto,
anche senza pretese letterarie (---)”.
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 175

chi riceve il messaggio, ovviamente è l’uso dell’uno o dell’altro modo che in tutti
questi casi definisce il significato.
Come abbiamo potuto osservare, i meccanismi modali possono avere un carat-
tere diverso a seconda dei tipi di struttura sintattica. Ulteriore illustrazione di que-
sto fatto possono essere strutture quali È un problema che questi bambini non sap-
piano nuotare – Il problema è che questi bambini non sanno nuotare; Era la nostra
speranza che nel frattempo arrivassero gli alleati – La nostra speranera era che
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nel frattempo arrivassero gli alleati; È importante che non si perda nessuna pos-
sibilità di dialogo; L’importante è che la guerra finisca; L’importante è che la
guerra è finita. Il primo di questi esempi ha la struttura verbo copulativo essere –
elemento con modalità atta a determinare la concordanza modale MOD.C
Ma+ – completiva. In questo caso la concordanza modale MOD.C Ma+ avviene
regolarmente. Nella seconda frase, invece, in cui l’ordine dei costituenti della strut-
tura è elemento con modalità MOD.C Ma+ – verbo copulativo essere – com-
pletiva, il modo che s’impone è l’indicativo. Qui evidentemente è la modalità di
essere a dominare, bloccando la modalità MOD.C Ma+ e determinando la concor-
danza modale MOD.I Ma÷. Nei due esempi in cui l’elemento con modalità MOD.C
Ma+ è speranza, la struttura è identica a quella dei primi due, ma qui la concor-
danza modale MOD.D Ma+ avviene in tutte e due le strutture. Questi fatti portano
a due conclusioni. Prima conclusione: il fattore modale “mira temporale futura”
insito in speranza e che non è presente in problema deve essere quello decisivo per
la concordanza modale. Seconda conclusione: ci deve essere una gradazione di
potenza d’influsso di modalità MOD.C Ma+, concetto per altro adottato da Schmitt
Jensen nel suo citato studio. A questa problematica di tipi di modalità è da collega-
re anche la possibilità o no dell’uso del futuro e del condizionale in strutture sog-
gette a un influsso modale MOD.C Ma+. Nei tre esempi in cui l’elemento con
modalità MOD.C Ma+ è importante, troviamo ancora un tipo di meccanismo
modale. Nella struttura È importante – completiva la concordanza modale è di tipo
“regolare”, in cui l’aggettivo importante, il quale contiene il fattore modale “valu-
tazione soggettiva”, s’accorda obbligatoriamente con il congiuntivo, come in È un
problema – completiva. Nella struttura L’importante è – completiva però si vedo-
no usati i due modi, con sfumature semantiche diverse. Da questi due casi si con-
clude che l’aggettivo sostantivato importante può rivestire, a scelta del parlante
(come del resto altri elementi di modalità MOD.C Ma+), il fattore modale “mira
temporale futura”. In L’importante è che la guerra finisca tale fattore modale, evi-
dentemente di potenza d’influsso forte, s’impone bloccando la modalità MOD.I
Ma÷ di è (essere) e determina così la concordanza modale MOD.C Ma+. Invece in
L’importante è che la guerra è finita questo fattore modale non c’è, si tratta di una
valutazione di un fatto, ed è la modalità MOD.I Ma÷ di è (essere) (“fatto/realtà”) a
imporsi sulla modalità MOD.C Ma+ “valutazione/soggettività” di importante
determinando la concordanza modale con l’indicativo.
Il terzo livello funzionale della gerarchia stabilita raggruppa gli usi modali in
cui non si tratta né di marca obbligatoria né di differenziazione semantica.
176 KOLBJÖRN BLÜCHER

L’alternanza dei modi è dal punto di vista puramente grammaticale più o meno
facoltativa. La scelta del modo può dipendere da fattori stilistici di vario tipo, da
preferenze personali e così via. Più è elevato lo stile più è frequente il congiunti-
vo. In ciascun tipo di struttura sintattica ci sono vari fattori con la proprietà di
creare un ambiente di modalità che in varia misura permette la concordanza
modale MOD.C Ma+. Si può per esempio trattare di completive subordinate a
certi verbi, aggettivi o sostantivi come in Ignorava che la guerra era/fosse finita;
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Era evidente che i due non avevano/avessero altro da dirsi. Una negazione, inter-
rogazione o condizione nella proposizione dalla quale dipende la completiva crea
una simile situazione modale. Altri costrutti sintattici con una sintassi modale di
questo tipo sono le relative con un antecedente che esprime un’idea superlativa (È
il miglior libro che ha/abbia scritto), le relative di tipo restrittivo con un elemen-
to indefinito di negazione come antecedente (Non conosco nessuno che sia/è più
arrogante di lui), le temporali con mira futura nel presente introdotte da finché
(Finché io vivo/vivrò/viva lo ricorderò) e numerosi altri costrutti. Un caso com-
plicato e allo stesso tempo molto interessante è l’interrogativa indiretta, nella
quale la tendenza verso l’uno o l’altro modo dipende dalla quantità di fattori atti
a creare un determinato clima di modalità. Più sono presenti fattori quali interro-
gazione espressa nella principale, verbo modale nella principale, gli elementi
introduttori come, perché, quanto, negazione nella principale, dislocazione a sini-
stra e altre particolarità, più si crea un ambiente di modalità che tende alla con-
cordanza modale MOD.C Ma+ e quindi più frequentemente avviene tale concor-
danza, cioè con il modo congiuntivo. In una situazione sintattica/modale come
questa ovviamente hanno un ruolo importante il livello di stile e la preferenza per-
sonale.
A questo terzo livello temporale si può, come per il livello 1, dal punto di
vista strettamente formale definire il congiuntivo come un elemento ridondante.
Qui però è un elemento facoltativo, non obbligatorio.
In questo breve spazio, naturalmente, è stato possibile trattare solo una pic-
cola frazione della vasta problematica che rappresenta la sintassi modale dell’ita-
liano. Sono stati lasciati da parte i registri inferiori a quello standard, i quali in un
certo senso sono una problematica a sé. La nostra intenzione è stata in primo
luogo discutere certe questioni di carattere teorico generale e proporre alcune idee
e interpretazioni.
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 177

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IØRN KORZEN
(Copenaghen Business School)

Tempo o modo? Il caso del Trapassato Prossimo


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1. INTRODUZIONE

Di solito il Trapassato Prossimo1 viene trattato piuttosto sommariamente


nelle grammatiche e nella letteratura linguistica. Scorrendo vari materiali didatti-
ci si trova pressappoco la stessa descrizione di tale Tempo come perfettivo e rela-
tivo, più precisamente come indicatore di un avvenimento (evento, processo o
situazione) terminato anteriormente ad un altro avvenimento del passato, come in:

(1) Appena avevamo finito di mangiare siamo usciti

Si vedano per es. Regula/Jernej (1975: 221), Spore (1975: 353-354), Plum
(1978: 171) e Sabatini (1984: 669). Altri studiosi vi aggiungono i cosiddetti “usi
modali” del Trapassato Prossimo, fra cui il Trapassato “attenuativo”, il quale serve
per “mitigare” un avvenimento in contesti di cortesia o di modestia, come in:

(2) Veramente avevo preparato un discorso sul Futuro, ma posso anche


parlare del Trapassato Prossimo

e il Trapassato “ipotetico” (Bertinetto 1986a: 465; Dardano/Trifone 1997: 323), il


quale occorre, in un registro colloquiale, in alternativa al Trapassato Congiuntivo
o al Condizionale Composto rispettivamente nella protasi e nell’apodosi di costru-
zioni ipotetiche, come in:

(3) a Se tu avevi effettivamente spedito la lettera, come promesso,


adesso non staremmo qui a recriminare
b Un istante di più, ed avevamo raggiunto la vetta; peccato che
Mariano si sia fatto prendere dalle vertigini proprio allora (cit.:
Bertinetto 1986a: 465)

1 Adopero qui la distinzione proposta da Bertinetto (1986a), da Bazzanella (1994) e da altri


studiosi (che si basano su Bernard Comrie) fra tempo fisico con la t minuscola e Tempo lin-
guistico-verbale – ovvero il sistema di relazioni temporali espresso dai segni linguistici – con
la T maiuscola. L’uso opposto si trova invece in Herslund (1987).
180 IØRN KORZEN

Come indicato, gli esempi (3) provengono da Bertinetto (1986a) che com-
prende uno degli studi più approfonditi sul Trapassato con l’analisi di una serie di
sfumature semantiche particolari; per es. fra gli usi modali viene incluso il cosid-
detto Trapassato “di fantasia”, esemplificato in:

(4) Ben presto Claudio si immedesimò nel protagonista del racconto.


Era lui che aveva tratto in salvo la casta duchessa; lui che aveva af-
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frontato la masnada degli sbirri, lui e solo lui che aveva strappato
la maschera dal volto del falso e perverso arcivescovo (op. cit. 451)

Come molti degli altri studiosi citati, Bertinetto sottolinea fortemente, sia in
(1986a) che in (1986b), la “ineludibile caratteristica” del TRP di implicare “un
MR [momento di riferimento] situato nel passato e successivo al MA [momento
dell’avvenimento]” (Bertinetto 1986a: 432). Però già nel 1969 Fogarasi (1969:
283) aveva aggiunto, a proposito di casi come:

(5) Ti avevo già scritto un mese fa

che “l’altra azione del passato [...] può anche mancare”, e “il rapporto di ante-
riorità vale rispetto al momento presente, quando sto riscrivendogli, oppure rispet-
to a un altro tempo passato espresso o non espresso”. Simili osservazioni si tro-
vano in Moretti/Orvieto (1979: 48), in Serianni (1989: 473) e in Squartini
(1999) 2. Lo studio di Squartini contiene osservazioni molto approfondite sulle
varie sfumature temporali del Trapassato, e lo studioso aggiunge (giustamente)
che “its typology is more complex and multifarious than has traditionally been
assumed and […] there are intermediate steps between a purely anaphoric
Pluperfect and its more deictic usage in past temporal frames” (op. cit. 59-60).

La complessità del Trapassato si evidenzia in una serie di altri usi, come per es.:

(6) I giocatori granata si gettarono all’attacco; e in un batter d’occhio ave-


vano capovolto il risultato: da 0-2 a 3-2 (cit.: Bertinetto 1986a: 459)
(7) Oggi avevi chiesto a Fausto cosa pensava... o meglio, scusate, come
pensava sarebbe stata la società italiana quando Giorgio fosse cre-
sciuto. Giorgio è nostro figlio. [...] (I. Korzen, Gli italiani vivono
(anche) così 1, Copenaghen, Samfundslitteratur 1989, p. 21)

2 Moretti/Orvieto aggiungono: “Allorché il trapassato prossimo si trova in relazione (logi-


ca o sintattica) con un presente o un futuro, serve a situare il fatto in un punto del tempo senti-
to molto remoto”. Mi permetto di rimandare a Bertinetto (1986a), a Squartini (1999) ed a Korzen
(2002) per resoconti più approfonditi dei contributi precedenti sul Trapassato Prossimo.
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 181

In (6) l’avvenimento designato dal Trapassato Prossimo non è anteriore ma


posteriore al MR segnato dal Passato Remoto3, né in (7) il Trapassato si riferisce
ad un momento del passato designando un avvenimento anteriore ad esso; il brano
di (7) costituisce l’inizio di un’intervista videoregistrata con una signora milane-
se e, si può dire, l’introduzione, o la “giustificazione”, delle lunghe riflessioni che
seguiranno.
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In un interessante contributo recente, Bertinetto (1999), viene focalizzata la


“drastica revisione” cui l’uso dei Tempi verbali come espressione delle relazioni
tempo-aspettuali tra gli eventi viene sottoposto da alcuni autori moderni. Tale
revisione include tra l’altro la commutazione, nella funzione “propulsiva” (ovve-
ro aoristica), dal Passato Remoto al Trapassato Prossimo, come anche al Passato
Prossimo e al Presente, commutazione che presuppone “un loro stadio [di questi
tre Tempi] piuttosto avanzato di ’aoristicizzazione’ nella lingua parlata (o per
meglio dire, in certe varietà della stessa)” (op. cit. 93)4, ma che allo stesso tempo
non esclude una “consapevole sperimentazione stilistica” (loc. cit.). L’uso pro-
pulsivo di Tempi diversi nel medesimo testo viene chiamato anche elemento
’cromatico’ perché contribuisce alla “partizione della trama narrativa in porzioni
diegetiche distinte, ciascuna caratterizzata da un proprio ’colore’”. I vari Tempi
perdono parte del loro inerente significato tempo-aspettuale, e servono piuttosto
ad esplicitare “la transizione tra le diverse sezioni testuali che essi contribuiscono
a isolare” (op. cit. 74-75).

In questo intervento, che si concentrerà sul Trapassato Prossimo e sulla sua fun-
zione pragmatico-testuale, proporrò un’analisi di tale Tempo sulla base di una spe-
cie di “connessione”, o considerazione un poco più globale, delle nozioni di “uso
temporale” e di “uso modale”, e cercherò di delucidare il legame tra il valore (forse
fondamentalmente) modale del Tempo (“modale” in senso un poco più ampio e ge-
nerale di quello adoperato tradizionalmente) e il suo tipico valore pragma-testuale
di backgrounding, cioè di espressione di una dislocazione dell’evento testualizzato
dalla cosiddetta “event-line” primaria (il “primo piano”) ad uno sfondo pragmatico-
narrativo. A mio avviso l’analisi proposta – che non intende scartare o sostituirsi alle
analisi precedentemente presentate da altri studiosi, ma vorrebbe invece integrarvi-
si – potrebbe anche accennare alle premesse linguistiche, pragmatiche e cognitive
per gli usi sperimentali documentati da Bertinetto (1999).

3 Bertinetto parla qui di ’compimento immediato’, in cui “[i]l risultato viene presentato, per
così dire, come se esso si desse prima dello stesso svolgimento dell’evento” (op. cit., p. 458-459).
4 In Bertinetto/Squartini (1996) sono presentati i risultati di una ricerca sull’uso dei Passati
da parte di soggetti di diversa provenienza regionale, ai quali era stato chiesto di sostituire, in
una serie di enunciati, gli Infiniti con il Passato Remoto o Prossimo a seconda della preferenza
personale. Ma in non pochi casi i soggetti settentrionali (soprattutto torinesi) o sardi avevano
scelto invece il Trapassato Prossimo; cfr. op. cit. 407-408.
182 IØRN KORZEN

2. DISTANZA TEMPORALE / DISTANZA SPAZIALE → DISTANZA MODALE


Accenni od osservazioni preliminari su una connessione delle nozioni “uso
temporale” e “uso modale” si trovano già in Lyons (1977) che parla dell’interdi-
pendenza tra distanza temporale e spaziale:
(8) “[...] by virtue of the interdependence of time and distance (in that what
is further away takes longer to reach), there is a direct correlation
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between temporal and spatial remoteness from the deictic zero-point of


the here-and-now […] [W]hat is commonly regarded as past-tense […]
is perhaps better analysed, in certain languages at least, in terms of the
more general notion of modal remoteness” (op. cit. 718-719)5.
In altre parole: quello che è lontano spazialmente (e lo “spazio” può essere fisi-
co o mentale) lo è anche temporalmente e viceversa. In seguito, ma senza rimandi
diretti all’osservazione di Lyons, lo studioso danese Herslund ha proposto una descri-
zione generale dei Tempi verbali secondo cui la loro scelta non dipende in primo
luogo dal riferimento (deittico) temporale, bensì dall’attualità (o topicalità) moda-
le dell’avvenimento in questione per il mondo del parlante. Un Tempo del passato
o del futuro segnala sempre il tratto [– attuale] rispetto al mondo del parlante, ovve-
ro una distanza da esso, e la dicotomia [+ deittico] / [– deittico] rispetto al momento
di enunciazione, la quale corrisponde rispettivamente all’uso temporale e all’uso
modale nella terminologia “tradizionale”, viene in secondo luogo:

5 Lo stesso passo è citato da Bazzanella (1994: 103) nel suo capitolo sugli usi modali
dell’Imperfetto.
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 183

Tale analisi spiega per es. i molti usi modali del Futuro e dell’Imperfetto, fra
cui gli Imperfetti normalmente detti “onirico”, “fantastico”, “ipotetico”, “ludico”,
“di cortesia o di modestia”, ecc. (cfr. Bazzanella 1990, 1994; Korzen 2002), non-
ché usi del tipo:

(10) a. A: Lo sai che mi sono sposata con Luca? B: Chi? A: Quello


che è alto due metri e che ha due figli con Anna.
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b. A: Lo sai che mi ha lasciato Luca? B: Chi? A: Quello che era


alto due metri e che aveva due figli con Anna.
(11) a Luca ha comprato una casa. È una villa bellissima che ha un
giardino enorme.
b Luca ha venduto la sua casa. Era una villa bellissima che
aveva un giardino enorme.

Gli Imperfetti di (10b) e di (11b) segnalano non (necessariamente) che la


situazione designata sia limitata a un passato temporale, cioè terminata, ma che
essa non è più attuale per il mondo del parlante.

3. IL TRAPASSATO PROSSIMO

A mio avviso, l’ipotesi di Lyons citata in (8) e il modello di Herslund illu-


strato in (9), il quale non considera particolarmente il Trapassato Prossimo, pos-
sono essere stimoli ispiratori per una descrizione più globale dell’uso e della fun-
zione di tale Tempo. A differenza di altri Tempi del passato, il Trapassato designa
una specie di “doppio distanziamento modale/temporale”, si può quasi dire che
tale distanziamento venga segnalato iconicamente: in parte dal Participio Passato
che esprime un avvenimento conclusosi in un passato rispetto al momento dell’e-
nunciazione, in parte dall’ausiliare all’Imperfetto. Scorrendo una serie di usi e
contenuti diversi del Trapassato cercherò di dimostrare che a livello testuale esso
esprime un valore non solo temporale ma in larga misura anche pragmatico: l’av-
venimento testualizzato al Trapassato Prossimo viene relegato dal foreground in
corso ad un background pragmatico e/o narrativo. Seguendo la terminologia di
Herslund si può parlare di una specie di “deattualizzazione” dell’avvenimento in
questione, deattualizzazione che – come illustrato anche dalle uscite del ramo de-
stro della figura (9) – può assumere valori semantici (prevalentemente) temporali
o (prevalentemente) modali a seconda del co- o contesto in questione.

3.1. Usi relativi (o anaforico-deittici)

In questa sezione vedremo come un segmento al Trapassato che faccia parte


di un co-testo dato con Tempi verbali diversi venga distanziato dai segmenti co-
184 IØRN KORZEN

testuali e con ciò dall’“event-line” attuale. In questo modo il Trapassato Prossimo


può servire come segnale di un rilievo testuale, ovvero di distinzione tra piani o
settori pragmatici e/o narrativi diversi. In tutti i casi il Tempo ha funzione relati-
va, o “anaforico-deittica”6, con diverse accezioni temporali/modali e aspettuali.

Le varie sfumature (prevalentemente) temporali del Trapassato sono quelle


meglio indagate dagli studiosi, per cui mi permetto di essere molto sommario in
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merito. Nel distanziamento temporale di un avvenimento, non si tratta neces-


sariamente di un avvenimento perfettivo e compiuto anteriormente ad un altro
avvenimento al passato, come in (1) sopra e come sostenuto da diversi autori; casi
come (12)-(13) sono diversi:

(12) A stento Montalbano riusciva a trattenere la nausea. Dal momen-


to ch’era entrato nel cammarino un violento feto di ràncido l’ave-
va pigliato allo stomaco. (Camilleri: Un mese con Montalbano,
Mondadori 1999, p. 334)
(13) Dice Alida che ogni tanto lei ha nostalgia di quei tempi confusi
[...] in cui il suo Romeo tornava dalle partite di calcio lamentan-
dosi perché la sua squadra non aveva vinto, o tornava dalle mani-
festazioni contento se era riuscito a menare le mani. (Gianni
Celati: Cinema naturale, Feltrinelli 2001, p. 42)

Aveva pigliato di (12) esprime inclusività: la situazione designata arriva a


comprendere il momento di riferimento e non è vista come terminata (il violento
feto di ràncido lo pigliava ancora), e aveva vinto e era riuscito di (13) esprimono
abitualità. Invece in (1) sopra l’avvenimento dato al Trapassato è compiuto ante-
riormente all’altro evento del passato e non è contemporaneo ad esso. Quindi seb-
bene il valore aspettuale del Trapassato esemplificato in (1) possa dirsi il più fre-
quente, usi diversi non sono esclusi.

In altri casi invece la relazione temporale tra i due avvenimenti designati è


molto meno evidente, però la relazione pragma-testuale, la distinzione tra fore-
ground e background, rimane la stessa. In un costrutto come:

(14) Bianchi ha perso l’aereo per Roma: era arrivato tardi in aeroporto

la relazione temporale è, direi, ambigua: infatti, se logicamente il momento in cui


si perde un aereo è quando l’aereo decolla e non si è a bordo, tale momento può
essere benissimo anteriore al momento dell’arrivo in aeroporto. L’importante è

6 Termine suggerito da Vanelli (1995: 317).


TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 185

invece che nel costrutto citato era arrivato esprime la causa della perdita del-
l’aereo; la perdita dell’aereo è l’avvenimento centrale, il cosiddetto “nucleo reto-
rico” (nella terminologia di Matthiessen/Thompson (1988), cfr. anche Korzen
(1999: 328-329)), e l’arrivo ritardato è il “satellite” di causa, un classico esempio
di status testuale di background. (Invece in costrutti come:

(15) Bianchi è arrivato tardi in aeroporto. Ha perso l’aereo per Roma


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Bianchi è arrivato tardi in aeroporto e ha perso l’aereo per Roma

i due eventi sono descritti allo stesso livello retorico e pragmatico, cfr. anche
Korzen (in stampa a)). Un caso parallelo a (14) si ha in:

(16) Uccide l’ex moglie davanti all’asilo


L’ha uccisa davanti alla scuola materna dove lei insegnava, men-
tre alcuni bambini stavano uscendo. Dieci coltellate per “punire”
l’ex moglie che non lo aveva più voluto e aveva cercato di rico-
struirsi una vita con un altro. L’omicidio è avvenuto davanti all’a-
silo di Campolongo [...]. (Stampa 19.12.91)

La situazione descritta al Trapassato non era terminata anteriormente all’e-


vento l’ha uccisa, bensì ne è la causa7.

Un segmento testuale di background può essere più generalmente esplicati-


vo, cioè può servire a spiegare o sviluppare fenomeni del primo piano testuale,
come si vede in un altro esempio di Bertinetto:

(17) Il mio respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio


cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei
muscoli si contrassero con uno spasimo atroce [...] e caddi fra le
braccia del dottore che era accorso in mio aiuto.
Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore mi
aveva colto in quell’istante; la malattia di Fosca si era trasfusa
in me: io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del
mio fallo e del mio amore. (Tarchetti, cit.: Bertinetto 1986a:
450)

7 È noto che la distinzione tra relazioni temporali e relazioni causali sia tutt’altro che rigi-
da: in molti casi un avvenimento che precede un altro può essere interpretato come causa o
motivo dell’altro, cfr. per es.:
– Giovanni, tu hai dato a questi ragazzi un permesso inconcepibile.
– Felice, mi avevano dato la loro parola. (dal telefilm Compagni di scuola).
186 IØRN KORZEN

Un background può avere anche altre sfumature semantiche, può essere per
es. esemplificativo:

(18) Circa 700 anni dopo Cristo cominciò una nuova epoca, l’era
vichinga. Ben presto la Danimarca diventò un popolo di cattiva
fama a causa delle loro scorrerie lungo le coste europee. A un
certo punto i vichinghi avevano conquistato sia l’Inghilterra, l’Ir-
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landa e la Normandia. (Danmark. Trojaborgs Forlag 1992, p. 8)

Qui avevano conquistato serve come esemplificazione delle scorrerie men-


zionate precedentemente. Un caso di sfondo descrittivo si ha in:

(19) Niscendo dal portone, [Montalbano] taliò il ralogio. Si erano fatte


le nove di sera. Si mise in macchina e si diresse a Montelusa [...].
(Camilleri, Gli arancini di Montalbano, Mondadori “I Miti” 2000,
p. 36)

dove avremmo potuto avere anche un semplice Imperfetto descrittivo (detto


anche, appunto, ’di sfondo’): erano le nove di sera.

Con lo stesso contenuto fondamentale di sfondo si può anche, direi, spiegare


l’uso del Trapassato in (6) sopra: ...in un batter d’occhio avevano capovolto il ri-
sultato. Nel costrutto citato avevano capovolto esprime la conseguenza dell’a-
zione del foreground, cioè dell’attacco. Si noti che avremmo potuto avere anche
un gerundio, il quale segnala sempre un background retorico:

(6’)I giocatori granata si gettarono all’attacco, capovolgendo in un bat-


ter d’occhio il risultato8

qui in funzione di co-verbo nel senso di Herslund (2000): un co-verbo si aggiun-


ge al predicato verbale principale (e sempre finito) esprimendo varie forme di ela-
borazione, per es. – se posposto al verbo principale come in (6’) – la fase finale
dell’avvenimento in questione: risultato o conseguenza.

In modo simile si spiega l’uso del Trapassato in funzione di prologo o introdu-


zione, come si è visto anche in (7) e come si vede in (20)-(21): scegliendo come
momento di riferimento un momento successivo all’avvenimento in questione, il par-
lante può presentare quest’ultimo come sfondo introduttivo, o cornice narrativa9:

8 Sulla funzione pragma-testuale di background delle forme verbali infinite, cfr. Korzen
(1999; in stampa a).
9 Per tale uso del Trapassato Prossimo, vedi anche Miklič (1998).
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 187

(20) Finiti gli studi universitari, due studenti avevano avuto due borse
di studio per preparare le loro tesi di specializzazione, ed erano
partiti verso una città straniera dove abitava un celebre maestro
con cui volevano studiare. Studiare con una persona così impor-
tante era una fortuna, dicevano molti. I due erano cresciuti insie-
me, avevano sempre studiato assieme, e s’erano anche abituati a
pensare le stesse cose, come una coppia di vecchi sposi. (Celati:
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Cinema naturale cit., p. 81; inizio del racconto Novella di due stu-
denti)
(21) Siracusa. Il killer, un albanese di 29, è stato arrestato
Uccide a bastonate il suocero mancato
SIRACUSA – Lo avevano accolto come fosse un altro loro figlio,
per lungo tempo erano stati convinti che sarebbe stato un buon
marito per la loro ragazza. Invece lui, un albanese di 29 anni,
mirava solo ai loro risparmi e quando si è visto scoperto non ha
trattenuto la rabbia ed ha massacrato il mancato suocero a colpi di
bastone. [...] (La Repubblica 15.4.2001, 22)

Invece un Passato Prossimo o Remoto avrebbe collocato gli avvenimenti


testualizzati allo stesso livello pragma-testuale degli avvenimenti seguenti e più
centrali per la storia narrata.

In altri casi può trattarsi di sfondo conclusivo o epilogo:

(22) Nel 1642 la svolta. Per non perdere l’eredità della moglie, non si
risposa. [...] Ancora guai: Rembrandt incappa nel fallimento eco-
nomico e si abbandona a trucchetti per ingannare i creditori: inte-
sta la casa al figlio, si fa impiegato di una società di commercio
gestita dall’ex domestica e dal figlio stesso. È la bancarotta socia-
le. Neanche il suo modo di dipingere incontra più successo: i com-
mittenti sono ormai pochi. La morte, nel 1669, chiude la parabola.
La società aveva serrato le file contro di lui, che forse si era illuso di
poter infrangere i tabù comunemente accettati: lo scrive Dudok van
Heel nella sua biografia in catalogo. Per tutta la vita Rembrandt aveva
cercato di elevarsi, di diventare un borghese: “Non riuscì a raggiun-
gere l’obiettivo. Non venne mai chiamato signore”. Claudio Altaroc-
ca (Stampa 12.9.91)

(In questo caso si osservi che il nucleo testuale appare al Presente, un


Presente “Storico” o “Narrativo”).

Sia “prologo” che “epilogo” sono mezzi stilistici piuttosto frequenti nella
prosa giornalistica e narrativa e sono funzionali a segnalare il trapasso tra “story-
188 IØRN KORZEN

line” (primo piano pragma-narrativo) e cornice o sfondo, rispettivamente come


introduzione e come chiusura/dissolvenza di carattere più lento e calmo rispetto
alla storia centrale. Un buon esempio di epilogo narrativo si ha nei paragrafi fina-
li del romanzo La voce del violino di Andrea Camilleri (Palermo, Sellerio 1999),
i quali formano una specie di elaborazione conclusiva da parte del narratore:

(23) Tutto era stato, fin dal principio, uno scangio dopo l’altro.
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Maurizio era stato scangiato per un assassino, la scarpa scangiata


per un’arma, un violino scangiato con un altro e quest’altro scan-
giato per un terzo, [...]. (op. cit. 206)

Una simile coda, o “cornice conclusiva”, si ha nella versione televisiva del


racconto, dove nella scena finale la voce del protagonista, il commissario Salvo
Montalbano, commenta:

(24) Adesso che la storia era finita, avevo capito che tutto era stato fin dal
principio uno scangio dopo l’altro. Maurizio di Blasi era stato scan-
giato per un assassino, la scarpa per una bomba a mano, un violino
scangiato per un altro violino. Il piccolo François aveva addirittura
scangiato famiglia. (La voce del violino, regia: Alberto Sironi)

L’ultimo tipo di distanziamento dal co-testo, o deattualizzazione rispetto al


co-testo, cui accennerò qui è il cossiddetto “Trapassato di fantasia”, già citato
in (4):

(4) Ben presto Claudio si immedesimò nel protagonista del racconto.


Era lui che aveva tratto in salvo la casta duchessa; lui che aveva
affrontato la masnada degli sbirri, lui e solo lui che aveva strappa-
to la maschera dal volto del falso e perverso arcivescovo

Pure in tali casi si fuoriesce dalla “story-line” attuale o in corso, seguendo un


filo narrativo di carattere digressivo.

In tutti i casi citati in questa sezione il valore temporale/modale del Trapas-


sato Prossimo è servito a segnalare un rilievo testuale di carattere pragma-narra-
tivo.

3.2. Usi non relativi (usi deittici)

In questa sezione accennerò ai casi in cui un segmento al Trapassato non si


collega (necessariamente) ad un co-testo dato con Tempi diversi. Come si era già
visto in (5):
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 189

(5) Ti avevo già scritto un mese fa

un altro momento di riferimento al passato non è necessariamente pertinente, e il


Trapassato Prossimo si collega direttamente al momento di enunciazione; cfr.
anche:

(25) E l’altro [...], restituirà alla povera vedova quella somma che il
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marito di lei gli aveva consegnato per metterla al sicuro cinque


anni fa (C. Alvaro, cit.: Moretti/Orivieto 1979: 48)

In tali casi il Trapassato segnala una particolare distanza dell’avvenimento


designato rispetto al contesto, ovvero rispetto alla situazione comunicativa. In
tutti i casi si tratta di un avvenimento terminato prima del momento di enuncia-
zione, ma laddove un Passato Prossimo (ti ho scritto, gli ha consegnato) avrebbe
espresso un legame, una vicinanza mentale, al momento di enunciazione, il Tra-
passato ne segnala un distanziamento. Come il distanziamento co-testuale descrit-
to in 3.1, anche il distanziamento contestuale permette varie sfumature di caratte-
re piuttosto temporale o modale/psicologico, per es. che l’avvenimento in que-
stione abbia avuto luogo in un passato sentito come remoto, cfr. cinque anni fa
di (25), oppure la distinzione da un simile avvenimento in corso, come nel caso
di (5), enunciato che può essere usato nella scrittura di una nuova lettera allo stes-
so destinatario. Similmente l’enunciato in (26) proviene da una scena in cui un
gruppo di investigatori stanno per entrare in un nuovo palazzo durante un sopral-
luogo:

(26) Quanti palazzi avevamo già controllato? (da telefilm “Law and
order”)

Inoltre il Trapassato può esprimere che la situazione designata non è più


attuale, ovvero che il risultato è ribaltato10; per es. il dialogo di (27) proviene da
una scena in una questura a cui la parlante A si è rivolta essendo stata derubata del
suo portafoglio; il poliziotto P sta eseguendo la stesura del verbale:

(27) A: Io non sono italiana, sono svizzera.


P: Ah, lei è svizzera.
A: E avevo con me il passaporto.
P: Ho capito. E quando deve fare rientro in Svizzera?
A: Eh, avevo deciso di stare qui in Italia per una settimana.
P: Sì.

10 “Risultato ribaltato” è la mia traduzione del termine di Squartini (1999: 57) “reversed
result”.
190 IØRN KORZEN

A: Ma visto quello che è successo forse partirò prima. (I. Korzen:


Scene italiane, Copenhagen Business School p. 41)11

Un esempio simile:

(28) “Domani parto.”


Sul momento, Livia, pigliata a tradimento, continuò a sorridere.
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“Ah, sì? E dove vai?”


“Torno a Vigata.”
“Ma se avevi detto che restavi fino a lunedì” disse, mentre il sor-
riso le si astutava lentamente come un cerino.” (Camilleri, Gli
arancini cit., p. 23)

Data la sua funzione di backgrounding, il Trapassato può ottenere una parti-


colare forza illocutoria nella situazione comunicativa: esprimendo quello che si
può chiamare ’sfondo di conoscenze condivise’12, esso può costituire un invito a
parlare, ovvero a fornire la sequenza testuale di maggiore attualità o topicalità;
cfr.:

(29) A: Beh, io credo che me ne farò un altro [di aperitivo].


B: Bene. Poi vogliamo anche ordinare?
A: Cameriere!
B: Ah, al telefono mi aveva accennato a una grande donazione
per l’ospedale pediatrico di San Clemente.
A: Sicuro; so quanto le stia al cuore quel posto, come a tutti del
resto. [...] (da telefilm La signora in giallo)

Con aveva accennato l’interlocutore viene invitato a proseguire il discorso


sull’argomento indicato. Similmente un costrutto come:

(30) Mi avevi telefonato?

costituisce – più fortemente che Mi hai telefonato? – un invito a spiegare il


perché; il costrutto al Passato Prossimo troverebbe una risposta sufficiente in
Sì/No, mentre una tale risposta risulterebbe incompleta e perfino maleducata nel
caso del Trapassato Prossimo13.

11 Questo volume contiene 27 “scene” videoregistrate in cui gli attori (fiorentini e romani)
avevano piena autonomia linguistica nello svolgimento dei loro ruoli prestabiliti.
12 Devo questa nozione a Carla Bazzanella (comunicazione personale).
13 Cfr. Korzen (2002; in stampa a/b) per altri esempi di tali costrutti.
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 191

Un parlante può anche servirsi del Trapassato Prossimo per relegare ad un


background pragmatico una propria azione come segno di cortesia o di modestia
personale, come si è visto in (2); cfr. anche:

(31) Suona un campanello. Teresa apre. Entra Elena.


TERESA Buongiorno.
ELENA Buongiorno. Avevo telefonato stamattina. Vengo per l’in-
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serzione sul “Messaggero”. Mi chiamo Elena Tesei. (Ginzburg: Ti


ho sposato per allegria e altre commedie; inizio della commedia
L’inserzione, Einaudi 1976, p. 79)
(32) M: Sì il mercato, il nostro mercato è buono insomma. Però ecco,
non abbiamo mai avuto esperienza con l’estero ...
R: Rapporti con l’estero.
M: ... e sarebbe interessante per noi ...
R: Iniziare un’esperienza di questo tipo.
M: Iniziare, esatto esatto. E certamente sarebbe molto più faci-
le collaborando con ditte che hanno già i loro rapporti, i loro
canali e così via. Io ho portato, ecco, tra le altre cose le
avevo già mandato una parte del nostro campionario ...
R: Sì sì, l’ho visto. (Korzen: Scene italiane cit., p. 49)

Di nuovo un Passato Prossimo esprimerebbe un collegamento con il momen-


to di enunciazione; invece il Trapassato segnala una dislocazione ad uno sfondo
in modo da rendere l’impatto meno duro per l’interlocutore. Similmente un
Trapassato può esprimere insicurezza da parte del(la) parlante:

(33) Interv.: Tu hai detto che torni a lavorare in autunno. Vuol dire che
usufruisci di tutte le possibilità di aspettativa che ti dà la legge?
Cristina: In un certo senso sì, perché io sono rimasta ... rimango a
casa nove mesi dopo l’arrivo della bambina. E per i tre mesi suc-
cessivi, fino a che la bambina non è in casa nostra per l’arco di un
anno, avrei due possibilità: o tornare al lavoro, con orario ridotto,
di circa il 25% in meno, ma il mio stesso stipendio, oppure posso
chiedere, se ho bisogno, un’aspettativa dal lavoro senza stipen-
dio. Io avevo pensato di tornare al lavoro in ottobre, insomma, in
metà settembre ...
Interv.: Ciò sarebbe dopo quanti mesi?
Cristina: Dopo i nove mesi regolari. (Korzen: Gli italiani vivono
(anche) così cit., p. 85)

Anche in altri casi un Trapassato può esprimere dislocazioni dal contesto


parallele a simili usi modali dell’Imperfetto; più precisamente, seguendo la ter-
minologia di Bazzanella (1994: 100-102), si può parlare di:
192 IØRN KORZEN

Trapassato “ludico”:
(34) (Facciamo che) io ero la mamma e ti avevo appena preparato la
cena
Trapassato “ipocoristico”:
(35) La mia bambina non aveva mangiato abbastanza?
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Trapassato “epistemico-doxastico”:
(36) A (guardando nella sua borsa): Costanza, non c’è il portafoglio!
B: Ma non è possibile, guarda bene.
A: No guarda: occhiali, agenda, chiavi, fazzoletti, non c’è. [...]
Dobbiamo assolutamente fare la denuncia; te non sai dov’è la
questura?
B: No, non lo so.
A: Non eri già stata a Firenze? [Non avevi detto che...]
B: Sono stata a Firenza ma non sono mai stata in questura, non
conosco bene Firenze. (Korzen: Scene italiane cit., p. 39 – la
scena precedente di quella di (27))

Come prima, il Trapassato distanzia un avvenimento compiuto dal mondo


attuale esprimendone la dislocazione rispetto ad esso. Una specie di “dislocazio-
ne per eccellenza” si ha nei costrutti ipotetici, cfr. l’es. (3) sopra.

4. CONCLUSIONE

Sulla base delle osservazioni precedenti risponderei ora alla domanda posta
nel titolo del mio intervento, dicendo che il Trapassato Prossimo esprime sia
tempo che modo. Il Trapassato può dirsi segnalare iconicamente un doppio
distanziamento, e per l’interdipendenza tra distanziamento temporale e distanzia-
mento modale tale Tempo ottiene un particolare valore testuale e pragmatico. Il
Tempo designa sempre un avvenimento (evento, processo o situazione) di un pas-
sato rispetto al momento dell’enunciazione, ma per di più distanziato dal co- o
contesto attuale o in corso. Per questo arriva a svolgere una generale funzione
pragmatica o pragma-testuale di backgrounding, cioè di relegazione dell’avveni-
mento designato ad uno sfondo co- o contestuale.

Co-testualmente ciò avviene quando un segmento al Trapassato si collega a


segmenti con Tempi diversi: il Trapassato esprime un particolare rilievo rispetto
al co-testo circostante, segnalando status di satellite retorico-narrativo e dislo-
cazione o distanziamento da sequenze testuali nucleari. Nelle sez. 1 e 3.1 ho cita-
to esempi raggruppabili sotto le seguenti etichette:
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 193

(37) Valori testuali del Trapassato Prossimo


sfondo temporale, cfr. gli ess. (1), (12)-(13)
sfondo causale: (14), (16)
sfondo esplicativo: (17)
sfondo esemplificativo: (18)
sfondo descrittivo: (19)
prologo: (20)-(21)
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epilogo: (22)-(24)
dislocazione “di fantasia”: (4)

Il valore contestuale si manifesta quando il Trapassato serve a testualizzare


un avvenimento in relazione alla situazione comunicativa: qui il Tempo può espri-
mere un particolare distanziamento temporale, modale o psicologico oppure in
altri modi una relegazione ad uno sfondo pragmatico. Più precisamente il
Trapassato può indicare che l’avvenimento testualizzato appartiene ad un passato
sentito come remoto oppure può distinguerlo da uno simile in corso; può anche
segnalare che lo stato risultante dell’avvenimento è stato ribaltato. Inoltre il
Tempo può relegare l’avvenimento ad uno sfondo di conoscenze condivise, costi-
tuendo un invito ad approfondire un particolare argomento, oppure ad un back-
ground pragmatico come segno di cortesia, di modestia o di insicurezza persona-
le. Infine il distanziamento contestuale può avere valore “ludico”, “ipocoristico”,
“epistemico-doxastico” o “ipotetico”:

(38) Valori contestuali del Trapassato Prossimo


riferimento ad un passato sentito come remoto, cfr. l’es. (25)
distinzione da un simile avvenimento in corso: (5), (26)
risultato ribaltato: (27)-(28)
conoscenze condivise / invito a parlare: (29)-(30)
segnale di cortesia o di modestia: (31)-(32)
segnale di insicurezza: (33)
valore “ludico”: (34)
valore “ipocoristico”: (35)
valore “epistemico-doxastico”: (36)
valore “ipotetico”: (3)
quest’ultimo essendo un valore sia contestuale che co-testuale.

Dato che l’italiano è una lingua con una tendenza particolarmente forte a
codificare morfologicamente distinzioni e rilievi testuali (basti pensare all’espli-
citazione morfologica di differenze aspettuali, alla possibile codificazione della
rilevanza psico-cognitiva per il momento dell’enunciazione nei Passati Prossimo
vs. Remoto e alla codificazione dello status di background attraverso forme ver-
bali infinite come il gerundio e i participi, cfr. nota 8), non deve sorprendere che
appunto in italiano il Trapassato Prossimo appaia con una frequenza notevole; si
194 IØRN KORZEN

veda Squartini (1999: 56-57) per un confronto con inglese e svedese e Korzen
(2001a/b; 2002; in stampa b) per un confronto con il danese. Né deve meraviglia-
re che per es. le sperimentazioni linguistiche della narrativa moderna documenta-
te da Bertinetto (1999) giochino appunto sulle possibilità morfologiche di codi-
ficare tali distinzioni testuali. Quello che sembra manifestarsi in alcuni autori
moderni potrebbe essere forse una tendenza a diminuire – o addirittura abolire? –
la distinzione tra diversi livelli narrativi nel senso di foreground vs. background a
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favore di una più generale divisione ’cromatica’ e “strutturazione plurilivellare


dell’impianto diegetico” (nelle parole di Bertinetto, op. cit. 94). Solo dal futuro
sviluppo linguistico-testuale potremo capirne l’andamento, ma è sintomatico che
in italiano la testualizzazione continui a servirsi di uno strumento tanto forte quan-
to la ricchezza morfologica verbale per esprimere, pure se in modi meno “orto-
dossi”, la distinzione tra livelli o settori pragma-narrativi diversi di un testo.
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 195

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NUNZIO LA FAUCI
(Zurigo)

Sul limite
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In this breathless pause at the threshold of a


long passage we seemed to be measuring our
fitness for a long and arduous enterprise…
Joseph Conrad, The Secret Sharer

1. IL QUADRO

Nel quadro concettuale di queste pagine, il linguaggio è una facoltà espressi-


va. La sintassi è il modello compositivo dell’espressione linguistica. La ratio di
tale modello è funzionale e la sua struttura è stratificata. La teoria linguistica rap-
presenta formalmente ambedue gli aspetti.
Nella proposizione gli elementi sono definiti funzionalmente e per opposi-
zione dai tratti [± Predicato] e [± Argomento]. I valori positivi di tali tratti identi-
ficano due macrofunzioni: rispettivamente, la macrofunzione d’operatore e la
macrofunzione d’operando. Gli elementi che ne sono marcati saranno detti
Predicati e Argomenti, rispettivamente.
Gli Argomenti entrano nella proposizione in quanto legittimati dal Predicato.
Nella proposizione di cui è operatore, il Predicato assegna una funzione sintattica
ad ogni Argomento che esso legittima. Così facendo, lo rende disponibile per
un’interpretazione semantica. Argomenti non legittimati sono esclusi dalle propo-
sizioni.
In riferimento alla legittimazione, la macrofunzione argomentale si articola e
si differenzia in dipendenza del tipo proposizionale. I tipi sono definiti dalla com-
binazione dei tratti [± Unità] [± Differenza]. Soggetto e Oggetto sono specifica-
zioni funzionali nucleari della macrofunzione di Argomento1. Gli Argomenti con
tali funzioni sono Argomenti Nucleari.
Gli elementi che fanno parte della proposizione interagiscono. Queste intera-
zioni obbediscono a principi generali, del genere della Stratal Uniqueness Law di
Perlmutter & Postal (1983). Esse comportano cambiamenti funzionali e la propo-
sizione ne risulta stratificata. Per fare un esempio, il passivo è un’interazione di

1 V. La Fauci (2000: 16-19) per una giustificazione teorica.


198 NUNZIO LA FAUCI

tipo rivalutativo formalmente definita nel diagramma stratigrafico della Tav. 12.
L’Argomentow è l’Oggetto Diretto di uno Strato transitivo Sx, in cui un elemento
distinto, l’Argomentoy, è il Soggetto. L’Argomentow è a sua volta il Soggetto
nello Strato intransitivo Sx + 1. L’Argomentoy è sintatticamente fossile nella fun-
zione di Soggetto a partire da Sx + 13:
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Tavola 1

L’operazione sintattica è espressiva e ha una manifestazione. Questa manife-


stazione è in relazione con la struttura funzionale e con le interazioni che la stra-
tificano e la variano armonicamente (la modulano). Attraverso tale manifestazio-
ne, si sancisce la buona formazione dell’operazione sintattica. Un principio di sta-
bilità/trasparenza/equilibrio funzionale guida l’espressione sintattica verso la
manifestazione di un’elementare interazione oppositiva e differenziale tra predi-
cazione e argomentalità. Tale opposizione si realizza infine determinando
l’Argomento che come Soggetto grammaticale (o finale) interagisce funzional-
mente con la predicazione.
All’interno di questo quadro generale, Fissione Predicativa4 è un modello
funzionale e stratigrafico dell’articolazione della macrofunzione di Predicato
nella proposizione semplice. Tale modello è uno sviluppo della teoria dell’Unione
Predicativa di Davies & Rosen (1988). Fissione Predicativa seziona la macrofun-
zione predicativa con riferimento a due proprietà funzionali distinte: da un lato, la
legittimazione degli Argomenti, dall’altro, l’interazione oppositiva col Soggetto
finale e relative manifestazioni.
Per Fissione Predicativa, la macrofunzione di Predicato di una proposizione si
distribuisce su uno o (conformemente con la teoria dell’Unione Predicativa) più
Nuclei Predicativi (PN). Ciascun PN è dotato di un elemento con la proprietà di legit-

2 I diagrammi stratigrafici vanno letti dal basso verso l’alto: dalla profondità alla superfi-
cie. La notazione delle funzioni grammaticali è quella della Grammatica Relazionale, con una
sola semplificazione tipografica: F indica un elemento sintatticamente fossile, la cui funzione è
recuperabile solo in prospezione stratigrafica (è Chômeur, si diceva in Grammatica
Relazionale).
3 In conseguenza del già ricordato principio di unicità stratale: cfr. Davies & Rosen (1988)
e i riferimenti ivi presenti. Sulle nozioni formali di strato transitivo e intransitivo v. La Fauci
(1988: 20 sg.) e relativi rinvii.
4 In uno stadio precedente della sua elaborazione teorica chiamata Gemmazione Predicativa
(cfr. La Fauci 2000).
SUL LIMITE 199

timare Argomenti: un elemento con una Carica Argomentale che è titolare della fun-
zione di Predicato nel primo Strato del PN. Uno Strato il cui P ha Carica Argomentale
è denominato (Strato argomentalmente) Carico. Come previsto dalla teoria
dell’Unione Predicativa, ciascun elemento con funzione di Predicato è titolare poi di
un Settore Predicativo, composto di uno o più strati: si tratta del Settore della struttu-
ra funzionale in cui esso esercita la funzione di Predicato. Il Settore Predicativo il cui
primo Strato è uno Strato Carico è denominato (Settore argomentalmente) Carico.
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Un PN può poi contare uno o più elementi argomentalmente inerti, che si


aggiungono all’elemento con Carica Argomentale. Nei modi previsti dalla teoria
dell’Unione Predicativa, ciascuno di tali elementi è titolare della funzione predi-
cativa in un Settore Predicativo della struttura funzionale. Il Settore Predicativo di
un elemento argomentalmente inerte sarà detto (Settore argomentalmente)
Neutro. Nel primo Strato di un Settore Neutro, la griglia argomentale è ereditata
tale e quale si determina nell’ultimo Strato del Settore Predicativo precedente.
Precisamente, nel primo Strato di un Settore Neutro:

– non sono eliminati Argomenti presenti nello Strato precedente;


– non sono legittimati nuovi Argomenti;
– non sono rilegittimati Argomenti nella funzione posseduta nello
Strato precedente;
– gli Argomenti conservano la funzione grammaticale dello Strato
precedente.

Ecco come sono rappresentate alcune proposizioni italiane in Unione Predi-


cativa, il quadro di Davies & Rosen (1988) e Rosen (1990), e come sono invece
rappresentate alla luce di Fissione Predicativa, distinguendo tra Settori Carichi e
Settori Neutri.
Cominciamo con un esempio semplice5:

(1) Le vele fileggiano

Per Unione Predicativa, si tratta di una proposizione monostratale e con un


solo Settore Predicativo, quello della forma verbale fileggiano. I diversi caratteri
funzionali della macrofunzione di Predicato manifestati in tale forma verbale non
sono formalmente distinti:

5 A Umberto La Commare la graditudine dell’autore, per un’amicizia silenziosa come una


navigazione a vela.
200 NUNZIO LA FAUCI

Per Fissione Predicativa, invece, si tratta di una proposizione (almeno) bistra-


tale, con un Nucleo Predicativo composto di due elementi con funzione predica-
tiva e quindi di due Settori Predicativi funzionalmente distinti, dal punto di vista
sintattico: un elemento con Carica Argomentale, titolare d’un Settore Carico in
cui si legittima l’Argomento le vele, e un elemento argomentalmente inerte, tito-
lare di un Settore Neutro, in cui si provvede morfosintatticamente all’interazione
col Soggetto finale. L’insieme è manifestato superficialmente come forma verba-
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le finita. Convenzionalmente, nella rappresentazione l’elemento con Carica


Argomentale compare sotto un’astratta forma di citazione (che è l’infinito nel
caso di un verbo), in maiuscoletto nel Settore Carico. Allo scopo di avvicinare la
rappresentazione funzionale alla sua idiosincratica manifestazione italiana, l’ele-
mento senza Carica Argomentale è indicato con Afx quando si manifesta sotto una
qualsiasi forma di affisso ed è indicato con Aux quando si manifesta sotto una
qualsiasi forma di ausiliare6:

Veniamo adesso ad un esempio più complesso:

(2) Le vele hanno fileggiato

Per Unione Predicativa, la struttura di (2) è bistratale e con due Settori


Predicativi, quello del participio passato e quello dell’ausiliare. Si tratta di una
prima distinzione funzionale dei diversi caratteri della macrofunzione predicativa.
La natura analitica di tale manifestazione superficiale ha guidato verso la distin-
zione di sezioni diverse del complesso predicativo:

Per Fissione Predicativa, la struttura è più articolata e conta tre Strati, con un
Nucleo Predicativo composto di tre Settori Predicativi funzionalmente distinti. Il
Settore Carico è il medesimo che si incontra in (1), ma (1) ha un solo Settore
Neutro, (2) ha due Settori Neutri, il primo (come l’unico di (1)) il cui titolare ha

6 Le questioni di stretta natura morfologica saranno tenute fuori dalla presente discussione,
per lo sviluppo della quale non avrebbero grande importanza, al momento.
SUL LIMITE 201

manifestazione sintetica, il secondo il cui titolare ha manifestazione analitica.


L’insieme di Settore Carico e Settori Neutri è manifestato come una forma peri-
frastica composta da participio passato e ausiliare:
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Concludiamo quest’esemplificazione con un’Unione causativa:

(3) I marinai lasciano fileggiare le vele

Per Unione Predicativa, la struttura di (3) è bistratale e con due Settori


Predicativi, quello del P interno all’infinito e quello del P causativo. A parte le
diverse proprietà di legittimazione, si tratta dello stesso numero di Strati e di
Settori Predicativi di (2):

Per Fissione Predicativa, in (3) la presenza di due elementi con Carica


Argomentale determina l’esistenza di due Nuclei Predicativi, uniti in un com-
plesso predicativo, come previsto da Davies & Rosen (1988). Il primo Nucleo
Predicativo, interno, ha un P responsabile della legittimazione di le vele, è com-
posto solo da un Settore Carico monostratale ed è manifestato dall’infinito. Il
secondo Nucleo Predicativo, esterno, ha un P responsabile della legittimazione
di i marinai, è composto dal relativo Settore Carico e dal Settore Neutro che
provvede all’interazione con il Soggetto finale ed è manifestato come forma fini-
ta:

Unione Predicativa caratterizza funzionalmente forme come fileggiano,


hanno fileggiato e lasciano fileggiare in modo abbastanza sofisticato ma ancora
troppo dipendente dalle idiosincrasie della loro fenomenicità. Fissione Predicativa
202 NUNZIO LA FAUCI

si allontana da tali idiosincrasie e apre forme predicative prima trattate come fun-
zionalmente atomiche. Fissione Predicativa coglie e distingue in questo modo la
duplice funzione sintattica compressa in quelle forme: la proprietà nucleare di legit-
timare gli Argomenti della proposizione e la proprietà di manifestare interazioni sin-
tattiche di varia natura, ma soprattutto l’interazione col Soggetto finale della propo-
sizione. Più specificamente, per Fissione Predicativa forme come fileggiano, hanno
fileggiato e lasciano fileggiare non hanno autonoma e intrinseca realtà linguistica,
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dal punto di vista sintattico, e esistono solo in quanto manifestazioni di modulazio-


ni diverse di proprietà sintattico-funzionali della struttura proposizionale.

Proprietà sintattico-funzionali diverse possono trovarsi ad essere manifestate


da forme eguali e forme diverse possono trovarsi a manifestare la medesima pro-
prietà sintattico-funzionale, come per lo studio della grammatica non solo è pro-
vato ma dovrebbe essere universalmente noto almeno a partire dalla presentazio-
ne delle interazioni funzionali tra funzioni e forme che Edward Sapir scrisse
ottanta anni fa, commentandola ad un certo momento così:

Perhaps the most striking result of the analysis is a renewed realization


of the curious lack of accord in our language between function and form.
(Sapir 1921: 89).

2. IL LIMITE

Si osservi adesso il seguente paradigma sperimentale, che riguarda alcune


delle forme sotto le quali si presenta la macrofunzione predicativa in italiano:

(4) La nave scompare


(5) La nave è scomparsa
(6) *La nave è stata scomparsa
(7) Le vele fileggiano
(8) Le vele stanno fileggiando
(9) *Le vele sono state fileggiando
(10) Il comandante fronteggia l’ammutinamento
(11) Il comandante ha fronteggiato l’ammutinamento
(12) *Il comandante ha avuto fronteggiato l’ammutinamento
(13) Ugo è lì / vile / un clandestino
(14) Ugo è stato lì / vile / un clandestino
(15) *Ugo è stato stato lì / vile / un clandestino

La Fauci (2000) ha attribuito il regolare risultato di questo esperimento a una


restrizione sul livello di complessità dei Nuclei Predicativi. Con Fissione
Predicativa tale restrizione ha una determinazione quantitativa e qualitativa.
SUL LIMITE 203

I dati italiani pertinenti possono essere tabulati come segue:


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Tavola 2

Il modello di ottenimento e saturazione dell’adeguato livello di complessità


della morfosintassi predicativa è costante e il suo spettro di oscillazione va dal
livello 1 al livello 2.
A loro volta, gli schemi in cui tale modello si realizza sono due in italiano. Lo
schema A procede per ausiliazione ai due livelli. Lo schema B procede per affis-
sazione al primo livello, per ausiliazione al secondo:

Tavola 3

Il primo livello di stratificazione della morfosintassi predicativa in italiano


presenta un’opposizione formale tra uno schema analitico e uno schema non ana-
litico. Tale opposizione si neutralizza invece al secondo livello, ove solo una
manifestazione analitica è possibile.
Data per costante la presenza del Nucleo Predicativo di un Settore Carico
(quello dell’elemento predicativo responsabile della legittimazione degli Argo-
menti), questo significa che non sono possibili PN che contano più di due Settori
Neutri. In altre parole, una volta stratificato l’ultimo Settore Carico di una strut-
tura, l’interazione con il Soggetto finale è assolta ricorrendo al massimo a due ele-
menti predicativi argomentalmente inerti.
Il modello proposto consente di cogliere questa osservazione e la relativa
generalizzazione in termini paradigmatici come sintagmatici, secondo l’insegna-
mento di Ferdinand de Saussure.
Come è ovvio che si faccia, si tratta di estendere dalle forme alle funzioni la
doppia e congiunta considerazione saussuriana. Si esplicita in questo modo ciò
che è implicito (ma non per questo meno chiaro) negli esempi del maestro gine-
vrino ai suoi scolari7.

7 “Ainsi il ne suffit pas de dire, en se plaçant à un point de vue positif, qu’on prend mar-
chons! parce qu’il signifie ce qu’on veut exprimer. En réalité l’idée appelle, non une forme, mais
204 NUNZIO LA FAUCI

Così, da un lato, si osserva che non di dànno più di due commutazioni fun-
zionali della funzione predicativa del medesimo Nucleo Predicativo. Dall’altro, si
osserva che non si dànno più di due combinazioni funzionali di elementi predica-
tivi del medesimo Nucleo Predicativo.
In modo più formale: paradigmaticamente, la prospezione stratigrafica della
macrofunzione di Predicato a partire da qualsiasi Settore Neutro di un Nucleo
Predicativo incontra un Settore Carico a non più di un Settore Neutro di profon-
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dità. Sintagmaticamente, il Settore Predicativo dell’elemento che si combina con


due predicati fossili è l’ultimo di quel Nucleo Predicativo.
La tabella che segue riassume quanto detto. In essa, la prima colonna da sini-
stra, paradigmaticamente, e la riga più in alto, sintagmaticamente, oltrepassano il
limite:

Tavola 4

Questa limitazione risponde per altro ad un elementare ed intuitivo criterio di


recuperabilità e di calcolabilità del valore funzionale delle forme. Oltre un certo grado
di fossilizzazione e oltre un certo grado di combinazione non è possibile andare.
Sotto questa luce si individua la differenza funzionale e sintattica tra i due
passivi italiani con essere e con venire. Questa differenza non è stata mai prima
determinata formalmente8.

tout un système latent, grâce auquel on obtient les oppositions nécessaires à la constitution du
signe” (Saussure 1916: 185).
8 La formalizzazione (si spera non inutilmente) rende implicitamente problematico un po’
di quel che nelle parole che seguono suona come esplicitamente misterioso:
Alla formazione di frasi col verbo al passivo si oppongono, in italiano, inaccettabi-
lità sia specifiche della nostra lingua sia comuni a più lingue: di queste inaccettabi-
lità mi occuperò in queste pagine che tendono, da un lato, a descrivere le caratteri-
stiche di frasi che, al passivo, sono rispettivamente accettabili ed inaccettabili, dal-
l’altro a far sì che la non-accettabilità… sia considerata non tanto una forma di non-
detto quanto di consapevolmente non-dicibile, di scientemente negativo, di qualco-
sa che è escluso per cause non chiare ma che certamente richiedono di essere pre-
cisate, perché se è difficile chiamarle linguistiche soltanto, è forse inesatto (o pre-
maturo) chiamarle logiche: unica cosa certa è che, di qualunque natura siano, impe-
discono il realizzarsi di stringhe linguistiche (Ambrosini 1982: 1).
SUL LIMITE 205

Si tratta dei due passivi che seguono:

(16) Il ponte è pulito dal mozzo


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(17) Il ponte viene pulito dal mozzo

Questa differenza non corrisponde affatto alla distinzione tra il cosiddetto


passivo aggettivale e il cosiddetto passivo verbale e non va confusa con essa. La
distinzione tra passivo aggettivale e passivo verbale è tradizionale negli studi di
sintassi formale almeno a partire da Wasow (1977) e da lì è stata sviluppata con
ulteriori specificazioni semantiche e aspettuali in una vasta letteratura9. Essa si
riflette in italiano nell’opposizione (semilatente, per le cattive condizioni di osser-
vabilità, comuni per altro anche a lingue come il francese o l’inglese) tra (16) e
l’esempio che segue:

(18) Il ponte non è pulito (*dal mozzo), è immacolato

In questo contrasto si individuano due stratificazioni sintattiche diverse per le pro-


prietà argomentali coinvolte nell’interazione. Solo una di esse, quella di (16), è un pas-
sivo, se si tiene presente quanto definito con l’aiuto della tav. 1. L’altra, quella di (18),

9 Ancora di recente, v. Anagnostopoulou (2001) e i riferimenti lì ricordati.


206 NUNZIO LA FAUCI

comporta un semplice avanzamento inaccusativo, che si stratifica sopra una stativiz-


zazione, presumibilmente infrasintattica o, come preferiscono dire Dubinsky &
Simango (1996), di mapping lessicale. I due studiosi lo hanno formalmente dimostra-
to sulla base di dati da una lingua bantu, il chichewa. Rispetto a quelli italiani, tali dati
offrono favorevoli condizioni formali di osservabilità dell’opposizione tra stativo e
passivo, perché essa vi è manifestata dal ricorrere di affissi differenti10:
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(19) *Mbale zi-na-tsuk-ika ndi Naphiri


piatti ACCORDO-PASSATO-lavare-STATIVO da Naphiri
‘I piatti erano lavati da Naphiri’
(20) Mbale zi-na-tsuk-idwa (ndi Naphiri)
piatti ACCORDO-PASSATO-lavare-PASSIVO (da Naphiri)
‘I piatti erano lavati (da Naphiri)’

Lo stesso si può dire (per fare un esempio romanzo) dei seguenti dati spa-
gnoli, dove non sono affissi, ma ausiliari diversi a manifestare l’opposizione11:

(21) La ciudad estaba arruinada (*por el enemigo)


(22) La ciudad fue arruinada por el enemigo

Né in (16) né in (17) l’interazione sintattica è un avanzamento inaccusativo. Si


tratta al contrario di due canonici esempi di costrutti passivi. Differenti in che modo?
Se si sottopongono i dati a prove sintattiche formali, si osserva che la forma
finita che accompagna il participio passato è in ambedue i casi un ausiliare, cioè,
formalmente, un elemento predicativo che eredita il suo Soggetto dal Settore

10 Dati e glosse sono ripresi da Dubinsky & Simango (1996: 751) e qui adattati.
11 Classici esempi da Sanz (2000: 17), ma Varela (1992: 225) segnala opportunamente che
in spagnolo “the copula test will not function in the same way with all verbs: La casa es con-
struida por los proprios dueños del terreno… La casa está construida por obreros cualificados”.
Tra i tratti rivelatori dello stato infantile (o di rimbambimento) dell’odierna linguistica, c’è l’in-
genua credenza di molti (in positivo, come fede, o negativo, come ragione di condanna, qui poco
importa) che, una volta formulata una “regola” (in realtà: un’esperienza), essa debba ipso facto
risultare verificabile sotto ogni condizione d’osservabilità. Non è necessario chiamare in causa
complessi dibattiti epistemologici. La stessa banale osservazione a occhio nudo che fonda la
conoscenza dell’esistenza della luna basta per rendersi conto dell’interazione concettuale che
necessita un’esperienza: la luna ora si vede, ora si vede in parte e sempre variabilmente, ora non
si vede per nulla. Che concluderne? È un miraggio o si cela? E quali sono le condizioni del suo
celamento, cioè le sue condizioni di osservabilità? Sono le medesime durante il giorno e duran-
te la notte? Durante una notte con cielo libero e durante una notte con cielo coperto? E così via.
Senza una precisa determinazione delle condizioni di osservabilità dei fenomeni che manifesta-
no l’esistente e senza la precisa consapevolezza che né i fenomeni né le condizioni di osserva-
bilità si identificano con l’esistente ogni avanzamento della conoscenza è impossibile. Come i
nichilisti d’ogni specie desiderano (per altro, comprensibilmente).
SUL LIMITE 207

Predicativo precedente. Lo dice la prova del costrutto participiale assoluto (cfr.


Rosen 1997):

(23) (*Stato) pulito il ponte dal mozzo, la goletta era un incanto


(24) (*Venuto) pulito il ponte dal mozzo, la goletta era un incanto
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Ma il fatto che il primo stratifica la manifestazione della funzione predicati-


va secondo lo schema A dove il secondo la stratifica secondo lo schema B dice di
una differenza sintattica e funzionale che il modello di Fissione Predicativa con-
sente di rappresentare formalmente, come si vede nelle analisi di (16) e (17). Nel
costrutto con essere il passivo ha come scenario il Settore Carico. Nel costrutto
con venire il passivo ha come scenario un Settore Neutro. L’osservazione con-
giunta delle proprietà formali esibite nel confronto tra (23)-(24) e (25)-(26) indi-
rizza in questa direzione12. (25) è al di qua, (26) è al di là del limite:

(25) Il ponte è stato pulito dal mozzo

(26) *Il ponte è venuto pulito dal mozzo

La diversa natura sintattica dei due costrutti si riflette allora sulla differenza
di ausiliari e sullo schema di manifestazione della morfosintassi predicativa.
Nella rappresentazione formalizzata, è allora plausibile correlare esplorativa-
mente distinzione tra schemi di sviluppo della manifestazione della funzione pre-

12 Con un margine di ambiguità, su cui non si insisterà in questa sede.


208 NUNZIO LA FAUCI

dicativa in italiano e diversa natura funzionale del Settore Carico. Con un Settore
Carico multistratale la manifestazione della morfosintassi predicativa si sviluppa
secondo lo schema A. Con un Settore Carico monostratale essa si sviluppa secon-
do lo schema B. Si tratta ancora una volta d’una correlazione formale che rende
sintatticamente problematico quanto finora è categorialmente misterioso (che
cosa è infatti un verbo? che cosa è un non-verbo?). Si aprono ulteriori campi di
ricerca.
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Si noti che la cattiva formazione di (26) e il contrasto che ne deriva con (25)
sono stati attribuiti tradizionalmente ad una presunta imperfetta grammaticalizza-
zione di venire come ausiliare: così già Ambrosini (1982), quindi Giacalone
Ramat (1998).
Ma (23) e (24) mostrano che essere e venire rispondono allo stesso modo alla
fondamentale prova formale che determina il loro statuto sintattico di ausiliari. E
che la questione non riguardi per ontologia lessicale gli ausiliari, ma le relazioni
sintattiche e funzionali che gli elementi intrattengono nella proposizione è dimo-
strato dagli esempi (4)-(15). Si osservi soprattutto che l’ausiliare essere si svilup-
pa secondo schemi diversi in funzione del contesto sintattico in cui ricorre. È fuor
di dubbio (e universalmente riconosciuta), d’altra parte, la natura di ausiliari com-
piutamente grammaticalizzati (qualsiasi significato si attribuisca a tale qualifica-
zione) di avere, essere e stare, anche quando (anzi, soprattutto quando) essi non
ricorrono su un doppio livello di ausiliazione. Solo venire si troverebbe così a
ricevere un trattamento particolare, fondato su suoi presunti caratteri lessicali.
In realtà, “tout repose sur des rapports” (Saussure 1916: 176) e non su carat-
teri ontologici. Come i profani, anche gli specialisti sembrano resistere, quasi
impauriti, a questa lampante constatazione, che assorbì per intero la mente di
Ferdinand de Saussure. Nel linguaggio tutto è sintassi, cioè operazione combina-
toria. Oggetti, categorie, parole, forme, significati non preesistono alle operazio-
ni combinatorie. Le operazioni combinatorie e le loro funzioni creano gli oggetti,
le categorie, le parole, le forme, i significati. Questa creazione proietta forme nel
mondo sensibile delle apparenze. Determinare le funzioni combinatorie è il solo
modo di capire qualcosa dei fenomeni, schivando i rompicapi dell’ipostatizzazio-
ne dell’apparenza (per quel la finitezza umana concede).
Le forme perifrastiche di tutti questi esempi (che siano passivi o non passivi),
qualsiasi ausiliare essi comportino, rispettano allora rigorosamente i limiti fun-
zionali di complessità di manifestazione della macrofunzione predicativa, secon-
do i due modi di realizzazione dettati dagli schemi A e B. L’italiano dispone sem-
plicemente di due passivi, la cui differenza sintattica e funzionale ha per una volta
chiara e addirittura ridondante manifestazione e (non sempre) trasparenti correla-

13 Sulla modularizzazione della nozione sintattica di costrutto passivo consentita da


Fissione Predicativa, e, in generale, su altre questioni correlate ai costrutti che comportano un
participio passato v. in particolare La Fauci (2000: 111-134).
SUL LIMITE 209

ti nell’interpretazione semantica13.
Con altre e più profonde parole,

The concreteness of experience is infinite, the resources of the richest


language are strictly limited. It must perforce throw countless concepts
under the rubric of certain basic ones, using other concrete or semi-
concrete ideas as functional mediators. (Sapir 1921: 84).
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È quanto si voleva ricordare con queste pagine.


210 NUNZIO LA FAUCI

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EMANUELA CRESTI
(Lablita – Università degli Studi di Firenze)

La categoria della persona: analisi delle forme verbali di un campione


di parlato
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1. PREMESSE

Fin dalle origini della riflessione linguistica la classe lessicale (parte del
discorso) del verbo è stata identificata rispetto al nome, che può essere conside-
rata la classe lessicale “neutra” corrispondente all’atto di dare nome alle cose, per
caratteri sia semantici che morfologici di tempo, che non sono propri del nome,
fondato morfologicamente sulla categoria casuale (Aristotele, De interpretatio-
ne), e in lingue che non la contemplino, su genere e numero (quantificazione). La
tradizione grammaticale ha confermato tale concezione definitoria aggiungendo a
quella di tempo le categorie di diatesi, modo e aspetto, ed essa è continuata in
sostanza fino ai più recenti sviluppi della grammatica generativa che nella sua ver-
sione minimalista colloca le categorie funzionali del tempo, dell’aspetto e del
modo (impropriamente indicato a volte come forza illocutiva)1 come nodi tra i più
alti della clausola (Chomsky 1995, Rizzi 1997).
La persona al contrario non è stata considerata una categoria fondamentale;
al di là di descrizioni convenzionali, come se ne può trovare in tutte le grammati-
che (Serianni 1988; Beretta 1993), manca una piena valutazione teorica di essa e
un tentativo di trovarne una spiegazione. Opere generali come la Grande gram-
matica italiana di consultazione (Renzi et alii 1988-1995), o il più importante
lavoro per lo studio semantico del verbo italiano (Bertinetto 1986), non dedicano
alcuno studio specifico all’argomento. Lo stesso vale per esempio per la ricca ed
aggiornata Gramatica descriptiva de la lengua española (1999). La maggior parte
della letteratura s’interessa della persona verbale soprattutto in lavori dedicati ai
pronomi personali (Brunet 1985 e 1987; Palermo 1997). Tra le poche trattazioni
di carattere più generale Lyons (1977), Simone (1995). Naturalmente è possibile
trovare in un’opera come The philosophy of grammar (Jespersen 1924) un accen-
no geniale nelle conclusioni – dove vengono indicati diversi casi di conflitto tra
categorie, come quella tra genere e caso per esempio –, circa il fatto che la perso-
na possa essere più forte del modo (la seconda persona singolare sembra essere
stata più forte della distinzione tra indicativo e congiuntivo).

1 Per una distinzione tra illocuzione e modalità, si veda Cresti e Firenzuoli (1999) e Cresti
(2002 e 2003).
212 EMANUELA CRESTI

La raccolta di grandi corpora linguistici scritti e parlati induce a riprendere in


considerazione la categoria, anche se un’opera recente e assai significativa come
la Longman Grammar (Biber et alii 1999), che può essere considerata il più
ampio e completo esempio di grammatica corpus based, non dedica alla persona
verbale un capitolo o un paragrafo a parte, ma tratta delle diverse persone all’in-
terno dei pronomi personali, come del resto è proprio della tradizione delle gram-
matiche inglesi (Quirk et alii 1985).
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Dall’analisi dei nostri corpora di parlato (spontaneo /media, adulto /infantile;


Moneglia 2000) emergono dei dati interessanti: da un lato la riduzione drastica dei
modi e tempi verbali2 dall’altro un certo mantenimento della flessione per perso-
na. La riduzione del tempo, ampiamente documentata per l’italiano parlato (Vo-
ghera 1992, Firenzuoli 2000, 2000a), appare in qualche modo neutralizzata tra-
mite il presente che va a coprire diversi valori temporali, ma anche modali (pas-
sato, abitudine, nomicità, futuro, epistemicità). I dati che ha raccolto Firenzuoli
(2000a) su campioni di parlato spontaneo adulto, che in parte si discostano da
quelli di Voghera, sono i seguenti:

Indicativo 82,3%
Presente indicativo 69%

Essi confermano la tendenza generale alla riduzione del paradigma verbale.


Si potrebbe pensare, perciò, che tale riduzione riguardi anche il paradigma delle
persone: in effetti il sottoinsieme plurale della categoria è molto meno usato di
quello singolare, e in particolare la seconda persona plurale ha impiego ridottissi-
mo, e del resto la terza persona singolare è di gran lunga la più frequente. Ma il
quadro cambia se le diverse persone vengono considerate insieme sia nella loro
forma singolare che plurale, e se si tiene conto che insieme con la seconda perso-
na devono essere contate tutte le terze persone di cortesia, che però valgono per
essa. In questo modo, ancora da una ricerca di Firenzuoli (1997), risulta che, per
quanto riguarda la percentuale di occorrenza delle diverse persone, circa il 60%
spetterebbe alla terza persona, il 22% alla prima e il 18% alla seconda. È eviden-
te che lo scarto di occorrenza entro la categoria di persona risulta così molto più
variegato di quello concernente la categoria del tempo e quella del modo, nelle
quali l’indicativo e il presente offrono delle predominanze incontrastate. Inoltre la
distinzione per persona è un tratto forte, prova ne sia la sua evidente conservazio-
ne nella lingua standard tramite la morfologia legata e spesso anche tramite pro-
nomi clitici nelle varietà e nei dialetti. Del resto se i modi verbali vanno incontro

2 Studi su corpus di scritto e di parlato mostrano come di certi verbi vengano usate solo
poche forme; tra quelle più frequenti: la terza persona singolare del presente (bisogna), l’infini-
to (mixare), il participio passato (nato).
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 213

ad un generale destino di riduzione all’indicativo e quasi scomparsa, non si può


dire altrettanto della modalità, perché con essa non si voglia intendere altro che
non un puro operatore logico-modale ma l’atteggiamento del parlante sulla pro-
pria locuzione (Bally 1950). Essa allora risulta ampiamente espresso, tramite il
lessico verbale e non, e appunto anche tramite l’uso della persona verbale.
Possiamo solo accennare che dalla persona risulta il punto di vista dell’evento
che in questo modo viene riferito al parlante (1°persona), o all’interlocutore (2°
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persona), o ad un referente diverso da entrambi, costituendo così un tratto pri-


mario della modalità. Il valore aletico, o epistemico, o deontico di un’espressio-
ne verbale può variare in maniera significativa al variare della persona (devo par-
tire: ipotesi, opportunità; devi partire: obbligo, necessità; deve partire: probabi-
lità).
Dai sondaggi condotti sempre da Firenzuoli su un corpus di parlato (1997)
appare che la selezione per persona è sistematicamente connessa al valore illocu-
tivo (Austin 1962), cui l’espressione verbale è dedicata (1° pers. espressivi, 2°
pers. direttivi, 3° pers. rappresentativi). Sembra quindi che la categoria della per-
sona costituisca una marca semantica di modalità tanto quanto un indice illocuti-
vo, e come tale sia un’informazione indispensabile e non diversamente recupera-
bile, là dove l’informazione temporale molte volte può essere recuperata conte-
stualmente.
Mostreremo attraverso l’analisi delle forme verbali di un corpus di parlato
LABLITA (Cresti 2000), che per la sua formazione secondo parametri semiolo-
gici e sociolinguistici costituisce un campione rappresentativo della variazione
diafasica e diastratica, che la flessione per persona è un dato fondamentale per la
interpretazione dell’uso verbale3.

2. CRITERI DI ANALISI DELLA CATEGORIA DI PERSONA

Prima di passare all’analisi del corpus sono necessarie però alcune premesse
teoriche e metodologiche.

3 L’ipotesi che la flessione personale sia una categoria primaria di identificazione della
classe verbale, inoltre, trova un forte riscontro nell’acquisizione. Una ricerca (Moneglia e
Cresti 2001) condotta in maniera sistematica su tre soggetti da 19 a 33 mesi, e accompagnata
da osservazioni sull’intero corpus infantile LABLITA (circa 100 ore), mostra un profilo comu-
ne nella formazione del paradigma dei morfemi di persona (Fletcher 1981, Chiat 1988, Dressler
et alii 2000), pur in soggetti scelti per le loro forti differenze di strategia di acquisizione lin-
guistica. Il paradigma delle persone da un lato viene formato in una fase precedente alle prime
differenziazioni temporali, dall’altro appare in forte connessione con tratti di modalità e con
l’acquisizione di illocuzioni specifiche che sembrano essere all’origine della differenziazione
di persona.
214 EMANUELA CRESTI

2.1. Praticamente da tutte le trattazioni di linguistica dei corpora emerge una


convinzione, ma forse sarebbe meglio dire una constatazione: che la frase (phra-
se, fr.; sentence, in.; satz, td.; predlozenie, rs.) non può essere considerata l’unità
di riferimento della lingua parlata (superiore per rango alla parola) 4. L’asserzione
appare molto significativa dal momento che risulta ripetuta per tante lingue e da
diversi approcci teorici. Quale si deve pensare allora che sia l’unità di riferimen-
to del parlato?
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Possiamo rimandare a numerosi nostri lavori sull’argomento e in particolare


a Cresti (2000), sulla base dei quali proponiamo di considerare l’enunciato
(énoncé, fr.; utterance, in.) come unità di riferimento del parlato. Enunciato che
definiamo come ogni espressione interpretabile pragmaticamente perché espri-
mente un’illocuzione5. Ci conforta constatare che la nostra proposta, già avanza-
ta fino dal 1985 6, abbia trovato punti di contatto importanti7, tra i quali anche le
tesi svolte, in maniera del tutto indipendente, nella Longman Grammar 8. In par-
ticolare a conclusione di tale grammatica viene introdotta una definizione di utte-
rance che è data proprio in termini di espressione dell’illocuzione e non è dipen-
dente da condizioni sintattiche9. D’altro canto bisogna notare che sempre nella
stessa opera, dopo aver messo in dubbio che la frase, sentence, possa essere l’u-

4 Rimandiamo per una panoramica ed una discussione articolata della diverse proposte a
Quirk et alii (1985) e Miller e Weinert (1998).
5 Nella nostra proposta le caratteristiche linguistiche dell’enunciato sono da un lato di tipo
semantico, legate ad una condizione minima di significanza (almeno un’interiezione o un’e-
spressione lessicale piena), e dall’altro ad un impiego “attuale” di esso che implica una realiz-
zazione intonativa dell’espressione secondo profili convenzionali di valore illocutivo. Si veda
Cresti 2000.
6 Si veda Cresti (1987). La nostra proposta è rimasta per lungo tempo isolata, ma recente-
mente ha cominciato a incontrare consensi e quello che è più importante consonanze teoriche:
come quella con l’analisi macrosintattica svolta da Blanche-Benveniste e dall’équipe che lavo-
ra presso l’Université de Provence, con la quale sono in corso scambi scientifici fino dal 1996.
7 Fino dagli anni ’70 presso il Département de linguistique française dell’Université de
Provence un gruppo di ricercatori guidato da Claire Blanche-Benveniste (GARS) ha iniziato a
raccogliere testi di parlato, arrivando a formare il più ampio corpus di parlato francese, e a stu-
diarne in particolare gli aspetti sintattici fondati sulla reggenza verbale, con un approccio noto
come “teoria pronominale”. Un livello superiore a quello della reggenza, detto macrosintattico,
trova il suo punto centrale nel nucleo dell’enunciato, il noyau, definito per caratteri di modalità
molto vicini alla forza illocutiva. Si veda Blanche-Benveniste (1991) e i contributi della rivista
Récherches sur le français parlé.
8 Si veda Biber et alii (1999) il cui corpus di riferimento comprende sia la varietà diafasi-
ca con registri, così sono chiamati, di conversazioni, di scrittura letteraria, di saggi accademici e
lingua dei mass-media, sia la varietà diatopica con campionamenti di inglese americano e bri-
tannico.
9 Naturalmente anche se fa piacere vedere confermata una nostra ipotesi, sorprende che né
la definizione di utterance in termini illocutivi sia accompagnata da alcuna spiegazione, come
invece appare necessario, né che di tale unità venga fatta alcuna applicazione nel corso dell’a-
nalisi del corpus parlato di inglese-americano.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 215

nità sintattica di riferimento del parlato, gli autori indicano come unità di riferi-
mento una cosiddetta C-unit che comprenderebbe sia clausal che non-clausal
units, ovvero espressioni che abbiano sia struttura sintattica di clausola sia che
non ne abbiano alcuna. Evidentemente dobbiamo interpretare tale assunzione, che
appare particolarmente debole da un punto di vista teorico, come una conseguen-
za obbligata della verifica del corpus parlato, sul quale è costituita la grammatica,
che assomma a circa 10 milioni di parole di parlato, oltre a quasi 30 milioni di
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parole dello scritto. Il riscontro che circa il 38% dei testi di parlato non presenta
in effetti struttura di clausola10 – e del resto anche le verifiche che abbiamo potu-
to condurre sull’italiano e alcuni primi riscontri sul francese e sullo spagnolo con-
fermano sostanzialmente tale percentuale – costringono a ipotesi come la prece-
dente. Vorremmo notare tuttavia che un’entità come la C-unit, nel momento che
comprenda sia espressioni con struttura di clausola11 sia espressioni che ne sono
prive (e variamente indicate, fra l’altro come frammenti), non può essere altro che
un’etichetta priva di alcuna consistenza e che non sorte altro effetto che quello di
evidenziare la mancanza di un’unità di riferimento del parlato, congrua. Del resto
però chi, come da più parti intrapreso, proponesse la clausola come unità di rife-
rimento, cercando un’unità valida sia per lo scritto che per il parlato, e un’unità
che mantenga una natura sintattica, al di là di una serie di questioni che anche tale
entità lascia aperte, deve escludere dal dominio d’indagine più di un terzo della
produzione parlata che non presenta tale struttura.
Tornando quindi alla nostra proposta dell’enunciato (énoncé, utterance), vor-
remmo far notare che proprio la sua natura pragmatica di corrispettivo linguistico
di uno speech act e l’impossibilità di darne un equivalente sintattico, lungi da
costituire un deficit o un’inadeguatezza, fa di essa l’entità di riferimento adatta a
riempire linguisticamente ciò che nella Longman Grammar è stato identificato
come C-unit, con la quale si è cercato invano di ricondurre ad una qualche rego-
larità sintattica proprio l’enunciato.
La nostra impressione è che a seguito delle evidenze empiriche risultanti dal-
l’osservazione dei corpora sia stata ormai individuata la natura propria della lin-
gua parlata (natura pragmatica) e il dominio delle sue unità componenti (l’enun-
ciato come corrispettivo dell’atto linguistico), ma che si cerchi di continuare a

10 Il dato statistico è confermato dalle ricerche condotte sui nostri corpora di parlato spon-
taneo italiano (LABLITA). In alcuni testi di tipo strettamente familiare esso può crescere anche
al 50%.
11 Del resto nella Longman Grammar la clausola è definita come unità indipendente sulla
base del suo valore tipologico di speech: ovvero se è una clausola dichiarativa, iussiva, espres-
siva, interrogativa. Evidentemente continua a sussistere la confusione tra tipologia di frase, che
è solo la grammaticalizzazione locutiva dell’illocuzione, e il compimento dell’illocuzione che è
ciò che assicura nella realtà l’indipendenza di un’unità di speech. Rimandiamo per la distinzio-
ne tra tipologia di frase e forza illocutiva alla più generale distinzione tra modalità, con tutte le
sue caratteristiche morfo-sintattiche e lessicali, e illocuzione. Si veda Cresti (2002 e 2003).
216 EMANUELA CRESTI

definire quest’ultimo secondo criteri e regole di un diverso dominio (sintassi) 12.


Il parlato, infatti, e in particolare quando con esso s’intenda lo spontaneo, può
essere descritto in termini di caratteri dialogici e di programmazione simultanea
all’esecuzione, e in ultima istanza però deve essere identificato con un interagire
e un fare a fondamento affettivo, che, anche se non la esclude, non necessita di
configurazionalità sintattica per realizzarsi. I requisiti indispensabili per la verba-
lizzazione si riducono ad un contenuto semantico minimo (la parola semantica,
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come espressione che veicoli un’immagine) e una forma sonora con movimento
(l’intonazione che veicoli un affetto). Quindi l’unità di riferimento del parlato è
un’unità la cui salienza è pragmatica, ed essa non può avere definizione sintatti-
ca, ovvero essere “tradotta” in configurazione sintattica13, perché gli affetti che
fondano e attuano la parola non hanno corrispondenza sintattica, mentre hanno un
necessario segnale nell’intonazione14.

2.2. La mancanza di un’unità di riferimento non è un problema di poco conto


per un tipo di analisi come quello proposto dalla linguistica dei corpora, che deve
considerare il valore statistico, sì, delle diverse entrate lessicali, forme e lemmi
che siano, e che viene ormai agevolmente calcolato con software (in maniera
automatica) rispetto al numero delle entrate del corpus, ma che evidentemente
non può arrestare la ricerca a questo unico dato15. Nel momento che si voglia
valutare il peso di fenomeni morfo-sintattici e sintattici, risulta evidente che essi
non possono essere rapportati al numero delle parole del corpus, ma ad unità di
rango superiore rispetto alle quali essi siano congrui. L’impasse teorico è così rile-
vante che la Longman grammar non presenta vere frequenze dei fenomeni morfo-
sintattici, per altro indicati con grande ricchezza ed egregiamente presentati. In
essa è possibile visionare attraverso un ingegnoso ed efficace sistema di rappre-
sentazione grafica “l’addensamento” di un fenomeno rispetto ad uno “sfondo”,

12 Come avere scoperto l’America e continuare a chiamarla India o Cipango.


13 Certo poi è necessario studiare tutte le concrete e più diffuse configurazioni nelle quali
anche il parlato più spontaneo si realizza: per esempio dai nostri dati risulta che più del 60% dei
nuclei necessari degli enunciati, da noi chiamati comment, è costituito da sintagmi verbali con
l’esplicazione dei loro argomenti nominali e preposizionali o frastici. Rilevanti le costruzioni
esistenziali, di espressione locativa, gli usi cristallizzati delle scisse per esprimere misurazioni
di tempo, ecc.. Mentre tra quelle espressioni che non sono clausole e che costituiscono più di un
terzo delle produzioni prevalgono gruppi nominali e interiezioni, seguiti da formule, gruppi
aggettivali, da non molti gruppi preposizionali ed avverbi. La presenza di vere e proprie frasi si
riduce a percentuali bassissime. Quindi l’indagine sintattica si fa, ma non è la sintassi a defini-
re l’enunciato.
14 L’ipotesi della determinazione dell’intonazione e della “voce” da parte degli affetti è for-
temente sostenuto da importanti studi sulle produzioni dei neonati (D’Odorico e Franco 1991,
Boysson-Bardies 1999, Jusczyk 1997).
15 Si veda Rossini –Favretti (2000) e in particolare entro il volume il contributo di Sinclair.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 217

misurato in migliaia di parole o milioni di parole, e la diversa distribuzione del-


l’addensamento del fenomeno in quelli che sono considerati registri di lingua (lin-
gua scritta accademica, di finzione, giornali, parlato conversazionale). Esistono poi
frequenze interne ai diversi fenomeni, relative alle possibili tipologie che questo
può includere: per esempio sul totale delle subordinate oggettive la frequenza di
quelle esplicite e di quelle implicite. Ma mancano dati che manifestino quale sia il
peso di un certo costrutto all’interno del corpus, per esempio, della frase scissa
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rispetto ...a che cosa? rispetto al numero di frasi del corpus di riferimento? rispetto
al numero delle clausole? Noi proponiamo: rispetto al numero degli enunciati, che
in maniera uniforme permettono di analizzare un qualsiasi testo parlato16.

2.3. Anche una indagine sulla categoria di persona, che potrebbe sembrare il
caso tipico da poter essere affrontato in termini di frequenze rispetto al numero
delle entrate, se così condotto, rimane “opaco” e non ci svela dati che invece sem-
brano chiarificatori, se analizzato secondo criteri diversi. Nel nostro lavoro, quin-
di, anche le occorrenze di persona verbale sono state calcolate su campioni di par-
lato, sistematicamente analizzati in enunciati. Dal momento che ogni forma verba-
le è valutata rispetto alla sua appartenenza ad un enunciato, che è caratterizzato dal
compimento di una forza illocutiva, è facile comprendere come confrontando
insieme le due caratteristiche, quella di persona e quella illocutiva, quest’ultima
potrebbe rivelarsi determinante per l’impiego della prima. Per esempio, tutti sanno
che le dichiarazioni, secondo Searle – o illocuzioni rituali secondo noi –, hanno
forme generali al presente e alla prima persona (io ti condanno a tre anni di car-
cere, io mi scuso per il ritardo), i direttivi che implicano richiesta di comporta-
mento azionale, come gli ordini e gli inviti (chiudi la porta!; vieni al cinema?), ten-
denzialmente sono alla seconda persona, i rappresentativi che impegnano il par-
lante sulla verità di un assunto tendono a presentare quest’ultimo in maniera ogget-
tiva alla terza persona (il cane è il fedele amico dell’uomo; Carlo è partito ieri). Di
qui l’idea di un’indagine che verifichi la corrispondenza tra i due aspetti.
Dobbiamo però premettere che non ci possiamo aspettare una associazione
immediata tra la forza illocutiva di un enunciato e l’occorrenza di una certa per-
sona verbale, perché l’enunciato non è un’unità monolitica ma un’unità comples-
sa e più precisamente un pattern informativo. L’enunciato, infatti, può realizzarsi

16 LABLITA coordina il progetto C-ORAL-ROM (IST 2000, 26228) entro il V° Programma


quadro della UE, 2000-2003 che ha permesso la raccolta di un corpus comparabile di parlato delle le
quattro principali lingue romanze (italiano, francese, portoghese, spagnolo). La trascrizione dei cor-
pora è integrata dalla notazione prosodica che demarca gli enunciati nel continuum fonico e le unità
informative interne all’enunciato. Il testo di ogni enunciato è sato allineato con il suo corrispettivo so-
noro, del quale è possibile valutare i principali parametri acustico (spettro, Fo, durata, intensità) in ma-
niera automatica e in tempo reale tramite il Software Wintpitch di Philippe Martin. Questo consente
di “misurare” in maniera automatica ogni testo parlato rispetto al numero degli enunciati, ai valori
medi di lunghezza nel tempo e per numero di parole. Si veda Cresti e Moneglia (2002 e in stampa).
218 EMANUELA CRESTI

in forma semplice, ovvero risultare composto da una sola unità d’informazione,


necessaria e sufficiente (il Comment dedicato al compimento dell’illocuzione),
oppure in forma complessa, sotto forma di pattern informativo composto oltre che
dalla necessaria unità di comment, da altre unità d’informazione di diversa fun-
zionalità informativa (il Topic, campo di applicazione della forza illocutiva;
l’Appendice, integrazione testuale; l’Inciso, commento modale; l’Introduttore
locutivo del discorso diretto riportato; varie unità con funzione di ausilio dialogi-
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co)17. Una forma verbale quindi può occorrere in una qualsiasi unità d’informa-
zione e di conseguenza non sempre può essere connessa direttamente all’espres-
sione della forza illocutiva. È necessario allora affinare l’indagine, e cercare in
maniera più precisa la connessione di ogni forma verbale con l’unità d’informa-
zione, entro la quale essa occorre, più che con l’enunciato nel suo complesso. Il
nostro assunto generale, dunque, è che la messa in atto di espressioni verbali
richieda la persona come categoria o tratto funzionale al compimento dell’illocu-
zione (funzione informativa di Comment), o secondariamente delle altre funzioni
informative, che sono sviluppate in concomitanza con il compimento dell’illocu-
zione.
Bisogna però aggiungere ancora che la corrispondenza tra l’impiego di una
persona e il valore funzionale dell’unità d’informazione in cui compare non può
essere biunivoca. Esistono infatti motivi come:

a) la pluralità delle illocuzioni (ne abbiamo individuate nei corpora


LABLITA circa ottanta);
b) la possibilità che una stessa illocuzione possa essere realizzata da
persone diverse: per esempio le domande, che sono direttivi (com-
portamento linguistico), spesso sono alla terza persona (Chi è parti-
to?; c’è lo sciopero dei treni?), e i rappresentativi possono essere
alla seconda (hai fatto un bel lavoro), le dichiarazioni alla seconda
(scusami);
c) la pluralità delle funzioni informative.

Quindi quello che è possibile verificare sono correlazioni tra la varietà


delle illocuzioni (in particolare delle classi illocutive) e delle funzioni informa-
tive e l’uso delle persone. Correlazioni che possono dare testimonianza di una
tendenza, che appare tuttavia altamente significativa per motivare sia il mante-
nimento complessivo del paradigma della persona sia il diverso peso in essa
delle tre persone.

17 Il pattern informativo è letto da un pattern intonativo tendenzialmente isomorfo, secon-


do il principio che ad una unità d’informazione corrisponde un’unità tonale. Le unità tonali
hanno profili dedicati, diversificati in relazione alle diverse funzioni. Si veda Cresti 2000, Firen-
zuoli 2003, Cresti-Firenzuoli, Firenzuoli-Squartini, Firenzuoli-Tiucci, Cresti-Martin-Moneglia.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 219

2.4. Nell’indagine viene inoltre preso in considerazione la strategia linguistica


dell’unità d’informazione nella quale compare una certa persona verbale. Da inda-
gini condotte sul nostro corpus, ci deriva una conoscenza circa il fatto se la strategia
linguistica di una certa unità d’informazione, sia di tipo verbale o nominale, inten-
dendo con quest’ultimo termine ogni espressione che non sia verbale (nomi, agget-
tivi, avverbi, interiezioni). Per esempio, unità d’informazione come gli Allocutivi
(vocativi) hanno una strategia quasi esclusivamente nominale: sono realizzati con
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nomi propri, nomi di parentela o di ruolo, pronomi personali o aggettivi valutativi.


La strategia linguistica dell’unità d’informazione ci permette di considerare insieme
e di fare raffronti tra quelle unità d’informazione che sono a prevalente strategia ver-
bale o a strategia mista come: Comment, Introduttori locutivi e Incisi, mentre dob-
biamo considerare diversamente le unità a prevalente strategia nominale come:
Topic e Appendici. L’impiego di una forma verbale in una unità d’informazione a
strategia verbale o nominale ha rilievo diverso, e ha frequenze e regolarità diverse.
Diamo di seguito anche alcuni dati generali riguardanti le percentuali delle
diverse unità d’informazione rispetto al numero degli enunciati. Tali percentuali
sono solo indicative perché desunte da varie ricerche svolte presso LABLITA, fina-
lizzate a indagini specifiche e condotte su campioni di ampiezza diversa, anche se
parzialmente coincidenti, e i cui dati quindi non sono agevolmente cumulabili18.
Naturalmente per ogni enunciato deve esistere un’unità di comment, e quindi indi-
pendentemente dalla grandezza del campione in osservazione, sia esso costituito
da 2000 o da 8000 enunciati, il numero dei Comment equivale sempre alla per-
centuale piena. Per le restanti unità d’informazione, che sono opzionali e la cui fre-
quenza spesso varia in maniera correlata alla tipologia comunicativa del testo, è
interessante avere anche delle stime approssimative, che in ogni caso rendano
conto del rilievo di una certa unità per la costruzione di un testo parlato, e di con-
seguenza del rilievo che una certa forma verbale in essa presente può rivestire.
Comment 100%
Topic 19%
Appendice (di comment) 6,5%
Inciso 8,5%
Discorso diretto riportato 4-5%
Riassumendo ogni occorrenza di persona verbale viene valutata relativamente a:
a) appartenenza ad un enunciato;
b) appartenenza ad una specifica unità d’informazione (Comment, To-
pic, Appendice, Introduttore locutivo, Inciso),
c) strategia linguistica dell’unità d’informazione (verbale vs nominale);

18 Rimandiamo ai lavori di tesi, e alla pubblicazione da essi trattene, di Firenzuoli (1997,


2000, 200a), Giani (1999, 2003, in stampa), Signorini (2001, in stampa), Tucci (2002, in stam-
pa), Ferri (2003).
220 EMANUELA CRESTI

d) frequenza dell’unità d’informazione in rapporto al numero degli


enunciati.

3. UNITÀ D’INFORMAZIONE A STRATEGIA VERBALE

Ci occuperemo in questo paragrafo di quelle unità d’informazione che hanno


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prevalente strategia linguistica verbale: Comment, Introduttore locutivo, Inciso.

3.1. Il Comment

Come abbiamo anticipato l’unità informativa di Comment serve al compi-


mento della forza illocutiva di un enunciato e questo avviene indipendentemente
dalle caratteristiche locutive (lessicali e morfosintattiche) dell’espressione in que-
stione. Tra gli esempi che seguono, tutti enunciati semplici, composti da una sola
unità di Comment, l’ultimo non contiene nessuna forma verbale:
*EDI: non fa così?
%ill: richiesta di conferma
%inf: comment19
*LUC: volevo dire un’altra cosa //
%ill: precisazione
%inf: comment
*SRE: solo le voci //
%ill: conferma
%inf: comment
Ma se un enunciato è complesso, non è composto del solo Comment, ma di
più espressioni articolate informativamente, per esempio in Topic-Comment;
anche in tal caso dobbiamo valutare se la forma verbale è presente nel Comment
oppure no.

19 L’esempio e i successivi sono ripresi dal campionamento pubblicato in Cresti (2000). Le


trascrizioni sono accompagnate da diversi segni diacritici, che sono stati sviluppati nel nostro
lavoro di archiviazione elettronica del parlato e che più in generale rimandano al sistema CHAT
(Mac Whinney, 1997) e ad una implementazione fattane per l’italiano (Moneglia e Cresti 1997).
Ogni parlante è indicato da un asterisco, seguito da tre lettere maiuscolo, due punti e uno spazio
(*ABC:). La trascrizione non prevede lettere maiuscole altro che per l’iniziale dei nomi propri.
In particolare il segno di doppia sbarra (//), oppure di punto esclamativo (!) o punto interrogati-
vo (?) stanno ad indicare la fine di un enunciato segnalata prosodicamente, la sbarra semplice (/)
la fine di unità d’informazione segnalata prosodicamente. Sotto la riga di trascrizione del testo
parlato si trovano delle righe dipendenti introdotte da segno di percentuale (%), seguite da tre
lettere minuscole, due punti e spazio, che stanno ad indicare quale sia %ill: l’illocuzione dell’e-
nunciato trascritto e %inf: l’articolazione informativa dello stesso enunciato.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 221

*ALB: le bustine / ancora c’è da aprille //


%ill: risposta
%inf: topic, comment
*ALM: coi fratelli / mamma mia!
%ill: valutazione negativa
%inf: topic, comment
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Può capitare anche che la forma verbale compaia nel Topic e non nel
Comment:

*PZI: se ’un ci si vede prima di Natale / allora buon Natale //


%ill: augurio
%inf: topic, comment

Per quanto riguarda l’unità di Comment, i dati che presentiamo sono quelli
raccolti dal lavoro già citato di Firenzuoli (1997), e sono stati verificati in un cor-
pus di parlato spontaneo di 2007 enunciati20. Da una serie di ricerche condotte in
LABLITA possiamo dare una stima indicativa riguardante la strategia del
Comment che risulta essere a prevalenza verbale (60-65%). Nel campione in
esame, nel quale prevalgono testi familiari, essa è leggermente al di sotto della
media con un 59,8%.

Comment (2007) 100%


Comment nominali (806) 40,2%
Comment verbali (1201) 59,8%

Per quanto concerne l’uso delle persone verbali, considerando insieme le per-
sone singolari e quelle plurali, le occorrenze assolute sono le seguenti:

Frequenza delle persone nei Comment verbali:


III° persona (715) 59,53%
I°persona (268) 22,3%
II° persona (128)10,6%
III° persona cortesia (90) 7,5%

Come abbiamo già anticipato i risultati così ottenuti ci permetterebbero sola-


mente di apprezzare una certa conservazione del paradigma delle persone, anche
se caratterizzata da una netta prevalenza della terza persona. Dal momento però

20 Ringraziamo Firenzuoli per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
222 EMANUELA CRESTI

che le unità di Comment sono dedicate al compimento dell’illocuzione, diventa


rilevante cercare di vedere se per caso esista una correlazione tra le diverse carat-
teristiche illocutive degli enunciati e l’occorrenza delle persone, anche sapendo
che non vi può essere una corrispondenza biunivoca.
La distribuzione delle classi illocutive ricavata da Firenzuoli (1997) 21 è la
seguente:
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Frequenza delle classi illocutive:


Assertiva (633, 52,7%)
Direttiva (377, 31,39%)
Espressiva (179, 14,90%)
Rito (9, 0,75%)
Rifiuto (3, 0,002%)

A questo punto se andiamo a cercare quale sia il rapporto tra l’impiego di una
persona verbale in un Comment e il tipo illocutivo compiuto i risultati sono i
seguenti:

Tabella 1
Frequenza della correlazione tra persona e classe illocutiva

* II° + III° cor. 42,17%


** II° + III° cor. 19,55%

I risultati cambiano in maniera significativa il valore della distribuzione con-


siderata fuori dalla correlazione con le classi illocutive, perché se entro i rappre-

21 Per una nuova classificazione delle illocuzioni si veda Cresti e Firenzuoli (1999), Cresti
(2000 e in stampa).
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 223

sentativi, che costituiscono quasi il 53% delle illocuzioni messe in atto, la terza
persona rimane in assoluto la più frequente con 81,2%, però al tempo stesso essa
presenta una concentrazione con un valore difforme dal valore medio (circa 60%)
di quasi 20 punti. Diversamente nelle altre classi illocutive tale predominio cessa
e in particolare nella classe direttiva il 42,17% è coperto dalla seconda persona
(calcolata insieme con la terza di cortesia) e in quella espressiva quasi il 56% è
coperto dalla prima e quasi il 20% dalla seconda, ancora calcolata insieme con la
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terza di cortesia. Per quanto concerne le restanti classi (rifiuto e rito), i dati sono
poco significativi a causa del campione non troppo esteso ed in ogni caso sele-
zionato secondo caratteristiche sociolinguistiche a prevalenza familiari, nelle
quali difficilmente sono realizzati atti come le illocuzioni di rito, nelle quali devo-
no essere considerate tutte le azioni linguistiche di valore legale e le formule di
cortesia, che nel corpus sono ridotte al minimo. Per quanto riguarda il rifiuto, esso
è in ogni caso poco frequente e risulta legato a particolari tipi di scambio (dispu-
te, scontri, ecc..). Naturalmente sarebbe interessante scendere ancor più in detta-
glio per verificare le correlazioni anche con specifiche illocuzioni e non solo con
le classi illocutive.

3.2. Il Discorso diretto riportato (DDR) e gli Introduttori locutivi

Per quanto riguarda quello che in letteratura viene chiamato discorso diretto
riportato (DDR), s’intende la citazione integrale delle parole d’altri, ivi compresa
la riproduzione non solo della forza illocutiva e dell’articolazione informativa
degli enunciati riportati, ma in particolare la simulazione della loro intonazione,
secondo un principio di contrabbandata fedeltà. Fedeltà, che infedele è per neces-
sità e per volontà del parlante, che usa tale drammatizzazione per lo più a fini per-
suasivi dell’interlocutore. Il DDR viene realizzato tramite enunciati con Comment
la cui vera illocuzione è il riporto stesso, indipendentemente dal fatto che faccia-
no la parodia di una domanda o di un’istruzione. L’enunciato di riporto viene
molto spesso introdotto da una specifica unità d’informazione, l’Introduttore
locutivo, costituito per lo più da un verbo dicendi. Ci interesseremo quindi del-
l’impiego della persona verbale in tale unità d’informazione, che è strettamente
funzionale alla buona riuscita di una illocuzione di riporto.

*ENI: […] dice / non andiamo tanto tardi //”


%ill: riporto
%inf: introduttore locutivo, comment
*BM5: e quello di sotto / dice / aspettate un momento /’ che sotto ci
sono io //”
%ill: riporto
%inf: topic, introduttore locutivo, [1°] comment, appendice di comment
224 EMANUELA CRESTI

I dati che presentiamo sono quelli raccolti da Daniela Giani (1999, 2003) 22,
la cui ricerca è stata condotta su un campionamento di 9876 enunciati e dalla
quale si evince che il DDR costituisce all’incirca il 4% degli enunciati23.

Frequenza del DDR


Comment (9876) 100%
DDR (410) 4,1%
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Bisogna precisare, però, che quando un parlante inserisce tra i suoi enunciati
un DDR, in genere non mette in piedi quella che possiamo indicare come una
drammatizzazione del suo discorso, per fare la semplice citazione di un enun-
ciato altrui, ma spesso inscena una sequenza di più enunciati di riporto (episo-
dio di riporto). In genere è solo il primo enunciato dell’episodio di riporto, che
viene preceduto dall’Introduttore locutivo, come unità di informazione apposi-
tamente dedicata alla disambiguazione del valore fittizio dell’intero episodio di
riporto.

*PN3: sicché ieri sera / gli dissi / guardi /’ professore /’ c’è lo sciopero
//’ i giornali /’ i comunicati stampa /’ ne parlano //”
%ill: riporto
%inf: topic, introduttore locutivo, [1°] fatico, allocutivo, comment, [2°]
topic, topic, comment
*ILA: cioè loro gli hanno detto / che siamo /’ sfrattati //’ siamo col-
l’acqua alla gola //’ […]
%ill: riporto
%inf: introduttore locutivo, [1°], comment scandito, [2°] comment

Per verificare la frequenza degli Introduttori locutivi sembra quindi più


opportuno valutarli non tanto in relazione ai singoli enunciati riportati quanto agli
episodi di riporto, perché sono essi quelli propriamente presentati. Poiché nel cor-
pus in considerazione gli episodi di riporto sono 241, questo ci permette di vede-
re che essi sono quasi la metà del numero degli enunciati (241 a 410), il che con-
ferma che in genere un episodio di riporto è composto da più di un enunciato.
Possiamo anche constatare che la percentuale degli Introduttori locutivi sul nume-
ro degli episodi di riporto è piuttosto alta, confermandosi se non come una neces-
sità certo come una strategia fortemente impiegata.

22Ringraziamo Daniela Gianni per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
23In ogni caso da una verifica disaggregata del valore percentuale, si scopre che nel parla-
to familiare, conversazione, esso sale ben al 10%, mentre scende sensibilmente nel parlato pub-
blico formale.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 225

Frequenza degli Introduttori locutivi


Introduttori locutivi (174) 72,19% degli episodi di riporto

Il restante 27, 81% degli episodi di riporto è costituito da casi senza introdut-
tore, che per lo più sono secondi episodi di riporto, ovvero appaiono in una cor-
nice di dialogo riportato già introdotta. La verifica delle caratteristiche lessicali e
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sintagmatiche degli Introduttori locutivi, conferma l’ipotesi della prevalente stra-


tegia verbale di questa unità d’informazione. Gli Introduttori locutivi nominali
corrispondono ad espressioni generiche (del tipo, cose), che vengono riempite
semanticamente da un DDR.

Frequenza Introduttori locutivi verbali e nominali


Introduttori locutivi verbali (150) 86,2%
Introduttori locutivi nominali (24) 23, 8%

A questo punto possiamo andare a verificare se esiste una correlazione tra la


persona verbale degli Introduttori locutivi verbali e l’illocuzione dell’episodio di
riporto che essi presentano. Ma è necessaria un’ulteriore precisazione perché esi-
stono tre tipologie pragmatiche del DDR: quella di valore narrativo-descrittivo,
che copre la quasi totalità del DDR, quella di valore direttivo, con la quale ven-
gono date istruzioni di comportamento linguistico, e quella che potremmo chia-
mare ipotetica, connessa a un immaginario intervento orale del parlante, che però
non è mai avvenuto. Quest’ultima rientra in quei casi di episodio di riporto sem-
pre secondi, inseriti in un dialogo riportato e mai preceduti da Introduttore locu-
tivo. Rimangono quindi le due tipologie pragmatiche di DDR, assertiva e diretti-
va, che sono interessate al rapporto con l’Introduttore locutivo e che ci riservano
ancora una correlazione interessante, nonostante la netta prevalenza della prima
tipologia.

Tabella 2
Frequenza della correlazione tra persona e classe illocutiva
226 EMANUELA CRESTI

La tabella mostra, infatti, che a parte l’assenza della terza persona in quei
pochi casi di uso direttivo del DDR, la percentuale della prima persona per
l’Introduttore di riporto narrativo-descrittivo, che raggiunge quasi il 30%, è note-
volmente più alta di quel generico 22% che si potrebbe eleggere a valore medio
dell’occorrenza della prima persona. Quindi la narrazione fatta familiarmente tra-
mite drammatizzazione e DDR sceglie spesso la prima persona.
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3.3. L’inciso

L’Inciso è un’unità d’informazione che serve al parlante per commentare in


maniera diretta il proprio enunciato, consentendogli di staccarsi dalla modalità, o
punto di vista, interna all’enunciato stesso. L’Inciso può occorrere dopo qualsiasi
unità d’informazione, in chiusura di enunciato, e – caratteristica eccezionale –
può interrompere un’unità di Topic o di Comment, che viene ripresa e conclusa
dopo l’inserto incidentale. Anche l’Inciso può essere semplice (una sola unità
d’informazione, magari costituita da un sintagma preposizionale o da un avverbio
di giudizio):

*PRF: Venezia / scende / con le sue navi / il Po / […]


%ill: descrizione
%inf: topic, comment interrotto, inciso, conclusione del comment
*PM1: lascio / proprio volutamente / la domanda / a questo punto //
%ill: spiegazione
%inf: comment interrotto, inciso, conclusione del comment, appendice
di comment

Oppure può essere complesso (un vero e proprio enunciato con Comment e
articolazione informativa):

*AD2: Martini / e come mi pare di capire / anche lei / ha fatto la scel-


ta dell’Ulivo //
%ill: contrapposizione
%inf: topic, inciso, inciso, comment
*ADP: […] chi deve essere coerente / come sono stato coerente io /
ha dovuto / rinunciare / a scendere in campo //
%ill: spiegazione
%inf: topic, inciso, comment scandito

Ma possiamo trovare addirittura più di un enunciato di Inciso di cui uno sia


l’Inciso dell’altro:
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 227

*FAR: il modo con cui ancora nel Medioevo / si facevano le osservazioni


del sole / era quello / di non guardarlo direttamente / perché chi faceva
questo / come capitò anche a Galileo / incorreva in danni oculari per-
manenti / ma quello di vedere il sole / in una sua immagine riflessa //
%ill: spiegazione
%inf: topic scandito, comment scandito interrotto, inciso, inciso del-
l’inciso, inciso, conclusione del comment, appendice del comment
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Possiamo dire che l’Inciso è portatore di un’illocuzione di tipo rappresentati-


vo, secondaria, con la quale viene compiuto un commento metalinguistico sull’e-
nunciato stesso; il valore illocutivo secondario dell’Inciso è particolarmente evi-
dente nel caso degli Incisi frastici, che a volte possono essere portatori anche di
illocuzioni secondarie direttive o espressive. Le forme verbali impiegate in essi,
quindi, appaiono connesse a tali usi pragmatici.
I dati che presentiamo sono quelli raccolti da Ida Tucci (2002)24, la cui ricer-
ca è stata condotta su un campionamento di 8293 enunciati e dalla quale si evin-
ce che l’Inciso costituisce circa l’8,5% degli enunciati25.

Comment (8293) 100%


Incisi (704) 8,48%

Se poi andiamo a verificare le caratteristiche linguistiche degli Incisi possia-


mo notare che esiste una strategia duplice sia nominale che verbale con un certo
equilibrio tra le due, anche se l’Inciso frastico con un’espressione verbale al pro-
prio interno è maggioritaria.

Caratteri morfolessicali degli Incisi


Incisi nominali (322) 45,8%
Incisi verbali (382) 54,2%

Naturalmente risulta interessante controllare il comportamento delle persone


verbali in connessione con gli Incisi verbali e tenuto conto che alcuni di essi
hanno una forma verbale di modo infinito, il totale cui bisogna riferirsi è 335.

24 Ringraziamo Ida Tucci di averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
25 Da una verifica disaggregata del valore percentuale, è possibile ricavare che le frequen-
ze variano molto in relazione alla tipologia sociolinguistica e comunicativa. L’Inciso,in realtà, è
una caratteristica tipica di un parlato pubblico, programmato, monologico, in certe conferenze
può arrivare a comparie anche nel 65% degli enunciati.
228 EMANUELA CRESTI

Numero degli Incisi verbali di modo finito 335


Frequenza delle persone verbali negli Incisi verbali

III° pers 156 (46,5%)


I° pers 146 (43,5%)
II° pers 33 (10%)
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Come è evidente anche se si mantiene una certa prevalenza della terza perso-
na, è molto forte l’impiego della prima persona che si presta naturalmente al
commento metalinguistico, che il parlante fa appunto in prima persona. I pochi
casi alla seconda persona riguardano delle forme di appello diretto all’interlocu-
tore, come per esempio:

*VES: volevo chiudere il collegamento / chiedendo / adesso / poi


decidete voi chi risponde / se questa missione / è più rischiosa / […]
%ill: conclusione
%inf: topic, comment interrotto, inciso, inciso, conclusione del com-
ment scandita

3.4. Possiamo aggiungere ai risultati fin qui presentati, anche se non abbiamo
ancora a disposizione dati semantici, alcune osservazioni su altre unità d’informa-
zione come i Fatici o i Conativi, che sono portatori di illocuzioni secondarie per il
buon funzionamento o il controllo dell’atto linguistico 26. Entrambe le unità d’infor-
mazione sono a prevalente strategia verbale e in esse è possibile ipotizzare una pre-
dominanza della seconda persona (guarda, vedi, hai capito, ti pare, senti, vai, dai).
Possiamo concludere notando come l’impiego della persona verbale appaia for-
temente correlato a:

a) la classe illocutiva del Comment;


b) la tipologia pragmatica del DDR presentato dall’Introduttore locutivo;
c) la caratteristica illocutiva secondaria dell’Inciso, o del Fatico, o del
Conativo.

In tutti i casi precedenti la forma verbale è in rapporto in modo diretto o indiret-


to con l’espressione di un’illocuzione. Sembra accertato, quindi, che la distribuzione
delle persone verbali nelle unità d’informazione di rilievo illocutivo dipende in manie-
ra sostanziale dalla classe illocutiva o dall’uso pragmatico dell’unità in questione, e
che la conservazione del paradigma di persona è da essi ancorata.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 229

4. LE UNITÀ A STRATEGIA NOMINALE


Passando alle unità d’informazione a prevalente strategia nominale (Topic e
Appendice di comment), ci possiamo rendere conto che la distribuzione della perso-
na verbale perde di regolarità in concomitanza con l’occorrenza in unità che non
hanno rilievo illocutivo. In esse sembra che la caratteristica informativa, indipendente
del compimento dell’illocuzione, porti automaticamente alla riduzione della impor-
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tanza funzionale delle forme verbali e quindi anche alla loro riduzione quantitativa.

4.1. Il Topic
Il Topic è la principale unità d’informazione dopo il Comment. Esso può
essere definito funzionalmente come il campo di applicazione della forza del
Comment. Il Topic è concepito come una rappresentazione conoscitiva, fuori illo-
cuzione, e come tale costituisce la premessa semantica, dotata di una propria mo-
dalità, della locuzione in Comment. Il Topic è sempre antecedente al Comment,
anche se non deve essere necessariamente ad esso contiguo.
*PAT: le fragole / dove sono?
%ill: domanda
%inf: topic, comment
*INS: il concorso / vinto!
%ill: valutazione positiva (enfasi)
%inf: topic, comment
*LID: poi / ni’ ventitré / l’è nato il primo figliolo //
%ill: racconto
%inf: incipit, topic, comment
*CL7: se c’è le donne / vengo da solo //
%ill: proposta
%inf: topic, comment
*GUG: sì / quando ti pare / lo mandi via //
%ill: contrasto
%inf: incipit, topic, comment
I dati che presentiamo sono quelli raccolti da Sabrina Signorini (2001 e in
stampa) 27, la cui ricerca è stata condotta su un campionamento di 8093 enunciati
e dalla quale si evince che il Topic costituisce circa il 14% degli enunciati28.

26 È in corso un lavoro di tesi su tali unità d’informazione.


230 EMANUELA CRESTI

Il Topic può essere iterato all’interno di un pattern informativo, dando luogo


ad un Topic complesso (diadico o al massimo triadico). Il Topic inoltre può esse-
re integrato da una ulteriore unità d’informazione: l’Appendice di Topic. La ricer-
ca sulla persona verbale è limitata ai Topic semplici che riguardano solo il 13%
degli enunciati.

Frequenza dei Topic


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Comment (8093) 100%


Topic semplici (1055) 13%

Come avevamo anticipato la gran maggioranza dei Topic ha strategia nomi-


nale e corrisponde sintagmaticamente a SN, SP, SAdv, SAg. I Topic verbali cor-
rispondono a clausole subordinate (ipotetiche, temporali, causali, asindetiche di
valore ipotetico e temporale), come è possibile vedere anche dagli esempi.

Caratteri morfo-lessicali dei Topic


Topic nominali (798) 75,6%
Topic verbali (257) 24,4%

Inoltre solo una parte di quelli verbali corrisponde ad una forma di modo finito

Topic verbali di modo finito (193) 18,37%

In generale possiamo notare che quando un Topic usa una strategia verbale, essa
serve a dare premesse narrative o descrittive, che per lo più sono restituite alla 3° per-
sona, oppure serve a fare ipotesi caratterizzate epistemicamente ed allora spesso inter-
vengono la 1° persona e la 2°, che in certi casi corrisponde ad un tu generico.
Guardiamo ora la distribuzione delle persone nei Topic e riportiamo quella
delle persone nei Comment al di fuori della distribuzione secondo le diverse clas-
si illocutive.

Tabella 3
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 231

Forse il dato più interessante che risulta dal confronto è quello che mostra
come la realizzazione di un’espressione verbale in Topic, ovvero fuori illocuzio-
ne, porta a risultati che sono molto simili ai valori medi di uso nel Comment, qua-
lora non si tenga conto della distribuzione disaggregata secondo le classi illocuti-
ve, ma con un avvicinamento complessivo delle tre persone.
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4.2. Le Appendici

L’unità d’informazione di Appendice può presentarsi come integrazione


testuale di ciascuna delle due principali unità d’informazione: il Comment e il
Topic. In ogni caso deve seguire tale unità. Le Appendici non sembrano avere né
una specifica funzionalità informativa, che sussumono da quella dell’unità di cui
sono integrazione, né una modalità indipendente da quella dell’unità da cui dipen-
dono. Esse si presentano come forme di compilazione del testo orale, oppure por-
tando materiale ridondante, ripetizioni, frasi foderate ed echi non strettamente
necessari offrendo integrazioni lessicali, correzioni. Prendiamo alcuni esempi di
Appendici di Comment che sono le più rilevanti:

*PAR: […] parla della famiglia / il Signore //


%ill: presentazione
%inf: comment, appendice di comment
*CL5: son discorsi tutti maschili / questi //
%ill: valutazione negativa
%inf: comment, appendice di comment
*ALM: ma ero dispettosa / dispettosa //
%ill: racconto
%inf: comment, appendice di comment

In Appendice possono occorrere anche forme verbali flesse, che appaiono


entro clausole subordinate, per esempio relative appositive, subordinate esplicati-
ve, interrogative indirette:

*UTE: ma non mi ricordo / in che anno me l’hanno data //


%ill: constatazione
%inf: comment, appendice di comment
*GNO: […] la mi fa morire / perché la mi mette in pensieri //
%ill: spiegazione
%inf: comment, appendice di comment

Ma una delle forme più tipiche di uso di una forma verbale in Appendice è
232 EMANUELA CRESTI

quella costituita da un’espressione nominale, che si potrebbe definire un sogget-


to, realizzata come Comment e portatrice della forza illocutiva ed il “resto della
frase”, ovvero il suo completamento ridondante in quella situazione di enuncia-
zione, in Appendice di comment.

*BAA: io / mi levai a dieci a mezzogiorno //


%ill: contrasto
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%inf: comment, appendice di comment


*GAA: la Chiara / si infilò nello stanzino //
%ill: precisazione
%inf: comment, appendice di comment

Per quanto riguarda le Appendici29.

Frequenza delle Appendici di Comment


Comment (8609) 100%
Appendici (552) 6,4%
Appendici semplici (482) 5,6%

La maggioranza delle Appendici ha strategia nominale e corrisponde sintag-


maticamente a SP, SN, S Adv., S Ag. Mentre le Appendici a strategia verbale sono
per lo più clausole non introdotte da congiunzioni e da forme di modo finite.

Caratteri morfolessicali delle Appendici


Appendici nominali (405) 73,4%
Appendici verbali (145) 26,6%
Appendici verbali di modo finito (118) 24,4%

Per quanto riguarda l’uso delle persone verbali, esso appare piuttosto casua-
le, anche se la terza persona è nettamente prevalente.

4.3. In conclusione, anche se i dati sulle Appendici non sono ancora disponi-
bili, sembra assicurato che le unità d’informazione che non sono coinvolte in fun-
zioni illocutive primarie (Comment) o secondarie (Inciso, Fatico, Conativo) o di
appoggio ad un Comment (Introduttore locutivo), da un lato sono a prevalente
strategia nominale e dall’altro presentano forme verbali che hanno una distribu-
zione media o con caratteri di casualità. Il peso di queste unità per l’impiego della

27 Ringraziamo Sabrina Signorini per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 233

28 Da una verifica disaggregata del valore percentuale, è possibile ricavare che la frequenza del
Topic varia in relazione alla tipologia sociolinguistica e comunicativa. Il Topic caratterizza in manie-
ra sistematica il parlato pubblico nel quale può arrivare a coprire anche il 50% degli enunciati.
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234 EMANUELA CRESTI

29 Ringraziamo Claudia Ferri per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
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235 EMANUELA CRESTI

categoria di persona appare quindi secondario.


5. Conclusioni

I dati complessivi delle diverse ricerche sembrano confermare che la catego-


ria di persona appare ben conservata nel parlato e che le differenze di frequenza
delle tre persone e la prevalenza percentuale della terza singolare sono fortemen-
te correlate con la funzione informativa che le persone sono chiamate a svolgere.
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Tale resistenza appare perciò fondata in aspetti costitutivi del parlato e non assi-
milabile a quel processo di riduzione del paradigma morfologico del verbo per
quanto riguarda le categorie di tempo e di modo, che per ragioni opposte proprio
nel parlato vengono in parte neutralizzate.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 236

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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2.
Lessico e grammatica
DANIELA GIANI
(Lablita, Università degli Studi di Firenze)

Il verbo dire nell’italiano parlato: sintassi e articolazione informativa


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Il verbo dire è tra i verbi più usati nella lingua parlata. Il Lip colloca il verbo
al sedicesimo rango di frequenza di uso in una classifica che vede anche le paro-
le funzionali come articoli e congiunzioni. L’altissima frequenza di questo verbo
impone di vedere quali sono gli usi effettivi nel parlato che la giustifichino.
L’osservazione dell’uso del verbo dire, inoltre, in relazione a quello che viene
considerato, da un punto di vista sintattico, il suo oggetto diretto risulta prezioso
nella ricerca sul discorso riportato, di cui il lavoro presente è parte, in particolar
modo riguardo alla definizione dei vari modi di riporto (diretto, indiretto ecc.).
Il lavoro è basato sull’osservazione dell’uso del verbo dire in un corpus di ita-
liano parlato spontaneo di circa sei ore, campionamento (Cresti 2000) del corpus
di circa quaranta archiviato presso il Laboratorio di linguistica italiana dell’uni-
versità di Firenze (LABLITA).
Il campionamento esaminato è rappresentativo dal punto di vista sociolingui-
stico. In esso, infatti, sono rappresentate la variazione diafasica (il campionamen-
to è composto da testi pubblici e privati, da conversazioni tra due parlanti o più e
in vari rapporti gli uni con gli altri), diastratica (sono stati scelti testi di parlanti di
tutte le età e di tutti i gradi di scolarità, senza tralasciare i linguaggi tecnici legati
all’esercizio delle varie professioni) e diamesica (nel campionamento sono pre-
senti esempi di parlato radiofonico, telefonico, televisivo e cinematografico).

1. PROBLEMATICHE RELATIVE AL DISCORSO RIPORTATO

Gli esempi da (i) a (iiia) sono rappresentativi dei problemi inerenti alla distin-
zione tra i vari modi riporto. Se, infatti, prendiamo la definizione dei vari modi di
riporto in base al centro dettico (Mortara-Garavelli 1995) il discorso diretto è il
modo di riporto in cui le coordinate spazio-temporali del discorso originario non
vengono adottate all’hic et nunc al discorso citante, contro il modo indiretto dove
invece si realizza tale adattamento. La definizione, sebbene sia molto efficace per
distinguere il discorso diretto riportato da quello indiretto senza ricorrere a con-
cetti non verificabili nel testo linguistico come la fedeltà all’originale, tuttavia
presenta due ordini di problemi: uno riguarda l’applicazione del criterio al parla-
to e l’altro è di natura sintattica.
L’esempio (i) rappresenta un caso in cui il discorso riportato è una frase atem-
porale e dove, di conseguenza, il criterio del centro deittico non ci viene incontro
240 DANIELA GIANI

per decidere se Parigi è bella è un discorso diretto oppure un discorso indiretto


senza il “che” subordinante, costruzione possibile nel parlato anche se non fre-
quentissima.
Gli esempi (ii)-(iiia) mostrano invece il limite sintattico della definizione del
discorso diretto riportato in base al centro deittico. Il verbo fare viene, infatti, pre-
sentato (Mortara-Garavelli 1995) come possibile verbo utilizzabile al posto di dire
nell’introdurre il discorso diretto. La sostituibilità non riguarda però tutte le pos-
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sibili costruzioni sintattiche in cui ricorre il discorso diretto riportato. Nelle dislo-
cazioni a destra presentate dall’autrice, ma lo stesso vale anche per quelle a sini-
stra, il verbo dire non può essere sostituito dal verbo fare senza arrivare a risulta-
ti agrammaticali. La distinzione tra i due modi di riporto in base al centro deitti-
co non è, dunque del tutto predittiva riguardo ai verbi compatibili con il discorso
diretto così definito. La spiegazione data (Mortara-Garavelli) per cui ci si trove-
rebbe di fronte ad un uso intransitivo del verbo fare che impedirebbe qualunque
costruzione di tale verbo con un clitico è una descrizione di ciò che avviene e non
dice perché in (ii) il discorso diretto non sia rispetto al suo verbo introduttore nella
stessa relazione sintattica che troviamo in (iii).

i) Gianni mi ha detto Parigi è bella


ii) Mario mi fa “Come stai?”
iia) *Mario me lo fa “Come stai?”
iii) Mario mi dice “Come stai?”
iiia) Mario me lo dice “Come stai?”

2. LE DIMENSIONI DEL PARLATO

La descrizione dei dati offerti dall’analisi della lingua parlata è possibile uti-
lizzando una categoria pragmatica, l’atto linguistico. Secondo la trattazione di
Austin l’atto linguistico si compie nella realizzazione simultanea di tre atti: l’atto
locutivo, l’atto illocutivo e quello perlocutivo.
La teoria della lingua in atto, che rappresenta il quadro teorico del lavoro pre-
sente, (Cresti 2000) lega l’atto locutivo a quello illocutivo attraverso l’intonazio-
ne, l’aspetto della locuzione che veicola l’illocuzione, vale a dire il valore prag-
matico del contenuto conoscitivo espresso, invece, dalle caratteristiche lessicali e
sintattiche della locuzione.
L’unità di analisi del parlato, quella che scandisce il continuum del parlato e
a cui ci si riferisce per lo studio del parlato, è l’enunciato, vale a dire l’“entità lin-
guistica” corrispondente all’entità pragmatica dell’atto linguistico: “quando nella
prassi dello scambio verbale con il proferimento di un’espressione è compiuto un
atto linguistico e quindi in particolare è compiuta un’illocuzione, tale espressione
è un enunciato” (Cresti 2000). L’enunciato, così concepito, è composto necessa-
riamente da un’unità, il comment, autonoma e interpretabile pragmaticamente in
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 241

quanto unità tonale cui è affidata l’esecuzione dell’atto linguistico e, in maniera


accessoria, da altre unità tonali che articolano l’informazione nell’enunciato com-
plesso.
Nel parlato esiste dunque, rispetto allo scritto, una dimensione ulteriore, quel-
la della strutturazione intonativa che corrisponde alla strutturazione dell’informa-
zione. La strutturazione informativa si sovrappone alla strutturazione sintattica che
vale comunque all’interno di una unità tonale/informativa. Avremo, quindi, per
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quanto riguarda il nostro problema, dei casi in cui il verbo dire e il proprio ogget-
to si trovano nella stessa unità informativa e casi in cui il verbo dire si trova in
un’unità informativa diversa rispetto a quello che viene considerato il suo oggetto.
Nel primo caso si tratta di vera e propria reggenza sintattica, mentre nel
secondo si tratterà di una strutturazione informativa. In particolare, quello che
nella strutturazione sintattica è l’oggetto del verbo, quindi in un rapporto di subor-
dinazione con esso, nella strutturazione informativa è il comment, vale a dire l’u-
nità informativa essenziale per costituire un enunciato mentre il verbo si trova in
unità informative accessorie che vedremo nei paragrafi successivi.

3. VERBO DIRE E OGGETTO NELLA STESSA UNITÀ INFORMATIVA: LA RELAZIONE SIN-


TATTICA

In 115 delle 420 occorrenze del verbo dire quest’ultimo è nella stessa unità
informativa del suo oggetto diretto con una casistica piuttosto varia.
In 52 enunciati il verbo dire ha come proprio oggetto sintattico un pronome.
In particolare in 30 casi l’oggetto pronominale è rappresentato da un clitico. In 24
di questi casi la referenza del clitico è deittica, intentendo per referenza deittica la
referenza del clitico che non sia nello stesso enunciato del clitico stesso, vale a
dire nel contesto extralinguistico oppure in un enunciato precedente, come nell’e-
sempio seguente dove il clitico si riferisce a un discorso fatto dall’interlocutore:

1) erano anni che non lo dicevo!

Negli altri sei casi, invece, il clitico è coreferenziale a un oggetto che si trova
nello stesso enunciato con costruzione dislocata. Il referente lessicale e il clitico
possono trovarsi sia nella stessa unità informativa come nell’esempio seguente:

2) questa gliela dico!

sia in unità informative diverse. Gli esempi che seguono mostrano tale even-
tualità. I costrutti dislocati corrisondono a strutture informative tipiche del parlato:
il topic- comment, la modalità parlata di realizzazione della dislocazione a sinistra
oppure comment-appendice che realizza nel parlatao la dislocazione a destra.
3) la prima idea / te l’ho detta //
242 DANIELA GIANI

4) te lo dico / quando me l’hanno data //

In 5 casi l’oggetto pronominale è un deittico tonico come negli esempi che


seguono, di cui 5 rappresenta la struttura con il vero e proprio oggetto e 6 la
costruzione intransitiva:

5) Ha detto questo?
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6) Diciamo così//

In 17 casi, infine, il pronome è un wh come nell’esempio che segue:

7) e poi che mi dici?

Gli esempi da 8 a 10 mostrano la possibile reggenza del verbo dire con ogget-
ti di tipo lessicale e non pronominale.

8) Mi ha detto male parole


9) quando quelli ti dican “via” / vai via //
10) non dico un rivoluzionario //

Nonostante la grammaticalità di 8 nel corpus da noi esaminato non troviamo


mai esempi simili, dove l’oggetto del verbo dire sia un lemma non usato in modo
autoreferenziale: il verbo dire, dunque, si trova attestato con oggetti lessicali che
sono sempre usati per riferirsi a se stessi. Con ciò intendiamo dire che nel corpus
non troviamo mai frasi come 8, dove l’oggetto è rappresentato da parole che desi-
gnano un significato convenuto nella realtà extralinguistica. Nel nostro corpus tro-
viamo solo costruzioni come 9 e 10, dove gli oggetti del verbo dire sono parole
che designano se stesse sia come citazioni, come nell’esempio 9, sia come parole
usate metalinguisticamente per significare, per esempio, la portata “polifonica”,
la connotazione. In 10 troviamo un esempio di quest’ultima categoria.
L’enunciato è tratto da una testo del corpus dove un prete, durante l’omelia dome-
nicale, spiega ai fedeli la portata innovativa del messaggio cristiano e parla di
Gesù definendolo una figura di rottura, quindi un “rivoluzionario”in un senso che
escluda tutte le connotazioni politiche attuali. Nell’enunciato rappresentato in 10
il prete che sta parlando vuole, dunque, contrattare il valore della parola “rivolu-
zionario” e non vuole dire che Gesù non lo fosse.
L’oggetto sintattico del verbo dire, infine, può essere un oggetto frastico. In
questo caso possiamo trovare 4 diverse casistiche esemplificate dagli enunciati
seguenti:

11) quando dice “lasciate i bambini vengano a me”/ vuol dire …(da
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 243

Omelia)
12) dicono che nel 1490 / evidentemente / Ercole è alla riscossa // (da
Ercole I duca di Ferrara)
13) tutti dicevano queste teste erano false // (da Intercity)
14) disse di avermi visto ad una riunione mafiosa // (da Interrogatori
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in corte d’Assise)

In 11 è esemplificato il caso in cui la frase oggetto di dire è una citazione,


quello che viene definito, secondo il criterio del centro deittico un discorso diret-
to, paragonabile all’esempio (i).
In 12 è esemplificata una struttura di discorso indiretto esplicito con “che” e
in 13 un discorso indiretto senza il “che”, dove il fatto che il discorso sia indiret-
to si evince chiaramente dal centro dittico. Da un punto di vista sintattico tra gli
enunciati compresi tra 11 e 13 non ci sono differenze, in quanto tutte e quattro le
frasi secondarie sono oggetto diretto del verbo perché inserite nella stessa unità
informativa e sono in contrasto con le strutture in cui il verbo dire e il suo ogget-
to non hanno un rapporto sintattico ma informativo.

4. IL VERBO DIRE CON L’OGGETTO IN ALTRA UNITÀ INFORMATIVA

Nel paragrafo precedente abbiamo visto i casi in cui il verbo dire è in rapporto
sintattico con il proprio oggetto. Nel paragrafo presente vedremo, invece, le strut-
ture informative che legano il verbo dire al proprio oggetto quando questo si trova
in altra unità informativa.
Tutte le strutture in questione prevedono che l’oggetto costituisca un com-
ment, vale a dire l’unità d’informazione che veicola l’illocuzione e che, dunque,
possa costituire di per sé un enunciato, mentre il verbo dire si trova in unità infor-
mative accessorie.
Le unità informative interessate alla presenza del verbo dire sono: l’introdut-
tore locutivo, l’inciso e il fatico, unità informative definite sulla base della loro
specificità

a) intonativa,
b) distributiva
c) funzionale.

Ciascuna delle tre unità menzionate ha quindi un proprio profilo intonativo,


una distribuzione ricorrente all’interno del suo enunciato e una precisa funzione
informativa.
244 DANIELA GIANI

4.1. L’introduttore locutivo

L’introduttore locutivo, dove il verbo dire è rappresentato in 146 delle 291


realizzazioni in unità tonale separata rispetto al suo oggetto diretto, è un’unità
informativa caratterizzata, da un punto di vista intonativo, da un’esecuzione molto
rapida, priva di movimento di F0 e dal punto di vista distribuzionale da fatto di
trovarsi sempre all’inizio dell’enunciato. La funzione informativa di tale unità è
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quella di segnalare esplicitamente l’apertura dello spazio illocutivo del comment


che segue, la cui natura è specificata attraverso la locuzione. L’introduttore locu-
tivo si trova in enunciati particolarmente complessi perché, per esempio, costitui-
ti da più comment (elencazioni, discorso riportato ecc.) oppure quando il valore
illocutivo deve essere chiarito anticipatamente (per esempio per catturare l’atten-
zione dell’interlocutore o per esplicitare un’illocuzione che può essere fraintesa).
Si veda l’esempio che segue:

15) m’ha detto / ho da andare a Firenze / sicché bisogna me lo porti


con me // (da Panchina)

Nell’esempio 15 le parole in grassetto costituiscono un introduttore locutivo di


discorso diretto riportato, vale a dire un discorso diretto che costituisce di per sé un
enunciato, in quanto la mimesi dell’intonazione originaria lo rende interpretabile
in isolamento come realizzazione dell’illocuzione del discorso originario1.
L’introduttore locutivo con il verbo dire non si trova solo con gli enunciati di ripor-
to ma anche con enunciati validi nell’hic et nunc dell’enunciazione attuale come
esemplifica 16 dove il parlante con l’introduttore locutivo introduce la sintesi di
tutto il suo lungo discorso, ricatturando l’attenzione dei propri interlocutori:

dico / sessanta giorni sono pochi // (da Riunione direttiva).

Tra gli introduttori locutivi legati ad un riporto 14, corrispondenti al 9,5%,


presentano il verbo fare.

4.2. L’inciso

L’altra unità informativa la cui locuzione è rappresentata da una forma del


verbo dire è l’inciso. L’unità di informazione dell’inciso è caratterizzata dal punto
di vista intonativo da movimenti di F0 simili a quelli che caratterizzano i veri e
propri enunciati, da un abbassamento del tono di voce e da un’esecuzione rallen-

1 Non ci dilungheremo sul valore illocutivo del discorso diretto riportato quando costitui-
sce enunciato. Rimandiamo per il problema a Giani 2000.
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 245

tata in rapporto al resto dell’enunciato in cui è inserito. Al contrario dell’introdut-


tore che ha una sede fissa all’inizio dell’enunciato, l’inciso si può trovare in qual-
siasi punto di esso tranne che in prima posizione. La sua funzione è quella di un
intervento metalinguistico sull’enunciato di cui fa parte.
Prima di vedere i dati relativi alla struttura inciso-comment riguardo all’uso
del verbo dire vale la pena soffermarsi a chiarire il concetto di intervento meta-
linguistico e di enucleare le caratteristiche di funzione informativa che differen-
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ziano l’introduttore dall’inciso. In presenza dell’inciso si crea un nuovo canale


comunicativo con il proprio interlocutore. Tale canale si affianca quello dell’e-
nunciazione principale.Il parlante aggiunge, all’interno del canale metalinguisti-
ca, informazioni di qualsiasi tipo (per esempio informazioni, spiegazione di ter-
mini impiegati, contrattazione del significato di alcune parole che potrebbero
essere molto connotate ecc.) in relazione a ciò che sta dicendo. L’abbassamento
di voce e il rallentamento dell’esecuzione sono fattori che indicano l’apertura
della comunicazione metalinguistica, in cui l’enunciazione di primo livello
diventa l’oggetto di questa seconda comunicazione collocata ad un livello “supe-
riore”. Dal punto di vista informativo, quindi, l’inciso si differenzia dall’intro-
duttore locutivo, in quanto quest’ultimo fa parte dell’enunciazione al primo
livello.
Fra i 75 enunciati, che vedono un inciso con il verbo dire e ciò che è consi-
derato l’oggetto sintattico del verbo in comment, 30 sono enunciati di riporto e 45
sono enunciati validi nell’HIC ET NUNC dell’enunciazione.
Si vedano gli esempi seguenti:

17) c’è ogni cinque minuti /’ gli ho detto / il ventitré //” (da Panchina)
18) anche accanto / se qualche volta è necessario [!] / a / diciamo /
gruppi o organizzazioni / locali / di cittadini [!] // (da TG 3)

In 17 è esemplificato un enunciato di riporto interrotto dall’inciso. L’esempio


17 è parte di un dialogo riportato e l’inciso segnala il cambiamento di turno dia-
logico2. L’enunciato 18 esemplifica, invece, un’affermazione nell’hic et nunc
dove l’inciso è utilizzato per specificare il valore esemplificativo e ipotetico e
quindi non letterale dell’espressione gruppi o organizzazioni locali.
Come nell’introduttore anche nell’inciso che è parte di un enunciato di ripor-
to abbiamo trovato forme del verbo fare in 10 casi, corrispondenti al 13% del
totale.

2 Riguardo alle differenze distribuzionali e alle diverse funzioni, di introduttore e inciso nel
riporto si vedano Scarano-Giani in stampa.
246 DANIELA GIANI

4.3. Il fatico

Il verbo dire, infine, si può trovare nel fatico. L’unità informativa del fatico è
caratterizzata dal punto di vista intonativo da un’esecuzione molto rapida, quasi
accennata e dall’assenza di movimento F0; dal punto di vista distribuzionale tale
unità non ha restrizioni e si può trovare in qualsiasi punto dell’enunciato. Il fati-
co, inoltre, non è una vera e propria unità informativa, ma ciò che si può definire
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un ausilio dialogico che serve a prendere tempo e a mantenere il proprio turno nel
dialogo, ma non a comunicare informazione.
Si vedano gli esempi di seguito:

19) gl’ha detto / dice / la può andare //” (da Panchina)


20) come sono andate / diciamo / le cose // (da Porta a porta)

In 19 troviamo un fatico all’interno di un enunciato di riporto dopo l’intro-


duttore locutivo. È chiaro che il dice non ha alcun legame sintattico con il ripor-
to e non è il suo introduttore in quanto, l’introduttore è l’unità informativa pre-
cedente. La caratteristica locutiva del fatico in un enunciato di riporto, caratteri-
stica evidente nell’esempio 19, è che il verbo dire al suo interno non è coniuga-
to al tempo e alla persona in cui è collocato il centro deittico del discorso ripor-
tato rispetto a quello dell’enunciazione, ma presenta la forma fissa dice. In 19,
infatti, il fatico ha la forma al presente, mentre il tempo della narrazione in cui il
riporto è inserito è espresso dal tempo della forma di dire nell’introduttore locu-
tivo.
In 20 è esemplificato un fatico con il verbo dire in un enunciato che non ha
illocuzione di riporto. A differenza dell’esempio 18, dove l’inciso modifica il
valore dell’enunciato, rendendo l’affermazione ipotetica e non assoluta, il dicia-
mo del fatico non ha alcun valore informativo. Oltre alla diversa intonazione, che
dalla rappresentazione grafica non si evince, il fatico si distingue dall’inciso per
il fatto di non modificare in alcun modo il valore dell’enunciato.
Quando siamo in presenza di un fatico, infine, il verbo dire non è sostituibile
dal verbo fare, in quanto viene a mancare la relazione informativa tra il verbo e
ciò che per comodo chiamiamo il suo “oggetto diretto”, relazione che, da quello
che abbiamo osservato, è nostra ipotesi affermare essere il presupposto per la
sostituibilità dei due verbi. La locuzione del fatico, infatti, è fissa proprio perché
l’unità in questione non ha alcun valore informativo.

5. DUE CATEGORIE DI DISCORSO DIRETTO RIPORTATO

Alla luce di quanto visto, possiamo riprendere i due problemi iniziali e i 5


esempi che li rappresentano che riproponiamo qui di seguito:
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 247

i) Gianni mi ha detto Parigi è bella


ii) Mario mi fa “Come stai?”
iia) *Mario me lo fa “Come stai?”
iii) Mario mi dice “Come stai?”
iiia) Mario me lo dice “Come stai?”

La realizzazione scritta dell’esempio i sottintende due possibili letture nel


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parlato:
1) dove il discorso diretto è nella stessa unità informativa del verbo dire
2) dove il verbo dire è un introduttore locutivo e il discorso diretto è il
comment dell’enunciato di riporto, con la mimesi dell’intonazione
corrispondente all’illocuzione originale.

Se siamo nel caso 1, il discorso riportato ha un legame sintattico con il verbo


dire indipendentemente dal fatto che sia o meno presente il “che” subordinante,
se invece siamo nel caso 2 siamo di fronte ad un enunciato di riporto.
La distinzione nel parlato tra un discorso diretto che ha legame sintattico con
il suo verbo introduttivo e uno dove la relazione è di tipo informativo ci porta a
trovare la condizione di sostituibilità di dire con fare. Riguardo al problema rap-
presentato dagli esempi ii-iiia, abbiamo visto, infatti, che il verbo dire può essere
sostituito dal verbo fare quando il verbo dire e il discorso diretto sono in un rap-
porto di tipo informativo e non sintattico, vale a dire quando siamo di fronte ad un
riporto, con il discorso diretto in comment e il verbo dire in un introduttore o in
un inciso. L’uso intransitivo del verbo fare e la conseguente impossibilità di usare
il verbo come introduttore di discorso diretto riportato quando è presente un cliti-
co, di cui parla Mortara-Garavelli 1995, non è legato al verbo, ma alla natura del
discorso diretto riportato. La rappresentazione grafica del discorso riportato nello
scritto non rende conto delle due letture, quella sintattica e quella informativa,
degli esempi. Gli esempi iii e iiia sono grammaticali perché sono letti sintattica-
mente e non come riporti. I due esempi i e iia sono invece letti come riporti, dato
che non può esistere un rapporto di verbo oggetto tra fare e un discorso riportato.
Se anche iii fosse letto come riporto, mantenendo l’intonazione di domanda all’in-
terno3 delle virgolette, anche iiia sarebbe agrammaticale.

3 In Giani 1999 è proposto un sistema di virgolettatura per il parlato che renda ragione della
distinzione tra riporto e discorso diretto che è oggetto sintattico del verbum dicendi. Nel primo
caso il segno di interpunzione all’interno delle virgolette indica la lettura dell’enunciato riporta-
to con l’intonazione corrispondente all’illocuzione originale. Nel caso di una lettura sintattica le
virgolette sono all’interno del segno interpuntivo e l’enunciato riportato viene letto sotto il con-
torno intonativo dell’enunciato citante.
248 DANIELA GIANI

6. CONCLUSIONI

Il verbo dire, a differenza di altri verbi, è legato agli usi metalinguistici nel
parlato e possiamo quindi spiegare il suo larghissimo uso.
Per quanto riguarda il discorso riportato, la nostra ipotesi è quella di propor-
re per il parlato una distinzione tra un discorso riportato che sia in rapporto sin-
tattico con il verbo introduttore e uno che costituisce enunciato in cui il verbo dire
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è realizzato in un’unità informativa accessoria. La distinzione ci permette di supe-


rare alcuni dei problemi del discorso diretto riportato legati alla sua definizione in
base al solo centro deittico.
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 249

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ELISABETTA JEZEK
(Università degli Studi di Pavia)

Classi di verbi italiani tra semantica e sintassi


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1. QUANTE E QUALI CLASSI DI VERBI

La distinzione di classi di Verbi, stabilire cioè quante e quali classi di verbi è


opportuno postulare in un modello lessicologico1 è una questione spinosa, largamen-
te dibattuta sia sul piano descrittivo, sia su quello teorico. Tradizionalmente 2, per iden-
tificare classi, o, meglio, sottoclassi di parole si è spesso proceduto alternatamente su
due fronti, quello sintattico da un lato e quello semantico dall’altro. Ad esempio, dati
i V aggiustare, arrivare e partire, dal punto di vista sintattico si è proceduto a distin-
guere una classe transitiva (aggiustare) da una classe intransitiva (arrivare e partire);
dati i V correre, camminare e sostare, da un punto di vista semantico-aspettuale si è
proceduto distinguendo una classe di V di moto (camminare e correre) da una classe
di V stativi (sostare) e così via. Presentiamo, oltre ai punti a. e b. un elenco di alcuni
dei tratti utilizzati a fini classificatori, che, come è facile supporre, sono spesso impie-
gati in modo combinato (considerando, cioè più di un tratto alla volta):

a. Proprietà sintattiche
i. numero degli Arg. ‘nucleari’ (1, 2, 3 o 4);
ii. realizzazione sintattica degli Arg. (Sogg.; Ogg. Diretto; Ogg. Indiretto);
iii. posizione degli Arg. nella frase (preverbale, postverbale);
iv. ordine degli Arg. nella frase.
b. Proprietà semantiche
i. tratti semantici singoli ([MOTO]: spostare) o in combinazione ([MO-
TO]+[MANIERA]: pedalare);
ii. tratti aspettuali binari ([+dur] [+tel]: costruire);
iii. tipo di evento espresso dal V (Processo (correre); Stato (possedere) ecc.);
iv. ruolo tematico degli Arg. obbligatori (Ag.; Pt. ecc.);
v. restrizioni sulla selezione degli Arg. ([+anim][-anim] ecc.).

1 Si intenda per modello lessicologico un modello in grado di: – rappresentare le proprietà


(sintattiche, semantiche, aspettuali ecc.) delle parole e le relazioni che esse intrattengono tra loro
nell’ambito di un intero lessico (reti lessicali); – rendere conto dei modi in cui le parole posso-
no combinarsi sul piano sintagmatico e delle interpretazioni a cui danno luogo nel contesto.
2 Ci riferiamo qui sia alla pratica lessicografica, sia alla descrizione grammaticale.
252 ELISABETTA JEZEK

Laddove tale metodologia ha prodotto degli ottimi risultati dal punto di vista
descrittivo, la ricerca più recente in ambito lessicologico ha però progressiva-
mente evidenziato come tale procedimento si riveli insoddisfacente da un punto
di vista esplicativo, data la presenza di numerose classi di parole omogenee dal
punto di vista semantico ma disomogenee dal punto di vista del comportamento
sintattico (o viceversa). Valga come esempio il caso di due V italiani quali corre-
re e camminare, per molti aspetti semanticamente affini, ma che presentano diver-
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se proprietà di complementazione:

(1) a. ‘correre a casa/via’


b. *‘camminare a casa/via’

Dati tali fatti, la ricerca lessicologica più recente, nel tentativo di individuare
classi di parole, e, nello specifico, di V, privilegia metodologie focalizzate sul-
l’interfaccia tra sintassi e semantica, interessate a come descrivere le correlazioni
tra proprietà semantiche e proprietà sintattiche degli elementi lessicali (cfr. tra i
molti Levin 1993).
In questa linea si colloca il presente contributo, che si pone i seguenti obiettivi:

1) presentare una proposta di classificazione del lessico verbale italia-


no fondata sull’analisi delle alternanze argomentali presentate dai
Verbi presi in esame (cfr. sezione 2.);
2) verificare, attraverso l’analisi di un segmento di tale classificazione
(cfr. sezione 3 e ss.), se sia possibile individuare una o più ‘correla-
zioni’ tra comportamento sintattico e/o argomentale e proprietà del
significato.

2. 15 POSSIBILI CLASSI DI VERBI

La proposta di classificazione qui presentata trova le sue premesse teoriche


nell’ipotesi della co-composizionalità, (cfr. tra i molti Pustejovsky 1995, Jacken-
doff 1997 e i contributi in Butt & Geuder 1998), secondo la quale la semantica dei
Verbi affiora pienamente soltanto in specifici contesti sintattici. In accordo con
tale ipotesi, al fine di isolare classi omogenee, sono prese in esame, per ogni sin-
golo Verbo, le alternanze argomentali, vale a dire la gamma di configurazioni sin-
tattiche e/o argomentali che esso può presentare. Le configurazioni considerate in
questa sede sono le seguenti:

I. TR
II. INTR AV
III. INTR ES
IV. INTR PRON
CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 253

Tali configurazioni danno luogo a 15 possibili ‘pattern’ di alternanze che rias-


sumiamo nella Tab. I, dove forniamo un esempio per ogni combinazione (cfr. (2)).
A nostro avviso, i 15 pattern isolati possono essere considerati 15 differenti clas-
si di Verbi distinti in base al comportamento sintattico.

Tabella 1
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(2) abolire TR ‘il governo ha abolito la pena di morte’


INTR AV *‘il governo ha abolito’
INTR ES *‘il governo è abolito’
INTR PRON *‘il governo si è abolito’

3. L’INTERFACCIA TRA SINTASSI E SEMANTICA

La griglia di classi presentata nella Tab. I costituisce il punto di partenza per


l’indagine semantica. Come anticipato in 1., punto 2), ci interessa infatti verificare
se sia possibile individuare la presenza di precise correlazioni tra le proprietà
semantiche dei V da un lato e i loro comportamenti sintattici dall’altro.
Il corpus da noi considerato è costituito dall’intero lessico verbale della lin-
gua italiana contemporanea. L’interrogazione elettronica di una banca dati dell’i-
taliano redatta presso l’Università di Amsterdam3 ci ha permesso di ricavare una

3 Ringraziamo al proposito Vincenzo Lo Cascio, coordinatore del progetto, per aver con-
254 ELISABETTA JEZEK

lista di elementi lessicali per ognuna delle classi in esame. Lo spoglio di tali liste
ha costituito la base dell’analisi.
In questa sede ci limitiamo a presentare il commento di un ‘segmento’ della
classificazione proposta, quello che comprende le classi da 2 a 7 della Tab I (per
un totale di 7 classi), corrispondenti ai V SOLO INTRANSITIVI, verbi cioè che non
presentano mai una forma transitiva ma che possono presentare una o più forme
INTR. Si tratta dei verbi che potremmo definire Intransitivi ‘puri’.
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3.1. Classi di V SOLO INTRANSITIVI


Com’è noto, la tradizione grammaticale (cfr. tra i molti il contributo di Salvi
in Renzi 1988) distingue per l’italiano tre classi principali di V Intransitivi4 in
base a due criteri di tipo formale, vale a dire:

a) ausiliare selezionato nei tempi composti (essere o avere);


b) presenza o assenza della marca pronominale nella coniugazione ([+si]/[-si]).

Le classi individuate in base a tali criteri e le relazioni che esse intrattengono


sono schematizzate nella Fig. 1.

Figura 1

La classificazione proposta nella Tab. I ha però evidenziato come in realtà le


tre categorie intransitive della Fig. 1. sono realizzate da sette classi di Verbi.
Accanto alle tre classi principali rappresentate dagli esempi in (3):

sentito la consultazione della banca dati a scopo di ricerca.


CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 255

(3) INTR AV INTR ES INTR PRON

russare ‘Paolo ha russato’ * *


cadere * ‘Gianni è caduto’ *
infortunarsi * * ‘Luca si è infortunato’

sono infatti presenti altre quattro classi, costituite da V INTR che alternano tra
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più forme INTR (cfr. (4)):

(4) INTR AV INTR ES INTR PRON

squillare ‘ha squillato ‘è squillato


il telefono’ il telefono’ *
ammuffire * ‘il muro ‘il muro si
è ammuffito’ è ammuffito’
familiarizzare ‘ha familiarizzato ‘si è subito
con tutti’ * familiarizzato’
sedimentare ‘il vino ha ‘il vino ‘il vino si è
sedimentato’ è sedimentato’ sedimentato’

Data la presenza di queste sette classi, da un punto di vista teorico, è interes-


sante chiedersi se la distribuzione dei V in una classe piuttosto che in un’altra sia
condizionata o nell’ipotesi più forte determinata da uno o più criteri di tipo
semantico.
A prima vista, le classi appaiono semanticamente molto variegate al loro
interno. Appare difficile isolare un tratto comune ai membri di ogni classe. Non
solo: vi sono V con semantiche affini che mostrano una diversa distribuzione
rispetto alle categorie considerate. Si veda l’esempio in (5):

(5) INTR AV INTR ES

scoppiare * ‘il palloncino è scoppiato’


scoppiettare ‘la legna ha scoppiettato’ *

Pur tuttavia, la letteratura sull’argomento ha proposto un importante criterio


semantico astratto, apparentemente in grado di rendere conto dei diversi compor-
tamenti sintattici dei V INTR italiani: si tratta della nozione di Agentività. Secondo
un’ipotesi corrente5, fondata sulla considerazione che l’ausiliare avere rappresen-
ta nell’italiano l’ausiliare di voce attiva (ho amato) e essere l’ausiliare di voce pas-
siva (sono amato), i V INTR AV tenderebbero a esprimere eventi il cui Sogg. è

4 Non consideriamo in questa sede l’importante letteratura sull’argomento prodotta nel-


l’ambito dell’ipotesi inaccusativa, avendola ampiamente trattata in Jezek 2000a, al quale riman-
256 ELISABETTA JEZEK

Agente; i V INTR ES, siano essi semplici o pronominali, tenderebbero invece a


esprimere eventi il cui Sogg. è Paziente, Tema o Esperiente, e in ogni caso non è
Agente. Cfr. (6):

(6) INTR AV camminare ‘ho camminato’ [+Ag]


INTR ES cadere ‘sono caduto’ [-Ag]
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Nelle sezioni che seguono, ci proponiamo pertanto di partire da tale ipotesi e


verificare se essa sia plausibile e sufficiente per rendere conto di tutti o, quanto-
meno, di una buona parte dei comportamenti verbali evidenziati dalla griglia nella
Tab. I. Per facilitare la progressione, la trattazione è articolata lungo le due oppo-
sizioni principali presenti in italiano nell’ambito dell’Intransività, quella tra V
INTR AV e V INTR ES da un lato, e tra V INTR ES [-SI] e V INTR ES [+SI] dall’altro (si
veda al proposito la Fig. 1).

3.2. Criteri semantici per l’opposizione tra V INTR AV e V INTR ES

3.2.1. L’Agentività

L’ipotesi presentata in 3.2, secondo la quale i V INTR AV tenderebbero a espri-


mere eventi il cui Sogg. è [+Ag], laddove i V INTR ES esprimerebbero preferibil-
mente eventi il cui Sogg. è [-Ag] pare confermata da casi quali i seguenti:

(7) chiacchierare ‘ha chiacchierato tutta la sera’ [+Ag]


evaporare ‘l’acqua è evaporata’ [-Ag]
impaperarsi ‘parlando, si è impaperato’ [-Ag]

Vi sono inoltre casi di V INTR che ammettono entrambi gli ausiliari secondo
una distribuzione che conferma nuovamente l’ipotesi:

(12) abortire ‘Luisa ha abortito’ [+Ag]


‘Il progetto è abortito’ [-Ag]

D’altra parte, se è vero che i casi sopracitati confermano l’ipotesi presentata,


ve ne sono però molti altri che la smentiscono. Tra questi, emerge il caso dei
numerosi V di moto che selezionano l’ausiliare essere ma il cui Sogg. è Agentivo:

(13) tornare ‘è tornato a notte fonda’ [+Ag]

È presente inoltre anche il caso contrario, quello cioè dei V INTR AV che pre-
sentano un Sogg. [-Agentivo], sia esso animato o non animato:
CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 257

(14) tremare ‘abbiamo tremato dal freddo [-Ag][+um]


per tutta la sera’

Vi sono infine casi di V INTR che possono presentare entrambi gli ausiliari,
senza che questo comporti una percepibile differenza relativamente al grado di
Agentività del Sogg. (diversi quindi da abortire in (12)):
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(15) squillare ‘il telefono ha squillato’


‘è squillato il telefono’

Riassumendo, sulla base dei dati discussi, ci sembra di poter affermare che
l’Agentività appare un parametro rilevante ma non sufficiente per rendere conto
della distribuzione dell’ausiliare negli usi intransitivi dell’italiano.

3.2.2. La telicità

Altro criterio utile, per rendere conto dei diversi comportamenti intransitivi
sembra essere un parametro di tipo aspettuale, e, nello specifico, il tratto della teli-
cità6. È stato notato infatti come i V INTR ES esprimano soprattutto eventi [+tel],
laddove i V INTR AV tendono piuttosto ad esprimere eventi [-tel]. Cfr. in (16) i V
ripresi da (3):

(16) russare ‘ha russato per ore’ [-tel]


cadere ‘è caduto dal letto *per ore’ [+tel]

L’ipotesi secondo la quale la distinzione tra V INTR AV e V INTR ES riflettereb-


be una distinzione di tipo aspettuale7 pare confermata da molti dei dati da noi con-
siderati. Inoltre, essa sembra in grado di gettare luce:

1) sul motivo per cui tra i V di moto Agentivi, alcuni selezionano l’ausiliare
avere, altri l’ausiliare essere. Cfr. (13):
(13) a. correre ‘ha corso nel parco per ore’ [+Ag] [-tel]
b. tornare ‘è tornato a casa *per ore8’ [+Ag] [+tel]

diamo per la discussione dei fenomeni indagati in tale quadro teorico. Precisiamo però che nel
contributo citato abbiamo mostrato come i V INTR ES [+SI] costituiscano una sottoclasse dei verbi
inaccusativi e come l’italiano possieda un tipo di verbi inergativi (russare), e due tipi di verbi
inaccusativi, i V INACC [-si] (cadere) e i V INACC [+si] (infortunarsi).
258 ELISABETTA JEZEK

In (13) dati due eventi [+Ag], a. esprime un evento [-tel] e presenta l’ausilia-
re AVERE; b. esprime un evento [+tel] e presenta l’ausiliare ESSERE.

2) sul motivo per cui alcuni V di moto ammettono entrambi gli ausiliari: si
veda nuovamente il caso di correre in (14):
(14) correre a. ‘ha corso nel parco per un’ora/ [+Ag] [-tel]
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*in un’ora’
b. ‘è corso a casa *per un’ora/ [+Ag] [+tel]
in un’ora’

In (14) descrive un evento [-tel] e presenta l’ausiliare AVERE; b. esprime un


evento [+tel] e presenta l’ausiliare ESSERE.
Si noti il fatto che nel caso di correre in (14) la telicità non è lessicale ma
composizionale: essa è cioè specificata dalla natura dell’avverbiale (imperfettivo
vs. perfettivo).
Riassumendo l’analisi condotta a partire dalla griglia delle realizzazioni sintattiche
mancate mostra come sia presumibile supporre che i parametri sottostanti ai diversi
comportamenti intransitivi dell’italiano siano (almeno) due, specificatamente
l’Agentività e la Telicità, e che essi interagiscano secondo lo schema riportato nella
Fig. 2 9:

Figura 2

3.2.3. Eventi sottostanti ai V INTR AV e INTR ES

Sulla base dei dati emersi dall’analisi, è plausibile supporre che INTR AV e INTR
ES esprimano due diversi tipi di evento, e che tali eventi possano essere rappre-
sentati come riportato in (15), dove utilizziamo, adattandolo, un formalismo ripre-
so da Pustejovsky 1995, volto a evidenziarne la struttura interna:

5 Si vedano le osservazioni al proposito in Fornaciari 1974:156 ss. e Serianni 1988:331 ss..


CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 259
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dove P = Processo; S = Stato; T = Transizione; e1, e2 = subeventi; < = ordi-


nato nel tempo in modo che e1 preceda e2; * testa dell’evento (focus dell’inter-
pretazione), () opzionalità. Secondo tale rappresentazione, 15 a. descrive un
Processo, composto da un numero illimitato di subeventi, che costituiscono delle
fasi uguali, vere in ogni istante. 15 b., invece, esprime un evento puntuale, e spe-
cificatamente una Transizione, costituita da un subevento che precede uno Stato e
da un subevento che lo introduce.

3.3. Criteri semantici per l’opposizione tra INTR ES [+SI] e INTR ES [-SI]

3.3.1. La focalizzazione sul risultato

Abbiamo analizzato in 3.2 l’opposizione tra V INTR AV e V INTR ES, e mostra-


to come la considerazione congiunta di due criteri, l’uno propriamente semantico
(Agentività), l’altro aspettuale (Telicità) permetta di rintracciare alcune ‘regola-
rità’ nella distribuzione dei V in una delle due categorie. Concentriamo ora l’at-
tenzione sulla seconda importante opposizione, presente in italiano nell’ambito
dell’Intransività, vale a dire quella tra i V [-si] da un lato (scivolare) e i V [+si] dal-
l’altro (infortunarsi). Si vedano gli esempi in (16):

(16) INTR ES INTR PRON


a. scivolare ‘Paolo è scivolato’ *
b. infortunarsi * ‘Paolo si è infortunato’

Secondo l’ipotesi avanzata in 3.2, entrambi i V, in quanto INTR ES, tendono a


esprimere eventi telici, e per tale caratteristica, oltre che per altre, distinguono dai
V INTR AV (correre), che tendono a esprimere eventi atelici.
Da un punto di vista teorico, nonostante gli innumerevoli studi dedicati all’ar-
gomento, non è però chiaro per quale ragione la marca pronominale sia esclusa in
(16a), richiesta in (16b), e quale sia il suo contributo all’interpretazione.
260 ELISABETTA JEZEK

Secondo quanto da noi osservato nell’analisi, e in accordo con quanto soste-


nuto in Lo Cascio & Jezek 1999, avanziamo qui l’ipotesi che la distribuzione del
si negli usi intransitivi segua un criterio di tipo aspettuale e in particolare sia sen-
sibile al tipo di cambiamento espresso dal V. Secondo l’ipotesi che suggeriamo, il
si sarebbe presente/richiesto nel caso di V che esprimono eventi focalizzati sul
risultato del cambiamento, che spesso coincide con il raggiungimento di un nuovo
stato da parte dell’oggetto. Si vedano gli esempi in (17):
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(17) [+tel] [+risult]: ‘Paolo si è infortunato’


‘il vetro si è appannato’
‘il cielo si è rannuvolato’.

Il si sarebbe invece assente/escluso nel caso di V che esprimono eventi che


focalizzano sull’avvenimento in sé, piuttosto che sul cambiamento di stato. Si
vedano gli esempi in (18):

(18) [+tel] [-risult]: ‘Paolo è scivolato’


‘la macchia è sparita’
‘il temporale è scoppiato’.

Tale ipotesi, emersa dall’analisi comparata delle liste di V INTR ES [+SI] con le
liste di V INTR ES [-SI], sembra supportata da vari test che abbiamo effettuato. Ne
presentiamo brevemente tre:

Test 1.
Cosa è successo a x? [-si] ‘Paolo è scivolato’
‘la macchia è sparita’
[+si] ‘Paolo si è infortunato’
‘il vetro si è appannato’

Il primo test mostra come sia i V INTR ES [-SI], sia i V INTR ES [+SI] risponda-
no positivamente alla domanda ‘cosa è successo a x’, il che permette di afferma-
re che esprimano entrambi un evento telico.

Test 2.
Cosa hai notato? [-si] *ho notato un uomo scivolato
*ho notato una macchia sparita
[+si] ‘ho notato un uomo infortunato’
‘ho notato un vetro appannato’

Il secondo test mostra come solo i participi passati dei V INTR ES [+SI] sem-
brano poter svolgere una funzione aggettivale e indicare il nuovo stato raggiunto
CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 261

dall’oggetto dopo il compimento dell’evento, laddove questo non sembra accade-


re nel caso dei participi passati dei V INTR ES [-SI].

Test 3.
Rimanere + stato [-si] *Paolo è rimasto scivolato
*la macchia è rimasta sparita
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[+si] ‘Paolo è rimasto infortunato’


‘il vetro è rimasto appannato’

Il terzo e ultimo test mostra come apparentemente soltanto i participi passati


dei V INTR ES [+SI] sembrano poter predicare un nuovo stato che permane.

3.3.2. Eventi sottostanti alle costruzioni con V INTR ES [-SI] e V INTR ES [+SI]

Sulla base dei risultati dei test in 3.3.1, ci sembra plausibile supporre che i V
INTR ES [-SI] e V INTR ES [+SI] esprimano due diversi tipi di evento, di cui propo-
niamo una rappresentazione che ne evidenzia la struttura interna in (19):

dove C = Culmine. Secondo la rappresentazione in (19), il si costituirebbe


una marca che focalizza su una specifica fase della struttura (sub)eventiva, cioè S.
Laddove i V INTR ES [-SI] e V INTR ES [+SI] in italiano predicherebbero entrambi un
cambiamento nello ‘stato di cose’ che precede l’evento, in presenza del si, il focus
dell’interpretazione sarebbe sul risultato del cambiamento; in assenza del si, il
focus dell’interpretazione sarebbe sull’avvenimento in sé come ‘qualcosa che
accade nel mondo’, indipendentemente dal raggiungimento o meno di un nuovo
stato da parte dell’oggetto. Si noti che tale ipotesi trova supporto in recenti studi
su altre lingue che presentano il fenomeno, quali ad esempio lo spagnolo (cfr. de
Miguel & Fernández Lagunilla 2001).
A nostro avviso, tale ipotesi si sposa bene con l’ipotesi che la marca prono-
minale costituisca negli usi non riflessivi un residuo di ‘medialità’, ipotesi basata
sul parametro dell’‘affectedness’ (coinvolgimento del Soggetto), proposta tra i
molti in Wehr 1995. Considerato in questa prospettiva, il cambiamento che porta
262 ELISABETTA JEZEK

al raggiungimento di un nuovo stato costituisce di fatto il più alto grado di ‘affec-


tedness’ possibile.
In realtà, come è immediato supporre, le variabili in gioco nella distribuzione
del si negli usi intransitivi dell’italiano sono molte più di quelle discusse in que-
sta sede10. Ciò nonostante, alla luce dell’indagine svolta, l’ipotesi che la sua distri-
buzione sia correlata a criteri aspettuali appare percorribile e a nostro avviso ricca
di implicazioni per una teoria e tipologia degli eventi e delle loro configurazioni
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interne.

4. CONCLUSIONI

La ricerca svolta secondo la metodologia delle realizzazioni sintattiche ‘man-


cate’ ha permesso di individuare alcune correlazioni tra proprietà della forma e
proprietà del significato. In particolare essa ha permesso di notare come alcune
proprietà aspettuali (telicità, atelicità, risultatività) ‘emergano’ nella sintassi ver-
bale degli usi intransitivi, e condizionano il tipo di alternanza argomentale che un
V può presentare.
Tali correlazioni costituiscono elementi importanti per la costruzione di un
modello della struttura del lessico e per la riflessione relativa all’interazione tra i
vari componenti della grammatica (in particolare tra Sintassi e Aspetto).

5. PROSPETTIVE DI RICERCA

È auspicabile un ampliamento del numero dei tratti sintattici considerati, al


fine di individuare classi di verbi sempre più ‘fini’ anche dal punto di vista seman-
tico.

Sul tema della selezione dell’ausiliare si veda il contributo di Centineo 1986.


CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 263

6 Si intenda per telicità la proprietà di un evento che implica il raggiungimento di un punto


terminale (Cfr. Verkuyl 1989).
7 L’ipotesi aspettuale è avanzata nel quadro dell’ipotesi inaccusativa tra gli altri in van Valin
1990, Levin & Rappaport 1995, e recentemente discussa in Arad 1998. Si veda inoltre il contributo
di Chierchia 1992, dove è notato come i verbi inaccusativi tendano a non esprimere delle Attività.
8 Si noti la grammaticalità di ‘è tornato a casa per un’ora, poi è ripartito’, laddove ‘per un’o-
ra’ fa però presumibilmente riferimento allo stato risultatnte dell’‘essere a casa’ e non all’azio-
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ne del ‘tornare’.
MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI
(Université de la Sorbonne Nouvelle-Paris III)

Verbes syntagmatiques, représentations mentales


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Cette étude correspond à un interrogation déjà ancienne sur les relations entre
les verbes de type andar via et les verbes du type andarsene appelés plus tradi-
tionnellement verbes pronominaux. Nous classerons les deux types dans un même
ensemble «les verbes syntagmatiques», reprenant en cela la classification globale
et l’analyse de Raffaele Simone (1997)1. La démarche s’inscrit dans une perspec-
tive de recherche visant à mieux comprendre la co-existence et, sous une appa-
rente synonymie, les incertitudes et les variations, en mettant au centre de la
réflexion l’intervention de l’homme dans le savoir comme dans l’action, en intè-
grant l’aspect affectif et intersubjectif avec la réflexion sur le langage 2.

1. LE CONCEPT DE COMPONENTIALITÉ
La problématique envisagée renvoie au concept de componentialité, systématisé
comme instrument théorique d’investigation par les grammaires catégorielles3. Il s’a-
git pour les grammairiens d’abolir la division entre grammaire et lexique en proposant
la construction d’un réseau architectonique structuré par les propriétés formelles de
réflexivité, de symétrisation et de transivité4, une architecture à plusieurs niveaux de
représentation, entre phonie et sémantique, avec, comme plans intermédiaires, les
conditions de l’énonciation, la perception du milieu, les modalités d’action, les moda-
lités d’interférence, les représentations figuratives, visuelles, iconiques5.
«Les prédicats laissent apparaître des décompositions plus ou moins synthé-
tisées avec des jeux plus ou moins apparents de préfixes (dé-placer, en-dormir)
ou de constructions analytiques (se bouger, faire marcher)»6.

1 Simone Raffaele, 1997, “Esistono verbi sintagmatici in italiano?” in: De Mauro e Lo


Cascio (a cura di), 1997, Lessico e grammatica: teorie linguistiche e applicazioni lessicografi-
che, Atti del Convegno internazionale della Società di Linguistica italiana, Madrid, 21-25 Feb.
1995, Roma, Bulzoni, p. 155-170.
2 Vignaux Georges, 1988, Le discours acteur du monde. Enonciation, argumentation et
cognition, Paris-Gap, Ophrys.
3 Desclés Jean-Pierre, 1996, «Appartenance/inclusion, localisation, ingrédience et posses-
sion» in Faits de langue, n° 7, Paris-Gap, Ophrys, p. 91-100.
4 Desclés Jean-Pierre, 1990, Langages applicatifs, langues naturelles et cognition, Paris,
Hermès, p. 73-106.
5 Id., ibid., p. 292.
6 Id., 1990, “Langues, cognition et modalisation mathématique”, B. S. L. P., Paris-Louvain,
Peeters.
266 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI

La grammaire catégorielle s’inscrit dans une démarche qui prend son origine
dans les recherches de philosophie logique de Husserl, lui-même héritier de
Bolzano et de Brentano, dont il analyse, élucide et retravaille les concepts pour
préserver et réaffirmer la liberté constitutive de la conscience dans le rapport à la
connaissance:
«Les catégories logiques forment précisément la source de toute science en
tant que telle, donc de toute science selon sa forme théorique.
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Si nous identifions la différence entre raison et pensée rationnelle avec celle


entre pensée logique et pensée illogique, l’idée de la raison en tant que logos est
entièrement définie par l’ensemble complet des catégories purement logiques et
des lois catégoriales primitives qui leur appartiennent, des axiomes logiques au
sens authentique»7.
«Nous partirons de la classification, allant de soi à première vue, des signifi-
cations en significations simples et significations composées. Elle correspond à la
distinction grammaticale entre expressions ou locutions simples et expressions
composées. Une expression composée n’est une expression que pour autant qu’el-
le a une signification; en tant qu’expression composée, elle se compose de parties
qui sont elles-mêmes à leur tour des expressions, et qui, comme telles, ont à leur
tour leurs significations propres. Quand par exemple nous lisons un homme de fer,
un roi qui gagne l’amour de ses sujets, etc., homme, fer, roi, amour, etc., s’impo-
sent à nous comme expressions partielles ou comme significations partielles»8.
Les expressions simples sont autonomes, car pourvues de sens, ce sont des
représentations nominales et des expressions catégorématiques de jugement. Les
expressions composées n’ont pas un sens complet mais leur sens n’est manifesté
que conjointement avec d’autres parties du discours, soit qu’ils aident à évoquer
un concept, étant ainsi simple partie d’un syntagme nominal, soit qu’ils contri-
buent à l’expression d’un jugement ou à la manifestation d’un mouvement affec-
tif ou volitif (dans une formule pétitive, impérative, etc.):
« Nulle signification syntocatégorématique, c’est-à-dire nul acte d’intention
dépendante, ne peut assumer de fonction de connaissance, sinon dans le contexte
d’une signification catégorématique»9.
«De là découle la tâche importante également fondamentale pour la logique
et pour la grammaire, de mettre en évidence cette organisation à priori, qui s’é-
tend à tout domaine des significations et d’explorer dans une morphologie des
significations»10.

7 Husserl Ernest, 1998, Introduction à la logique et à la théorie de la connaissance (1906-


1907), Paris, Vrin, p. 141.
8 Husserl, Recherches logiques, t.2, 2ème partie, IV, p. 86-87.
9 Id., Ibid., p. 108.
10 Id., Ibid., p. 115.
VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 267

Les grammaires catégorielles analysent les relations qui expriment les particu-
larités syntaxiques des langues naturelles en leur affectant un ordre défini par des
lettres. Dans la présentation qu’en donne Jean-Pierre Desclés, la relation (g) traduit
la réduction applicative de «gauche à droite», tandis que l’autre, la relation (h), cor-
respond au modèle RAISING ou LIFTING. Nous reconaissons dans la relation (g) les
verbes du type andar via, dans la relation (h) les verbes du type andarsene.
Les archétypes topologiques de position sont le plus souvent mis en jeu dans
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les verbes syntagmatiques. Un lieu (conceptualiser comme un ensemble de posi-


tions, chaque position est assimilée à un point) est visualisé soit dans son intério-
rité seulement, soit dans son extériorité (en excluant alors son intériorité et ses
frontières), soit encore dans sa globalité (en y incluant les limites qui enferment
son intériorité. Un opérateur topologique aura, ici, pour opérande un lieu. Il déter-
minera un autre lieu visualisé selon une des modalités topologiques précédentes,
c’est-à-dire selon la polarité intériorité / extériorité.
L’analyse distingue quatre archétypes statiques de position par rapport à un
lieu:
In, ex, Fr (ontière), fe (rmeture)
De cette analyse topologique, se déduit une transposition dans le domaine
temporel dont résultent les notions aspectuelles d’état, de processus et d’évène-
ment 11.
L’aboutissement de cette recherche repose sur l’application aux exemples
évoqués, verbes syntagmatiques et verbes pronominaux, de ces éléments d’analy-
se, avec la relation avec les situations cinématiques et dynamique, les situations
cinématiques décrivant des mouvements dans un référentiel spatio-temporel
andar via, ou des changements d’état attribués à un objet, venir su «grandir»,
venir meno «s’évanouir».

Tout énoncé peut être analysé selon une visualisation des composantes essen-
tielles d ’un événement que définit le schéma analytique tracé par Bernard Pottier
sous l’inspiration de la théorie des catastrophes de René Thom:
«Une entité existe dans le temps et l’espace. Le point d’existence se déplace
dans le temps et l’espace, et devient une ligne, orientée délibérément de gauche à
droite. L’entité peut également entrer en relation avec le monde objectif, c’est la
localisation, et avec le monde subjectif, c’est le domaine de la cognitivité (des
sensations, de l’intellection, de la modalisation)»12.

11 Desclés J.P., 1979, «Représentations formelles de quelques déictiques français», in Lin-


guaggi e formalizzazioni, Roma, Bulzoni, p. 491-528.
12 Pottier Bernard, 1992, Sémantique générale, Paris, P.U.F., p. 95.
268 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI

Schema
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2. LES VERBES SYNTAGMATIQUES


La problématique des verbes syntagmatiques italiens a fait l’objet d’un exposé
approfondi de la part de Raffaele Simone, au Congrès interannuel de la S.L.I., à
Madrid, en 1995 13. Incluant dans cette catégorie des verbes «syntagmatiques» la
sous-catégorie des verbes appelés plus traditionnellement «verbes pronominaux»,
l’auteur s’attache à l’examen des formes du premier type, les constructions prédica-
tives des verbes dits «syntagmatiques», les verbes du type andar dietro pour seguire,
far fuori pour eliminare, etc. Raffaele Simone remarque que ces verbes sont sous-éva-
lués dans les dictionnaires et dans les lexiques, et même dans le Lessico dell’Italiano
parlato (L.I.P., 1993). Pourtant, tout en étant moins nombreux en italien que les phra-
sal verbs des langues anglo-saxonnes, ils assument une fonction importante par leur
récurrence dans l’énonciation, dans l’usage réel de la parole où leur fréquence cons-
titue une originalité de la langue italienne par rapport aux autres langues romanes.
Cette étude extrêmement riche et nuancée vise donner un nouveau statut à ce type de
verbes dans la description de la langue italienne. Les dictionnaires adoptent un point
de vue classificatoire qui tend à considérer les constructions verbales comme des cas
particuliers des verbes, or beaucoup d’entre eux ne sauraient être considérés comme
des cas particuliers des verbes pris en considération. Le projet de l’auteur se situe à
un niveau théorique, puisqu’il vise à renouveler le classement traditionnel en parties
du discours, rejoignant des avancées théoriques de Miriam Voghera (1994). Cette
approche permet de donner aux constructions à plusieurs éléments le même statut
qu’aux entités mono rhématiques, composées de d’un seul mot.
Le tableau, que l’auteur estime complet à quelques dizaines de verbes syn-
tagmatiques près, présente 133 verbes syntagmatiques, résultant de la combinai-
son entre 31 verbes courants et 17 affixes.

13 Simone Raffaele, op. cit.


VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 269

Tableau des verbes syntagmatiques


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Ces verbes forment une sous-classe, homogène par le comportement séman-


tique, syntaxique et phonologique, appartenant à la catégorie des mots appelés
parole polirematiche, définis comme formés par une tête verbale et un «complé-
ment» qui est une particule adverbiale. Les deux éléments sont unis si étroitement
qu’il n’est pas possible de faire coïncider le VS entier avec une seule de ses par-
ties.
A partir d’une comparaison entre les versions écrites et orales de quelques
narrations, Simone avance prudemment l’hypothèse selon laquelle la substitution
aux verbes notionnels des constructions V + ADV. convient mieux aux exigences
de la langue parlée. Précédemment, dans le développement de l’étude, exemples
vénitiens à l’appui, il évoque sans l’assumer véritablement, l’hypothèse diachro-
nique qui attribue la généralisation de ces tournures en italien à l’influence des
dialectes septentrionaux, ce qui permettrait de réévaluer l’importance de la sou-
che toscane dans la langue italienne. Il y a une trentaine d’années, dans une per-
spective de vulgarisation, Mioni invoquait l’insécurité langagière provoquée dans
la langue italienne par l’existence de nombreux allotropes accentuels: tirar su per-
met d’éviter l’hésitation entre deux formes accentuées de elevo: «tra élevo ed
270 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI

elèvo, io scelgo tiro su 14. En fait, il n’y a pas véritablement coïncidence séman-
tique entre elevare e tirar su. Tirar su signifie, dans certains contextes, allevare (i
figli) «élever (les enfants)», et comporte une dimension concrète, métaphorique,
expressive de l’effort, qui est absente dans le verbe notionnel.
Les verbes de ce type peuvent être classés selon la nature de leur valeur
sémantique qui coïncide parfois avec la valeur du verbe-tête ou, si le verbe tête est
très polysémique, avec la significations de l’affixe. Elle peut aussi correspondre à
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une valeur prévisible d’après la signification du verbe-tête. Elle peut enfin être
totalement imprévisible. Le verbe peut appartenir à l’une ou l’autre de ces trois
catégories, ou même appartenir à deux, voire à trois.
Dans la 1ère catégorie, la valeur expressive, emphatisante de l’expansion via
est bien illustrée dans le verbe scappare via, Le corse connaît le verbe scappà,
avec le même sens, «s’enfuir», ainsi qu’un substantif composé, u scappa via qui
désigne un attelage élégant destiné à être utilisé par une seule personne,.
Quelques verbes peuvent être rattachés aux trois catégories:

1. far fuori (mot-à-mot «faire dehors» =


– «sortir (qqun ou qque ch.)»,
– «éliminer»
– «tuer», «buter»
2. mettere dentro (mot-à-mot «mettre dedans»)
– tuffare «mettre à l’intérieur»)
– incarcerare «emprisonner»
– «attaquer violemment (qqun)» au sens propre et au sens figuré, en
français parlé «rentrer dedans»

En règle générale, dans la 1ère catégorie, l’adjonction des particules adverbiales


via, fuori, dentro, su, giù, etc., peut renforcer la dimension de mouvement si celle-
ci existe déjà dans le verbe et elle est dans ce cas redondante: uscire fuori, scende-
re giù, salire su, etc. Mais cette adjonction peut aussi ajouter une marque de mou-
vement à une variété de verbes qui, dans la forme absolue, n’ont pas cette dimen-
sion: lavare via «laver (pour enlever)», raschiare via «râcler (pour enlever)».
Une comparaison entre l’italien et le français fait effectivement apparaître
combien ces constructions sont beaucoup plus courantes dans la première langue
que dans la seconde. Le français parlé emploie couramment des constructions du
type «sortir dehors», «monter en haut», «descendre en bas», considérées comme
négligées pour une conception normative du fonctionnement langagier, car le
verbe français «monter» est censé suffire à exprimer le mouvement vers le haut,
le verbe «descendre» exprime déjà en soi le mouvement vers le bas, etc. Mais le

14 Mioni Alberto, “Tra “èlevo” ed “elèvo”, io scelgo “tiro sù” “in Rinascita.
VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 271

verbe «monter», employé transitivement, a d’autres significations, ainsi «mettre


en place une pièce de théâtre», etc.
En italien, les formes adverbiales su et giù sont employés pour désigner le mouve-
ment d’aller et retour d’un point à un autre, dans une métaphore de verticalité courante
aussi bien en français. Les expressions italiennes andar su e giù, fare su e giù ont com-
me équivalent français «faire le va-et-vient», «faire la navette» (italien: fare la spola).
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(1) Non ce la faccio a fare su e giù per sei mesi, devo chiedere il sab-
batico»
«je ne réussirai pas à faire le va-et-vient pendant six mois, je dois
demander le congé sabbatique»

En règle générale, la langue française recourt moins à des verbes de ce type


qu’à des expressions métaphoriques. En français contemporain, il existe une
expression familière venue des banlieues qui s’est généralisée dans les médias:
tenir les murs signifie «ne rien faire» dans l’évocation précise des jeunes gens,
chômeurs, désœuvrés, qui passent leur journée debout, appuyés aux murs des
immeubles populaires. Goudailler signale d’ailleurs une autre expression qui ne
s’est pas généralisée: «tenir l’immeuble»15.
Nous pouvons citer quelques verbes syntagmatiques français:

3. courir après qqun au sens de «courtiser qqun», «essayer d’attirer


l’attention d’une j.f. ou d’un j.h.»
4. (lui) rentrer dedans pour «(le) critiquer violemment » (on, dit aussi
«lui rentrer dans le lard», «lui rentrer dans le chou», etc.)
5. se mettre dedans ou se planter, «se tromper»
6. faire marcher qqun «se moquer de qqun», etc.
7. faire marcher (un plat), au restaurant = «mettre en route la cuisson
d’un plat)»
8. se faire avoir ou se faire rouler = «être victime d’une escroquerie,
d’un piège»
9. le prendre de haut = « réagir de manière hautaine»,

3. LES CONSTRUCTIONS AVEC NE


La particule ne apparaît comme clitique dans des cas très différents et pré-
sente des problèmes qui se situent à des degrés divers de complexité mais ne

15 Goudailler Jean-Pierre, 2001, Comment tu tchates!, Paris, Maisonneuve & Larose.


272 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI

sont pas sans rapport avec ceux précédemment évoqués. L’emploi de cette forme
correspond au processus de RAISING, mais comporte aussi la simplification
puisque elle évite la répétition d’un syntagme nominal ou d’un proposition (PRU-
NING).
Dans les cas les plus fréquent, ne a une valeur pronominale anaphorique ou
cataphorique:
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Le référent est +/- numérable:

(2) Bambini, quanto ne ce ne sono nella macchina?


«Des enfants, il y en a combien dans la voiture?»
(2 bis) Ce ne sono quanti, bambini nella macchia?
«Il y en a combien, d’enfants, dans la voiture?»
(3) Io che sono astemio, mi sono bevuto due bicchierini, lui ne ha bevu-
to tre
«Moi qui suis sobre, j’ai bu deux verres, lui, il en a bu trois»
(3 bis) Lui ne ha bevuto tre, bicchierini, io che sono astemio me ne
sono bevuto due.

Ainsi dans les locutions idiomatiques où ne se rapporte aux jours du mois:

(4) Quanti ne abbiamo oggi??


«Quel jour sommes nous aujourd’hui?»

Dans certaines constructions, avec des verbes diciendi, sentendi, le clitique ne


apparaît sans qu’il y ait expression d’un référent. Celui-ci peut être défini par
hypothèse sur la base du contexte ou de la situation:

(5) Ne hai dette troppe


«Tu en as trop dit»
(6) Adesso ne ho abbastanza
«Maintenant, j’en ai assez!»

Pour certains verbes entrant dans la constitution de locutions de type adver-


bial, verbes de mouvement ou verbes d’état, le pronom clitique ne apparaît
comme pour indiquer le lieu ou l’état dans lequel on se trouve, celui dont on part.

(7) Maria se ne sta a casa malinconica


«Marie est à la maison toute mélancolique»
VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 273

Dans l’étude très précise consacrée à ce problème, Patrizia Cordin met sur le
même plan le lieu de départ et le lieu vers lequel on tend16.

(8) Gianni se ne va a Roma


«Gianni s’en va à Rome»

Il n’est pas sûr que la forme ne soit cataphorique et substitut du syntagme


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nominal a Roma. Au lieu d’une valeur de complément de lieu (ici la destination)


il peut s’agir d’une valeur emphatisante du sujet, qui souligne son identité dans le
déplacement. C’est l’hypohèse avancée par Jean Stefanini dans sa thèse sur la
voix pronominale en ancien français. Dans cette langue, la forme en n’avait pas
ou n’avait plus de valeur locative et l’idée de départ n’apparaissait pas si le lieu
n’était pas indiqué17.
Le corse connaît une fréquence de la forme ne bien plus grande que l’italien
standard, notamment des emplois spécifiques dans l’indication d’un lieu de souf-
france ou d’un devenir interne:

(9) Ni sentu lu capu


«j’ai mal à la tête»
(10) Ni sentu lu denti
«J’ai mal aux dents»
(11) Si ni mori u missiavu
«Son grand-père se meurt»

Toujours en corse, nous avons relevé des emplois poétiques, ambigus, où ne


peut avoir une valeur cataphorique ou une valeur anaphorique renvoyant à un
mystérieux référent non exprimé.

(11)
Ni vidi spuntà lu soli
a livanti, alla marina
E pari ch’illu fighjoli
L’orriu li Culioli
Espostu su la collina 18

16 Cordin Patrizia, 1988, «Il clitico «ne», in Renzi Lorenzo, Salvi Giampaolo (a cura di),
Grande Grammatica italiana di consultazione, vol. I, I sintagmi nominali e preposizionali,
Bologna, Il Mulino.
17 Stefanini Jean, 1961, La voix pronominale en ancien français, Gap,, Ophrys, p. 405.
18 Giacomo-Marcellesi Mathée, 1989, Contra-Salvatica, Légendes et Contes du Sud de la
Corse, suivi des Chansons de Ghj. Andria Culioli, Aix-en-Provence, Edisud, p. 121.
274 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI

«Il voit poindre le soleil,


Au levant, à la marine,
Et on dirait qu’il regarde,
L’Orriu des Culioli,
Exposé sur la colline»

La particule pronominale ne apparaît deux fois, de manière significative, dans


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le corpus d’italien parlé constitué pat Emmanuela Cresti19.


Dans les exemples suivants, la mise en situation est la suivante: avec l’aide
d’une éducatrice, qui s’efforce de lui faire acquérir des automatismes, une petite
fille apprend à construire une tour en enfilant des anneaux de bois, i legnetti, sur
un mât, un palo:

(12) Disfiamo questa torre che hai fatta tu e ne facciamo un’altra? Ne


facciamo una alta alta alta?
«Nous défaisons cette tour que tu as faite et nous en faisons une
autre? Nous en faisons une très, très, haute?»
(13) È andato giù? uno alla volta/ infilane! Dai /su / prova tu // ecco!
ancora un altro e poi è finito//mamma mia che bella torre!
«Il est tombé? un à la fois! Enfiles-en! Allez! courage! essaie- toi-
même! Encore un autre et puis c’est fini! Quelle belle tour!»

En un autre partie du corpus, une éducatrice raconte l’histoire des sept che-
vreaux, La narrazione della storia dei 7 capretti

(11) // e allora /dice ciao ai suoi capretti / la mamma capra/ e se ne va


// «Alors, elle dit «ciao» à ses chevreaux, la maman chèvre, et elle
s’en va»

La fonction cognitive est définie en termes subjectifs par la grammaire


Battaglia et Pernicone:
«Talvolta, il particolare interessamento all’azione da parte dell’attante sog-
getto in verbi intransitivi si esprime con l’aggiunta della particella nominale
ne che richiede le forme me, te, se, invece di mi, ti, si, ecc. Es. Se ne andò»20.

Si la construction andarsene doit être comparée au plan de la subjectivité à


andar via, le témoignage des locuteurs interrogés d’un point de vue épilinguis-
tique est le suivant: la première expression exprime le sentiment d’une rupture, ici

19 Cresti Emanuela, 2000, Corpus di italiano parlato, 2 vol. vol. II, «Campioni,» Firenze,
Accademia della Cruca.
20 Battaglia e Pernicone, Grammatica italiana, Torino, Loescher, p. 179.
VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 275

la solitude des chevreaux, une fois la mère partie. Cette construction du type
andarsene «s’en aller», est donnée fréquemment comme exemple pour illustrer la
force de l’être humain, dans un univers où il n’a pas de place, pour s’en créer
une 21.

Cette construction soulève donc une problèmatique de l’ambiguité qui com-


plique singulièrement l’analyse syntaxique et sémantique. L’impossibilité de clas-
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ser de façon absolue les différents éléments des catégories grammaticales pré-
existantes naît du caractère discutable de l’interprétation en terme de complé-
ments d’objets directs ou compléments directs partitifs. En règle générale, la co-
référence du sujet et du verbe est la source de confusion des fonctions actanciel-
les, avec leurs problèmes d’indétermination, mais cette confusion peut être aussi
la source des effets sémantiques importants qui justifient, jusqu’à un certain point,
la tentative de définir une troisième voie, la voie réfléchie, entre voix active et voie
passive.

CONCLUSION

Incomplète est la démarche mais elle sera poursuivie pour essayer de répondre à
la question initiale. Les résultats obtenus peuvent paraître disproportionnés eu
égard à l’ambition des approches théoriques. Ils montrent cependant comment l’ê-
tre de parole s’efforce à l’infini de dépasser par l’expression la finitude de sa
condition.

21 Authier-Revuz Jacqueline, 1995, Ces mots qui ne vont pas de soi, Boucles réflexives et
non-coïncidences du dire, Paris, Larousse.
276 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI

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IGNAZIO MAURO MIRTO
(Università di Palermo)

Che fare? Analisi di costrutti di un verbo critico in italiano*


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1. INTRODUZIONE

Il verbo fare, certamente uno dei prototipi della categoria grammaticale del
verbo in italiano, è al centro di un formidabile intreccio di sintassi e semantica.
Esso è presente in un elevato numero di costrutti e può assumere una grande
varietà di significati, così come testimoniano le numerose pagine che ogni buon
dizionario dedica alla voce fare. Il presente lavoro ha come oggetto una modesta
ma significativa porzione di tale intreccio e prende come punto di partenza espres-
sioni come (1), la cui struttura superficiale può essere indicata come in (2), con
N0 a indicare il soggetto della proposizione e N1 a rappresentare il sintagma post-
verbale (in caso di ordine lineare non marcato)1:

(1) Nino fa il medico.


(2) N0 fare N1

In (1) coesistono almeno tre significati diversi: il primo riguarda il mestiere


di Nino, il secondo la parte che Nino recita in uno spettacolo e il terzo un atteg-
giamento di Nino. Gli esempi in (3a-c) rendono espliciti i tre casi:

(3) a. Di mestiere, Nino fa il medico.


b. In quel film, Nino fa il medico.
c. Quando qualcuno si ammala, Nino comincia a dare consigli.
Insomma, fa il medico2.

* Ringrazio Nunzio La Fauci e Silvia Pieroni per i loro commenti su una precedente stesu-
ra di questo lavoro. Una versione diversa è stata presentata al XIX International Colloquium on
Compared Lexicons and Grammars, tenuto a Ericeira, in Portogallo (18-20 settembre 2000). In
quell’occasione ho beneficiato di alcuni commenti di Michele Di Gioia e Claude Muller, che rin-
grazio vivamente, e di Maurice Gross, alla cui memoria dedico queste pagine.
1 È la notazione utilizzata nel quadro Lessico-grammatica (v. Gross 1975). Con il simbolo
N1 viene qui indicata o la testa del sintagma post-verbale oppure l’intero sintagma.
2 In questo significato, così come negli altri, è irrilevante che Nino sia un medico o meno.
278 IGNAZIO MAURO MIRTO

Ai tre significati corrispondono tre costrutti diversi. L’analisi trascurerà il


terzo di questi3 per concentrarsi sul confronto tra i primi due, esemplificati in (3a)
e (3b). Per facilitare l’esposizione, ci riferiremo al primo con l’etichetta COSTRUT-
TO-MESTIERE (CM) e al secondo con quella COSTRUTTO-SCENA (CS). Una parafra-
si di (3a), un caso di CM, sarà Nino esercita la professione di medico, mentre una
parafrasi di (3b), un caso di CS, sarà Nino interpreta la parte del medico e Nino
sarà un attore sul set di una ripresa cinematografica o televisiva oppure su un pal-
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coscenico teatrale. Ulteriori esempi si trovano in (4) e (5):

(4) In quella produzione, Sandro fa il costumista.


(5) In quella produzione, Sordi fa il vigile.

(4) e (5) hanno entrambe l’aspetto di proposizioni transitive e in esse fare assu-
me significati diversi. Si potrebbe sostenere che tali significati non dipendono da
strutture diverse, ma dalle conoscenze pragmatico-enciclopediche del parlante. Tali
conoscenze svolgono certamente un ruolo nella semantica di queste proposizioni.
Ad esempio, in (5) il significato attivato sarà quello legato al costrutto-scena se si è
a conoscenza del fatto che Sordi è un attore. Anche le conoscenze pragmatiche pos-
sono entrare in gioco, come si vedrà più avanti. Né le une né le altre, però, rendono
conto di una serie di proprietà presenti in CS, ma assenti in CM. Si tratta di prove
empiriche che testimoniano di differenze strutturali tra le proposizioni alla base dei
due significati e che esamineremo nella sezione che segue.

2. PROPRIETÀ EMPIRICHE

La ricerca di proprietà diverse per i due costrutti ci permette di distinguerli


strutturalmente. Alcuni test forniscono indicazioni di transitività per CS e di
intransitività per CM. Altri mostrano che CS è eventivo e che CM presenta carat-
teristiche di una proposizione stativa.

2.1. Nel costrutto-mestiere, il determinante del nome post-verbale può solo


essere l’articolo determinativo. Il costrutto-scena non presenta questa restrizione,
come mostrano le proposizioni (6) e (7) 4:

3 Un’analisi del costrutto francese parallelo a (3c), con N aggettivale o nominale, si può
1
trovare in Giry-Schneider 1984. Secondo quanto indicato in Yule (1997: 81), il costrutto è pos-
sibile anche in alcune varietà d’inglese: [John is] doing the nasty.
4 Le esemplificazioni del costrutto-scena saranno indicate ponendo ‘CS’ accanto al nume-
ro dell’esempio, quelle del costrutto-mestiere saranno invece indicate con ‘CM’. Allo scopo di
renderli più espliciti, in alcuni esempi è stato inserito un circostanziale.
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 279

(6/CS) In quella tragedia, Max fa il sicario.


(6/CM) Di mestiere, Max fa il sicario.
(7/CS) In quella tragedia, Max fa un sicario.
(7/CM) * Di mestiere, Max fa un sicario.
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2.2. La forma progressiva è consentita nel costrutto-scena, ma poco probabi-


le nel costrutto-mestiere, come mostrano gli esempi in (8):

(8/CS) A: Dov’era Max?


B: Stava facendo il sicario sul set del nuovo film.
(8/CM) ?? Di mestiere, Max stava facendo il sicario.

2.3. Nel costrutto-mestiere risulta improbabile anche l’uso di avverbi come spes-
so, che sono invece utilizzabili nel costrutto-scena, come si può osservare in (9):

(9/CS) Con quella compagnia teatrale, Max fa spesso il medico.


(9/CM) ?? Di mestiere, Max fa spesso il medico.

2.4. A differenza del costrutto-scena, il costrutto-mestiere può essere solo alla


forma attiva:

(10/CS) Nel Macbeth da chi era fatto il sicario?


(10/CM) * In quel gruppo, da chi era fatto il medico?

2.5. Una differenza di particolare interesse è quella illustrata in (11): il


costrutto-scena consente la formazione di interrogative sia con il pronome che
cosa sia con il pronome chi. In altri termini, il pronome interrogativo per il sin-
tagma post-verbale non è sensibile al tratto [+umano] di N1. Il costrutto-mestiere,
invece, impone una restrizione: l’unico pronome interrogativo possibile è che
cosa, ad esclusione di chi.

(11/CS) In questa scena, che cosa / chi fa Max5?


(11/CM) Di mestiere, che cosa / *chi fa Max?

5 La proposizione con chi è ambigua: Max e chi possono alternativamente essere sia N0 che
N1.
280 IGNAZIO MAURO MIRTO

2.6. Il sintagma post-verbale non può essere commutato in maniera identica


nei due costrutti. Gli esempi che seguono individuano tre tipi di commutazione,
concernenti l’anafora sé stesso, i pronomi personali indipendenti6 e i nomi propri
di persona.

(12/CS) In questa scena, Max fa sé stesso.


(12/CM) * Di mestiere, Max fa sé stesso.
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(13/CS) In questa scena, Max fa te/lui.


(13/CM) * Di mestiere, Max fa te/lui.
(14/CS) In questa scena, Max fa Macduff.
(14/CM) * Di mestiere, Max fa Macduff 7.

2.7. Nel caso in cui N1 sia un nome mobile, l’accordo tra N0 e N1 può distin-
guere CS da CM:

(15/CS) In quel thriller, Max fa la poliziotta.


(15/CM) * Di mestiere, Max fa la poliziotta.

(15/CS), appropriata nel caso in cui l’attore Max interpreti un ruolo femmini-
le, è ben formata. Di contro, nel costrutto-mestiere soggetto e sintagma post-ver-
bale devono condividere il genere, così come accade con proposizioni copulative
come Gianni è un poliziotto / *una poliziotta 8.

2.8. Un’ulteriore differenza tra i due costrutti concerne l’uso dell’articolo par-
titivo nel sintagma post-verbale, illustrato in (16):

(16/CS) In quel dramma, Max fa uno dei sicari.


(16/CM) * Di mestiere, Max fa uno dei sicari.

6Il comportamento dei pronomi clitici è diverso. V. note 16 e 17.


7La proposizione può essere accettabile come CM nel caso in cui Max sia un attore che
interpreti sempre o per un lungo periodo di tempo lo stesso ruolo.
8 Ma si osservi che Nel film Gianni è una poliziotta è accettabile per via della presenza di
un apposito circostanziale che rende la proposizione copulativa una parafrasi di espressioni
come avere il ruolo di. È quanto accade, ad esempio, in francese con le proposizioni Il tient le
rôle de professeur dans cette pièce e Il est professeur dans cette pièce (Maurice Gross, c. p.).
L’obbligatorietà dell’accordo tra N0 ed N1 è una caratteristica anche delle proposizioni con fare
che veicolano il significato descritto in (3c).
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 281

2.9. N1 può contenere una relativa restrittiva nel costrutto-scena. Nel costrut-
to-mestiere, però, tale presenza produce una proposizione malformata:

(17/CS) Nel dramma, la Pritchard fa la donna che desidera il potere


assoluto.
(17/CM) * Di mestiere, Gianna fa la donna che desidera il potere asso-
luto.
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2.10. La tabella 1 riassume le differenze tra le due strutture:

Tabella 1

La somma di queste differenze mostra che il costrutto-scena è distinto dal


costrutto-mestiere. Stabilita questa differenza strutturale, si pone il problema di
identificarne la natura grammaticale. Si osservino, da un lato, le differenze che
concernono la (in)transitività dei costrutti, dall’altro quelle che riguardano la sta-
tività o l’eventività. Per entrambe le questioni, è cruciale la determinazione delle
proprietà grammaticali di N1.
282 IGNAZIO MAURO MIRTO

In CS, N1 è un argomento ed è un oggetto diretto. L’assenza di restrizioni lo


prova: N1 può prendere qualsiasi tipo di determinante, può diventare soggetto per
passivizzazione, può essere un’anafora, un pronome o un nome proprio di perso-
na (v. anche nota 16). Esso si comporta come l’oggetto diretto di una proposizio-
ne transitiva standard9. In CS, l’unico elemento predicativo è fare, un predicato
semplice. Il sintagma post-verbale di CM ha uno status grammaticale diverso, a
cominciare proprio dalla natura argomentale. In CM, l’accordo tra N0 ed N1 è
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obbligatorio quando N1 è un nome mobile, proprio come accade tra N0 e nome


predicativo nelle proposizioni copulative (18) e (19)10:

(18) Gianni è (un + il) segretario / * (una + la) segretaria.


(19) Gianna è (una + la) segretaria / * (un + il) segretario11.

Il parallelismo suggerisce un’analogia strutturale, che induce ad analizzare il sin-


tagma post-verbale di CM come un nome predicativo. Ciò significa che la struttura è
intransitiva e che il gruppo predicativo è complesso (verbo + nome predicativo)12.
Pur se identici superficialmente, quindi, i sintagmi nominali post-verbali dei
costrutti CS e CM sono funzionalmente diversi: il primo è un argomento con fun-
zione di oggetto diretto, referenzialmente distinto da N0, il secondo è predicativo
e coreferenziale con N0.

3. RIDUZIONE PER ELLISSI

La determinazione delle differenze funzionali tra CS e CM spiega le diffe-


renze elencate nella tabella 1, ma non esaurisce la descrizione di tali strutture. Il
predicato nominale di una proposizione copulativa, infatti, può essere un’anafora,
un pronome personale indipendente o un nome proprio di persona (Tu sei te stes-
so / te / Romeo)13. Tale predicato nominale può essere accompagnato da qualsia-

9 Altre prove sono possibili: ad esempio, CS consente un N con un dimostrativo determi-


1
nante (nel film Max fa questo investigatore) mentre CM lo rifiuta (*Di mestiere Max fa questo
investigatore).
10 Si trascura qui il caso delle proposizioni copulative con significato scenico descritte nella
nota 8.
11 Per fatti derivanti dalla marcatezza, p. es. l’assenza della forma femminile di un sostan-
tivo, in certi casi è possibile trovare un soggetto femminile e il nome predicativo di genere
maschile (p. es. Quella donna è (un) poliziotto, Quella donna è magistrato).
12 Devoto e Oli (1971) definiscono intransitivo il fare di CM. Il più recente De Mauro
(2000) lo definisce copulativo. Altri test utili a mostrare l’intransitività di CM si troveranno in
La Fauci e Mirto 1999. La coreferenzialità di N0 e N1 è indiscutibile in CM. In CS, N0 sembra
invece referenzialmente distinto da N1. Ci ripromettiamo di tornare sull’argomento.
13 In questa sede eviteremo di trattare separatamente i seguenti due tipi di proposizione
copulativa con essere: quello che assegna appartenenza ad una classe, espresso con un articolo
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 283

si articolo, mentre il predicato nominale di CM non consente né le commuta-


zioni né un articolo diverso da quello determinativo. La Fauci e Mirto (1999)
hanno reso conto delle restrizioni di CM precisandone ulteriormente la struttu-
ra funzionale. N1 è il risultato di un processo di riduzione: il sintagma contiene
inizialmente un mediatore, il nome mestiere 14. Il nome mediatore può essere
visto come un iperonimo che include come iponimi ogni possibile specificazio-
ne: p. es. costumista, medico, sicario, vigile. La riduzione si articola in quattro
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fasi:

(20) I. Max fa un mestiere


II. Max fa un mestiere, il mestiere di sicario
III. Max fa il mestiere di sicario
IV. Max fa il sicario

Meccanismi che possono essere complessivamente riassunti come processi di


riduzione della ridondanza rendono conto del progressivo passaggio da I a IV. In
questo modo si rende conto della obbligatorietà dell’articolo determinativo per N1
(la proposizione Max fa un mestiere di sicario non è prodotta dal processo di ridu-
zione ed è quindi malformata) e delle agrammaticalità in (12)-(14), in quanto sé
stesso, te e Romeo non sono iponimi del nome mediatore.
Ammettiamo che anche in CS abbia luogo un processo di riduzione. Anche in
questo caso la riduzione si articolerebbe in quattro fasi, ma il nome mediatore
sarebbe questa volta parte:

(21) I. Max fa una parte


II. Max fa una parte, la parte (del sicario + di un sicario)
III. Max fa la parte (del sicario + di un sicario)
IV. Max fa (il sicario + un sicario)

Il processo in (21) non blocca né l’articolo indefinito per N1 né, tanto meno,
elementi come sé stesso, te, Romeo.

zero o con un articolo indefinito (Gianni è (un) idraulico), e il tipo definibile come ‘equaziona-
le’, con articolo definito o nome proprio di persona (Gianni è l’idraulico)). Come è noto, esi-
stono test atti a distinguere formalmente i due tipi. Ad esempio, per il tipo equazionale: (a) la
posizione dei due SN può essere invertita (L’idraulico è Gianni) senza determinare un ordine
marcato (ma v. Hurford e Heasley (1983: 40-1), Moro 1997); (b) in presenza di una negazione,
i due SN non sono coreferenziali (Parigi non è la capitale dell’Inghilterra).
14 Nel costrutto-mestiere i nomi mediatori possono essere almeno due: mestiere e profes-
sione (v. La Fauci e Mirto 1999).
284 IGNAZIO MAURO MIRTO

4. VARIANTI LESSICALI DI FARE

Con CS e CM fare ha delle varianti, che rivelano qualche ulteriore differenza


fra i due costrutti. In presenza del nome mediatore mestiere, CM ne possiede
almeno cinque, qui elencate:

(22) fare il mestiere di sicario


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esercitare il mestiere di sicario


svolgere il mestiere di sicario
praticare il mestiere di sicario
esplicare il mestiere di sicario
attendere al mestiere di sicario

In presenza del mediatore parte, CS sembra possederne allo stesso titolo


almeno quattro:

(23) fare la parte del sicario


interpretare la parte del sicario
recitare la parte del sicario
sostenere la parte del sicario
svolgere la parte del sicario

Con CM, il processo di riduzione sopprime ogni possibilità di variazione:

(24) fare il sicario


*esercitare il sicario
*svolgere il sicario
*praticare il sicario
*esplicare il sicario
*attendere al sicario

In CS, invece, il processo di riduzione lascia almeno un superstite15:

(25) fare il sicario


interpretare il sicario
% recitare il sicario
*sostenere il sicario
*svolgere il sicario

15 Per il verbo recitare si trovano giudizi di grammaticalità contrastanti.


CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 285

Questa è un’ulteriore ragione per differenziare CS da CM ed è, allo stesso


tempo, un’importante chiave per capire il meccanismo che determina l’identico
comportamento di fare ed interpretare.

5. FARE COME VERBO PROXY


In realtà, (25) svela un’identità tra fare ed interpretare che va ben oltre la pura
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variazione stilistica. La tabella 2, che ripete i test della tabella 1 16, registra che
fare e interpretare sono perfettamente intercambiabili senza conseguenze seman-
tico-sintattiche17:

Tabella 2

16 La tabella 2 include il test sulla cliticizzazione di N , assente nella tabella 1. In CM, la


1
cliticizzazione di N1 presenta caratteristiche complesse. La Fauci e Mirto 1999 mostrano che il
clitico può anche essere nella forma non marcata: Eva e Pio fanno i giornalisti e anche i loro
figli (lo + ?* li) vorrebbero fare. Questa caratteristica non è condivisa da CS, nemmeno quando
fare sostituisce interpretare: Nella tragedia qualcuno ha (fatto + interpretato) sia il sicario che
il capitano? Sì, li ha (fatti + interpretati) entrambi Gianni.
17 Una differenza identificata riguarda i pronomi personali clitici: questi sono ammissibili
con interpretare (Il film ripercorre le parti più salienti della tua vita. Ti interpreterà un celebre
attore), ma forse problematici con fare (Il film ripercorre le parti più salienti della tua vita. ? Ti
farà un celebre attore).
286 IGNAZIO MAURO MIRTO

Questa coincidenza di proprietà semantico-sintattiche induce a ritenere fare


un sostituto di interpretare, un verbo proxy. In questo senso, il costrutto-scena con
fare è una variante meno specifica, quanto a predicato verbale, del normale
costrutto di interpretare. Così il processo di riduzione in (21) è possibile perché è
possibile con interpretare: (I) Max interpreta una parte; (II) Max interpreta una
parte, la parte (del sicario + di un sicario); (III) Max interpreta la parte (del sica-
rio + di un sicario); (IV) Max interpreta (il sicario + un sicario). La natura di
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proxy di fare non è limitata ai suoi rapporti con interpretare, come mostrano i casi
in (26):

(26) a. Giorgio fa (= guadagna) molti soldi.


b. Abbiamo fatto (= visitato) Capri.
c. I bambini hanno fatto (= addobbato) l’albero di Natale.
d. Lo hai fatto (= acquistato, comprato) il biglietto? (Maiden
1995: 231)
e. Lo hai fatto (= timbrato, obliterato) il biglietto?
f. Quell’uomo ha fatto (= scontato) 5 anni di carcere.
g. Mia sorella ha fatto (= girato) un film.
h. Marinella fa (= studia) matematica.
i. Oggi la professoressa fa (= insegna, spiega) Dante.
l. Ho fatto (= composto) il numero, ma era occupato.
m. Gianni è bravissimo nelle imitazioni. Oggi ha fatto (= imitato)
Clinton.

In questi casi non esiste distinzione tra le proposizioni con fare e quelle in cui
compare un verbo più specifico. Le proposizioni con fare mostrano una qualche
indeterminatezza semantica e necessitano quindi di contesti sufficientemente
espliciti, tali da non enfatizzare l’ambiguità. Tuttavia, la sostituzione del verbo
specifico con il proxy non ha effetti né sul carattere eventivo della proposizione né
sulla referenzialità di N1.
Le modalità della sostituzione rimangono in gran parte da investigare. Alcune
caratteristiche necessarie sono comunque identificabili: (a) il soggetto deve esse-
re umano (o, almeno, animato), (b) la struttura deve contenere un oggetto diretto.
(b) è necessaria ma non sufficiente: verbi transitivi quali vedere e tradire non sono
sostituibili: Gianni vide Mario ≠ Gianni fece Mario, Gianni tradì Luca ≠ Gianni
fece Luca 18. Nelle proposizioni in (26), la sostituzione con il proxy è un’opera-

18 Contribuisce a questa impossibilità di sostituzione il tratto [+umano] dell’oggetto diret-


to. Con questo tipo di oggetto, infatti, fare evoca principalmente (ma non unicamente, come
mostra (26m)) una rappresentazione scenica e sostituisce quindi interpretare (Jeanne Moreau fa
Marguerite Duras). Un oggetto diretto con referente concreto, invece, solitamente determina un
significato di fare assimilabile a quello di creare, costruire (Gianni tira una fune ≠ Gianni fa
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 287

zione di semplice maquillage: a sostituzione avvenuta, infatti, la struttura d’origine


rimane inalterata. A riprova di ciò, si osservi in (27) la presenza di un beneficiario,
pronominalizzato, e l’agrammaticalità che lo stesso determina in (28):

(27) Gianni ci ha fatto Clinton.


(28)* Quell’uomo le ha fatto cinque anni di carcere.
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La proposizione (27) differisce da (26m) e la (28) da (26f) per la sola pre-


senza del pronome. In (27)-(28), la possibilità di inserimento di un complemento
non dipende né dal soggetto né dall’oggetto diretto. È certo inoltre che essa non
dipende dal verbo fare, in quanto se così fosse non ci spiegheremmo per quale
motivo fare possa autorizzare tale complemento in (27), ma non in (28). Analiz-
zando fare come verbo proxy questi fatti diventano prevedibili, giacché imitare, a
differenza di scontare, autorizza un beneficiario (Gianni ci ha imitato Clinton, *
Quell’uomo le ha scontato cinque anni di carcere).
Quello esemplificato in (26) non è il solo caso, del resto, di un uso di fare
come sostituto. È nota, infatti, la capacità che fare ha di sostituirsi ad un verbo
precedentemente menzionato (uso anaforico)19:

(29) A. È sempre lei a disegnare le strisce?


B. Chi pensa che le abbia fatte fino ad ad oggi20.

A differenza dell’uso anaforico, però, l’uso proxy di fare è da considerare


come appartenente ad un registro (medio)-basso (informale, familiare, popolare),
a cui si ricorre quando non si sa o non si vuole usare il verbo lessicalmente pieno,
che è di sovente la variante più accurata 21.

6. VERSO UNA RAPPRESENTAZIONE GRAMMATICALE

I requisiti ai quali una rappresentazione formale di CS e CM deve corrispon-


dere sono riassunti nella tabella 3.

una fune), ma non necessariamente, come mostrano (26 a-e), in cui il tratto [+concreto] del-
l’oggetto diretto sembra non essere .
19 Sugli usi sostitutivi di faire in medio e antico francese e di do in inglese, cfr. Miller 1997.
20 Il dialogo è tratto da un’intervista a Charles M. Schutz.
21 Un caso peculiare in italiano è quello del verbo effettuare, che sembra avere soltanto fun-
zione di variante accurata (nel linguaggio burocratico) di fare: effettuare (un pagamento + una
misurazione + un progetto), il treno effettua solo tre fermate (esempi tratti da Il dizionario della
lingua italiana di De Mauro). Il caso è probabilmente più complesso di quanto non appaia, in
quanto fare è qui analizzabile come verbo supporto.
288 IGNAZIO MAURO MIRTO

Tabella 3
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Allo stesso titolo, una rappresentazione grammaticale dei due costrutti dovrà
rendere conto:

a) della potenziale ambiguità, in quanto i costrutti possono essere iden-


tici in superficie;
b) del carattere ellittico di CM, con riduzione del nome mediatore;
c) della non referenzialità di N1 in CM e della sua referenzialità in CS;
d) della natura stativa di CM e di quella eventiva di CS.

La rappresentazione di CS non presenta particolari difficoltà o, almeno, pre-


senta quelle che si incontrano dovendo rappresentare una proposizione il cui pre-
dicato verbale sia interpretare 22.
Quanto a CM, esso condivide da un lato alcune caratteristiche sintattiche con
proposizioni copulative come quelle in (18)-(19), in quanto il sintagma post-ver-
bale è un nome predicativo e non referenziale. D’altra parte, nel costrutto fare
sembra essere un verbo supporto (v. Gross 1976, 1981), cioè un verbo privo o pri-
vato di contenuto lessicale, di cui si dotano proposizioni come quelle in (30) allo
scopo di prendere il necessario predicato verbale:

(30) (a) Il presidente ha fatto l’analisi di tutti i problemi.


(b) Gianni ha solo fatto delle considerazioni.

22 Ciò vale anche per un caso diverso di fare proxy, quello di costrutti medi come (a)
Daniela si è fatta (= mangiata, preparata) un panino e (b) Gianni si è fatto (= comprato, costrui-
to) la macchina. Alla luce dell’analisi condotta in La Fauci (1984: 224-6), che attribuisce a sin-
tagmi post-verbali come un panino e la macchina la condizione di oggetti diretti iniziali della
struttura, la possibilità di usare fare come proxy non dovrebbe sorprendere, in quanto la struttu-
ra possiede entrambe le caratteristiche indicate: presenza di un soggetto umano e di un oggetto
diretto (che non deve essere necessariamente finale). I due possibili significati di fare in (b) sol-
levano un interessante problema: la corrispondente proposizione transitiva Gianni ha fatto la
macchina ne consente infatti soltanto uno (fare = costruire).
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 289

Secondo Giry-Schneider (1978), in proposizioni come (30) il predicato che


assegna il ruolo tematico è il sintagma post-verbale (L’analisi / delle considera-
zioni) e fare è una sorta di ausiliare, un verbo supporto. Tali verbi sono general-
mente usati in strutture transitive. In CM, fare è probabilmente un supporto.
L’apparente difficoltà dell’intransitività di CM è risolta per via del processo di
riduzione in La Fauci e Mirto 1999.
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7. CONCLUSIONE

Per districare parte dell’aggrovigliata matassa costituita dai numerosi tipi di


fare, abbiamo preso in esame proposizioni ambigue tra un significato scenico ed
uno di mestiere. Una serie di prove empiriche mostra la necessità di ricavare i due
significati da strutture diverse, che abbiamo chiamato costrutto-scena e costrutto-
mestiere.
Il sintagma post-verbale di CM, a differenza di quello di CS, presenta alcune
proprietà dei predicati nominali. Ciò rende CM simile ad una struttura copulativa,
ma alcune restrizioni sulla commutabilità di N1 mostrano che l’identità struttura-
le è solo parziale. Di tali restrizioni si è reso conto analizzando N1 come il risul-
tato di un processo di riduzione, per ridondanza, di un nome mediatore. In CM la
riduzione fa obbligatoriamente affiorare N1 con un articolo determinativo ed eli-
mina qualsiasi possibilità di varianti lessicali per fare. Anche il fare di CS con-
sente una riduzione per ridondanza, ma solo perché la stessa operazione è possi-
bile con interpretare. Nei contesti specificati nella tabella 1 e 2, fare e interpreta-
re sono intercambiabili senza conseguenze semantico-sintattiche.
Sulla base di questa regolare sostituibilità, si è avanzata l’ipotesi dell’esisten-
za di verbi proxy, verbi cioè predisposti ad usi sostitutivi come quello anaforico.
A tale vocazione alla sostituzione contribuisce l’indeterminatezza di fare riguar-
do al contenuto lessicale. In qualità di proxy, esso può rimpiazzare interpretare,
lessicalmente pieno, dando così origine al costrutto-scena e dunque alla possibile
ambiguità illustrata in (1). Interpretare non è il solo verbo che fare proxy può
sostituire. La sostituibilità riguarda un’intera classe di verbi lessicali, nella cui va-
lenza devono trovare posto un soggetto animato ed un oggetto diretto. Dimensioni
ed altre eventuali caratteristiche di tale classe rimangono da indagare.
Ogni rappresentazione formale di CS e CM dovrà tenere conto della funzio-
ne del sintagma post-verbale. CS sarà quindi transitiva perché il suo N1 è un
oggetto diretto e fare è un proxy. CM sarà invece intransitiva, con N1 come pre-
dicato nominale, esito di un processo di riduzione, e con fare come verbo sup-
porto.
290 IGNAZIO MAURO MIRTO

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 291

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MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA
(Università di Salerno –
Università di Salerno; Istituto di Scienze della Cognizione, CNR, Roma)

Proprietà categoriali e rappresentazione lessicale del verbo:


una prospettiva interdisciplinare
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1. PROLOGO

Pur essendo la bibliografia sulle proprietà categoriali del verbo molto ampia,
e nonostante l’argomento abbia una storia che di fatto coincide con la storia della
riflessione linguistica, il dibattito su quali debbano essere i tratti inerenti al verbo,
e di che natura debbano essere, è tutt’altro che concluso (cfr. Sasse 1993; Ramat
1999; Bybee 2000). Ciò dipende da una parte dall’aumento di dati a disposizione
su un numero sempre maggiore di lingue, e dall’altra dall’assunzione di nuovi
punti di vista.
Un nuovo impulso a questo tipo di riflessioni e indagini deriva oggi dalle
ricerche di neuropsicologia e psicologia del linguaggio che negli ultimi decenni
hanno dedicato ampio spazio allo studio dei correlati neurali e delle rappresenta-
zioni mentali delle diverse parti del discorso. Tali ricerche sono state condotte su
individui adulti con o senza disturbi acquisiti del linguaggio e hanno indagato
soprattutto le prestazioni in compiti di riconoscimento, comprensione, produzio-
ne, lettura e scrittura.
In questo intervento presenteremo alcuni dati che provengono da lavori di neu-
ropsicologia, linguistica e psicologia del linguaggio che mostrano alcune convergen-
ze, ci pare, non casuali. Come risulterà chiaro nel corso dell’esposizione, il nostro
scopo non è quello di offrire un panorama delle ricerche in corso in questi diversi
ambiti disciplinari, ma illustrare i temi e le questioni di maggiore interesse comune
relativamente all’individuazione dei tratti pertinenti per la definizione del verbo.
Riteniamo, infatti, che la linguistica, la psicologia e la neurologia del linguaggio
lavorino, di fatto, su molti temi comuni e che una maggiore interazione tra queste
discipline permetterebbe di cogliere elementi nuovi non banali e non casuali.

2. LE RICERCHE DI NEUROPSICOLOGIA DEL LINGUAGGIO

È ampiamente documentato il fatto che, a seguito di lesioni cerebrali, in alcu-


ni soggetti risulta danneggiato l’accesso a determinate classi morfosintattiche di
parole, mentre rimane pressoché intatto l’uso di altre classi di parole. Sebbene i
294 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

deficit possano presentarsi in modo diverso da paziente a paziente in relazione al


tipo di lesione subita e in relazione al tipo di compito linguistico osservato, risul-
ta chiaro che il linguaggio di alcuni pazienti è deficitario in modo costante nel-
l’uso di alcune specifiche parti del discorso. Vi sono per esempio pazienti che pos-
sono manifestare deficit nell’uso delle parole funzionali e non delle parole lessi-
cali o nell’uso di alcune classi di parole lessicali e non di altre, per esempio dei
verbi e non dei nomi o viceversa. Nonostante la casistica sia molto ampia, gli studi
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su pazienti sia con lesioni focali, sia con disturbi degenerativi, concordano sul
fatto che i diversi tipi di deficit sono connessi a localizzazioni diverse dell’area
cerebrale danneggiata e fanno ipotizzare l’esistenza di correlati neurali specifici
di classi morfosintattiche di parole, le parti del discorso (Cappa, Perani in corso
di stampa; Caramazza, Shapiro in corso di stampa). Non è questa la sede per
discutere di queste questioni per le quali rimandiamo agli articoli citati e all’am-
pia bibliografia in essi riportata, è utile invece soffermarsi sul tipo di dati speri-
mentali a disposizione e sulla loro rilevanza ai nostri fini: una migliore definizio-
ne delle proprietà categoriali del verbo.
Il punto che appare più interessante è il fatto che i disturbi nell’uso di alcune
classi di parole possono essere presenti in alcuni usi linguistici e non in altri. In
primo luogo, vi sono casi di pazienti con disturbi acquisiti del linguaggio a segui-
to di lesioni cerebrali che manifestano serie difficoltà nell’uso di alcune classi di
parole in produzione, ma non in comprensione e viceversa: ciò vuol dire che un
paziente può avere difficoltà nel produrre verbi, ma non nel capirli o viceversa. In
secondo luogo, l’uso di alcune classi di parole può manifestarsi in modo disuguale
a secondo della modalità di discorso usata, per esempio nello scritto e non nel par-
lato, o viceversa. Infine i due tipi di deficit possono apparire insieme: vi sono cioè
casi di pazienti che pur manifestando serie difficoltà nella produzione di una
determinata classe di parole nel parlato e/o nello scritto, non manifestano nessun
deficit nella comprensione.
I casi di tre diversi pazienti cerebrolesi con disturbi acquisiti del linguaggio
possono chiarire meglio il tipo di dati a disposizione. Un primo caso, riportato in
Rapp e Caramazza (1997), è quello di un paziente cerebroleso (PBS) con distur-
bi acquisiti del linguaggio che quando parla usa con estrema difficoltà quasi tutte
le parole, tranne i verbi e quelle funzionali, mentre quando scrive mostra un'as-
senza quasi totale di parole funzionali, ma un uso relativamente normale dei
nomi.
Un secondo caso, citato in Rapp e Caramazza (1998), è quello di un pazien-
te cerebroleso (PW) con disturbi acquisiti del linguaggio che era in grado di
produrre nomi e verbi normalmente nel parlato (per esempio nei compiti di
denominazione e di descrizione di una scena), ma che aveva serie difficoltà nel-
l’usare i verbi quando svolgeva gli stessi compiti per iscritto. Un terzo caso,
riportato in Hillis e Caramazza (1995), è infine quello di una paziente (EBA)
che, malgrado il suo discorso fosse fluente, presentava gravi difficoltà nel pro-
durre e leggere nomi oralmente, mentre non sembrava avere problemi nel pro-
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 295

durre i verbi. Inoltre EBA non aveva difficoltà nella comprensione dei nomi sia
quando le erano presentati oralmente sia quando le erano presentati per iscritto.
EBA mostrava quindi una comprensione normale sia dei nomi sia dei verbi in
entrambe le modalità (orale e scritta), ma un grave deficit nella produzione orale
solo dei nomi.
I tre casi riportati, benché non esauriscano la casistica riportata in letteratura,
mettono in evidenza alcuni elementi ricorrenti: le dissociazioni tra nomi e verbi,
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anche se possono essere spiegate in alcuni casi da variabili semantiche (in base a
un’opposizione tra nomi di oggetti e nomi di azioni) e in altri casi da variabili
morfosintattiche (in base a un’associazione tra disturbi dei verbi e disturbi delle
parole funzionali), in un numero non trascurabile di casi dipendono da un distur-
bo selettivo della classe grammaticale, a volte nella sola modalità scritta o nella
sola modalità parlata.
Non esistono interpretazioni definitive ed unanimi dei dati esposti. Vi sono
tuttavia due principali ipotesi di ricerca nella letteratura degli ultimi anni. Un
cospicuo numero di studi ha indagato la possibilità che i deficit registrati dipen-
dano da proprietà specifiche delle classi di parole coinvolte. In particolare si è cer-
cato di capire se gli usi deficitari potessero essere attribuiti a difficoltà nell’acces-
so alle proprietà morfologiche, semantiche o sintattiche delle varie parti del
discorso (Bates et al. 1991). Il primo risultato di questi studi sperimentali è stato
quello di allargare e approfondire il campo di indagine possibile. Se in prima bat-
tuta si sono indagati prevalentemente gli aspetti semantici, oggi esistono ricerche
che studiano in dettaglio aspetti sempre più sofisticati, come le proprietà argo-
mentali o distinzioni semantiche più sottili (Breedin, Martin 1996). Il secondo
risultato di queste indagini è stato quello di mettere in evidenza la forte interdi-
pendenza delle proprietà indagate. La maggior parte delle indagini concorda sul
fatto che anche quando si individua la rilevanza di una determinata proprietà cate-
goriale, poniamo semantica, non si può escludere il concorso delle altre. In
sostanza anche la neuropsicologia del linguaggio, seguendo un percorso simile a
quello della linguistica, è concorde sul fatto che la definizione della classe verbo
non può che essere multidimensionale.
Una seconda ipotesi di ricerca è quella che cerca di spiegare i dati attribuen-
doli ad un effetto di classe grammaticale (Caramazza, Hillis, 1991; Rapp, Ca-
ramazza 1997). Il ragionamento è in sostanza il seguente: attribuire i deficit in
esame a difficoltà nell’accesso a specifiche proprietà morfologiche, sintattiche e
semantiche non è sufficiente. Ciò, infatti, non spiega come mai alcuni pazienti
governino perfettamente la morfologia, la semantica e la sintassi per esempio dei
verbi in alcuni usi e non in altri, nel parlato, ma non nello scritto. L’esistenza di
questo tipo di disturbi selettivi farebbe propendere piuttosto per l’idea che la clas-
se verbo (ma questo vale anche per altre parti del discorso, per esempio i nomi)
abbia una rilevanza per sé, che cioè la classe grammaticale sia un principio orga-
nizzativo del lessico.
296 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

Tanto i dati quanto le interpretazioni qui esposti pongono, a nostro parere,


domande nuove che vanno ben al di là della neuropsicologia del linguaggio. Da
un lato, si pone il problema di capire se i disturbi dipendano da proprietà specifi-
che delle classi di parole colpite da deficit ed eventualmente da quali. Dall’altro,
si tratta di spiegare perché questo avvenga in alcuni usi linguistici e non in altri.
La tradizionale discussione sulle proprietà delle parti del discorso si intreccia
infatti con un'altra questione importante evidenziata in modo netto dai dati speri-
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mentali: fermo restando che la categoria verbo è multidimensionale, è possibile


che le molteplici dimensioni di cui è costituita abbiano pesi diversi in usi lingui-
stici diversi? Altrimenti detto, è possibile che le proprietà categoriali dei verbi
abbiano una salienza diversa a seconda dei compiti linguistici osservati e a secon-
da della modalità in cui avvengono questi compiti? Ed è infine possibile che sia
questa diversa salienza a determinare il fatto che nello stesso paziente ad usi
diversi corrispondono deficit diversi o di intensità diversa? Si introduce qui la per-
tinenza della nozione di variazione e variabilità degli usi linguistici come ele-
mento determinante per la comprensione e forse anche per la definizione delle
proprietà delle classi di parole. La risposta a queste questioni non può che dipen-
dere dalla comparazione tra dati afasiologici e usi linguistici non deficitari: è su
questo terreno che diventa proficuo e necessario un confronto con le indagini lin-
guistiche e psicolinguistiche.

3. LE RICERCHE LINGUISTICHE

Esistono vari studi linguistici sulle differenze nell’uso dei verbi, e di altre
parti del discorso, in testi diversi e in modalità diverse. Si tratta per lo più di studi
di tipo quantitativo su corpora di varie lingue, non solo indoeuropee (Voghera in
corso di stampa), che mostrato che il parlato e lo scritto manifestano un uso e una
frequenza d’uso sistematicamente diversa di verbi e di nomi. In particolare si è
mostrato che i testi tipicamente parlati, cioè i testi dialogici spontanei, presentano
più verbi e meno nomi, mentre i testi tipicamente scritti, cioè i testi monologici
formali, presentano più nomi e meno verbi. In questo paragrafo riporteremo alcu-
ne ricerche recenti per indagare se l’esistenza di differenze quantitative nasconda
differenze di altra natura.
Presentiamo qui dei dati sull’uso dei verbi, confrontando i testi parlati e scrit-
ti più tipici, rispettivamente del LIP e del LIF, ciò che, usando la ormai classica
terminologia di Nencioni (1983), chiamiamo parlato-parlato e scritto-scritto. I
testi del LIP comprendono cinque diversi tipi di testo graduabili su una scala che
va dal più al meno dialogico e dal testo che concede la massima libertà di presa
di parola al testo che meno la consente. I cinque tipi sono: conversazioni faccia a
faccia, conversazioni telefoniche, interviste e interrogazioni, monologhi, testi
radio-televisivi. È evidente che pur essendo tutti testi di parlato spontaneo a pieno
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 297

titolo (sono stati esclusi i testi di parlato-letto o recitato), si tratta di testi che dif-
feriscono molto tra loro. In sostanza potremmo dire che mentre le conversazioni
faccia a faccia e quelle telefoniche sono testi per definizione non pianificati, gli
altri tre tipi di testo prevedono un certo grado di pianificazione precedente all’e-
nunciazione. Abbiamo quindi considerato parlato-parlato le conversazioni faccia
a faccia e quelle telefoniche.
Il corpus del LIF aveva lo scopo di essere rappresentativo dell’italiano nel suo
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complesso e non dell’italiano scritto in particolare. Per questo motivo gli autori
hanno incluso anche testi poco rappresentativi dello scritto in quanto tale, ma che
potessero offrire un ampio panorama di usi. I testi inclusi nel corpus del LIF sono:
romanzi, sussidiari, periodici, copioni cinematografici e copioni teatrali. Ai nostri
fini abbiamo ritenuto più corretto considerare scritto-scritto solo i testi monolo-
gici formali: sussidiari e i periodici. Riporteremo, infine, dati separati sui roman-
zi, che pur essendo testi scritti tipici, presentano caratteristiche diverse rispetto
agli altri due tipi considerati.
I dati che qui presentiamo si basano sul vocabolario fondamentale, cioè sui
primi 2000 lemmi in ordine di frequenza. L’idea di considerare la fascia ad alta
frequenza deriva da considerazioni quantitative e linguistiche. Dal punto di vista
quantitativo il vocabolario fondamentale si può ritenere rappresentativo dell’inte-
ro corpus. Esso copre più del 90% dell’intero corpus del LIP e del LIF. Nei primi
2000 lemmi vi sono rispettivamente il 53% e il 43% di tutti i lemmi verbali del
LIP e del LIF, le cui occorrenze sono rispettivamente il 94% e il 92% di tutte le
occorrenze verbali del LIP e del LIF. Da un punto di vista linguistico, ci è parso
opportuno considerare la fascia di frequenza che il parlato e lo scritto maggior-
mente condividono, convinti che le differenze che si manifestano in questa fascia
abbiano un peso maggiore, rispetto a quelle che si possono trovare nelle basse fre-
quenze, nel caratterizzare il parlato e lo scritto.
Un’attenta valutazione del peso che i verbi hanno nelle diverse modalità di
discorso deve distinguere gli aspetti più propriamente lessicali da quelli sintatti-
co-discorsivi, che derivano dai vincoli imposti alla struttura sintattica dalla strut-
tura dell’informazione (distinzione tra elementi tematici e rematici). È quindi
necessario valutare separatamente i due diversi ambiti attraverso misure diverse:
da un lato, considereremo la numerosità dei lemmi e delle forme verbali, che è
indice della ricchezza lessicale dei vari tipi di testi, e, dall’altra, la frequenza delle
occorrenze verbali, che è indice dell’uso effettivo dei verbi nell’andamento sin-
tattico-discorsivo nei vari tipi di testi. Sarà proprio il confronto tra queste varie
misure che metterà in luce aspetti interessanti.
298 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

Grafico 1
Numerosità dei lemmi verbali e frequenza d’occorrenza dei verbi nel LIP e nel LIF*
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* I dati considerano la frequenza di tutti i verbi, esclusi quelli ausiliari. Ricordiamo inoltre che si con-
sidera qui solo la porzione del vocabolario fondamentale.

Come si vede dal Grafico 1, esistono delle differenze tra numerosità dei
lemmi verbali e frequenza di occorrenza dei verbi. Le analisi statistiche effettua-
te a tale proposito confermano che le percentuali di lemmi e occorrenze seguono
due andamenti significativamente differenti nel parlato e nello scritto (c2(1)=
23.3, p<.0001). Se osserviamo la colonna dei lemmi, lo scritto presenta un nume-
ro più alto di lemmi di 7 punti in percentuale circa rispetto al parlato. Se invece
consideriamo la frequenza d’occorrenza dei verbi nei testi, il parlato presenta più
verbi dello scritto, con una differenza di circa 6 punti in percentuale.
Il primo dato interessante è rappresentato dal fatto che la consistenza nume-
rica dei verbi è molto diversa nel parlato e nello scritto: ciò fornisce una base
empirica all’idea che la variazione della modalità di discorso sia connessa ad un
diverso peso dei verbi nei vari tipi di testo. Si tratta di differenze sistematiche regi-
strate anche in altre lingue, come l’inglese e il tedesco (Biber et al. 1999; Miller,
Weinert 1998), e per altre classi di parole.
La maggiore numerosità dei lemmi verbali nello scritto conferma l’opinione
espressa da più parti secondo la quale lo scritto manifesta una maggiore varietà e
ricchezza lessicale del parlato (Plag et al. 1999), che si manifesta anche per altre
parti del discorso, per esempio i nomi (Voghera in corso di stampa). Un altro indi-
ce della varietà e ricchezza lessicale dello scritto è tra l’altro il maggior numero
di forme verbali diverse presenti nel LIF (Giordano, Voghera 2002), come si vede
dal grafico 2.
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 299

Grafico 2
Numero di forme verbali diverse nel LIP e nel LIF
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Il numero delle forme, ancor più del numero dei lemmi, ben rappresenta la
maggiore varietà dello scritto: mentre nel parlato si registrano mediamente 5,8
forme per ogni lemma, nello scritto il numero medio di forme per lemma sale a
7,6 1.
Non c’è tuttavia una relazione direttamente proporzionale tra ricchezza lessi-
cale e frequenza dei verbi nei testi: il parlato usa, infatti, più verbi di quanti non
ne usi lo scritto, e ciò accade indipendentemente dal numero di lemmi e delle
forme distinte. La maggiore frequenza d’uso dei verbi nel parlato può natural-
mente dipendere da numerosi fattori. Ci pare tuttavia che si possa escludere che il
maggiore uso di verbi dipenda da fatti esclusivamente semantici. L’analisi dei
lemmi verbali dei verbi usati nel LIP e nel LIF non fa emergere differenze seman-
tiche vistose tra le due modalità. Da un’analisi svolta da Giordano e Voghera
(2002) sul sistema verbale del parlato e dello scritto si ricava che i lemmi verbali
più usati nel LIP e nel LIF coincidono e che le differenze maggiori sono soprat-
tutto differenze di rango. Se si guarda, quindi, al vocabolario di base, la semanti-
ca dei verbi del parlato e dello scritto non sembra divergere in modo rilevante. Dai
dati a nostra disposizione non sembrerebbe giustificata l’idea di Halliday (1989)
secondo cui il maggior numero dei verbi nel parlato avrebbe origine dal fatto che
“(…) speech and writing impose different grids on experience. There is a sense in

1 È utile sottolineare inoltre che la differenza tra il numero di forme per lemma nel parlato
e nello scritto è inversamente proporzionale al rango del lemma (Giordano, Voghera 2002).
300 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

which they create different realities. Writing creates a world of things; talking
creates a world of happening” (Halliday 1989: 93).
Appare invece più convincente, e confermato da numerose ricerche in tutte le
lingue studiate sotto questo aspetto (Biber 1995), che il maggior uso di verbi
dipenda dalla tipica struttura sintattico-discorsiva del parlato e, in ultima analisi,
dalle condizioni ideative e di produzione e ricezione del dialogo. L’avvicenda-
mento dei turni, la discontinuità locutiva e tematica creata dall’inserzione di altri
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parlanti e dalle sovrapposizioni con altri parlanti fanno sì che si tenda a produrre
piccole porzioni di testo alla volta. La sintassi del dialogo risulta in tal modo, per
dir così, leggera: un susseguirsi di clausole brevi connesse le une alle altre in
modo seriale e non gerarchico. La struttura seriale permette sia al parlante sia
all’ascoltatore di procedere aggiungendo un po’ di informazione alla volta senza
dover sovraccaricare la memoria. Clausole brevi significa spesso, per una lingua
come l’italiano, clausole costituite da soli sintagmi verbali o clausole con copula.
Lo dimostra, tra l’altro, il fatto che la terza persona singolare del verbo essere, è,
copre da sola il 10,3% di tutte le occorrenze verbali del parlato-parlato, contro il
6,9% dello scritto-scritto.
A ciò si deve aggiungere il fatto che i verbi sono perlopiù elementi rematici
che possono cioè costituire il comment di un topic dato nel contesto materiale o
ideale condiviso dai parlanti, senza dover essere necessariamente richiamato ver-
balmente (Sornicola 1981; Berretta 1994; Brazil 1995). È stato infatti da più parti
notato che le condizioni enunciative del parlato permettono di saturare le valenze
del verbo con elementi deittici, come i pronomi, ma anche con elementi non ver-
bali, cioè con elementi del contesto. Ciò può naturalmente avvenire anche attra-
verso l’uso di aggettivi e di nomi, per esempio nelle frasi nominali, ma di fatto
avviene più frequentemente attraverso l’uso di verbi2. L’insieme di questi fattori
spiega inoltre forse più chiaramente il ridotto numero di costituenti nominali nel
parlato rispetto allo scritto notato in più ricerche (Halliday 1989; Biber 1995;
Miller, Weinert 1996; Biber et al. 1999).
La rilevanza dei fattori discorsivi è confermata del resto dal fatto che la per-
centuale di occorrenza dei verbi è direttamente proporzionale al grado di dialogi-
cità e inversamente proporzionale al grado di pianificazione dei testi (Voghera in
corso di stampa). La frequenza dei verbi si riduce nei testi parlati dialogici con un
più alto livello di pianificazione, mentre aumenta nei testi scritti che presentano
porzioni dialogiche. Nei testi parlati dialogici con presa di parola non libera, come
le interviste, i dibattiti, le interrogazioni, le occorrenze verbali sono infatti circa il
16% contro il 20% circa del parlato-parlato, e nei romanzi i verbi arrivano al
16,8% contro il 13,7% dello scritto-scritto 3.

2
Sulla percentuale di frasi nominali nel parlato si veda Voghera 1992.
3
La rilevanza delle parti dialogiche per la frequenza dei verbi nei romanzi è stata notata
anche per l’inglese da Johansson e Hofland (1989).
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 301

La distribuzione dei verbi nel parlato sembra dipendere dunque da caratteri-


stiche generali determinate dai vincoli di produzione e ricezione propri di questa
modalità di discorso: più il processo linguistico è discontinuo più il messaggio
tenderà ad essere strutturato in piccole porzioni. Ciò determina sul piano sintatti-
co una preferenza per clausole brevi spesso costituite da un unico verbo o da una
struttura con copula; dal punto di vista della costruzione del discorso, un rispar-
mio di elementi tematici e un maggior numero di elementi rematici. Dal punto di
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vista lessicale questo significa nella maggior parte dei casi più verbi e meno nomi.
I dati linguistici offrono quindi una base empirica all’idea che il verbo abbia
effettivamente una diversa salienza nel parlato rispetto allo scritto.

4. LE RICERCHE DI PSICOLOGIA DEL LINGUAGGIO

La variazione di comportamento dei parlanti nell’uso dei verbi rispetto ad


altre parti del discorso è stata indagata anche dalla psicologia del linguaggio. Le
ricerche sull’organizzazione del lessico mentale degli ultimi due decenni conver-
gono nel mostrare che il sistema lessicale di elaborazione del linguaggio è artico-
lato in componenti funzionalmente autonomi, nei quali le rappresentazioni di
alcune classi di parole sono distinte dal punto di vista formale, grammaticale e
semantico. Tra queste vi è quella dei verbi. Diversità di elaborazione e riconosci-
mento della varie parti del discorso e potenziali differenze in usi parlati e scritti
sono state infatti riscontrate anche in soggetti adulti normali. Vi sono a questo pro-
posito lavori sperimentali non solo sull’inglese, ma anche sul serbo-croato, l’e-
braico, il cinese e l’italiano (Deutsch et al. 1998; Frost et al. 1997; Hsu, et al.
1998; Kostic, Katz 1987; Laudanna et al. 2001).
Mentre gli studi neuropsicologici hanno riguardato i meccanismi di produ-
zione, sia in lettura che in scrittura, gli studi su adulti normali hanno messo in luce
una distinzione funzionale tra verbi e altre parti del discorso sul versante ricono-
scimento/produzione. Si tratta di lavori che hanno indagato aspetti semantici, sin-
tattici, ma anche morfologici che mostrano come i parlanti nel riconoscimento dei
verbi mettono in atto specifici processi di elaborazione.
Riportiamo qui in particolare una ricerca sperimentale (Laudanna et al. 2001)
e che indaga l’esistenza di differenze nella rappresentazione di verbi rispetto ai
nomi, mettendo a fuoco le differenze morfologiche tra queste due classi di paro-
le. La ricerca è basata su di un compito di decisione lessicale visiva e ha utilizza-
to il paradigma di priming tra radici omografe (Laudanna et al. 1989). L'effetto di
omografia di radice è l'effetto di inibizione nel riconoscimento di un target, ad
esempio, sparava, che si osserva quando tale target è preceduto da una parola che
contiene una radice omografa, ad esempio sparito. Per esempio se si presenta
prima la parola sparito poi a una distanza di un 1/5 di secondo la parola sparava,
i soggetti la riconoscono con ritardo e con un maggior numero di errori rispetto a
quando la stessa parola sparava è preceduta da una parola non relata in alcun
302 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

modo, per esempio aprire. Questo accade perché il parlante scompone le parole e
questa scomposizione produce un’ambiguità, la cui risoluzione richiede più
tempo e induce maggiormente in errore. L'effetto viene interpretato come il risul-
tato di una competizione a livello lessicale, dovuta all'identità formale delle radi-
ci delle due parole (sparito vs. sparava).
Abbiamo misurato se sussistono differenze nella direzione e nell'entità del-
l'effetto di omografia di radice tra target verbali e nominali: la presenza di tali dif-
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ferenze potrebbe indicare un diverso peso dei fattori morfologici nel riconosci-
mento dei verbi rispetto, per esempio, ai nomi. I risultati del compito di decisio-
ne lessicale hanno mostrato un effetto significativamente maggiore di interferen-
za sui verbi (35 millisecondi) rispetto ai nomi (13 millisecondi).

Grafico 3
Tempi di riconoscimento dei target nominali e verbali nelle diverse condizioni
sperimentali

Nel grafico 4 si vede bene che il tempo di decisione lessicale è sempre mag-
giore nelle coppie omografe, ma che la differenza tra le coppie omografe del tipo
sparito/sparava (sede/sedare, stile/stilare) e le coppie non omografe del tipo apri-
re/sparava nei verbi è maggiore e statisticamente significativa, mentre è inferiore
e non significativa statisticamente nei nomi.
Tali risultati forniscono un sostegno empirico all’ipotesi che le rappresenta-
zioni lessicali di input incorporano informazione circa la classe grammaticale
delle parole, anche indipendentemente dalle proprietà semantiche che a queste
corrispondono. I parlanti cioè mettono in atto strategie di riconoscimento diverse
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 303

dipendenti dalla classe grammaticale cui le parole appartengono. Inoltre, per ciò
che riguarda i verbi, le rappresentazioni lessicali sono presumibilmente scompo-
ste in radici + suffissi e sono funzionalmente distinte dalle rappresentazioni dei
nomi che invece non sono scomposte.
È possibile interpretare questi dati sulla base del diverso valore dei suffissi
flessivi verbali rispetto a quelli nominali. La rappresentazione composizionale del
verbo in radice+suffissi potrebbe derivare dal fatto che i suffissi sono immagazzi-
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nati separatamente dalle radici verbali poiché i parlanti sono sensibili alla loro
natura prevalentemente sintattica. I suffissi flessivi di persona e numero sono,
come è ovvio, totalmente dipendenti dal contesto sintattico (Booij 1996) in cui il
verbo è usato e non possono essere considerati propriamente caratteristiche lessi-
cali. Anche adottando un modello che preveda che nel lessico siano presenti tutti
i tratti morfologici che caratterizzano ciascuna unità lessicale (Chomsky 1993),
questi risultati suggeriscono che i tratti associati al verbo svolgono nell’identifi-
cazione lessicale del verbo un ruolo diverso rispetto a quello svolto nell’identifi-
cazione del nome. Ciò può forse essere attribuito al fatto che i tratti morfologici
assegnati al verbo sono portatori di categorie funzionali più forti e più fortemen-
te identificabili come elementi non inerenti la radice lessicale.
I dati di psicologia del linguaggio, benché richiedano ulteriori analisi, per-
mettono quindi di sostenere che i parlanti adottano procedimenti di riconosci-
mento diversi per i verbi rispetto ad altre classi di parole. Ancora una volta sem-
bra confermata l’idea che il verbo ha una sua specifica riconoscibilità e salienza e
che la classe grammaticale è un principio organizzativo del lessico.

5. CONCLUSIONI

Prima di tentare un’interpretazione dei dati presentati, è utile ricapitolare le


conclusioni provvisorie cui i tre ambiti di ricerca considerati giungono.
I dati afasiologici mostrano con chiarezza che alcuni pazienti possono rivela-
re deficit nella produzione o comprensione dei verbi quando scrivono, ma non
quando parlano (e viceversa). Ciò dà sostegno all’ipotesi che le informazioni sui
verbi siano rappresentate in modo indipendente e ridondante nelle componenti del
lessico mentale dedicate, rispettivamente, all’elaborazione del parlato e dello
scritto, sia nella comprensione sia nella produzione linguistica. La possibilità di
usare i verbi in una sola delle due modalità di discorso, ma non in entrambe, ridu-
ce la possibilità che questi disturbi siano connessi necessariamente a disturbi al
sistema semantico, e fa piuttosto propendere per l’idea che esista un effetto di
classe grammaticale indipendente dagli aspetti semantici.
I dati linguistici mostrano che parlato e scritto presentano una diversa distri-
buzione dei verbi. I dati sulla frequenza dei verbi mostrano che la loro presenza è
direttamente proporzionale al grado di dialogicità dei testi e inversamente pro-
porzionale al grado di pianificazione. I verbi tendono quindi ad essere più fre-
304 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

quenti nei testi tipicamente parlati, come le conversazioni, e meno frequenti nei
testi tipicamente scritti, monologici e fortemente pianificati. È dunque la diversa
fisionomia sintattico-discorsiva delle due modalità a determinare una salienza
diversa del verbo nel parlato e nello scritto. Ciò è evidentemente connesso al tipo
e al numero di significati grammaticali associati ai verbi che permettono loro di
svolgere la funzione di comment anche in assenza di elementi tematici espliciti. È
naturalmente possibile che le proprietà che paiono basiche nel parlato non lo siano
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ugualmente in tutti i contesti d’uso. È sempre bene tuttavia tenere a mente che
“natural languages are primarily designed, so to speak, for use in face-to-face
interaction, and thus there are limits to the extent to which they can be analysed
without taking this into account” (Levinson 1983: 54).
La rilevanza delle caratteristiche morfosintattiche del verbo sembra emergere
dalle ricerche di psicologia del linguaggio. Dati sperimentali mostrano l’esisten-
za di una rappresentazione lessicale propria dei verbi, diversa per esempio da
quella dei nomi, connessa probabilmente al diverso ruolo dei suffissi flessionali
associati al verbo: i parlanti procedono diversamente al riconoscimento dei verbi
grazie al particolare peso che le categorie funzionali assumono in questa classe di
parole.
L’insieme di questi dati non è di facile e immediata interpretazione, ci pare
però che siano possibili alcune conclusioni provvisorie. In primo luogo, emerge
abbastanza chiaramente che, per avere un quadro realistico delle proprietà delle
parti del discorso, è necessario considerare il loro uso in un ampio numero di con-
testi. L’osservazione della varietà d’uso permette, infatti, di cogliere aspetti che
altrimenti rimarrebbero in ombra o sottospecificati. Il confronto tra il parlato e lo
scritto ha evidenziato che l’uso dei verbi è fortemente condizionato dai vincoli
enunciativi propri delle due modalità di discorso. La differenza tra modalità
discorso non è evidentemente l’unico tipo di varietà da considerare. Riteniamo
però che ciò può fornire tra l’altro una possibile linea interpretativa anche dei dati
afasiologici: il fatto che alcuni parlanti afasici preservino i verbi quando parlano
può essere connesso allo specifico ruolo sintattico-discorsivo svolto nel discorso
parlato.
In secondo luogo, il fatto che l’uso dei verbi nel parlato sia da attribuire a fat-
tori sintattico-discorsivi è compatibile con i risultati di esperimenti di psicologia
del linguaggio dai quali emerge che i parlanti tendono a riconoscere l’esistenza di
una specificità dei suffissi flessivi verbali, rispetto a quelli nominali, separandoli
dalla radice nei compiti di riconoscimento lessicale. È importante richiamare l’at-
tenzione sugli aspetti discorsivi perché ricordiamo che i significati veicolati dai
suffissi flessivi del verbo, almeno in italiano, (la persona, il numero, il tempo, in
parte anche l’aspetto e il modo) sono di tipo deittico, servono cioè a contestualiz-
zare il contenuto proposizionale dell’enunciato. Ciò non esclude a priori che ci
siano forti connessioni con aspetti semantici: ci pare tuttavia che in tutti e tre gli
ambiti considerati questi non appaiono primari nell’architettura delle rappresen-
tazioni lessicali. Del resto, perplessità sulle possibilità di individuare definizioni
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 305

semantiche soddisfacenti del verbo anche solo per un gruppo di lingue, e tanto più
per lingue distanti tra loro, sono manifestate da molti ricercatori (da ultima Bybee
2000).
Da ciò non si deduce che gli elementi pertinenti per il riconoscimento lessi-
cale debbano necessariamente coincidere con quelli che determinano la salienza
del verbo nel parlato e che eventualmente ne preservano l’uso negli afasici. Non
stiamo qui ipotizzando un meccanico isomorfismo tra le proprietà rilevanti per la
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definizione di classi mentali di parole e classi linguistiche: siamo ben consapevo-


li che ciò che si rivela pertinente alla definizione di “classe grammaticale nel cer-
vello” potrebbe non essere sufficiente a delimitare una corrispondente classe
grammaticale di una data lingua. È possibile inoltre che le varie lingue pertinen-
tizzino in modo diverso le eventuali proprietà delle rappresentazioni nel processo
di costituzione delle classi grammaticali di parole. Ci pare tuttavia che rintraccia-
re i punti di eventuale incompatibilità tra dati sperimentali provenienti da lingue
diverse e da aree di ricerca diverse, lungi dall’essere un ostacolo, sia un modo per
migliorare la definizione dei problemi e aumentare il potere esplicativo interno
alle discipline.
306 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA

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3.
Lingua, italiani regionali e dialetti
FRANCESCO AVOLIO
(Università dell’Aquila)

Forme verbali italiane e italo-romanze nel Centro-Sud: coesistenza, imper-


meabilità, interferenza
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1. Gli appunti che qui si presentano hanno lo scopo di illustrare i primi risulta-
ti di indagini recentemente avviate sui sistemi verbali di varietà italo-romanze non
standard (“dialetti”) dell’Italia centro-meridionale, e di dar conto delle prospettive
che, con il proseguimento delle ricerche, sono andate pian piano delineandosi. In
particolare, sono state prese più approfonditamente in esame, anche per finalità
diverse da quelle qui predominanti, le parlate della conca aquilana (Abruzzo), del
Reatino ad essa contiguo, dell’area metropolitana di Roma e della provincia di
Latina (Lazio) – e più esattamente della sezione meridionale di quest’ultima, appar-
tenuta fino al 1927 alla provincia di Caserta –, e dell’entroterra partenopeo (area
frattese-afragolese), con la non-lontana costiera d’Amalfi (Campania).
L’analisi ha riguardato anche, e non secondariamente, le modalità del contat-
to con i vari sottosistemi della parte italiana del repertorio linguistico di queste
stesse zone (italiani «regionali», italiano standard o comune, ecc.). Non è inutile
sottolineare fin d’ora, infatti, che, per quanto tali modalità – sintetizzate nell’e-
spressione lingua cum dialectis – siano state studiate ormai abbastanza a fondo,
almeno dal punto di vista teorico e relativamente ad alcune aree, e soprattutto in
riferimento alla fonetica e al lessico, non disponiamo ancora di molte notizie
riguardanti le reazioni e ristrutturazioni di ambito morfologico, e più specifica-
mente nella morfologia flessiva e verbale. Il terreno è ancora abbastanza vergine,
e ben si presta, quindi, sia a nuove inchieste sul campo, sia a primi tentativi di
sistemazione e riflessione teorica.
Il corpus di parlato è stato raccolto in più riprese, soprattutto con il metodo
ormai definito (sia pure con qualche non infondata perplessità1) dell’“osservazio-
ne partecipante” (o “partecipazione osservante”), eccetto pochi dati, tratti da rile-
vamenti dialettologici effettuati in altre occasioni e per altri scopi, dal 1993 al
2000. Tale metodo, per l’indubbia “neutralità” e la sua natura non invasiva, è stato
preferito all’intervista con questionario, pure ampiamente adoperato nelle inchie-
ste dialettali e non2, e sulla cui utilità generale per i nostro studi non sembra leci-

1 Su cui si era già pronunciato, in anni “non sospetti”, Glauco Sanga (cfr. Sanga 1982).
2 Piace segnalare, per esempio, il recentissimo questionario messo a punto da Teresa Poggi
Salani e Annalisa Nesi nell’ambito del progetto di ricerca interuniversitaria ex 40% «La lingua
della città: italiano regionale e varietà dialettali», coordinato proprio dalla collega Poggi Salani
e attualmente in corso.
312 FRANCESCO AVOLIO

to, in definitiva, continuare a nutrire troppi dubbi3. Le conseguenze della sua natu-
ra metalinguistica, però, se non rappresentano un (grosso) ostacolo quando,
appunto, si suggerisce una traduzione da un codice ad un altro, sufficientemente
distinto dal primo, si fanno invece sentire se abbiamo a che fare con domande che
impongono all’informatore una riflessione all’interno di un’unica varietà, che per
di più coincide, in gran parte, con quella adoperata nel corso dell’intervista. Ciò
non significa, ovviamente, che ricerche condotte con l’ausilio di questo strumen-
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to, e proposte anche all’interno di questo stesso volume, siano irrimediabilmente


viziate; ciò che conta, anzi, è avvicinarsi il più possibile ad una reale integrazio-
ne dei metodi d’indagine, l’unica che possa garantire un proficuo avanzamento
delle nostre conoscenze in un settore così complesso, insidioso ed in continua tra-
sformazione.

2. La ricerca è stata concepita e si è sviluppata partendo da due premesse di


carattere generale, di cui chi scrive è debitore a Gaetano Berruto, senza dubbio lo
studioso che con più constanza si è dedicato all’approfondimento delle tematiche
del contatto fra italiano e dialetto. La prima ribadisce, al di fuori di ogni intento
polemico fine a se stesso, che l’italianizzazione dei dialetti resta “una tematica
squisitamente dialettologica [...], fra le più interessanti per i suoi stretti rapporti
con questioni generali di linguistica storica, di sociolinguistica, di teoria e meto-
dologia del contatto linguistico e per le sue parentele con la creolistica” (Berruto
1997: 27). Non si tratta, insomma, di stabilire una volta per tutte se ad occuparsi
di certe cose debbano essere sempre e solo dialettologi anziché sociolinguisti o
altro ancora (ammesso che esistano dialettologi che non siano anche sociolingui-
sti); ciò che importa è rendersi conto della più profonda natura di un certo setto-
re di ricerca, e riconoscerla anche andando al di là delle mode o di convinzioni più
o meno ampiamente condivise.
La seconda premessa si identifica con un concetto, quello di «ibridazione»,
coniato sempre da Berruto e rivelatosi molto utile per l’elaborazione della casisti-
ca dell’«interferenza» nei termini in cui viene proposta in questa sede; secondo
Berruto, la “nozione di ibridazione è un concetto ‘forte’, da riservare a casi ben
definiti”, ed in particolare, si dovrebbe parlare di ibridazione linguistica vera e
propria solo

3 Jaberg e Jud, del resto, hanno già spiegato chiaramente, nell’acuta e ancor oggi fonda-
mentale Introduzione all’AIS, che l’uso del questionario ha “certo il difetto che non ci dice come
parla l’intervistato, ma solo come reagisce a una domanda posta in lingua scritta. Ma l’esame
dei materiali raccolti ha dimostrato che il buon informatore può ampiamente sottrarsi alla sug-
gestione della domanda e che la risposta in dialetto rappresenta, nella grande maggioranza dei
casi, il parlato reale: il testimone è certo condizionato, e perciò le sue risposte, prima di essere
accettate, vanno sottoposte a verifica: ma egli vuole dire la verità, cosa che non può disconoscere
chi giudichi con prudenza e avvedutezza” (AIS 1987, vol. I: 300-01).
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 313

quando i morfemi grammaticali sono mescolati, vale a dire che le strut-


ture e le forme (e eventualmente le categorie) della grammatica di una
varietà provengono da due lingue o varietà socio-geografiche diverse»
(Berruto 1988: 112-13).

Non è fuori luogo, data la tematica del presente volume e del Congresso, sottoli-
neare la centralità attribuita al morfema grammaticale. Anche il concetto di “interfe-
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renza”, inoltre, dovrebbe essere riservato a casi ben precisi, senza arrivare a includer-
vi tutti i diversi tipi di contatto italiano-dialetto nel’ambito della morfologia del verbo.

3. Per chiarire meglio quest’ultimo punto, comunque, è opportuno partire


proprio dai diversi casi di contatto tra forme verbali italiane e italoromanze fino-
ra individuati nell’analisi del corpus. Questi sono riconducibili – secondo una
prima ipotesi di classificazione – a tre fattispecie principali.

3.1. Per la prima si propone la denominazione di coesistenza. È ben noto che


l’italiano può spesso ospitare forme verbali dialettali, in piccola parte “aggiusta-
te” nel loro aspetto fonetico, così come nei dialetti possono entrare, accanto a
quelle locali, varianti italiane dialettizzate. Si tratta certo del caso meglio docu-
mentato, non solo in riferimento al verbo, anche perché all’origine di sovrapposi-
zioni e ipercorrettismi, in massima parte già segnalati. Non porteremo quindi
molti esempi: i più interessanti, nelle aree indagate, vengono da Roma, città nella
quale la compresenza, anche nel parlato, di codici diversi è più antica e radicata
che altrove, e minore la distanza linguistica fra essi; così, per gli infiniti dei verbi,
ecco forme come spégnere e spégne “spegnere”, la prima tipica dei registri italia-
ni del repertorio, la seconda di quelli dialettali (i quali, però, sono spesso sentiti e
interpretati dagli stessi parlanti come livelli “bassi” di italofonia4): l’una e l’altra
hanno poi prodotto l’ipercorrettismo “italiano” (peraltro, come si sa, non limitato
a Roma, ma anche settentrionale e toscano) spéngere, tuttora assai diffuso (spén-
gi la luçe) e presente non di rado – nella forma apocopata spénge – in enunciati
in romanesco (nun zò spenge “non so spegnere”), accanto a spégne e all’ormai
antiquato smorzà 5. Per quanto riguarda poi quest’ultimo verbo, e il suo allotropo

4 Cfr. su questo problema, Vignuzzi 1994 – in cui si parla, significativamente di “italiano


de Roma – e anche il recentissimo D’Achille-Giovanardi 2001:18-26 e 43-62.
5 Insomma, spéngi starebbe a spégni come mangi sta a magni. Questi dati, peraltro, inte-
grano quanto riferito dal Battaglia (GDLI, XIX, s.v. spègnere) per il quale spèngere è toscano e
letterario, e dallo Zingarelli, (1a ed.) che lo definisce “fior.” cioè fiorentino (ma Firenze in anti-
co aveva spégni). Rohlfs (1966-69, § 256) delimita bene – basandosi sull’AIS – l’estensione
attuale della area dello sviluppo in -ññ-, che verso Nord taglia in due la Toscana, arrestandosi a
Est della linea Firenze-Siena. A Roma, pertanto, forme come spéngi potrebbero essere interpre-
tate, oltre che come ipercorrette, anche come un ulteriore segno del plurisecolare influsso tosca-
no e fiorentino sul dialetto della città.
314 FRANCESCO AVOLIO

smorzare, essi possono essere usati in italiano, anche se oggi, dentro e fuori
l’Urbe, appaiono invecchiati, se non arcaici (cioè ricordati, ma non più in uso). Un
altro, analogo esempio, che questa volta accomuna Roma alla maggior parte del-
l’area mediana ad essa vicina, è la forma, tanto italiana quanto romanesca (e
umbro-orientale, sabina, ecc. guadambià “guadagnare”6, dovuta sempre ad iper-
correttismo (per reazione a verbi dialettali come cagnà “cambiare” ecc.).
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3.2. Le occorrenze riunite sotto l’etichetta di impermeabilità sono invece


quelle che ancor oggi compaiono esclusivamente al livello del “dialetto” e nella
loro veste fonetica originaria, senza poter sperare di trasmigrare nei vari registri
di lingua, ma senza neanche farsi condizionare da questi ultimi. Dalle analisi con-
dotte, è emerso in modo sufficientemente chiaro che i casi di impermeabilità sono
più diffusi di quanto normalmente non si creda; essi, anzi, possono essere inter-
pretati come una delle manifestazioni meno ambigue dell’autovalutazione del par-
lante o, più precisamente, della sua «lealtà linguistica» o «sentimento della lin-
gua» (nel senso terraciniano dell’espressione) 7; non è raro, inoltre (e lo vedremo
poco più avanti), il ricorso proprio a forme verbali di questo gruppo come segna-
le del code-switching italiano-dialetto in direzione del secondo.
Si può poi procedere ad un’ulteriore distinzione fra le occorrenze tuttora dota-
te di una notevole vitalità (spesso vere e proprie “forme bandiera”, ancora sentite
come tali) e quelle che, per vari motivi (non sempre chiari, e perciò allo studio),
sono ormai in crisi. Un esempio del primo tipo è senza dubbio il napoletano aggë
‘ho’, che, nella perifrasi aggë a ‘ho da’ + infinito, sostituisce anche il verbo “dove-
re” aggë a fà ‘devo fare’, addò aggë a i ‘dove devo andare’, che aggë sia ancora
oggi sentito come uno dei più tipici rappresentanti della napoletanità linguistica è
dimostrato non solo (e non tanto) dalla vitalità di queste forme e costrutti nelle
varietà odierne di napoletano8 (vitalità alla quale nessuno fa caso, tanto essa è nor-
male, quotidiana), quanto (e si può dire soprattutto) dagli atteggiamenti e dalle
valutazioni di parlanti di aree limitrofe, ad esempio di Campobasso e dintorni, in
cui aggë è attualmente in espansione a scapito delle forme locali äjë, éjë e simi-
li). La capacità espansiva di aggë visibile soprattutto in soggetti giovani9, rappre-
senta, fra l’altro, uno dei tanti sviluppi in direzione “non italiana” osservabili nelle

6 Cfr. la frase se il latte lo fai bbòno, guadambi ‘se il latte lo fai buono, guadagni’, raccol-
ta da un allevatore di Testa di Lepre (località rurale del Comune di Roma, nei pressi della via
Aurelia), nel dicembre 1991, e classico esempio del frequente, inestricabile intreccio fra dialet-
to e italiano, in cui nemmeno la forma verbale consente una chiara attribuzione all’uno o all’al-
tro dei due codici principali.
7 Cfr., su questo, Sobrero 1989.
8 Per la loro posizione geolinguistica nell’ambito della Campania dialettale, mi permetto di
rinviare ad Avolio 1999 e Avolio 2000a.
9 Un’attestazione significativa, proprio per Campobasso città, e in Piemontese 1985: 68,
che riporta la stessa forma anche per Campolieto (Cb).
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 315

dinamiche linguistiche contemporanee, sui quali, perciò, torneremo più avanti (§


3.3.2.).
Esempio del secondo tipo “impermeabilità” di una forma attualmente in re-
gresso) è il participio passato romanesco ito “andato”, ultime superstite dell’anti-
co paradigma di IRE10 (che è da tempo indebolito in tutta un’ampia fascia imme-
diatamente ad Ovest della linea Roma-Ancona, cioè, nel Lazio, a Occidente della
valle del Tevere), anch’esso usato solo a livello dialettale (“l’italiano de Roma”
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oggi lo respinge), ma ormai in difficoltà perfino in quest’ultimo, di fronte alla


concorrenza di annato, che non appartiene, invece, al gruppo delle forme “imper-
meabili” (potendo comparire normalmente anche in registri più alti, vale a dire
quelli sentiti come italiani “bassi”: un caso di coesistenza, insomma).
Ad ogni modo, per cercare di capire ancora meglio in cosa consista l’“imper-
meabilità”, non è inutile proporre qualche altro esempio, rappresentativo delle
varie zone finora maggiormente indagate.

3.2.1. In area mediana, sono certamente “impermeabili” a qualunque contat-


to con la parte italiana del repertorio le forme di sesta persona del presente indi-
cativo di non pochi verbi, determinatesi sia per ragioni fonetiche (dileguo di /v/ o
/d/ intervocalici), sia per analogia11; si vedano il reatino e l’aquilano “sabino”
(parlato, cioè, nei paesi dell’Alto Aterno, a NO della città dell’Aquila12), au
‘hanno’ (< /avu/), cau ‘cadono’ (< /kadu/), dau ‘danno’, fau ‘fanno’, stau ‘stan-
no’, vau o bau ‘vanno’13, ecc. Alberto Cirese ricorda ancora le frasi che i conta-
dini della piana di Rieti pronunciarono quando videro volare sulle loro teste i
primi aeroplani, frasi che erano di questo tenore:

(1) Còme fau, bbau pe l’aria e’n že ne cau?


‘come fanno, vanno per (l’) aria e non (se ne) cadono?

Da allora la composizione del repertorio linguistico reatino è sicuramente


cambiata, ma non le modalità d’uso di tali verbi, che continuano a manifestarsi in
bocca ai nipoti e pronipoti di quei contadini solo all’interno dei registri più mar-

10 E, più esattamente, del sistema vado: imo (cfr. Rohlfs 1966-69, § 545).
11 Cfr. Rohlfs 1966-69, §§ 532, 541-43, 546.
12 Sulla partizione geolinguistica dell’area aquilana, per la quale queste forme hanno note-
vole rilevanza, cfr. Avolio 1995: 94 (e carta a p. 99), 1998: 15 (più la nota 21 e le carte alle pp. 17
e 18), 2001: 110-11.
13 Cfr. Avolio 1995: 97. Tali forme sono comunque diffuse in presso che tutta l’area “media-
na”. Nelle zone in cui non si è mantenuta la distinzione, alla finale, fra -O- e -U-, troviamo gene-
ralmente ào, dao, fao, ecc. Perfino in alcune varietà “meridionali, ad esempio nella Val di
Comino, tra Sora e Cassino si possono rinvenire esempi come fauë ‘fanno’ (cfr. Avolio 1992:
305).
316 FRANCESCO AVOLIO

camatamente dialettali. In altre parole, a differenza di quanto abbiamo visto a pro-


posito di guadambià nell’agro romano, la loro presenza è una condizione suffi-
ciente per caratterizzare, agli occhi degli stessi parlanti, gli enunciati in cui com-
paiono come strettamente, “tipicamente” locali.

3.2.2. A Formia, nel Lazio meridionale costiero, un tempo campano ammini-


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strativamente e tuttora “perinapoletano” linguisticamente14, una delle caratteristi-


che più evidenti della (fono)morfologia verbale – e al tempo stesso una delle dif-
ferenze rispetto all’area napoletana – è rappresentata dalle forme di quarta e quin-
ta persona del presente indicativo della prima coniugazione, comme ballimmë,
ballitë ‘balliamo, ballate’, cantimmë´, cantitë ‘cantiamo, cantate’, stimmë, stitë/
‘stiamo, state’, e altre ancora, avvicinatesi per metaplasmo a quella metafoniche
delle altre coniugazioni originarie, identiche alle napoletane facimmë, facitë ‘fac-
ciamo, fate’, ma facemë, facetë a Monte San Biaggio, ‘facemo, facete’ a Mintur-
no, vulimmë, vulitë ‘vogliamo, volete’, e anche simmë, sitë ‘siamo, siete’, ecc.15.
Ebbene, sono proprio queste tra i primi elementi ad essere eliminati non appena
si tenti di alzare il tono del discorso, anche senza sconfinare nell’italiano regio-
nale (che in questa zona, in seguito alle già accennate modifiche amministrative
del ventennio, è oggi, a differenza dei livelli di dialetto, in forte trasformazione16);
essendo tipicamente formiane, e sentite come tali anche da coloro che parlano
quelle varietà dialettali17, ecco che il loro uso viene, per dir così, automaticamen-
te confinato nei livelli del repertorio che hanno una connotazione esclusivamente
locale.

3.2.3. Un caso un po’ particolare è rappresentato dalle varianti sinonimiche


(qui, anzi, tanto vale dirlo subito, siamo nell’ambito, assai ristretto, di una sinoni-
mia presso che assoluta): le parlate con ricco polimorfismo, come appunto quelle
napoletane18, si mostrano, a questo proposito, di grande interesse. A Napoli città
(e nel contado frattese-afragolese e amalfitano) la prima persona del presente indi-
cativo di ‘stare’ può essere sia stónghë che ‘stò’, forme assolutamente intercam-
biabili: un afragolese, ad esempio, dirà altrettanto spesso stónghë liggènnë e sto’-
liggehne ‘sto leggendo’ (si noti il raddoppiamento fonosintattico che, nella secon-
da variante, avvicina il verbo napoletano all’italiano stò, ugualmente dotato di

14Cfr. Avolio 1992: 312-15, Avolio 200 b.


15Cfr. Mattej 1873: 26-27, 113, 118, Avolio 1992: 298, Avolio 2000b: 243-46, 251.
16 Cfr. Avolio 2000b: 241-42.
17 Tuttora, nel centro urbano, si possono cogliere sottili differenze fra le parlate dei due
nuclei originari di Castellone e Mola di Gaeta (cfr. Anche Mattej 1873: 32, 44).
18 Cfr. Radtke 1997: 39-42.
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 317

proprietà raddoppianti19). Una non trascurabile riprova è offerta da una popolare


canzone di Pino Daniele (artista che, come alcuni sanno, è nato nel centro urba-
no, al rione Sanità), un verso della quale dice

(2) i’stó ssèmpë ccà, stónghë ancòrë ccà ’io sto (sono) sempre qui, sto
ancora qui’,
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mostrando che la scelta, a brevissima distanza, per l’una o l’altra variante è detta-
ta unicamente da ragioni metrico-ritmiche. Delle due, però, solo la prima è in
grado di passare ai vari livelli di italiano regionale.

3.2.4. Il polimorfismo napoletano ha la sua rilevanza perché ci mostra subito,


in modo piuttosto evidente, che gli elementi in gioco nella regolazione di tale pas-
saggio – cruciale e al tempo stesso frequentissimo – o, in altre parole, nel rende-
re “impermeabili” certe forme piuttosto che altre, sono, da un lato (e ciò è intui-
tivo), la distanza fonetica (o lontananza lessicale) dalla corrispondente forma ver-
bale italiana: dall’altro, un uso registrabile quasi solo all’interno di costrutti tutto-
ra sentiti come propri, in via esclusiva, dei vari livelli di dialetto (anche se maga-
ri non sempre lo sono), cioè dei poli bassi del continuum, e per questo tagliati
fuori dalla zona di interscambio del repertorio, quella, per dirla di nuovo con
Berruto, in cui gli “addensamenti “del continuum stesso sarebbero più numerosi20.
Ciò, comunque, non impedisce a queste varianti “più dialettali di altre” di svol-
gere, all’interno della fenomenologia del code-switching, ruoli di tutto rilievo, ad
esempio quello di segnale stesso del cambio di codice, e, perfino all’interno di
enunciati mistilingui (code-mixing), di assumere funzioni espressive in senso lato,
analizzabili tanto dal punto di vista semantico quanto da quello della “pragmati-
ca della variazione” 21, come la sottolineatura di snodi importanti sul piano del
contenuto, oppure l’enfasi assegnata dal locutore ad una parte del suo discorso.
Per fare subito un esempio concreto, il costrutto aquilano (cittadino e “sabino”)

(3) štèngo a ddì (lett.) “sto dicendo”

in cui l’elemento verbale “impermeabile” è ovviamente štèngo (il costrut-


to durativo con a + infinito, ancorché non del tutto standard, viene invece sen-

19 Difficile, peraltro, stabilire se stó continui direttamente (e, per di più, in modo fonetica-
mente regolare) STO o se sia, invece, una riduzione più tarda di stónghë: il confronto con altre
zone del Centro-Sud, dove si sono stabilizzate forme uniche in -go (cfr. aquil., abruzz. e mol.
stèngo, stènghë, o di altro tipo (reat. stajo, luc. stachë) potrebbe deporre a favore della seconda
ipotesi (ma si tratta soltanto di uno degli elementi di valutazione).
20 Cfr. Berruto 1987: 29-31.
21 Cfr. su questo, almeno Stehl 1988: 9-11.
318 FRANCESCO AVOLIO

tito come equivalente a quelli in lingua22, si è rivelato, in parecchie occorren-


ze, sia

a) il segnale del passaggio al dialetto, come in:


(4) hai capito? štèngo a ddì, còme se pò fà? “sto dicendo, come si può
fare?”
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sia

b) la sottolineatura, dialettale, di un concetto espresso prevalentemente in


italiano:
(5) Non è vvenuto; non ha fatto niènte. Allora …štèngo a ddì, così non
va bbène.

Un possibile sviluppo di b) – in minor misura di a) – è rappresentato dalla


progressiva riduzione dell’espressione al ruolo di fatismo, l’unico in grado, forse,
col tempo, di intaccare l‘“impermeabilità” di štèngo (che ad ogni modo, preso iso-
latamente, conserva intatto il suo carattere “antitaliano”).

3.2.5. Un’espressione verbale dialettale in cui non è più percepita l’affinità


col tipo corrispondente (ed in tutto equivalente) della lingua standard è il napole-
tano vachë pigliannë ‘vado prendendo’, cioè, vado in giro per prendere’. In ita-
liano andare + gerundio ha perduto vigore, ed è pertanto sentito come antiquato,
conservando limitati ambiti d’uso solo nello scritto (fanno eccezione singole
espressioni cristallizzate, come andare girando, oggi meno comune di andare in
giro, pur essendo dotato di una diversa sfumatura semantica). In napoletano, al
contrario, ì + gerundio è ancora ben saldo, e, se associato alle varie forme coniu-
gate (ed “impermeabili”) del paradigma di ì, diviene (e viene interpretato come)
un costrutto integralmente dialettale, malgrado – verrebbe da dire – la sua “lette-
rarietà” (vicinanza strutturale all’italiano più accurato). Il verbo vachë ‘vado’
dunque, si trova come inserito in una sorta di gabbia protettiva.

3.2.6. La breve panoramica proposta negli ultimi paragrafi suggerisce un paio


di conclusioni provvisorie che non è inutile esplicitare:

22 Per utili approfondimenti su quest’ultimo, anche di carattere diacronico, cfr. D’Achille-


Giovanardi 2001: 46-54.
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 319

a) la prima è che l“impermeabilità” offre più di un argomento a quanti


sostengono che non saremmo di fronte ad un reale continuum italiano-dia-
letto o dialetto-italiano, visto che alcune parti del sistema dialettale di fatto
non rientrerebbero in quelle dinamiche che il concetto stesso di conti-
nuum (sia pure variamente formulato) presuppone. In altre parole, alcuni
“nuclei duri” dei dialetti italoromanzi, fra cui numerose forme verbali –
con i costrutti nei quali queste vengono più comunemente impiegate –,
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sembrerebbero meglio interpretabili riccorrendo ad ipotesi teoriche diver-


se, come, per esempio, quella di gradatum.
b) Non saremmo di fronte, come Berruto (1988: 117-19) ha dimostrato
per altra via, nemmeno ad una reale “convergenza”, che, in quanto tale,
avrebbe ormai dovuto interessare tutti gli elementi dei sistemi in con-
tatto, compresi quelli morfologici. Non sarebbe poi solo il dialetto a
determinarla, cioè a configurarsi come l’unico elemento convergente
(verso l’italiano, che invece proseguirebbe per la sua strada); a volte, e
lo abbiamo visto, le dinamiche in atto possono favorire una certa con-
tinuità nell’uso di elementi dialettali, i quali mostrano di poter arrivare
a modificare gli stessi italiani regionali con i quali interagiscono (cioè
a determinare una convergenza di segno opposto, dall’italiano verso il
dialetto).

Si tratta, insomma, di tematiche di importanza centrale per i nostri studi, che


qui, purtroppo, non si ha né il modo né il tempo di approfondire ulteriormente. Ci
accontentiamo, allora, di aver additato un accattivante e, in parte, inedito campo
di ricerca, sottolineando il ruolo primario che, nel contatto italiano-dialetto, viene
assegnato alla morfologia flessiva verbale, un ruolo che forse non era ancora
emerso in tutta la sua complessità ed evidenza.

3.3. Dopo aver provato a chiarire cosa siano le forme verbali impermeabili, vi
è infine da considerare la casistica che proponiamo di denominare “interferenza”
stricto sensu, non limitata, come avviene per la coesistenza, alla fonetica. Anche
qui gli esempi sono piuttosto numerosi e di un certo interesse. La maggior parte
di essi è rappresentata da casi in cui forma italiana e forma italoromanza (dialet-
tale) non sono foneticamente molto distanti (tendendo quindi a sovrapporsi e a
ibridarsi) ma conservano pur sempre, in origine, valori semantici parzialmente
diversi; accade così che, alcune volte, l’attribuzione all’una o all’altra delle due
parti fondamentali del repertorio possa risultare assai ardua.

3.3.1. Un primo esempio è rappresentato da štanno per ‘stanno’ nel parlato


della zona dell’Aquila: di primo acchito sembrerebbe una variante in tutto e per
tutto italiana – avente come unico elemento non standard la sibilante palatalizza-
320 FRANCESCO AVOLIO

ta – o, tutt’al più, un altro banale caso di coesistenza; ecco, però, che enunciati
comunissimi come

6) non ci štanno per ‘non ci sono’

fanno immediatamente cogliere l’influsso delle forme italoromanze locali (anzi,


proprie del dialetto stretto) štanno (per l’aquilano cittadino) e štannë (per l’area
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dialettale usualmente denominata “vestina”, già di tipo meridionale, a Sud-Est


del capoluogo, oltre la linea Piànola-Bazzano-Pescomaggiore-Filetto-Assergi) 23
che, per l’appunto a differenza di quanto accade nella lingua standard e in altre
zone d’Italia –, significano anche ‘sono’, con valore non copulativo (a L’Aquila
città si dice vidi pó, štanno lòco ‘guarda un pò, stanno lì’, ma ssó bbóni ‘sono
buoni’).
Nell’interferenza, insomma, la semantica gioca un ruolo di maggior rilievo, e
ciò, come si è già detto, rende l’interferenza stessa un concetto piuttosto “forte”,
che non andrebbe esteso all’insieme della casistica riguardante il contatto italia-
no/dialetto (e quello interdialettale). Il processo, comunque, può non giungere,
per tutti i parlanti, fino al massimo grado nei due sensi: per spiegarci meglio, l’e-
sempio appena fatto rappresentava un caso diffusissimo di interferenza della
semantica dialettale sull’italiano; è possibile, ovviamente, cogliere anche dinami-
che che vanno nella direzione opposta, ma, per quanto riguarda speficiamente
štanno, è (ancora) molto raro che esso venga usato, poniamo, in frasi come non ci
štanno per ‘non sono d’accordo’, ‘non sono consenzienti’ (influsso della seman-
tica italiana neostandard in un contesto di italiano regionale) e, se ciò accade, lo
si osserva, in linea di massima, quasi solo nei parlanti più giovani, e ancor più di
rado al livello del loro dialetto italianizzato.
Alla luce di quanto detto fin qui, dunque, l’interferenza può essere anche (re)
interpretata come spia di tendenze linguistiche per ora in nuce, ma probabilmen-
te in grado di svilupparsi in modo anche cospicuo nel prossimo futuro.

3.3.2. Un altro problema interessante che può essere affrontato dal punto di
vista dell’interferenza non riguarda, stavolta, singole forme, ma la sorte di un inte-
ro modo verbale, il condizionale, che, come si sa, è da tempo in sensibile regres-
so in molte aree del Centro-Sud d’Italia24. La perdita di vitalità nel dialetto è cer-
tamente dovuta – oltre che a situazioni locali – al prolungato influsso dei vari
livelli italiani del repertorio: al condizionale, infatti, viene oggi sistematicamente
preferito il congiuntivo, modo che è, in molte varietà, e specialmente nell’imper-

23 Cfr. Avolio 1995: 94, Avolio 1998: 17, Avolio 2001: 109-12.
24 Cfr. Rohlfs 1966: 69 §§ 604 -744.
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 321

fetto, quasi identico a quello della lingua standard (mentre il condizionale assume
altrettanto spesso sembianze piuttosto diverse). Ma l’avanzata del congiuntivo –
ed è qui il fatto interessante – non ha portato, almeno per adesso, ad un livella-
mento sulle condizioni delle varietà più alte di italiano, nelle quali anzi, le forme
del condizionale, presente e passato, restano del tutto usuali, quando non sono
addirittura in espansione fra i parlanti semicolti di altre zone (e in queste – il det-
taglio non è trascurabile – rientra la stessa Roma, cfr. § 3.3.3.); di più, il con-
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giuntivo “neodialettale”, proprio perché sentito simile o uguale al corrispondente


in lingua, può facilmente tornare a quest’ultima mantenendovi, però, le funzioni
e i significati che ha ormai assunto nel dialetto, ed è proprio tale andamento bidi-
rezionale, fra l’altro, che giustifica il ricorso alla categoria dell’interferenza. Va
poi precisato che il condizionale non arretra solo nell’ambito del periodo ipoteti-
co, uno dei casi finora più studiati ma praticamente in tutte le sue possibili moda-
lità d’uso.
Ricapitolando, tanto a Napoli città e nel contado frattese-afragolese quanto
nell’Aquilano “vestino”, se un tempo, in dialetto si diceva

(7) i’ të vurria vasà o parlà ‘vorrei baciarti o parlarti’

(frasi che sono anche il titolo di una ancor oggi popolarissima canzone napoleta-
na e di un ormai noto volume degli amici e colleghi Patricia Bianchi, Nicola De
Blasi e Rita Librandi) e

(8) vurria sapé ‘vorrei sapere’

oggi per lo più si dice

(9) i’ të vuléssë parlà


(10) vuléssë sapé 25

25 Nelle parlate della costiera amalfitana il condizionale ha resistito di più – anche rispet-
to ad altre aree napoletane periferiche, per es. la costa flegrea – e forme come farrië ‘farei’ e
vurrië ‘vorrei’ sono ancora udibili con una certa frequenza. Per quanto riguarda le stesse dina-
miche nell’area aquilana vestina, ed in particolare nel paese di Monticchio, frazione
dell’Aquila sulle sponde dell’Aterno, cfr. quanto afferma, quasi contraddicendosi (ma ciò non
è senza significato!), il poeta Pasquale Serri, autore di una pregevole raccolta di versi dialet-
tali, in un dattiloscritto rimasto inedito: “Notiamo ancora, per quanto riguarda i verbi, che il
congiuntivo, nell’uso dialettale, è spesso adoperato al posto del condizionale. I’volésse sapé
significa ‘io vorrei sapere’; mentre l’espressione vurria sapé, forse più bella [nonché titolo di
una delle sue poesie in monticchiese, cfr. Serri (1992: 56)], non è propria del dialetto di Mon-
ticchio”.
322 FRANCESCO AVOLIO

I registri bassi dell’italiano di Napoli e dintorni mostrano poi lo stesso tipo di


congiuntivo del dialetto recente, come nella frase

(11) il signor avvocato volésse farvi una domanda

in cui però la selezione, tra le forme di origine dialettale, di quella esteriormente


più simile alla corrispondente in lingua (cioè il congiuntivo imperfetto), mantiene
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in realtà il parlante lontano dallo scherma più diffuso nell’italiano moderno, con-
notandolo come fortemente dialettofono.

3.3.3. Ancora una volta, il quadro offerto da Roma, riguardo a questa parti-
colare casistica dell’interferenza, mostra aspetti originali. Nella capitale, infatti, la
situazione è rovesciata rispetto a quella di Napoli e dell’Aquilano: non solo il con-
dizionale di base italiana si espande a scapito del congiuntivo (cfr. frasi del tipo
se cce l’avrèi, lo farèi), ma va anche a rimpiazzare le forme condizionali del
romanesco più stretto (ad es. avrébbe, farébbe, dirébbe nella prima persona del
condizionale presente), in regresso anche se non ancora scomparse 26. L’estrema
(e piuttosto antica) fluidità di questo stato di cose, che vede la convivenza, nel
repertorio linguistico di un buon numero di Romani, di ben due tipi di condizio-
nale più il congiuntivo, ha facilmente determinato l’insorgere di forme analogiche
(in -ss-) non ancora del tutto stabilizzate e quindi apparentemente nuove, come
quelle della frase

(12) nói sarèssimo quelli d’a cooperativa culturale ‘noi saremmo…’27

Qui, con ogni probabilità, è il condizionale più recente (“italiano”), non solo
sentito come basso (proprio perché anche “dialettale”!), ma poco usato (si tratta
infatti di una quarta persona), a consentire un tentativo di innalzamento di registro

26Rohlfs 1996-69 § 597.


27L’enunciato è stato raccolto nel 1990 da un piccolo imprenditore edile di mezza età, resi-
dente nella zona di Campo dei Fiori. Da saréste è stato tratto saréssimo, sul modello di aveste
/avessimo, secondo un procedimento già riconoscibile in autori come lo Straparola e l’Ariosto
(cfr. Rohlfs 1966:69, § 598). Il Rohlfs nello stesso paragrafo appena citato, riferisce che “tali
forme sono ancor oggi caratteristiche del Lazio settentrionale, di parte dell’Umbria e del margi-
ne meridionale della Toscana (lavoraréssimo). Sarèssimo per ‘saremmo’ si ritrova poi nel reati-
no (cfr. Vignuzzi, 1988: 627), che trae il dato da Campanelli (1896: 135-37) a ulteriorie dimo-
strazione che non si tratta di dinamiche recenti); in quello stesso dialetto, anzi sono ormai sta-
bili forme di passato remoto come annèssimo ‘andammo’ (più antico jèssimo), facèssimo
‘facemmo’ (cfr. Ibid.) ecc. che sembrano derivare da un tipo assai simile, e anzi contiguo, di
sovrapposizione, quella fra passato remoto e congiuntivo imperfetto, in cui alcune forme di
quinta persona (è appunto il caso di aveste) sono di fatto identiche, anche in lingua (per cui da
‘aveste’, passato remoto, si ricava facilmente un ‘avessimo’ col significatto di ‘avemmo’).
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 323

destinato però a naufragare di fronte all’ormai limitata competenza di forme e


funzioni dell’arcaico congiuntivo (e di quello, presso che identico, della lingua
standard) e a lasciar trapelare, così, una voce analogica oggi non troppo ricorren-
te, ma in qualche modo già “collaudata” dalla tradizione, e per di più simile pro-
prio a quella del congiuntivo. Anche questo parlante romano, dunque, come già il
napoletano dell’esempio precedente, verrebbe irrimediabilmente “bollato” come
dialettofono, ma, a voler essere precisi, egli, diversamente da quello, ha in realtà
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fornito un nuovo esempio non di dialetto tout court, o di italiano “regionale”


basso, bensì di un’inestricabile sovrapposizione di varietà diverse del proprio
repertorio, in cui – come si è già visto – la forma verbale non è in grado, da sola,
di far pendere il piatto della bilancia sul lato della lingua o sull’altro.
Gli esempi romani ci mostrano, insomma, una problematica dell’interferenza
ancora più vasta e complessa di quanto non apparisse inizialmente, confermando,
una volta di più, la necessità sia di un notevole ampliamento del corpus di dati,
sia dell’affinamento e perfezionamento degli strumenti di analisi e classificazio-
ne. La tripartizione qui proposta è solo un primo tentativo, destinato quasi certa-
mente ad essere aggiornato, integrato, sostituito.
324 FRANCESCO AVOLIO

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

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LOUIS BEGIONI
(Université Charles de Gaulle – Lille 3)

Le costruzioni verbali V + Indicatore spaziale nell’area dialettale dell’Appen-


nino parmense
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1. PREMESSA

Questo studio sulle costruzioni verbali seguite da un elemento spaziale post-


verbale si basa su una indagine intitolata Descrizione e microvariazioni linguisti-
che in un spazio dialettale: l’area di Berceto (Provincia di Parma) ed effettuata
nell’ambito delle attività del centro di ricerca Langues Romanes dell’Université
de Paris 3 – La Sorbonne Nouvelle negli anni 1980-1990. Lo scopo principale era
quello di ottenere una descrizione completa di tutti i fenomeni linguistici di detto
spazio dialettale – situato nella zona di confine tra Emilia, Toscana e Liguria – e
di rendere conto di tutti i cambiamenti geolinguistici relativi ai diversi punti met-
tendone in evidenza le microvariazioni e proponendo un’integrazione del poli-
morfismo – che non viene preso in considerazione dagli atlanti linguistici italiani
– su mappe adeguate. La variazione geolinguistica e l’individuazione, secondo i
principi della dialettometria elaborati da H. Guiter, J. Séguy e H. Goebl1, delle
zone fluttuanti di frontiera hanno costituito uno dei principali obbiettivi dell'in-
chiesta.

2. LA STRUTTURA DELLE COSTRUZIONI VERBALI V + IS:

2.1. Individuazione delle forme:

La maggior parte dei dialetti dell’area appenninica parmense, che apparten-


gono alla zona interdialettale ligure-emiliana, possiedono un sistema deittico spa-
ziale particolarmente sviluppato per i pronomi personali, i pronomi e gli aggetti-

1 Guiter, H., Atlas et frontières linguistiques, in Straka, G., Gardette, P., ed., 1973, Les dia-
lectes romans de France à la lumière des Atlas régionaux, “Actes du Colloque National du
CNRS (Strasbourg, 24-28 mai 1971)”, Paris, Éditions du CNRS, pp. 61-109.
Séguy, J., 1973, La dialectométrie dans l'Atlas linguistique de la Gascogne, in “Revue de
linguistique romane”, 37; pp. 1-24.
Goebl, H., 1981, Éléments d’analyse dialectométrique (avec application à l’AIS), in
“Revue de linguistique romane”, 45; pp. 349-420.
328 LOUIS BEGIONI

vi dimostrativi. Questo fenomeno riguarda anche le costruzioni verbali composte


da un verbo e da un avverbio di luogo che chiameremo particella deittica post-
verbale. In effetti, là dove altri dialetti e lingue utilizzano forme verbali sintetiche,
i dialetti di quest’area dialettale preferiscono usare un verbo base associato ad una
particella deittica postverbale che noteremo IS (indicatore spaziale).

Per esprimere il concetto di “salire” avremo le seguenti espressioni:


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ñir sy o ãdàr sy in cui sy dà una più grande precisione spaziale nel


movimento dei due verbi. Abbiamo lo stesso fenomeno nella forma
katar sy che significa “raccogliere”.

La frequenza delle costruzioni V + IS è molto elevata. Queste potrebbero


essere paragonate al sistema tedesco delle particelle verbali separabili (aus, bei,
mit, von, nach, seit, zu,...) nonché a quello delle posposizioni spaziali inglesi (up,
down, ecc.) che modificano profondamente e precisano il significato dei verbi che
li accompagnano. Già G. I. Ascoli2 aveva visto nel modello tedesco una corri-
spondenza strutturale con alcune locuzioni verbali di dialetti dell’area romanza.
Anche G. Rohlfs3 a proposito dell’origine dell’avverbio “via” avanza l’ipotesi di
un calco dal tedesco weg e osserva un funzionamento analogo con le strutture ver-
bali dell’italiano “andar via”, “mandar via”, “buttar via”, poiché l’uso di questo
avverbio è limitato alla zona centro-settentrionale dell’Italia. Nel paragrafo 918
esaminando le strutture verbo + avverbio di luogo osserva la rarità di queste
costruzioni in Toscana mentre sono molto più diffuse nei dialetti settentrionali
(milanese, veneto, ticinese, ecc.) con evidenti influssi germanici.

Si sono interessati a questo tipo di struttura pure altri linguisti; K. Jaberg4


mette in guardia contro una possibile generalizzazione della tesi dell’Ascoli.
Basandosi su precedenti ricerche di J. Jud5, osserva che questo tipo di struttura
verbale è molto frequente nei dialetti italiani settentrionali e che esistono anche in
toscano, in vecchio francese e soprattutto nei dialetti franco-provenzali odierni6.

2Ascoli, G.I., in Archivio Glottologico Italiano 7 (1880-1883), pp. 556 ss.


3Rohlfs, G., Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, I: Fonetica, II:
Morfologia, III: Sintassi e formazione delle parole, Torino, Einaudi, 1966-1969; paragrafi cita-
ti 916, 917, 918.
4 Jaberg, K., in Mélanges Bally, pp. 283 ss., Genève, 1939.
5 Jud, J., in Archiv für das Studium der neueren Sprachen 124 (1910), p. 394.
6 Jaberg, K., op. cit., p. 287; vedi anche: Muret. E., in Festschrift Louis Gauchat,
Sauerländer, Aarau, 1926, p. 82; Voillat, F., in Actes du Colloque de dialectologie franco-pro-
vençale, Neuchâtel, 1969, pp. 224-225; Butz, B., Morphosyntax der Mundart von Vermes (Val
Terbi), “Romanica Helvetica” 1981, 95, pp. 186-187.
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 329

Prima di tentare di elaborare una classificazione coerente della struttura verbo


+ avverbio di luogo, esaminiamo alcuni esempi.

In alcuni casi, si può osservare che il legame tra la particella postverbale e il


verbo è più forte con una gradazione più o meno importante di lessicalizzazione:

– per esempio, l’espressione takar sy na dàka significa “appendere


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una giacca” in cui si sente nettamente il riavvicinamento semantico


tra i due elementi;
– nelle espressioni tirar sy l’arlɔj (caricare l’orologio) e skrivεr sy
(annotare, prendere appunti), la lessicalizzazione si rafforza metten-
do in evidenza un significato particolare;
– la lessicalizzazione è quasi totale quando la particella postverbale
tende a limitare il significato deittico. Abbiamo per esempio bytar
via (vomitare) e lavar zy (lavare i piatti). Nel caso di lavar zy, la par-
ticella zy è stata senz’altro scelta a causa del movimento generale
verso il basso (in particolare quello dell’acqua che scorre) in questo
tipo di azione.
– Accanto a questo tipo di verbi per i quali la fusione semantica tra il
verbo e la particella postverbale è molto avanzata, ne abbiamo altri
che presentano stadi diversi di lessicalizzazione. Per esempio, ad un
grado inferiore di lessicalizzazione, bytar via significa “buttare”. In
modo analogo, questo verbo può essere costruito con altre particel-
le postverbali:
bytar sy (buttar su),
butar zy (buttar giù),
bytar føra (buttar fuori),
bytar dε̌jtεr (buttar dentro),
bytar insima (buttar sopra),
ecc.

In questi casi, poiché il legame semantico non è esclusivo, il grado di lessi-


calizzazione non è così avanzato come per il verbo lavar che può soltanto
costruirsi con la particella zy nel significato “amalgamato” già osservato. Per
spiegare queste costruzioni, la psicomeccanica di Gustave Guillaume7 parla di
“realizzazione semantica” (in francese saisie) anticipata della forma verbale che,
restando semanticamente più astratta, tende ad integrare la particella postverbale
fino a fargli perdere una parte del suo significato di base e produrre così nuovi

7 Guillaume, G., Langage et science du langage, Paris, Nizet, 1964; Temps et verbe, Paris,
Champion, 1929; Principi di linguistica teorica, Napoli, Liguori, 1999 (Trad. di R. Silvi).
330 LOUIS BEGIONI

significati lessicalizzati. Alla fine della nostra relazione torneremo sulla possibi-
lità di illustrare il funzionamento dinamico di questo tipo di costruzione nell’am-
bito della psicomeccanica del linguaggio.
Un’altra osservazione riguarda la tendenza che ha l'aggiunta della particella
postverbale a rendere l’aspetto del verbo più perfettivo poiché fa considerare l’a-
zione verbale più vicina al suo punto terminale. Il fatto di precisare il termine spa-
ziale dell’azione ha delle conseguenze sul piano temporale finendo così per modi-
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ficare il contenuto aspettuale stesso della forma verbale. Per esempio, in katar sy
di fõz (raccogliere dei funghi), l’accento è posto sul risultato dell’azione grazie
all’avverbio sy mentre questa dimensione aspettuale è completamente assente nel-
l’espressione katar i fõz (andare per funghi).

2.2. La natura dei verbi e degli IS

I verbi che abbiamo incontrato nelle costruzioni del tipo Verbo + Indicatore
spaziale appartengono al seguente insieme:

V = {ãdàr (andare), bèvεr (bere), bytàr (buttare), dar (dare), dir (dire),
far / fàrεs (fare / farsi), fikàr (mettere con forza, conficcare), diràr
(girare), katàr (trovare dopo una ricerca), kavàr (togliere), lavàr (lava-
re), mεtεr (mettere), ñir (venire), passàr (passare), pigàr (piegare),
rivàr (arrivare), saltàr (saltare), sbraiàr (gridare), sbyrlàr (spingere),
sgyrlàr (cadere perdendo l’equilibrio, anche rotolare), skapàr (scappa-
re), skrìvεr (scrivere), sràr (chiudere), stàr (stare, rimanere), takàr
(attaccare, appendere), taiàr (tagliare), tiràr (tirare), tʃapàr (afferrare),
tør (prendere, togliere), trar (tirare)}.

Questa lista non è certo esauriente, ma contiene i verbi riscontrati più fre-
quentemente nelle costruzioni V + IS.

Gli indicatori spaziali fanno parte del seguente insieme:


IS = {adɔs (addosso, con contatto), adrè (appresso, dietro), apɔst (apposto),
dε̃jtεr (dentro), føra (fuori), inãs (in avanti), indrè (indietro), inlà (in là, movi-
mento che si allontana dal locutore), insà (in qua, movimento verso il locutore),
intùren (intorno), ki (qui), la (là), li (li), sùra (sopra, al di sopra), sùta (sotto, al di
sotto), sy (su), ùtεr (da questa parte), vìa (via), zy (giù)}.
Ancora una volta, la lista non è esauriente, tuttavia contiene gli avverbi più
utilizzati.

Tutti i verbi elencati qui sopra possono essere considerati globalmente come
verbi di movimento. Infatti, se si prova a classificarli dal punto di vista semanti-
co, si hanno i seguenti sottoinsiemi:
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 331

– i verbi di movimento che esprimono specificatamente uno spostamento spa-


ziale:

V1 = {ãdàr (andare), diràr (girare), ñir (venire), passàr (passare), rivàr (arriva-
re), saltàr (saltare), sbyrlàr (spingere), sgyrlàr (cadere perdendo l’equilibrio,
anche rotolare), skapàr (scappare)};
– un secondo sottoinsieme V2 più difficile da definire; i verbi che lo costitui-
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scono esprimono un movimento “interno” al senso proprio e/o al senso figu-


rato:
V2 = {bytàr (buttare), bèvεr (bere), dar (dare), dir (dire), far / fàrεs (fare / farsi),
fikàr (conficcare), katàr (trovare “dopo una ricerca”), kavàr (togliere), lavàr
(lavare), mὲtεr (mettere), pigàr (piegare), sbraiàr (gridare), skrìvεr (scrivere),
sràr (chiudere), takàr (attaccare, appendere), taiàr (tagliare), tìràr (tirare), tʃapar
(afferrare), tør (prendere, togliere), tràr (tirare)}.

In questo sottoinsieme V2, si possono distinguere:


– il sottogruppo dei verbi S1V2 che esprimono un movimento esplicito in
senso proprio:

S1V2 = {bytàr, fikàr, katàr, kavàr, lavàr, mεtεr, pigàr, sràr, takàr, taiàr,
tiràr, tʃapàr, tør, tràr};

– il sottogruppo S2V2 i cui verbi esprimono un movimento “interno” collega-


to ad una attività fisiologica e/o intellettuale dell’uomo:

S2V2 = {bèvεr, dir, mãdàr, sbraiàr, skrìvεr}

dove bèvεr, mãdàr, dir e sbraiàr implicano un’attività ed un movimento


della bocca, e skrìvεr un’attività intellettuale ed un movimento della mano;
– il sottogruppo S3V2 = {dar, far} che comprende due verbi il cui semantismo
mantiene implicito una parte del movimento il quale può essere precisato dal con-
testo o da un indicatore spaziale;
– infine il sottoinsieme V3 che comprende solo il verbo stàr (stare, restare,
rimanere). Anche se questo verbo può essere considerato un verbo di stato, può
esprimere l’inizio di un’azione, ovvero avviare il movimento interno dell’azio-
ne; è il caso dell’espressione del futuro immediato a stag pεr partìr (sto per par-
tire).

Come si è già accennato a più riprese, la classificazione di questi verbi è arbi-


traria e contestabile, ma ha almeno il vantaggio di chiarirne il significato in rap-
porto al concetto di movimento.
332 LOUIS BEGIONI

Nell’insieme degli indicatori spaziali IS, si possono distinguere quelli che


esprimono un movimento esplicito (S1IS) e quelli che necessitano del semantismo
del verbo per precisare questo movimento:

S1 IS = {adrè, inãs, indrè, inlà, insà, intùren, vìa}


S2 IS = {adɔs, a pɔst, dε̃ jtεr, føra, ki, la, li, sùra, sùta, sy, ùtεr, zy}.
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Si può notare che:

insà indica un movimento in direzione del locutore:

esempio:

mentre inlà indica un movimento di allontanamento dal locutore;

esempio:

Dal punto di vista morfologico, questi due indicatori spaziali sono composti
da IN che indica il movimento, mentre LA aggiunge il significato dell’area del
NON-IO con la consonante “l” e SA esprime il riavvicinamento al locutore in un
movimento contrario.
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 333

3. I TIPI DI RELAZIONI ESISTENTI TRA VERBO DI MOVIMENTO E IS

Nella relazione che unisce il verbo all’indicatore spaziale (V + IS), si posso-


no evidenziare tre tipi di relazione:

a) le relazioni lessicalizzate tra V e IS che noteremo V – IS;


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b) le relazioni che conferiscono una maggior precisione al verbo il cui


significato può essere modificato e che noteremo:
V+( IS).
È molto difficile distinguere questo tipo di relazione dalla preceden-
te poiché la differenza tra una relazione lessicalizzata ed una rela-
zione in corso o quasi lessicalizzata è molto sottile.
c) infine, le relazioni “semplici”, non obbligatorie, nelle quali l’indica-
tore spaziale precisa il luogo e/o il movimento senza modificare in
profondità il significato del verbo:
V + (IS )
(in questo tipo di relazione, l’IS può commutare con altri IS).

Si propone adesso una serie di esempi classificandoli a seconda dell’indica-


tore spaziale e del tipo di relazione.

3.1. Le costruzioni Verbo + sy:

3.1.1. Le relazioni V – IS:

V – sy:
– Le seguenti relazioni verbo – indicatore spaziale assomigliano al modello V
– sy anche se il verbo può essere realizzato in diversi contesti senza “sy” o senza
la presenza di una particella postverbale almeno per lo stesso significato di base;
esempi:
– star sy (alzarsi)
a sö sta sy a ɔt ùri
(mi sono alzato alle otto)
– mεtεr sy (“aprire” nel significato di “aprire un negozio”,
“cominciare un’attività commerciale”):
l a mis sy un negɔsi
(ha aperto un negozio)
– katàr sy (raccogliere);
334 LOUIS BEGIONI

la sãta la kàta sy l fɔi


(Santa raccoglie le foglie)
Di fronte a katàr sy, katàr significa “trovare” allorché *katar zy non esiste.
– takàr sy (appendere):
esempio:
takàr sy un kuàdEr (appendere un quadro)
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3.1.2. Le relazioni V + ( sy):

In questo tipo di relazione, l’indicatore spaziale modifica o precisa spazial-


mente il significato e nella maggior parte dei casi non può commutare con nessun
altro IS:
– tør sy (portar via).
Esempio:
pr al viài l a tɔt sy un panεj
(per il viaggio, ha preso un sandwich)
tør zy esiste per esempio nell’espressione tør zy un piat (prendere un piatto
“che si trova in alto”).
– tiràr sy (caricare)
tiràr sy n arlɔi (caricare un orologio)
– srar sy (chiudere bene, ermeticamente)
esempi:
sèra sy la finèstra (chiudi bene la finestra)
– dir sy (raccontare)
– skrivεr sy (raccontare per iscritto)

3.1.3. Le relazioni V + (sy ):

Per tutti gli altri verbi, la relazione è meno forte e l’indicatore spaziale sy pre-
cisa soltanto il significato del verbo:
esempi:
pigàr sy (piegare)
bytàr sy (cambiare)
tʃapàr sy (prendere, acchiappare)
– ñir sy, ãdàr sy (salire)

ñir è usato quando il locutore si avvicina, ãdàr negli altri casi.


Esempi:
– vèna sy (sali)
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 335
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Per i
verbi mãdàr (mangiare) e bèvεr (bere), l’indicatore spaziale sy intensifica il con-
cetto di mangiare e di bere:
mãdà sy e bèva sy.

3.2. Le costruzioni Verbo + zy:

3.2.1. Le relazioni V – zy:

– kavàrεs zy (spogliarsi).
Esempio:
prima d ãdàr a let al se kàva zy
(prima di andare a letto si spoglia).

– tràr zy (demolire, buttare giù)


esempio:
a i ɔ fat trar zy la me ka
(ho fatto demolire la mia casa)
– lavàr zy (lavare i piatti)
Non abbiamo classificato questa espressione verbale nella categoria prece-
dente poiché si può anche dire: “lavàr i piat” (lavare i piatti).
336 LOUIS BEGIONI

– bytàr zy nell’espressione bytàr zy la pasta


(mettere la pasta a cuocere)

3.2.2. Le relazioni V + ( zy):


– ñir o ãdàr zy (scendere)
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con le stesse distinzioni relative al locutore che in 3.1.2.


– tirar zy la pùra (togliere la polvere, spolverare)

3.2.3. Le relazioni V + (zy ):

– taiàr zy al salàm (tagliare il salame)


– mεtεr zy la butìʎa (porre in basso – o mettere per terra – la bottiglia).
Qui la differenza di classe di appartenenza tra mεtεr zy e mεtεr sy
(cfr. 3.2.1.1.) è evidente.
– saltàr zy (saltare verso il basso, scendere).
– tør zy (prendere “con movimento verso il basso).

Esempio:
tør zy l piat (prendere il piatto – se questo è posto in alto relativamente alla
coppia locutore / interlocutore) ecc.
È evidente anche il fatto che le particelle postverbali sy e zy sono le più pro-
duttive nei dialetti dell’area appenninica parmense.

3.2.3. Le costruzioni V + føra e V + dε̃jtεr:

Per queste due costruzioni non ci sono relazioni lessicalizzate.

3.2.3.1. Le relazioni V + (føra) e V + (dε̃jtεr):


ãdàr

ñir
] føra (uscire)
ãdàr

ñir
] dε̃jtεr (entrare)

– tiràr føra (estrarre da, tirar fuori da) per esempio:

a l ɔ tirà føra dla me tàska


(l’ho tirato fuori dalla tasca)
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 337

– saltàr føra (scaturire) nel significato l e saltà føra un guài


(è sorto un problema)

3.3. Le relazioni V + ( føra) e V + ( dε̃jtεr):

– saltàr dε̃ jtεr (saltare verso l’interno)


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– mεtεr føra (mettere fuori)


– mεtεr dε̃ jtεr (mettere dentro)
– mãdàr føra (mangiare fuori)
ecc.

3.4. Le costruzioni V + sùra e V + sùta:

Per queste due costruzioni, le relazioni sono tutte del tipo:


V+( sùra) e V + ( sùta)
salvo per la relazione lessicalizzata V – sùta
nell’espressione: lavuràr suta padrõ
(lavorare per un padrone)
Altri esempi:


ãdàr

ñir
] sùra (salire – il riferimento essendo il punto di arrivo)

3.5. Le costruzioni V + adrè:

Sono praticamente tutte assimilabili alle relazioni del tipo:

V+( adré);

esempi:


ãdàr

ñir
] adré (seguire, accompagnare)

– tør adrè (portar via con se)


– sbraiàr adrè (gridare dietro).
338 LOUIS BEGIONI

3.6. Le costruzioni V + vìa:

Come in italiano, queste costruzioni sono estremamente produttive.


Le relazioni sono per la maggior parte del tipo V + ( vìa);
esempi:

ãdàr
]
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– vìa (andar via, partire)


ñir


tør

tiràr
] vìa (togliere)

– mὲtεr vìa (mettere a posto)


ecc.

3.7. Le costruzioni V + insà e V + inlà:

Per queste due costruzioni, insà che esprime l’avvicinarsi al locutore e inlà
l’allontanarsi, hanno una forte carica semantica e danno una grande precisione
spaziale; in questo modo, la maggior parte delle costruzioni sarà del tipo:

V+( insà) e V + ( inlà);

esempi:


ãdàr

ñir
] insà (avvicinarsi); ãdàr inlà (allontanarsi); va inlà (allontanati).

*vèna inlà è agrammaticale poiché ci sarebbe una contraddizione semantica


tra inlà che esprime l’allontanamento nello spazio del NON-IO e vèna che indica
un avvicinarsi al locutore.
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 339

– tiràr insà (tirare verso di se)


– tør kualkɔza insà (prendere qualche cosa avvicinandola a se)
ecc.

3.8. Le costruzioni V + inãs, indré, intùren, a pɔst, adɔs:


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La maggior parte delle costruzioni di questo tipo hanno la seguente struttura:


V+( IS);
esempi:


ãdàr

ñir
] inãs (andare avanti, avanzare)


ãdàr

ñir
] indré (andare indietro)

– pasàr inãs (sorpassare)


– turnàr indré (tornare indietro)
– mεtεr inãs (mettere in avanti)
– mεtεr indrè (mettere indietro)
– diràr intùren (girare intorno)
– guardàrεs intùren (guardarsi intorno)
– mεtεr a pɔst (mettere a posto)


ãdàr

ñir
] adɔs
andare

venire
] - addosso)

– tiràr adɔs (tirare addosso)


– saltàr adɔs (saltare addosso)
ecc.

3.9. Le costruzioni V + ki, ùtεr, li, la:

Come per gli aggettivi ed i pronomi dimostrativi, gli indicatori spaziali ki,
ùtεr, li, la possono essere associati ai verbi che nel loro semantismo comprendo-
no il concetto esplicito o implicito di movimento, considerate le compatibilità con
la posizione del locutore nello spazio della comunicazione;
esempi:
340 LOUIS BEGIONI

avremo: vèna ki (vieni qui), vèna ùtεr (torna qui)


– va la (vai là)

– ãdàr potendo essere associato a [ la


li
li + ùtεr

[
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ki
– mεta li
la

L’analisi delle costruzioni studiate ci permette di mettere in evidenza l’im-


portanza della deissi spaziale nell’area interdialettale dell’Appennino ligure-par-
mense. I dialetti di questa zona, hanno la capacità di generare dei verbi “deittici
spaziali” a partire da verbi di base come ãdàr, ñir, i due verbi di movimento per
eccellenza, far, mεtεr, tiràr, ecc., facendoli seguire da indicatori spaziali (avverbi
di luogo) così da ottenere innumerevoli sfumature verbali.

In questa creatività dialettale, che sembra quasi infinita, le combinazioni con


sy e zy sono le più numerose.

4. PROLEGOMENI AD UN’INTERPRETAZIONE PSICOSISTEMATICA

I primi risultati del nostro studio, ci hanno condotto a distinguere per le


costruzioni V + IS, tre categorie morfosemantiche che vanno dalla costruzione più
lessicalizzata a quella meno lessicalizzata. In un certo senso, possiamo parlare di
un movimento graduale che va dalla non lessicalizzazione (ad esempio i verbi che
si possono costruire con più particelle postverbali senza modificare il loro signi-
ficato di base) alla lessicalizzazione quasi totale per la quale i significati del verbo
e della particella postverbale si fondono per dare vita ad un verbo che lo stesso
funzionamento di un verbo a forma sintetica. Questo movimento semantico può
essere rappresentato su un asse orizzontale che permette di evidenziare i tre stadi
(o gradi) di lessicalizzazione:
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 341

Questo tipo di rappresentazione è molto simile a l’asse dinamico che Gustave


Guillaume definisce tra lingua e discorso.

Lingua discorso
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Per Guillaume, la lingua è sistema interiorizzato paragonabile alla definizio-


ne proposta da de Saussure. Mentre, il discorso è un atto di espressione momen-
taneo. In altre parole, la lingua è il “poter-dire” allorché il discorso rappresenta il
“dire” e il “detto”. Il discorso di Guillaume non è assimilabile alla parola di de
Saussure poiché la parole esiste sia nella lingua (analisi fonologica) sia nel discor-
so (analisi fonetica)8.

Partendo da questo modello teorico, possiamo mettere in evidenza il fatto che


le unità lessicali possono essere costruite dal punto di vista semantico al livello
della lingua, al livello del discorso o tra i due. Nel caso delle costruzioni verbali
V + IS, diremo che quando la relazione tra verbo e particella post verbale è inse-
parabile (cioè lessicalizzata), la costruzione del significato avviene al livello della
lingua; all’opposto, quando questa relazione costituisce un assemblaggio morfo-
semantico di due unità lessicali separate diremo che la costruzione del significa-
to avviene al livello del discorso. Tra queste estremità, troviamo una serie di tappe
o strati intermedi in cui una doppia interpretazione sarà possibile con una fusio-
ne/dissociazione semantica parziale che nel nostro caso rende conto delle costru-
zione che hanno sia un uso non lessicalizzato che uno o altri usi semi o in via di
lessicalizzazione. Se si volesse formalizzare questo fenomeno potremo raffigurar-
lo su un asse orizzontale dinamico che va dal discorso verso la lingua facendo
apparire in mezzo una serie di strati intermedi (e fluttuanti) di lessicalizzazione
che indicano con chiarezza il movimento semantico delle costruzioni verbali con-
siderate.

8 Boone, A., Joly, A., Dictionnaire terminologique de la systématique du langage, Paris,


L’Harmattan, 1996.
342 LOUIS BEGIONI
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Questo fenomeno può essere osservato anche in italiano che tuttavia è meno
ricco quanto al numero delle costruzioni possibili. Un aspetto che non manchere-
mo di approfondire in una prossima ricerca.
FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
(Université de Toulouse – Le Mirail)

Imperativi ‘monosillabici’ e ‘Minimal Word’ in italiano ‘standard’ e in sardo


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“Selon la remarque de Leibnitz (Otium Hanoverianum, pag. 427), la vraie


racine des verbes est dans l’impératif. Le premier & le plus naturel usage du
verbe est de s’en servir à l’impératif, en ordonnant l’action qui est à faire. Ex. voi,
prends, tiens, fais. Ce temps du verbe est fort souvent monosyllabe dans la plu-
part des langues. Lors même qu’il ne l’est pas, il est plus dépouillé qu’aucun
autre des additions terminatives ou augmentatives, qui chargent la racine pre-
mière du mot, & peuvent empêcher qu’on ne la discerne”.
(De Brosse Charles (1765),Traité de la formation méchanique des langues, et
principes physiques de l’étymologie. Tome second, Paris. pp. 398-399)

0. Gli imperativi detti “monosillabici” fanno parte, in italiano come pure in


sardo, delle forme verbali più brevi. Ovviamente, si tratta di una classe chiusa di
items che raggruppa poche forme, ma che ciò nonostante sono interessantissime
dal punto di vista morfofonologico. Fra le domande che queste forme pongono,
vogliamo in particolare cercare di rispondere alle seguenti: 1) Gli imperativi detti
monosillabici rispettano un certo schema prosodico? 2) Tramite quali operazioni
vengono generati? 3) Possiamo parlare di “paradigmi misti” a proposito dell’im-
perativo?

1. Prima di cercare di rispondere alle domande che ci siamo posti, ci sembra


opportuno chiarire alcuni aspetti del modello teorico che verrà utilizzato nel corso
dell’articolo.

1.1. L’azione congiunta di restrizioni e di regole assicura la buona formazio-


ne delle forme di superficie. Il modello teorico che ci proponiamo di seguire è di
conseguenza quello proposto da Paradis (1988), ossia la Théorie des contraintes
et Stratégies de Réparation (TCSR).
Questo modello fonologico interpreta i diversi processi fonologici come il
risultato di due operazioni fondamentali, le strategie di riparazione (SR): l’inser-
zione e la cancellazione. Queste due operazioni sono motivate dalla necessità di
rispettare i principi universali e le restrizioni parametriche che controllano le con-
dizioni di buona formazione delle forme superficiali. I principi descrivono ciò che
344 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU

è comune alle lingue, le restrizioni parametriche, invece, sono delle opzioni mar-
cate, selezionate da una lingua, all’interno della gamma di possibilità offerta dalla
grammatica universale. Le lingue possono rispondere affermativamento o negati-
vamente a queste opzioni e una risposta negativa indica il rifiuto di un certo tipo
di complessità, ossia la scelta di un’opzione non-marcata. In questo caso una lin-
gua è caratterizzata da una restrizione negativa. Le restrizioni però possono esse-
re violate e la loro violazione comporta automaticamente l’applicazione delle SR.
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Le SR sono delle operazioni fonologiche universali e non legate ad un contesto


specifico che inseriscono o cancellano del materiale fonologico al fine di riparare
la violazione. La loro applicazione deve rispettare dei criteri ben precisi:

• le SR si applicano al livello fonologico più basso a cui fa riferimen-


to la restrizione che è stata violata e richiedono il minor numero di
operazioni possibili (principio di minimalità);
• i livelli fonologici sono stabiliti sulla base della gerarchia dei livel-
li fonologici (GLF), una gerarchia dell’organizzazione fonologica
indipendente e universale, ordinata nel modo seguente:
livello prosodico > sillaba > scheletro > nodo radice > tratti non
terminali > tratti terminali;
• quando una SR deve applicarsi, bisogna conservare al massimo la
forma sottostante (principio di preservazione) ed è preferibile
aggiungere dell’informazione che non eliminarne;
• la preservazione dell’informazione segmentale non deve oltrepassa-
re i limiti imposti dalla soglia di tolleranza: tutte le lingue stabili-
scono un limite alla preservazione del materiale fonologico;
• inoltre, nel caso in cui due o più restrizioni siano violate contempo-
raneamente, bisogna riparare la restrizione che fa riferimento al
livello più elevato della GLF (convenzione di precedenza).

Le restrizioni possono essere infrante da fattori esterni (prestiti lessicali, pato-


logie del linguaggio, ecc..) o da fattori interni (processi morfologici, conflitti tra
restrizioni, ecc..).
A questo punto è necessario sottolineare un altro punto fondamentale di que-
sto modello. La TCSR in effetti, postula che la fonologia di una lingua è organiz-
zata in una serie di zone e in una serie di sottosistemi. Il che signifca che bisogna
operare una distinzione tra il CENTRO (core) e la PERIFERIA (periphery) del
sistema1.

1 Va sottolineato tuttavia che le nozioni di Centro e di Periferia e il loro ruolo nell’analisi


strutturale di vari fenomeni linguistici sono stati sviluppati e discussi ampiamente dai linguisti
delle scuole di Mosca e di Praga (per una discussione del ruolo e della portata di queste nozio-
ni, v. Floričić & Boula de Mareüil (in corso di st.).
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 345
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Il nucleo contiene tutte le restrizioni di una lingua e di conseguenza ne defi-


nisce la fonologia e ne governa il lessico. Non tutte le forme linguistiche però
fanno parte del nucleo; alcune di esse (interiezioni, onomatopee, nomi propri, pre-
stiti non-assimilati), appartengono alla periferia. La periferia contiene un sotto-
insieme delle restrizioni di una lingua: ciò significa che le forme situate nella peri-
feria non sono sottomesse a tutte le restrizioni che governano il nucleo. Certe
restrizioni possono dunque essere disattivate e di conseguenza non richiedono più
l’intervento delle SR.

1.2. Un altro aspetto che necessita un chiarimento concerne la natura delle


rappresentazioni. In effetti, le nostre rappresentazioni sono costituite da strutture
gerarchiche e multidimensionali, come viene mostrato in (2):
346 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU

A partire da questo schema, possiamo osservare che il livello più basso è for-
mato dalla linea melodica dei segmenti associati a delle categorie prosodiche
gerarchizzate. La prima categoria è costituita dalla mora (m). La mora è un’unità
di peso (v. Hayes (1989), ciò significa che due more costituiscono una sillaba
pesante e una mora, invece, una sillaba leggera. Le more sono dunque associate
alle sillabe (s) e queste ultime sono associate a dei piedi (F). I piedi dipendono, a
loro volta, dalla parola prosodica (PrW)2. Se ad un dato livello ci troviamo in pre-
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senza di una configurazione costituita da due elementi prosodici in relazione


assimmetrica (due more, due sillabe, ecc..), uno dei due elementi funzionerà come
testa e l’altro come dipendente. Nel nostro caso, la mora associata alla vocale a di
fai funziona come testa (mh), mentre quella che domina il glide j costituisce il
dipendente. Ritroviamo lo stesso tipo di relazione assimmetrica anche al livello
della sillaba e del piede. In una forma come [‘ka:za] casa, per esempio, la sillaba
che domina [ka] è la testa del piede (la sillaba è accentata), mentre quella che
domina [za] è il dipendente:

2. Gli imperativi monosillabici in italiano raggruppano le forme segnalate in


4a-b, ossia gli imperativi dei verbi andare, stare, fare, dare, dire, e essere.

4a
fai ([‘faj]) / fa’ ([‘fa]) (infinito: fare ([‘fa:re]))
dai ([‘daj]) / da’ ([‘da]) (infinito: dare ([‘da:re]))
vai ([‘vaj]) / va’ ([‘va]) (infinito: andare ([an‘da:re]))
stai ([‘staj]) / sta’ ([‘sta]) (infinito: stare ([‘sta:re]))

2 Esistono delle categorie di livello superiore a cui però non faremo riferimento nell’ambi-
to di questo contributo, anche perché la pertinenza di alcune di esse è tuttora oggetto di dibatti-
to (v. Nespor (1993: Cap. 7).
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 347

4b
di’ ([‘di]) (infinito: dire ([‘di:re]))
sii ([‘si:]) (infinito: essere ([‘εs:ere]))

Gli imperativi in 4a si distinguono da quelli in 4b nel senso che presentano


una forma piena e una forma ridotta; invece gli imperativi di’ e sii hanno solo la
forma ‘breve’ e la forma ‘lunga’.
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Anche in sardo, l’elenco degli imperativi monosillabici è ristretto, dato che


raggruppa per lo più gli imperativi elencati in 5.:

5.
na’ ([‘na] < nara [‘na:ra] ‘di’!’)
mi’ ([‘mi] < mira [‘mi:ra] ‘guarda!’)
te’ ([‘tε] < tene ([‘tε:nε]) ‘tieni!’)
ba’ ([‘ba] < bae [‘ba:ε]) ‘vai!’)
bi’ ([‘bi] < bie [‘bi:ε]) ‘ecco!’)
to’ ([‘tɔ] < tocca [‘tɔk:a]) ‘dai!’)

Il primo punto da chiarire negli imperativi italiani riguarda la relazione tra le


forme lunghe e le forme brevi. Una forma come dai per esempio viene ottenuta
mediante l’inserzione di un glide, oppure è la forma breve da’ che deriva da dai
mediante cancellazione del glide? L’ipotesi dell’inserzione del glide è sostenuta
da Peperkamp (1997). Secondo Peperkamp, gli imperativi monosillabici risulte-
rebbero dalla troncazione dell’infinito. Le forme dai, fai, stai, e vai sarebbero
quindi ottenute tramite due operazioni: troncazione degli infiniti corrispondenti e
inserzione del glide, come mostra la derivazione in 6.:

6.

a) fare ([‘fa:re])) > fa + inserzione del glide > fai ([‘faj])


b) dare ([‘da:re]) > da + inserzione del glide > dai ([‘daj])
c) stare ([‘sta:re]) > sta + inserzione del glide > stai ([‘staj])
d) andare ([an’da:re]) > anda ([’anda]) + inserzione del glide > * andai

Nel caso dei verbi fare, dare e stare, tali operazioni producono un output cor-
retto, vale a dire fai, dai, e stai. Però, nel caso di andare, la forma che ne risulta
non è quella dell’imperativo – vai – bensì quella del passato remoto, andai. A
nostro avviso, gli imperativi in 4a sono mutuati dal paradigma dell’indicativo pre-
sente. Dal punto di vista semantico-referenziale, la coincidenza di forme di pre-
sente con forme di imperativo non ha niente di sorprendente: infatti, come osser-
va Kuryowicz (1975), il compimento di un’azione o di un processo può effet-
tuarsi solo nell’intervallo che si apre dal momento di locuzione. Dal punto di vista
prosodico, le rappresentazioni in 7. mostrano che questi imperativi rispettano lo
schema binario di un piede bimorico:
348 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
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Di conseguenza, l’analisi che rende conto nel modo più semplice delle forme
apocopate fa’, da’, sta’, e va’ comporta la dissociazione del glide dalla seconda
mora della sillaba. La derivazione in 8. mostra infatti che la geminazione della
consonante iniziale dei clitici è il risultato dell’operazione di dissociazione:

Nel caso dell’imperativo sii e degli imperativi abbi e sappi, bisogna invece
partire dalle forme di congiuntivo. Viene così confermata l’ipotesi proposta da
tipologi come Dolinina (2001), secondo cui esiste una Super Categoria
‘Imperativo’ o ‘Ingiuntivo’, che raggruppa delle forme appartenenti a paradigmi
diversi; si pensi al francese Va!, Qu’il aille!, Allons!, ecc. Quindi nel caso di sia,
abbia e sappia, la forma di imperativo viene ottenuta tramite la cancellazione
della vocale finale. Questa operazione è indicata in 9.:
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 349

9. abbia > abbi-Ø


sappia > sappi-Ø
sia > * si-Ø

La forma * si è però problematica in quanto sub-minimale. Per riparare que-


sta malformazione, è dunque necessario inserire una mora che garantisca il rispet-
to della restrizione di binarietà, come mostra la derivazione in 10a-b (v. Floricic
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(2000)3.

3 Marotta (c.p.) ci ha fatto notare che la forma sii potrebbe essere interpretata come bisilla-
bica: in questo caso, avremmo a che fare con una rappresentazione come quella esemplificata in
(11):

Secondo questa ipotesi, il livello al quale il principio di binarietà verrebbe rispettato sareb-
be quello della sillaba e non della mora. Va osservato però che una rappresentazione come (11)
è particolarmente marcata nel senso che implica l’adiacenza di due nuclei vocalici identici, il che
dovrebbe essere proibito dall’OCP; d’altra parte, abbiamo registrato degli esempi di raddoppia-
mento della consonante associata al clitico nei contesti V + cl: siimi fedele ([‘sim:ife’dεle]).
Come mostra la rappresentazione (12), la geminazione della consonante associata al clitico risul-
ta dal delinking – relinking della seconda mora associata alla vocale accentata (cf. Floricic,
2000, 239-240):
350 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU

La stessa strategia viene messa in atto in diverse lingue – per esempio il


Siswati o il Chichewa – per far sì che una parola piena o content word non scen-
da al di sotto di un certo schema fissato dal sistema fonologico della lingua.

3. L’ipotesi della troncazione come una delle operazioni che intervengono


nella formazione dell’imperativo è del resto confermata anche da altri imperativi
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italiani. Esiste infatti un’altra serie di verbi che chiaramente risultano da una dop-
pia operazione di cancellazione. La derivazione in 13a. mostra che gli imperativi
gua’, to’, tie’, ve’, aspe’ e asco’ sono generati tramite la cancellazione della sil-
laba post-tonica, e della seconda mora della sillaba accentata. La consonante in
coda non essendo più associata a un’unità prosodica, viene a sua volta eliminata
via Stray Erasure:

segue n. 3

Al contrario, la geminazione della consonante iniziale del clitico rimarrebbe inspiegata se


si assumesse una rappresentazione come (11). Infine, il considerare la forma sii una forma
monosillabica fa rientrare quest’ultima nel paradigma degli altri imperativi monosillabici che
presentano la stessa caratteristica riguardo ai clitici. Detto questo, l’ipotesi della monosillabicità
dell’imperativo sii trova degli argomenti a suo favore che pertanto non escludono la possibilità
di una certa variabilità nella sillabazione di questa forma come di altre.
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 351

b) gua’ [‘gwa] < guarda


to’ [‘tɔ] < togli
tie’ [‘tjε] < tieni
ve’ [‘vε] < vedi
aspe’ [as’pε] < aspetta
asco’ [as’kɔ] < ascolta
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A questo punto, possiamo porci la domanda seguente: se nella fonologia del-


l’italiano esiste una restrizione di binarietà, come mai gli imperativi gua’, to’, tie’,
e ve’ presentano una vocale breve e non, per esempio, una vocale lunga o un dit-
tongo discendente? Allo stesso modo, come mai gli imperativi sardi in (5) non
mostrano nessuna strategia di riparazione, mentre d’altra parte esiste in sardo una
restrizione che vieta l’ossitonesi? Infatti, quando una parola ha l’accento finale,
viene inserita una vocale epentetica che garantisce il rispetto di questa restrizione
(v. Molinu (1998), (1999)). Gli esempi in (14) mostrano che l’inserzione della
vocale [ε] crea un trocheo finale in forme che altrimenti sarebbero allo stesso
tempo ossitone e sub-minimali:

14.
kie [‘ki:ε] < ki (‘chi’)
tie [‘ti:ε] < ti (‘te’)
mie [‘mi:ε] < mi (‘me’)
dae [‘da:ε] < da (‘dai!’)

Chiaramente, se una forma presenta già uno schema prosodico binario, l’e-
pentesi non ha più nessuna raison d’être, per cui abbiamo per esempio:

15.
fage [‘fa:ε] < fages (cfr. fagere ‘fare’)
nara [‘na:a] < naras (cfr. narrere ‘dire’)
tene [‘tε:nε] < tenes (cfr. tennere ‘prendere’)
beni [‘be:ni] < benis (cfr. bennere ‘venire’)
fini [‘fi:ni] < finis (cfr. finire ‘finire’)
iski [‘iski] < iskis (cfr. iskire ‘sapere’)

In che modo dunque possiamo render conto dell’assenza di una SR per gli
imperativi di’, gua’, to’, tie’, e ve’?. In primo luogo bisogna precisare che queste
forme sono a cavallo tra due categorie, cioè la categoria del verbo e quella del-
l’interiezione. Il punto fondamentale è che lo statuto interiettivo di questi impera-
tivi è a nostro avviso responsabile del loro essere fuorvianti rispetto ai principi che
regolano la fonologia dell’italiano, e in particolar modo rispetto alla restrizione di
minimalità. Vero è che è pur sempre possibile proporre una soluzione che faccia
riferimento a nient’altro che a principi fonologici. Joaquim Brandão de Carvalho
352 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU

(c. p.) suggerisce che nel caso dell’imperativo dei verbi dire e guardare in ita-
liano, si potrebbe prendere come punto di partenza una forma astratta /dik/ e
/gwar/; a livello sottostante, la consonante finale sarebbe sempre presente e que-
sto potrebbe spiegare il mancato allungamento vocalico, oppure anche l’assen-
za di un glide finale: tale soluzione è illustrata dalle rappresentazioni in (16):
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Però, nel caso delle forme to’, tie’ e ve’, non possiamo supporre l’esistenza di
una consonante flottante per render conto dell’assenza dell’allungamento vocali-
co. La stessa osservazione vale ovviamente per gli imperativi in sardo. Se le forme
na’, mi’, te’, e ba’ hanno in sardo una vocale breve e derogano alla constraint sul
“minimal word”, è perché si tratta di una classe di elementi che dalla categoria del
verbo sono passati a quella dell’interiezione. Già nella prima metà del Novecento,
lo Hoffman (1926) e poi anche Hjelmslev (1966), avevano osservato che gli impe-
rativi latini dı-c (< dı-cĕ), dc (< du-cu-), fĕc (< făcă) e ĕm (< ĕmĕ) potevano consi-
derarsi delle interiezioni, donde l’assenza di vocale tematica, normale negli impe-
rativi latini. Nel caso di ĕm (< ĕmĕ), è rilevante non solo l’assenza della vocale
tematica ma anche il semantic shift; infatti la forma breve ĕm non significa pren-
di! / compra! come la forma tematica, ma piuttosto guarda! / ecco!. Per cui,
sembra proprio che esista una correlazione profonda tra riduzione fonetica, de-
referenzializzazione e transcategorialità.
Inoltre, bisogna tener presente che l’interiezione occupa un posto particolare
nel sistema della lingua. Come giustamente osserva Karcevski (1941: 177):

(…) la structure phonique des interjections échappe à l’emprise totale


des lois de la phonologie. (…) Ce qu’on appelle ’phonologie’ règle la
structure phonique des plans sémiologiques conceptuels, celle des mots
organisés en parties du discours, tout particulièrement. Mais son auto-
cratie est plus ou moins tenue en échec sur le plan non conceptuel,
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 353

interjectionnel 4.

E alla stessa conclusione giunge anche Isacenko (1948: 89)

In certain categories, e. g. in onomatopoeic words, in interjections, in


words of command, elements are to be found which do not occur in the
ordinary use of speech and which clearly do not enter into the phone-
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mic system of the observed languages. These anomalies concern not


only the phonemic repertory, but also the repertory of phonemic com-
binations.

Ora, se per certi versi l’interiezione deroga alle restrizioni fonologiche di una
lingua, è proprio perché sta al di fuori delle correlazioni sintagmatiche e paradig-
matiche.

(…) Le interiezioni secondarie – scrive lo Hofmann – costituite da ori-


ginari vocativi, imperativi, elementi e locuzioni pronominali (…), nel
corso del loro sviluppo, a causa dell’isolamento fonetico in cui si ven-
gono a trovare, finiscono spesso per coincidere completamente con le
interiezioni primarie (p.134, § 34).

L’interiezione sta perciò al di fuori delle correlazioni paradigmatiche nel


senso che non è interessata da alternanze flessionali, e non entra in un sistema di
opposizioni fonologiche classiche. E sta al di fuori delle correlazioni sintagmati-
che nel senso che la sua compiutezza semantico-referenziale ne fa un’unità a sé
stante, sintesi e punto di concentrazione di un insieme di categorie, come dice
Brøndal (1948). Ora, la complessità degli imperativi monosillabici risiede proprio
nel fatto che condividono allo stesso tempo delle proprietà dell’interiezione e del
verbo. Ma ovviamente, abbiamo a che fare con un continuum ed è chiaro che su
questo continuum le forme occupano un posto variabile, più o meno vicine all’in-
teriezione o al verbo. Da lì anche alcune loro peculiarità sintattiche: per esempio,
l’imperativo italiano di’ mantiene la capacità di reggere i suoi attanti, per cui un
enunciato come 17. non solleva nessuna difficoltà:

(17)

4 Qualche anno prima, Troubetzkoy (1967: 246) osservava ugualmente:

“Des phonèmes à fonction spéciale apparaissent en outre dans des interjections, des
onomatopées, ainsi que dans des appels ou commandements adressés à des animaux
domestiques. Ces mots n’ont aucune fonction représentative au sens propre du
terme, et forment par conséquent une section tout à fait à part du vocabulaire, pour
laquelle le système phonologique habituel n’est pas valable.”
354 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU

Di’ la verità!

Invece, è altrettanto evidente che le forme apocopate gua’ e tie’ abbandona-


no progressivamente il carattere verbale per accostarsi sempre più all’interiezio-
ne, per cui difficilmente potremo trovare espressioni come 18a-b.:

(18)
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a) ?? Gua’ bene lo schermo!


b) ?? Tie’ forte il manico!.

In questo viavai del segno attraverso le categorie, è però anche possibile il


cammino opposto, per cui a un’interiezione come a’jo (‘su!’) in sardo può aggiun-
gersi la desinenza di seconda persona plurale -dzi, donde a’jodzi! (‘andiamo!’).
Allo stesso modo in russo, le interiezioni na e nu – rispettivamente tie’! e dai! –
possono prendere la desinenza di seconda persona plurale -te, per cui il russo dice
nate! e nute!; e un’interiezione come Buh! ha dato origine al verbo buhat’ (cfr.
Karcevski (1999)). In questo caso, viene illustrato lo shift opposto dalla periferia
al centro del sistema della lingua. Il punto fondamentale sta però nel fatto che le
forme non sono categorizzate una volta per tutte in uno stampo immutabile;
abbiamo a che fare con fenomeni dinamici che impongono di prendere in consi-
derazione soluzioni di continuità anzicché classificazioni cristallizzate. Come
Daneš (1966: 14) faceva giustamente osservare:

(…) there does not exist any clear line separating Center and
Periphery, but a continuous transitional zone. While there certainly
exist phenomena situated “in the very centre” or “in the obvious peri-
phery”, one cannot overlook the existence of items which can only be
denoted as “more central” (or, respectively, “more peripheral”) than
others. In short, the central and the peripheral character are qualities
revealed by different items of the language system in different degrees
(and in view of the fact that the transitions appear to be continuous it
would hardly make sense to establish any exactly defined degrees of
peripheral character.

Ora, questa osservazione vale in particolar modo per i fenomeni che rilevano
del “piano dell’appello” o del “plan locutoire du langage”, che in virtù del loro
statuto (orientazione o polarizzazione verso le istanze del discorso) sono partico-
larmente soggetti a distorsioni e modulazioni.

Per concludere, abbiamo avanzato l’ipotesi secondo cui gli imperativi mono-
sillabici o sono ottenuti grazie a un’operazione di troncazione, o vengono presi in
prestito da altri paradigmi. Questa osservazione che riguarda la composizione
stessa del paradigma dell’imperativo trova conferma anche in altre lingue. Il
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 355

rispetto della restrizione fonologica di bimoricità o di bisillabicità è a nostro avvi-


so indissociabile dalla funzione che assumono le forme in questione. In italiano
come in sardo, la restrizione viene disattivata quando abbiamo a che fare con delle
interiezioni che stanno alla periferia del sistema. Invece, nel caso degli imperati-
vi inseriti all’interno di una predicazione, la restrizione di minimalità è rispettata
anche con l’ausilio di strategie di riparazione.
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356 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU

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nisme VII. Paris, Klincksieck.


ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
(Università di Lecce)

Fra lingua e dialetto: potere e dovere con valore epistemico nell’Italia meri-
dionale 1
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1. LA RICERCA

Nell’attuale situazione di ‘lingua cum dialectis’, nelle molte aree ancora par-
zialmente dialettofone d’Italia, si incontrano-scontrano due fuzzy systems, quello
della modalità in dialetto e quello della modalità in italiano: l’equilibrio raggiun-
to al proprio interno da ogni sistema è rimesso continuamente in gioco, e il con-
testo è sovraccaricato di funzioni relative alla contrattazione del significato, per-
ché alla fisiologica coesistenza, per ogni elemento, di un significato centrale e di
significati periferici, si aggiunge un significativo incremento della vaghezza
semantica (Sobrero-Miglietta 2001). Nelle produzioni linguistiche reali si genera,
insomma, una pluralità di varianti sia morfosintattiche che lessicali, per ciascuna
delle quali il significato contestuale viene stabilito di volta in volta, all’interno
dell’interazione comunicativa, con l’ausilio incrociato di fattori sia linguistici che
extralinguistici (pragmatici, conversazionali, socio- e geolinguistici).
Con la ricerca di cui presentiamo i primi risultati abbiamo voluto studiare il qua-
dro delle varianti relative alla modalità epistemica nei dialetti del Mezzogiorno
d’Italia, e in particolare del Salento, tenendo conto sia di variabili di sistema (appun-
to, il carattere fuzzy del sistema della modalità, tanto in italiano quanto in dialetto)
sia pragmatiche (modalità escussive da una parte, ‘visione del mondo’ dall’altra), sia
contestuali, sia storico-linguistiche (il processo di italianizzazione dei dialetti), sia –
infine – sociolinguistiche (l’età e il grado di istruzione del parlante), con l’ambizio-
ne di trovare indizi di un orientamento generale del processo di italianizzazione dei
dialetti meridionali, per quanto riguarda il riassetto della modalità epistemica.
La ricerca si è svolta, attraverso inchieste con questionari di traduzione ita-
liano-dialetto appositamente elaborati, in 32 località dell’Italia meridionale
opportunamente selezionate: 19 in Salento e 13 nelle regioni: Puglia settentriona-
le, Basilicata, Calabria, Molise, Campania2. In ogni località sono stati intervistati
4 informatori con queste caratteristiche:

1 Questo lavoro è frutto della collaborazione dei due autori, in ogni fase della ricerca. Vanno
comunque attribuiti ad Alberto A. Sobrero i §§ 1, 2.1, 2.2 e ad Annarita Miglietta i §§ 3.1, 3.2.
2 Ecco l’elenco delle località: Carovigno, Ceglie Messapico, S. Pietro Vernotico, Grottaglie,
S. Giorgio Ionico, Trepuzzi, Carmiano, Monteroni, Lequile, Leverano, Corigliano
360 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA

– A – giovane (18-30 anni) istruito (diploma o laurea)


– B – persona di mezza età (30-50) istruita
– C – anziano (>60) istruito
– D – anziano (>60) non istruito (non oltre la licenza elementare).

Si tratta dunque complessivamente di 128 informatori, le cui risposte sono


state immagazzinate in un apposito DB. In questa sede ci occupiamo delle rese
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dialettali di ‘potere’ e ‘dovere’ con valore epistemico.

2.1. ‘Potere’ epistemico: le variabili di contesto

Osserviamo in primo luogo l’influenza del contesto linguistico nel passaggio


– elicitato – dall’italiano al dialetto.
Per ‘potere’ epistemico abbiamo utilizzato queste frasi:

(1) Non è ancora arrivato, può aver rotto la macchina


(2) Non è in casa, ma non può essere neppure al bar
(3) Avevamo un appuntamento, non può essere uscito
(4) Attento, il pavimento è bagnato, puoi cadere.

La formulazione può avere rotto la macchina della frase 1 si basa sull’ipote-


si che il parlante fa sul ritardo di un’altra persona. Egli ipotizza difficoltà e incon-
venienti dovuti alla macchina, ma sa anche che il ritardo potrebbe essere causato
da qualche altro problema, sconosciuto al parlante: dunque le prove che il parlan-
te adduce a favore della sua ipotesi sono alquanto deboli, e l’operazione è classi-
ficabile come una congettura.
L’espressione non può essere della frase n. 2 esprime una congettura su una
situazione, che può essere spiegata con comuni conoscenze condivise (ad es.: a
quest’ora i bar sono chiusi) o con la conoscenza delle abitudini della persona di
cui si parla (non è in casa, può essere in qualsiasi altro luogo, ma – non essendo
solito frequentare il bar –, quasi sicuramente non è al bar). Potrebbero anche
esserci, tuttavia, come per la frase precedente, degli eventi non controllabili o
dimostrabili dal parlante, che potrebbero falsificare l’ipotesi.
Nel non può essere uscito del n. 3 attraverso il modale ‘potere’ si esprime l’o-
pinione del parlante, che si basa su alcune sue conoscenze, relative al rispetto
delle regole sociali (non si manca ad un appuntamento) da parte di chi ha preso
con lui un accordo. Ma l’accordo potrebbe essere stato violato anche per altri

d’Otranto, Galatina, Maglie, Otranto, Gallipoli, Tricase, Patù, Montesano, Parabita, Crispiano,
Poggiorsini, Santeramo in Colle, Francavilla in Sinni, Pomarico, Altomonte, Papasìdero,
Carpino, Lupara, Castelpetroso, Ginestra degli Schiavoni, San Giovanni a Piro, Roccarainola.
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 361

motivi, che sfuggono al parlante (ad es. un contrattempo, o una disgrazia).


L’espressione si può considerare a metà strada tra l’inferenza e la congettura.
L’espressione puoi cadere della frase n. 4 è interpretabile come l’inferenza
del parlante relativamente ad un evento che, qualora non si rispetti l’esortazione
(Attento!) ha molte probabilità di accadere, in base a esperienze di vita quotidia-
na che si innestano su elementari conoscenze di fisica (l’attrito si riduce quando
il pavimento è bagnato).
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Le quattro frasi sono dunque poste in successione, lungo una linea che va
dalla congettura (n. 1) all’inferenza (n. 4).
Gli esiti ottenuti possono essere raccolti in otto gruppi:

– FORSE: forse + indicativo


– PERIFRASI: locuzioni del tipo po darsi ka, si vede ka, è po’ssibile ka;
– SARA’: costruzioni con sarà/sirai ka+ indicativo;
– DEONTICO: es.: f. 3 nu be pututu issire;
– FATTUALE: perdita del valore epistemico della frase a favore di un
enunciato meramente espositivo. Es.: f. 1 a ruttu la ‘makina;
– CALCO: mantenimento della forma epistemica italiana nella tradu-
zione dialettale;
– CAUSALI: trasposizione del senso epistemico della frase in rapporto
di causa-effetto. Es.: f. 1 nu è rriatu ankora ka sa rutta la ‘makina;
– ALTRO: esiti sporadici, che non rientrano nelle altre soluzioni sopra
elencate.

Fig. 1. ‘Potere’ epistemico e contesto: frasi 1-2-3-4 a confronto


362 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA

Se si mettono a confronto gli esiti raccolti per le singole frasi (fig. 1) si osser-
va innanzitutto che la frase 4, inferenziale, totalizza il maggior numero di occor-
renze di forme che ricalcano quella infinitivale dell’italiano (80%). Si può ipotiz-
zare con buone ragioni che un costrutto inferenziale orienti verso la traduzione
con l’infinito: per la stessa frase, infatti, si registra solo l’1% per le perifrasi e il
3% per le forme fattuali.
Agli antipodi si collocano gli esiti della frase n. 1, che è di tipo congetturale
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e che presenta il numero minimo di calchi (16%) e il numero relativamente più


alto di forse e delle perifrasi po darsi ka,si vede ka ecc. Forse e le perifrasi, dun-
que, si propongono alla nostra analisi come indicatori lessicali di un’operazione
congetturale.
Più bilanciato risulta il rapporto tra le percentuali delle perifrasi e dei calchi
della frase n. 3 che sembra essere, per contenuto semantico, a metà strada tra la 1
e la 4. Sulle soluzioni di questa frase giocano però anche i fattori morfologici:
l’infinito passato in questa frase si realizza nell’input italiano con l’ausiliare ‘esse-
re’, molto meno frequente nei dialetti salentini dell’ausiliare ‘avere’, e di conse-
guenza l’espressione italiana è meno agevolmente decodificata: questo contribui-
rebbe a spiegare l’alta percentuale di calchi (41%), a svantaggio delle perifrasi,
ferme a un modesto 21%. Alla luce di questa osservazione si comprende meglio
la bassissima percentuale di calchi (5%) della n. 1: in questa frase l’ausiliare
‘avere’ si presenta in condizioni di maggiore ‘naturalezza’, viene facilmente inter-
pretato ed è reso con le perifrasi di default, che sono presenti al 45%.
Le forme con sarà hanno bassa frequenza: si registra il massimo, il 14%, per
la n. 1.
Le forme fattuali si registrano soprattutto per la n. 2, frase ricca anche di cal-
chi: i calchi possono attestare, in questo caso, una certa difficoltà di decodifica,
che viene risolta o schiacciando il dialetto sull’italiano o ricorrendo a una più
‘naturale’ reinterpretazione fattuale: quest’ultima soluzione è ‘trascinata’ dalla
coordinata ‘non è in casa’ che ha senso fattuale.

2.2. ‘Potere’ epistemico: le variabili sociolinguistiche

Ora mettiamo in relazione i dati raccolti complessivamente per le quattro frasi


con le variabili extralinguistiche ‘età’ e ‘scolarità’.
Per l’‘età3’ si osservi il grafico n. 2 (fig. 2):

3 Per rappresentare gli anziani scegliamo gli informatori C, che sono omogenei con i gio-
vani ed i parlanti di mezza età per livello d’istruzione, e consentono perciò di paragonare i dati
neutralizzando l’eventuale incidenza della variabile ‘istruzione’.
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 363
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Fig. 2. ‘Potere’ epistemico e classi di età

Le tre classi d’età hanno un comportamento sostanzialmente uguale. L’unica


differenza in qualche modo significativa riguarda la resa fattuale, verso la quale
sono orientati più gli anziani (14%) che i giovani 9%), ma lo scarto, come si vede,
è minimo. Inoltre si osserva che la locuzione con l’avverbio forse è sconosciuta ai
giovani, mentre gli informatori di mezza età e gli anziani realizzano rispettiva-
mente il 7 e il 5%.
Confrontiamo i dati raccolti per gli informatori C e D, anziani, diversi per
grado di ‘istruzione’ (fig.3).
I non istruiti utilizzano più perifrasi degli istruiti (21% vs 14%) ma percen-
tuali significativamente inferiori di calchi (31% a fronte del 47%). Inoltre, la bassa
scolarità porta a malcomprensioni – o comunque a reinterpretazioni – della frase
stimolo: le forme causali (5%) e altri tipi di costrutti (7%), che sono lontani dal
senso epistemico della frase proposta, ricorrono con percentuale più alta presso i
non scolarizzati che presso gli scolarizzati
In generale, dall’analisi delle quattro frasi epistemiche, emerge – al di là delle
varianti strutturali registrate, che denunciano una fase di ristrutturazione del siste-
ma, sicuramente attribuibile all’incontro-scontro di lingua e dialetto – una sotter-
ranea, ma efficace spinta unificatrice, che testimonia la resistenza, da parte del
parlante, ad abbandonare una struttura basata sulla distinzione della modalità epi-
stemica in due forme, riferite rispettivamente alla congettura e all’inferenza.
Forme specifiche continuano a rendere in modo diverso l’inferenza e la congettu-
364 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
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Fig. 3. ‘Potere’ epistemico e grado di istruzione

ra, anche se a questa dinamica si sovrappone quella sociolinguistica che tende –


ma per ora senza un grande successo – a orientare i più istruiti verso il calco gene-
ralizzato. Le modalità coinvolgono non solo il livello strettamente linguistico e
sociolinguistico, ma anche quello logico e cognitivo4: questo, fra l’altro, spiega la
frequente difficoltà nella reinterpretazione degli assetti frasali del codice di par-
tenza, al fine di un’efficace traduzione.
Questi grafici ci dicono che, oltre al grado di resistenza ai cambiamenti ai
livelli fonetico, morfologico, sintattico e lessicale5, occorrerà analizzare adegua-
tamente anche la resistenza al livello semantico-cognitivo, che coinvolge com-
plessi processi mentali, legati alla visione del mondo, alla fattualità e all’ideazio-
ne6, e al livello alle organizzazioni testuali che ad essi sono correlate, in ognuno
dei sistemi linguistici in contatto.

4Cfr. Calleri 1995: 121.


5Cfr. Terracini 1955: 26-29; Grassi 1993: 290.
6 La complessità dei processi cognitivi che sottendono l’espressione epistemica – difficile
anche nella grammaticalizzazione, per i tanti mezzi lessicali e grammaticali che l’italiano mette
a disposizione per esprimere giudizi, opinioni, fare inferenze e congetture – spiega anche il
motivo per cui, negli apprendenti dell’italiano sia come L1 che come L2, la modalità epistemi-
ca viene acquisita dopo quella deontica (si vedano i contributi di Stephany, Calleri, Giacalone
Ramat, Bernini, Massariello Merzagora, Orletti in Giacalone Ramat-Crocco Galèas, 1995).
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 365

3.1. ‘Dovere’ epistemico: le variabili di contesto

Osserviamo anche per ‘dovere’ l’incidenza delle variabili di contesto.


‘Dovere’ con valore epistemico viene usato in italiano con significati parzialmen-
te diversi, a seconda del contesto linguistico: ad esempio, in ‘il bambino sta pian-
gendo, dev’essere caduto’ indica un’inferenza da esperienze percettive, ed è evi-
denziale; in ‘vuoi sapere che ore sono? Devono essere le otto, più o meno’ indica
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incertezza, ed è decisamente epistemico. Un’analoga varietà di significati si trova


nei dialetti, nei quali si usano mezzi in parte coincidenti e in parte diversi rispet-
to a quelli della lingua.
Per ‘dovere’ epistemico si sono utilizzate queste frasi:

(5) Dev’essere caduto un fulmine, vado a vedere


(6) Era felice, deve averla incontrata
(7) Se è stato bocciato non doveva essere molto preparato

Rispetto alla sintassi dialettale le tre frasi hanno un grado diverso di ‘naturalez-
za’ (riferita sia alla struttura linguistica che al grado di esperienzialità). La 5 è la più
evidenziale, in quanto presenta un’inferenza basata non su un’affermazione ma su
un’esperienza concreta e inconfutabile (un lampo accecante, un tuono fortissi-
mo…); la 6 ha una struttura logica più complessa, perché propone un uso di ‘dove-
re’ fra l’inferenziale e il congetturale, poggiando su un’affermazione a sua volta
inferenziale (‘l’ho visto, e secondo la mia valutazione era felice’): a differenza della
precedente si colloca in prossimità del polo epistemico. Con la 7, infine, si ha un
‘salto’ dal modo pragmatico al modo sintattico: è la frase che presenta la più alta dif-
ficoltà di traduzione dall’italiano al dialetto, sia per l’alto grado di epistemicità (l’in-
ferenza appare debole, perché lo studente può essere stato bocciato anche per altri
differenti motivi), sia per la complessa grammaticalizzazione7:
Anche queste frasi sono dunque poste in successione, lungo una linea che va
dall’inferenza (n. 5) alla congettura (n. 7), e inoltre sono in ordine decrescente di
‘naturalezza’ rispetto al dialetto.
Confrontiamo le rese delle tre frasi, utilizzando tutto il corpus a nostra dispo-
sizione. Il grafico di fig. 4 mette a confronto le soluzioni adottate dai parlanti per
rendere l’epistemicità nelle due frasi a costruzione più ‘naturale’: la 5 e la 6.

7 la frase principale è dislocata a destra ed è negativa, i tempi verbali sono coordinati ‘all’i-
taliana’, tutto il costrutto è tipicamente ‘italiano’.
366 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
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Fig. 4. ‘Dovere’ epistemico nelle frasi 5 e 6

I parlanti hanno adottato le stesse soluzioni già usate per ‘potere’:

– FORSE: forse + indicativo;


– PERIFRASI: locuzioni del tipo si vede ka, kriti ka, po darsi ka, è
kapace ka, è probabile ka, è facile ka.
– SARA’: esiti del tipo sirai/sarà ca + indicativo, dati in letteratura
come endemici (Rohlfs 947).
– DEONTICO: la fonte utilizza il significato centrale di ‘dovere’, che
in dialetto segna la modalità deontica, invece del significato perife-
rico – più ‘normale’ in italiano che in dialetto – che rinvia alla moda-
lità epistemica. Era felice, deve averla incontrata diventa …. l’a
dovuta ncuntrare.
– FATTUALE: la frase perde completamente il carattere valutativo
contenuto nell’input, e si trasforma nell’enunciazione di un fatto. Ad
esempio: dev’essere kaduto un fulmine diventa è kaduto/ kadìu nu
fùlmine; meglio ancora, Se è stato bocciato non doveva essere molto
preparato diventa nu a studiatu / nu sapivi nienti.
– CALCO: la fonte si limita a ricalcare la costruzione dell’input ita-
liano, anche quando non è consueta nella sintassi dialettale. Ad
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 367

esempio, per ‘se è stato bocciato non doveva essere molto prepara-
to’: nu duvìa essere mutu preparatu
– CAUSALE: il rapporto fra le due proposizioni che, in italiano, dà
luogo all’inferenza (o giustifica la congettura) viene trasformato in
un rapporto di causa-effetto. Ad esempio: (era felice), deve averla
incontrata diventa … ka l’aie nkuntrata, cioè “… di averla incon-
trata”
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– ALTRO: soluzioni varie, per lo più dovute a malcomprensione.

L’osservazione più interessante riguarda la forte differenza nell’utilizzazione


del rapporto causa-effetto. La frase 6, che mostra prima le condizioni su cui si
esercita l’inferenza (era felice), poi l’inferenza stessa in modalità epistemica (deve
averla incontrata) pone a chi traduce il problema di rendere esplicito il nesso infe-
renziale implicito. Quasi un terzo degli intervistati lo risolve trasformando il
nesso da inferenziale a causale, con frasi del tipo ‘era felice perché l’ha incontra-
to’. La traduzione, in questi casi, esalta il valore evidenziale della modalità, rea-
lizzando uno scenario pienamente compatibile con l’organizzazione logico-cogni-
tiva della grammatica del dialetto.
Si segnala il fatto che due informatori, per recuperare almeno parte del valo-
re epistemico, introducono la causale con ku, un complementatore che in dialetto
cooccorre coi verbi di volontà e di opinione, cioè proprio con i verbi che esplici-
tano le operazioni inferenziali.
L’interpretazione causale va a detrimento delle interpretazioni che conserva-
no in dialetto il quoziente di maggiore epistemicità presente nella frase-stimolo:
infatti nella frase 6 sono minori che nella 5 le rese con il futuro epistemico (sirai
/ sarà), con le locuzioni vuol dire che, si vede che ecc. e con le soluzioni fattuali.
Sono inferiori anche le rese che presentano una soluzione fattuale: ma la modalità
fattuale, come si è visto, è assorbita dal nesso causale così com’è realizzato dai
nostri informatori, i quali quasi sempre forniscono risposte del tipo ‘perché l’ha
incontrata’.
Grazie alle caratteristiche di esplicitezza e fattualità del nesso causale, questo
dunque – quando è evidente e facilmente inferibile, come nel nostro caso – fa pre-
mio sulle perifrasi dei verba putandi, che in ipotesi avevamo qualificato come
soluzioni di default.
Confrontiamo adesso, ad una ad una, le rese delle frasi 5 e 6 con le rese
della frase 7 (che, ricordiamo, è la più distante dalla struttura tipica del dialet-
to) [figg. 5-6].
368 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
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Fig. 5. ‘Dovere’ epistemico e contesto: le frasi 5 e 7 a confronto

Fig. 6. ‘Dovere’ epistemico e contesto: le frasi 6 e 7 a confronto


FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 369

Si osserva che:

a. In entrambi i casi, passando alla 7 aumentano, e di molto, i calchi


sull’italiano. Questo era un risultato atteso, che conferma il ricorso
all’italiano come soluzione plausibile, facile ed elegante in condi-
zioni di difficoltà interpretativa, in una situazione di italianizzazione
in corso sui dialetti dell’area.
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b. Aumentano anche le costruzioni con l’avverbio forse e con le locu-


zioni modali si vede ka, mi sa ka, può darsi ka ecc., cioè le soluzio-
ni che ricoprono sintatticamente tanto l’area dialettale quanto quel-
la italiana.
c. Aumentano, infine, le risposte fattuali, cioè quelle che ricostruisco-
no scenari – e fraseologie – in cui sia i referenti che le relazioni, sia
i soggetti che i predicati, sia le strutture logiche che le modalità sono
riconducibili all’area della fattualità – e dell’evidenzialità – piutto-
sto che dell’ipoteticità – e dunque dell’epistemicità.
d. Diminuiscono, simmetricamente, le malcomprensioni che sfociano
nella modalità deontica.
e. Crolla a livello di residuato l’uso del futuro epistemico, che in lette-
ratura si considera endemico in Salento.

Queste osservazioni, anche se si basano sul processo di traduzione elicitato


dal raccoglitore, si possono ragionevolmente estendere al processo di dedialettiz-
zazione e di italianizzazione in corso nell’area, dove – questi dati lo confermano
– l’abbandono delle forme dialettali più marcate è accompagnato da un passaggio
‘morbido’ all’italiano, con piena utilizzazione degli spazi comuni e travaso nell’i-
taliano di alcune soluzioni (modali, sintattiche, semantiche) che caratterizzano il
dialetto.

3.2. ‘Dovere’ epistemico: le variabili sociolinguistiche

Mettiamo ora in relazione le diverse tipologie utilizzate dagli informatori con


la loro classe di età e con il loro livello di istruzione.
Resa dell’epistemico e classe di età. Nel grafico di fig. 7 si tracciano le linee
di tendenza relative alla distribuzione degli esiti futurali, perifrastici, deontici
nelle tre classi di età8:

8 Per la scelta dell’anziano C si veda la nota 3.


370 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
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Fig. 7. ‘Dovere’ epistemico e classe di età (a)

Nel grafico di fig. 8 si considerano le linee di tendenza della distribuzione


degli esiti fattuali, ricalcati sull’italiano, causali e ‘altri’ nelle tre classi di età:

Fig. 8. ‘Dovere’ epistemico e classe di età (b)


FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 371

La distribuzione degli esiti pare risentire del fattore ‘classe di età’ più che per
gli esiti relativi a ‘potere’. Osservando le linee di tendenza si osserva infatti che le
persone più anziane tendono a privilegiare le soluzioni:

– avverbiali e perifrastiche (forse, si vede che ecc. )


– fattuali
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– causali
– ‘altre’

I più giovani invece tendono a privilegiare le soluzioni:

– deontiche
– endemiche (‘sirai’)
– ricalcate sull’italiano.

Le inclinazioni più significative sono quelle delle linee di tendenza relative al


privilegio degli anziani per l’avverbiale forse e le locuzioni epistemiche (8% di
discostamento fra gli estremi della linea di regressione) e per la soluzione fattua-
le (7%), e al privilegio dei giovani per la soluzione deontica (8%) e per il calco
(8%). È dunque su queste che conviene soffermarsi brevemente.
Il valore epistemico è assicurato dagli anziani, più che dai giovani, attraverso
le locuzioni del tipo ‘si vede che ecc.’. Le altre soluzioni prodotte prevalentemen-
te dalla terza età – fattuale e causale – sono leggibili come un riorientamento del
valore epistemico verso il mondo dell’esperienza e della realtà; in altre parole ten-
dono a convertire l’ipotetico e il probabile in reale e fattuale, l’epistemico in evi-
denziale, interpretando meglio dei giovani lo ‘spirito’ del dialetto, meno ricco di
scenari virtuali rispetto alla lingua.
Di ordine diverso sembrano le prevalenze della modalità deontica e del calco
nei giovani rispetto agli anziani: la resa deontica può essere interpretata come
effetto della diminuita competenza, relativamente al sistema dialettale (ricordia-
mo infatti che in dialetto il modale ‘dovere’ ha come centrale il significato deon-
tico e come periferico quello epistemico); il secondo rientra nel processo genera-
le di italianizzazione del dialetto, che colpisce in primo luogo i giovani.

Resa dell’epistemico e livello di istruzione. Confrontiamo le rese dell’episte-


mico negli informatori C e D, ovvero rispettivamente nei più e nei meno scola-
rizzati – a parità di classe di età – [fig. 9]
372 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
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Fig. 9. ‘Dovere’ epistemico e grado di istruzione

A parità di classi di età (> 60 anni) i laureati e i diplomati tendenzialmente


privilegiano le costruzioni:

– endemiche (sirai)
– con forse e le locuzioni del tipo ‘si vede che’ ecc.
– deontiche
– ricalcate sull’italiano.

I meno istruiti invece privilegiano tendenzialmente le costruzioni:

– fattuali
– causali.

Le differenze più forti sono relative alle costruzioni fattuali (10%) e causali
(9%) privilegiate dai meno istruiti. Questi più spesso degli altri risolvono il pro-
blema della traduzione ricorrendo a costruzioni che spostano l’ipotesi dal mondo
della possibilità al mondo della fattualità, e che – coerentemente – sostituiscono
il nesso inferenziale con un nesso causale. I diplomati e i laureati privilegiano
costruzioni comprese nella (o compatibili con la) grammatica sia del dialetto che
dell’italiano, conservando e anzi rendendo esplicito il valore epistemico, con
espressioni la cui modalità epistemica è percepita come trasparente.
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 373

Il verbo ‘dovere’, si è già detto, in dialetto ha come valore centrale quello deon-
tico. Se nell’input è utilizzato con valore epistemico, riescono a tradurlo con mezzi
epistemici dialettali più i diplomati e i laureati che i poco scolarizzati. Ciò è dovu-
to verosimilmente alla competenza metalinguistica che questi hanno acquisito attra-
verso le frequenti transcodifiche che caratterizzano l’apprendimento scolastico.
Riassumendo, e generalizzando, per quanto riguarda età e scolarità risultano
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evidenti alcune linee di tendenza:


– la bassa scolarità e l’età più avanzata sono fattori trainanti della scel-
ta delle costruzioni fattuali e causali
– l’alta scolarità, negli anziani, e l’età più bassa portano a privilegia-
re, oltre alle costruzioni deontiche, da una parte i calchi sull’italiano
dall’altra gli esiti dialettali conservativi;
– in tutti, giovani e meno giovani, più e meno istruiti, è molto diffuso
l’uso di costruzioni con l’avverbiale forse e con locuzioni, che con-
sentono di realizzare le strutture epistemiche dialettali senza ricor-
rere né ad arcaismi (come il futuro sirai, ben attestato in letteratura)
né a italianismi spinti (come i calchi sull’italiano).
Prescindendo dalle variabili sociolinguistiche, e accorpando ulteriormente i
nostri dati9 possiamo fare ancora qualche osservazione sulle correnti che al
momento prevalgono nella nostra area: [fig. 10]:

Fig. 10. ‘Dovere’ epistemico nel Mezzogiorno

9 Per avere un campione equilibrato nelle componenti ‘classe di età’ e ‘grado di scolarità’
374 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA

abbiamo escluso dal conteggio che è alla base del grafico 10 gli informatori del tipo D.
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375 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA

Nel corpus, in generale, prevalgono di gran lunga le locuzioni (33%) e gli


esiti fattuali (20%), con una presenza significativa di costruzioni causali (12%): si
tratta degli esiti che abbiamo visti privilegiati dagli anziani. Il quadro generale
risulta dunque caratterizzato da una facies che potremmo definire complessiva-
mente conservativa, accompagnata dall’indebolimento della rappresentazione sin-
tattica dell’epistemicità a vantaggio della fattualità e dal graduale affermarsi del
modello italiano, che si accompagna a una diminuita competenza di regole sintat-
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tiche ‘fini’. Questo dimostra che il passaggio dal dialetto all’italiano non è più
l’attraversamento del guado per passare dall’una all’altra sponda: è riorganizzare
le conoscenze e governare il cambiamento, assicurando carattere di continuità e
di sistematicità anche a fuzzy systems di transizione.
Questo è oggi il compito – difficile – di una ‘massa livellatrice’ che agisce al
centro delle nostre comunità linguistiche, sotto l’azione di spinte contrastanti che
muovono – con strategie anche complesse – da due punti sempre meno lontani:
un’anima dialettale, a cui il parlante non sembra voler rinunciare, e un abito ita-
lianeggiante, che appare sempre più seduttivo. E questi sono anche i confini veri
del nostro campo d’osservazione, se vogliamo capire il senso delle dinamiche lin-
guistiche in atto.
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PARTE TERZA
«STUDI CONTRASTIVI»
Conferenza Introduttiva

MAURICE GROSS† – ANNIBALE ELIA


(C.N.R.S., LADL, Université Marne La Vallée –
Dipartimento di Scienze della Comunicazione Università di Salerno)
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Le temps grammatical et le temps qui s’écoule

Maurice Gross non poté partecipare al Congresso della SLI.


Dovevamo fare un intervento insieme. Parlai solo io. Dopo pochi
mesi, il 7 dicembre 2001, Maurice morì. Il vuoto che ha lasciato
nella linguistica è grande. Il vuoto che ha lasciato in me è immen-
so. A diversi mesi di distanza, continuo ad avere qualche difficoltà
a riprendere il lavoro comune interrotto così bruscamente.
Piuttosto che tentare di scrivere la comunicazione tenuta a Parigi,
ho voluto presentare un capitolo introduttivo sul tempo grammati-
cale, che fa parte dell’ultimo libro al quale Maurice stava lavoran-
do. Credo che illustri bene il suo metodo rigoroso nello studio della
sintassi delle lingue storico-naturali.
Annibale ELIA

L’Homme, adulte, possède un sentiment clair du temps qui passe et lorsqu’il


évoque des périodes de sa vie jalonnées par des événements, il est capable de les
ordonner sur le cours du temps. Des événements intimes comme les naissances,
les mariages, les décès, les échecs et les succès restent dans sa mémoire, les
mêmes événements acquièrent une dimension de groupe, familial, politique ou
religieux, quand ils concernent des chefs. Les chefs leur confèrent de l’importan-
ce en organisant des rites de commémoration qui prennent alors une ampleur
sociale. Il devient ainsi indispensable que les événements égrenés sur le cours du
temps puissent être repérés et enregistrés de manière à être accessibles à tous,
autrement dit, il faut qu’ils reçoivent une date institutionnelle.
De nombreuses raisons ont conduit à développer les systèmes de numération,
et parmi elles, les besoins en mesure du temps semblent particulièrement pres-
sants. La notion d’écoulement du temps, c’est-à-dire de durée, est une catégorie
immédiate que le soleil matérialise sous les latitudes hospitalières à l’homme. Il
introduit une unité primordiale: les 24 heures du jour et de la nuit. Les alternan-
ces du jour et de la nuit sont les cycles les plus évidents, ils constituent une hor-
loge naturelle de base. D’autres, comme les cycles de la reproduction humaine,
animale, végétale, sont plus subtils, car ils demandent une mémoire et même un
comptage associé à des procédés d’enregistrement. Les premières observations
380 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

(peut-être mystiques ou ludiques) des cycles astronomiques de la lune et des pla-


nètes ont dû être corrélées très tôt au renouvellement de la végétation (les sai-
sons). De nouvelles unités de temps, plus abstraites, ont ainsi été dégagées. La
combinaison de l’astronomie et de la numération fournit le calendrier, qui est une
réponse pratique et précise au problème de la conservation de la mémoire des évé-
nements, qu’ils soient biologiques ou spirituels. La précision était remarquable
dès les Babyloniens et les Égyptiens qui ont donné des valeurs de l’année solaire
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allant de 360 à 365 jours.

Aujourd’hui, des domaines entiers de la Science sont consacrés à la descrip-


tion du temps passé: l’Histoire date des faits enregistrés dans des textes et déli-
mite ainsi des périodes de l’activité de l’Homme, l’objet de la Paléontologie est le
développement des êtres vivants au cours du temps, et la Géologie reconstitue
l’âge et la structure de la Terre, l’Astrophysique étend cette recherche à l’Univers
cosmique. À l’échelle des processus atomiques, une précision sans cesse accrue
des mesures physiques du temps a permis le développement extraordinaire de la
théorie physique, celle-ci est à la source de nombreuses technologies où la mesu-
re du temps joue un rôle fondamental. Date et durée sont des intuitions formali-
sées par les calendriers dès les débuts de l’astronomie et de la physique, leur raf-
finement se poursuit et affecte toutes les activités humaines. Mais les poètes
comme les psychophysiologues ont perçu des différences importantes entre temps
physique et temps psychologique. Ernst Mach fait une observation que partagent
tous les humains vieillissants: le temps s’écoule plus vite à mesure que l’on avan-
ce en âge. Le modèle du temps physique, avec son écoulement uniforme, ne pré-
tend pas représenter de tels phénomènes. Toutes ces préoccupations, psycholo-
giques, techniques ou scientifiques ont été progressivement incorporées dans les
cultures et dans les langues où elles s’expriment sous des formes lexicales et syn-
taxiques variées. Ce processus se poursuit et les langues s’enrichissent continuel-
lement de nouvelles expressions tout en conservant la plupart des anciennes.

De nombreuses études historiques (e.g. F. Maiello 1993, D.E. Duncan 1998)


ont montré comment les progrès conjoints de l’astronomie et de la numération ont
conduit aux divisions du temps que nous utilisons couramment. Une fois l’année
reconnue, elle est divisée en saisons, en mois. La journée est divisée en deux par-
ties: la nuit et le jour. La position du soleil divise le jour en trois parties: matin,
après-midi et soir. Avec les progrès de la mesure du temps, la division de la jour-
née en vingt-quatre heures conduit à deux périodes de douze heures et les heures
et les minutes sont à leur tour divisées en parties sexagésimales, l’une des bases
du système de numération babylonien et un exemple remarquable de préservation
d’habitudes à travers le temps. L’année que nous connaissons est le résultat de
retouches variées, motivées par le progrès astronomique qui a influé sur la ques-
tion religieuse de la fixation des dates de fête. Bien d’autres activités ont façonné
le vocabulaire et les expressions complexes de temps à des époques variées: les
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 381

Romains divisaient la nuit en quatre parties (les quarts de garde), le calendrier


julien a introduit des noms de mois, les moines du Moyen-âge découpaient la
journée en fonction de la prière (vêpres, matines), la convention de commencer
l’année au 1er janvier a mis du temps à s’imposer, etc. À toutes ces étapes de l’é-
volution de la notion de temps, correspondent des expressions linguistiques diffé-
rentes.
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L’introduction récente de la montre à affichage digital a popularisé une façon


technique et nouvelle de donner les heures. Ainsi, il suffit de lire l’écran pour
obtenir directement 13 heures 51 par exemple. Par contre, la lecture d’une mon-
tre à aiguilles conduit indirectement à l’expression deux heures moins dix. En
effet, les cadrans ont une numérotation qui va de 1 à 12, et l’utilisation de la gran-
de aiguille pour donner le nombre des minutes n’est pas la plus commode ni la
plus précise, on s’en sert plus naturellement pour déterminer des écarts de temps
par rapport au 12 (e.g. le quart, moins 10), ce que ne permet pas la croissance
monotone des nombres de l’affichage digital. En conséquence, les deux types de
montre conduisent à deux familles d’expressions linguistiques différentes. Alors
que la lecture d’une montre à aiguille procède d’un ensemble de conventions spé-
cifiques, la lecture d’une montre digitale est celle de la lecture de tous les appa-
reils de mesure de grandeurs physiques (intensité électrique, poids, pression, tem-
pérature, etc.). Par convention, toutes ces mesures s’énoncent en commençant par
les unités de plus gros poids:

1 kilo 500 1 (et non pas: 500 grammes 1 kilo); 3 volts 5; 37,5 degrés C

Pour les dates horaires, il en va de même, mais pas pour les dates de calen-
drier, en effet, en français, les jours, mois et années s’énoncent en commençant
par les unités de poids les plus faibles:

le 6 mai 1969 et non pas:1969 mai le 6


en mai 1969 et non pas: en 1969 mai

En anglais, l’ordre est différent, et le désordre complet:

May 6th, 1969 ou bien May the 6th, 1969 ou bien the 6th of May, 1969

Les accidents de l’usage ont conduit à une variété d’expressions syntaxique-


ment contraintes qui seront décrites par des grammaires locales. Signalons que

1 La dernière unité, ici les grammes, s’abrège. Mais il existe une autre expression où elle
s’abrège moins facilement: 1 kilo et 500 grammes. Nous retrouverons de telles particularités
grammaticales avec les unités de temps.
382 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

dans le domaine de l’informatique, il existe un usage qui consiste à placer ces uni-
tés selon leurs poids décroissants, ce qui permet de trier simplement les dates dans
l’ordre chronologique. Donc, la date 6 mai 1969 sera notée 690506, ou plutôt
19690506, car au voisinage du troisième millénaire, il n’est plus possible d’abré-
ger les années en supprimant les deux premiers chiffres qui indiquent le siècle, ici
19. En effet, une date comme le 6 mai 2003 serait notée 030506 et se trouverait
placée dans une liste chronologique avant 990506 2
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Le progrès scientifique et technologique a considérablement accru la préci-


sion de la mesure du temps, les quantités associées (dates, durées et fréquences)
sont ainsi devenues de plus en plus précises3 et les divisions de plus en plus fines.
L’axe des temps, que l’on identifie volontiers aujourd’hui à celui de la physique,
n’avait pas cette structure en latin ou en grec ancien, on n’y plaçait que des évé-
nements repérés avec les seuls outils astronomiques, physiques et linguistiques de
l’époque, en général des dates informelles. L’évolution de la langue conduit à une
accumulation d’une grande variété de formes et de significations associées. K.
Ringenson 1934 décrit les dates de calendrier et leur évolution dans les langues
romanes. Dès le moyen-âge, on utilise en français des formes comme:

VIII jours en fevrier


XVII jors dou mois de may
A septeme jour du mois d’avril
le samedi dix huit jours de janvier

Les dates horaires ont des formes différentes, on a en français moderne:

midi, deux heures du matin, trois heures de l’après-midi,

ainsi que des expressions appartenant à un registre différent où l’aspect numé-


rique est accentué:

12 heures, 15 heures 30, etc.

Aussi, observe-t-on aujourd’hui des familles cohérentes d’expressions qui


expriment les notions de temps de manières différentes, et qui correspondent à des
stades différents de la technologie, donc de l’histoire de la civilisation (A. W.
Crosby 1996) et de la langue. Ces expressions vont des plus informelles, parfois
idiomatiques, aux plus précises. La plupart sont aujourd’hui disponibles et les

2 Le nom du jour, redondant, se placera à droite: 990506.mardi. Les dates imprécises (cf
Ch II, § 3.2.3) s’obtiennent en supprimant les unités des poids les plus faibles: 9905, 99.
3 L’unité attoseconde: 10-12 secondes est entrée récemment en usage.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 383

locuteurs les emploient. L’ensemble complet des expressions est complexe et il


est exclu qu’on puisse l’organiser en un système simple comme celui du temps
physique. La description par grammaires locales que nous présentons ici met en
évidence les divers composants et leurs interactions.

Nous allons rassembler des faits connus pour une bonne part afin de les repla-
cer dans le cadre des descriptions par lexiques-grammaires et par grammaires loca-
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les, c’est-à-dire par des procédés formels qui permettent l’ACCUMULATION


d’observations REPRODUCTIBLES. Nous recommanderons et justifierons l’a-
bandon d’une terminologie opaque, incohérente et donc inutile, car jamais définie
ni appliquée systématiquement aux descriptions. Sans changer notablement les
points de vue classiques, nous verrons par exemple que l’abandon des soit-disan-
tes catégories de l’aspect fait que la définition des problèmes gagne en précision
et en généralité. La complexité des faits résultera de la seule accumulation des
familles d’expressions, chaque famille est simple, mais leur nombre et leur varié-
té sont énormes.

1. LE TEMPS PHYSIQUE

Le temps physique est formalisé par un axe orienté de -∞ à +∞, avec un point
origine O arbitraire. Une date est un point de l’axe, elle est localisée par son
abscisse, une durée correspond à un intervalle de l’axe; un intervalle de temps est
une portion de l’axe délimitée par deux dates4. Une durée est une mesure d’un
intervalle de temps, c’est un nombre exprimé en unités de temps. L’axe des temps
physiques peut être gradué, autrement dit, on peut choisir une unité pour mesurer
les distances entre dates et les tailles des intervalles. On peut toujours subdiviser
une unité en parties égales. Le choix d’une unité et de ses subdivisions est lié à la
nature des phénomènes auxquels on s’intéresse. En électricité par exemple, on uti-
lise des unités aussi différentes que le Volt pour les courants domestiques (i.e. 220
Volts) que le microVolt en électronique. Le choix est déterminé par la commodi-
té à manipuler les nombres en jeu, en particulier par leur taille. Il en va de même
pour le temps, les durées sont alors exprimées par des formes comme:

trente heures six minutes


trente heures et vingt-trois secondes
trente heures six minutes vingt-trois secondes et huit dixièmes

4 L’une des dates peut être -_ ou +_, ce qui peut convenir pour représenter des durées
comme celle de Je vous aimerai toujours.
384 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

le dixième de seconde est utilisé pour chronométrer certaines performances spor-


tives. Les assertions faites par les locuteurs ont toutes une forme grammaticale de
phrase, le temps linguistique attaché aux phrases peut se représenter sur l’axe du
temps physique. Ces assertions peuvent comporter des durées ainsi que des dates,
par exemple, pour se donner rendez-vous, on emploiera d’autres unités, comme
dans On se retrouve à midi et (demi + quart). Nous systématiserons la représen-
tation de ces expressions au Ch IV, § 2.1.
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À l’intérieur d’un discours donné, il est possible et souvent nécessaire de


changer d’échelle de temps. En effet, les événements auxquels s’appliquent les
dates sont des plus hétérogènes, ce qui n’est pas le cas en physique où un axe des
temps ne s’utilise que pour une famille cohérente de phénomènes. En physique,
une échelle de temps donnée impose une précision fixe pour les mesures (de date
et de durée). La langue ordinaire n’a pas introduit une telle contrainte dans ses
expressions, qui restent approximatives et varient avec la nature des événements,
ainsi qu’avec les attitudes, les goûts et les connaissances des locuteurs. Lorsqu’il
prononce la phrase:

(1) Luc partira dans un an

le locuteur fait un choix d’échelle très différent de ceux opérés dans les phrases
suivantes, pourtant identiques du point vue du temps physique:

(2) Luc partira dans 365 jours


(3) Luc partira dans 8 760 heures

L’intention de précision du locuteur est exprimée par le choix de l’unité de


temps. À son tour, l’unité, qui fait partie d’un système, implique une certaine
cohérence. Ainsi, an est défini, disons à quinze jours 5 ou à un mois près dans (1);
dans (2), la précision est à un jour près; dans (3), à quelques heures près du fait
de la présence du zéro des unités. Les unités familières de temps sont l’année, la
saison (ou le trimestre), le mois, la semaine, le jour, l’heure, la minute, la secon-
de. Elles ne forment pas une échelle régulière, c’est-à-dire décimale (cf. Ch. IV, §
2.1), mais elles sont bien adaptées aux événement de la vie courante et ce sont
elles que la langue emploie communément. Distinctes de ces plages de temps, les
unités de la physique sont cohérentes, ce sont celles du système métrique, elles

5 On notera que dans quinze jours est en fait synonyme de dans deux semaines qui est
numériquement identique à dans quatorze jours, dès lors quatorze et quinze sont synonymes
dans ces formes. Par ailleurs, les expressions: dans 24 heures, il y a 48 heures sont ressentis
comme équivalentes à: dans un jour, il y a deux jours, mais ce n’est pas le cas avec dans 96 heu-
res.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 385

sont le plus souvent cantonnées à des langues techniques. Les systèmes d’unités
de la physique (i.e. CGS, MTS, MKS, etc.) ont distingué la seconde comme unité
de base et ses subdivisions sont décimales6. Par ailleurs, il existe de nombreuses
expressions de date qui ne sont pas numériques en soi, même si des contextes par-
ticuliers permettent parfois de leur attribuer des valeurs approximatives:

(4) Luc partira (dans quelque temps + un de ces jours)


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Luc partira (plus tard + bientôt)


Luc est parti par un beau matin de printemps
Luc a dormi un temps fou

2. L’EXPRESSION DU TEMPS LINGUISTIQUE

2.1. L’axe des temps

Nous avons signalé le caractère arbitraire du choix d’une origine des temps
dans les descriptions de la physique, de la mécanique ou de l’astronomie. Il n’en
va pas de même pour le temps linguistique où l’origine des temps verbaux est
nécessairement le moment où une assertion (discours, texte) est produite. Le
temps grammatical du présent est alors associé à cette origine. Le discours suivant
comporte deux assertions:

(1) Il a neigé, le toit s’écroulera sous le poids de la neige

elles correspondent à des faits, l’un antérieur, l’autre postérieur à la production du


discours, nous dirons aussi élocution du discours. Une manière de formaliser ces
observations consiste à introduire la séquence performative Je dis que devant
tout discours. Je représente le locuteur et dire est l’acte d’élocution (J. Austin
1962), on aurait pu dire l’acte d’assertion. Bien d’autres verbes que dire ont une
construction voisine, avec sujet ou complément constitué d’une phrase P, ils
jouent un rôle performatif tout en introduisant des nuances de sens pour l’asser-
tion: Je pense que P, Que P me déplaît, Je me demande si P, J’exige que P. La
séquence performative est souvent omise, mais elle est nécessaire pour établir une
chronologie des événements dans des discours comme:

(2) Il a neigé, Luc a dit que le toit s’écroulerait sous le poids de la


neige

6 Avec la diffusion des ordinateurs, l’unité microseconde, qui appartenait à la langue tech-
nique de la physique, passe de la langue technique à la langue ordinaire.
386 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

neiger et dire correspondent à des faits antérieurs à l’élocution du discours (2) (Je
dis que dont la position est en tête de ce discours est omis), s’écrouler fait l’objet
d’une assertion indépendante introduite par le performatif Luc a dit que, s’écrou-
ler est au futur par rapport à Luc dire, mais on ne peut pas affirmer que ce futur
est antérieur ou postérieur à l’élocution du discours complet, c’est-à-dire par rap-
port au performatif omis Je dis que. Il faut un supplément d’information pour
localiser s’écrouler: une suite au discours (2) comme il avait raison localise l’é-
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croulement dans le passé; une autre suite de (2), comme on attend avec angoisse
le localise dans le futur.

La représentation du temps sur un axe donne aux dates un statut de notion pri-
mitive. L’axe est orienté, il possède une origine et les dates sont des points de
l’axe repérés par une abscisse numérique. Alors que la notion de date repère ou
origine est profondément ancrée dans la langue par l’effet performatif, la notion
de durée devrait se déduire logiquement de la notion de date: une durée est asso-
ciée à un intervalle borné par deux dates. Mais on verra que les expressions de
date et celles de durée sont en général indépendantes, c’est-à-dire sans relation
syntaxique ou lexicale. En fait, nous pensons que du point de vue psychologique,
donc linguistique, les deux notions de base date et durée coexistent indépen-
damment l’une de l’autre. La mémoire localise et ordonne les événements dans le
passé comme des séries de dates, mais par ailleurs, la sensation de durée est uni-
verselle, autrement dit, elle aurait un fondement biologique7. Les calendriers et les
montres indiquent des dates, ce sont clairement des constructions culturelles,
comme telles, elles ont beaucoup évolué dans le temps et l’espace. Rappelons que
du point de vue de la physique expérimentale, les mesures de temps sont unique-
ment des mesures de durée. On ne mesure pas une date, cette expression n’a pas
beaucoup de sens (e.g. la date du big bang!).

Précisons les deux notions de base. Un axe des temps est pris et orienté, son
origine est choisie comme étant la date de l’élocution du discours que nous cher-
chons à représenter:

– une date est donc un point de l’axe (orienté) du temps. Chaque date
a une abscisse, les dates sont ordonnées par nature;
– l’emploi courant du terme durée est alors ambigu dans le sens suivant:
(i) une durée est une mesure, c’est-à-dire un nombre positif
attaché à une assertion, comme dans Luc a dormi pendant
deux jours où deux jours est une durée de sommeil,
(ii) une durée peut être aussi un intervalle défini par ses bor-
nes, donc un vecteur, comme dans Luc dort depuis deux

7 Les horloges biologiques mettent en jeu des durées et non pas des dates.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 387

jours, où l’intervalle de deux jours est délimité par l’ab-


scisse négative‘moins deux jours’ et l’origine O des temps
(i.e. le moment de l’élocution de la phrase). Ici aussi, deux
jours est la mesure de la durée du sommeil, donc un nom-
bre positif; la différence avec l’exemple de pendant est
claire: pendant deux jours n’indique pas un intervalle mais
seulement une quantité,
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(iii) et on remarquera que dans la phrase Luc a dormi il y a deux


jours, deux jours n’est pas une durée de sommeil, mais la
mesure d’un vecteur qui a les mêmes bornes qu’avec
depuis deux jours, il repère l’événement Luc a dormi sans
y attacher de durée, c’est en fait une abscisse: moins deux
jours, autrement dit une date.

Le fait que date et durée soient des notions indépendantes n’interdit pas que
la langue les relient par des relations logiques: il existe des formes qui expriment
algébriquement des durées par des dates et des dates par des durées (cf. § 4, ci-
dessous). Un tel tableau limite donc sérieusement le recours à un modèle logique
du temps qui formaliserait l’interprétation des expressions linguistiques. On doit
en effet s’attendre à des incohérences entre les représentations de formes gram-
maticales lentement formées au cours de l’histoire et issues de deux notions indé-
pendantes au départ, mais que les progrès de l’astronomie et de la physique ont
rapprochées au cours des six ou sept millénaires passés.

D’un point de vue syntaxique, on s’efforcera de séparer les dates des durées
au moyen de critères formels fondés sur deux formes d’expressions:

– celles des abscisses de l’axe des temps: dates de calendrier (e.g. le


6 mai 1969) et dates horaires (e.g. 16 h. 30, quatre heures et demi),
– celle des intervalles de temps, constitués d’un déterminant numé-
rique (Dnum) appliqué à un nom d’unité de temps (Ntps) et qui
mesure la longueur de l’intervalle (e.g. six ans).

L’expression des dates et des durées utilise des mécanismes grammaticaux


analogues: adverbes, auxiliaires et verbes supports. Nous étudierons dans quel-
le mesure ces formes sont caractéristiques des notions de temps. À titre d’exem-
ple, rappelons que les suffixes et les auxiliaires de temps des verbes français
expriment des dates plutôt que des durées, les dates sont en général précisées
par des formes extérieures au verbe (surtout des adverbes). La catégorie de la
durée affecte de façon intrinsèque la majorité des verbes (e.g. chaque action ou
événement a une durée), elle peut être également exprimée par des adverbes.

Les difficultés empiriques (expérimentales) en linguistique résultent de ce


388 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

que les notions de temps que nous venons d’évoquer en commentant des phrases
particulières sont approximatives et souvent instables: dans une assertion, des
modifications portant sur des éléments comme les déterminants et les adjectifs
peuvent modifier nos évaluations. Le problème est particulièrement aigu puis-
qu’on cherche à attribuer des notions de temps à des phrases entières. Tradi-
tionnellement, les grammairiens ont attaché des notions de temps à des parties du
discours comme verbe, adverbe, auxiliaire ou encore suffixe, mais en fait, tout
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terme de la phrase est susceptible d’influer sur l’interprétation de temps. Or, à


l’intérieur d’une phrase, des dépendances existent entre les composants, d’où une
nécessité d’isoler les divers facteurs et leurs relations, ce qui se fera sur des phra-
ses élémentaires; mais il sera parfois nécessaire de recourir à des phrases com-
plexes. La difficulté en sera accrue d’autant.

2.2. La phrase élémentaire et le temps

L’objet de la description linguistique est la phrase. Au départ, un locuteur pro-


duit une assertion, constituée d’une suite de sons groupés en mots. La composi-
tion de cette assertion varie grandement, elle va des constatations les plus sim-
ples comme:

Il neige, Luc dort, Le bébé mange du poisson

à des formes complexes comme:

Léa apprécie que Luc se soit pressé

jusqu’à des raisonnements complets comme:

Que Luc fasse ce travail implique que sa santé est revenue

et bien sûr, une assertion peut être constituée d’un discours ou texte de longueur
non bornée.

Les assertions ont une forme syntaxique, celle de phrase simple ou complexe.
L’intuition de phrase est le point de départ des études syntaxiques modernes. Le
statut scientifique de ces études est directement lié à la qualité de l’intuition de
phrase. Il se trouve que cette intuition présente une bonne reproductibilité: par
exemple, tout locuteur ressent avec force que l’assemblage de mots Il neige est
une phrase mais que l’assemblage la neige n’en est pas une. De même, on recon-
naît que Le bébé mange du poisson est une phrase, alors que la suite de mots
quasi-identique le bébé qui mange du poisson n’en est pas une, elle n’engendre
pas la même intuition. Nous signalerons l’inacceptabilité d’une phrase en la fai-
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 389

sant précéder d’une étoile ‘*’ et nous utiliserons le point d’interrogation ‘?*’ pour
modérer ce jugement.

On peut proposer une grande variété de catégories sémantiques pour décrire


les phrases élémentaires. Par exemple, on peut les classer au moyen d’intuitions
comme événement, action, activité, constat, opinion, jugement, état qui sem-
blent pertinentes. En fait, aucune de ces intuitions n’est opératoire tant les contours
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en sont difficiles à cerner et tant les raffinements possibles a priori foisonnent.


Comment qualifier une phrase aussi banale que La machine fonctionne bien?
Activité ou état? Ou bien jugement ou opinion, puisque cette phrase est en prin-
cipe indissociable de son locuteur et donc précédée du performatif je dis que. Et la
phrase à peine différente La machine a fonctionné pendant six jours, recevra-t-elle
la même appréciation? La question se pose pour toutes les transformées syntaxique
de ces phrases, et en particulier pour les groupes nominaux comme le bon fonc-
tionnement de la machine. Dans ce dernier cas, nous utiliserons le terme de nom
phrastique, qui n’est pas porteur de sens. Le terme obscur de procès est souvent
utilisé pour couvrir la variété des termes qui peuvent qualifier le contenu d’une
phrase, il ne se distingue pas des termes de la langue ordinaire ‘sens d’une phrase’
ou ‘sens d’une assertion’, il a l’avantage de présenter une grande généralité et il
évite ainsi d’avoir à nommer les catégories sémantiques de phrases. Nous éviterons
d’y avoir à recours, mais nous ne pourrons pas toujours nous passer de cette ter-
minologie sémantique. Indépendamment de cette variété sémantique, on a consta-
té qu’en indo-européen, la quasi-totalité des phrases comportaient un verbe varia-
ble en temps; une autre observation a été faite: il semble toujours possible d’ad-
joindre des adverbes de temps à une phrase élémentaire. Mais on peut toujours
imaginer qu’une assertion puisse être isolée de son contexte temporel et alors créer
une abstraction comme *Il neiger qui ne diffère des phrases observées Il neige, Il
neigera demain, Il a neigé pendant six heures que par le temps8. Les adjonctions
d’adverbes aux phrases sont d’une grande complexité, car elles dépendent de
chaque verbe. Donc, dans un premier temps, l’étude du temps dans les phrases élé-
mentaires apparaît comme la seule approche possible, sa généralité devrait per-
mettre des extensions à de nombreux types de phrases complexes.

Du point de vue du temps, le phénomène le plus apparent dans les langues


indo-européennes est donc celui de la variation des formes du verbe, constituées
en général d’une racine et de suffixes; quand les suffixes de temps varient, l’as-
sertion exprimée au moyen du verbe se déplace dans le temps. Les auxiliaires de
temps sont faciles à repérer et jouent le même rôle. L’adéquation de la forme et

8 Un proverbe comme: La nuit porte conseil a une forme de phrase élémentaire. Les pro-
verbes sont intemporels par définition, les temps de leur verbe sont fixes, souvent au présent (M.
Conenna 1995).
390 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

du sens a dû sembler bonne au grammairien français qui a choisi le mot temps


pour nommer ces variations de forme du verbe. Les prudences anglaise et alle-
mande semblent pourtant de mise: tense et time, Tempus et Zeit sont bien séparés.
Un examen même rapide du français permet pourtant de constater que bien des
suffixes de verbes n’expriment pas de variation dans le temps et que les variations
dans le temps peuvent être exprimées de bien d’autres façons que par des suffixes
de verbes, par exemple par les adverbes ou compléments circonstanciels de
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temps. Par ailleurs, on observe une grande variété de phrases dont la fonction
sémantique principale est d’expliciter des notions de temps, comme par exemple:
Il est six heures, On est le 6 mai, Cet événement remonte à dix jours, La séance a
duré six heures, On a déplacé la réunion à 6 heures. Ici, suffixes et auxiliaires
sont secondaires, voire redondants, pour l’expression des dates et des durées, ces
notions sont incorporées aux verbes, autrement à la construction de la phrase.
C’est à la localisation syntaxique des notions intuitives de temps que nous allons
consacrer notre étude. La démarche que nous adoptons prend pour point de départ
des notions sémantiques liées au temps, des intuitions donc. Les difficultés de
cette approche sont bien connues. On sait d’avance qu’il sera difficile, sinon
impossible, d’isoler des notions premières, car on est certain que l’exploration de
la langue révélera un continuum entre différentes notions, même lorsqu’elles sem-
blent clairement séparées au départ. Par exemple, les phrases:

Luc a lu rapidement ton texte, Luc se dépêche de lire ton texte

comportent une intuition de vitesse: cette notion a-t-elle une relation linguistique
avec l’intuition de temps que nous cherchons à décrire? Du point de vue de la
physique, temps et vitesse sont des notions liées, mais quand nous chercherons à
les localiser avec précision dans des formes lexico-grammaticales, nous aurons
des difficultés à les séparer (cf Ch III, § 4). Considérons encore les exemples:

Luc va lire le livre, Luc est prêt à lire le livre

Il y a consensus pour décrire le premier comme comportant l’auxiliaire de


temps du futur immédiat aller, mais le sens de être prêt à n’est pas éloigné, cet
auxiliaire est synonyme de pouvoir commencer à; commencer à est considéré
comme un auxiliaire d’aspect, pouvoir comme un auxiliaire modal. Comment
classer être prêt à? Relève-t-il de la catégorie du temps?

Les grammaires courantes présentent les phrases sous la forme sujet-verbe-


complément(s). Les compléments se classent en deux grandes catégories: les
compléments essentiels, qui dépendent de chaque verbe, et les compléments cir-
constanciels plus généralement distribués. Les circonstanciels précisent les asser-
tions qui correspondent aux phrases élémentaires sujet-verbe-complément(s)
essentiels. Les précisions apportées ou circonstances les plus courantes sont le
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 391

temps, le lieu, la manière, le but, la cause, le moyen et les modalités performa-


tives. On considérera que les phrases élémentaires du français ont la forme géné-
rale (Z.S. Harris 1964):

(1) N0 T V W

où N0 est le sujet, V le verbe et W la séquence des compléments essentiels du


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verbe. Du point de vue sémantique, nous nous livrons à une approximation en


postulant que les expressions élémentaires de la langue sont des phrases indépen-
dantes des circonstances. Le symbole T correspond au temps exprimé sous forme
de suffixe ou d’auxiliaire du verbe. On voit donc que les marques de temps ont
une localisation morpho-syntaxique privilégiée dans la phrase 9 et qu’en même
temps, une analyse grammaticale relativement simple permet d’isoler les marques
de temps du reste des assertions.

Une première énumération des phrases élémentaires à verbes propres10 a été


publiée pour le français (M. Gross 1975, J.-P. Boons 1976, A. Guillet, C. Leclère
1992, A. Guillet, C. Leclère 1992), elle est bien résumée dans C. Leclère 1990. Il
s’y ajoute les phrases à verbes supports (M. Gross 1981a, 1990), comme:

Luc est courageux, Le mur est solide, Cette idée est révoltante
Luc a du tonus, Le mur est haut de 2 m, Cette idée a la vie dure
Luc fait un plan, Ce mur fait de l’ombre, Cette idée fait des vagues, etc.

et les phrases figées (M. Gross 1981b), comme:

Luc mettra de l’eau dans son vin


Cette idée apporte de l’eau au moulin de Luc
Le rouge lui est monté au front, etc.

Les circonstances temporelles des phrases sont exprimées, soit par des varia-
tions du temps T, soit par des adverbes, notés Adv. Les phrases prennent alors la
forme:

(2) N0 T V W Adv

où Adv est un adverbe ou une combinaison d’adverbes de temps. La complexité

9 C’est le cas en français, mais aussi dans les langues indo-européennes, sémitiques, voire
dans d’autres familles.
10 Par verbe propre, on entend les verbes qui ne sont pas des auxiliaires, excluant ainsi la
plupart des emplois de avoir, être, faire et bien d’autres.
392 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA

de chaque adverbe varie de l’adverbe simple à la proposition circonstancielle.


L’étude du temps consiste traditionnellement en l’étude des formes (2), autrement
dit:

– des formes V-t, conjuguées au moyen du suffixe -t,


– des auxiliaires, donc des formes Vaux (Prép) V où la forme du verbe
V est celle d’un participe ou d’un infinitif,
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– des formes regroupées sous la notation Adv, on les a classées, en


adverbes au sens strict (e.g. hier, maintenant), en compléments cir-
constanciels (e.g. lundi 6 mai, pendant six jours) et en propositions
circonstancielles de temps
– des dépendances entre T, Vaux et Adv, ce qui comporte l’étude de
phrases complexes et de la concordance des temps11.

11 Les déplacements dans la phrase des groupes nominaux composants des adverbes de
temps sont ceux de tous les adverbes.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 393

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WOLFGANG U. DRESSLER – MARIANNE KILANI-SCHOCH –
ROSSELLA SPINA – ANNA M. THORNTON
(Università di Vienna – Università di Losanna
Università di Vienna – Università dell’Aquila)

Le classi di coniugazione in italiano e francese


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Molti linguisti non distinguono chiaramente fra i termini “classe flessiva” e


“paradigma flessivo” (recentemente Stump 2001). Secondo la nostra definizione
un paradigma verbale consiste di tutte le forme flesse di un solo verbo (anche nel
caso di verbi suppletivi, per es. it. vado, vai, andare ...). Definiamo invece “clas-
se flessiva verbale” un insieme di paradigmi con strutture morfologiche e morfo-
nologiche o identiche o simili. Sia i paradigmi sia le classi possono essere ulte-
riormente sottoclassificati in tipi diversi, sui quali torneremo più avanti.
Il nostro contributo confronta i sistemi flessivi dei verbi italiani e francesi da
un punto di vista sincronico (in contrasto con le analisi latineggianti tradizionali),
secondo un modello di morfologia naturale (d’ora in poi MN, cfr. Kilani-Schoch
1988, Dressler 2000). Tutte e tre le sottoteorie della MN possono essere usate per
tale confronto: secondo la prima sottoteoria, cioè quella delle preferenze univer-
sali parametrizzate, entrambe le lingue possiedono un grado medio di iconicità nel
verbo, ma sui due parametri universali della trasparenza morfotattica e della biu-
nivocità-univocità-ambiguità i paradigmi verbali italiani sono più trasparenti e
meno ambigui di quelli francesi.
Tuttavia un tale confronto non offre quasi niente per il nostro problema delle
classi verbali. Lo stesso vale per la seconda sottoteoria della MN, quella dell’a-
deguatezza tipologica. Appare evidente che anche il sistema verbale francese (e
non solo quello nominale) si è evoluto più di quello italiano dal tipo ideale inflet-
tente-fusionale verso quello isolante; ne sono sintomi il sistema analitico usato per
indicare la persona soggetto, la minore variabilità (grado maggiore di sincretismo
e omofonia) e la tendenza molto maggiore verso il monosillabismo.
Molto più rilevante per il nostro tema è però la terza sottoteoria della MN,
cioè quella dell’adeguatezza al sistema di una lingua specifica, il cui pioniere è
stato il compianto W.U. Wurzel (1984).
Qui è centrale la questione delle classi, e in particolare di quali classi siano
produttive, quali rappresentino un default, come siano strutturate.
Il nostro modello morfologico comprende due componenti morfologiche: la
morfologia dinamica, organizzata intorno a un nucleo di categorie, regole e clas-
si produttive, e una struttura statica delle forme morfologiche immagazzinate (cfr.
Dressler 1997, 1999a, 1999b). La morfologia flessiva dinamica (un modello piut-
tosto input-oriented) è costituita dalle categorie morfologiche, dalle regole di
398 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

implementazione di queste categorie, che inoltre connettono la morfotattica alla


morfosemantica, e infine dalle classi flessive come prodotti delle regole. Le cate-
gorie, regole e classi improduttive sono marginali come qualsiasi altra generaliz-
zazione improduttiva. La morfologia flessiva statica (un modello piuttosto output-
oriented) comprende tutte le forme flesse non produttivamente formate note ad un
parlante nativo, ma anche tutte le forme flesse produttivamente formate che abbia-
no una frequenza di occorrenze (token frequency) abbastanza alta da essere
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immagazzinate nella memoria di un parlante nativo. Quindi le due morfologie si


sovrappongono largamente (in opposizione ad altri modelli a due meccanismi,
come quelli di Pinker 1999, Clahsen 1999). Per l’esecuzione assumiamo un
modello di competizione (cfr. il race model di Baayen 1989): sia nella produzio-
ne che nella comprensione i due meccanismi competono nell’area di sovrapposi-
zione, e vince il meccanismo più efficiente nella situazione specifica.
Per stabilire se una classe flessiva è produttiva, prendiamo in considerazione
diversi criteri (cfr. Wurzel 1984, Dressler 1997), che permettono anche di stabili-
re una scala di produttività decrescente. I criteri sono i seguenti:

1. accoglienza di prestiti che non presentino già caratteristiche morfolo-


giche e fonologiche costitutive della classe: ad es. i verbi inglesi to
sniff, to dribble, to flirt (senza vocale tematica) sono adattati in italia-
no come sniffare, dribblare, flirtare, senza che nulla nella loro forma
li predestini a prendere la vocale tematica /a/ invece di un’altra;
2. accoglienza di prestiti che presentino già caratteristiche morfologi-
che e fonologiche costitutive della classe: ad es. il verbo spagnolo
torear è adattato in italiano come toreare perché già presenta la
vocale tematica /a/;
3. accoglienza di parole formate per conversione: ad es. i verbi italiani
sprangare, volantinare sono conversioni delle radici nominali di
spranga e volantino;
4. accoglienza di forme che cambiano classe (metaplasmo);
5. accoglienza di neologismi suffissati con suffissi che assegnano i loro
output alla classe flessiva: ad es., i suffissi verbali denominali e
deaggettivali italiani -eggiare, -ificare e -izzare assegnano tutti i
verbi che formano alla classe in –are. Quest’ultimo criterio è il me-
no significativo per testare la produttività di una classe flessiva: in
realtà l’esistenza di questi neologismi suffissati è prova della pro-
duttività dei suffissi derivazionali che li formano, non della classe
flessiva che li accoglie.

Non consideriamo un indicatore di produttività di una classe flessiva il conio


di forme isolate prodotte per analogia superficiale con un modello concreto (cfr.
Dressler / Ladányi 2000), come ad es. i verbi francesi amerrir, alunir, formati nel
XX secolo secondo il modello preciso di atterrir, e vrombir probabilmente for-
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 399

mato secondo il modello di rugir, mugir (dai verbi latini di derivazione onomato-
peica rugire, mugire); le metafore dal mondo animale, infatti, si applicano spesso
alle automobili, come si vede verificarsi in frasi come, ad es., une Ferrari rugit.
Una classe di flessione ha la massima produttività se soddisfa il primo e il
secondo criterio, e, in principio, tutti i criteri successivi. Se soddisfa solo il quin-
to criterio una classe flessiva non è produttiva, ma al massimo stabile.
Nella morfologia dinamica le categorie e regole applicate ad un verbo speci-
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fico producono il suo paradigma flessivo. Allo stesso tempo un paradigma verba-
le è anche la realizzazione delle generalizzazioni della sua microclasse. Definia-
mo una microclasse flessiva come l’insieme di tutti i paradigmi che condividono
esattamente le stesse generalizzazioni morfologiche e morfonologiche. Le diffe-
renze dovute a regole fonologiche automatiche (nel senso della Fonologia
Naturale) non possono dar luogo a microclassi diverse. Pertanto i paradigmi di it.
correre, corsi, corso e di ardere, arsi, arso appartengono alla stessa microclasse
flessiva perché né una consonante lunga né un’occlusiva dentale sono pronuncia-
bili prima di una /s/ (e di qualsiasi /s/, non soltanto di quella del passato remoto e
participio passato). D’altra parte, i paradigmi di dare e stare non formano una
microclasse flessiva, perché il passato remoto diedi non ha un’esatta corrispon-
denza nel verbo stare in italiano standard. Dare e stare sono invece paradigmi iso-
lati; definiamo “isolato” qualsiasi paradigma flessivo che comporti almeno una
distinzione morfo(no)logica rispetto a tutti gli altri paradigmi. Sia i paradigmi
suppletivi sia quelli idiosincraticamente difettivi (per es., fr. gésir, cfr. Morin
1998) sono paradigmi isolati.
Le microclassi improduttive sono più o meno marginali nella morfologia
dinamica1. Le microclassi flessive più marginali sono quelle più piccole, quali:

a) le minimicroclassi che comprendono solo due o tre paradigmi ver-


bali, per es. it. piacere, tacere, giacere; fr. assaillir, tressaillir,
défaillir;
b1) le microclassi monoradicali composte da un’unica base verbale
con i suoi prefissati morfosemanticamente opachi, per es. it. veni-
re, svenire, divenire, avvenire, ecc.; fr. cueillir, recueillir, accueil-
lir; écrire, in/pre/pro…-scrire;
b2) le microclassi monoradicali con base legata, per es. it. -durre;
-sistere; fr. acquérir, conquérir, requérir (la base quérir è obsole-
ta e idiosincraticamente difettiva);

1 Richiamandoci alla distinzione tra morfologia dinamica e morfologia statica, facciamo


notare che la morfologia statica propriamente non possiede un nucleo e dei margini, ma può pre-
sentare paradigmi, gruppi e famiglie di verbi marginali, ad esempio secondo le scale di simila-
rità morfotattica.
400 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

Le classi flessive (nel senso ampio) possono essere disposte in una struttu-
ra rappresentabile con un grafo ad albero. Nelle figure 1, 2.1, 2.2 e 2.3 sono illu-
strate le due macroclassi dei verbi francesi; nelle figure 3 e 4 sono illustrate le
due macroclassi dei verbi italiani. I nodi posti più in basso e basali rappresen-
tano le microclassi. La cima rappresenta la macroclasse. Poi abbiamo in ordine
gerarchico discendente le classi (nel senso stretto, spesso equivalente a quello
tradizionale), le sottoclassi e, se necessario, le sotto(sotto(sotto(sotto)))classi,
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finché non si arriva alle microclassi. In questa gerarchia vale il principio della
“default inheritance” (cfr. Corbett / Fraser 1993): un nodo può essere caratte-
rizzato da una proprietà obbligatoria o da un proprietà di default, che sono poi
ereditate dai nodi immediatamente dipendenti e sottostanti. Le proprietà di default
vengono o ereditate come tali, o sono trasformate in una proprietà obbligatoria
(nel caso di un nodo-sorella default) oppure sono cancellate (nel caso di un nodo-
sorella non-default). Al livello delle microclassi, tutti i default devono essere o tra-
sformati in proprietà obbligatorie o cancellati, perché le microclassi esprimono
identità, mentre le classi gerarchicamente superiori esprimono similarità2.
Le proprietà delle classi vengono espresse attraverso delle implicazioni, le
cosiddette Paradigmenstrukturbedingungen di Wurzel 1984 (d’ora in poi PSB
“condizioni di struttura di paradigmi”). Prendiamo come esempio la prima macro-
classe dei verbi francesi in -er (cfr. Dressler / Kilani-Schoch 2003):

PSB A & B: Se inf. /X+e/, allora PP /X+e/ & 1a sing. passéS /X+e/
PSB C & D & E: Se inf. /X+e/, allora pres. sing. e 3a pl. /X/, tutti
defaults (le condizioni valgono per l’indicativo, il congiuntivo e l’im-
perativo).
PSB F: Se 1a sg. passéS /X+e/, allora 2a = 3a sing. /X+a/.

Come default i verbi della prima macroclasse hanno soltanto un’unica base /X/.
Questa macroclasse francese viene suddivisa in due classi, di cui la prima rap-
presenta il default ed equivale alla microclasse 1 (tipo parler /parl+e/), totalmen-
te produttiva (v. ad es. i prestiti inglesi dribbl-er, flirt-er, zapp-er). Tutti i defaults
della macroclasse sono trasformati in proprietà obbligatorie, quindi: PSB A & B:
/parl+e/, PSB C & D & E: /parl/ equivalente all’unica base.
Nella seconda classe (non-default) i defaults della macroclasse (almeno
per quel che riguarda l’unica base) sono invalidati dalla PSB G: se la base X
viene accentata, allora X → Y, cioè X viene modificata in una delle due
maniere seguenti: i) l’ultima vocale della base di X cambia in /ə/ oppure /e/
muta in /ε/, ii) la /j/ finale di X in verbi come, per es., employer, viene can-
cellata in Y.

2 I grafi ad albero dei verbi francesi sono stati realizzati da Marc Xioira, che ringraziamo
vivamente.
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LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE

Fig. 1. ‘Prima macroclasse francese


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W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

Fig. 2.1 Seconda macroclasse francese, classe 1


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LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE

Fig. 2.2 Seconda macroclasse francese, classe 2


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W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

Fig. 2.3 Seconda macroclasse francese, classe 3


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LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE

Fig. 3 Macroclassi italiane I e II (eccetto sottoclasse B2)


405
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406
W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

Fig. 4 Seconda macroclasse italiana, classe B, sottoclasse B2


LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 407

La prima sottoclasse (default) della seconda classe aggiunge la PSB H: Se X


→ Y, allora l’ultima vocale radicale → /ε/. Questa sottoclasse viene suddivisa
nelle due microclassi 2 e 3:

microclasse 2 (tipo sem-er) con la PSB I: Se inf. /X+e/ con ultima


vocale radicale /ə/, allora questa vocale viene sostituita da /ε/ in Y, per
es. resemeler vs. je resemèle. Una regola fonologica facoltativa cancel-
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la lo /ə/. Anche questa microclasse è produttiva, cfr. il prestito inglese


canceler;
microclasse 3 (tipo céd-er) con la PSB L: Se /X+e/ con ultima vocale
radicale /e/, questa vocale viene sostituita da /ε/ in Y, per es. révéler vs.
je révèle. Anche questa microclasse è produttiva, cfr. il prestito inglese
e-mailer, pronunciato da molti parlanti nativi come inf. /imel+e/, Sg.
Pres. /imεl/.

La seconda sottoclasse (non-default) equivale alla microclasse 4 (improdutti-


va del tipo pay-er) con la PSB M: se X → Y, allora si applica la regola morfono-
logica: j → 0/__#.
La prima macroclasse francese illustra anche la preferenza universale per il
binarismo (cfr. Dressler & Thornton 1991): infatti tutte le ramificazioni sono bina-
rie. La macroclasse italiana corrispondente (tipo parl-a-re) presenta PSB già
molto differenti, a causa della opposizione fra forme tematiche e atematiche (cfr.
Dressler & Thornton 1991), mentre nei verbi francesi una vocale tematica ha un
ruolo minore, e soltanto in una parte delle microclassi della classe con Inf. /X+ ir/.
Come si stabilisce una macroclasse? Noi al riguardo abbiamo proposto (cfr.
Dressler 2001) tre principi, che illustriamo con il nostro primo confronto, cioè
quello fra le due macroclassi italiane e francesi:

1) le proprietà comuni alle classi di una macroclasse (espresse da PSB)


devono essere più numerose e diverse rispetto alle proprietà comuni
di qualsiasi classe della macroclasse x e di qualsiasi classe della
macroclasse y. Il principio è evidentemente valido per le due classi
della macroclasse I (parler vs. semer/céder/payer) e per le tre clas-
si della macroclasse II (tipi finir, valoir, rendre).

Lo stesso principio ci obbliga a considerare le classi italiane con inf. -ire e


-ere come classi della stessa macroclasse II e non come due macroclassi, e quin-
di ad assumere solo due macroclassi, al posto della tripartizione tradizionale (cfr.
Dressler & Thornton 1991).
Infatti, le classi A e B della seconda macroclasse hanno in comune varie pro-
prietà: gli indicatori di 3a sing. -e e di 3a pl. -ono del pres. ind. (per es., vend-e,
sent-e, vend-ono, sent-ono), l’indicatore di 2a sing. dell’imperativo -i (per es.
vend-i! sent-i!), la /a/ della 1a-3a sing. e della 3a pl. del pres. cong. (per es. vend-
408 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

a, vend-a-no; sent-a, sent-a-no) e la vocale tematica del gerundio /e/: sent-e-ndo,


vend-e-ndo, fin-e-ndo. In ambedue le classi, inoltre, occorrono sia participi passati ter-
minanti in -V-to (cioè in -i-to, -u-to) che participi passati atematici terminanti in -so,
-to: per es., sent-i-re → sent-i-to, esist-e-re → esist-i-to, cred-e-re → cred-u-to, ven-i-
re → ven-u-to, sparg-e-re → spar-so, compar-i-re → compar-so, ting-e-re → tin-to,
apr-i-re → aper-to. Per entrambe le classi, tuttavia, il participio passato di default è
quello tematico.
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Per la seconda macroclasse sono valide le seguenti PSB, di cui la prima è


complementare:

A) Se la 2a sing. dell’imp. X + a, allora sing. del pres. cong. X + i e


viceversa. Così, per es.: 2a sing. dell’imp. della prima macroclasse
parl-a! → sing. del pres. cong. parl-i e 2a sing. dell’imp. della
seconda macroclasse vend-i! dorm-i! finisc-i! → sing. del pres.
cong. vend-a, dorm-a, finisc-a.
B) Le forme tematiche implicano quelle atematiche, tranne nel caso
dei verbi con ampliamento in –isc- e dei verbi suppletivi.
C) Se un verbo ha il PP atematico, allora anche il PR è atematico per
default. L’unica (parziale) eccezione è costituita dai verbi aprire, copri-
re, (s)offrire, ai cui PP atematici aper-to, coper-to, (s)offer-to corri-
spondono sia le antiche forme di PR atematico aper-si, coper-si,
(s)offer-si che i molto più usati PR tematici apr-i-i, copr-i-i, (s)offr-i-i.
Per la classe A valgono anche le seguenti PSB:
D) Se PP X + ito, allora per default infinito X+ire. L’unica eccezione
è costituita dalla microclasse verbale del tipo X-sistere (per es.,
esist-e-re, PP esist-ito).
E) Se 3a sing. del PR X + ì, allora inf. X + ire.
F) Se 1a- 3a sing. e 3a pl. del pres. ind. e cong. X + isc + desinenza,
allora VT i & inf. X + ire.
G, H) Quindi, per default, se inf. X + ire, allora PP X + ito, 1a sing.
del PR X + ii.
I) Inf. X+ ire come tutti gli inf. → 1a sing. del pres. ind. X+ o (tran-
ne che nel tipo fin-i-sc-o. Per la classe B sono valide, invece, le
seguenti PSB:
L) Se PP X + uto, allora inf. X + ere per default. L’unica eccezione è
rappresentata da PP ven-uto, inf. ven-ire.
M) Se PP atematico, allora inf. X + ere per default (con le eccezioni: PP
aper-to, coper-to, (s)offer-to con inf. apr-i-re, copr-i-re, (s)offr-i-re, e i
PP di paradigmi isolati sepol-to, infer-to con inf. seppell-i-re, infer-i-re).
N & O) Se 3a sing. del PR X + é, allora inf. X + ere & PP X + uto.
P) Se PR atematico, allora per default inf. X + ere (con le eccezioni:
PR venni, inf. ven-i-re, forme secondarie di PR aper-si, coper-si,
(s)offer-si, proffer-si, infer-si, inf. apr-i-re, copr-i-re, (s)-offr-i-re,
proffer-i-re, infer-i-re).
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 409

2) Una macroclasse prototipica ha un nucleo produttivo e quindi ha


almeno una microclasse produttiva. Questo vale, come abbiamo
visto, per la prima macroclasse francese – anzi potrebbe sorprende-
re che ci siano tre microclassi produttive. Ciò si spiega con la stret-
ta complementarità fonologica delle basi /X/: ultima vocale radicale
/e/ vs. /ə/ vs. tutte le altre vocali (= default).
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Questo principio vale anche per le due macroclassi italiane. La prima macro-
classe comprende la microclasse produttiva del tipo parl-a-re (cfr. supra per gli
esempi che ne attestano la produttività). Nella seconda macroclasse, la microclasse
modicamente produttiva è quella del tipo fin-isc-o, fin-i-re, che ha accolto alcuni
prestiti germanici antichi da verbi in -jan (arrostire <*raustjan, ghermire
<*krimmjam, guarire <*warjan, guarnire <*warnjan, schermire < longob.
skirmjan, smarrire < germ. occ. marrjan) e presenta alcuni neologismi novecente-
schi (i parasintetici impuzzolentire, infeltrire, involgarire, irrobustire, infiochire,
inacetire3, elegantire (Migliorini 1963, che s.v. cita un passo di Cecchi dove occor-
re la forma elegantiscono), brusire, graffire, stranirsi (DISC Compact 1997); gli
infiniti gerire e impuerire segnalati da Migliorini 1963 appartengono con ogni pro-
babilità a questa microclasse, ma la documentazione non permette di affermarlo con
certezza perché consta solo di forme dell’infinito o del passato remoto). Per quanto
riguarda i metaplasmi, la microclasse di finire ha accolto alcuni verbi latini in –ére
(ardire < ARDERE, censire < CENSERE…; per altri esempi cfr. Davis /Napoli
1994: 20), e attualmente attrae diversi verbi della microclasse di dormire, che pre-
sentano sempre più spesso forme con –isc-: bollire, cucire, sdrucire, tossire (che
sembra ormai completamente passato alla microclasse in –isco, cfr. Verna 2001).
Tuttavia questo principio non vale per la seconda macroclasse francese che è
totalmente improduttiva e quindi non-prototipica.

3) Una macroclasse prototipica contiene almeno due microclassi, cioè


è ramificante (branching). La prima macroclasse italiana si ramifica
in due classi, di cui la prima equivale alla microclasse del tipo parl-
a-re, mentre la seconda comprende la minimicroclasse monoradica-
le transizionale (cioè con forme appartenenti a due macroclassi
diverse) con i verbi disfare, soddisfare (forme della macroclasse I:
pres. ind. (disfo/soddìsfo, disfi/soddisfi, dìsfa/soddìsfa, disfia-
mo/soddisfiamo, disfate/soddisfate, disfano/soddisfano), pres. cong.
(disfi/soddisfi, disfiamo /soddisfiamo, disfiate/soddisfiate, di-
sfino/soddisfino), imp. sing. (dìsfa! soddìsfa!); forme della macro-
classe II: pres. ind. (disfaccio/soddisfaccio, disfà/soddisfà, disfac-

3 Questi dati ci sono stati comunicati personalmente da Claudio Iacobini e da Maria Iliescu,
che qui ringraziamo; provengono dagli spogli effettuati per un lavoro inedito di Crocco-Galèas
e Iacobini e per Iliescu 1986, 1990.
410 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

ciamo/soddisfacciamo, disfanno/soddisfanno), pres. cong. (disfac-


cia/soddisfaccia, disfacciamo/soddisfacciamo, disfacciate/soddi-
sfacciate, disfacciano/soddisfacciano), imperf. ind. (disfacevo/sod-
disfacevo, ecc.), PP (disfatto/soddisfatto), PR (disfeci/soddisfeci,
ecc.), gerundio (disfacendo / soddisfacendo), cong. imperf. (disfa-
cessi/soddisfacessi, ecc.)) e la microclasse monoradicale transizio-
nale comprendente fare e i suoi prefissati più o meno opachi quali
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assuefare, contraffare, liquefare, mansuefare, putrefare, rarefare,


sfare, sopraffare, strafare, stupefare, torrefare, tumefare (forme
della prima macroclasse: pres. ind. 3a sing. fa, 2. pl. fate; forme
della seconda macroclasse: le restanti, ad es., imperf. ind. facevo,
facevi, ecc., gerundio facendo, PP fatto, PR feci, facesti, ecc.).
Mentre la dicotomia in due macroclassi è comune al francese e all’italiano (e
anche perlomeno allo spagnolo), già al livello delle classi troviamo disparità fra le
due lingue. Questo vale per la seconda macroclasse che deriva da due macroclassi
latine (cfr. Dressler 2001), quella in -é-re e quella consistente nei verbi in -i-re, nei
verbi atematici e nei verbi cosiddetti misti. Infatti, mentre la seconda macroclasse
italiana si suddivide nelle due classi dei verbi in -ire vs. -ere, quella francese inclu-
de tre classi: verbi con Inf. /Xir/, con Inf. /Xwar/ e i restanti con Inf. /Xr/.
Se torniamo alle microclassi delle due lingue, possiamo identificare molte
microclassi corrispondenti, come appare dalla Tab. I.

Si noti che, tuttavia, la posizione di queste microclassi corrispondenti può


essere differente nei rispettivi alberi: nella prima coppia l’it. finire ha come nodo-
sorella una microclasse numerosa (tipo sentire), mentre il fr. finir ha come nodo-
sorella un nodo che domina quattro microclassi piccole. Nella seconda coppia l’it.
sentire è sorella di finire, mentre il fr. sentir si trova in un ramo abbastanza lonta-
no. D’altro canto, in ambedue le lingue il nodo della terza coppia (it. aprire, fr.
ouvrir) è vicinissimo a quello di it. venire, fr. venir.
Se compariamo la profondità e complessità delle classi comparabili troviamo
nel francese la maggiore profondità e complessità nella classe in -ir, la minore
nella classe in -oir, mentre nell’italiano è l’inverso: la minore profondità e com-
plessità è nella classe in -ire, la maggiore nella classe in -ere.
Altre differenze importanti sono:

1) l’esistenza, solo in italiano, di paradigmi suppletivi “transizionali”


che stanno fra le due macroclassi, cioè che hanno alcuni sottopara-
digmi o forme della prima macroclasse e altri della seconda: per es.
dare, stare hanno la maggior parte dei sottoparadigmi nella prima
macroclasse, ma hanno il passato remoto e il congiuntivo nella
seconda, mentre le uniche forme di sapere inequivocabilmente
appartenenti alla prima macroclasse sono sa e sanno. Gli altri verbi
suppletivi che appartengono a questa famiglia di paradigmi (fare,
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 411
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Tab. I Microclassi corrispondenti in italiano e francese

andare) stanno in mezzo. Gli unici verbi francesi che possiedono


forme di ambedue le macroclassi sono l’ausiliare être, la cui unica
forma chiaramente della prima macroclasse è il participio passato
été, e aller con l’imperfetto allais e il participio passato allé.
412 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

2) Il grado di omofonia è molto più importante nel francese che nell’i-


taliano ed è perciò un criterio superficiale molto evidente per la clas-
sificazione delle microclassi. Per esempio, nella prima microclasse
della prima macroclasse francese ci sono omofonie del tipo /párl/
come pres. ind. e cong. sing. e 3a pl., imp. sing. e /parlé/ come inf.,
2a pl. del pres. ind. e imp., participio passato e 1a sing. del passé
simple. In italiano, invece, le poche omofonie (2a pl. ind.= imp.;
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sing. del cong. pres.; 1a pl. del pres. ind. = 1a pl. del pres. cong.)
sono superstabili, cioè valgono per tutte le microclassi e così non
differenziano classi.

Nella morfologia statica le classi flessive sono meno rilevanti che nella
morfologia dinamica; sono invece importanti le singole forme con la loro fre-
quenza di occorrenza e le loro relazioni con altre forme sia dello stesso paradig-
ma sia di altri paradigmi, inclusi quelli isolati. Tuttavia, certe relazioni interpara-
digmatiche sono pertinenti in quanto contribuiscono decisamente a costituire
microclassi improduttive e a dar loro stabilità diacronica. Da tali microclassi dob-
biamo distinguere le famiglie di paradigmi (soprattutto isolati) contraddistinti da
similarità fonologiche (e parzialmente semantiche) comuni, cioè da quelle che noi
chiamiamo “somiglianze di famiglia” (nel senso delle Familienähnlichkeiten di L.
Wittgenstein), ovverosia da “schemi” (cfr. Bybee 1988, Köpcke 1993).
Tra queste relazioni di somiglianze le relazioni morfosemantiche hanno un
peso minore (contra Bybee 1985, 1988): in entrambe le lingue i verbi modali it.
dovere, potere, volere, fr. devoir, pouvoir, vouloir non solo condividono proprietà
pragmatiche, semantiche e sintattiche, ma appartengono anche alla stessa classe
morfologica, o come paradigmi isolati o come membri di microclassi (fr. devoir).
In francese si aggiunge anche falloir. Altri verbi marginalmente modali sono in
francese savoir, avoir e in italiano sapere, avere, i cui paradigmi riflettono in
maniera iconica nella morfotattica il loro status di marginalità morfosemantica
dato che hanno anche forme della prima macroclasse.
Anche nella strutturazione morfotattica della morfologia statica le due lingue
sono molto simili, poiché ambedue presentano un continuum di numero di basi
che in italiano va da due a sette (nei paradigmi di dolere e volere, cfr. anche
Pirrelli 2000) e in francese da una a sei basi (nel paradigma di pouvoir). La prin-
cipale differenza consiste nell’esistenza di verbi a base unica in francese (micro-
classi I.1 parl-er, II.1 ri-re, fuir, II. 26 ex-/ con-clu-re, PP fem. -cluse vs. -clue),
connessa alla tendenza francese verso il monosillabismo.
La stessa tendenza spiega anche perché esistano dei “verbi brevi” (cfr.
Nübling 1995 per il tedesco) che come famiglia di paradigmi hanno una maggior
salienza in italiano che in francese: it. pres. ind. 3a sg. dà, sta, fa, va, sa, ha, è.
Questi verbi hanno le seguenti caratteristiche: 1) sono quasi tutti ausiliari o
semiausiliari, 2) sono tutti paradigmi isolati (tranne fare), 3) sono paradigmi tran-
sizionali, cioè fanno parte di entrambe le macroclassi, 4) hanno forme monosilla-
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 413

biche. Altri verbi condividono al massimo una o marginalmente anche una secon-
da di queste quattro proprietà. Per es., volere e dire hanno poche forme monosil-
labiche (vuoi, di!), e volere è un paradigma isolato.
Ulteriori somiglianze morfotattiche come principi di organizzazione della
morfologia statica possono essere classificate secondo quattro scale, nelle quali
una posizione più a sinistra indica più efficienza come principio organizzativo
(cfr. Dressler 2001) e quindi più importanza per la stabilità di una famiglia di
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paradigmi (o microclasse):

a) (identità/somiglianza di) struttura sillabica della radice: rima di radi-


ce consistente di nucleo e coda (complessa > semplice) > identità di
rima consistente di un solo nucleo > identità di sola coda > identità
di sola fine di coda;
b) identità di a) > somiglianza maggiore > somiglianza minore (il
grado di somiglianza può essere quantificato in tratti fonologici con-
divisi vs. diversi);
c) identità/somiglianza nel paradigma intero > in una percentuale
decrescente di sezioni del paradigma;
d) le identità/somiglianze sono condivise da tutti i membri della micro-
classe o famiglia di paradigmi > da una maggioranza centrale di
membri > da un gruppo di verbi all’interno della famiglia (mentre
un altro gruppo può condividere altre identità/somiglianze).

Per mancanza di spazio tratteremo selettivamente queste scale solo se contri-


buiscono all’identità di una microclasse:
La minimicroclasse it. tac-ere, piac-ere, giac-ere è costituita dalle più effi-
cienti opzioni in tutte e quattro le scale, mentre la minimicroclasse corrisponden-
te fr. tai-re, plai-re, li-re è meno efficiente nella quarta scala, perché li-re rappre-
senta un outlier (che in statistica indica un punto molto distante rispetto ai punti
del gruppo principale mediano), e nella prima scala, perché la rima consiste solo
di un nucleo. La forza legatrice della rima /aʃ/ è molto più forte in italiano anche
perché c’è un solo oppositore (baciare), cioè un solo verbo al fuori di questa
microclasse che abbia la stessa rima radicale, mentre in francese ci sono faire,
extraire, abstraire, traire, braire.
Mentre le minimicroclassi francesi venir, tenir e valoir, falloir presentano l’opti-
mum in tutte le quattro scale, le microclassi italiane corrispondenti (cioè venire, tene-
re, valere) sono monoradicali, dove la rima è un effetto secondario. Ci sono molti
oppositori (ad es., it. cenare, dimenare, malmenare, lenire, incancrenire per le micro-
classi di tenere, venire e i loro composti opachi, e calare, esalare, propalare, salire per
la microclasse con valere e i suoi composti opachi), come anche nel caso seguente.
La microclasse francese cuire, détru-ire, condu-ire è meno ottimale perché la
rima consiste solo di un nucleo (scala a). La microclasse italiana corrispondente -
durre è monoradicale a base legata.
414 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON

Le microclassi it. apr-ire, copr-ire, offr-ire, soffr-ire e fr. ouvr-ir, couvr-ir,


offr-ir, souffr-ir ottengono ambedue l’optimum nella scala c, e hanno un’identica
fine di coda (scale a, d), mentre l’inizio della coda si differenzia nel valore di un
solo tratto nel francese (sordo vs. sonoro), di tre nell’italiano (labiale – labioden-
tale, breve – lungo, continuo – non continuo). Questi verbi in francese, ma non in
italiano, sono tutti caratterizzati da vocali labiali. La microclasse italiana non ha
oppositori: compr-are ha nella coda una nasale iniziale, (de)cifr-are una spirante
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breve; la microclasse francese, invece, ha come oppositori oeuvr-er, chiffr-er.


L’assenza ovvero la scarsezza di oppositori aumenta l’importanza delle identità (o
similarità) all’interno di una famiglia di paradigmi (o di una microclasse).
Un esempio di microclasse meno omogenea sarebbe quello dell’it. a) chiud-
ere, con-/in-/ac-clud-ere, e-/al-/il-lud-ere; b) de-/in-/re-/uc-cid-ere, intrid-ere,
elid-ere, divid-ere; c) esplod-ere; d) mord-ere, ard-ere; e) corr-ere. I gruppi a-c)
condividono la coda /d/, mentre per il gruppo d) la /d/ è solo fine di coda, e cor-
rere (e) ritiene soltanto i tratti apico-dentale e sonoro. Inoltre i gruppi a) e b) con-
dividono tutta la rima.

In conclusione, dalla nostra analisi contrastiva si ricava che:


1) le singole microclassi e famiglie di paradigmi si distinguono tra loro
più nella coniugazione italiana che in quella francese; ne consegue
un maggior numero di fenomeni analogici nel parlato nella flessio-
ne verbale francese rispetto a quella italiana;
2) nella coniugazione italiana ci sono microclassi produttive in ambe-
due le macroclassi, mentre in quella francese non ci sono micro-
classi produttive al di fuori della prima macroclasse;
3) la morfologia dinamica ha maggiore rilevanza in italiano che in
francese e viceversa la morfologia statica gioca un maggior ruolo in
francese che in italiano4;
4) tipologicamente il francese è più vicino al tipo ideale isolante rispet-
to all’italiano.

4 I risultati dei nostri test off-line sono quindi diversi per le due lingue; li esporremo in altra
sede (cfr. Spina / Dressler in stampa per l’italiano).
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 415

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ROMAN GOVORUKHO
(Università Lomonossov-Mosca)

Il primo attante in russo e in italiano: aspetti sintattici e pragmatici


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Nell’analisi delle differenze nell’organizzazione degli enunciati nelle diverse


lingue si deve tener presente che il sistema spesso offre un certo numero di pos-
sibilità per realizzare un fine. Pertanto il parlante, oltre al problema della corret-
tezza letterale, si trova ad affrontare anche il problema della scelta del modello più
pertinente. I risultati di tale scelta possono essere diversi in lingue diverse. La
scelta o le scelte che fa il parlante riguardano sia gli elementi della realtà extra-
linguistica che vengono scelti per descrivere una situazione, sia i modi linguistici
per denominare queste realtà. L’insieme di queste tendenze formano l’uso collet-
tivo, che non è altro che la realizzazione concreta delle forme offerte al parlante
dal sistema e dalla norma della lingua. L’uso collettivo presuppone da parte del
parlante una scelta libera e non rilevante dal punto di vista del senso, in quanto in
questo caso, per esprimere, un significato si sceglie tra forme concorrenti sinoni-
miche. Per esempio sia in italiano che in russo si può dire di una persona: mi sem-
bra simpatico oppure lo trovo simpatico. In russo, però, lo trovo simpatico (fl
ÌaxoÊy e„o cuÏnamu˜Ì˚Ï) anche se grammaticalmente è corretto, ha un uso
molto limitato ed è sentito come qualcosa di estraneo, di non organico alla lingua
russa.
Dunque “l’idiomaticità” del’uso linguistico si manifesta nella scelta di una
forma nel repertorio di forme sinonimiche capaci di descrivere una situazione.
Esistono forme più rare e forme più frequenti. Però questo non vuol dire che le
caratteristiche di frequenza siano indifferenti al sistema della lingua e alla sua
struttura. Infatti, più spesso si adopera una forma, più importante, più centrale è il
suo posto nel sistema.
Il metodo principale di analisi contrastiva dell’uso sarebbe, quindi, il con-
fronto dei mezzi linguistici che usano in una situazione due parlanti nativi di lin-
gue diverse (cf. il progetto contrastivo italiano-danese coordinato da G. Skytte:
1999). Nel caso in cui non ci sia la possibilità di ricorrere a un simile esperimen-
to linguistico, fonte di analisi possono essere le traduzioni. Naturalmente nelle
traduzioni le differenze non sempre sono determinate dalle diversità nel sistema,
nella norma e nell’uso delle lingue esaminate e possono incidere anche le scelte
personali del traduttore. In questo caso una grande importanza ha la frequenza del
fenomeno osservato. E in realtà, per mettere in rilievo delle tendenze generali,
proprie di una lingua, può bastare un materiale abbastanza limitato: anche il con-
fronto di una pagina di testo letterario con la sua traduzione permette di percepi-
re le differenze principali esistenti tra le due lingue che riguardano sia il lessico
418 ROMAN GOVORUKHO

che la grammatica, anche se in un dato testo le differenze saranno rappresentate


da casi singoli. Noi partiamo dall’idea che le preferenze individuali sono subor-
dinate alla scelta collettiva, che si potrebbe definire come norma della “parole”,
concetto che serve a completare quello di “norma della lingua” e che risulta uti-
lissimo per la caratterizzazione del sistema linguistico nella sua realizzazione.
L’analisi del nostro corpus di esempi (più di 300 occorrenze: traduzioni dal
russo in italiano e dall’italiano in russo) ha dimostrato che l’italiano e il russo
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hanno un modo diverso di presentare il primo attante in due proposizioni adiacenti


che descrivono una situazione semantica complessa. Per il primo attante inten-
diamo l’attante comunicativo che svolge il ruolo prominente nell’azione (che può
essere l’Agente o l’Esperiente o il Paziente ecc.). Useremo questo termine nel
senso vicino a quello attribuito nella “Grande grammatica italiana di consultazio-
ne” al termine “Soggetto della predicazione” (1988: 36-39). Negli esempi prima
viene l’originale, dopo la traduzione. Sotto ogni esempio in cirillico c’è la tradu-
zione di servizio in corsivo:

(1) Åa·y¯ka pa·oÚaÎa ‚ ÊËÁÌË ÏÌo„o – ÒÚËpaÎa, cÚpflÔaÎa Ìa


‰‚yx ‰o˜epeÈ. èocÎe cÏepÚË ‰e‰a ÊËÎË oÌË ‚
¢po‰ÌeÌcÍoÏ ÔepeyÎÍe, ‚ ÚeÏÌoÏ ‰oÏe... (òÍÎo‚cÍËÈ)
La nonna aveva lavorato durante la sua vita molto – lavava, cuci-
nava per due figlie. Dopo la morte del nonno vivevano loro nel
vicolo Grodnenskij, in una casa buia…
La nonna durante la sua vita aveva lavorato molto, lavava e cucina-
va per le figlie. Dopo la morte del nonno era andata a vivere nel
vicolo Grodnenskij, in una casa buia… (Šklovskij)

Nel testo russo il primo attante e soggetto sintattico della prima proposizione
(P1) è “la nonna”, mentre nella seconda proposizione (P2) lo stesso ruolo è svol-
to dal pronome “loro”, che rimanda alla nonna e alle sue due figlie. La situazione
viene descritta in russo come più generale, l’inversione del soggetto rafforza un
carattere più descrittivo, “epico” del frammento testuale. Per il testo italiano inve-
ce non è tipico un simile cambiamento del tema. Il traduttore italiano preferisce
in P2 conservare lo stesso soggetto semantico e sintattico che era in P1, anche
alterando leggermente il senso della frase. Cercheremo di dimostrare che in que-
sto caso non si tratta di un semplice “arbitrio” del traduttore, ma che il traduttore
segue una tendenza della sintassi italiana: conservare la coreferenza dei primi
attanti in due proposizioni adiacenti. Un altro esempio di una simile conservazio-
ne del primo attante è illustrato dall’esempio seguente:

(2) éÌ eÏy Ë„py¯ÍË ÔoÍyÔaeÚ. Xo‰ËÚ c ÌËÏ ‚ ·acceÈÌ. He‰a‚Ìo


p¸ß·y eÁ‰ËÎË Îo‚ËÚ¸. (Ño‚ÎaÚo‚)
Gli compra dei giocattoli. Va con lui in piscina. Di recente sono
andati a pescare.
IL PRIMO ATTANTE IN RUSSO E IN ITALIANO: ASPETTI SINTATTICI E PRAGMATICI 419

Gli compra dei giocattoli e va con lui in piscina. Di recente l’ha por-
tato a pescare. (Dovlatov)

Qui al posto del verbo intransitivo “eÁ‰um¸” (“andare”) è stato scelto il


verbo transitivo “portare” nel senso causativo e uno degli agenti dell’azione in ita-
liano è rappresentato in forma di complemento oggetto (così anche semantica-
mente diventa Paziente), assicurando così la coreferenza dei primi attanti di P1 e
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P2 che nella versione russa non esiste.


Un’altra differenza nella presentazione del primo attante consiste nel fatto che
in italiano il primo attante tende ad essere rappresentato in modo omogeneo dal
punto di vista sintattico, cioè svolge sempre il ruolo del soggetto sintattico. In russo
invece sono frequenti gli esempi in cui il ruolo sintattico del primo attante del verbo
varia da una frase all’altra. Questo è legato a una caratteristica non già dell’uso, ma
del sistema di lingua russa dove molti tipi di frase semplice con predicati stativi sono
privi di soggetto sintattico ma hanno tuttavia un soggetto semantico, ossia il primo
attante (vedi Fici-Giusti 1991: 121 e sgg.). Cf. l’esempio russo dove tutti e tre pre-
dicati caratterizzano lo stesso referente ma solo il primo attante del secondo predi-
cato svolge il ruolo del soggetto sintattico (il pronome al Nom.) mentre altri due
primi attanti sono svincolati grammaticalmente dai verbi. Nella versione italiana tutti
e tre i soggetti sono presentati in modo omogeneo dal punto di vista sintattico:

(3) ì ıoÁflËÌa ·¸I‚aÎo ÏËÌyÚaÏË ÔÎoxoe ÌacÚpoeÌËe, ËÌo„‰a oÌ


·¸IJI pa‚Ìo‰y¯Ì¸IÏ, ˜acÚo oÚ Ìe„o paÁ‰paÊa˛˘e ÔaxÎo
o‰eÍoÎoÌoÏ. (äaÁaÍo‚)
Presso di-padrone erano dei momenti di malumore, a volte era
indifferente, spesso da di-lui odorava (impers) in modo irritante
acqua di colonia.
Il padrone aveva dei momenti di malumore, d’indifferenza talvolta;
spesso emanava un irritante odore d’acqua di colonia. (Kasakov)

Dunque mentre in russo i primi attanti delle due frasi adiacenti tendono ad
essere presentati senza omogeneità sintattica e senza coreferenza, l’italiano nelle
stesse condizioni preferisce presentare i primi attanti come omogenei dal punto di
vista sintattico e coreferenti. È un procedimento grammaticale che permette di
assicurare la coesione del testo italiano. Per assicurare questa coesione nella tra-
duzione dal russo in italiano si usano alcune regole di “trasformazione”. Per
descriverle dobbiamo prendere in considerazione un livello più “profondo” di
analisi, in cui le due proposizioni (P1 e P2) sono presentate come una situazione
semantica complessa. La regola del passaggio dalla struttura profonda a quella
superficiale sta nel fatto che il secondo elemento della situazione non viene rap-
presentato da una proposizione indipendente, ma viene trasformato in un gruppo
predicativo dipendente. In particolare, nella seconda proposizione viene inserito
un predicato che esprime un rapporto esistente tra i primi attanti della situazione
420 ROMAN GOVORUKHO

complessa. Nella versione russa tale predicato non viene espresso in maniera
esplicita, ma è presupposto dalla situazione. In italiano tra i predicati capaci di
svolgere questa funzione, ci sono verbi di percezione, verbi di azione attiva e verbi
causativi.

1. Il primo gruppo è formato dai verbi di percezione e sono verbi quali vede-
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re, sentire, trovare che marcano a livello superficiale il rapporto tra il primo attan-
te di P1 e il primo attante di P2:

(4) åaÏa ÊË‚eÚ Ìa ÔflÚoÏ ÁÚaÊe, [fl] ÔpËxoÊy Í ÌeÈ, y Ìefi


ÍaÍËe-Úo ÙpäyÁ¸I, ‰aϸ,I cÚap¸IÈ ÔaÚep c ÍÌËÊÍoÈ, Ë
ÌaÍypeÌo, Ìey˛ÚÌo. (óexo‚)
[La mamma abita al quarto piano, io vengo da lei, da lei ci sono
dei francesi, qualche signora ecc...]
a. Mamma abita al quarto piano. Salgo da lei e trovo dei francesi,
qualche signora, un vecchio prete con un libro, e un’atmosfera
piena di fumo e di squallore. (Čechov)
b. La mamma abitava a un quarto piano, arrivo da lei e ci trovo dei
francesi, certe dame, un vecchio prete col suo libro, del fumo dap-
pertutto e una stanza così poco accogliente. (Čechov)

Nelle due traduzioni italiane compare un verbo percettivo, mentre in russo il


secondo elemento della situazione complessa viene presentato senza rapporto con
il primo. Un altro esempio è preso da una fiaba russa:

(5) èoÎeÁ Ïe‰‚e‰¸ Ìa ˜ep‰aÍ, a Ïe‰y-Úo ‚ Ía‰y¯Íe ÌeÚ –


ÔycÚafl. (ëÍaÁÍË)
L’orso salì in solaio ma il miele non c’è nel barile – è vuoto.
L’orso salì in solaio e vide che il miele non c’era: il barile era vuoto.
(Fiabe)

Al contrario, nella traduzione dall’italiano in russo il verbo percettivo viene


normalmente omesso:

(6) Immobile, con la lanterna spenta in mano, Elisewin sentiva il pro-


prio nome arrivarle da lontano, mescolato al vento e al fragore del
mare. Nel buio, davanti a sé, vedeva incrociarsi le piccole luci di
tante lanterne, ognuna sperduta in un suo viaggio sull’orlo della
burrasca. (Baricco)
çeÔo‰‚ËÊÌafl, c Ôo„ac¯ËÏ ÙoÌapeÏ ‚ pyÍe, ÁÎËÁe‚ËÌ
cθI¯aÎa ‰aÎeÍËÈ oÚÁ‚yÍ c‚oe„o ËÏeÌË, ÔepeÏe¯aÌÌo„o c
Áa‚¸I‚aÌËeÏ ‚eÚpa Ë pokoÚoÏ Ïopfl. Ç ÚeÏÌoÚe ÏeθÍaÎË
IL PRIMO ATTANTE IN RUSSO E IN ITALIANO: ASPETTI SINTATTICI E PRAGMATICI 421

ÍpoxoÚ̸Ie c‚eÚÎfl˜ÍË ÙoÌapeÈ, ÏeÚa‚¯Ëıcfl Ôo caÏoÏy


Í a˛ ·ypË. (ÅapËÍÍo)
Immobile, con la lanterna spenta in mano, Elisewin sentiva un lon-
tano echeggio del suo nome, mescolato al vento e al fragore del
mare. Nel buio guizzavano le piccole luci di lanterne che si dime-
navano sull’orlo della burrasca.
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Nella prima frase l’autore indica direttamente chi è l’Esperiente di tutta la scena
“Elisewin sentiva”. Così la sua presenza esplicita nella seconda frase del testo russo
diventa superflua, l’attenzione si concentra sull’oggetto, mentre il verbo che carat-
terizza quest’ultimo ha nel suo significato un sema “vedere”. In generale il parlan-
te o il protagonista è sempre presente nella situazione che viene descritta e quindi la
sua presenza esplicita in forma di soggetto sintattico può essere considerata super-
flua. E così succede in russo. La presenza esplicita dell’Esperiente in italiano porta
all’uso dei verbi di percezione e può quindi essere considerata un procedimento
formale che permette di usare strutture transitive invece di intransitive.

2. Il secondo gruppo di verbi che servono in italiano per assicurare la corefe-


renza e l’omogeneità nella rappresentazione sintattica del primo attante è forma-
to dai verbi di azione attiva. Qui il protagonista è presente non più come osserva-
tore o testimone ma come agente vero e proprio. A questo punto dobbiamo distin-
guere alcuni casi specifici.

2.1. Se il primo attante di P2 è un oggetto materiale e il primo attante di P1 è


una persona che compie una determinata azione su questo oggetto, in italiano
viene usato un predicato che nomina questa azione:

(7) éÌa ocÚaÎac¸ o‰Ìa, ÏoÍp¸IÈ ÍyÔaθÌËÍ ÎeÊaÎ Ìa ‰o˘aÚoÏ


Ôo‰oÍoÌÌËÍe. (ípËÙoÌo‚)
Lei era rimasta sola, il costume bagnato era disteso sul davanzale.
Lei era rimasta sola, il costume bagnato l’aveva appeso sul davan-
zale. (Trifonov)

Qui in russo abbiamo per così dire due inquadrature apparentemente slegate
tra di loro. La situazione viene descritta attraverso la localizzazione o lo stato del-
l’oggetto (“era disteso”) che sono il risultato dell’azione del primo attante di P1.
Questa azione è messa in evidenza in italiano con il verbo “appendere”, mentre in
testo russo il rapporto tra il primo attante di P1 e il primo attante di P2 non è
espresso a livello superficiale. Anche nel caso in cui non si tratta di un’azione da
parte dell’Agente di P1 ma di una appartenenza, l’italiano preferisce un costrutto
più esplicito rispetto a una semplice localizzazione:
422 ROMAN GOVORUKHO

(8) ëpe‰Ë y˜a˘Ëxcfl ·¸IÎo ÌecÍoθÍo ˜epÌoÍoÊËx. éÌË ˜acaÏË


cÎy¯aÎË ÏyÁ¸IÍy, ÔoÍa˜Ë‚aflc¸ Ìa Úa·ypeÚax. ÇoÁÎe
Íaʉo„o Ìa ÔoÎy cÚoflÎ ÚpaÌÁËcÚop. (Ño‚ÎaÚo‚)
Tra gli allievi vi erano alcuni negri. Loro per ore intere ascoltava-
no musica dondolandosi sugli sgabelli. Accanto a ognuno di loro,
per terra, stava una radiolina.
Tra gli allievi vi erano alcuni negri. Ascoltavano per ore intere
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musica dondolandosi sugli sgabelli. Ognuno di loro si teneva


accanto, per terra, una radiolina. (Dovlatov)

L’italiano preferisce un agente animato attivo nel ruolo di soggetto sintattico


e tende ad usare costruzioni con l’oggetto diretto, il che diventa possibile se i
primi attanti svolgono il ruolo di soggetto sintattico:

(9) çaÔpa‚¸ c‚eÚ ÚaÍ, ˜Úo·¸I Ìe ycÚa‚aÎË „ÎaÁa. CÚpaÌˈa Ìe


‰oÎÊÌa ocÚa‚aÚ¸cfl ‚ ÚeÌË. (ToÍape‚a)
Regola la luce in modo che gli occhi non ti stanchino. La pagina
non deve restare in ombra.
Regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fà in modo che
la pagina non resti in ombra. (Tokareva)

Qui il parlante italiano ricorre addirittura alla subordinazione, rendendo il suo


enunciato più complesso, meno lineare – pur di assicurare la continuità del tema
e il parallelismo sintattico delle due proposizioni.

2.2. Se in P2 c’è uno strumento, l’italiano offre due possibilità di passare dalla
struttura profonda a quella superficiale.
a) La prima possibilità si realizza se in P2 si usa un predicato che definisce
l’azione che si compie con lo strumento. Il nome dello strumento viene introdot-
to con la preposizione con:

(10) éÌË ÊËÎË Ìa ‰a˜e. KoÏÌaÚy co„pe‚aÎ peÙÎeÍÚop.


(ípËÙoÌo‚)
Loro stavano in campagna. La stanza (Acc) riscaldava una stu-
fetta elettrica (Nom).
Loro stavano in campagna. Rompevano il gelo con una stufetta
elettrica. (Trifonov)

In russo lo strumento è il primo attante in posizione di soggetto, e l’agente


attivo che usa questo strumento non è presente a livello superficiale.
b) Un’altra possibilità consiste nella trasformazione di P2 a livello superfi-
ciale in un gruppo subordinato di P1. Lo strumento viene introdotto sempre dalla
IL PRIMO ATTANTE IN RUSSO E IN ITALIANO: ASPETTI SINTATTICI E PRAGMATICI 423

preposizione con. Anche le parti del corpo umano sono viste come strumenti che
vengono usati per produrre azioni:

(11) OÚeˆ Ìa·Ë‚aÎ Úpy·Íy, Ë Ôaθˆ¸ I y Ìe„o ‰poÊaÎË.


(òÍÎo‚cÍËÈ)
Il padre riempiva la pipa e le dita di lui (presso di lui) (Loc) tre-
mavano.
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Mio padre si riempiva la pipa con le dita che tremavano forte.


(Šklovskij)

Come vediamo, in russo lo strumento (le dita) è il soggetto sintattico di P2 e


l’appartenenza dello strumento al primo attante di P1 è segnalata in questo caso
con il ‘modello del possesso’. Lo stesso modello sintattico si usa nel caso in cui
l’oggetto ha funzione attributiva:

(12) [éÌ] Ë caÏ ‚ ÁÚo ‚peÏfl ·¸IÎ ÔoxoÊ Ìa cÚy‰eÌÚa Ë o˜ÍË


Ôo·ÎecÍË‚aÎË Ìa coÎ̈e. (ToÍape‚a)
Anche lui, in quel momento, assomigliava ad uno studente, e gli
occhiali luccicavano al sole.
Anche lui, in quel momento, assomigliava ad uno studente, con gli
occhiali che luccicavano al sole. (Tokareva)

È importante sottolineare che la prospettiva comunicativa negli esempi ana-


lizzati non cambia. La pagina, il costume bagnato, le dita restano sempre nella
parte tematica della frase, la stufetta elettrica è nel comment. Si potrebbe dire,
generalizzando, che tutte le trasformazioni sintattico-grammaticali servono per
trasmettere in una lingua diversa lo stesso senso pragmatico comunicativo.
Un altro procedimento grammaticale per conservare la gerarchia topicale del-
l’attante (cf.: Givón 1984: 140) è la trasformazione passiva:

(13) åaÚ¸ ‚¸IcÎaÎË, oÌa yÏepÎa ‚ cc¸IÎÍe. (åeÚÚep)


Mia madre (Acc) hanno mandata al confino, morì là
Mia madre fu mandata al confino e morì là. (Metter)

Nella frase italiana come in quella russa sia la diatesi passiva che la forma
della terza persona plurale servono per non dare informazione sul soggetto seman-
tico o, in altri termini, per abbassare il grado comunicativo connesso con l’agen-
te. Però il rapporto dentro il sistema tra queste due forme non è uguale in italiano
e in russo, ed esistono restrizioni d’uso normative che incidono sulle scelte del
parlante (cf.: Alisova, 1972: 108). In russo la forma della terza persona col verbo
transitivo serve per mettere in rilievo il predicato che in questo caso è preceduto
dal complemento. La costruzione con la terza persona plurale è usata in tutti i
registri del russo, mentre il passivo analitico ha una sfumatura più formale e libre-
424 ROMAN GOVORUKHO

sca. In italiano in questo caso una netta preferenza va alla forma passiva.
Nell’esempio esaminato l’esigenza della trasformazione è sempre comunicativa:
il passivo permette alla parola “madre” di conservare il ruolo tematico senza la
ripresa anaforica e la segmentazione della frase. Nella versione russa questa paro-
la occupa il primo posto svolgendo il ruolo sintattico di oggetto diretto.
In russo la forma passiva si usa spesso quando si intende fornire informazio-
ne sul risultato di un’azione e non sull’azione stessa. Il primo attante di P2 in que-
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sto caso molto spesso viene omesso in quanto sottinteso, ricavabile dal contesto
precedente o dalla situazione:

(14) Åa·Ía ocÏoÚpeÎac¸ o·cÚoflÚeθÌo, cˉfl Ìa ‰epe‚flÌÌÓÏ


‰Ë‚aÌe Ôo‰Îe c‚oËx ‚e˘eÈ. íopoÔËÚ¸Òfl ·¸IÎo ÌeÍy‰a,
ÔÓeÁ‰ oÚxo‰ËÎ ‚e˜epoÏ, a ·ËÎeÚ y Ìee ‚ÁflÚ Áa„o‰fl Ìa
cÚäËË ‚ ÔÓceÎÍe. (MeÚÚep)
La vecchietta si guardò intorno con calma, seduta sulla panca di
legno in mezzo alle sue cose. Non aveva nessuna fretta, il treno
partiva la sera e il biglietto da lei era stato comprato in anticipo
alla stazione del villaggio.
La vecchietta si guardava intorno con calma, seduta sulla panca di
legno in mezzo alle sue cose. Non aveva nessuna fretta, il treno
partiva la sera e il biglietto lo aveva già comprato in anticipo alla
stazione del villaggio. (Metter)

Come vediamo, in russo la situazione viene descritta in modo più generico


rispetto all’italiano che tende sempre a presentare il primo attante come un agen-
te attivo e soggetto sintattico. Il soggetto semantico di P2 espresso in russo può
essere omesso in italiano per mettere a fuoco il protagonista della situazione com-
plessa:

(15) åapaÚ ·¸IÎ ‚oÁÏy˘eÌ ÚaÍËÏ o·pa˘eÌËeÏ c ÎËÎËÔyÚaÏË, Ë oÌË


‚ ÚoÚ Êe ‚e˜ep ÔpË„ÎacËÎË e„o ‚ „ocÚËÌˈy...
(àcÍảep)
Marat era indignato per quel trattamento nei confronti dei lillipu-
ziani, e loro quella sera stessa l’hanno invitato in albergo
Marat, indignato per quel trattamento nei confronti dei lillipuzia-
ni, fu invitato quella sera stessa nel loro albergo … (Iskander)

Nella versione italiana il soggetto sintattico è unico e il soggetto semantico di


P2 è espresso solo con un pronome possessivo e la trasformazione passiva è
accompagnata da una maggiore condensazione della frase.
Una forma specifica della diatesi passiva è rappresentata in italiano da quasi
passivo del tipo: farsi fare, lasciarsi fare, vedersi fare:
IL PRIMO ATTANTE IN RUSSO E IN ITALIANO: ASPETTI SINTATTICI E PRAGMATICI 425

(16) éÌ Ìe Ôpo¯eÎ Ôo ÍoÌÍypcy Ë eÏy c ocÍop·ËÚeθ̸IÏ


pa‚Ìo‰y¯ËeÏ ‚epÌyÎË cÌËÏÍË ‚ÏecÚe c ‰oÍyÏeÌÚaÏË.
(àcÍảep)
Fu escluso dal concorso e gli hanno restituito con un’indifferenza
umiliante le fotografie insieme ai documenti.
Lui non solo fu escluso dal concorso, ma si vide restituire con un’in-
differenza umiliante le fotografie insieme ai documenti. (Iskander)
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Uno degli attanti dell’infinito restituire è rappresentato dal pronome riflessi-


vo si che ha come referente il soggetto semantico di P1. Così il soggetto seman-
tico si trova ad essere iniziatore (nel nostro caso – testimone, osservatore) dell’a-
zione restituire di cui lui stesso è l’oggetto o il destinatario. Questa trasformazio-
ne ha come funzione principale non quella di neutralizzare il soggetto dell’azione
espressa dall’infinito (come sarebbe il semplice passivo: gli hanno restituito le
foto – gli furono restituite le foto), ma di far corrispondere il topic al soggetto sin-
tattico. La struttura semantica diventa così più complessa in quanto viene fuori un
nuovo attante (Osservatore) che alla volta svolge il ruolo dell’Esperiente e occu-
pa il posto del soggetto sintattico. Il fatto di osservare come si svolge l’azione, di
controllarla – da parte del parlante o del protagonista è comunque presupposto,
ma non deve essere necessariamente esplicitato nel testo. Per cui questo segno lin-
guistico (riflessivo-causativo) è un procedimento formale che non ha una forte
carica semantica – tant’è vero che può essere facilmente omesso e, per esempio,
non può essere reso in nessun modo nella traduzione russa. In generale nella tra-
sformazione diatetica la scelta della diatesi attiva o passiva rappresenta non tanto
cambiamento nel mondo, quanto piuttosto un cambiamento rispetto al modo in
cui il parlante vuole presentare tale situazione e i suoi partecipanti. La situazione
rimane la stessa – cambia solo l’informazione comunicativa che il parlante vuole
trasmettere.

3. L’ultimo gruppo dei verbi che assicurano in italiano la coreferenza e l’o-


mogeneità del primo attante in due proposizioni adiacenti è formato dai verbi cau-
sativi. Già analizzando le trasformazioni coi verbi di azione attiva, abbiamo nota-
to che se il russo tende a presentare la situazione in quanto azione o stato di un
oggetto (cf.: la stufetta riscaldava la stanza, il costume bagnato era disteso sul
davanzale ecc.), in italiano la stessa situazione viene rappresentata come risulta-
to causato dall’esterno (cf.: rompevano il gelo, aveva appeso il costume bagnato
ecc.). Infatti, in italiano si usano spesso i causativi lessicali per assicurare la core-
ferenza dei primi attanti:

(17) à‰ËÚe cÔaÚ¸! åÌe c ‚aÏË cÍy˜Ìo. (óexo‚)


Vada a dormire. Mi è noioso con Lei.
Vada a dormire. Mi dà noia. (Čechov)
426 ROMAN GOVORUKHO

Oltre ai causativi lessicali, l’italiano dispone di causativi analitici che non esi-
stono in russo:

(18) êacÔ˯Ëc¸ ÔpË ÏÌe, ˜Úo· fl ‚ˉÂÎa o·paÁeˆ. (MeÚÚep)


Firmi in mia presenza perché io veda la scrittura.
Firmi qui per farmi vedere la scrittura. (Metter)
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La trasformazione causativa è caratterizzata dal cambiamento della valenza


del verbo, cioè del predicato di P2, il che permette di conservare l’omogeneità e
la coreferenza del soggetto sintattico nelle due parti. Il “vecchio” soggetto di P2
ha la forma di complemento di agente, di complemento oggetto indiretto (come
nell’esempio precedente) o oggetto diretto:

(19) éÌ ÔoÎoÊËÎ Îa‰o̸ Ìa Îˈo Ë ÚÓÎÍÌyÎ PoÏa¯Íy ÚaÍ, ˜Úo oÌ


ÔoÎeÚeÎ ‚ „pflÁ¸ (ToÍape‚a).
(Gli) aveva messo una mano sul viso e aveva colpito Romascka
cosi che lui volò nel fango.
Gli aveva messo una mano sul viso e lo aveva colpito in modo da
farlo volare nel fango. (Tokareva)

Ricapitolando, possiamo dire che tutti e tre i tipi di verbi che vengono scelti
in italiano per presentare la situazione complessa in modo più coerente, hanno una
valenza in più rispetto ai verbi russi. Così, ai verbi russi di esistenza corrispondo-
no i verbi di possesso o di percezione, ai semplici verbi di azione attiva corri-
spondono i verbi causativi. Quindi in italiano una netta preferenza va ai costrutti
transitivi, cosicché spesso si può parlare di una certa formalizzazione del costrut-
to con l’oggetto diretto, che si usa non solo per denominare il rapporto tra il sog-
getto e l’oggetto, ma anche per denominare i rapporti che in russo vengono
espressi normalmente con costrutti di tipo circostanziale (causale, temporale,
locativo ecc.). Il rapporto circostanziale è sempre concreto ed ha un significato
specifico, mentre il rapporto di tipo transitivo (oggettivo) non esprime nient’altro
che una relazione tra l’azione e la sostanza. I complementi circostanziali vengo-
no caratterizzati dal punto di vista semantico mentre i complementi oggetto si
distinguono solo dal punto di vista formale: oggetto diretto o indiretto. Così l’uso
più frequente dei costrutti oggettivi può significare una tendenza dell’italiano a
usare costruzioni più astratte e con funzione formale di servizio, in quanto una
forma transitiva viene usata per legare due nozioni. L’argomento semantico che
emerge in italiano è l’Agente o l’Esperiente che tende sempre ad essere al centro
della situazione, al centro del testo mentre nel testo russo il suo ruolo tende ad
essere minimizzato. In altri termini, una minore o maggiore attività del Soggetto
semantico è marcata sintatticamente. Si può inoltre osservare che, mentre in russo
gli oggetti si uniscono spesso intorno ad una situazione chiusa in sé, formano una
specie di legame materiale e quindi l’attenzione si concentra sull’oggetto, – in ita-
IL PRIMO ATTANTE IN RUSSO E IN ITALIANO: ASPETTI SINTATTICI E PRAGMATICI 427

liano in primo piano risulta esserci una relazione, un legame non tanto materiale
quanto logico, mentale e al centro del testo così si ritrova il soggetto cogitans,
agens.
Le regole che determinano le diversità descritte sono basilari per la costru-
zione dell’enunciato e del testo coesivo, naturalmente insieme ad altri fenomeni
quali la sostituzione anaforica, il sistema temporale e aspettuale e la prospettiva
comunicativa. Queste regole sono importanti anche dal punto di vista didattico
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perché costituiscono i punti in cui la lingua madre può maggiormente interferire.


428 ROMAN GOVORUKHO

BIBLIOGRAFIA

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Bally, Ch. 1963. Linguistica generale e linguistica francese. Milano: Il Sagittario.
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Benjamins.
Renzi, L. (a cura di) 1988. Grande grammatica italiana di consultazione. Vol. I. Bologna:
Il Mulino.
Skytte, G., Korzen, I., Polito, P. e Strudsholm, E. (a cura di) 1999. Strutturazione testuale
in italiano e in danese. Risultati di un’indagine comparativa. Copenhagen: Museum
Tusculanum Press.
Tesnière, L. 1959. Eléments de syntaxe structurale, Paris: Klincksiek.
PIA MÄNTTÄRI
(Helsinki)

Caratteristiche sintattico-testuali dei passivi italiani alla luce della traduzio-


ne in una lingua senza passivi
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1. Le differenze sintattico-testuali tra il passivo vero e proprio e il cosiddetto


si passivante sono un problema per chi deve insegnare l’uso corretto di queste
forme e anche per chi deve tradurre dei testi in o dall’italiano. Come rivela il tito-
lo, cercheremo di affrontare il problema servendoci della traduzione in finnico di
testi letterari italiani. Qui non è possibile dare una nuova descrizione del fenome-
no ne di risolvere dei problemi teorici attinenti alla diatesi passiva e media in
generale; speriamo invece di poter chiarire, da un punto di vista essenzialmente
testuale e pragmatico, alcuni punti problematici.
Nel tradurre ci si imbatte facilmente in casi dove le differenze testuali tra i
passivi italiani provocano delle difficoltà nel trovare buone soluzioni traduttive.
Consultando le grammatiche (normative) si nota, però, che continuano a presen-
tare quasi come equivalenti anche nell’uso il passivo perifrastico e il si passivan-
te. Anche se fare confronti tra lingue radicalmente diverse tra di loro, come lo
sono l’italiano e il finnico, non è un’attività particolarmente produttiva, ciò può
avere un senso se ci si limita al livello testuale e al significato delle frasi.

2. Prima di cominciare l’analisi degli esempi italiani può essere utile ricorda-
re le possibilità che ha il finnico di tradurre dei passivi. Un passivo vero e proprio
non c’è – non esiste un costrutto dove sia soggetto il paziente e il soggetto logico
compaia (o possa comparire) come complemento d’agente. Invece il finnico
dispone di tre tipi di soluzione impersonale: soluzione morfologica (tipo I); solu-
zione sintattica (tipo II) e soluzione lessicale (tipo III)1.

2.1. Il finnico possiede una forma morfologica che serve per “tacere l’agente”,
mentre il complemento d’oggetto conserva la propria funzione. Questo costrutto

1 Purtroppo abbiamo una buona presentazione del cosiddetto passivo finnico solo in finni-
co. Quindi si dovrà rinviare a studi e manuali in tale lingua, in primo luogo Shore 1986 e Vilkuna
2000.
Per i passivi italiani, si è seguito la presentazione che ne fa la Grande grammatica italiana
di consultazione, in particolare Giampaolo Salvi 1988 e Pier Marco Bertinetto 1991.
Un articolo dove si confrontano alcuni passivi italiani con le loro traduzioni in finnico è
Mänttäri 2000.
430 PIA MÄNTTÄRI

può essere formato anche a partire da un verbo intransitivo. L’agente omesso è sem-
pre plurale e si riferisce a degli umani (o comunque ha il tratto + animato2.
Abbiamo quindi sia
(Ia) Työ tehdään.
lavoro-OGG. fare-INDEF. “Il lavoro viene fatto.”
che
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(Ib) Metsässä kävellään.


bosco-in camminare-INDEF. “Si cammina nel bosco.”

Questo tipo di frase inizia con il verbo solo in casi eccezionali.


I manuali moderni sul finnico chiamano tale forma impersonale indefinito,
ma nelle grammatiche (normative) tradizionali porta ancora il nome di passivo. È
molto frequente sia nello scritto che nel parlato, dove serve p. es. a esprimere la
1a persona plurale3.

2.2. Troviamo poi, con una certa frequenza, altri due costrutti nelle traduzio-
ni dei passivi italiani. La soluzione sintattica consiste nell’omissione del sogget-
to di un verbo di terza persona singolare.
Bisogna premettere che in finnico c’è l’obbligatorietà del soggetto di 3a per-
sona (e solo di 3a persona), tranne nelle frasi a soggetto zero, che hanno un senso
generico. L’agente non espresso è un “chiunque”. Questo tipo di impersonale sin-
tattico non si limita ai verbi transitivi.

(II) Tänä yönä tähdet näkee hyvin.


questa-in notte-in stelle-OGG. vedere-3a PERS.SING. bene
“Stanotte le stelle si vedono bene.”

Il senso della frase (II) è interpretabile come “nel caso che qualcuno le andas-
se a guardare”.

2.3. Per la soluzione lessicale si usa un gruppo particolare di verbi intransiti-


vi, i cosiddetti riflessivo-passivi: veicolano piuttosto una qualità del soggetto (che
è il complemento oggetto logico). Questa qualità è comunque una qualità in atto
e non una mera possibilità com’è il caso del tipo II 4.

2 L’indefinito finnico è stato a volte descritto come la quarta persona; questo spiegherebbe
la difficoltà di utilizzare con l’indefinito i pronomi e i possessivi che si riferiscono alle tre per-
sone (Vilkuna 2000: 140).
3 È quindi del tutto parallelo al tipo “Si va”. Cf. Shore 1986: 33-36.
4 Su questo gruppo di verbi, v. Räisänen 1988.
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 431

(III) Tänä yönä tähdet näkyvät hyvin.


questa-in notte-in stelle-SOGG. vedersi-3a PERS.PL. bene
“Stanotte le stelle si vedono bene.”

2.4. Negli studi sul finnico si è prestata molta attenzione al carattere dell’a-
gente non espresso: se include cioè il parlante (e qui si può pensare al limite a
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tutto il genere umano) oppure no. La soluzione I può essere o inclusiva o esclusi-
va – tutto dipende dal contesto, ma anche dall’ordine dei costituenti5. Per quanto
riguarda il costrutto II, si tratta di una forma generica e quindi inclusiva. Per i
verbi del gruppo III, le caratteristiche dell’agente sono marginali.

3. Cosa succede poi con il passivo perifrastico con agente quando lo si tradu-
ce in finnico? Di solito la soluzione è attiva, poiché i costituenti in finnico hanno
un ordine libero. L’es. (1) viene reso in finnico semplicemente con questo mezzo:

(1) Il re Garamante, che era stato tradotto in prigionia dai suoi nemici, era
stato riportato in patria da una muta di duecento cani [...] (E: 285) 6
Kuningas Garamanten ... toivat kotiin kaksisataa koiraa...
re Garamante-OGG. portare-3a PERS. PL. casa-a 200 cani-
SOGG.
(E: 356-7)

Quindi in finnico la topicalizzazione del paziente o il suo carattere tematico


possono essere espressi tramite l’ordine delle parole. Così anche l’agente può
apparire come rematico, se occorre.
Il confronto con il finnico ha poco da aggiungere alle caratteristiche del pas-
sivo paradigmatico con agente. Possiamo soltanto ribadire il carattere in un certo
senso poco naturale di questo tipo di passivo, quando l’agente non è una persona
o comunque un ente animato. Per l’italiano, si è spesso notato che il costrutto è
poco popolare nel parlato.
Per quanto riguarda l’es. (2), potrebbe essere tradotto con l’ordine delle paro-
le OVS, ma invece è stato riformulato: si è usato l’indefinito e l’agente è diventa-

5 Il primo studio che abbia sondato le differenze interne all’indefinito finnico è stato Shore
nel 1986. Ha cercato di chiarificare i due prototipi “scritto” e “parlato” del passivo (pp. 25-29):
il primo presenta l’ordine SV, è in genere esclusivo, sebbene l’agente sia spesso irrelevante, e ha
un carattere stativo; il secondo invece ha l’ordine VS, è spesso inclusivo, l’agente è ricavabile
dal contesto, e il passivo descrive tipicamente degli eventi. Le indicazioni “scritto” e “parlato”
sono ovviamente delle semplificazioni.
6 Gli esempi provengono da quattro romanzi italiani tradotti in finnico: Se una notte d’inverno
un viaggiatore di Italo Calvino [C], Il nome della rosa di Umberto Eco [E], La donna della domeni-
432 PIA MÄNTTÄRI

to un complemento strumentale. In questo il finnico risulta restio all’uso di un


soggetto del tipo “ferro di cavallo”.

(2) Nel vassoietto portapenne, tra le matite, i pennarelli, i fermagli, gli


elastici e le biro, c’era anche un lungo corno portafortuna rosso, e
poco più in là, una pila di pratiche era tenuta ferma da un ferro di
cavallo. (F&L: 185)
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[...] oli pino papereita, joiden painoksi


oli pantu hevosenkenkä. (F&L: 190)
“c’era una pila di carte, su cui si era appoggiato un ferro di caval-
lo”

Anche in italiano sembra raro il caso dei complementi d’agente “da me” o “da
noi” – almeno nella narrativa. Però risulta del tutto naturale in una precisazione
del tipo:

(3) Quanto a te, ti manderanno in una finta prigione, ossia, in una vera pri-
gione di stato che però è controllata non da loro ma da noi. (C: 215)

Qui l’agente è appunto messo in rilievo, e dal punto di vista testuale il passi-
vo perifrastico è ben motivato.
Un caso interessante è l’es. (4).

(4) Bada, queste cose io non te le dico solo dell’amore cattivo, che
naturalmente deve essere sfuggito da tutti come cosa diabolica, io
dico questo e con grande paura anche dell’amore buono che corre
tra Dio e l’uomo, tra prossimo e prossimo. (E: 233-4)

La scelta del passivo perifrastico sembra qui una scelta stilistica: rappresenta
un livello più letterario di altre possibilità, p. es. “che naturalmente si deve sfug-
gire come cosa diabolica”. Ovviamente è il verbo modale ‘dovere’ a dare un senso
particolare al costrutto, insieme al complemento d’agente “da tutti”. Il risultato è
una regola generalizzata, che viene di conseguenza tradotta con un verbo a sog-
getto zero. L’agente “da tutti” non c’è bisogno di esprimerlo, e del resto potrebbe
essere omesso anche in italiano.

4. Gli esempi del passivo perifrastico senza complemento d’agente sono sud-
divisi in due sezioni in base all’ordine dei costituenti: SV oppure VS.

4.1. Sembrerebbe a prima vista che i passivi del gruppo SV siano traducibili
con l’indefinito finnico, e spesso ciò è vero – ma non sempre. Andiamo a vedere
più in dettaglio.
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 433

L’es. (5) mette in luce una caratteristica di questo tipo di passivo: la temati-
cità del soggetto. L’agente invece è del tutto irrelevante, non ricavabile in nessun
modo dal contesto, semplicemente non include il parlante.

(5) Ma nessun corteo (era questo l’amaro segreto della città?) veniva
mai, sarebbe mai venuto, il percorso era stato modificato all’ultimo
momento, il cocchio, le piume, le fanfare sarebbero sempre passati
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laggiù, oltre quei tetti, dietro quello spigolo. (F&L: 371)

Anche il passivo dell’es. (6) è esclusivo, ma qui dal contesto si può capire che
si tratta dei nemici del parlante, e l’agente preciso è ricavabile dal contesto.

(6) Siamo in un paese in cui tutto quel che è falsificabile è stato falsifi-
cato: quadri dei musei, lingotti d’oro, biglietti dell’autobus. (C: 213)

Nell’es. (7), sia il soggetto che l’agente sono fortemente presenti nel conte-
sto, anche se l’agente a questo punto è ancora vago.

(7) – Venerdì. È stato vistato venerdì, tre giorni dopo. (F&L: 428)

L’es. (8) è più interessante perché presenta un uso direi ironico del passivo: si
parla di una persona presente come se non ci fosse, nascondendola – è appunto la
signora Tabusso l’assassino dell’architetto Garrone, e chi legge lo sa.

(8) Le sorrise condiscendente, ma la signora Tabusso resistette bene


all’insinuazione che l’architetto fosse stato ucciso per niente.
(F&L: 426) 7

Gli esempi di questa sezione dimostrano molto bene che l’interpretazione del
significato del passivo perifrastico dipende sempre dal contesto. Questo è vero in
particolare per quanto riguarda l’agente.
Nell’es. (9), infatti, troviamo un agente chiaramente inclusivo, è un “noi”, ma
sembra che l’uso di un passivo serva per liberare il parlante dalla responsabilità
per l’attività dell’organizzazione – una tipica motivazione burocratica per l’uso
del passivo.

(9) Non che ci fosse sconosciuto: avevamo tutti i suoi dati nei nostri
schedari, era stato identificato da un pezzo nella persona d’un tra-
duttore faccendiere e imbroglione; ma le vere ragioni della sua atti-
vità restavano oscure. (C: 241)

ca di Carlo Frutteri & Franco Lucentini [F&L] e Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia [S].
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434

7
PIA MÄNTTÄRI

Gli esempi (5-8) sono stati resi in finnico con l’indefinito.


435 PIA MÄNTTÄRI

Si è già detto che questo tipo di agente è poco naturale. L’indefinito finnico è
ancora più decisamente associato al carattere esclusivo dell’agente, e quindi qui
la traduzione adotta “noi” come soggetto – una soluzione non più indefinita né
impersonale.
Anche l’es. (10) sembra stilisticamente marcato, poiché l’agente inespresso
non è umano. Potrebbe essere Dio, ma si parla delle cose che il parlante può
osservare nel mondo.
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(10) E tanto più queste cose mi vengono rivelate quanto più la materia
che io guardo è per sua natura preziosa, [...] (E: 149)

Anche l’italiano si adegua con notevole fedeltà al principio dell’agente


umano (o “umanizzato”) per quanto riguarda il passivo perifrastico senza agente
e il si passivante – a differenza del passivo perifrastico con agente. La soluzione
adottata dal traduttore è di mantenere “queste cose” come soggetto e di scegliere
un verbo riflessivo-passivo. Si tratta non di un evento ma di un processo che dura
nel tempo e che benefica il parlante.

4.2. Per il passivo perifrastico senza agente l’ordine naturale sembra essere
SV, benché l’ordine VS non sia eccezionale. Gli esempi (11-14) presentano dei
casi, direi, paradigmatici per l’ordine VS.
Nell’es. (11) i soggetti sono dei costituenti pesanti che si trovano in serie.
Anche il finnico, di solito restio a mettere con l’indefinito il verbo all’inizio della
frase, ha qui deciso per il VO. L’agente è irrelevante, poiché si tratta di una descri-
zione di una situazione, di un sogno.

(11) E furono trovati, con disdoro di tutti, un drappo multicolore


addosso ad Agar, un sigillo d’oro su Rachele, uno specchio d’ar-
gento in seno a Tecla, un sifone bibitorio sotto il braccio di
Beniamino, una coperta di seta tra le vesti di Giuditta, una lancia
in mano a Longino e la moglie di un altro tra le braccia di
Abimelech. (E: 434-5)

Nell’es. (12) il soggetto è un elemento decisamente nuovo. L’agente, ricava-


bile dal contesto, è “la polizia”, ma non è senz’altro inclusivo; anzi, il passivo
indica che il ritrovamento è stato effettuato dalla polizia di un’altra località.

(12) – Sì: perché questa telefonata da S. mi informa che è stata trova-


ta l’arma che ha ucciso Colasberna. (S: 78)

Negli ess. (13) e (14) l’agente è chiaramente esclusivo. Si descrivono le


vicende dal di fuori, e parte dell’alone di oggettività viene proprio dal passivo –
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 436

e, in finnico, dall’indefinito. In questi esempi i passivi rappresentano delle for-


mule introduttive o eventive, dove l’ordine normale in italiano è, appunto, VS.

(13) Furono dunque stabilite, col Pizzuco, le modalità per eseguire il


delitto: impegnandosi il Pizzuco a concorrere facendogli trovare
l’arma in una casa di campagna di sua proprietà dove il Marchica,
la notte precedente all’esecuzione del delitto, si sarebbe dovuto
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recare. (S: 72)


(14) Erano stati condannati da due anni i beghini di Narbona e
Beregario Talloni, che pure era uno dei giudici, si era appellato al
papa. (E: 62)

4.3. Come abbiamo visto, il passivo perifrastico serve per esprimere sia la
tematicità del paziente, sia il carattere rematico dell’agente. Se l’agente non è
espresso, può essere esclusivo o inclusivo, ma questo deve essere ricavato dal con-
testo. L’agente può anche essere del tutto irrelevante. A differenza di tutti gli altri
tipi di costrutti passivi, nel passivo perifrastico con agente, questo agente può
essere di qualsiasi tipo, anche non umano o non animato, mentre sia il passivo
perifrastico senza agente che il si passivante richiedono un agente animato.
Il passivo perifrastico tende a esprimere delle situazioni o degli eventi pun-
tuali o circostanziati. Sono possibili anche casi di generalizzazione o di istruzio-
ne, ma sono significati che vengono veicolati da tutta la frase, e in particolare dai
verbi modali.

5. Passiamo ora al si passivante e all’ordine che spesso lo caratterizza: VS.


Una differenza fondamentale tra il passivo perifrastico e il si passivante la
vediamo nell’es. (15), dove il si passivante esprime una regola generale e il pas-
sivo perifrastico un evento del passato.

(15) Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche
apprezzare il gioco dell’insipiente che ride di ciò di cui solo si
deve sapere l’unica verità, che è già stata detta una volta per sem-
pre. (E: 139)

Qui il si passivante è stato tradotto, giustamente, con il verbo a soggetto zero


e il passivo perifrastico con l’indefinito.
Gli esempi (16) e (17) hanno l’ordine SV, ma hanno un’aria di famiglia con
l’es. (15). Anche qui si tratta di una regola (l’es. (16)) o di una generalizzazione
(l’es. (17)).

(16) “Il male non si esorcizza. Si distrugge.” (E:480)


437 PIA MÄNTTÄRI

Nell’es. (16) i due costituenti sono stati tradotti con l’indefinito. Nel primo
caso c’è la negazione a incidere sul significato. Sono tutti e due dei begli esempi
dell’accezione di ’dovere’: “non si deve esorcizzare, si deve distruggere”. Però,
l’uso del solo verbo ‘distruggere’ sembra dare al secondo costrutto anche un senso
di decisione. Negli ess. (15) e (16) il passivo è fortemente inclusivo.
La frase (17) è un esempio, per la traduzione finlandese, di una soluzione
poco riuscita. Infatti, l’indefinito sembra non avere esattamente lo stesso senso di
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una constatazione generale, è piuttosto un “gli errori ... non vengono più corret-
ti”. – Per l’interpretazione del significato degli esempi (15-17) incide in maniera
non trascurabile il tempo presente.

(17) E quegli errori lì, una volta fatti, non si correggono più, restano in
eterno. (F&L: 415)

Con l’es. (18) entriamo in un’altro ordine di significati del si passivante: quel-
lo delle potenzialità. Si parla delle qualità dello specchio, di ciò che consente di
fare, se qualcuno lo guarda mentre sta avvicinando una nave. La situazione è quel-
la descritta per il verbo a soggetto zero e per i verbi riflessivo-passivi (del finnico).
I verbi di percezione vengono tipicamente tradotti con i verbi riflessivo-passivi.

(18) I geografi arabi del Medio Evo nelle descrizioni del porto
d’Alessandria ricordano la colonna che s’alza sull’isola di Pharos,
sormontata da uno specchio d’acciaio in cui si vedono a immensa
distanza le navi avanzare al largo di Cipro e di Costantinopoli e di
tutte le terre dei Romani. (E: 165)

L’es. (19) è alquanto diverso: qui abbiamo la descrizione concisa di una serie
di eventi, e sembra prendere sopravvento il verbo stesso. Non trattandosi di gene-
ralizzazioni o di regole, la traduzione presenta l’indefinito.

(19) Dove si visita lo scriptorium e si conoscono molti studiosi, copi-


sti e rubricatori nonché un vegliardo cieco che attende l’Anticri-
sto. (E: 79)

Il senso veicolato dall’uso del si passivante, nella scrittura molto sorvegliata


di Eco, potrebbe essere invece o il coinvolgimento del lettore nelle vicende narra-
te o la vicinanza emotiva (anche a distanza di tempo) di chi narra.
L’es. (20) è parallelo al precendente, ma vale ciò che si è detto dei verbi di
percezione: benché si tratti di un evento, presentato come nuovo, nella traduzione
troviamo un verbo riflessivo-passivo.

(20) A quel punto si udì uno schianto: il pavimento del labirinto aveva
ceduto in qualche punto precipitando le sue travi infuocate al
piano inferiore, [...] (E: 491)
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 438

Gli ess. (21) e (22) presentano dei verbi modali o fraseologici, il cui legame
con il si passivante è noto. In finnico, questo tipo di generalizzazione comporta,
tipicamente, all’uso di un verbo a soggetto zero.

(21) Il mondo è ridotto a un foglio di carta dove non si riescono a scri-


vere altro che parole astratte, come se tutti i nomi concreti fosse-
ro finiti; [...] (C: 254)
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Se confrontiamo l’es. (22) con una sua possibile trasformazione in passivo


perifrastico, vediamo subito, ancora una volta, la differenza fondamentale tra il
passivo perifrastico che si riferisce a un solo evento (“che in quell’occasione non
potesse essere dato...”) e il senso nettamente più generico del si passivante, tra-
dotto con un verbo a soggetto zero.

(22) Il capitano capiva benissimo perché; e febbrilmente ebbe visione di


un fitto raduno di uccelli notturni nel chiarchiaro, un cieco sbattere
di voli nell’opaca luce dell’ora; e gli pareva che il senso della morte
non si potesse dare in immagine più di questa paurosa. (S: 84)

Nell’es. (23) abbiamo poi un caso di intercambiabilità tra il si passivante e il


passivo perifrastico: “venivano riportati”. Si tratta di un’abitudine, ricavabile p.
es. dall’uso dell’imperfetto.

(23) E fulmineamente si rese conto che oggi era venerdì, il giorno in


cui i documenti vistati si riportavano al palazzo degli Uffici
Tecnici, e che la Fogliato aveva intenzione di accaparrarsi l’inca-
rico; che, anzi, lo considerava già suo. (F&L: 223)

Per il si passivante è chiara l’inclusività dell’agente, quando il costrutto ha il


significato di una generalizzazione, una potenzialità o di un dovere. Nel caso degli
eventi le cose possono cambiare: l’agente è ricavabile dal contesto, e, salvo casi
eccezionali, è esclusivo. Rimane, però, una sensazione di coinvolgimento: o dello
scrivente o del lettore.

In molti esempi del si passivante non si può dire che ci sia una topicalizzazione
del paziente o che questo sia tematizzato. È invece il verbo ad acquistare rilievo,
soprattutto se si trova nella posizione iniziale e ha certe caratteristiche semantiche.

6. Stupisce l’unico esempio di non accordo tra il soggetto e il si passivante nel


corpus:

(24) La casa dell’Abate era sopra il capitolo e dalla finestra della sala,
grande e sontuosa, in cui egli ci ricevette, si poteva vedere, nel
439 PIA MÄNTTÄRI

giorno sereno e ventoso, oltre il tetto della chiesa abbaziale, le


forme dell’Edificio. (E: 447)

Il fenomeno del si impersonale-passivo in sé è noto: soprattutto nel parlato e


in certe varietà della lingua si preferiscono costrutti come “Si taglia i rami” o “Si
butta pietre in acqua”. È una spiegazione però non soddisfacente dell’esempio di
Eco. Che si tratti di un errore di tipografia?
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7. In conclusione, speriamo di aver dimostrato che la luce incrociata sui vari


tipi di passivo italiano, che può venire dall’applicazione di criteri formali, seman-
tici e testuali che governano un’altra lingua, può chiarire alcune caratteristiche del
passivo perifrastico e del si passivante. E, siccome queste riflessioni erano partite
anche da esigenze didattiche, bisogna dire che aiutano a spiegare agli studenti,
futuri traduttori, le differenze d’uso e di significato dei passivi italiani.
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 440

CORPUS

Calvino, Italo, 1979, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, (trad. in fin-
nico a cura di Jorma Kapari, Jos talviyönä matkamies, Helsinki, Tammi, 1983).
Eco, Umberto, 1984, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, (trad. in finnico a cura di Aira
Buffa, Ruusun nimi, Porvoo- Helsinki-Juva, WSOY, 1986).
Fruttero, Carlo & Lucentini, Franco, 1978, La donna della domenica, Milano, Mondadori,
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(trad. in finnico a cura di Ulla-Kaarina Jokinen, Sunnuntainainen, Helsinki, Otava,


1974).
Sciascia, Leonardo, 1978, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, (trad. in finnico a cura
di Soma Rytkönen, Huuhkalinnut, Helsinki, Tammi, 1984).
ANDREA SANSÒ
(Pavia)

Passivo ed individuazione dell’evento: un confronto italiano-spagnolo*


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1. INTRODUZIONE: METODOLOGIA E DATI

Oggetto di questo contributo sono due coppie di costruzioni passive dell’ita-


liano e dello spagnolo: il passivo perifrastico (cfr. (1) e (3)) e il cosiddetto passi-
vo impersonale (cfr. (2) e (4))1:

(1) El presunto agresor fue identificado anoche por la policía como


Mohamedi M. K., de 35 años (El País, 16.02.2000).
(2) Aseguró que sólo se habían formulado dos denuncias y que “esos
que nadie sabe donde están ni cuantos son” no han presentado nin-
guna (El País, 18.02.2000).
(3) Oscar Del Rio Gomez è stato dapprima tirato su da una scialuppa
della seconda nave coinvolta, poi è stato recuperato da un mer-
cantile russo (La Repubblica, 15.02.2000).
(4) Per una questione di 93 mila lire da dividersi in quattro si sono
spesi molti più quattrini, sia per istruire il processo, sia per i peri-
ti (Il Corriere delle Alpi, 10.02.2000).

* Mi fa piacere ringraziare, in questa sede, Anna Giacalone, Pierluigi Cuzzolin, Raquel


Hidalgo, Louise Cornelis e Robert Kirsner, che hanno letto e commentato una versione prece-
dente di questo lavoro. La responsabilità di errori e inesattezze resta, ovviamente, soltanto mia.
1 Il termine usato dalle grammatiche spagnole per indicare questo tipo di passivo è pasiva
refleja. Come si vedrà più avanti, non esiste alcuna distinzione rilevante, sul piano semantico,
fra passivi impersonali (si sono spesi molti quattrini) e costruzioni impersonali senza un ogget-
to (si è ballato per tre ore). Pertanto ogni generalizzazione qui proposta per il passivo imperso-
nale varrà allo stesso modo per la costruzione impersonale intransitiva. Sono consapevole del-
l’infelicità terminologica della dizione “impersonale”: nelle due costruzioni impersonali, infat-
ti, l’agente non espresso è obbligatoriamente umano; pertanto il termine più corretto per queste
costruzioni sarebbe “passivo indefinito”. Scegliendo il termine “impersonale”, tuttavia, si evita
la confusione terminologica, in quanto si tratta di un termine comunemente usato per indicare
costruzioni passive di altre lingue che richiedono altrettanto obbligatoriamente la presenza di un
agente umano (si pensi al passivo impersonale del tedesco, es wurde getanzt, che non può rife-
rirsi a un agente non umano).
442 ANDREA SANSÒ

La letteratura su queste due costruzioni è ampia, ma si richiama, per lo più,


al paradigma della grammatica generativa nelle sue varie formulazioni, e per-
tanto esclude programmaticamente dal novero delle questioni rilevanti il pro-
blema del loro uso nei testi reali, basandosi piuttosto su esempi creati artificial-
mente. Anche nei pochi studi di impostazione semantico-funzionale si tende a
ritenere, più o meno implicitamente, che le due costruzioni impersonali da una
parte e le due costruzioni perifrastiche dall’altra siano, per così dire, lo stesso
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oggetto linguistico: in sostanza ci si lascia fuorviare dalla perfetta corrispon-


denza formale tra esse e si è indotti a ritenere che abbiano lo stesso spettro di
usi.
Questo lavoro mira invece a restituire all’uso delle due coppie di costruzioni
esemplificate in (1)-(4) il giusto spazio che esso deve avere nella formulazione di
ipotesi e generalizzazioni linguistiche. In termini contrastivi, questo significa
chiedersi se eventuali differenze fra italiano e spagnolo nell’uso delle due costru-
zioni siano soltanto frutto del caso o rimandino piuttosto a una diversa specializ-
zazione o divisione del lavoro.

Il quadro teorico che adotto è di tipo cognitivo-funzionale: secondo questo


modello, la descrizione dell’uso linguistico è parte integrante della descrizione
del sistema linguistico (cfr. Kemmer e Barlow 2000). I termini di questo rappor-
to fra uso e sistema linguistico si chiariranno meglio più avanti: basti sottolinea-
re, per ora, che non mi concentrerò, sic et simpliciter, sulla pragmatica delle due
coppie di costruzioni in italiano e spagnolo, né sul loro uso in determinate tipo-
logie testuali: il mio è piuttosto un tentativo di integrare, in una descrizione uni-
taria, gli aspetti pragmatici, semantici e grammaticali di queste due coppie di
costruzioni.

1.1. Il primo problema da affrontare in un’analisi contrastiva o tipologica è


quello della comparabilità delle strutture morfosintattiche prese in esame. Le due
coppie di costruzioni passive in (1)-(4) appartengono a due tipi strutturali diversi:
abbiamo a che fare, da una parte, con due passivi perifrastici e, dall’altra, con
forme caratterizzate dalla presenza di una marca di riflessivo (se in spagnolo e si
in italiano). È pertanto legittimo chiedersi se questi due tipi strutturali siano parte
di uno stesso sistema morfosintattico o rappresentino invece due costruzioni affat-
to indipendenti e autonome. In altre parole, dobbiamo essere ragionevolmente
sicuri che i dati selezionati per il confronto formino un insieme coerente ai fini
della comparazione.
Nel caso del passivo le indagini tipologiche (cfr. Givón 1981, Keenan 1985,
Haspelmath 1990, Andersen 1991) hanno affrontato il problema delle proprietà
formali e funzionali che caratterizzano una costruzione come passiva, ma spesso
le proprietà che valgono per una lingua non valgono per un’altra e troviamo fre-
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 443

quentemente, in questi studi, delle scorate constatazioni dell’impossibilità di un


confronto tipologico2.
Negli ultimi anni si è però affermata una tendenza all’integrazione fra ricerca
tipologica e linguistica cognitiva, che ha portato a una ridefinizione del metodo
dell’indagine tipologica, soprattutto quando essa ha a che fare con strutture morfo-
sintattiche complesse. Studi come Anderson (1982), Kemmer (1993), Haspelmath
(1997), Croft (2001), prendono in esame fenomeni morfosintattici complessi nelle
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lingue del mondo, strutturalmente anche molto diversi tra loro, utilizzando delle
mappe semantiche che garantiscono la legittimità del confronto:

Constructions are language-specific, and there is an extraordinary


range of structural diversity of constructions encoding similar func-
tions across languages. […] this fact does not preclude the possibility
of discovering and formulating language universals. […] In order to
do a cross-linguistically valid study of grammatical constructions, one
must identify the relevant region of conceptual space whose grammati-
cal expression is to be examined (Croft 2001: 283-284).

In questo modello, la specificità linguistica e la diversità strutturale delle


costruzioni morfosintattiche non costituiscono pertanto un ostacolo a un’analisi di
stampo tipologico o contrastivo. Al contrario, il confronto fra lingue è possibile
purché si stabilisca, preliminarmente, un dominio concettuale che è codificato lin-
guisticamente dalle costruzioni morfosintattiche complesse esaminate. Un domi-
nio concettuale comprende alcuni stati del mondo (si veda infra) e le relazioni tra
essi e la mappa semantica ne è la rappresentazione bidimensionale. L’assunto di
base è che i domini concettuali sono universali, e che le lingue del mondo diffe-
riscono le une dalle altre nella divisione del lavoro fra strutture morfosintattiche
che codificano aree all’interno dei domini: in altre parole, la stessa area concet-
tuale può essere codificata da una sola struttura morfosintattica nella lingua x, da
due strutture morfosintattiche nella lingua y, e così via.
Per comprendere il funzionamento di questo metodo, è utile partire da un
dominio fisico semplice, quello dei colori (sul quale si proiettano i nomi dei colo-
ri delle varie lingue). I colori possono essere descritti in termini esclusivamente
fisici e oggettivi, e cioè in termini di luminosità e lunghezza d’onda. Essi, inoltre,
sono rigidamente disposti lungo uno spettro cromatico. Una volta definito questo
spettro cromatico, sarà possibile individuare delle aree dello spettro alle quali si

2 Valgano, come esemplificazione, le seguenti affermazioni di Andersen e Givón: “thus, in


my opinion a cross-linguistically valid definition of the passive cannot be given in terms of
morphology (gram type) or syntax” (Andersen 1991: 44-45); “the exact position of passiviza-
tion along this continuum is not fully clear and may depend in part on the particular passive-type
in a language” (Givón 1981: 173).
444 ANDREA SANSÒ

applicano i nomi dei colori di una data lingua. Le lingue differiscono tra loro per
l’inventario dei nomi dei colori (alcune hanno pochissimi termini, altre moltissi-
mi), e può capitare che un termine di una lingua copra un’area dello spettro cro-
matico che in un’altra lingua è suddivisa tra due o più termini.
Fatte le debite proporzioni, questo metodo funziona anche per strutture
morfosintattiche complesse. Lo spettro dei colori sarà sostituito in questo caso
da un dominio astratto. Come il dominio dei colori si poteva definire in termini
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di due dimensioni (luminosità e lunghezza d’onda), così i domini più astratti si


possono definire in termini di presenza massima o minima di un dato parametro.
Anche all’interno di un dominio concettuale astratto si possono individuare
alcune regioni, che chiameremo, seguendo Kemmer (1993), situation types, e
che sono associate sistematicamente con una data struttura morfosintattica. Per
situation types intendiamo “stati di cose” nel mondo che possono essere concet-
tualizzati ed espressi con mezzi linguistici. Si consideri il seguente esempio: un
evento può essere concettualizzato come spontaneo o come causato da un agen-
te. Ciò può dipendere sia da proprietà oggettive dell’evento, sia dall’intento di
chi concettualizza, che può volere sminuire il ruolo dell’agente nel compiersi
dell’evento 3. “Evento spontaneo” ed “evento causato da un agente” costituisco-
no due situation types distinti. Nelle lingue che hanno a disposizione una marca
di diatesi media/riflessiva, questa è spesso usata per concettualizzare come spon-
taneo un evento che normalmente ha un agente (si confronti il francese se cas-
ser e l’italiano rompersi, in cui una marca di riflessivo, aggiunta a un verbo tran-
sitivo, veicola una lettura in cui l’evento si realizza spontaneamente, senza l’in-
tervento di un agente; per un’analisi più dettagliata si rimanda a Kemmer 1993).
Il dominio concettuale è quindi per definizione universale, mentre le lingue
variano nell’associazione tra aree del dominio e strutture morfosintattiche.
Compito della tipologia linguistica e dell’analisi contrastiva è descrivere queste
differenze nella “divisione del lavoro”. Il problema principale di questo tipo di
indagini consiste nell’evitare la proliferazione indiscriminata dei situation types.
In generale, vale il principio secondo cui sono linguisticamente rilevanti (e cioè
costituiscono dei situation types) solo quelle regioni del dominio concettuale che
sono codificate con mezzi diversi da almeno una lingua. Un esempio semplice è
quello che riguarda i due situation types che chiamiamo, seguendo Kemmer
(1993), riflessivo e grooming 4. In termini prelinguistici, ogni parlante è in grado

3 I situation types non sono infatti da considerarsi come stati del mondo reali, ma impli-
cano una concettualizzazione attiva da parte del parlante: “I do not mean simple ‘real world
contexts’ existing independently of the language-user; situational contexts include ‘real
world’ information, but that information is necessarily filtered through the conceptual appa-
ratus of the speaker. This conception of situational contexts thus allows for the obvious role
of the language-user in construing particular real world situations in different ways” (Kemmer
1993: 7).
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 445

di concettualizzare, come entità distinte, azioni in cui l’agente e il paziente sono


coreferenziali (come in Giovanni si guarda allo specchio) e azioni compiute dal-
l’agente sul proprio corpo (come nella frase Giovanni si rade). Su un piano pura-
mente teorico non siamo però in grado di dire se questa differenza si riflette anche
nella lingua. Se disponessimo soltanto dei dati dell’italiano dovremmo conclude-
re che le due situazioni non rappresentano due unità concettuali linguisticamente
rilevanti, dato che l’italiano utilizza la stessa struttura morfosintattica per codifi-
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care l’una e l’altra. Se guardiamo ad altre lingue, però, scopriamo che si tratta di
una distinzione significativa, dato che esistono lingue, come l’inglese e il russo,
in cui le due situazioni sono codificate linguisticamente attraverso strumenti
morfosintattici diversi (si confronti l’inglese John sees himself in the mirror vs
John is shaving, e il russo Ivan nenavidit sebja [Ivan si odia] vs Ivan moetsja [Ivan
si lava]).

1.2. In sintesi, questo lavoro mira a dimostrare che:

(i) le due coppie di costruzioni passive in italiano e spagnolo sono


usate in modi differenti nei testi; l’analisi dei dati reali ci permet-
te di superare l’idea semplicistica secondo cui si tratta di due strut-
ture sostanzialmente identiche nell’uso: più precisamente, vedre-
mo che i situation types associati con ciascun membro delle due
coppie di costruzioni simili (e cioè gli stati del mondo che esse
codificano) sono diversi in italiano e spagnolo;
(ii) queste differenze non sono frutto di capriccio o di pura casualità,
ma riflettono una diversa divisione del lavoro nelle due lingue in
questione, e si può facilmente dimostrare che tale diversità è lin-
guisticamente significativa (in quanto presente in altre lingue);
(iii) è possibile trarre dall’analisi dei passivi in italiano e spagnolo
alcune conseguenze generali rilevanti per ogni futura indagine
tipologica sul passivo anche in altre lingue.

Quanto ai dati, ho utilizzato due corpora il più possibile omogenei:

(a) un corpus di 400 articoli tratti da quotidiani (La Repubblica, Il


Corriere della Sera, Il Tirreno, La Gazzetta di Parma, Il Corriere
delle Alpi, La Nuova Sardegna per l'italiano; El País per lo spagno-

4 Il termine è di Kemmer (1993), e vale “acconciarsi”, “agghindarsi”. In questa sede lo use-


remo come iperonimo per indicare quelle situazioni in cui l’agente compie un’azione nella sfera
del proprio corpo (pettinarsi, radersi, lavarsi, ecc.).
446 ANDREA SANSÒ

lo);
(b) un corpus parallelo, che comprende il romanzo di Umberto Eco, Il
nome della rosa (Fabbri-Bompiani-Sonzogno, Milano 1980; d’ora in
avanti NRI) e la sua traduzione spagnola (El nombre de la rosa, tradu-
zione spagnola di Ricardo Pochtar, Edizioni Plaza y Janés, Barcellona
2000; d’ora in avanti NRS). Più avanti (§ 4) faremo poi riferimento alle
traduzioni tedesca, olandese e polacca del medesimo romanzo.
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Il corpus parallelo si rivelerà di grande importanza, perché la diversa divisio-


ne del lavoro fra strutture che sul piano formale sono simili ha un chiaro riflesso
nelle strategie di traduzione dall’italiano allo spagnolo.

2. DIATESI MEDIA E INDIVIDUAZIONE DELL'EVENTO: KEMMER 1993

In prima approssimazione, possiamo stabilire che il passivo e in generale le


varie diatesi di una lingua servano a codificare l’evento in maniera diversa dalla
frase transitiva. Nelle lingue del mondo quest’ultima rappresenta la forma di base
non marcata per codificare quello che in termini cognitivi si può concettualizzare
come un trasferimento di energia da un’origine (l’agente) a un termine distinto
dall’origine (il paziente). Ogni diatesi codifica una deviazione da questo stato di
cose. La diatesi riflessiva, ad esempio, codifica uno stato di cose in cui l’origine
coincide con il termine dell’azione.
I due passivi impersonali presentano una marca di riflessivo che li accosta alla
diatesi riflessiva e media. Prima di considerare gli usi “passivi” di questa marca, sarà
pertanto opportuno introdurre i punti principali dello studio di Kemmer sulla diatesi
media e riflessiva. Secondo Kemmer (1993), le marche di riflessivo e di medio codi-
ficano una costellazione di situation types che formano un continuum concettuale che
va dall’evento transitivo prototipico (con due partecipanti) all’evento intransitivo pro-
totipico (con un solo partecipante). La dimensione di variazione che caratterizza que-
sto continuum è l’individuazione dell’evento (“the degree of elaboration/individua-
tion of an event is the degree to which the participants and component subevents in a
particular verbal event are distinguished”, Kemmer 1993: 9), che è massima nell’e-
vento transitivo prototipico e minima in quello intransitivo (sia esso activity o accom-
plishment). Le marche di riflessivo e di medio codificano aree intermedie fra massi-
ma individuazione e mancanza di individuazione. La figura 1, tratta da Kemmer
(1993), rappresenta sinotticamente le relazioni semantiche fra situation types all’in-
terno del dominio concettuale della individuazione dell’evento5.

5 Si badi che la mappa così delineata non è un puro virtuosismo di rappresentazione, ma ha


invece valore predittivo: se infatti essa rappresenta correttamente il dominio concettuale, allora
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 447
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Il lavoro di Kemmer è limitato alla diatesi media e riflessiva: la studiosa rico-


Figura 1. La diatesi media e i situation types ad essa associati,
secondo Kemmer (1993: 211)

ogni struttura grammaticale (ad esempio il morfema riflessivo-medio si) tenderà a codificare
un’area omogenea della mappa stessa (senza discontinuità).
448 ANDREA SANSÒ

nosce che spesso marche di medio o di riflessivo codificano anche dei situation
types più propriamente passivi (in cui, cioè, il soggetto è diverso dall’agente) e
raccoglie questi situation types sotto l’etichetta generica di passive middle, ma
evita di fornire un’esatta definizione semantica di questo situation type. Inoltre
riconosce l’esistenza di un altro situation type, etichettato genericamente come
passive, che resta fuori, secondo la studiosa, dal dominio concettuale codificato
dal medio e dal riflessivo6 ed è di norma codificato da costruzioni passive, come
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quella perifrastica, che nulla hanno a che vedere, sul piano morfologico, con il
medio o con il riflessivo.

3. IL PASSIVO

L’analisi dei testi dimostra che i situation types codificati dalle costruzioni
passive prese in esame sono di più di quanto non risulti dallo schema di Kemmer.
Se ne possono individuare almeno tre, che possono figurare a buon diritto nella
mappa semantica di Kemmer, in quanto basati anch’essi sul parametro di mag-
giore o minore individuazione dell’evento e dei suoi partecipanti. Più avanti (§ 4)
si cercherà di definire il rapporto tra questi tre situation types e l’area concettua-
le del medio e del riflessivo.
Introduciamo innanzitutto questi tre situation types, che si configurano come
agglomerati di tratti prototipici associati con frequenza non casuale con alcune
costruzioni passive:

1) patient-oriented process: le proprietà prototipiche di questo situation


type sono: (a) massima individuazione (in termini sia di animatezza
che di compattezza, nel senso di Langacker 1991) del paziente; (b)
topicalità del paziente; (c) bassa individuazione dell’agente. Il passi-
vo nella sua funzione topicalizzante, che è ampiamente riconosciuta
dalla letteratura, codifica, appunto, un patient-oriented process.
2) bare happening: si tratta di un situation type caratterizzato da mini-
ma individuazione e topicalità sia del paziente (fino alla sua even-
tuale assenza, nel caso dei verbi intransitivi) che dell’agente.
L’evento ha pertanto un grado molto basso di individuazione ed è
concepito come puro accadimento.
3) generic-potential passive: rientrano in questo situation type even-
ti/azioni in cui l’agente è per lo più non individuato, e anche il
paziente è spesso inanimato. L’evento è possibile o generico. Posso-

6 “The passive node by itself forms a semantic opposition to the entire active continuum”
(Kemmer 1993: 204).
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 449

no essere presenti sfumature modali (deontiche) o abituali. In termi-


ni semantici la differenza fra questo situation type e il precedente si
può definire in termini di genericità/non genericità dell’evento. Il
bare happening è un evento non generico, accaduto in un punto
dello spazio e del tempo, mentre il generic-potential passive racco-
glie eventi possibili, futuri, non fattuali o atemporali.
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Nella tabella 1 ho rappresentato schematicamente le associazioni fra questi


situation types e le due coppie di costruzioni esaminate in questo lavoro.

Tabella 1. Divisione del lavoro in italiano e spagnolo


Gli esempi che seguono dimostrano questa divisione del lavoro. In particola-
re, l’esempio (6) mostra che il passivo impersonale spagnolo è usato anche in casi
in cui il paziente è saliente e al centro del segmento di discorso corrente (laddove
l’italiano usa invece prevalentemente il passivo perifrastico, cfr. (5)). Gli esempi
(7) e (8) mostrano l’uso del passivo perifrastico spagnolo per codificare un
patient-oriented process. Gli esempi (9) e (11) mostrano l’uso del passivo imper-
sonale spagnolo, rispettivamente, per codificare un bare happening e un generic-
potential passive. In (10) e in (12), invece, è usato un passivo perifrastico italiano
(con ordine delle parole VS) per codificare un bare happening. (13) e (14) esem-
plificano l’uso del passivo impersonale in italiano per esprimere, rispettivamente,
un bare happening e un generic-potential passive. In (15) un passivo perifrastico
italiano (con ordine delle parole SV) codifica un patient-oriented process, mentre
in (16) un passivo perifrastico, sempre con ordine SV, codifica un bare happening:
ciò dimostra che in italiano non c’è una perfetta polarizzazione di due ordini delle
parole diversi a seconda che il passivo perifrastico codifichi un patient-oriented
process o un bare happening. Si può però parlare di una forte correlazione fra
ordine delle parole e situation type. Per una discussione più completa sull’ordine
delle parole nel passivo perifrastico italiano rimando a Sansò (2001; 2002; 2003).

(5) Nicola prese la forcella che Guglielmo gli porgeva con grande inte-
resse: “Oculi de vitro cum capsula!” esclamò. “Ne avevo udito
parlare da un certo fra Giordano che conobbi a Pisa! Diceva che
non erano passati vent’anni da che erano stati inventati. Ma parlai
450 ANDREA SANSÒ

con lui più di vent’anni fa”. “Credo che siano stati inventati molto
prima” disse Guglielmo.
(6) Nicola cogió la horquilla que Guillermo le ofrecía. La observó con
gran interés, y exclamó: “¡Oculi de vitro cum capsula! ¡Me habló
de ellas cierto fray Giordano que conocí en Pisa! Decía que su
invención aún no databa de dos décadas. Pero ya han transcurrido
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otras dos desde aquella conversación” “Creo que se inventarón


mucho antes” dijo Guillermo (NRS: 126-127).
(7) El 17 de febrero, agentes de la Gendarmería que participaban en
un dispositivo contra los robos en Orthez (Sur de Francia) sor-
prendieron al presunto etarra Mikel Ganuza cuando se disponía a
sustraer una furgoneta. Ganuza fue detenido, aunque otro activi-
sta logró darse a la fuga (El País, 23.01.2000).
(8) Durante estos 18 años ha residido en México, llegando a vivir de
limosna en algunas épocas. Fue detenido el pasado 7 de julio por
llevar documentación falsa y entregado a las autoridades españo-
las (El País, 12.12.1999).
(9) El obispo de Vercelli había apelado a Clemente V y éste había con-
vocado una cruzada contra los herejes. Se decretó la indulgencia
plenaria para todos aquellos que participaran en la misma, y se
pidió ayuda a Ludovico de Saboya, a los inquisidores de
Lombardia y al arzobispo de Milán. Fueron muchos los que cogie-
ron la cruz para auxiliar a las gentes de Vercelli y de Novara,
desplazándose incluso desde Saboya, desde Provenza y desde
Francia, y todos se pusieron bajo les órdenes del obispo de Vercelli
(NRS: 328-329).
(10) Il vescovo di Vercelli si era appellato a Clemente V ed era stata
bandita una crociata contro gli eretici. Fu emanata una indul-
genza plenaria per chiunque vi avesse partecipato, furono solle-
citati Ludovico di Savoia, gli inquisitori di Lombardia, l’arcive-
scovo di Milano. Molti presero la croce in aiuto dei vercellesi e
dei novaresi, anche dalla Savoia, dalla Provenza, dalla Francia, e
il vescovo di Vercelli ebbe il comando supremo (NRI: 232).
(11) Sobre las once de la noche del sábado varias personas sin identi-
ficar arrojaron varios artefactos incendiarios al interior del
recinto donde se encuentra el cajero automático de una sucursal
del BBV. La densidad del humo aconsejó a la policía autonómica
vasca el desalojo del vecindario de un edificio de cinco pisos
cuyos bajos ocupa el banco. La fachada se veía ayer por la
mañana totalmente ennegrecida hasta el primer piso. Poco
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 451

después del ataque de Durango, en la cercana localidad de Berriz


y por el mismo procedimiento, prednieron fuego en otras dos enti-
dades bancarias (El País, 29.11.1999).
(12) “E allora chi ti voleva male?” “Tutti. La curia. Hanno tentato di
assassinarmi due volte. Hanno tentato di farmi tacere. Tu sai cosa
è avvenuto cinque anni fa. Erano stati condannati da due anni i
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beghini di Narbona e Berengario Talloni, che pure era uno dei


giudici, si era appellato al papa. Erano momenti difficili.
Giovanni aveva già emesso due bolle contro gli spirituali e lo
stesso Michele da Cesena aveva ceduto” (NRI: 62).
(13) Una fuga di notizie avrebbe compromesso l’evolversi delle inda-
gini; da ieri sera si stanno cercando delle contromisure per non
mandare a monte mesi di lavoro. Intanto nove persone sono state
incarcerate per reati collegati allo spaccio di sostanze stupefa-
centi (Il Tirreno, 14.03.2000).
(14) Così con le radici dell’acetosella si curano i catarri, e con decot-
to di radici di althea si fanno impacchi per le malattie della pelle
(NRI: 74).
(15) Dentro si trova un giovane albanese clandestino soprannomina-
to dagli stessi connazionali «Cinquelire». Da tempo è tenuto
sott’occhio perché ruba auto una dietro l’altra. È stato sorpre-
so sempre il giorno dopo, mai in flagranza di reato (Il Tirreno,
10.02.2000).
(16) Uno squilibrato si è suicidato facendo esplodere in piazza
Tiananmen un ordigno che ha lievemente ferito un passante sud-
coreano. […] Il suicida e Li Xiangshan, un contadino malato di
mente della provincia centrale dell’Hubei, che pare in passato si
fosse presentato per quattro volte a posti di polizia di Pechino
per chiedere udienza ai leader politici cinesi. Dopo aver fatto
sfollare i passanti, gli agenti sono entrati in fila sulla piazza pro-
cedendo da est verso ovest alla ricerca di possibili prove o detri-
ti. Una tenda verde è stata issata sotto a un lampione al centro
della piazza. L’allarme è giustificato anche dal fatto che nelle
ultime settimane la Tiananmen era stato teatro di numerose pro-
teste degli adepti della Falun Gong, anche se la polizia ha assi-
curato che Li Xiangshan non era membro della setta neobuddi-
sta messa al bando dal governo (La Repubblica, 01.02.2000).
3.1. La suddivisione proposta in tabella 1 non poggia, ovviamente, su fonda-
menti impressionistici. Si tratta, al contrario, di una suddivisione basata su dati
statistici. Per ogni occorrenza di una frase passiva nei due corpora scelti, infatti,
452 ANDREA SANSÒ

ho preso in esame alcune proprietà dei partecipanti e dell’evento che mostrano


come, in molti casi, né il paziente, né, tanto meno, l’evento descritto dal passivo
siano prominenti nella catena discorsiva. Per un’analisi più dettagliata di questi
dati, rimando a Sansò (2002; 2003).
In prima analisi, ho considerato la distribuzione dei due tipi di passivo in ter-
mini assoluti. I risultati, schematizzati in tabella 2, mostrano che, nonostante la
somiglianza strutturale delle due costruzioni, il passivo impersonale è molto più
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diffuso in spagnolo che in italiano.

Spesso, un passivo perifrastico italiano è tradotto con un passivo impersona-


le spagnolo. In tabella 3, ho riportato le strategie di traduzione del passivo peri-

Tabella 2. Distribuzione dei due tipi di passivo in italiano e spagnolo;


risultati statisticamente rilevanti (c2 = 30.44; d.f. = 1; p < 0.1)
frastico italiano in spagnolo (i dati considerati fanno ovviamente riferimento al
corpus parallelo su cui si basa questo studio).

Se un passivo esprime un patient-oriented process, il paziente avrà verosi-


milmente alcune proprietà testuali; esso sarà per lo più discourse topic, caratte-

Tabella 3. Strategie di traduzione del passivo perifrasico italiano in spagnolo


(nell’edizione spagnola de Il nome della rosa)
rizzato cioè da un grado di continuità piuttosto alto e da un’alta persistenza testua-
le. I pazienti che non sono topicalizzati (e cioè i pazienti del passivo quando esso
veicola un bare happening o quando si tratta di un generic-potential passive), al
contrario, non saranno topic e saranno caratterizzati da scarsa persistenza. Per le
nozioni di continuità referenziale e di persistenza e per il modo di calcolarle si
rimanda a Givón (1981) e Sansò (2003).
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 453

3.2. In gran parte della letteratura sul passivo si afferma che la funzione prin-
Tabella 4. Continuità del paziente nei passivi spagnoli;
risultati statisticamente significativi (c2 = 35.79; d.f. = 2; p < 0.1)
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Tabella 5. Continuità del paziente nei passivi italiani;


risultati statisticamente significativi (c2 = 60.58; d.f. = 2; p < 0.1)

Tabella 6. Persistenza referenziale del paziente in italiano


risultati statisticamente significativi (c2 = 22.53; d.f. = 4; p < 0.1)

Tabella 7. Persistenza referenziale del passivo in spagnolo;


risultati statisticamente significativi (c2 = 12.45; d.f. = 2; p  0.1)
cipale di questa costruzione è la defocalizzazione dell’agente (cfr. Kirsner 1976,
Comrie 1977, Shibatani 1985). Quello che ho chiamato bare happening si potreb-
be dunque intendere come una defocalizzazione dell’agente non seguita da pro-
mozione/topicalizzazione del paziente. Ritengo che questa caratterizzazione non
sia però sufficiente a cogliere la specificità di questo situation type e delle costru-
zioni passive che lo codificano. Se si guarda invece alla struttura retorica dei testi
in cui appaiono i passivi che codificano un bare happening, se ne può caratteriz-
454 ANDREA SANSÒ

zare meglio la funzione testuale. Si considerino i seguenti esempi:

(17) Quel covo, prima dei carabinieri, fu “perquisito” dagli uomini


più fidati di Totò Riina, guidati da Giovanni Brusca che coman-
dava una squadra di picciotti trasformati in muratori. Quella casa
fu messa a soqquadro. “Facemmo scomparire ogni cosa – ha poi
raccontato il neo pentito Giovanni Brusca – furono anche divel-
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ti i pavimenti ed abbattute pareti, utilizzammo anche un aspira-


polvere per evitare che i carabinieri potessero trovare anche qual-
che capello e risalire all’identità di chi frequentava quella casa”
(Il Corriere della Sera, 22.02.2000).
(18) Sono così emerse le irregolarità: dall’aumento del costo della
puntata minima, anche duemila lire ad ogni bet, al tipo di banco-
note che si potevano inserire nella macchina, non le diecimila lire
permesse ma anche cinquanta e centomila lire, alle probabilità di
vincita notevolmente ridotte. In particolare in un bar è stata tro-
vata una macchina predisposta ad accettare anche biglietti da
cinquecentomila lire. Gli apparecchi irregolari sono stati quindi
sequestrati e rinchiusi in sacchetti dell’immondizia, la cui apertu-
ra è stata sigillata (Il Corriere delle Alpi, 20.04.2000).
(19) Da qualche giorno il contingente francese cui spetta il controllo
dell’area è stato rinforzato con truppe scelte britanniche, adde-
strate a districarsi nelle guerriglie urbane e nelle operazioni di
polizia nel Nord dell’Irlanda. Sono stati dispiegati anche italia-
ni. La decisione è stata presa da vertici Kfor anche per arginare
il risentimento diffuso tra gli albanesi verso i militari inviati da
Parigi (La Repubblica, 13.03.2000).

Prendiamo l’esempio (17). L’agente non codificato sintatticamente della frase


passiva in neretto è sintatticamente espresso nella frase immediatamente prece-
dente (facemmo scomparire ogni cosa) e continua ad essere soggetto sintattico
anche dopo (utilizzammo anche un aspirapolvere). Si tratta di un soggetto anima-
to e umano, quindi di un potenziale topic. Perché allora è defocalizzato per mezzo
di una frase passiva immediatamente dopo la sua menzione esplicita in una frase
contigua? In termini retorici ci sembra di poter dire che la funzione peculiare della
frase passiva in (17) consiste nel fatto che essa aggiunge informazione marginale,
di contorno, all’informazione principale veicolata dalla frase o segmento di
discorso precedente. Il passivo aiuta a codificare questa informazione marginale
come un mero accadimento, in modo sommario. Per un’analisi più dettagliata
della peculiarità retorica del bare happening e dei passivi che lo codificano,
rimando a Sansò (2001; 2003).
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 455

3.3. Sulla base dei dati presentati nella sezione precedente, possiamo conclu-
dere che la diversa divisione del lavoro fra passivo perifrastico e passivo imper-
sonale nelle due lingue considerate è innegabile. A rigore, però, il confronto tra
italiano e spagnolo può portarci a individuare solo due situation types. L’unica
separazione netta che è presente nei nostri dati (cfr. ancora tabella 1) è quella dello
spagnolo, che utilizza il passivo perifrastico solo quando il paziente è topic (o
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quando deve essere introdotto come topic), e il passivo impersonale in tutti gli
altri casi. In italiano, le divisioni sono ancora meno nette. È vero che l’ordine delle
parole VS è di preferenza correlato a situazioni in cui il paziente non è topicaliz-
zato, ma (come dimostra anche l’esempio (16)) ciò non accade sempre. Perché,
allora, abbiamo postulato l’esistenza di tre situation types? Nella prossima sezio-
ne, vedremo che individuare tre situation types è legittimo se prendiamo in con-
siderazione i dati di altre lingue.

4. CONSIDERAZIONI TIPOLOGICHE

La distinzione tra bare happening e generic/potential passive è linguisticamen-


te rilevante, e può essere descritta in termini di presenza vs assenza di genericità del-
l’evento. Il bare happening designa un evento specifico (avvenuto in un punto dello
spazio o del tempo), mentre sotto l’etichetta di generic/potential passive sono rac-
colti tutti quegli usi di morfemi riflessivi o passivi/impersonali che designano un
evento generico (possibile, abituale, ecc.). In tedesco e in olandese, quando l’even-
to è specifico si utilizza il passivo perifrastico (spesso nella costruzione impersona-
le con il dummy subject es (ted.) o er (ol.)), quando è generico si utilizza la costru-
zione impersonale con man/men. Ovviamente non si tratta di una distinzione
assoluta, ma di una forte tendenza statistica (si confrontino gli esempi seguenti,
tratti dalla traduzione tedesca e olandese de Il nome della rosa), che ci fa ritenere
che abbiamo a che fare con una distinzione linguisticamente rilevante7:

(20) “Quel giorno non si discuteva di commedie, ma solo della liceità


del riso” disse accigliato Jorge (NRI: 137).
(21) “Er werd die dag niet over blijspelen gesproken, maar alleen over
de geoorloofdheid van de lach”, zei Jorge korzelig (NRD: 138).
(22) “An jenem Tage wurde nicht über Komödien diskutiert, sondern
allein über das Erlaubtsein des Lachens” erwiderte nämlich der

7 Negli esempi seguenti sono presenti anche casi di costruzione impersonale da verbi intran-
sitivi (che pertanto non possono essere etichettati come passivi in senso stretto, ma che si com-
portanto come la costruzione passiva, di cui devono essere ritenuti il corrispettivo intransitivo).
456 ANDREA SANSÒ

Alte schroff (NRG: 175).


(23) Michele intervenne allora a contestare opinioni false che gli
erano attribuite: ed erano invero cose di tanta sottigliezza che io
non le ricordo e allora non le compresi bene. Ma su quelle si deci-
deva della morte di Michele, certo, e della persecuzione dei fra-
ticelli (NRI: 240).
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(24) Michele verhief wederom zijn stem om de valse meningen die hem
werden toegeschreven te bestrijden, en het betrof eerlijk gezegd
zulke subtiliteiten dat ik ze me niet herinner en ze toen niet goed
begreep. Maar op grond daarvan werd blijkbaar tot de dood van
Michele en tot de vervolging van de fraticelli besloten (NRD:
250).
(25) Si fu infine fuori della porta e davanti a noi apparve la pira, o
capannuccio, come là la chiamavano, perché il legno vi era dispo-
sto in forma di capanna, e lì si fece un cerchio di cavalieri arma-
ti perché la gente non si avvicinasse troppo (NRI: 242).
(26) Eindelijk waren we buiten de poort en voor onze ogen verrees de
brandstapel, of het hutje, zoals hij daar werd genoemd, omdat het
hout in de vorm van een hut was opgestapeld, en daar werd een
kring van gewapende ruiters gevormd om te zorgen dat de men-
sen niet te dichtbij konden komen (NRD: 252).
(27) Schließlich traten wir durch das Tor hinaus, und vor unseren
Augen erhob sich der Sceiterhaufen oder das “Hüttchen”, wie die
Florentiner sagten, weil die Balken in Form einer kleinen
Blockhütte übereinandergeschichtet waren, und es wurde ein
Kreis aus bewaffneten Reitern gebildet, damit das Volk nicht zu
nahe herankam (NRG: 319).
(28) E mi raccontò una strana storia. Disse che si poteva rendere
qualsiasi cavallo, anche la bestia più vecchia e fiacca, altrettan-
to veloce di Brunello (NRI: 223).
(29) Daarop vertelde hij me een vreemd verhaal. Hij zei dat je elk wil-
lekeurig paard. ook het oudste en slapst op de benen staande dier,
even snel kon maken als Brunello (NRD: 231).
(30) Da erzählte er mir eine sonderbare Geschichte. Er sagte, man
könne jedes beliebige Pferd, auch dem lahmsten Klepper, genau-
so schnell wie Brunellus machen (NRG: 292).
(31) Poi mi disse: “Soprattutto, Adso, cerchiamo di non farci prendere
dalla fretta. Le cose non si risolvono rapidamente quando si devono
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 457

accumulare tante minute esperienze individuali” (NRI: 216).


(32) Dann wandte er sich zu mir und sagte: “Vor allem, mein lieber
Adson, seien wir auf der Hut vor übereilten Schritten. Die Dingen
lassen sich nicht rasch lösen, wenn man so viele kleine und
kleinste Details zusammentragen muß” (NRG: 282).
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Esiste inoltre almeno un caso di costruzione di tipo passivo/impersonale che


è specializzata nella espressione del bare happening, non cumulando, cioè, altri
situation types come il generic potential passive. Si tratta della costruzione imper-
sonale in -no/-to del polacco, formata da un participio passato neutro con suffis-
so -no/-to e dal paziente, che riceve la marca di oggetto (senza promozione a sog-
getto) e caratterizzata dall’assenza della copula. La costruzione è limitata all’e-
spressione di azioni passate, e quindi non ammette la lettura generica e potenzia-
le che caratterizza la costruzione impersonale dell’italiano e dello spagnolo. Do
di seguito alcuni esempi in cui un passivo italiano che esprime un bare happening
è tradotto in polacco con una costruzione impersonale in -no/-to (gli esempi sono
tratti dalla traduzione polacca de Il nome della rosa, d’ora in avanti NRP):

(33) Biskup z Vercelli odwoa sie˛ do Klemensa V i zwoano krucjate˛


przeciwko heretykom. Og oszono odpust zupeny dla každego,
kto wežmie w niej udzia, a zaproszono Ludwika Sabaudzkiego,
inkwizytorów z Lombardii, arcybiskupa Mediolanu. Wielu wzie˛o
krzyž, da˛zža˛c z pomoca˛ werczelczykom i nowaryjczykom, równiež
w Sabaudii, Prowansji, Francji, zas´ biskup z Vercelli obja˛
dowództwo (NRP: 317, traduzione dell’esempio (10)).
(34) E adesso capisci perché ha emanato tutte quelle bolle contro l’i-
dea della povertà. Ma lo sai che ha spinto i domenicani, in odio
al nostro ordine, a scolpire statue di Cristo con la corona reale, la
tunica di porpora e d’oro e calzari sontuosi? Ad Avignone sono
stati esposti crocifissi con Gesù inchiodato per una sola mano,
mentre con l’altra tocca una borsa appesa alla sua cintura, per
indicare che Egli autorizza l’uso del danaro per fini di religio-
ne…(NRI: 297).
(35) I teraz pojmujesz, czemu wyda wszystkie te bulle przeciwko idei
ubóstwa. Czy wiesz, že skoni dominikanów, nieche˛tnych nasze-
mu zakonowi, by wyrzežbili Chrystusa w królewskiej koronie,
tunice z purpury i zota i w bogatym obuwiu? W Awinionie
wystawiono krucyfiksy z Jezusem przybitym jedna˛ tylko re˛ka˛,bo
druga trzyma sakiewke˛ zawieszona˛ u pasa, by wskazač, že On
godzi sie˛ na užycie pienie˛dzy dla celów religijnych… (NRP: 410).
(36) Vi fui richiamato da un vigoroso grugnito d’assenso di Jorge, e mi
458 ANDREA SANSÒ

avvidi che si era al punto in cui veniva sempre letto un capitolo


della Regola (NRI: 103).
(37) Do porza˛dku przywoao mnie energiczne chrza˛knie˛cie, którym
swoja˛ aprobate˛ wyrazi Jorge, i zdaem sobie sprawe˛, že doszlišmy
do momentu, kiedy czyta sie˛ zawsze rozdzia reguy (NRP: 133).
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L’esempio (37) mostra che per esprimere il generic/potential passive si usa la


costruzione col morfema medio/riflessivo sie˛.
Qual è la posizione dei tre situation types all’interno della mappa semantica
della individuazione dell’evento? Dato che il bare happening e il generic-poten-
tial passive sono spesso codificati da marche riflessive, riteniamo che essi si tro-
vino più vicini al riflessivo e al medio del patient-oriented process. Inoltre, il fatto
che in italiano il passivo perifrastico (sia pure, di solito, con un diverso ordine
delle parole) possa veicolare un bare happening ma più raramente il generic-
potential passive dimostra che c’è un legame tra patient-oriented process e bare
happening. La posizione dei tre situation types all’interno del dominio concettua-
le della individuazione dell’evento è sintetizzata nella figura seguente. La linea
tratteggiata che unisce il medio al bare happening significa che non siamo in
grado di dire se esistono lingue in cui il bare happening è espresso da morfemi
medi o riflessivi, senza che lo sia anche il generic-potential passive.

Figura 2. Diatesi media e diatesi passiva: i situation types

5. CONCLUSIONI

Come dimostrano i dati del paragrafo precedente, lo studio delle costruzioni


passive italiane e spagnole ha conseguenze importanti per l’analisi delle costru-
zioni passive di altre lingue. È necessario a questo punto uno studio tipologico
completo che chiarisca con maggiore dettaglio le correlazioni tra forme passive e
i tre situation types individuati. Lo studio del passivo e del suo uso nei testi reali
ci ha permesso di cogliere meglio il contributo retorico delle frasi passive al
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 459

discorso che le contiene e di andare oltre le funzioni tradizionalmente invocate per


spiegare l’occorrenza di una frase passiva (e cioè le nozioni di topicalizzazione
del paziente e di defocalizzazione dell’agente). In conclusione, ritengo che il
metodo delle mappe semantiche sia fecondo di conseguenze per l’analisi tipolo-
gica, e che, per quanto attiene al passivo, esso attende soltanto di essere utilizza-
to su scala più ampia.
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460 ANDREA SANSÒ

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EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
(Università di Milano-Bicocca – Università di Pavia)

Verbi italiano e cinese a confronto e questioni di acquisizione del verbo ita-


liano da parte di sinofoni
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0. L’obiettivo di questo contributo1 è duplice: mettere in luce, in primo luogo,


le essenziali differenze, tipologico-strutturali, intercorrenti tra il V(erbo) italiano
e il V cinese; in secondo luogo, esaminare le modalità attraverso le quali appren-
denti sinofoni si rapportano al complesso sistema verbale dell’italiano.

1. Innanzi tutto va posta una questione di ordine tipologico-generale che


segna, nella sua salienza, i due sistemi: a differenza di quanto avviene in italiano
e in generale in tutte le lingue flessive che prevedono marche morfologiche oppor-
tunamente dedicate al V (e, più in particolare, a metterne in luce non solo i valo-
ri temporali, modali, aspettuali ma anche, frequentemente, le categorie di perso-
na, di numero e, eventualmente, di genere2, in cinese3, come in tutte le lingue iso-

1 Frutto di un comune piano di lavoro, i §§ 1, 2, sono comunque da attribuire a Emanuele


Banfi, i §§ 3 e 4 ad Anna Giacalone Ramat.
2 Come si dirà sinteticamente nel §. 2.1.3.
3 Sotto l’etichetta generica di “cinese”, si deve intendere, in realtà, un diasistema assai com-
plesso costituito da varietà diatopicamente marcate: esse, pur appartenendo ad un’unica famiglia
linguistica (parte, a sua volta, del gruppo delle lingue sino-tibetane), si distinguono almeno nei
seguenti principali sottosistemi autonomi (Egerod 1967: 95-124; Ramsey 1987: 87-115;
Norman 1988; Abbiati 1992: 48-60):
– Bei, o Pei (Cinese settentrionale/Mandarino), parlato dal 70% del totale della
popolazione della Repubblica Popolare Cinese/RPC;
– Wu, parlato dall’8,4 % del totale della popolazione della RPC;
– Xiang (o Hsiang), parlato dal 5% del totale della popolazione della RPC;
– Kan, parlato dal 2,4% del totale della popolazione della RPC;
– Hakka, parlato dal 4% del totale dell’intera popolazione della RPC;
– Yüeh (o Yue), parlato dal 5% del totale dell’intera popolazione della RPC;
– Min Nan (Min meridionale), parlato dal 3% del totale della popolazione della RPC;
– Min Bei (Min settentrionale), parlato dallo 1,2% del totale della popolazione
della RPC.
Il più importante di tali sottosistemi, per numero di locutori e per peso socio-culturale, è la
varietà settentrionale (Bei o Pei), avente come punto di irradiazione l’area di Beijing (Pechino):
tale varietà, nota in Occidente con il termine di “cinese mandarino”, è base del cinese standard
(putonghua “lingua comune”; definita anche con il termine guanhua “lingua amministrativa”
462 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

lanti, il V non si distingue, grazie a specifiche marche morfologiche, dal N(ome),


o dall’Ag(gettivo), o dall’Av(verbio)4

1.1. Un morfo (una “parola”) cinese acquista la sua propria funzione solo e
unicamente in quanto elemento di una catena sintattica: nel caso di un morfo iso-
lato, non si può quindi dire aprioristicamente se esso appartenga ad una partico-
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lare classe grammaticale, in quanto solo conoscendone la collocazione entro la


catena sintattica è possibile definirne l’attribuzione alla classe grammaticale.
Quasi tutti i morfi cinesi possono essere utilizzati potenzialmente ora come N, ora
come Ag, ora come V, ora come Av.

1.2. Al pari del N, il V cinese (dong-ci lett. “movimento-parola”) ha una


forma invariabile, non caratterizzata da marche specifiche paragonabili a quelle
della coniugazione propria delle lingue flessive.
La nozione di V, ampiamente discussa nella tradizione grammatografica cine-
se, è stata oggetto di significativi lavori teorici a partire dalla fine degli anni
Quaranta del secolo scorso: si segnalano, in particolare, i lavori di Chao Yuern
Ren, di H. Simon, di S.E. Jachontov e, infine, l’ottima monografia di A. Cartier 5.

Chao Yuen Ren6 definisce il V cinese:

a syntactic word which can be modified by the adverb bu (except that


the verb you takes mei) and can be followed by the phrase suffix le.

H. Simon ha dato un’altra definizione di V che non si allontana molto da quel-


la di Chao Yuen Ren: oltre che da le – integra Simon7 – un morfo avente funzio-
ne di V può essere seguito anche dal morfo ma particella/marca di interrogazione.
A. Cartier 8 osserva che le definizioni di Chao e di Simon9 sono, di fatto, equi-
valenti nella misura in cui la particella interrogativa ma ha uno statuto analogo a
quella di le, marca perfettiva o marca indicante il mutamento di una azione.
Tuttavia tali definizioni valgono solo per i cosiddetti V “unitari”, ovvero per quei

o guoyu “lingua nazionale”) diffuso su tutto il territorio della Repubblica Popolare Cinese a par-
tire dagli anni ’50 del sec. XX, attraverso la scuola, l’amministrazione statale e, a livello capil-
lare, come lingua parlata grazie ai grandi mezzi di comunicazione di massa.
4 Kao Ming-K’ai 1940: 11-13.
5 Chao Yuen Ren 1948; Simon 1959; Jachontov 1967; Cartier 1972.
6 Chao Yuen Ren 1948: 47.
7 Simon 1959: 561.
8 Cartier 1972: 25.
9 Cartier 1972: 25-26.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 463

V che risultino a livello morfologico costituiti da una sola sillaba o, se disillabici,


non siano in sincronia integralmente analizzabili nei loro singoli elementi (è il
caso, ad es., di qingchu “essere chiaro”); esse non valgono però per i cosiddetti V
“complessi”, ovvero per quei V che, formati da due morfi, ammettono dal punto
di vista semantico un’analisi sincronica integrale (ad es. caixiang “indovinare,
supporre”, composto da cai “indovinare” + xiang “pensare”, oppure chibao “man-
giare a sazietà”, composto da chi “mangiare” + bao “essere sazio”)10: i V “com-
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plessi”, infatti, non ammettono di essere preceduti dalla negazione bu a differen-


za dei loro singoli elementi costitutivi che invece lo ammettono.

1.2.1. Per riconoscere se un morfo cinese abbia funzione di N o un V, Chao


Yuen Ren ha formulato un test sintattico basato sulla eventualità che un morfo
possa essere preceduto dalla negazione bu. In base a tale test ogni morfo che, in
posizione predicativa, ammetta di essere preceduto dalla negazione bu può essere
classificato sicuramente come V11.
Nell’esempio

(1) ta bu lai “lui/lei non viene”


lui/lei Neg venire

il morfo monosillabico lai ha valore di V in quanto ammette di essere prece-


duto dalla negazione bu.

Per contro, nell’esempio

(2) *ta bu xuesheng “lui/lei non studente”


lui/lei Neg studente

il morfo bisillabico xuesheng, che non accetta di essere preceduto dalla nega-
zione bu, non può essere V (esso ha funzione, bensì, di N).

Del tutto grammaticale è invece l’esempio

(3) ta bu shi xuesheng “lui/lei non è studente”


lui/lei Neg essere studente

ove la negazione bu precede il morfo monosillabico shi che, appunto, ha valo-

10 Simon 1959; Cartier 1972.


11 Alleton 1997: 69.
464 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

re di V.

1.2.2. Nel caso, per altro assai frequente, di omofoni12, la eventualità di


confondere N con V è comunque pressoché nulla: infatti la posizione dei costi-
tuenti la frase cinese, caratterizzata da una notevole rigidità strutturale (cfr. § 2),
permettere comunque di interpretare in modo (tendenzialmente) sicuro il valore
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dei singoli morfi.


Così, ad es., il morfo gongzuo (formato a sua volta da due morfi: gong “lavo-
ro” + zuo “fare”) assunto isolatamente può valere sia come N “lavoro” che come
V “fare”, come emerge dagli esempi seguenti:

(4) zhe zhong gongzuo “questo lavoro” (gongzuo – N)


Pron.Dim Class. N
(5) mingtian de gongzuo “il lavoro di domani” (gongzuo – N)
Av Modif. N
(6) zhe ge ren gongzuo hen hao
Pron.Dim Class. N V Av Ag
“queste persone lavorano molto bene” (gongzuo – V).

Solo nella posizione di determinante del N il valore del morfo può risultare
ambiguo. Così, l’esempio

(7) gongzuo (de) shijian


lavoro Modif. tempo

ammette due possibili interpretazioni:

a] “il tempo di lavoro” (in questo caso gongzuo ha funzione di N),

oppure

b] “il tempo in cui si lavora” (in questo caso gongzuo ha funzione di V).

Malgrado la notevole intersezione che il sistema cinese ammette tra le catego-


rie di N e di V, va comunque osservato che la maggior parte dei N, da un lato, e dei
V, dall’altro, risultano separati quanto a categorie morfo-sintattiche e che, in linea

12 Abbiati 1998; 21-22.


VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 465

generale, l’impiego di un morfo risulta più limitato13 in funzione di V che di N.

2. Dal punto di vista tipologico un confronto tra la categoria del V in cinese


e in italiano non può se non tenere conto prioritariamente delle differenze sostan-
ziali che intercorrono tra sistemi isolanti (o analitici), dei quali fa parte il cinese,
e sistemi flessivi-fusivi (o sintetici), dei quali fa parte l’italiano.
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Il cinese, a livello di struttura della frase, al pari di altre lingue dell’Asia sud-
orientale14, è una tipica lingua SVO15 l’ordine secondo il quale i singoli morfi
(semplici o composti) si dispongono nella frase permette di attribuire loro un pre-
ciso valore logico-semantico e di inserirli entro una precisa classe grammaticale.
L’ordine delle parole funziona, di fatto, quale “marca” per la definizione delle
relazioni sintattiche intercorrenti tra gli elementi della frase cinese.
Dal punto di vista della forma della parola, il cinese moderno, al pari del cinese
classico, prevede essenzialmente morfi liberi, mentre rarissimi sono i morfi legati.
A differenza del cinese classico16, il cinese moderno presenta numerose paro-
le formate da due (o tre, raramente quattro) morfi17 tuttavia, pur nella maggiore
complessità morfologica della parola del cinese moderno rispetto al cinese anti-
co, le parole plurimorfiche del cinese moderno non si comportano dal punto di
vista grammaticale in modo diverso rispetto alle parole monomorfiche. Tanto in
cinese antico quanto in cinese moderno vale la proprietà, già esposta in 1.2.,
secondo la quale i singoli morfi acquistano diversa funzione unicamente in base
alla loro posizione nella catena sintattica.

2.1. Da quanto sopra esposto deriva che il V cinese, costituito come è da morfi
non flessi, non possiede, a differenza del V italiano, forme verbali finite.
Il semplice esame del paradigma del presente indicativo di un V italiano, raf-
frontato a forme “parallele”18 del V cinese, mostra la ricchezza del componente
morfologico di una lingua tipicamente flessiva-fusiva, l’italiano appunto, con-
trapposta alla marca-Ø del componente morfologico di una lingua isolante (ana-
litica), il cinese:
cinese italiano

13 Abbiati 1992: 102.


14 Per un quadro generale dei caratteri tipologici delle lingue dell’Est asiatico e del Sud-Est
asiatico, molto utile Sebeok 1967.
15 Per la confutazione della tesi della transizione del cinese mandarino dal tipo SVO al tipo
SOV, cfr. Chaofen Sun 1996: xiii.
16 Definito, per questo, come prototipo di lingua monosillabica. Rigorosamente monosilla-
bico è del resto, ancora oggi, il vietnamita.
17 Abbiati 1992: 102-106.
18 Si tratta, ovviamente, di “parallelismo” riguardante la pura funzione semantica.
466 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

1° p.s. wo ai-Ø (io) am-o


2° p.s. ni ai-Ø (tu) am-i
3° p.s. ta ai-Ø (lui/lei) am-a
1° p.pl. women ai-Ø (noi) am-iamo
2° p.pl. nimen ai-Ø (voi) am-ate
3° p.pl. tamen ai-Ø (loro) am-ano
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Si noti, per altro, che l’esempio del V italiano sopra riportato si riferisce ad
un V che non prevede, nella coniugazione, variazioni della radice. Le cose si com-
plicano, evidentemente, nel caso di V – e sono frequentissimi19 in italiano – in cui,
nella flessione del V, oltre che la serie dei morfi indicanti numero e persona, muti
anche la radice.

2.1.2. Il V italiano prevede, nella varietà standard, una serie articolata di para-
digmi indicanti le categorie di tempo e di modo20: il loro uso è obbligatorio nei
punti alti dell’architettura del sistema (nei registri formali e/o formalizzati), men-
tre esso appare (in certi casi anche sensibilmente) ridotto nell’italiano dell’uso
colloquiale/informale: in tali livelli si ha a che fare, infatti, per ciò che concerne i
tempi deittici, con un sistema di base limitato al presente, al passato perfettivo
(prossimo o remoto, con variazioni sensibili connesse con la dimensione diatopi-
ca) e all’imperfetto; per quanto riguarda i tempi anaforici, il sistema ricorre quasi
esclusivamente al trapassato prossimo21.

2.1.3. La riorganizzazione strutturale del V italiano risulta soprattutto vistosa


nei tempi del modo indicativo ove sono in atto importanti fenomeni di sovresten-
sione di valori temporali su valori modali22.
Tra i tempi dell’indicativo l’imperfetto pare soprattutto sottoposto a sensibili
pressioni strutturali: l’imperfetto, tempo riferito al passato con valore aspettuale
imperfettivo, seguendo una trafila attestata per altro anche altrove in ambito
romanzo (ma non solo in quello)23,assume funzioni modali24 e copre gli ambiti
semantici della non-fattualità e della controfattualità: in linea generale si osserva

19 Un elenco dettagliato, accompagnato da importanti osservazioni di ordine storico-lin-


guistico, è in Serianni 1988: 364-387.
20 Tali categorie sono normalmente espresse mediante marche morfologiche. Ma il compo-
nente morfologico non è l’unico mezzo mediante il quale il V italiano esprime tali nozioni: la
temporalità, infatti, può essere espressa anche mediante mezzi lessicali (tra due anni vado a
Roma) oppure mediante puntuali riferimenti al contesto. Parimenti, la modalità può prevedere
diverse soluzioni (come si dirà al § 2.1.3.).
21 Berretta 1993: 197; 209-222.
22 Bertinetto 1986; Berruto 1987; Simone 1993: 61-70.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 467

che, nell’italiano contemporaneo, l’imperfetto indicativo entra in forte concorren-


za con usi tradizionalmente propri del condizionale.

2.1.3.1. In sensibile espansione risulta essere anche il passato prossimo: tale


tempo, utilizzato prioritariamente per esprimere un’azione perfettiva svoltasi in
un passato recente, non solo è del tutto normale nell’Italia settentrionale (ove il
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passato remoto non è mai stato troppo vitale), ma esso è sempre più usato anche
in Toscana e in altre aree centro-meridionali ove, tradizionalmente, vige la distin-
zione tra gli usi del passato prossimo e del passato remoto.
Ad un livello poco sorvegliato degli usi linguistici, il passato prossimo tende
anche a sovrestendersi ad usi propri del futuro anteriore (quando ho finito di lavo-
rare [vs. avrò finito], tornerò a fare le cose che più mi interessano).

2.1.3.2. Tra i tempi, in accentuato regresso sono, invece, il futuro semplice,


spesso sostituito dal presente (tra due mesi vado [vs. andrò] in Francia), e il futu-
ro anteriore, sostituito dal passato prossimo (quando ho terminato [vs. avrò ter-
minato], ti telefonerò io stesso): la referenza temporale, non più marcata dalla
morfologia del verbo, viene affidata al lessico o, comunque, al contesto.
Il futuro, nella sua pienezza morfologica, viene utilizzato per indicare valori
modali epistemici (previsione/dubbio: sarà corretto?; chissà se lo avrà comuni-
cato a tutti quanti) o deontici (desiderio/intenzione: sarò stringatissimo): come
già nel caso dell’imperfetto, anche a questo proposito si ha a che fare con una
sovrestensione di funzioni temporali su valori modali25.

2.1.3.3. Nel V italiano, tra i modi diversi dall’indicativo, il congiuntivo appa-


re certamente il più fragile, sia a livello del paradigma (ricorrenti, soprattutto da
parte di incolti, sono gli adeguamenti analogici, del tipo vadi, vadino,), sia sul
piano sintattico ove, nelle frasi dipendenti completive, il congiuntivo cede terreno
all’indicativo (penso che lui deve parlare chiaramente) 26.

23 Coseriu 1976: 129-169.


24 Bertinetto 1986: 368-380; Bertinetto 1991: 80-84; Bazzanella 1987; Berretta 1993: 212-
214. Tali categorie sono normalmente espresse mediante marche morfologiche. Ma il compo-
nente morfologico non è l’unico mezzo mediante il quale il V italiano esprime tali nozioni: la
temporalità, infatti, può essere espressa anche mediante mezzi lessicali (tra due anni vado a
Roma) oppure mediante puntuali riferimenti al contesto. Parimenti, la modalità può prevedere
diverse soluzioni (come si dirà al § 2.1.3.).
25 Bertinetto 1986: 491-498; Berretta 1991; Berretta 1993: 215.
468 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

Altro caso interessante di fragilità del congiuntivo, in casi di espressione di


inferenza sul presente e/o di deissi futurale, è la sua sostituzione mediante il futu-
ro (penso che avrò ragione io) o l’infinito in implicite (penso di avere ragione io):
in tali contesti il futuro mantiene la funzione modale (epistemica: incertezza, ipo-
tesi) anche se, evidentemente, viene completamente annullata la marcatura sul
verbo della dipendenza sintattica27.
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2.1.3.4. Più saldo del congiuntivo, il condizionale è forma verbale ricorrente


sia in frasi principali che dipendenti: gli è concorrenziale (come già esposto in
2.1.3.), nel parlato informale, la progressiva estensione dell’imperfetto indicativo,
in funzione modale.
Nelle frasi principali il condizionale è utilizzato quale forma di attenuazione sia
nelle affermazioni (la discussione potrebbe andare avanti all’infinito) che nelle
richieste (mi daresti un passaggio?). L’uso del condizionale è particolarmente fre-
quente con verbi modali quali potere, dovere: in tali casi l’espressione del modo
sminuisce il valore marcatamente deontico dei V modali o ne può aumentare il valo-
re epistemico, atto a veicolare dubbio, incertezza o, ancora, presa di distanza.

2.1.3.5. Nel paradigma dell’imperativo, tipica espressione di valori modali, un


punto di fragilità strutturale è l’opposizione, nella 2° p.s., fra l’esito in -a della I
coniugazione e quello in -i delle altre coniugazioni (canta! vs. corri!, esci!), ove i
morfi della II e della III coniugazione coincidono con i paralleli morfi del presen-
te indicativo (corri, esci): tale situazione sta alla base di frequenti conguagli effet-
tuati da parlanti incolti o da apprendenti (spontanei, ma non solo) dell’italiano.
Un altro punto di crisi è nelle forme di cortesia ove l’uso obbligatorio del pro-
nome di 3° p.s. lei richiede necessariamente la selezione di forme di congiuntivo
(guardi lei!; cerchi lei!): la difficoltà di governare il paradigma del congiuntivo fa
sì che, spesso, parlanti incolti sostituiscano tali forme mediante la sovrestensione
di forme di imperativo vero e proprio alla 2° p.s. (guarda! – cerca!).
La tipica espressione della modalità deontica, il comando, può essere resa
anche mediante il semplice infinito (tornare indietro al più presto!), oppure con

26 Il fenomeno sembra dipendere dal fatto che la subordinata è intesa quasi una principale
in quanto quest’ultima è o ridotta a una semplice formula (penso; mi pare, ecc.), priva del valo-
re sintattico di reggente, oppure perché, comunque, il legame sintattico tra le due frasi risulta
meno percepito.
27 Simile è il ricorso all’indicativo invece che al congiuntivo in altri tipi di frasi dipendenti
ove a connettori che richiedono nello standard l’attivazione del congiuntivo (qualora, sebbene,
ecc.) segue l’indicativo (sebbene sei stanco, non devi andare subito a letto). Va comunque detto
che tale uso non è ammesso nei livelli sorvegliati dell’italiano ove, ovviamente, è di rigore il
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 469

modali (devi/dovresti/dovrai occuparti di questa faccenda!), attenuanti in modo


scalare la forza dell’ordine, oppure, anche, mediante perifrasi, con valore marca-
tamente deontico, quali, ad es., andare + part. pass. (va fatto capire subito a
tutti!), esserci da + inf. (c’è poco da ridere!), avere + nome + da (lui ha una prova
tremenda da affrontare), e altre ancora.
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2.2. Il V cinese non possiede forme verbali finite28: le categorie grammatica-


li di tempo, modo, aspetto e diatesi sono indicate mediante mezzi lessicali o sin-
tattici29.

2.2.1. In cinese la nozione di tempo30 viene resa normalmente mediante ele-


menti lessicali che precisano il “quando” di una determinata azione, oppure
mediante avverbi che esprimono l’ancoraggio temporale al presente, al passato, al
futuro.

2.2.1.1. Vediamo qualche esempio di elementi lessicali in funzione di marche


di tempo:

(8) ta zuotian qu kan ta


lui/lei ieri andare vedere lui/lei
“lui/lei è andato a trovarlo/-a ieri”

ove zuotian “ieri” colloca l’azione in un tempo passato. Oltre a tutti i sintag-
mi contenenti riferimenti temporali al passato, altri Av utilizzati frequentemente
per indicare il passato sono gangcai, gang “poco fa, or ora”;

(9) ta xianzai qu kan ta


lui/lei adesso andare vedere lui/lei
“lui/lei adesso va a trovarlo/-a”

ove xianzai “adesso, ora” colloca l’azione nel presente immediato31.

congiuntivo (sebbene sia stanco, non devi...).


470 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

(10) ta mingtian qu kan ta


lui/lei domani andare vedere lui/lei
“lui/lei domani andrà a trovarlo/-a”

ove mingtian “domani” colloca l’azione nel futuro. Oltre a tutti i sintagmi
contenenti riferimenti temporali al futuro (prossimo o remoto), quali marche atte
ad indicare il futuro sono spesso utilizzati anche gli Av jiang, kuai, jiu “presto,
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ben presto, tra un istante”.

2.2.1.2. Oltre a quanto esposto fino ad ora, la indicazione del valore tempo-
rale può essere espressa mediante l’utilizzo di una serie di marche, prioritaria-
mente aventi un valore aspettuale/modale e la cui funzione risulta essere parzial-
mente sovrestesa anche a valori temporali32. Tali marche sono:

a] il morfo/particella aspettuale-modale le avente il valore prioritario di


marca indicante l’aspetto compiuto/perfettivo di un’azione. A diffe-
renza dell’altro morfo/particella frasale le, posto sempre in fine di
frase, la particella aspettuale-modale le è posta subito dopo il V pre-
dicativo e segnala l’avvenuto compimento dell’azione:

(11) wo wen le Lao Wang


io chiedere Ptc Lao Wang
“io ho chiesto a Lao Wang”
(12) ta mai le san zhang piao
lui/lei comprare Ptc tre Clas. cartolina
“lui/lei ha comprato tre cartoline”

Il morfo le non è altro se non un V significante “finire, terminare”, utilizzato qui


con valore di marca aspettuale/modale e, per sovrestensione, anche temporale33:
b] la forma progressiva, resa mediante il morfo/particella ne posto alla
fine della frase, o mediante il morfo/particella zhe posto subito dopo

28 Per un’informazione teorico-generale, cfr. Jachontov 1967; Alleton 1997: 69-73.


29 Sui processi di grammaticalizzazione nel passaggio dal cinese antico al cinese moderno,
importanti osservazioni sono già presenti nel lavoro, in un certo senso pionieristico, di Kao
Ming-K’ai 1940. Per l’esame di casi specifici relativi all’evoluzione semantica di alcuni morfi e
all’interno di una prospettiva teorica assai aggiornata, fondamentale Chaofen 1996.
30 Cfr. Huang Jing 1980.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 471

il V, e gli Av zheng e zhengzai che si collocano subito prima del rela-


tivo predicato verbale (cfr. 2.2.2.1.);
c] il morfo/particella aspettuale guo indicante un’azione avvenuta
almeno una volta nel passato: tale particella vale prioritariamente
quale marca indicante l’aspetto del passato esperienziale (cfr. §
2.2.2.3.).
d] le strutture kuai yao / jiu yao ... le indicanti il futuro immediato (cfr.
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2.2.3.5.).

2.2.2. Il cinese è considerato notoriamente un sistema linguistico a prevalen-


za aspettuale34 nel senso che la categoria dell’aspetto risulta preminente rispetto a
quella del tempo.
In cinese si distinguono tre aspetti diversi, espressi mediante una serie di par-
ticelle l’aspetto imperfettivo (o durativo/progressivo, reso mediante zhe), l’aspet-
to perfettivo attuale (reso mediante le) e, infine, l’aspetto perfettivo non-attuale
(riferito al passato, reso mediante guo)35.
Va osservato che la perfettività dell’azione può essere riferita non soltanto al
passato (remoto o prossimo) ma anche al futuro:

(13) ni lai le, wo jiu zou


tu venire Ptc io allora andare.
“appena tu sarai arrivato, andrò anch’io”

2.2.2.1. L’aspetto progressivo viene espresso mediante la particella ne, sem-


pre posta in fine di frase; oppure mediante la particella zhe, che precede sempre il
V, oppure mediante gli Av zheng, zhengzai, che precedono sempre il predicato
verbale:

(14) ta zheng(zai) gongzuo ne


lui/lei Av lavorare Ptc
“lui/lei sta lavorando”
(15) ta zheng ting (zhe) shouyinji ne
lui/lei Av ascoltare (Ptc) radio Ptc
“lui/lei sta ascoltando la radio”
2.2.2.2. L’aspetto durativo può essere espresso mediante il solo morfo/parti-
cella zhe, sempre posto subito dopo il V e indicante che l’azione è in corso:

31 Oltre a tutti i sintagmi contenenti riferimenti temporali al presente, quale marca di pre-
sente è spesso utilizzata muqian “al presente, adesso”.
32 Chaofen Sun 1996: 85 spiega l’origine di le come esito del processo di grammaticaliz-
472 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

(16) zhuozi shang fang zhe hen duo zazhi


tavolo sopra stare Ptc Av molto rivista
“sul tavolo ci sono molte riviste”
(17) ta fuqin hai huo zhe “suo padre vive ancora”
lui/lei padre Av vivere Ptc
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(18) men kai zhe “la porta è aperta”


porta aprire Ptc

2.2.2.3. L’aspetto del passato esperienziale viene espresso mediante il


morfo/particella guo, posto sempre dopo il verbo:

(19) ni zuo guo feiji ma? “tu hai già viaggiato in aereo”
tu viaggiare Ptc aereo PtcInt
(20) qunian wo qu guo Chang Cheng
passare anno io andare Ptc lunga muraglia
“lo scorso anno io sono andato alla Grande Muraglia”.

Il morfo/particella guo altro non è se non la forma del V guo “passare, attra-
versare”, grammaticalizzata quale marca di passato esperienziale.

2.2.3.4. L’aspetto perfettivo, oltre che mediante il morfo/particella le (di cui


si è detto avanti: cfr. § 2.2.1.), viene espresso anche mediante una particolare
struttura sintattica di enfatizzazione in cui entra in gioco il modificatore de prece-
duto (o meno) dal V shi “essere”:

(shi) de
essere Ptc/Modif.
(21) ta (shi) zuotian lai de
lui/lei (essere) ieri arrivare Ptc/Modif.
“lui/lei è arrivato/a proprio ieri”
(22) ta (shi) zai jiaoshi li fuxi de
ciò (essere) in classe-in ripetere Ptc/Modif.
“ciò è stato ripetuto in classe”
(23) ta (shi) zai Beijing daxue de xueshi zhongwen
lui/lei (essere) in Beijing università Ptc/Modif. studiare cinese
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 473

“lui/lei ha studiato il cinese proprio all’università di Pechino”


(24) ta (shi) qunian zai Beijing daxue xuexi zhongwen de
lui/lei (essere) passare anno in Beijing università studiare cinese Ptc/Modif.
“lui/lei ha studiato il cinese proprio lo scorso anno all’università di Pechino”
(25) ta (shi) xueshi zhongwen de
lui/lei (essere) studiare cinese Ptc/Modif.
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“lui/lei studia proprio il cinese”

2.2.3.5. L’aspetto del futuro imminente viene espresso principalmente


mediante la seguente serie di strutture:

a] (kuai) yao
b] kuai (yao)
c] kuai yao
d] jiu yao ... le

(26) yao xia yu le


volere/dovere cadere pioggia Ptc
“sta per piovere”, “tra poco pioverà”
(27) feijii kuai yao qifei le
aereo presto volere/dovere decollare Ptc
“l’aereo sta per decollare”
(28) ta jiu yao hui guo le
lui/lei Av volere/dovere tornare patria Ptc
“lui/lei sta per tornare in patria”

Dal punto di vista grammaticale-semantico kuai è un Ag/Av che significa


“veloce/velocemente”, yao è un V significante “volere/dovere”, utilizzato in cine-
se – parallelamente a quanto avviene in numerose altre lingue del mondo – per
indicare una categoria semantica, quella del futuro, posta ai confini tra valori tem-
porali e modali.

2.2.4. La modalità è espressa in cinese o mediante tratti sovrasegmentali


(intonazione) o mediante una serie di morfi/particelle (il più frequente delle quali
è ba avente sfumatura esortativa/imperativa) o mediante mezzi lessicali (avverbio
yexu “forse, probabilmente”) o, infine, mediante una serie di V modali: neng, keyi,
hui significanti tutti “potere”, (ying)gai, (ying)dang “dovere”, yao significanti
474 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

tutti “volere”36:

(29) ni mingtian lai (ba) “vieni domani!”


tu domani venire Ptc
(30) wo mingtian yexu lai “io verrei domani”
io domani forse venire
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Dei V modali indicanti “potere”, neng sovrappone al valore modale l’attribu-


zione di una capacità riferita sia a oggetto animato che inanimato. Caratterizzato
da decisa polarità positiva, neng è poco usato per esprimere eventualità non desi-
derate:

(31) na ge gongchang neng zhizao da jiqi


quello Clas officina potere costruire grande macchina
“quella officina può fabbricare grandi macchine”

Keyi indica possibilità nel caso in cui le condizioni di possibilità non siano
inerenti al referente del tema (concessione, permesso, ecc.):

(32) wo zher ni keyi chouyan “a casa mia tu puoi fumare”


io dove tu potere fumare

Hui significa sia “può darsi che” (reso in italiano spesso mediante un futuro),
sia “sapere (fare)”: nel primo caso si tratta di una modalità tipicamente epistemi-
ca; nel secondo, tale modalità, combinata con un valore attributivo, si riferisce a
un piccolo numero di V ausiliati (indicanti azioni del tipo “cantare”, “scrivere”,
“parlare”, ecc.) e richiede un referente animato:

(33) hui xia yu “può darsi che piova” > “pioverà”


potere scendere pioggia
(34) ta hui manyi “lui/lei potrà essere soddisfatto”
lui/lei potere essere sodddisfatto
(35) ta bu hui he jiu “lui/lei non regge il vino”
lui/lei Neg potere bere vino
(36) ta hui chang ge “lui/lei sa cantare”
lui/lei potere cantare canto
Dei V indicanti obbligo, yinggai è la forma non marcata del deontico; ying-
dang prevede una sfumatura del tipo “è giusto/ragionevole che...” derivatagli dal

zazione, in medio cinese, della forma verbale liao propria del cinese antico, il cui significato ori-
ginario era “completare, finire”, “capire” (come V non stativo) o “essere ovvio” (come V stati-
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 475

valore di base del morfo dang:

(37) yinggai xuexi de dongxi hen duo


dovere studiare Modif. cose molto numeroso
“le cose che si devono studiare sono moltissime”
(38) renren dou yingdang zunshou falü
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uomini tutto dovere rispettare legge


“tutti gli uomi devono rispettare le leggi”.

Yao indica “volere”/“dovere” e, oltre ad esprimere volontà generica, è utiliz-


zato come marca dell’ingiuntivo (mai, evidentemente, alla 1° p.):

(39) ni yao kuai qu “tu devi andartene presto” / “vattene!”


tu dovere presto andare

2.2.5. La diatesi passiva è espressa in cinese mediante una serie di particelle


passivizzanti quali bei, rang, jiao, gei, oppure mediante mezzi lessicali (indicanti
“ricevere, subire”), tra i quali: shou, ai, gai.

(40) fandong tongzhi [bei / gei / jiao / rang] tuifan le


reazionario regime Ptc. Passiv. distruggere Ptc.Perf.
“il regime reazionario fu distrutto”
(41) nongmin shou boxue “I contadini vengono sfruttati”
contadino Ptc. Pass. sfruttare
(42) ta ai da ai ma
lui Ptc. Passiv. battere Ptc. Passiv. insultare
“lui viene battuto e insultato”
(43) fangzi gai qilai le “la casa è stata terminata”
casa Ptc.Passiv. elevare Ptc.Perf.

2.2.5. Quando un sinofono si rapporta al sistema del V italiano e ne avvia il


processo acquisizionale, deve affrontare un compito complesso determinato non
solo dalle differenze strutturali che intercorrono tra il sistema della sua L1 e quel-
lo della L2 ma, anche, a livello puramente morfologico, dalla polimorfia che
caratterizza i paradigmi dei V italiani: il riconoscere le connessioni intercorrenti
tra, poniamo, vengo, vieni, venni, verrò e venire, oppure tra dico, dirò, detto e
dire, o tra diamo, detti, dato e dare o tra spengo, spegni, spensi, spento e spegne-
re o tra resi, reso e rendere – e l’elenco potrebbe ovviamente continuare – è ope-
razione del tutto “naturale” per un parlante nativo (o per chi, comunque, ha sen-
476 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

sibilità morfologica), ma essa risulta complessa per i sinofoni e, più in generale,


per tutti coloro che vengono da sistemi a morfologia–Ø.
Non è un caso che, stando a valutazioni espresse dagli stessi informanti
sinofoni37 lo scoglio maggiore che essi trovano nell’apprendere l’italiano/L2 è
proprio rappresentato dal V la cui complessità e la cui (frequente) “imprevedibi-
lità” rendono difficoltoso il processo acquisizionale.
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3. Come è mostrato nella prima parte di questo contributo, il contenuto lessi-


cale del verbo cinese è modificabile da elementi con valore temporale, modale,
aspettuale. Però queste modificazioni non entrano direttamente nel guscio del
morfema verbale, ma si collocano all’esterno, sono cioè morfemi autonomi di
varia origine, spesso altri verbi, la cui portata si estende all’enunciato. Il morfema
verbale è dunque di per sé invariabile e la stessa cosa vale per il nome.

3.1 Vorrei sottolineare l’interesse che lo studio dell’acquisizione della


morfologia italiana da parte dei cinesi riveste per indagare sulla natura e sulle
funzioni della morfologia nelle lingue. Questo interesse non è esclusivo natural-
mente della coppia cinese-italiano, tuttavia il confronto riveste carattere di esem-
plarità, essendo italiano e cinese buoni rappresentanti di due tipi linguistici diver-
si, isolante e flessivo. Voglio precisare inoltre che l’interesse che le varietà di
apprendimento (di lingue seconde) hanno per indagare la natura della morfolo-
gia risiede nel fatto che nelle fasi iniziali tutte le varietà di apprendimento sono
prive di morfologia flessiva, rappresentano lo stadio zero dello sviluppo della
morfologia, qualunque sia il tipo della lingua prima degli apprendenti (Giacalone
Ramat, 2000 e in stampa, Klein e Perdue 1997). Su questo punto abbiamo dati
da moltissime lingue, anche se non è mai stato fatta un’indagine statistica sulle
lingue del mondo, ma la generalizzazione sembra fondata e non sono stati trova-
ti finora controesempi.
La morfologia flessiva è una conquista faticosa e per converso tende a deca-
dere nei casi di attrition, quando una lingua non viene più praticata. Gli appren-
denti di lingue con morfologia scoprono attraverso l’input i rapporti tra certe
distinzioni formali e le funzioni che esse rivestono (mi riferisco qui principal-
mente agli apprendenti “spontanei” che imparano la lingua fuori dal contesto sco-
lastico). Quello che ci interessa è capire in che modo e quando le distinzioni
morfologiche emergono nelle interlingue, a partire dallo stadio zero38. È ragione-
vole supporre che l’attenzione sia catturata da distinzioni che vengono avvertite

vo). Dal sec. X, le compare nei testi in posizione immediatamente postverbale e nel valore esclu-
sivo di “completare, finire”. Per questioni connesse con l’evoluzione fonetica di liao > le,
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 477

come cruciali per la comunicazione nella seconda lingua. Rimane il problema di


capire come nasce la consapevolezza di tale crucialità nei casi in cui la L1 non ha
distinzioni temporali e marche di genere e numero e anche quando manca un
insegnamento esplicito della L2, un professore che richiama l’attenzione sul
significato delle variazioni nella parte finale delle parole. Una possibile risposta è
che gli apprendenti imitano semplicemente l’input e memorizzano quello che sen-
tono. Non si può escludere che l’imitazione abbia un ruolo, ma non è certamente
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tutta la verità perché le lingue non si imparano per memorizzazione, ma attraver-


so l’elaborazione attiva delle informazioni ricevute dall’input.
Una risposta, più interessante a mio avviso, potrebbe suggerire che certe cate-
gorie cognitive, come tempo, spazio sono presenti in tutti gli esseri umani e che
la capacità di concettualizzazione quindi esiste in partenza, anche se in una lingua
manca la codificazione formale e la categoria è latente. In questa prospettiva, i
cinesi che imparano l’italiano devono innanzitutto “ricategorizzare”, o meglio
ripensare la categorizzazione appresa con la L1, e imparare a segnalare esplicita-
mente distinzioni che nella loro lingua non hanno espressione formale. Il compi-
to è quello indicato da Slobin (1991): imparare a pensare in modo diverso:
thinking for speaking. Questa attività di ripensamento si colloca verosimilmente
ad un livello pregrammaticale (Levelt 1989), tuttavia, finché manca la rielabora-
zione e la coscienza implicita (o anche esplicita, mediata dall’insegnamento sco-
lastico) delle regole, la segnalazione formale mediante la morfologia rimane
casuale, incerta, non interiorizzata.
Cercheremo di cogliere in casi concreti le strategie di acquisizione messe in
atto per apprendere la morfologia del verbo con particolare attenzione alla distin-
zione tra verbo finito, che porta le distinzioni di tempo, persona e numero, e verbo
non finito ( participio e infinito).

4. I dati per le osservazioni che seguono sono tratti da un apprendente CH, di


17 anni, registrato per più di un anno a Torino, dove frequentava una scuola
media. Per quanto fosse in Italia da un anno, CH non aveva praticamente iniziato
ad imparare l’italiano finché non è stato iscritto a scuola39. Faremo anche qualche
riferimento per confronto a un altro apprendente cinese, TU, una donna di circa
40 anni, in Italia da quattro anni al momento delle registrazioni, raccolte da E.

probabilmente favorita dall’incrocio con la forma lai “venire”, cfr. ibid. 92-93.
33 Sulla categoria generale dell’aspetto in cinese, cfr. Kalousková 1964. Importanti osser-
vazioni anche in Thompson 1968, Thompson 1970 e Cartier 1972: 120-122.
478 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

Banfi.
Nelle prime registrazioni di CH le relazioni temporali non sono espresse dal
verbo: nelle narrazioni personali riguardanti la famiglia negli anni in cui viveva in
Cina, o i nonni morti in Cina, CH non usa verbi con marche di passato. Nella 14^
registrazione (fatta circa dieci mesi dopo l’inizio dello studio) CH produce una
serie di enunciati in cui il verbo è al “presente”, o meglio in forma lessicale non
morfologizzata priva di indicazioni di tempo e di aspetto. L’apprendente ricalca
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nell’italiano la struttura della sua lingua materna, in cui è l’elemento lessicale


agosto in (44) ad indicare l’ancoraggio temporale al passato:

(44) CH14: eh agosto c’era un eh un zio e uno zio eh vi/ in Cina


eh viene Torino
“in agosto un mio zio dalla Cina è venuto a Torino”
(45) CH14: mio nonno eh++ la/lavora eh sarto
“mio nonno lavorava come sarto”

Anche in (46) e (47), parlando dei genitori e del nonno materno, CH fa uso di
riferimenti temporali e spaziali che consentono di collocare gli eventi nel passa-
to, mentre le distinzioni temporali marcate sul verbo sono assenti:

(46) CH14: prima viene eh mio padre poi seconda volta viedono
anche mio mio madre anche fratelo
“prima è venuto (in Italia) mio padre, poi dopo sono venuti anche mia
madre e mio fratello”
(47) CH14: mio nonno mio nonno non è Giappone + ha va eh lavoro
Giappone
lavoro ha tant/tanti anni e poi è ve/eh+++ torna a casa /poi lavo-
ro eh talia capelli
“mio nonno non era giapponese; ha lavorato per molti anni in
Giappone poi è tornato a casa e si è messo a lavorare come bar-
biere”

Alla fine del periodo di osservazione l’organizzazione interna della gramma-


tica di CH appare più regolare e sistematica, anche se rimangono vari fatti parti-
colari di irregolarità o devianza dalla lingua di arrivo. Le tre forme verbali cono-
sciute da CH presente, participio passato e infinito sono usate con funzioni sostan-
zialmente definite e distinte; l’ausiliare è in via di sviluppo. Si trovano pochi casi
di imperfetto di “essere” nella forma era e c-era, di interpretazione temporale
incerta (Valentini 1992). Rispetto alle prime registrazioni CH mostra di saper
esprimere le relazioni temporali di presente e passato .
I dati di CH confermano la validità della sequenza di acquisizione della
morfologia verbale per l’italiano che il “progetto di Pavia” aveva accertato anni fa
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 479

(Bernini / Giacalone Ramat 1990, ecc.):

presente > (aux)+participio passato > imperfetto > futuro

4.1. Distinguiamo l’accordo di persona dall’espressione delle relazioni tem-


porali, anche se si tratta di categorie che possono essere fuse nelle desinenze del
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verbo. La categoria della persona viene espressa anche dai pronomi, che in italia-
no non sono richiesti obbligatoriamente come in inglese o in francese. Tutti gli
apprendenti apprendono precocemente i pronomi personali e li usano esplicitare
il soggetto, supplendo alla mancanza di morfologia verbale.
Per quanto riguarda l’accordo di persona espresso dalle desinenze del verbo,
il processo di acquisizione procede lentamente e anche alla fine dell’osservazio-
ne CH non controlla completamente tale accordo. L’accordo soggetto-verbo fa
parte delle proprietà del V finito. La nozione di finitezza non è non realizzata in
maniera esplicita nella grammatica del cinese che, come abbiamo detto, ha mor-
femi verbali invariabili. Non rientra negli scopi e nei limiti di questo lavoro discu-
tere la nozione di finitezza, che viene qui intesa secondo l’uso della tipologia
come un insieme di marche morfologiche che segnalano il tempo, la persona, il
numero del verbo40. È stato sostenuto che ad un livello più profondo la funzione
della finitezza è di marcare la forza illocutiva di un enunciato (Klein 1998): in tal
caso CH avrebbe la nozione semantica della finitezza, ma non avrebbe concettua-
lizzato la necessità di segnalarla mediante apposite marche nella lingua italiana.
Pertanto non si tratta di chiedersi quando è appresa la categoria, ma quando e in
quale ordine sono appresi i morfemi che la segnalano.
Nei dati di CHU non troviamo all’inizio, com’era prevedibile, verbi finiti: le
forme usate sono forme in -a o in –i (lavora, mangi) che esprimono il contenuto
lessicale del verbo, poi forme in –to, che sono analoghe al participio passato della
lingua di arrivo e forme in –re analoghe all’infinito, usate forse con una sfumatu-
ra modale-aspettuale, come suggeriscono Banfi (1990) e Berretta (1990).
Nella prima registrazione compaiono in tutto una dozzina di verbi, tra cui tre
occorrenza della copula è. In almeno tre casi la forma del verbo è semplicemente
ripresa dalla domanda che l’intervistatrice rivolge a CH usando la seconda perso-
na, come in (49). Qui CH mostra di non aver concettualizzato la segnalazione
della persona nella terminazione del verbo: in altre parole non conosce l’accordo
di persona:

34 Sulle marche aspettuali (sul loro rapporto con valori temporali), cfr. Cheng Guang Tsai
1979; Iljic 1986.
35 Un esame esaustivo delle ricorrenze e delle funzioni del morfo guo è in Li Chor Sing 1984.
480 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

(48) CH01: Int. Cosa fai guardi la televisione?


CHU sì eh poi studiare italiano
(49) CH01: Int. Cosa mangi?
CH mangi pane
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Nella seconda registrazione compaiono più verbi lessicali. Il verbo essere con
funzione di copula sembra avere una flessione, o perlomeno occorre in due forme
è e sono: sono non compare però sempre in contesti appropriati di 1sing. e 3plu-
rale, ma può riferirsi anche alla 3sing. e talvolta co-occorre con è (51):

(50) CH02: Zhejiang è grande e sono Hangzhou sono un città…. sono


sì eh u/uguale Tolino
“Zhejiang è grande e Hangzhou è una città grande come Torino”
(51) CH02: cinese vino è sono liqueur

Sembrerebbe che la nozione di finitezza espressa mediante l’accordo verbale


si sviluppasse prima nel verbo “essere”, negli ausiliari e nei modali che negli altri
verbi. Uno sviluppo analogo è stato notato anche per altre lingue tra cui il tedesco
(Parodi 2000).
Dalla terza registrazione si nota uno sforzo di elaborare le categorie della per-
sona e del numero sul verbo marcando la terza plurale con forme che hanno l’ac-
cento sulla desinenza: balàno, mangiàno ecc., dovute probabilmente a estensione
dello schema accentuale di forme note come il participio passato (Valentini 1992:
132). Vadòno in ((53) è una forma creata sulla prima persona vado con l’aggiun-
ta di –no sul modello di dormo/dormòno: in questo caso si può dire che la desi-
nenza ha assunto una funzione morfologica e che l’accordo di persona viene
segnalato dalla flessione verbale.

(52) CH03: (un signore e la sua famiglia) eh va eh andate hotel eh poi


la familia mangiare a hotel
eh+++ questa sera loro famiglia eh dormì++++dormòno a: questo
hotel
(53) CH04 : sua molie con suo filio vadòno a scuola
“sua moglie e suo figlio vanno a scuola”

L’accordo di persona e numero non è tuttavia sistematico: troviamo ancora


nell’ultima registrazione: lolo talia “loro tagliano, lolo abita “loro abitano”.
Comunque nell’interlingua di CH emergono gradualmente microaree in cui viene
elaborata la funzione delle terminazioni del verbo.
I pronomi personali soggetto io, lui sono frequenti e precoci in CH; anche tu,
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 481

lei, loro, noi sono usati. L’uso sembra dettato da esigenze comunicative (attribu-
zione dei ruoli di soggetto), da principi testuali generali (distanza dalla prima
menzione) (rimando a Valentini 1992:143sgg. per una analisi dell’uso dei prono-
mi soggetto). Valentini nota che nelle ultime registrazioni la frequenza dei sog-
getti pronominali diminuisce in relazione inversa all’aumento dell’accordo di per-
sona. Anche queste tendenze (che non escludono l’uso di soggetti nelle ultime
registrazioni anche là dove un nativo non li riterrebbe necessari) sono un indizio
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di elaborazione della categoria dell’accordo di persona.


Il pronome di prima persona presenta anche la forma me (11 occorrenze in
tutto il corpus) come complemento di preposizioni con me, di me, e in dipenden-
za da verbi: CH10: mio cognato ha telefonato me, CH17: domanda a me? L’uso
è corretto nel senso che me non è mai usato al posto di io e viceversa: questo
potrebbe far concludere che la distinzione di caso (case marking) è acquisita41.

4.2. Nelle prime registrazioni CH usa il participio in –to in apparente alter-


nanza con la forma basica di “presente”, in seguito e in maniera abbastanza rego-
lare attribuisce alle forme in –to valore temporale di passato, talvolta associan-
dole all’ausiliare. Merita però di essere rilevato l’uso del participio passato che
compare in un gruppo di occorrenze di struttura simile: si tratta di in contesti
descrittivi in cui in cui l’apprendente, descrivendo delle storie illustrate, vuole
segnalare la compiutezza di un’azione o di un evento che è stato appena men-
zionato nel suo svolgimento mediante l’uso della forma “basica” dello stesso
verbo, come in (54):

(54) CH04: sua molie lava questo eh lava pentola lavato eh pentola
guarda come eh specchio
“la moglie lava una pentola e dopo averla lavata la guarda come
uno specchio”
(55) CH03: anghe poi mangiare +++ mangiare pane e prosc/prosciutto
eh mangiato poi eh va cucina+ lavo eh lava tutto…. poi lavare
denti eh fatto poi v/va letto dormì
“poi mangia pane e prosciutto, finito di mangiare va in cucina e

36 Sull’uso dei V modali, cfr. Alleton 1984; Alleton 1997: 103-106.


482 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

lava tutto poi va a lavare i denti dopo averlo fatto va a dormire”

Questo schema si ritrova in altri apprendenti cinesi, il che rafforza l’ipotesi


che alla base vi sia una strategia di organizzazione del discorso descrittivo o nar-
rativo ripresa dalla L1 (Giacalone Ramat 1995)42. In contesti corrispondenti il
cinese userebbe la particella le con valore aspettuale perfettivo (Li e Thompson
1981). Il valore temporale della particella le in cinese è implicito, il valore di pas-
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sato è un’interpretazione di default, dal momento che le può riferirsi anche al pre-
sente e al futuro. Simile è la situazione del cantonese in cui il suffisso con valore
aspettuale è jó , usato in costruzioni seriali per esprimere una sequenza di azioni
(Matthews e Yip 1994:204sgg.)43. Il participio passato ha valore aspettuale in que-
sti contesti e compare accanto a forme “basiche” che descrivono un’azione in
svolgimento. In realtà quindi CH non marca il tempo sul verbo, ma la compiutez-
za di un evento (Giacalone Ramat 1995,1999 e in stampa).
I dati dell’ultima registrazione di CH, effettuata circa un anno e mezzo dopo
la prima, mostrano molti cambiamenti, non solo per quanto riguarda il lessico e il
numero di parole degli enunciati, ma anche nella struttura della grammatica.
I verbi appaiono accordati con maggiore regolarità, il participio passato è di
solito accompagnato da un ausiliare, come in (56).

(56) CH19: Int.: tua sorella quand’era in Cina faceva anche lei la
sarta?
CH: eh mia sorella minore eh sì in Cina ha lavorato eh sarta
….
L’ausiliare è “avere” (ha venuto), tuttavia in due occasioni CH produce cor-
rettamente: no(n) sono andato. L’ausiliare non è fornito in tutti contesti in cui è
obbligatorio in italiano per formare il passato prossimo44.
Come mostrano gli esempi (48) e (49), l’infinito è talvolta usato con funzio-

37 Utile, a questo proposito, il rinvio alla testimonianza riportata alla nota n. 46.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 483

ne di verbo principale, tratto comune ad altri apprendenti che tuttavia in CH non


è particolarmente vistoso. Un confronto con l’apprendente TU mette in luce dif-
ferenze significative. In TU l’infinito ha una frequenza di gran lunga maggiore:
raggiunge infatti il 35,9% di tutte le forme verbali con funzione di verbo princi-
pale (Banfi 1990:46 sgg., Valentini 1992:73). È stato calcolato inoltre che l’asso-
ciazione di pronome personale + infinito (il tipo: io lavorare) raggiunge in TU il
25% del totale dei pronomi associati a forme verbali, mentre in CH le occorrenze
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di pronome + infinito sono 20 in tutto, equivalenti al 4,3% dei pronomi associati


a forme del verbo. Se si tiene conto anche del fatto che TU non ha sviluppato l’au-
siliare e che durante il periodo di osservazione di sei mesi non si riscontrano indi-
zi di evoluzione nella sua grammatica, si concluderà che la varietà di TU è più
lontana dalla lingua di arrivo di quello di CH: Si tratta di un’apprendente fossi-
lizzato, di buona fluenza, con un sistema grammaticale ridotto45.
Nelle prime registrazioni gli usi dell’infinito con funzione di verbo principa-
le, aggiunti ad altri fenomeni considerati di mancato accordo, mostrano che CH
non ha sviluppato la nozione di verbo finito. È importante vedere allora quando
CH realizza che in italiano l’infinito è una forma dipendente (tranne alcuni casi).
Esamineremo in particolare i contesti di verbi modali seguiti dall’infinito che
nella lingua di arrivo danno luogo a costruzioni complesse del tipo non si può pas-
sare, deve leggere, vuole sposare. Nell’apprendimento dell’italiano queste costru-
zioni sono le forme più precoci di associazione tra predicati (Giacalone Ramat
1999b:48). Nelle prime registrazioni CH giustappone due predicati in forme appa-
rentemente finite, come in (56); in realtà si tratta ancora una volta di forme lessi-
cali prive di marche morfologiche. La prima occorrenza di modale+infinito si
trova nella 7^ registrazione (es. 57), la seconda nella 10^, poi la costruzione divie-
ne sempre più frequente senza tuttavia mai soppiantare del tutto la vecchia:

(56) CH09: questo signore ha detto eh c’è eh volio combra un eh


radio..

38 Le strategie di acquisizione vengono qui definite come le ipotesi formulate dall’appren-


dente per scoprire le regole grammaticali in senso lato della lingua. Si tratta di strategie cogni-
tive che utilizzano informazioni dell’input, compiono inferenze ed operazioni mentali di vario
genere, procedendo per analogia, associazione, induzione, abduzione.
39 Le registrazioni di CH sono state raccolte da Ada Valentini e sono consultabili nella
banca dati sull’apprendimento dell’italiano come L2 presso l’Università di Pavia:
http://www.unipv.it/wwwling/bancadati.html . Si veda anche Valentini 1992.
484 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

“questo signore ha detto voglio comprare una radio”


(57) CH07: io guardo lui a casa io volio entrare
“guardo se è in casa, voglio entrare”

La giustapposizione dei due verbi lessicali è influenzata dalla sintassi del


cinese, in cui è diffusa la cosiddetta serial verb construction, usata anche nei casi
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in cui in italiano si avrebbero subordinate di tipo completivo in dipendenza da


verbi di enunciazione e di percezione, come ad es.: CH10: lui ha detto dopo due
giorni parte Pechino “ha detto che due giorni dopo sarebbe partito per Pechino”.
Il successivo sviluppo dell’infinito con verbi modali sembra indicare che CH è
diventato consapevole del fatto che la seconda forma verbale è dipendente dalla
prima e che tale dipendenza è marcata mediante l’infinito (Giacalone Ramat
1999). In altre parole sembra di poter dire che da un certo punto in poi l’infinito
è usato come una forma non finita del verbo, limitata a contesti specifici, come i
predicati complessi o la dipendenza da preposizioni, e non più come variante del
verbo principale, come accade soprattutto nelle prime registrazioni. Uno sguardo
a dati quantitativi sul fenomeno trattato: 29 casi in cui i verbi volere, potere, dove-
re, bisogna sono associati a forme basiche o non marcate di fronte a 33 casi in cui
gli stessi verbi (tranne bisogna) sono seguiti dall’infinito. Nella 19^ ed ultima
registrazione la proporzione è di 6 forme non marcate (=23%) di fronte a 20 pre-
dicati complessi con l’infinito (=77%). Il rapporto pare decisamente sufficiente a
suggerire che CH ha appreso la nozione di infinito dipendente ed ha compiuto un
passo ulteriore verso la distinzione tra verbo finito e verbo non finito.
Da queste osservazioni si può concludere che c’è stato un notevole sviluppo per
quanto riguarda l’acquisizione delle proprietà del verbo finito, anche se persiste la
variazione e l’andamento non è rettilineo46. Il sistema di CH può essere definito in
movimento, diversamente da quello di TU che invece rappresenta un caso di “stato
finale”, di fossilizzazione del processo di apprendimento. L’età dei soggetti potreb-
be essere un fattore rilevante: a conferma di questa ipotesi si noti che i bambini cine-
si di 6 anni studiati da Calleri (1982), che frequentano una prima elementare a
Torino, raggiungono nel corso dell’anno scolastico una buona competenza della
temporalità e usano le stesse forme che usano i bambini nativi della stessa età.
Non appare con chiarezza dai nostri dati se ci sia una qualche priorità nel-
l’acquisizione delle marche temporali rispetto alle marche che segnalano l’accor-

40 Nel quadro della sintassi generativa la finitezza è una categoria funzionale che è parte
delle categorie funzionali INFL o AGR. Il concetto di finitezza implica anche una interrela-
zione con fenomeni sintattici quali la posizione della negazione (Schlyter 2000). Negli studi sul-
l’acquisizione di L1 e L2 si è insistito sull’importanza della flessione verbale per segnalare l’i-
nizio di un trattamento grammaticale della lingua.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 485

41 Alcuni studiosi che lavorano nel quadro teorico del generativismo hanno sostenuto che il
case marking corretto nei pronomi è indizio del fatto che il tempo è specificato come [+finito]
perché è il tratto T (ossia la categoria funzionale Tempo) che controlla il caso del soggetto
(Lardiere 1998). In questa ottica l’assenza di realizzazione morfologica dell’accordo di tempo e
persona non prova che le categorie funzionali di Tempo e Accordo siano assenti dalla gramma-
tica degli apprendenti. Le nostre indagini si inquadrano in modelli teorici di tipologia funzio-
nale più legati alle manifestazioni di superficie.
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486 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

42 Ad esempio, nei dati di FD una giovane donna cinese registrata da G. Massariello tro-
viamo:
a casa studia un liblo+++ studiato un liblo+ mh mangia un mela una me/
(Giacalone Ramat 1995:296)
43 ngóhdeih git-jó-f_n jauh heui douh maht-yuht
noi sposare-PERF poi andare passare luna di miele
“dopo esserci sposati andremo in luna di miele”
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(Matthews and Yip 1994:205).


44 Si noti anche che nella 19^ registrazione CH usa ancora il presente in un contesto che
richiede un passato perfettivo:
CH19: Int.: e fino a che ora siete stati in discoteca?
CH 32: a discoteca fino eh ++ non lo so perché io eh dodici eh io torno a casa per-
ché eh come ++giorno pressimo eh io vado a scuola
“non lo so perché sono tornato a casa a mezzanotte perché il giorno dopo dovevo
andare a scuola”
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 487

45 TU offre un bell’esempio di comparazione interlinguistica con gli strumenti di un par-


lante non colto, che mostra peraltro acutezza di osservazione. L’apprendente stabilisce una gra-
duatoria di difficoltà tra le diverse forme del sistema verbale dell’italiano (TU frequenta dei corsi
per stranieri, quindi ha sentito lezioni di grammatica, ma – confessa – quando torna a casa non
ha proprio tempo di aprire i libri). Dunque:
pasato più facile.. pasato sempre con to.. futuro anche non è molto difficile+++
imperfetto ind/indicativo+ condizionale sempre difficile++ perché tropo casino (TU
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09).
Nella stessa registrazione TU fa un confronto col cinese e osserva ;
verbo no cambia niente metono n picolo come italiano articolo sempre uguale arti-
colo+ sempre uguale+ no come qua cambiare tropo+ de l’ultima sempre cambiare
wo ni ta+ io tu lui loro noi voi sempre cambiare, no? Invece in Cina no cambiato
niente solo metono n articolo come questo+ sempre ugu/più facile
(TU09).
488 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT

46 Ci siamo soffermati più che altro sulla distanza tipologica tra l’italiano e il cinese, tut-
tavia è il caso di ricordare che ci sono vari fattori individuali che hanno un peso nello sviluppo
linguistico. Le produzioni di CH sono molto esitanti e mostrano lo sforzo di mettere insieme le
parole: le forme che presumibilmente CH ha acquisito non sono ancora completamente auto-
matizzate, al contrario sono scarsamente controllate, come mostrano appunto le molte esitazio-
ni. Occorre confrontare più percorsi di apprendimento in una coppia di L1-L2 per poter genera-
lizzare i risultati
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PARTE QUARTA
«STUDI DIDATTICI»
Conferenza Introduttiva

RÉMY PORQUIER
(Université de Nanterre-Paris-X)

«Gli corro dietro» / «Je lui cours après». / A propos d’une construction ver-
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bale spécifique en italien et en français

Le but de cet exposé est de montrer ou de suggérer, en tous cas d’illustrer, à


partir d’une observation sur un point de comparaison précis entre le français et l’i-
talien, et secondairement avec l’anglais,
1° la complémentarité entre les visées et les méthodes de la linguistique des-
criptive, de la linguistique contrastive, de la linguistique de l’acquisition et de la
didactique des langues;
2° le lien étroit, dans cette relation multiple, entre des catégories sémantico-réfé-
rentielles grammaticalisées et lexicalisées telles que la spatialité et la temporalité.

1. Comme l’indique le titre de l’exposé, on s’appuie sur une observation des-


criptive et contrastive d’un point très précis de la syntaxe de l’italien et du fran-
çais, dont la dimension sémantico-référentielle est signalée ou soulignée par les
grammaires, parfois de façon évasive ou allusive.
Le cas choisi touche à la fois au verbe, en italien et en français, et aux prépo-
sitions et adverbes dans ces deux langues, et plus précisément aux verbes, prépo-
sitions et adverbes relevant de la référence spatiale.
Si l’on part des deux exemples du titre:

(1) Gli corro dietro


(2) Je lui cours après

on en remarque inévitablement la construction identique, aussi bien que le


caractère très usuel de tels emplois dans l’une et l’autre langue. On peut décri-
re ces deux énoncés de diverses manières, soit de façon strictement syntagma-
tique, en en étiquetant les éléments successifs et interreliés (pronom + verbe
+ adverbe/préposition), soit de façon transformationnelle, en associant chaque
énoncé à un autre (Gli corro dietro à Corro dietro de lei pour l’italien; Je lui
cours après à Je cours après lui, pour le français) avec lequel il entretient une
relation syntaxique et sémantique précise. On peut également constater que ce
type de constructions et ce type de relations transformationnelles concernent, en
italien comme en français, un éventail assez large de verbes et d’adverbes/pré-
positions.
492 RÉMY PORQUIER

On n’abordera pas ici, sur ce point, une comparaison détaillée entre le fran-
çais et l’italien. Celle-ci, à faire en détail, supposerait en effet, une délimitation de
l’objet de comparaison et un inventaire approfondi en principe semblables pour
l’italien à ce que nous avons proposé (Porquier 2001) sur le français. On se limi-
tera donc à quelques observations de méthode, touchant à l’identification et à la
caractérisation de la structure considérée, d’une part, et à des questions termino-
logiques et notionnelles d’autre part.
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Comme on a pu le remarquer, j’ai parlé d’adverbes/prépositions, pour ne pas


trancher a priori, au moins pour le français, le statut de ces unités. La terminologie
même fait problème, comme en témoigne la consultation de diverses grammaires
du français. D’une part, une préposition régit en principe un élément qui lui est
postposé. Or, dans Pierre lui court après, l’élément régi (lui) est en position pré-
verbale. D’autre part, un tel élément postverbal (après) pourrait, de par sa position,
être considéré comme adverbe mais les adverbes n’ont en principe — au moins
dans cette position — pas de rection. Diverses grammaires du français, souvent
assujetties, dans l’esprit ou dans la lettre, à la typologie des parties du discours, en
viennent soit à rattacher ce type de structure au cas des prépositions dites «orphe-
lines» (effacement de l’objet, comme dans: (a) Il est venu avec, (b) Je suis pour,
(c) Tu es parti sans?), soit à catégoriser comme adverbes des unités non suivies
d’un nom ou d’un pronom régi. Cette tendance tient apparemment au fait qu‘une
bonne partie des prépositions et/ou adverbes concernés ont en français rigoureuse-
ment la même forme (devant, derrière, après, au contraire de sur/dessus, sous/des-
sous, dans/dedans), mais également à la stigmatisation ou à l’identification de ces
structures comme familières ou de langue parlée, ce qui les dédouanerait ou les
exclurait en quelque sorte d’une syntaxe canonique. Une analyse récente (Porquier
2001) tente de montrer, pour le français, l’utilité de distinguer un type spécifique
d’unité1, entrant dans des paires de construction (a, b) du type:

(3a) Je cours après Claude/lui/elle


(3b) Je lui cours après
(4a) Il a sauté sur moi
(4b) Il m’a sauté dessus

et d’en recenser les combinaisons et les paradigmes lexicaux et grammaticaux,


ainsi que les latitudes et restrictions sémantiques. En effet, ce secteur grammati-
cal concerne en même temps la sémantique et la syntaxe du verbe et des préposi-
tions/adverbes. Et le lexique.

1 que nous avons appelée p (la lettre grecque «pi») pour à la fois distinguer et neutraliser
l’opposition préposition-adverbe d’une part, et les termes de ‘préposition’ et ‘postposition’: p
recouvre alors une série d’adverbes, de prépositions, de locutions prépositionnelles et de locu-
tions adverbiales.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 493

D'un point de vue syntaxique, il m'a sauté dessus, je vais lui rentrer dedans,
cours-lui après peuvent être décrits selon deux constructions:

x + pronom + verbe + p
verbe + pronom + p

où p correspond à une forme prépositionnelle ou adverbiale2. On peut voir


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dans ces deux structures, en termes transformationnels, le résultat d'une montée,


sous forme de pronom clitique (Pro), de l'objet (N/Pro) régi par p:

V + prép +N --> V + Pro + _ (à l’impératif positif)


(5a) Saute sur N/lui (5b) Saute-lui dessus
x +V + prép +N --> x + Pro + V + p
(6a) Elle court après N/lui (6b) Elle lui court après.

On retiendra que, pour le français,

– l’inventaire des pronoms regroupe là les formes dites “objet indi-


rect” (b, 3b à 6b, et me, te, se, nous vous, lui, leur pour la première)
et concerne exclusivement des animés, alors que le sujet peut être
animé ou non
– que les deux constructions sont possibles avec des verbes réci-
proques ou réfléchis:
(7) ils se sont couru après
(8) tapez-vous dessus
– que cette construction, limitée à quelques prépositions/adverbes à
valeur prototypique spatiale, n’est possible qu’avec quelques dizai-
nes de verbes, relevant de quelques catégories sémantiques précises
et selon des valeurs «propres» ou «figurées» (ex. courir après qqn:
soit ‘le(la) poursuivre physiquement’, soit ‘le(la) poursuivre d’assi-
duités sentimentales’)3.

La spécificité de la structure abordée ici tient donc à plusieurs caractéris-


tiques: forme syntaxique, nature des pronoms, rection, objet animé, sémantisme
du verbe. On aura saisi qu’en réalité l’ensemble verbe + p fonctionne là, du dou-
ble point de vue sémantique, et syntaxique comme une unité lexicale (voir 2.).

2 A été exclue de l’analyse la structure avec complément d’objet, du type «Il m’a versé de
l’eau dessus», dont les propriétés sont sensiblement différentes.
3 Avant que le coq chante. Paris, Gallimard, 1953 (trad. par Nino Frank de Paesi tuoi. Prima
che il gallo canti. Einaudi, 1949).
494 RÉMY PORQUIER

2. La confrontation entre l’italien et le français sur ce point nous a été initia-


lement suggérée par la lecture d’une traduction française de Pavese4, où l’on trou-
ve les exemples suivants:

(9) […] il avait la trouille, il se regardait autour.


(10) «Si je me regarde autour, qu’est-ce que je vois?»
(11) Nous débouchions parmi les arbres, en nous regardant autour.
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(12) Elle se regarda autour, et descendit par le chemin […],

puis par une édition bilingue du même Pavese5:

(13) Ma guido le venne accanto Mais Guido vint près d’elle […]
(14) Voialtre non fate che corrervi dietro Vous ne faites que vous cou-
rir après

Les grammaires de l’italien font une place assez importante, avec un traitement
parfois détaillé, à ce qu’elles nomment «verbi sintagmatici’ et ‘verbi frasali’, pour
désigner des unités d’un statut voisin de celles mentionnées en 1 à propos du français.
La Grande grammatica italiano di consultazione (Renzi 1987) en traite à plu-
sieurs reprises, dans des chapitres différents6, dont nous extrayons la série
d’exemples qui suit:

• “ Il complem. indiretto può seguire certe preposizioni polisillabiche


[…] formando con esse complemente di luogo. Le preposizioni le
piu frequenti che si combinano con il complemento indiretto sono:
contro, davanti, dentro, dietro, sopra, sotto.“
Piero corre dietro a Maria / Piero le corre dietro
La mettero sopra al tavolo / Ce la mettero sopra
(La frase semplice. Complemento indiretto, I-64)
A chi ti sei mismo accanto
Mario le gira intorno
Gianni verra prima di Maria / * Gianni ne verra prima
Gianni verra invece di Maria / Gianni ne verra invece
Vivo insieme a/con Maria / Ci/*le vivo insieme
Andavo verso Maria/la citta / *Le/*ci andavo verso

4 La bella estate/Le bel été, Paris, Gallimard, 1955, (trad. Par Michel Arnaud).
5 Pour mieux mettre en évidence la relation entre plusieurs paires de phrases-exemples, nous les
avons regroupées et disposées ici d’une façon différente de celle figurant dans le texte de référence.
6 Une étude systématique serait à faire dans ce cadre, par exemple auprès d’apprentis ensei-
gnants et d’apprentis traducteurs, dans l’acquisition/apprentissage du français par des italopho-
nes, de l’italien par des francophones, mais aussi de l’italien et du français par des anglophones
et inversement.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 495

Gianni si è messo accanto a Maria / Gianni le si è messo accanto


Gianni veniva dopo Mario / *Gianni gli/ne veniva dopo
(Sintagma preposizionale, I, 524-529)
Carlo le corse dietro / Carlo corse dietro a Maria
Mario si venne encontro / Mario venne incontro a noi
Aldo le si mise davanti / Aldo si mise davanti a Carla
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“(preposizioni polisillabiche: addosso, appresso, contro, dietro,


incontro, sopra, ecc.)“.
(Pronome clitico dativo, I, 557-558)

Comme le montre Simone (1997), à propos des “verbi sintagmatici“ — un


calque, selon lui, de l’anglais “phrasal verbs“ —, ces unités ont en italien une structu-
re lexématique verbe + adverbe; “hanno una coesione e una coerenza particolari, e non
possono quindi essere ridotti a pure sommatorie di costituenti […] si collocano in una
zona grigia tra morfologia e lessico: non pare che si possa formulare una regola mor-
fologica […] per generarli“ (1997:157). Parmi les exemples qu’il présente, on peut en
retenir qui, comme ceux précédemment extraits de la GCIDC, correspondent exacte-
ment à la structure verbe + p du français (1997:163-164):

Ci ho pensato su
Mi viene dietro il cane
Gli è andato addosso

alors que d’autres ont un statut identique ou comparable aux phrasal verbs de
l’anglais (sur l’anglais, voir Biber & al. 1999), qui, pour être à valeur prototypi-
quement spatiale, n’impliquent pas le même type de rection syntaxique avec pro-
nominalisation qu’en italien ou en français. On en arrive donc à constater l’exis-
tence en italien de deux types de construction, l’une correspond aux phrasal verbs
de l’anglais, l’autre à la structure française verbe + p.
Cette observation comparative pourrait s’illustrer sommairement ainsi:

Schema 1
496 RÉMY PORQUIER

au moins jusqu’à une étude comparative plus poussée entre les trois langues pour
les unités concernées. Une telle étude pourrait s’étendre, avec quelques présomp-
tions de comparabilité, à d’autres langues romanes: la structure verbe + ___exis-
te par exemple en espagnol (se me echó encima, me viene detrás). Elle permettrait
en outre de confronter les latitudes et les limites lexico-sémantiques de ses
emplois dans les langues concernées (cf. par exemple si guarda intorno / *il se
regarde autour / il regarde autour de lui).
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3. Ce cas (évoqué en 1. et 2.) ne constitue qu’un point précis, voire un micro-


système, à l’intérieur des systèmes sémantico-lexico-syntaxiques de l’italien et du
français. Mais la relation entre le système verbal et la référence spatiale, au-delà
du point de vue descriptif, est à envisager du point de vue acquisitionnel et du
point de vue didactique. Soit à un niveau avancé d’appropriation, pour un cas tel
que celui évoqué7, soit à des niveaux plus élémentaires, pour l’acquisition des
moyens fondamentaux de référence à l’espace en relation avec l’expression des
procès.
La distinction désormais courante entre acquisition et apprentissage d’une
langue étrangère concerne la diversité des contextes et des processus d’appro-
priation selon qu’il s’agit de milieu et de processus guidés (cadrés par un envi-
ronnement éducatif, un programme, une méthode, une progression) ou non gui-
dés (par immersion sociale, en milieu «naturel», sans guidage institutionnel). Or,
dans les programmes guidés, l’enseignement et l’apprentissage des moyens de la
référence spatiale sont normalement canalisés par des descriptions préalables,
contrastives ou non, essentiellement de source grammaticale, tendant à distinguer
d’abord, pour ensuite les articuler, des catégories sémantico-grammaticales (pré-
positions et adverbes de lieu, localisation/mouvement, etc.) et lexicales (verbes de
mouvement-déplacement). Par ailleurs, cette démarche tend à programmer de
façon spécifique ce qui relève du verbe (temps, mode, aspect, personne, genre)
avec une priorité inévitable à l’expression du temps et des relations de temps.
Dans l’acquisition, en milieu non guidé, il n’existe pas de telle progression
préconstruite ni canalisée. Des études menées dans un tel cadre (voir Becker &
Carroll1997, Perdue 1993a et 1993b, Giacalone Ramat 1993 et 1995) mettent en
évidence des étapes fonctionnelles de progression, construites lors d’interactions
non didactiques avec des locuteurs natifs (et non natifs) et répondant à des besoins
communicatifs divers. Ces étapes, observées sur une diversité de langues sources
et cibles, paraissent correspondre à des principes généraux d’acquisition, comme
pour l’acquisition de la langue maternelle. Nous en signalerons brièvement trois

7 Punjabi -> anglais, italien -> anglais, italien -> allemand, turc -> allemand, turc -> néer-
landais, arabe -> néerlandais, arabe -> français, espagnol -> français, espagnol -> suédois, fin-
nois -> suédois.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 497

apports, touchant à la place du verbe dans la structuration de l’énoncé, et à la réfé-


rence spatiale.
L’étude du projet européen ESF sur l’acquisition des langues par des adultes
migrants (Perdue 1993a I et II, Perdue 1993b), portant sur une série de paires de
langues sources et cibles8 fait apparaître, aux premiers stades, une structuration
nominale des énoncés, puis progressivement une structuration verbale, avant le pas-
sage au stade de la structuration verbale fléchie, liée à l’acquisition de la morpho-
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logie verbale, et qui modifie chemin faisant la structure globale, y compris syn-
taxique (en termes de topic-focus ou de thème-rhème) des énoncés. L’acquisition du
lexique verbal est inscrite dans cet itinéraire et contribue à le structurer.
La recherche menée à Pavie (voir Giacalone, 1995) auprès d’apprenants adul-
tes de langues maternelles diverses (chinois, tigré, arabe, allemand, anglais, etc.) en
milieu majoritairement naturel met globalement en évidence une séquence d’acqui-
sition des temps verbaux, selon les étapes suivantes (Giacalone Ramat 1995, 6):

présent > part. passé (aux. + part. passé) > imparfait > futur,

succédant à des stades initiaux (‘pré basiques’) caractérisés par l’absence de


morphologie verbale (Bernini 1995).

Enfin, l’étude spécifique du projet ESF sur l’acquisition de la référence à


l’espace (Becker & Carroll 1997) montre, pour l’ensemble des configurations lan-
gue-cible/langue-source examinées (voir note 9) des étapes caractérisées d’appro-
priation des moyens de référence à l’espace. L’expression du déplacement appa-
raît avant celle de la localisation, et mobilise dans les premiers stades des moyens
autres que les verbes (ex. «autobus à la gare» (= ‘l’autobus va à la gare’) ou un
répertoire rudimentaire de verbes (du type aller ou venir) à des formes non fléchies.
D’autre part, les relations topologiques s’acquièrent plus tôt et/ou plus vite que les
relations projectives. Ensuite l’acquisition des relations projectives suit un ordre
axe vertical > axe latéral > axe sagittal.
Ces tendances globales, nettement affirmées dans chaque cas à travers la
diversité des paires de langues, suggèrent non seulement des similitudes séquen-
tielles dans l’itinéraire d‘acquisition de la référence temporelle et de la référence
spatiale, mais également des imbrications étroites, au double plan acquisitionnel
et descriptif, entre les outils verbaux, prépositionnels et adverbiaux impliqués,
dans des langues diverses (au moins dans les langues romanes et les langues ger-
maniques) pour l’expression de la référence au temps et de la référence à l’espa-
ce, à la localisation et au déplacement.

8 en réalité, cet emploi dépasse largement le ‘futur’ et le ‘proche’.


498 RÉMY PORQUIER

Un exemple emprunté au français, descriptif mais initialement informé par des


apprenants de langue étrangère, illustrera ce point. Le verbe aller peut être verbe
plein (verbe de mouvement-déplacement: je vais au théâtre, on ira au Rex revoir Il
Bidone) ou bien semi-auxiliaire (aller + infinitif) servant à exprimer le ‘futur pro-
che’9: tu vas être en retard, le film va commencer, j’allais justement partir. Un cer-
tain nombre d’énoncés du type aller + infinitif peuvent être ambigus, comme je vais
dormir ou ils allaient manger, l’un et l’autre pouvant exprimer aussi bien le futur
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proche qu’un mouvement-déplacement vers un lieu. Lorsqu’on rencontre chez des


non francophones apprenant le français des énoncés tels que *il ira partir, * je suis
allé rentrer chez moi, * il faut que tu ailles rester là, leur caractère agrammatical
(que ne signalent pas d’ordinaire les grammaires du français) révèle des contraintes
sémantiques impliquant et le système des temps verbaux et la référence spatiale.
Ces contraintes peuvent être formulées de deux façons:
• le verbe aller de ‘futur proche’, dans la construction aller + infini-
tif, est défectif: il ne fonctionne qu’au présent et à l’imparfait de
l’indicatif
• le verbe aller de ‘futur proche’ (et non celui de mouvement), dans la
construction aller + infinitif, est le seul compatible avec les verbes
de déplacement: dans ça va venir, l’élément va ne peut avoir que la
valeur dite de ‘futur proche’ Ainsi, dans le cas de deux verbes aller
en séquence, la seule interprétation possible est, pour le premier, ‘de
futur proche’: je vais aller lui parler, ça va aller mieux, avec les res-
trictions de temps-mode déjà indiquées.
De telles observations peuvent être étendues à d’autres formes périphras-
tiques (en français venir de ētrē ēn train de), à d’autres langues romanes que le
français, et par exemple à une comparaison italien-français sur cette imbrication
entre la référence temporelle et la référence spatiale autour du système verbal et
au-delà. Pareille comparaison mobilise d’une part des descriptions autonomes de
l’une et de l’autre langue, et d’autre part une description contrastive de la paire de
langues, celle-ci impliquant soit un tertium comparationis soit un cadre théorique-
descriptif commun, à base sémantico-référentielle. Nombre d’informations des-
criptives et contrastives sont fournies de longue date par les grammaires existan-
tes, du français pour italophones, de l’italien pour francophones. Mais à celles-ci,
naturellement polarisées en terme de langue source-langue cible, échappent un
certain nombre de données ou d’informations descriptives et comparatives, direc-
tement ou indirectement alimentées par les recherches acquisitionnelles dans des
contextes divers. Ainsi, la recherche sur l’appropriation des langues ne vise pas,
ou pas seulement, à tenter de mieux les enseigner, mais plutôt ou autant à mieux

9 Pour lequel on rencontre les mêmes contraintes: venir de + Vinf, à valeur de ‘passé immé-
diat’, n’est possible qu’au présent et à l’imparfait de l’indicatif.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 499

comprendre le fonctionnement des langues et les principes et processus généraux


de leur acquisition.

La complémentarité entre description des langues, comparaison des langues,


acquisition/apprentissage des langues et didactique des langues, que l’on a plus
haut évoquée à partir et à propos du système verbal et de la référence spatiale,
intéresse et concerne autant les sciences du langage que l’enseignement des lan-
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gues, et donc leurs interrelations.

Schema 2

Sans commenter ici ce schéma, à caractère suggestif, ni dégager les interrela-


tions qui dans cet ensemble complexe nous paraissent prédominantes, on soulignera
brièvement le rôle de l’observation empirique comme source méthodique d’infor-
mations sur le fonctionnement des langues et l’appropriation des langues, d’une part,
et d’autre part l’apport heuristique des recherches sur l’acquisition/apprentissage de
langues non maternelles à la description et à la comparaison des langues. Des
réseaux de relation figurés dans le schéma, on peut en effet s’intéresser en détail
à la diversité des configurations linéaires (à deux pôles) mais surtout triangulaires
qui s’y inscrivent.
500 RÉMY PORQUIER

BIBLIOGRAPHIE *

Becker Angelika, Carroll Mary, 1997, The acquisition of spatial relations in a second lan-
guage, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins.
Bernini, Giuliano, 1995, Au début de l’apprentissage de l’italien. L’énoncé dans une varié-
té pré basique. “Acquisition et interaction en langue étrangère“ (AILE), 5:15-46.
Biber, Douglas & al., 1999, Longman grammar of spoken and written English, London,
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Longman.
Giacalone Ramat Anna, 1993, Sur quelques manifestations de la grammaticalisation dans
l’acquisition de l’italien comme deuxième langue. “Acquisition et interaction en lan-
gue étrangère“ (AILE) 2: 173-200.
Giacalone Ramat Anna., 1995, Présentation. Acquisition et interaction en langue étrangè-
re (AILE) 5 (L’acquisition de l’italien langue étrangère): 3-14.
Maiden Martin, Robustelli, C, 2000, A reference grammar of modern Italian, London,
Arnold.
Perdue Clive (ed.), 1993a, Adult second language acquisition. Cross linguistic perspecti-
ves. Vol II. The results, Cambridge, Cambridge University Press.
Perdue Clive, 1993b, Comment rendre compte de la «logique» de l’acquisition d’une lan-
gue étrangère par l’adulte. Etudes de linguistique appliquée, 92: 8-22.
Porquier Rémy, 2001, ‘Il m’a sauté dessus’, ‘je lui ai couru après‘: un cas de postposition
en français. “French language studies“ 11: 123-134.
Porquier Rémy, Vives Robert, 1993, Le statut des outils métalinguistiques dans l’apprentis-
sage et l’enseignement au niveau avancé. “Etudes de linguistique appliquée“, 92: 65-77.
Renzi Renzo, a cura di,1987: Grande grammatica italiano di consultazione, Bologna, il
Mulino.
Simone Raffaele, 1997, Esistono verbi singtamatici in italiano? In: T. de Mauro & V. Lo
Cascio (eds) Lessico e grammatica. Teorie linguistiche e applicazioni lessicografiche.
SLI 36, Roma, Bulzoni:155-170.

* Je remercie Catherine Camugli-Gallardo pour ses conseils et apports bibliographiques


CECILIA ANDORNO
(Università di Pavia)

La collocazione dell’avverbio nell’acquisizione della flessione verbale in Ita-


liano L2
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0. PRESENTAZIONE

In questo contributo descriveremo il trattamento sintattico, in un gruppo di


apprendenti spontanei di italiano L2, di un insieme di avverbi di predicato – gli
avverbi fasali ancora, appena, già, mai, più – accomunati nella varietà nativa
dalla collocazione in posizione interausiliare e caratterizzati da una comparsa
relativamente precoce nelle varietà di apprendimento. Tale comparsa precoce, in
fasi dell’apprendimento in cui è in corso lo sviluppo del sistema verbale, pone
all’apprendente un problema di integrazione sintattica fra l’avverbio e il gruppo
verbale, problema che rivela i percorsi di ristrutturazione del sistema attraverso
cui l’apprendente si avvicina alla varietà nativa. Le tappe di questo percorso sono
qui illustrate sullo sfondo degli studi già condotti sullo sviluppo del sistema ver-
bale dell’italiano L2 all’interno del Progetto di Pavia1 e nel confronto con analo-
ghi studi effettuati per varietà di apprendimento di altre lingue di arrivo.

1. LO SVILUPPO DEL SISTEMA VERBALE


Lo sviluppo del sistema verbale è stato ampiamente indagato in linguistica
acquisizionale2, per la centralità che esso assume nell’evoluzione funzionale e
morfosintattica delle interlingue. Studi condotti su apprendenti di lingue di parten-
za e di arrivo diverse hanno messo in evidenza l’esistenza di percorsi ricorrenti, sia
nello sviluppo dei sistemi funzionali di tempo aspetto e modo (TAM), sia nello
sfruttamento delle diverse risorse linguistiche a disposizione per l’espressione di
tali funzioni.
Le prime varietà di interlingua sono organizzate su base prevalentemente
pragmatica: l’ordine delle parole segue un’articolazione topic-comment e non
sono distinguibili classi di parole chiaramente distinte sul profilo morfosintattico

1 Cfr. in particolare Bernini / Giacalone Ramat (a cura di) 1990 e Giacalone Ramat / Crocco
Galeas (a cura di) 1995.
2 Cfr. fra gli altri il progetto di Heidelberg (Dittmar / Klein 1979), il progetto ZISA
(Clashen/Meisel/Pienemann 1983); Andersen (a cura di) 1984; il progetto ESF (Perdue (a cura
di) 1982; Perdue (a cura di) 1993); il progetto di Pavia (Bernini / Giacalone Ramat 1990;
Giacalone Ramat / Crocco Galeas 1995).
502 CECILIA ANDORNO

o funzionale. La stessa individuazione di una classe di elementi verbali è quindi


problematica, come mostra il seguente esempio (Bernini 1990):

(1) \MK\ la casa tuto lavaggio [MK3.312]


TOPIC COMMENT
“per quanto riguarda la casa, la puliamo completamente”
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Successivamente l’enunciato comincia a organizzarsi sulla base degli schemi


attanziali del verbo: anche in questa fase, le forme sintatticamente qualificabili
come verbali, portatrici del valore lessicale dell’azione, non esprimono però
distinzioni temporali, aspettuali o modali. Possiamo cioè trovare in alternativa le
forme andato, vado, andare, ma l’alternanza non è sfruttata funzionalmente per
opporre valori TAM. La prima opposizione funzionale a stabilizzarsi è di tipo
aspettuale ed è costruita su una forma, modellata sul presente3, che esprime valo-
re non perfettivo, e una forma modellata sul participio passato, che esprime valo-
re perfettivo4. Le forme dell’infinito, anch’esse di precoce comparsa, possono
alternare con il presente negli stessi valori funzionali oppure specializzarsi su
valori specifici – tutti riconducibili alla non attualità, come l’abituale, l’intenzio-
nale, il futuro, il controfattuale – dando in questo caso vita a un sistema triparti-
to5. La successiva tappa di sviluppo – che, a differenza dell’evoluzione fin qui
vista, può richiedere parecchio tempo – è data dall’ingresso delle forme dell’im-
perfetto per esprimere il passato non perfettivo.
Il paradigma flessionale dell’interlingua è quindi a questo punto costituito da
quattro forme flesse lessicalmente piene del verbo (forme tematiche, in termini
generativi) che potremmo così descrivere6:

Tabella 1. Il primo sistema verbale in italiano L2

3 Può trattarsi di una delle prime tre persone del presente, usata indifferentemente per le
diverse persone, o comunque di una forma costituita dalla radice più una terminazione vocalica.
La flessione personale si sviluppa parallelamente alla flessione TAM, ma non ne tratteremo in
questo contributo.
4 Il participio congiunge, almeno inizialmente, valori aspettuali perfettivi e azionali telici,
come osserva Giacalone Ramat 1990. Le prime forme di participio sono infatti di verbi telici,
come fatto, andato, preso.
5 Nei dati di Berretta 1990 l’emergere per l’infinito di questo valore, insieme a quello di
marca di dipendenza in nessi verbali, sembra particolarmente precoce.
6 Le opposizioni funzionali descritte possono trovare mezzi di espressione alternativi di tipo
lessicale: già può marcare perfettività, basta un risultativo, sempre un iterativo o continuativo
(cfr. Massariello Merzagora 1990).
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 503

Il sistema della copula e degli ausiliari (forme atematiche), che pure concorrono
nell’italiano nativo a veicolare differenze TAM, si sviluppa parallelamente a questo,
ma con leggero ritardo. Nelle varietà iniziali non compaiono infatti né forme di ausi-
liare né di copula (Giacalone Ramat 1990, Bernini 1990); successivamente compare
la copula, mentre l’ausiliare fa il suo ingresso nell’interlingua solo dopo la costituzio-
ne del primo paradigma tematico, costituito dall’opposizione fra presente e participio.
Con l’ingresso dell’ausiliare, è a disposizione dell’apprendente un doppio
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sistema di marcatura delle funzioni TAM: quello che sfrutta le forme tematiche e
quello che si serve delle atematiche. L’introduzione del sistema delle forme ate-
matiche, che portano i valori di finitezza della predicazione su un’unità verbale
autonoma rispetto alla forma verbale portatrice di valore lessicale, ha importanti
ripercussioni anche sull’organizzazione della frase. Per mostrare quali ristruttura-
zioni del sistema tale innovazione renda necessarie, abbiamo analizzato le strate-
gie di integrazione degli avverbi fasali nell’interlingua di 12 apprendenti di quat-
tro diverse L1 (tigrino, cinese, inglese, tedesco), tutti compresi nella Banca Dati
di Italiano L2 del Progetto di Pavia e per la maggior parte già studiati relativa-
mente allo sviluppo del sistema verbale (cfr. Banca Dati di Italiano L2, 2001); i
dati relativi agli apprendenti sono presentati in Tabella 2.

Tabella 2. Gli apprendenti considerati 7

7 Le colonne riportano: la sigla e il nome con cui è identificato l’apprendente; la madrelin-


gua; il momento di inizio-fine dell’osservazione, misurato in mesi.giorni dall’arrivo in Italia; il
numero di registrazioni effettuate; il numero di occorrenze degli avverbi fasali considerati; la
consistenza dell’intero corpus, misurata come numero di occorrenze (questo dato è fornito auto-
maticamente dal programma DBT (DBT 1995) con cui sono stati analizzati i testi e include
anche il testo prodotto dall’intervistatore: le cifre vanno quindi considerate solo per confronto).
8 Gli avverbi sono stati computati solo nei valori di avverbio fasale; sono stati esclusi altri
usi, come l’uso quantitativo di più o le espressioni come meglio tardi che mai.
504 CECILIA ANDORNO

Tutti gli apprendenti si servono di enunciati a nodo verbale, ma, in propor-


zione più o meno consistente, permangono enunciati a nodo non verbale: questi
possono essere costituiti dal solo comment, con topic ellittico e ricostituibile sulla
base dell’immediato contesto, oppure pienamente articolati in topic e comment.
L’uso di enunciati a nodo non verbale non è ovviamente esclusivo delle varietà di
apprendimento, tuttavia la proporzione fra enunciati verbali e non verbali ci dà un
primo indice dell’abilità di strutturazione su base verbale. Nella Tabella 3 abbia-
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mo perciò elencato le diverse tipologie di enunciato ricontrate nei contesti da noi


analizzati, ovvero gli enunciati in cui è presente un avverbio fasale. Fra i sogget-
ti considerati, TU, CH, JO e MK presentano una proporzione consistente di enun-
ciati a base non verbale, anche articolati in topic-comment.

Tabella 3. Tipologia degli enunciati considerati per l’analisi

Le tappe di sviluppo del sistema verbale attraversate da ciascun apprendente


nel periodo di osservazione sono raffigurate schematicamente in Tabella 4 e
Tabella 5. Per quanto riguarda le forme tematiche, ad eccezione di MK, che per-
corre tutte le tappe di sviluppo a partire dalla varietà iniziale priva di opposizioni
TAM, tutti gli apprendenti considerati possiedono già, all’inizio del periodo di
osservazione, un paradigma di opposizioni funzionali: il sistema di TU, CH, JO,
EO e AB comprende le tre forme tematiche di presente, participio e infinito; TU
si arresta a questo livello10, mentre CH sviluppa successivamente l’imperfetto e

9 Occorenze isolate dell’avverbio, enunciati ripetuti integralmente dall’interlocutore nativo


e frasi lette da un testo scritto (alcuni incontri prevedevano la soluzione di esercizi scritti).
Queste occorrenze non sono state considerate per l’analisi.
10 TU produce due forme di imperfetto per copia dal parlato dell’intervistatore nativo. Non
prendiamo in considerazione occorrenze di questo tipo.
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 505

JO, EO, AB, oltre all’imperfetto, proseguono acquisendo altre forme (condizio-
nale, futuro, congiuntivo, passato remoto); FI, AN, MT, UL, che possiedono già
all’inizio delle osservazioni l’imperfetto, sviluppano successivamente altre forme;
FR possiede fin dall’inizio un sistema a più forme.

Tabella 4. Fasi di sviluppo del paradigma verbale tematico negli apprendimenti


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Per quanto riguarda le forme atematiche, MK è ancora l’apprendente con il


maggior sviluppo, mostrando inizialmente una varietà dotata della sola forma c’è
e successivamente arricchita della copula e dell’ausiliare; TU, CH e JO presenta-
no inizialmente solo la copula, e acquisiscono successivamente l’ausiliare; EO,
AB, XI, FI, AN, MT, UL, FR presentano l’ausiliare già alla prima osservazione.
Rispetto agli altri soggetti, FR mostra quindi un sistema già sviluppato all’inizio
delle osservazioni, ma questa situazione cela una situazione di fossilizzazione,
come si osserverà in seguito proprio guardando alla collocazione dell’avverbio.

Tabella 5. Fasi di sviluppo del paradigma verbale atematico negli apprendenti

2. LA POSIZIONE DELL’AVVERBIO

Gli avverbi fasali (o avverbi temporali di contrasto, TAC, cfr. Klein 1994),
presenti nelle varietà di apprendimento dell’italiano fin dalle varietà iniziali, sono
direttamente interessati allo sviluppo del sistema delle forme verbali. Tali avver-
bi sono collocati nella varietà nativa in posizione interausiliare11, ovvero, nei ter-

11 Cfr. Lonzi 1991; tralasciamo di discutere le differenze delle varietà regionali, dato anche
l’input prevalentemente di varietà settentrionali dei nostri apprendenti, per il quale la descrizio-
ne di Lonzi è appropriata.
506 CECILIA ANDORNO

mini di Klein 1998, seguono la forma verbale portatrice di finitezza (VFIN). Tale
forma può essere costituito da un verbo lessicalmente pieno (VLEX) o vuoto
(VNLEX). In Tabella 6 descriviamo le posizioni possibili per l’avverbio nella
varietà nativa in termini di finitezza e di valore lessicale.

Tabella 6. Posizione di TAC nella varietà nativa


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Poiché, come si è visto, l’ingresso delle forme atematiche (VNLEX) nell’italiano


L2 e la conseguente presenza nell’interlingua di due tipi di forme portatrici di fini-
tezza (VLEX e VNLEX), costituiscono l’ultima tappa di uno sviluppo piuttosto artico-
lato, verificheremo ora quali criteri regolino la collocazione degli avverbi fasali
prima di questa fase e attraverso quali ristrutturazioni del sistema si arrivi ad essa.
Abbiamo riportato i dati sulla posizione dell’avverbio rispetto all’enunciato in
Tabella 7. L’avverbio fasale compare tanto in enunciati a nodo verbale quanto in enun-
ciati a nodo non verbale e si colloca normalmente in posizione interna, intermedia fra
topic e comment, sia in frasi a nodo verbale sia in frasi a nodo non verbale:

(2) \CH\ genitori eh + sempre a casa [CH14.165]


TOPIC COMMENT
“i miei genitori stanno sempre a casa”
(3) \CH\ Fuzhou sempre eh: parlare putonghua [CH11.229]
TOPIC COMMENT
“a Fuzhou si parla putonghua”
La posizione esterna iniziale, separata dal comment, è più frequente nelle
varietà più arretrate. Ne abbiamo tracce in MK, JO e in FR:
(4) \MK\ io, non dormire a casa +
sempre io vado con una- sc:uola dal garvenamento
di Etiopia [MK3.454]
TOPIC COMMENT
“non dormivo a casa, andavo in un collegio del governo etiope”
(5) \JO\ è un paese molto cattolìca +
e sempre tutti ++ quasi tutti le scuoli cattolìca [JO1.304]
TOPIC COMMENT
“è un paese molto cattolico, quasi tutte le scuole sono cattoliche”
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 507

Negli apprendenti più sviluppati invece anche le posizioni esterne sono di


solito adiacenti al comment, sia in posizione finale sia in posizione iniziale:

(6) \XI\ noi siamo piccole ancora [XI10.581]


TOPIC COMMENT
“noi siamo ancora piccole”
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(7) \XI\ adesso già mo(r)to qu(el) re [XI9.626]


COMMENT TOPIC
“adesso quel re è morto”

La tendenza evolutiva quindi va verso la collocazione dell’avverbio fasale in


posizione precedente al comment. Questo risultato è conforme a quanto osserva-
to da Bernini (1996, 1999 e in stampa) per la posizione della negazione (NEG) in
italiano L2: la negazione tende, fin dalle varietà inziali, a collocarsi nel punto di
snodo fra topic e comment, in posizione antecedente al comment. Con enunciati
a nodo verbale, questa posizione si traduce in una posizione preverbale, poiché il
verbo è di solito il primo elemento in comment. Questa strategia, che si sviluppa
con continuità fra gli enunciati a nodo non verbale e quelli a nodo verbale, rispon-
de a un principio semantico di adiacenza fra il modificatore e la sua portata: gli
avverbi fasali e la negazione hanno infatti scope sulla predicazione, della quale
definiscono rispettivamente i valori tempo-aspettuali e la polarità di asserzione.

Tabella 7. Posizione di TAC nell’enunciato rispetto all’articolazione


topic-comment

La collocazione preverbale dell’avverbio è conforme alla varietà nativa per la


negazione, ma ne è difforme per l’avverbio fasale, la cui collocazione nella varietà
nativa è legata alla qualifica di finitezza: l’avverbio fasale si colloca dopo la forma
verbale finita (cfr. Tabella 6). Il sistema richiede quindi ulteriori sviluppi, che
508 CECILIA ANDORNO

osserveremo considerando ora i soli enunciati a nodo verbale (la prima colonna
della Tabella 3).
La tendenza alla collocazione preverbale è maggioritaria nelle varietà più
arretrate, in cui il processo di acquisizione del sistema verbale atematico e tema-
tico è nelle fasi iniziali, ma diminuisce negli apprendenti in cui il sistema è pie-
namente sviluppato. Nei dati di JO l’unico esempio di TAC interno in enunciato
a nodo verbale è preverbale:
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(8) questo uccello sempre canzone/ can/ cantant/?come si dice cantan-


tende? [JO07.128]

Nei dati di TU, la proporzione di posizioni preverbali di TAC rispetto al tota-


le delle occorrenze è di 47:64; nei dati di CH di 28:31; nei dati di MK di 14:21.
La proporzione scende drasticamente negli apprendenti più avanzati: in Fiona è di
2:25; in Ulrike di 4:43; in MT di 0:36. Per capire quali forme sono interessate da
questo mutamento e attraverso quali percorsi questo avviene, è opportuno consi-
derare separatamente le due categorie di verbo lessicalmente pieno e di ausiliare
o copula. Diamo un esempio della situazione di Xiao, che si presenta come la più
coerente:

(9) poi ancora pesca di nuovo in una scatola [XI5.445]


VLEX, TAC preverbale
(10) Hong Kong c’è ancora un persone [XI13.667]
VNLEX, TAC postverbale
(11) non sono ancora uficio sono fuori [XI15.494]
VNLEX, TAC postverbale
(12) mio nonna è settanta anni non è ancora caduto dente [XI2.456]
VNLEX + VLEX, TAC interverbale

L’avverbio fasale in Xiao quindi precede il verbo lessicalmente pieno e segue


l’ausiliare e la copula. Se si considerano le produzioni di tutti gli apprendenti
separando il trattamento di VLEX e VNLEX (Tabella 8), è possibile vedere un per-
corso, dagli apprendenti meno avanzati ai più avanzati, di progressivo sposta-
mento dell’avverbio fasale in posizione postverbale, spostamento che chiara-
mente si compie con ausiliari e copula prima che con le forme lessicalmente
piene.
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 509

Tabella 8. Posizione di TAC con VLEX e VNLEX


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Abbiamo illustrato schematicamente il percorso di apprendimento di nega-


zione e avverbi fasali nella Tabella 9. Nelle prime varietà a strutturazione verba-
le, dotate prevalentemente di forme tematiche semplici (TU, CH, JO), negazione
e fasali vengono trattati in modo uniforme, occupando la posizione antecedente il
comment, già propria delle varietà a struttura non verbale e tradotta, nelle frasi a
nodo verbale, in una posizione preverbale. L’ingresso delle forme atematiche
innesca una ristrutturazione che porta nel tempo a una distinzione fra negazione e
fasali. In un primo momento, tutti gli avverbi continuano a essere posti in posi-
zione preverbale, precedendo anche le forme atematiche, ma in un secondo
tempo, sulla spinta dei dati difformi forniti dalla varietà nativa, l’avverbio fasale
inizia a “scavalcare” l’elemento verbale. Il criterio secondo cui questo sposta-
mento avviene è legato al contenuto lessicale del verbo: l’avverbio continua a pre-
cedere l’elemento lessicalmente pieno della predicazione, VLEX, ma può scaval-
care l’elemento lessicalmente vuoto, VNLEX. In questa fase di transizione si trova-
no, a diversi livelli di evoluzione, MK, AB, XI e AN. Spie ne sono, oltre ai dati
quantitativi riportati in tabella, che mostrano una diversa tendenza per la scelta
della posizione di TAC con VLEX e VNLEX12, le incertezze e la sporadica colloca-
zione anche dell’avverbio negativo in posizione postverbale con VNLEX (cfr.
Bernini 2001):

(13) \XI\ non ancora lo so/ non lo so [XI14.244]

12 Agiscono in questa fase anche meccanismi di diffusione delle strutture per singoli lesse-
mi: con alcuni avverbi – in particolare con le strutture comprendenti una negazione: (non…) più,
(non…) mai, (non…) ancora – lo spostamento in posizione postverbale dell’avverbio fasale
avviene prima.
510 CECILIA ANDORNO

(14) \XI\ io non ancora non ho sentito [XI14.272]


(15) \AB\ la sua madre è già è reg/ regolare [AB6.118]

Successivamente gli apprendenti approdano ad un’ultima fase, in cui l’avver-


bio fasale “scavalca” anche il verbo lessicalmente pieno (FI, UL, MT). Il sistema
è a questo punto conforme alla varietà nativa13.
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Tabella 9. Fasi di ristrutturazione della posizione dell’avverbio rispetto al verbo

4. CONCLUSIONI

A differenza di quanto avviene per la negazione, la cui posizione pre-verba-


le, conforme alla varietà nativa, è già attestata nei primi enunciati a nodo verbale,
la posizione degli avverbi fasali richiede all’apprendente di italiano L2 un lungo
periodo di elaborazione, crucialmente collegato all’evoluzione del sistema verba-
le, che può considerarsi concluso solo in apprendenti in cui quest’ultimo è piena-
mente sviluppato e stabilmente attestato nell’uso sia per il paradigma tematico sia
per il paradigma atematico. Un risultato analogo abbiamo già riscontrato in ita-
liano L2 per la posizione dei focalizzatori additivi e restrittivi con portata sul pre-
dicato (cfr. Andorno 2001 e in stampa), per i quali si rilevava una iniziale tenden-
za alla posizione preverbale, mutata in posizione post-VFIN solo a seguito di suc-
cessive ristrutturazioni. Il percorso di acquisizione, che vede attestata la posposi-
zione dell’avverbio per le forme atematiche prima che per le forme tematiche,
presenta inoltre analogie con quanto osservato per altre lingue su gruppi di avver-
bi che hanno nella varietà nativa posizione post-VFIN: alle stesse conclusioni giun-
gono infatti Parodi 1998 (tedesco L2) e Giuliano 2000 (inglese e francese L2) per
la negazione; Dimroth 1998 (tedesco L2) e Benazzo 2000 (francese, tedesco e

13 Un caso a parte è costituito da Frieda, in cui la collocazione dell’avverbio fasale si è arre-


stata a una fase più arretrata rispetto allo sviluppo del sistema verbale: si tratta infatti di un sog-
getto fossilizzato, che presenta uno sviluppo disomogeneo nei diversi sottosistemi della propria
interlingua (cfr. Drei 1986).
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 511

inglese L2) per i focalizzatori additivi e restrittivi. Tale percorso ricorrente non
può essere giustificato che su basi semantico-pagmatiche, indipendenti dalle lin-
gue di partenza e di arrivo coinvolte. Osservando l’enunciato sotto il profilo della
struttura informativa, gli avverbi in questione risultano essere collocati nel punto
di snodo fra topic e comment, in posizione precedente il comment:

1. AVV COMMENT
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Ora, gli avverbi considerati sono tutti modificatori del comment: in particola-
re, la negazione ne modifica la polarità assertiva; gli avverbi fasali il valore
tempo-aspettuale; i focalizzatori additivi e restrittivi vi agiscono come quantifica-
tori (Longobardi 1988). La posizione pre-comment risponde quindi a un criterio
semantico che sembra largamente operativo nelle varietà di apprendimento,
secondo il quale un elemento modificatore è immediatamente seguito dal proprio
scope (cfr. anche Becker / Dietrich 1998). In enunciati a nodo verbale, la posizio-
ne pre-comment si traduce poi, nelle lingue considerate, in una posizione prever-
bale, essendo il verbo il nucleo della predicazione e, nella struttura sintattica
lineare, il primo elemento della porzione in comment:

2. AVV V

Nelle fasi successive, laddove questa struttura contrasta con i dati della varietà
nativa, il sistema di interlingua deve essere ulteriormente elaborato. È il caso, per l’i-
taliano L2, degli avverbi fasali e focalizzanti, e, per le altre lingue citate, di negazio-
ne, avverbi fasali e focalizzanti: le regole di collocazione degli avverbi di predicato
devono cioè essere integralmente ristrutturate nelle interlingue di francese, inglese e
tedesco, mentre per l’italiano tale ristrutturazione riguarda i soli avverbi focalizzanti
e fasali. Le strutture dell’italiano nativo relative a questi avverbi presentano tuttavia
delle difficoltà di integrazione, in una varietà di apprendimento ancora prevalente-
mente operante su criteri lessicali-semantici e non morfosintattici: da questo punto di
vista, il sistema nativo appare infatti incoerente, in quanto l’avverbio viene talvolta
anteposto, talvolta posposto all’elemento lessicalmente pieno (cfr. ancora Tabella 6).
Una prima revisione della struttura enunciata in operante nelle varietà di apprendi-
mento, ancora basata su un criterio lessicale-semantico, prevede la preposizione del-
l’avverbio al primo elemento predicativo lessicalmente pieno; l’avverbio resta quin-
di preposto al verbo tematico, ma viene posposto all’ausiliare e alla copula, renden-
dosi così adiacente al primo elemento lessicalmente pieno (LEX) del comment:

3. (VNLEX) TAC (VLEX o LEX)

Tuttavia, è solo con una completa ristrutturazione delle regole sulla base della
categoria di finitezza che le varietà di apprendimento approdano al sistema nati-
vo. Il passaggio alla struttura conseguente:
512 CECILIA ANDORNO

4. VFIN TAC (VNFIN)

richiede però un pieno consolidamento del sistema verbale tematico e atemati-


co nativo e si realizza compiutamente solo in apprendenti decisamente avanzati.
Alcune peculiarità della lingua d’arrivo possono quindi render ragione di una
ristrutturazione tanto lenta e incerta rispetto alla rapidità di sviluppo della prima
morfologia verbale. L’italiano, rispetto all’inglese, al tedesco e al francese, è un siste-
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ma meno coerente nella scelta della posizione dell’avverbio di predicato, poiché pre-
vede posizioni diverse per gruppi avverbiali diversi. Mentre per la negazione – l’av-
verbio di predicato più precocemente appreso e di gran lunga più usato nelle varietà
di apprendimento –, è prevista la posizione pre-VFIN che appare, anche sulla scorta
delle succitate osservazioni interlinguistiche, la più naturale sulla base del criterio
semantico di precedenza del modificatore allo scope, per gli avverbi fasali e focaliz-
zanti è richiesta la posizione post-VFIN. L’apprendente di italiano deve quindi svi-
luppare, per questi soli avverbi, un sistema ad hoc basato su una categoria, quella di
finitezza, fino a questo punto sconosciuta allo sviluppo dell’interlingua.
La maggior lentezza di apprendimento può poi essere data da un’altra pecu-
liarità delle interlingue di italiano. Le varietà di apprendimento dell’italiano si
contraddistinguono per una precoce sensibilità alla morfologia flessiva, che porta
gli apprendenti allo sviluppo di sistemi di opposizioni di forme tematiche molto
prima di quanto accada per altre interlingue (Bernini 1990, Berretta 1990,
Giacalone Ramat 1990). Il fatto viene imputato da un lato alla peculiare salienza
della morfologia flessiva dell’italiano – che si distingue in ciò dalle altre lingue di
arrivo menzionate, le quali non conservano che irregolari tracce di un sistema fles-
sivo –, dall’altro alla discreta trasparenza – per la relativa biunivocità fra forma e
funzione e regolarità di formazione – che caratterizza la morfologia verbale del-
l’italiano, almeno nelle forme interessate dalle prime tappe di apprendimento
(participi passati, infiniti, imperfetti)14. Per converso, anche in virtù della facilità
e rapidità con cui è costituito un sistema di opposizioni di forme tematiche, la
marcatura TAM attraverso le forme atematiche resta nelle interlingue di italiano
una strategia secondaria, che compare solo in seguito al fissarsi delle prime oppo-
sizioni di forme tematiche e raggiunge la pervasività propria della varietà nativa
solo in apprendenti avanzati15. Viceversa, il sistema di marcatura TAM sulle forme

14 La più elevata allomorfia del participio passato causa infatti qualche fenomeno di fossi-
lizzazione.
15 Benché la strategia di marcatura TAM sulle forme atematiche non sia in italiano né il
primo ad emergere né quello prevalente, esso si presenta in alcune occorrenze sporadiche come
alternativo a quello di marcatura sulle forme tematiche. Questo è mostrato, come rilevato anche
da Bernini 2001, da sporadiche costruzioni di ausiliare + forma tematica in cui il solo ausiliare
si carica dei valori TAM. È il caso di forme di ausiliare al presente seguite da una forma tema-
tica al presente o infinito, con valore di perfettività:
\CH\ lui detto ho io ha uccidere [CH12.374]
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 513

atematiche è la strategia inizialmente prevalente nelle varietà di apprendimento di


olandese e inglese (Starren in stampa, Giuliano 2000): anche in questo caso, le
varietà di apprendimento seguono le peculiarità delle varietà di arrivo, che a fronte
di un sistema flessivo tematico ridotto e poco trasparente, presentano un articolato
sistema di ausiliari. L’apprendimento di strutture dipendenti dall’opposizione fra
forme tematiche e atematiche risulterà quindi avvantaggiata in un sistema che sfrut-
ta sistematicamente l’opposizione fra queste forme, come sono l’inglese e l’olande-
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se e le relative varietà di apprendimento, mentre sarà sfavorito in un sistema preva-


lentemente centrato sulle forme tematiche, come l’italiano.
Abbiamo ricordato all’inizio di questo lavoro come dati derivanti da varietà di
apprendimento di lingue diverse mostrino sostanziali punti di contatto nelle tappe
evolutive osservate. Tuttavia, i tempi in cui questo sviluppo si verifica e i mezzi lin-
guistici attraverso cui esso si attua variano in dipendenza da parametri legati, fra il
resto, alle caratteristiche specifiche della lingua di arrivo. Secondo i modelli fun-
zionali delle varietà di apprendimento (cfr. Klein / Perdue 1993, Giacalone Ramat
1993), il cammino acquisizionale degli apprendenti è inizialmente guidato da prin-
cipi pragmatici e semantici interlinguisticamente ricorrenti, che producono – al di là
della specificità del materiale lessicale e morfologico, ovviamente proprio della lin-
gua di arrivo – le osservate somiglianze fra varietà di apprendimento di lingue diver-
se. Principi come la disposizione lineare di topic-comment, la costituzione di una
categoria verbale portatrice di predicazione o l’antecedenza del modificatore alla
propria portata sono esempi di queste proprietà ricorrenti. Progressivamente, per
impulso del costante confronto con la varietà d’arrivo, le varietà di apprendimento
vanno poi ristrutturandosi, integrando tali principi semantico-pragmatici con le cate-
gorie e regole morfosintattiche della varietà di arrivo. La varietà nativa, che in un
primo momento si presenta come «lingua lessificatrice» per varietà di apprendi-
mento regolate da principi funzionali propri e prevalentemente universali, in segui-
to ne impronta e orienta le successive tappe di sviluppo, prestando alle varietà di
apprendimento le proprie specifiche categorie morfosintattiche e diventando quindi
progressivamente effettiva “lingua d’arrivo”.

\AB\ è passato di lì/ di là allora lei ha credo che era un altro [AB4.538]
\FI\ la prossima + giorno abbiamo fare/ ha fatto ancora + di autostop [FI9.159]
o forme di ausiliare all’imperfetto seguite da una forma tematica al presente o infinito, con
valore di passato imperfettivo:
\JO\ e molto triste ma++ anche+ ero+ contente + perché ero ehm?lasciare? […] lasciavo
l’Irlanda [JO3.155]
\MK\ secondo me eh: se – i documenti – non c’è erano di lui + non/non era: trovare
tu/teléfono numero [MK10.336]
“secondo me, se i documenti di lui non c’erano, non trovava (non poteva trovare) il nume-
ro di telefono (ipotetica di primo tipo: “siccome i documenti non c’erano…”)”
o ancora costrutti in cui l’ausiliare porta la marca di persona:
\MK\ noi_non fa: non non ha f:/siamo non ha fatto la nostra spettacolo [MK6.336]
“non abbiamo fatto il nostro spettacolo”
514 CECILIA ANDORNO

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CARLA BAGNA
(Università per Stranieri di Siena)

Il verbo e le sue reggenze: regolarità e anomalie in apprendenti di italiano L2


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0. INTRODUZIONE

In questo contributo si intende presentare una parte dei risultati di una ricer-
ca che ha avuto come obiettivo principale l’analisi qualitativa e quantitativa delle
preposizioni in apprendenti avanzati di italiano L21. In particolare si sono volute
verificare le seguenti ipotesi:

• in uno stadio avanzato di acquisizione dell’italiano quali problemi si


possono riscontrare nell’uso delle preposizioni e, in particolare, in
che modo vengono trattate da parte di apprendenti avanzati le reg-
genze verbali;
• quali caratteristiche presentano gli errori o le deviazioni dalla lingua
standard;
• quali elementi dell’analisi possono contribuire alla teoria dell’ac-
quisizione e alla teoria dell’apprendimento.

1. CARATTERISTICHE DEL GRUPPO DI INFORMANTI E DEL CORPUS

Uno dei principali problemi è stato definire in modo preciso l’apprendente


cosiddetto avanzato. Esistono infatti diverse accezioni del termine a seconda che
si consideri l’apprendente avanzato dal punto di vista della linguistica acquisizio-
nale (Lambert 1997, 1998, Bartning 1997a-b, Kihlstedt 1998, Carlo 1998, Chini
1998, Watorek 1998), o in base al livello di padronanza di una lingua straniera,
accertato attraverso giudizi di grammaticalità o verifiche della competenza, come
avviene nella glottodidattica (in particolare Lennon 1990, 1991, 1993, 1996,
Coppetiers 1987, Birdsong 1992, Schairer 1992, Zobl 1992, White & Genesee
1996, Grenfell & Harris 1998, Mandell 1999). Partendo quindi dal presupposto
che il termine avanzato poteva risultare in parte ambiguo, prevedendo di conside-

1 Il titolo della ricerca, svolta dalla scrivente e oggetto della tesi di Dottorato in Didattica
dell’Italiano a Stranieri, è il seguente: Preposizioni in apprendenti di italiano L2 di competenza
quasi-bilingue/quasi-nativa. Usi e funzioni di un sistema in evoluzione: riflessioni teoriche e
implicazioni didattiche, Siena, Università per Stranieri, A.A. 2000-2001.
518 CARLA BAGNA

rare apprendenti la cui competenza fosse stata misurata e valutata come avanzata,
abbiamo preferito una definizione di apprendente quasi-bilingue per gli infor-
manti che abbiamo utilizzato. Proprio per avere un gruppo che risultasse rappre-
sentativo di una competenza valutata secondo parametri precisi, la scelta di un
gruppo di informanti appartenenti al livello più alto di una certificazione è sem-
brata la soluzione più trasparente. In particolare sono stati scelti 80 candidati che
hanno superato, sia in Italia che all’estero, nella sessione di dicembre ’99, il livel-
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lo QUATTRO della Certificazione di Italiano come Lingua Straniera (CILS), rila-


sciata dell’Università per Stranieri di Siena. Il profilo della competenza di un can-
didato di livello QUATTRO corrisponde al livello C2 del Framework (1996-2001)
ed è esplicitato nelle Linee Guida CILS (1998: 33) in questi termini:

“il livello avanzato della competenza in italiano come lingua straniera


prevede un ulteriore ampliamento degli usi linguistici e la reale capa-
cità del candidato di dominare una vasta gamma di situazioni comuni-
cative. Permette di dominare non solo tutte le situazioni informali e for-
mali di comunicazione, ma anche quelle professionali.
È il livello che deve possedere uno straniero che voglia insegnare ita-
liano; richiede una completa formazione linguistica. La produzione
dovrà dimostrare un’ottima padronanza della lingua italiana, anche se
non è richiesta una competenza del tutto paragonabile a quella di un
parlante nativo.
È il livello ottimale per docenti e personale supplente che insegna nelle
scuole italiane statali e legalmente riconosciute con insegnamento
impartito in lingua italiana, per docenti di lingua e cultura italiana
(corsi legge 153/71), per interpreti e traduttori presso la rete diploma-
tico-consolare. Per quanto riguarda l’ambito della formazione è il livel-
lo ottimale per chi frequenta il diploma universitario per insegnanti di
italiano a stranieri, un corso di perfezionamento o una scuola di spe-
cializzazione su tematiche legate all’insegnamento dell’italiano a stra-
nieri.

Poiché ogni livello CILS è costituito da diversi test per misurare e valutare la
comprensione dell’ascolto, la comprensione della lettura, la produzione scritta e
la produzione orale, le strutture di comunicazione dell’italiano, per lo studio delle
reggenze verbali e delle preposizioni abbiamo scelto di trattare in particolar modo
le produzioni scritte. Tale motivazione trova origine in primo luogo nel fatto che
la prova di produzione scritta è una prova aperta e quindi, al di là dell’input dato,
il candidato può scegliere le forme che ritiene più adeguate ed esatte per argo-
mentare le proprie opinioni; di conseguenza si presume che scelga la forma per
lui più corretta. Inoltre è stata analizzata anche la seconda prova scritta, una prova
semistrutturata (una lettera) che richiede sì formule fisse (di apertura e di chiusu-
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 519

ra, di saluto, scelte di registro ecc.), ma che lascia in parte libero il candidato2.
Non è stata considerata la produzione orale in quanto nella prima prova il candi-
dato dialoga con l’esaminatore e quindi la variabile ‘esaminatore’ (diverso per
ogni candidato) può influire sulla struttura del parlato, mentre il monologo richie-
derebbe una ricerca a sé proprio per il fatto che si tratta di parlato. Ciò non toglie
che una seconda ricerca che consideri il monologo degli stessi apprendenti di cui
è stata analizzata la produzione scritta non possa essere svolta.
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Per quanto riguarda il profilo generale di competenza di riferimento si tratta


di un livello molto alto, ma esiste all’interno dello stesso livello e anche per ogni
abilità un continuum, proprio perché un candidato può superare l’esame con un
minimo di 11 punti per ogni abilità (per un totale di 55 punti) fino a un massimo
di 20 punti (per un totale di 100). Da sottolineare inoltre che sono stati scelti 80
candidati (su 191 presenti per il livello QUATTRO nella stessa sessione d’esame)
che hanno superato al primo tentativo l’esame3. Lo studio ha anche previsto grup-
pi di controllo, in particolare sono state analizzate le prove dei candidati che
hanno affrontato, prima del livello QUATTRO, anche il livello TRE; le prove di
un candidato che ha sostenuto i quattro livelli CILS; esempi di italiano scritto; il
cloze test svolto dagli stessi 80 informanti.
Un ultimo aspetto da considerare è la L1 dei candidati, che presenta una sud-
divisione di tal genere:

2 Il candidato doveva svolgere due produzioni scritte, scegliendo uno tra gli argomenti pro-
posti, in particolare per la prova 1 i temi erano i seguenti: a) “Si parla spesso di ‘infanzia nega-
ta’. I numerosi conflitti presenti nel mondo ripropongono sempre in primo piano i traumi psico-
logici e fisici causati ai bambini ai quali viene negata la possibilità di giocare, studiare, cresce-
re. Esprimi un'opinione sulla situazione dell'infanzia nel tuo paese e sul futuro che intravedi per
i bambini del 2000”; b) "La pubblicità è l'anima del commercio – dice un vecchio detto. Oggi si
è sommersi di pubblicità che abbagliano tutti per strada, alla radio, in televisione. Secondo te
quanto la pubblicità condiziona e quanto invece è necessaria per proporre nuovi prodotti?”; per
la prova 2 la scelta era tra i seguenti input: a) “Lavori come giornalista per una rivista specializ-
zata. Scrivi il resoconto di una manifestazione culturale che si è verificata recentemente nella tua
città”; b) “Sei il rappresentante dell'associazione che raccoglie i residenti in Italia del tuo paese.
Scrivi al presidente della provincia in cui risiedi per comunicare le iniziative previste per il pros-
simo anno e per richiedere eventuali finanziamenti alle attività”.
3 È possibile infatti per i candidati che superano solo le prove relative ad alcune abilità capi-
talizzare il risultato ottenuto e sostenere le prove insufficienti entro un anno dalla data del primo
esame. Per questo motivo un candidato CILS può ottenere tre esiti diversi: promosso (p), capi-
talizzato (c), non promosso (np).
520 CARLA BAGNA

Tabella 1. Le L1 degli 80 candidati


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L’immissione dei dati è avvenuta tramite un foglio elettronico, tipo Excel, e a


ogni apprendente è stato attribuito un codice5.
Il corpus ha dovuto seguire i criteri di un modello di analisi. Partendo dal pre-
supposto, come vedremo in seguito, che gli studi e le ricerche che si sono occupate
di preposizioni non hanno creato modelli di analisi omogenei che fossero in grado
di descrivere in modo univoco il valore sintattico e semantico delle preposizioni via
via studiate, per lo studio che presentiamo abbiamo scelto dei criteri che potessero
affiancare la forma della preposizione, la segnalazione del suo status rispetto al tipo
di uso (corretto, non corretto, dubbio) e al tipo di errore, se presente.

2. LE PREPOSIZIONI

Una teoria descrittiva delle preposizioni, nel caso dell’italiano, come di altre
lingue, lascia aperti numerosi interrogativi, in cui si distinguono studiosi che trat-
tano le preposizioni solo come elementi di relazione, quindi con un ruolo sintatti-
co ben preciso, oppure dal punto di vista del contenuto semantico e lessicale che
ogni preposizione può apportare e aggiungere agli elementi che unisce. Da

4È lo stesso informatore a definirsi bilingue.


5Per es.: 01C-POR-56-E-001, 01C indica il candidato – POR la L1 (portoghese) – 56 il
voto globale – E (la sede d’esame, in questo caso una sede estera) – 001 (il numero progressivo
della forma).
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 521

Guillaume a Brøndal a Pottier, agli studi più recenti di Vandeloise (1993),


Berthonneau & Cadiot (1991, 1993), così come negli studi italiani di diversa
impostazione (Crisari 1971, Berretta 1974, 1979, Parisi-Castelfranchi 1974) e
anche in quelli di linguistica acquisizionale (Bernini 1987), l’obiettivo delle ricer-
che è stato di rendere compatibile una teoria sintattica con una teoria semantica,
mantenendo, però, nel caso delle preposizioni, in particolare di alcune (di e a in
primo luogo), denominazioni quali ‘preposizione vuota, incolore’ che rendessero
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l’idea degli interrogativi ancora aperti. Se infatti non si può dire che le preposi-
zioni, in particolare quelle proprie, abbiano subito dei cambiamenti particolari,
non sono aumentate né diminuite, l’apporto semantico sembra rimodellarsi conti-
nuamente.
Se poi consideriamo anche solo le più recenti grammatiche descrittive dell’i-
taliano (in particolare Serianni 1988, Renzi-Salvi 1988, Dardano-Trifone 1985-
1995, Sensini 1997), i dizionari (Dizionario di Italiano Sabatini-Coletti – DISC
1997, Grande Dizionario Italiano dell’Uso – GRADIT 1999, Vocabolario della
Lingua Italiana di N. Zingarelli 2000), non troviamo una linea comune che con-
senta di districarsi da interrogativi relativi agli usi delle preposizioni, dove spesso
è la provenienza geolinguistica del parlante, oltre al contesto, a stabilire usi e
regole delle preposizioni. Inoltre non dimentichiamo che l’italiano è ricco di una
serie di locuzioni preposizionali, unità lessicali complesse o polirematiche e di
altre costruzioni utilizzate come tali (o come routines) in cui talvolta la preposi-
zione non sembra avere alcun ruolo se non una presenza grafica, che l’uso, per
ora, non elimina.
In ultimo, queste particelle così frequenti rappresentano tasselli, in alcuni
casi necessari, in altri superflui, nella struttura di una lingua e questo non fa che
consolidare il loro status di categoria grammaticale ‘vaga’. Se prendiamo cinque
grammatiche italiane, i valori semantici indicati per le preposizioni proprie (tab.
n. 2), anche se in parte combaciano, non sembrano essere esaustivi e chiarifica-
tori.

3. L’ANALISI QUANTITATIVA

Il corpus contiene 34.862 forme, incolonnate in modo tale che ogni cella di
Excel contenga una sola parola (con criteri particolari per i nomi propri, il verbo
esserci ecc.); le preposizioni occupano un totale di 7451 celle: in questo gruppo
sono inserite anche forme non riconducibili a preposizioni vere e proprie, ma arti-
coli, sostantivi, aggettivi, avverbi che costituiscono parti di locuzioni preposizio-
nali o di polirematiche con preposizioni. Per indicare il nucleo del nostro corpus
dobbiamo quindi apportare un’ulteriore selezione.
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522
CARLA BAGNA

Tabella 2. Valori semantici delle preposizioni proprie


IL VERBO E LE SUE REGGENZE 523

Tabella 3. Le preposizioni 6
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Il totale degli errori (#, #ar, #arp, #bis, #i, #p7), a cui possiamo aggiungere
anche casi dubbi e omissioni, è di 515 forme che rispetto alle 7451 forme consi-
derate rappresenta solo il 6,91%. Se poi sottolineiamo solo le forme segnalate con
# (errore di preposizione), 313, e le rapportiamo a 5525, abbiamo una percentua-
le del 5,66%. Questi dati indicano chiaramente che l’incidenza degli errori è
bassa, testimoniando quindi che le preposizioni vengono usate correttamente in
più del 90% dei casi.

4. L’ANALISI QUALITATIVA

In questo contributo consideriamo gli errori relativi alle reggenze verbali con
preposizione (1° caso), le preposizioni che reggono verbi all’infinito (2° caso) e
le polirematiche con preposizioni categorizzate come verbi (3° caso).

4.1. 1° CASO. GLI ERRORI R, R+, R-. Sotto l’etichetta r sono stati raggruppati
gli errori dovuti a problemi di reggenze e in particolare alla scelta errata della pre-
posizione che il verbo regge. Sono gli errori in cui l’apprendente inserisce una
preposizione dopo un verbo, ma non si tratta di quella esatta.Vi sono 33 errori di
questo tipo in tutto il corpus, commessi solo da 24 informanti su 80. Se in primo

6 preposizioni articolate = pzar, preposizioni non seguite da articolo = pz, preposizioni


seguite da un verbo all’infinito = pz(v), preposizioni seguite da articolo determinativo = pz(ar),
preposizioni seguite da articolo indeterminativo = pz(i), preposizioni seguite da articolo partiti-
vo = pz(arp), preposizioni articolate seguite da un verbo all’infinito = pzar(v), preposizione unita
ad articolo indeterminativo = pzi, forme che compongono locuzioni preposizionali = lopz, forme
che compongono unità lessicali complesse o polirematiche = po, forme che compongono locu-
zioni preposizionali o polirematiche da accertare = ^lopz, ^po.
7 errore di preposizione = #, errore di articolo determinativo = #ar, errore di articolo parti-
tivo = #arp, errore ripetuto dallo stesso apprendente = #bis, errore di articolo indeterminativo =
#i, errore di un elemento della locuzione preposizionale o della polirematica con preposizione =
#p.
524 CARLA BAGNA

luogo sorprende il dato numerico, l’analisi quantitativa può fornire riflessioni di


carattere qualitativo: a livelli avanzati gli errori non si concentrano su strutture
definite quali quelle appunto del verbo e dei suoi argomenti, quanto nella scelta
delle preposizioni per altri complementi. Solo 24 informanti compiono errori di
reggenze che, però, sono limitati a 1-2 casi in produzioni scritte che presentano
una media di 436 parole ciascuna. Se questo quindi può portare a pensare che a
livelli avanzati esistono pochi problemi di reggenze verbali, sorprende che gli
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errori siano simili, non tanto nel tipo di errore quanto negli elementi interessati
dall’errore, in particolare verbi appartenenti per lo più al Vocabolario di Base
(VdB) e frequenti.

Tabella 4. Gli errori R

Per errori r+ (Tab. 5) intendiamo i casi in cui il verbo è seguito da una pre-
posizione dove invece dovrebbe esserci un complemento diretto. Si tratta di 21
esempi, appartenenti a 16 informanti in cui il dato che stupisce maggiormente è
la L1 degli apprendenti che presentano tali errori: si tratta infatti prevalentemente
di spagnoli e portoghesi e questo è un chiaro segnale di come questi errori siano
causati dall’interferenza della L1. Colpiscono, infatti, alcuni errori in cui il verbo,
invece di reggere il complemento diretto, è seguito da una preposizione (aiutare
a q.no, ringraziare a q.no), errori che possono essere dovuti a un’interferenza
anche a questi stadi da parte della L1, o anche al tipo di input, visto che nell’ita-
liano regionale spesso verbi come aiutare, ringraziare sono seguiti dalla preposi-
zione a. In ogni caso si tratta di errori che sembrano per lo più insoliti, non chia-
ri in apprendenti che hanno alle loro spalle un percorso di apprendimento dell’i-
taliano, in vari contesti, guidato e spontaneo. Non dimentichiamo inoltre che sono
esempi tratti da produzioni scritte.
Tali errori rispetto agli errori r ci sembrano più significativi, visto che se da
una parte gli esempi sono sporadici, dall’altra interessano verbi che rientrano nel
bagaglio lessicale di un apprendente iniziale. Il fatto che a tali livelli si presenti-
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 525

no ancora questi tipi di errori, riguardanti non verbi utilizzati con un’accezione
specialistica, o all’interno di testi particolarmente complicati, pone interrogativi
che non possono non andare a ricadere anche sulla didattica. La didattica a questi
livelli deve sbloccare le fossilizzazioni presenti, esplicitando i problemi con una
riflessione accurata, o deve affidare all’input il ruolo di rendere sensibile l’ap-
prendente a certi fenomeni?
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Tabella 5. Gli errori R+

Il simbolo r- (Tab. 6) raggruppa i 18 casi in cui il verbo è seguito da un com-


plemento diretto dove invece sarebbe richiesta una reggenza con preposizione.
Anche in questo caso ciò che risulta interessante è il fatto che si tratta di costru-
zioni con verbi del VdB, dove viene dimenticata la preposizione se vi sono strut-
ture parallele, oppure troviamo un che polivalente dove sarebbe necessaria una
preposizione più il pronome. Rispetto a r siamo numericamente agli antipodi,
visto che i 18 esemipi di r- provengono da 13 informanti e si tratta di un fenome-
no più marginale.
L’esame dei tre casi, r, r+, r- ci può condurre alla conclusione che gli appren-
denti tendono a inserire preposizioni dove non sono necessarie e non viceversa.
Sono soprattutto, però, i casi di verbi seguiti da preposizione a indicare una com-
petenza ancora incerta. Intendiamo dire che se nel caso di r+ ed r- assistiamo a
una scelta precisa, sono gli errori r ad indicare l’incertezza dell’apprendente. In
questo senso se gli errori r+ servono a sottolineare il ruolo dell’interferenza o del-
l’input deviato, sono però i casi r a rendere sensibile la riflessione dell’appren-
dente sulle strutture che usa.
Infine notiamo che un altro dato è la distribuzione degli errori: i casi di r+
sono distribuiti tra gli apprendenti con voti più bassi, mentre man mano che la
competenza aumenta troviamo più casi di r. Anche questo fatto conferma il ruolo
della L1 che abbiamo riscontrato più evidente negli esempi r+.
526 CARLA BAGNA

Tabella 6. Gli errori R-


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4.2. 2° CASO. Si tratta di 650 verbi all’infinito retti da preposizioni, dipendenti


a loro volta da verbi, sostantivi, aggettivi ecc.; si riscontrano 45 errori, distribuiti
nel seguente modo:
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 527

18 e, errori di scelta della preposizione;


12 e+, aggiunta di preposizione dove non necessaria;
10 e-, omissione della preposizione;
2 a-, assenza di articolo;
1 o, errore di ortografia;
1 c, e, errore di cotesto e di scelta della preposizione;
1 c, e+, errore di cotesto e aggiunta di preposizione.
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Se consideriamo il caso dei verbi all’infinito preceduti da preposizioni, pos-


siamo riscontrare almeno due fenomeni rilevanti: a) rispetto al 1° caso trattato tro-
viamo apprendenti appartenenti a un gruppo di L1 diverse, in particolare unifor-
mi di L1 tedesca e inglese, b) rispetto alla tipologia di errori si notano due schie-
ramenti, il primo in cui l’infinito sostantivato soggetto è preceduto da una prepo-
sizione dove non necessaria (e+), il secondo in cui l’errore è da ricondurre a pro-
blemi di reggenza di verbi con l’infinito (e).

4.3. 3° CASO. Per quanto riguarda le polirematiche e, in particolare, i verbi


con all’interno una preposizione, la situazione sembra alquanto articolata: in
primo luogo abbiamo distinto le polirematiche tratte da Èulogos da quelle che
vanno accertate sui dizionari e da quelle che hanno una posizione ancor più incer-
ta, dall’altra abbiamo verificato se l’uso era adeguato o meno. Eliminando quindi
le polirematiche che appartengono ad altre categorie grammaticali abbiamo otte-
nuto 10 verbi (po), 2 dei quali vengono ripetuti più volte, ai quali vanno aggiunti
i 46 verbi che abbiamo classificato come polirematiche da accertare (^po), Nessun
apprendente ha commesso errori nell’utilizzo dei 10 verbi (po), nessuno ha scrit-
to, per es., mettere alla pratica piuttosto che mettere in pratica. Negli esempi
invece della seconda colonna della tab. 7 tra verbi polirematici, alcuni sono atte-
stati anche dal GRADIT, come varianti sinonimiche, altri sono da considerare
come polirematiche a parte (essere di scena, restare a piedi), altri sono inseriti per
la struttura che presentano tra le polirematiche. Da notare che vi sono solo 2 casi
dubbi e un errore vero e proprio (passare nella storia) in cui non viene ricalcata
la struttura in uso passare alla storia, ma ne è stata creata una che potrebbe avere
significato diverso. Chi può infatti dirci, se non l’apprendente, se passare nella
storia ha il significato di passare attraverso la storia o passare alla storia nel
senso di ‘diventare famoso’? In questo caso è il cotesto a rendere sinonime pas-
sare nella storia e passare alla storia.
La mancanza di errori tra le polirematiche fa pensare che siano state interio-
rizzate senza essere analizzate e che almeno nel caso dei verbi non vi sia una pro-
duttività da parte degli apprendenti, come invece nello stesso corpus si nota con
le unità lessicali complesse categorizzate come sostantivi, avverbi, aggettivi.
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528
CARLA BAGNA

Tabella 7. Le polirematiche: i verbi


IL VERBO E LE SUE REGGENZE 529

5. CONCLUSIONI

Abbiamo considerato 3 casi particolari in cui verbi e preposizioni sono pre-


senti in modo differente all’interno di testi scritti prodotti da apprendenti quasi-
bilingui quasi nativi di italiano L2. Gli errori (e i non-errori) evidenziati permet-
tono di fare alcune considerazioni e di ipotizzare che a questi livelli di competen-
za, per i casi che abbiamo trattato, esista una sequenza implicazionale che vede
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come scoglio ancora da superare il problema delle reggenze verbali:

polirematiche > di a da + infinito > verbi + argomento.

Se consideriamo, però, il continuum implicazionale, che emerge dall’intera


ricerca, e non solo da questi tre casi, avremo due sequenze, una in base al tipo di
errore e l’altra in base al tipo di preposizione. Nella prima troveremo gli errori di
scelta della preposizione e, tra gli errori meno diffusi, la mancanza dell’argomen-
to del verbo:

r- > r+ > o > e+ > r > e- > a- > m > a+ > ? > e,

nella seconda, invece, la sequenza relativa al tipo di preposizione maggior-


mente interessata da errori:

lopz, po > pz(i) > pz > pz(ar) > pz(v) > pzar > ^lopz + ^po > pzar(v) > pzi.

Tralasciando pzar(v) e pzi per i valori esigui, abbiamo una sequenza con
caratteristiche che confermano ai due estremi la presenza da una parte delle forme
meno intaccate da fenomeni di ricodificazione semantica e strutturale, come le
polirematiche e le locuzioni preposizionali, e, dall’altra, l’area in cui maggiore è
il tentativo da parte dell’apprendente di applicare regole di analogia nei confron-
ti delle lopz e po oppure di adattare fenomeni anche della propria L1.
Per i 3 casi considerati possiamo concludere che se alcuni problemi di reg-
genze possono trovare qualche causa nell’input degli apprendenti, input che peral-
tro non possiamo conoscere del tutto nel dettaglio, rimane latente una contraddi-
zione: all’esiguo numero di errori si riscontra una qualità degli errori che a questi
livelli poteva essere ritenuta ormai superata. È proprio da questa riflessione che
devono partire delle proposte per far intervenire la didattica dell’italiano L2 sulla
base dello stadio acquisizionale registrato negli esempi.
Due infatti sono le aree in cui è auspicabile che la didattica dell’italiano L2 si
inserisca: da una parte, riprendendo la sequenza ipotizzata in questa sede, si occu-
pi di quelle aree in cui maggiormente si presentano problemi, quindi le reggenze
verbali, l’uso della preposizione con o senza articolo, dall’altra, partendo proprio
dalle produzioni (scritte o orali) e da quei casi che risultano dubbi, o in qualche
530 CARLA BAGNA

modo riflettono meccanismi di applicazione analogica di strutture della lingua ita-


liana, meno disponibili quindi ai cambiamenti, costruisca percorsi ad hoc. In que-
sto modo l’apprendente sarebbe portato ad ampliare il proprio ventaglio di scelta.
È questa la linea che si potrebbe adottare nel caso delle polirematiche, un’area da
una parte bloccata, dall’altra aperta alla creazione di nuove unità complesse,
applicabili a diversi contesti e cotesti. Abbiamo specificato che il gruppo di
apprendenti considerato, per aver affrontato il livello QUATTRO CILS, ha la
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competenza minima per insegnare italiano nel proprio paese d’origine, anche se
in alcuni casi sono presenti evidenti lacune a livello morfologico e sintattico. Pur
sottolineando quindi che si tratta, in ogni caso, di apprendenti che hanno affron-
tato un percorso di apprendimento dell’italiano mediamente lungo, in modo gui-
dato e anche spontaneo, si auspica un’azione puntuale e specifica sugli usi delle
preposizioni, tenendo sempre presente che persino le grammatiche e i dizionari
non sono univoci nel definire e distinguere gli usi delle preposizioni e che reper-
tori sistematici delle preposizioni con una gamma ampia ed esauriente di esempi
non esistono. Le preposizioni vengono apprese fin dagli stadi iniziali, con forme
e funzioni che deviano dalla lingua obiettivo, ma è indubbio che alcuni valori
semantici (locativi e temporali in particolare) siano appresi. Se quindi obiettivo è
anche quello di formulare ipotesi di applicazione didattica che possano rendere
maggiormente sensibili gli apprendenti nei confronti di quelle preposizioni che
presentano un più ampio uso (in particolare di, a, per ecc.) una didattica delle pre-
posizioni va teorizzata e applicata in ogni fase dell’insegnamento dell’italiano L2.
Anche la presenza di errori diversificati in base alla L1 del candidato, problemi di
reggenze, soprattutto per gli ispanofoni, e di preposizioni che introducono verbi
all’infinito, soprattutto per anglofoni e germanofoni, deve produrre un modello di
insegnamento che possa essere applicato nei casi di classi di apprendenti omoge-
nei. Da ciò deriva che l’insegnante dovrà formalizzare in modo più sistematico
l’uso delle preposizioni, anche in base al tipo di apprendente. In alcuni manuali
osserviamo schede e tabelle relative ad alcune preposizioni per determinati con-
testi e cotesti, ma non è mai sottolineato il legame tra le varie funzioni delle pre-
posizioni. Le funzioni ‘di relazione’ e ‘subordinante’, individuate dalle gramma-
tiche italiane, vanno trattate in sede di insegnamento, creando continui paralleli-
smi tra le preposizioni come elemento di reggenza, di supporto ad articoli, di rela-
zione tra due elementi. Solo in questo modo, considerata la frequenza delle pre-
posizioni nell’input di un parlante nativo, verranno sistematizzate. Il tratto delle
preposizioni, nonostante l’analisi degli errori svolta, è acquisito, ma la didattica
non può esimersi dal cercare di indirizzare l’apprendente verso strutture standard.
La semplicità del sintagma preposizionale ha un’ombra di difficoltà data dal pro-
filo semantico che alcune preposizioni conservano ed è probabilmente per questo
che esiste un’area in cui le preposizioni si rimodellano. È in virtù di quell’area che
apprendenti e parlanti nativi si confondono e confrontano.
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 531

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MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI
(Università per Stranieri di Siena)

Il verbo nei materiali didattici per immigrati stranieri


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1. PREMESSA

Il presente lavoro nasce nell’ambito delle attività di ricerca realizzate all’in-


terno del Centro Certificazione CILS dell’Università per Stranieri di Siena1. Il
principale campo di attività del Centro CILS è la valutazione della competenza in
italiano L2: questo ha portato al costituirsi di un patrimonio di produzioni di stra-
nieri che hanno appreso l’italiano sia in contesto spontaneo sia in contesto guida-
to, inseriti in percorsi formali. La ricerca sviluppata opera quindi in un terreno di
contatto fra l’apprendimento spontaneo e l’apprendimento guidato, fra i processi
di apprendimento e quelli di insegnamento.
È proprio in questa direzione che si muove il presente studio. L’obiettivo che
ci proponiamo è di trovare punti di contatto fra due discipline linguistiche: la lin-
guistica acquisizionale e la glottodidattica, attraverso l’analisi di manuali per l’in-
segnamento dell’italiano a stranieri e utilizzando come parametro di analisi i risul-
tati delle ricerche di linguistica acquisizionale.
Anche in Italia si sono moltiplicati negli ultimi venti anni gli studi inerenti
questa disciplina. Oggetto di studio della linguistica acquisizionale sono state
soprattutto la descrizione e l’esplicitazione del modo in cui si sviluppa la compe-
tenza in una L2: è stata seguita ed analizzata l’evoluzione ‘naturale’ dell’interlin-
gua degli apprendenti, per arrivare a disegnare una mappa delle varietà di appren-
dimento sviluppate: da quelle iniziali, più ristrette e povere di regole, a quelle
avanzate, più ampie ed elaborate, che presentano tratti tali da renderle vicine alla
lingua del contesto in cui si svolge l’apprendimento.
Lo sviluppo dell’apprendimento di una L2 è oggetto di studio anche della
glottodidattica, ma da una differente angolatura. Scopo di questa disciplina è l’in-
dividuazione dei modi e dei mezzi più efficienti ed efficaci per attivare e guidare
il processo stesso di apprendimento, in modo da ottenere nel più breve tempo pos-
sibile i risultati migliori e più pertinenti da parte dell’apprendente.
Le due discipline, anche se sono ancora considerate come aree distinte della
ricerca linguistica, la prima esclusivamente teorica, la seconda di tipo più appli-

1 La presente relazione è frutto di un’analisi e di una riflessione comune fra le autrici, pur
se ciascuna è responsabile di singole parti: Monica Barni è autrice dei parr. 1 e 3, Silvia Lucarelli
del par. 2, Fiammetta Carloni dei parr. 4 e 5.
536 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

cativo, condividono in realtà lo stesso oggetto di studio, cioè l’apprendimento lin-


guistico.
Sono aspetti ampiamente dibattuti la validità e l’interesse dei dati ricavati dalle
ricerche sull’acquisizione delle lingue seconde per la teoria linguistica generale, in
quanto chiavi di accesso per “gettar luce sui processi mentali e per osservare in iso-
lamento l’azione dei principi universali che governano tanto il funzionamento delle
lingue quanto la loro acquisizione” (Giacalone Ramat 1990: 124). Oggi si cerca di
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realizzare una interfaccia fra questi stessi dati e la didattica di una lingua straniera.
Infatti, come affermato da Anna Giacalone Ramat (2001: 68), “è ragionevole assu-
mere che i processi naturali di sviluppo della competenza linguistica e la progressio-
ne dell’apprendimento nel contesto scolastico siano processi comparabili e fonda-
mentalmente dello stesso tipo, che si basano sulle capacità linguistiche innate degli
esseri umani (su quelli che i linguisti chiamano ’universali linguistici’) e su processi
cognitivi anche questi comuni”. L’osservazione di come si sviluppa una seconda lin-
gua può avere dei riflessi importanti per la didattica e si può quindi arrivare a sup-
porre che “l’insegnamento di una lingua in ambito istituzionale, in contesto guidato,
avrà tante più possibilità di successo quanto più seguirà il processo naturale di acqui-
sizione e non si porrà in conflitto con esso” (Giacalone Ramat 1992: 484).
Studi sperimentali sulla possibilità di interazione fra l’apprendimento sponta-
neo e l’insegnamento sono stati realizzati a partire dal fondamentale volume di
Krashen e Terrell (1983) fino agli studi di Nunan (1987), di Pienemann (1986 e
1998), secondo il quale l’ordine naturale di acquisizione non deve essere modifi-
cato in caso di apprendimento in contesto guidato. Bachman e Cohen (1998)
hanno inoltre cercato di stabilire un dialogo fra la linguistica acquisizionale e un
altro aspetto della linguistica applicata, il language testing.
In Italia, come abbiamo visto, sono proprio coloro che si sono maggiormente
impegnati nelle ricerche di linguistica acquisizionale ad auspicare che si sviluppi
anche una didattica acquisizionale per dare una prospettiva di applicabilità alle
ricerche teoriche. Intendiamo per didattica acquisizionale una didattica linguistica
che non violi l’ordine naturale di acquisizione, tracciando dei percorsi di apprendi-
mento che utilizzino come base quei fenomeni linguistici che finora sono stati ana-
lizzati e per i quali si è arrivati a delineare una sequenza di acquisizione condivisa.
Come abbiamo detto, scopo del nostro studio è evidenziare possibili forme di
interazione fra la linguistica acquisizionale e la glottodidattica, partendo dall’a-
nalisi di un particolare aspetto della lingua italiana: il sistema verbale e il suo trat-
tamento in alcuni materiali per l’insegnamento dell’italiano a stranieri.
Il processo di acquisizione del verbo in italiano L2 è stato uno degli aspetti
indagati per primi e in maniera più sistematica da parte della linguistica acquisi-
zionale (ricordiamo in particolare Giacalone Ramat 1990, Bernini / Giacalone
Ramat 1990, Giacalone Ramat 1993, Giacalone Ramat / Crocco Galèas 1995). Il
sistema verbale dell’italiano è molto complesso e articolato in un’ampia varietà di
forme (Berretta 1992). Sul verbo vengono espresse non solo le categorie di tempo,
aspetto e modo, ma anche le informazioni sul numero e talvolta anche sul genere
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 537

del soggetto. Per questo motivo la morfologia verbale italiana è un settore molto
difficile da apprendere, non solo secondo il giudizio degli studiosi (Berretta 1990:
182), ma anche degli stessi apprendenti di italiano come L2, secondo i quali risul-
ta essere l’ostacolo strutturale maggiore all’apprendimento stesso (Vedovelli
1990: 247, 2001: 133).
Le ricerche di linguistica acquisizionale hanno portato all’individuazione
della sequenza di acquisizione delle marche morfologiche che nel verbo italiano
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segnalano le distinzioni di aspetto, di tempo e di modo (Giacalone Ramat 1993,


2001). Tale sequenza si presenta nel modo seguente:

presente > ausiliare + passato prossimo > imperfetto > futuro > con-
dizionale > congiuntivo

Oggetto della nostra indagine è un confronto fra la sequenza di acquisizione


del sistema verbale delineata dalla ricerca, che è stata utilizzata come parametro
di riferimento, e la sequenza di insegnamento che viene proposta in vari manuali
di italiano per stranieri.
Vogliamo ancora sottolineare che la glottodidattica ha una sua autonomia
rispetto alla linguistica acquisizionale. La prima ha una funzione prettamente
descrittiva, mentre la seconda deve esercitare quella forzatura grazie alla quale i
processi di apprendimento subiscono un’accelerazione rispetto ai tempi dell’ac-
quisizione naturale in modo da ottenere i risultati migliori.
L’obiettivo principale che si propone la nostra indagine è quello di elaborare un
modello conoscitivo di analisi di materiali didattici, uno strumento di analisi che sia
in grado di fornire agli insegnanti parametri che li aiutino da una parte a conoscere
i materiali didattici esistenti per sceglierli in modo consapevole e, dall’altra, a pro-
gettare autonomamente l’offerta formativa e i materiali stessi. Il profilo del docente
al quale pensiamo è quello del docente-ricercatore, cioè del docente che sa bene che
non è possibile utilizzare un unico strumento didattico in tutte le situazioni di inse-
gnamento e con tutti i tipi di destinatari della propria azione formativa.
La nostra analisi non ha solo una prospettiva ricognitivo-descrittiva, ma anche
interpretativa, dato che si riferisce ad un modello teorico: il parametro di inter-
pretazione è dato dalla sequenza naturale di acquisizione, come ci indicano la
ricerche sull’apprendimento spontaneo.

2. IL CORPUS
Il corpus su cui è stata effettuata l’indagine è costituito da sette manuali per
l’insegnamento dell’italiano a stranieri2.

2 I sette manuali sono stati ordinati e identificati con le lettere dalla A alla G in base all'an-
no di pubblicazione, senza fornire informazioni sui titoli, sugli autori, o sulle case editrici (v.
tabella n.1).
538 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

Si tratta di testi pubblicati negli ultimi dieci anni, prodotti dunque negli anni
in cui le ricerche di linguistica acquisizionale sull’italiano L2 si sono fortemente
sviluppate. Sono quindi tutti testi potenzialmente influenzabili dai risultati rag-
giunti da essa.
Tutti e sette i manuali si rivolgono esplicitamente a apprendenti nello stadio
iniziale del loro processo di apprendimento. Sono tutti dedicati ad adulti, nella
maggior parte di essi si specifica ad adulti immigrati3. La crescente presenza di
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lavoratori immigrati ha portato in tempi brevi all’attivazione di numerosi corsi di


lingua italiana, e quindi anche all’esigenza di creare materiale didattico specifico
per questo tipo di pubblico. Questi manuali sono finalizzati all’apprendimento di
una lingua, in modo da accompagnare e sostenere l’inserimento di chi deve entra-
re in una nuova società. In essi l’italiano viene presentato in contesti comunicati-
vi e in situazioni ricorrenti, in qualche modo ripercorrendo le ‘tappe’ e il cammi-
no dell’inserimento e dell’integrazione. In tutti questi manuali si dichiara di pri-
vilegiare l’aspetto della comunicazione.
La scelta di utilizzare per il confronto materiali didattici esplicitamente indirizza-
ti ad un pubblico di immigrati non è stata casuale, ma motivata dal fatto che i desti-
natari dei volumi rispecchiano quel tipo di apprendenti che è stato il prevalente ogget-
to di studio da parte della linguistica acquisizionale. Infatti, le sequenze di acquisizio-
ne e le varietà di apprendimento sono state delineate prevalentemente, pur se non
esclusivamente, dall’analisi dello sviluppo della competenza linguistica acquisita
dagli apprendenti stranieri nel contesto naturale della comunicazione sociale.
Sia i destinatari dei manuali sia gli apprendenti studiati dalla linguistica
acquisizionale condividono lo stesso contesto di spendibilità della competenza: la
struttura sociale dell’interazione in italiano in Italia.
I bisogni di lingua degli immigrati adulti inseriti in una situazione formale di
apprendimento, quindi in un contesto guidato ed esposti ad un input mediato e
‘facilitante’ grazie al ruolo dell’insegnante, non dovrebbero essere totalmente
diversi da quelli di chi, sempre immigrato, non è inserito in un contesto formale
di istruzione, ma apprende la sua seconda lingua in modo naturale e spontaneo.

3. IPOTESI E METODO DI LAVORO

La nostra ipotesi di lavoro è verificare se esiste o meno una compatibilità fra


le sequenze acquisizionali e quelle proposte nei sette manuali analizzati. Per veri-
ficare la compatibilità abbiamo cercato di misurare il grado di distanza fra queste
ultime e la sequenza naturale di apprendimento.

3 In alcuni si connota ulteriormente la definizione ‘adulto immigrato’ con l’appellativo di


‘lavoratore’, due testi invece si rivolgono a dei destinatari più generici e meno marcati dal punto
di vista sociale: cittadini stranieri con un lavoro in Italia.
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 539

Per effettuare la nostra indagine, abbiamo deciso di utilizzare gli indici dei
manuali, facendo riferimento a quelle sezioni del testo in cui vengono espressa-
mente dichiarati i tratti linguistici relativi al sistema verbale di volta in volta pre-
sentati ed esplicitati. Il momento di esplicitazione di un determinato tratto
dovrebbe rappresentare la formalizzazione delle caratteristiche strutturali presen-
ti nell’input. Infatti, come sappiamo, può essere talvolta riscontrato uno scarto tra
l’input presentato e le strutture esplicitate, in quanto negli input testuali sono
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spesso presenti strutture che non sono ancora state oggetto di trattazione e rifles-
sione esplicita. Non sono stati considerati quei casi in cui una particolare forma
verbale è presente nell’input e, talvolta, anche nella sezione relativa alla riflessio-
ne sulla lingua, ma viene volutamente trattata come se fosse una parola-forma,
non segmentabile, non mutabile e quindi non diviene oggetto di analisi. Un esem-
pio tipico è sia la presenza nell’input, sia la presentazione, nella parte di rifles-
sione, della 1a persona del condizionale presente del verbo volere. La forma di
cortesia vorrei viene solitamente introdotta molto presto in manuali che utilizza-
no una metodologia didattica che privilegia l’apprendimento delle funzioni lin-
guistiche e di comunicazione, perché ritenuta funzionalmente e pragmaticamente
molto utile per l’apprendente, ma molto spesso non viene analizzata, ma presen-
tata come formula fissa, da utilizzare come routine di comunicazione.
La trattazione esplicita di un determinato tratto invece dovrebbe rappresenta-
re il momento in cui il tratto stesso viene ’processato’, cioè entra a far parte delle
caratteristiche della varietà di apprendimento e diventa presente in modo sistema-
tico nell’output dell’apprendente. Abbiamo quindi assunto che il momento della
trattazione esplicita e l’ordine in cui i vari momenti si susseguono nel testo equi-
valgano alla sequenza di insegnamento.

4. TRATTAMENTO ED ELABORAZIONE DEI DATI

Dopo aver esplicitato l’ipotesi da cui siamo partiti, intendiamo illustrare le


varie tappe che ci hanno condotto allo sviluppo di un modello di analisi dei mate-
riali didattici. Come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, abbiamo
scelto di prendere come punto di riferimento per l’indagine l’indice dei manuali,
data la sua struttura organizzata ed esplicita per quanto riguarda la presentazione
degli argomenti grammaticali. Una volta assunto questo punto di partenza, ci
siamo domandati in che modo fosse possibile mettere in corrispondenza le
sequenze individuate nei manuali e la sequenza indicata dalla linguistica acquisi-
zionale e in quale modo rendere significativi i dati oggetto di analisi.
Il primo passo è stato di costruire delle tabelle che mettessero in corrispon-
denza le sequenze e fornissero un quadro chiaro della situazione in esame. È stata
realizzata una tabella per ogni manuale considerato. Ogni tabella presenta gli stes-
si campi (v. tabelle 3.1 – 3.7). Nella prima colonna è stata riportata la sequenza
implicazionale di apprendimento del sistema verbale, nella seconda colonna la
540 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

sequenza di insegnamento dei modi e dei tempi verbali nell’ordine in cui si suc-
cedono all’interno di ciascun testo.
Le successive tre colonne contengono informazioni collaterali: abbiamo rite-
nuto interessante presentarle per fornire un quadro quanto più chiaro ed esaustivo
possibile dei materiali analizzati. Nella terza colonna è stato riportato il numero
dell’unità didattica nella quale sono presentati gli argomenti relativi al sistema
verbale in ciascun manuale4. Questo dato è stato estrapolato per poter determina-
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re quante unità sono dedicate a ciascuno degli argomenti di nostro interesse e


poter capire quanta importanza sia attribuita dagli autori a ciascuno di essi.
Le ultime due colonne contengono gli argomenti relativi al verbo. Vi sono
stati riportati i contenuti grammaticali di volta in volta esplicitati: nella quarta
colonna quelli strettamente attinenti alla temporalità e alla modalità (es. passato
prossimo con l’ausiliare essere e avere) e nella quinta colonna i contenuti colle-
gati al verbo, come ad esempio le subordinate con per + infinito che implicano
dunque la presentazione esplicita dell’infinito stesso.
Una volta delineato un quadro generale dei contenuti grammaticali di ciascun
testo, la sequenza e il numero di unità in cui vengono presentati, abbiamo estra-
polato per ognuno di essi le sequenze relative ai tratti che sono stati individuati
dalla linguistica acquisizionale.

4.1. Il primo passo è stato il confronto tra la sequenza acquisizionale e le


sequenze presenti nei manuali analizzati, come possiamo vedere nella tabella 2.
In un unico quadro sono riportate la sequenza a cui abbiamo fatto riferimento e di
seguito ad essa quelle presentate nei vari testi del corpus. Abbiamo evidenziato in
grassetto i tratti che non rispettano la sequenza prevista dalla linguistica acquisi-
zionale, ovvero che si presentano invertiti o spostati rispetto a tale sequenza (ad
es. nel testo G il futuro è presentato prima dell’imperfetto, nel testo B il condi-
zionale viene proposto subito dopo il presente ecc.).
Per rendere espressivi tali dati abbiamo costruito un indice in grado di misu-
rare la distanza tra le sequenze proposte dai manuali e la sequenza naturale di
acquisizione. A questo scopo è stato costruito un indice, che abbiamo chiamato
indice di rispetto della sequenza¸ che misura la percentuale in cui i tratti pre-
sentati nel testo sono correttamente disposti rispetto alla sequenza acquisizionale.
L’indice è rappresentato dalla formula:

Ir= 100% - (100/N * Id)

4 Non sono state inserite in questo elenco le unità in cui non è presente nessuna riflessione
grammaticale sul verbo.
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 541

dove il 100% rappresenta la sequenza acquisizionale in cui sono presenti tutti


i tratti nel loro ordine, N è il numero dei tratti presentati, Id è l’indice di distanza
che i tratti hanno dalla sequenza acquisizionale.

4.2. L’indice di distanza indica di quante posizioni si allontanano le sequen-


ze presentate dai testi del corpus dall’ordine implicazionale della sequenza natu-
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rale. Questo indice si ottiene calcolando la distanza fra i tratti nella sequenza di
sviluppo naturale, intesa come numero di stadi saltati. Maggiore è il valore di que-
sta distanza, più ci si allontana dalla sequenza di sviluppo naturale.
Alcuni testi, come il testo B e D, invertono di varie posizioni alcuni tratti (il
testo D inverte un tratto di una posizione, mentre il testo B inverte ugualmente un
tratto, ma di tre posizioni). In questo modo si mette in evidenza che il testo B, che
presenta in maniera esplicita il condizionale subito dopo il presente indicativo,
avrà un indice pari a 3 di allontanamento dalla sequenza naturale di acquisizione.
Una volta calcolato il valore dell’indice di distanza, possiamo applicare la
formula a ciascun testo, per ottenere l’indice di rispetto della sequenza. Il valore
ricavato ci segnala in quale percentuale i testi del corpus non violano la sequenza
di sviluppo naturale. Ad esempio, nel testo D sono presenti cinque tratti sui sei che
compongono la sequenza di riferimento, quindi N è uguale a 5. Uno dei tratti è
invertito rispetto all’ordine naturale di acquisizione, quindi Id è uguale a 1. Con
questi dati possiamo applicare la formula per calcolare l’indice di rispetto della
sequenza, che nel caso del testo D è uguale all’80%. Invece il testo G presenta
tutti e sei i tratti, ma ne inverte tre: il suo indice di distanza è pari a 4.
Conseguentemente sarà pari al 34% il suo indice di rispetto della sequenza5.
Una volta ottenuto Ir, un’altra valutazione che l’insegnante deve fare è quel-
la di verificare in quale fase della sequenza acquisizionale sono presenti le inver-
sioni. Se l’inversione di tratti avviene nella parte iniziale della sequenza avrà un
peso diverso a livello implicazionale, rispetto a quando avviene nella parte finale
della sequenza stessa. Ad esempio i testi A ed E hanno lo stesso indice di rispet-
to della sequenza, hanno lo stesso indice di distanza, ma nel testo A l’inversione
è nella parte iniziale e invece nel testo E nella parte finale. Il peso dell’inversione
presente nel testo E sarà minore all’interno della valutazione generale del testo
stesso.

4.3. Un altro dato da analizzare, che possiamo osservare dalla stessa tabella
considerata fino ad ora, è l’assenza dei tratti rispetto ai sei presenti nella sequen-
za naturale. I testi del nostro corpus che presentano assenza di tratti sono tre. I

5 Nel caso di questo testo i tratti invertiti sono più di uno, quindi per calcolare l’indice di
distanza abbiamo sommato le distanze di ciascuno dei tratti invertiti.
542 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

tratti mancanti sono il congiuntivo, non presente in tre testi, il condizionale, assen-
te in un solo testo. Occorre sottolineare che il condizionale e il congiuntivo si tro-
vano nella parte finale della sequenza acquisizionale. Il problema che si apre dal-
l’osservazione di questo indice è quello della definizione del profilo di compe-
tenza che un apprendente dovrebbe raggiungere utilizzando un determinato mate-
riale. Mentre tutti e sette i materiali dichiarano che il loro destinatario è uno stra-
niero all’inizio del processo di apprendimento, in nessuno di essi è esplicitamen-
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te precisato il profilo di competenza che può essere raggiunto con il loro utilizzo.

4.4. Ricapitolando, per l’analisi di materiali didattici un insegnante può, uti-


lizzando l’indice di un manuale, prendere nota della sequenza verbale presentata,
calcolare il valore dell’indice di distanza osservando, nel caso in cui avvenga,
quanti tratti il teso inverta e in quali posizioni. Ottenuto questo valore, può appli-
care la formula per calcolare l’indice di rispetto della sequenza. Questo valore
determinerà quanto il testo analizzato si avvicini o si allontani dall’ordine della
sequenza della linguistica acquisizionale. L’insegnante può anche individuare
quali dei tratti della sequenza di riferimento sono eventualmente assenti e valuta-
re il peso di tale assenza in base al percorso formativo che intende portare avanti
con i propri studenti.

5. CONCLUSIONI

Pur consapevoli dell’autonomia dell’insegnamento, e lungi dal voler attribui-


re un valore prescrittivo a questi indici, vorremmo però sottolineare l’importanza
per un insegnante di possedere strumenti conoscitivi per valutare i materiali didat-
tici, che insieme ad altri strumenti per l’analisi di competenze, di programmi e di
sillabi, li possano guidare a connotare l’offerta didattica e quindi a definire gli
obiettivi in base alle caratteristiche dei loro studenti, ai contesti d’uso in cui
dovranno utilizzare la loro competenza, e ai loro bisogni.
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 543

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544 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

Tabella 1
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Tabella 2. Confronto fra la sequenza implicazionale di apprendimento e le


sequenze di insegnamento
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 545

Tabella 3.1. La sequenza di insegnamento del sistema verbale nel testo A


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546 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

Tabella 3.2. La sequenza di insegnamento del sistema verbale nel testo B


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IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 547

Tabella 3.3. La sequenza di insegnamento del sistema verbale nel testo C


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548 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

Tabella 3.4. La sequenza di insegnamento del sistema verbale nel testo D


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IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 549

Tabella 3.5. La sequenza di insegnamento del sistema verbale nel testo E


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550 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI

Tabella 3.6. La sequenza di apprendimento del sistema verbale nel testo F


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IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 551

Tabella 3.7. La sequenza di apprendimento del sistema verbale nel testo G


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TJAŠA MIKLIČ
(Università di Lubiana)

Interpretazione della funzione testuale dei paradigmi verbali italiani. Tenta-


tivo di un modello di analisi integrata
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Il valore d’una entità linguistica


è relazionale e oppositivo.
F. de Saussure

0. PREMESSA

Nella relazione mi propongo di esporre, a grandi linee, il modello di presen-


tazione del funzionamento testuale delle forme verbali italiane, in uso (a vari stadi
di elaborazione) da anni nell’ambito dell’italianistica presso l’Università di
Lubiana. Poiché si tratta di una tematica molto complessa, e quindi poco adatta
alla presentazione in un articolo di queste dimensioni, il quadro – di cui alcuni
aspetti parziali erano già stati discussi più in dettaglio in sedi diverse – non potrà
essere debitamente illuminato e rischia di non risultare convincente. Ciò nono-
stante trovo opportuno dare un’informazione globale dei pesupposti teorici che
sottostanno al menzionato modello, nonché dei principali risultati finora raggiun-
ti, in una pubblicazione dedicata specificamente al verbo italiano.

1. PRESUPPOSTI TEORICI

È da anni che studiando la letteratura sull’argomento e analizzando la realtà lin-


guistica (testi storici, romanzi, fiabe, giornali, riviste, riassunti, barzellette, didascalie
nelle vignette, ecc.) sto costruendo un modello che aiuti a riconoscere le regolarità in
base alle quali vengono scelte forme verbali italiane nella comunicazione testuale, e
di conseguenza a capire non solo la realtà denotata ma anche le sfumature stilistiche
del messaggio. Al centro dell’attenzione è sempre stato il problema della ricezione di
testi italiani autentici – caratterizzati proprio in fatto di scelta della forma verbale da
una enorme complessità e di possibilità alternative – da parte di professionisti di vari
settori, ma di lingua materna diversa dall’italiano – professori di lingua, traduttori,
studiosi di letteratura, di storia dell’arte, di sociologia, giornalisti, ecc. I punti centrali
a cui sono pervenuta nell’elaborazione del modello – che dovrebbe essere quanto più
efficace e nello stesso tempo dovrebbe tener conto dei fatti via via introdotti da sem-
pre nuove analisi empiriche – sono, in sintesi, i seguenti:
554 TJAŠA MIKLIČ

1.1. La scelta di una forma verbale in un dato testo dipende organicamente da


tutta una serie di parametri, per cui anche nell’interpretazione il senso del mes-
saggio (temporale, aspettuale, modale, pragmatico, stilistico ecc.) non va ascritto
al “significato” della forma verbale, bensì va riconosciuto come risultante di più
fattori1.
1.2. La distribuzione dei paradigmi verbali studiata su un vasto corpus è risul-
tata tale da non permettere una loro classificazione coerente né rispetto alla posi-
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zione temporale del parlante nel “momento” dell’enunciazione (vale a dire, in


base alla temporalità assoluta) in “tempi passati” e “tempi non passati”, né, alla
stregua di Weinrich e Benveniste, in base al legame soggettivo che il parlante
instaura rispetto al contenuto da verbalizzare, in tempi della “storia” e in quelli del
“commento”2.
1.3. Se da un lato, come proposto in 1.1, la scelta dipende da tutta una serie
di parametri, dall’altro ci deve pur essere un apporto funzionale specifico della
singola forma verbale. Analisi sistematiche della distribuzione delle forme verba-
li nei testi mi hanno portata alla seguente ipotesi: esse funzionerebbero non isola-
tamente, bensì come se fossero raggruppate a squadre, in forma di team; ed è par-
tendo da questo ruolo (ruoli) in potenza del paradigma in diversi team che l’ap-
porto di altri fattori contestuali plasmerebbero il risultante senso finale del mes-
saggio (temporale, modale, aspettuale, pragmatico, ecc.)

2. RISULTATI FINORA RAGGIUNTI

2.1. Apporto essenziale del contesto

Per illustrare quanto detto in 1.1 prenderò il caso del paradigma CONDIZIO-
NALE COMPOSTO (CC)3. L’interpretazione del messaggio della parte testuale
in cui appare questa entità linguistica non risulta che dalla combinazione del suo
contributo semantico con quello di altri fattori del co- e contesto: costruzione sin-
tattica, semantica lessicale, sapere enciclopedico, tipo di testo e varietà di lingua,
informazioni precedenti, plausibilità dell’interpretazione, ecc. Il CC appare infat-
ti in enunciati che si riferiscono ad azioni caratterizzate da modalità assai diverse.
Così, mentre l’azione in (1), in un flash forward, è presentata come realmente

1 Nelle scuole slovene, tanto nell’insegnamento della lingua materna quanto in quello delle
lingue straniere, persiste tuttora un troppo diretto collegamento tra il “tempo verbale” e la loca-
lizzazione temporale dell’azione denotata, con risvolti negativi per l’apprendimento della L2
(cfr. Miklič 1991).
2 Per l’opposizione specifica tra il PASSATO PROSSIMO e il PASSATO REMOTO, inve-
ce, cfr. Bertinetto/Squartini (1996).
3 Si veda l’elenco delle opere da cui sono tratti gli esempi illustrativi con le relative sigle.
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 555

accaduta nel passato, in (2) si tratta di azioni passate sulla cui realtà il parlante ha
delle riserve, in (3) di azioni programmate (o considerate poco probabili) per la
posteriorità nel passato, ed in (4) infine, di azioni non affatto realizzate e irreali:

(1) Bruner era uno psicologo che nel suo campo aveva conquistato
molto minore notorietà di quella che AVREBBE GUADAGNATO –
specie in Italia – nel campo pedagogico. (SRu 698)
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(2) Resta da chiedersi perché queste e altre ricerche posteriori al 1894


non abbiano mai visto luce. Meillet, come si è visto, dà una rispo-
sta in termini psicologistici: il desiderio di perfezione AVREBBE
INIBITO Saussure. (DM 316)
(2a) La società umana per Compte AVREBBE ATTRAVERSATO tre
stadi successivi: il primo (...) (SRu 512)
(3) In Toscana, il governo granducale non incoraggiò ma non ostacolò
gli asili (come nel Regno di Sardegna, che li ammise solo se affi-
dati alle suore), forse sperando che SI SAREBBERO ESAURITI
naturalmente. (SRu 461)
(3a) Sono gli anni, insomma, in cui si comincia a dubitare che i nuovi
modi di produzione AVREBBERO di per sé RESO l’umanità più
felice e più prospera e SOTTRATTO le masse operaie alla povertà.
(SRu 364)
(4) Nel 1641, Comenio viene invitato a Londra come filantropo e inno-
vatore della cultura e dell’educazione: in Inghilterra trovò ottima
accoglienza e SI SAREBBE forse TRATTENUTO se l’imminente
scoppio della rivoluzione non lo avesse indotto a rifugiarsi in
Svezia, dove curò la preparzione dei primi testi per le scuole sve-
desi. (SRu 256-7)
(4a) (In alto ad una ciminiera, guardando in giù, un operaio all’altro)
– Poveraccio!...Domani AVREBBE DOVUTO incassare la sua prima
indennità di rischio. (LSE 3572-8)

Questi diversi usi del CC sono noti, insisto invece sul fatto che è il contesto
più o meno ampio a fornire la chiave interpretativa4.

4 La problematicità del concetto di “significato di base” di una forma verbale e il ruolo cru-
ciale del contesto potrebbero essere ulteriormente illustrati anche con il fatto che, in costrutti sin-
tattici diversi e con un lessico diverso, la forma italiana TRAPASSATO DEL CONGIUNTIVO,
nelle traduzioni slovene trova il corrispettivo rispettivamente in tutte le sei forme verbali slove-
ne, ognuna con il suo “significato di base”: È stato più caro di quanto non AVESSIMO PREVI-
556 TJAŠA MIKLIČ

2.2. Tempo verbale e temporalità assoluta

2.2.1 Tempi passati vs. tempi non passati


La classificazione in “tempi passati” e in “tempi non passati” si è rivelata
insoddisfacente, e non tanto perché accanto agli usi temporali prototipici coesi-
stono quelli aggiuntivi, spesso chiamati metaforici o modali, come ad es. nel caso
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dell’IMPERFETTO (IM), che può essere usato oltre che per le azioni reali nel
passato (es. 5) anche per quelle irreali nell’attualità (es. 6):

(5) Allo zoo di Saigon (la odierna Ho Chi Minh), se SI OFFRIVA una
monetina all’elefante Tobby, esso la LANCIAVA verso un banco di
frutta situato davanti alla gabbia, per farsi gettare una banana sbuc-
ciata. (LSE 3625-39)
(6) Se non ERAVAMO gemelli, adesso non ERAVAMO qui. (in una tra-
smissione dedicata ai gemelli, RAI 1)

o nel caso del FUTURO COMPOSTO (FF), che oltre alla funzione temporale,
spesso riferita, come in (7), all’avvenire, ha anche la funzione epistemica, relati-
va ad azioni nel passato (es. 8):

(7) Quando la triplice relazione male-miseria-arroganza diverrà chiara,


“ognuno necessariamente si sforzerà di promuovere la felicità di
tutti gli altri con cui è in rapporto, perché AVRÀ CAPITO che ciò è
essenziale al suo interesse e alla sua stessa felicità”. (SRu 370-1)
(8) Che cosa AVRÀ MOSSO il governo prussiano a chiudere i Giardini
d’infanzia? (SRu 445)

La vera ragione è invece che nell’ambito degli usi propriamente temporali ci


sono quelli in cui la sfera temporale dell’azione denotata è esattamente opposta
rispetto al presunto tipo di tempo: così ad es. il FUTURO SEMPLICE (F), consi-
derato tradizionalmente tempo non passato, in alcuni tipi di testo viene regolar-
mente usato per un’azione nel passato (es.9), mentre ad es. l’IMPERFETTO o il
TRAPASSATO PROSSIMO, considerati tempi passati, si usano per denotare
un’azione nel non passato (cfr. ess. 17-21 sotto):

STO (“trapassato sloveno”); Raccontò di come Antonio FOSSE TORNATO prima (“passato slo-
veno”): Parla l’inglese come se AVESSE STUDIATO in Inghilterra (“condizionale passato slo-
veno”); Conosceva il paese come se ci FOSSE già STATO (“condizionale presente sloveno”);
Era rosso come se AVESSE AVUTO la febbre (“presente sloveno”); Disse che l’avrebbe regala-
ta al primo che FOSSE PASSATO (“futuro sloveno”). Va da sé che, come spesso si osserva nelle
traduzioni, le forme proposte non sono le uniche possibili. (Cfr. Miklič 1991).
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 557

(9) Gli interessi per la linguistica generale non erano però solamente
implicito presupposto delle nitide formule descrittive, delle pene-
tranti analisi storiche, dell’“accento personale” delle lezioni parigi-
ne. SCRIVERÀ Meillet (1916.33): (...) (DM 305)

A questo punto va precisato il concetto di temporalità assoluta e la sua for-


malizzazione grafica. Il modello (Miklič 1997) postula fin dalla partenza più dei
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soliti tre ambiti temporali prototipici verso i quali si volge il parlante nel momen-
to dell’enunciazione: le “sfere temporali” sarebberro quindi – oltre al passato
(es.10), l’attualità 5 vera e propria (11) e l’avvenire (12) – anche l’attualità allar-
gata (13), ma soprattutto l’atemporalità /extratemporalità (14):

(10) Nel semestre d’estate del 1904 supplisce Emile Redard nella cat-
tedra di lingua e letteratura tedesca e tiene un corso sui Nibe-
lungen; dal 1907 insegnerà anche linguistica generale. (DM 310)
(11) Non ho fame: ho già mangiato.
(12) Torno subito, se per caso mi chiama qualcuno.
(13) Dormo sempre male se la sera ho bevuto il caffé.
(14) È inutile chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. (DMDLI 320)

nel cui ambito si instaurano poi relazioni di temporalità relativa (anteriorità,


simultaneità, posteriorità). Nella presentazione grafica (gr. 1), la situazione nel-
l’attualità allargata e quella nell’extratemporalità sono (per convenzione) ripor-
tate su assi paralleli, a sinistra la prima e a destra la seconda:

Schema 1

5 Riservando le espressioni presente e futuro esclusivamente per i paradigmi verbali, uso


per indicare i settori della temporalità assoluta i termini attualità e avvenire.
558 TJAŠA MIKLIČ

Prima di affrontare i casi di “tempi passati” usati per le sfere non passate con-
viene ricordare i noti usi del paradigma PASSATO PROSSIMO per indicare l’an-
teriorità nelle sfere non passate, ad es. nell’extratemporalità (es.14), nell’attua-
lità allargata (es.13) o nell’avvenire, come nei seguenti due casi:

(15) Portami il giornale quando HAI FINITO di leggerlo.


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(16) (il medico al paziente) – Voglio che smetta di fumare e che perda
dieci chili! Poi torni da me, e mi dica come HA FATTO. (LSE
3628-21)

Si ha invece meno consapevolezza del fatto che anche l’IMPERFETTO e il


TRAPASSATO DELL’INDICATIVO possono essere usati per riferirsi ad azioni
che non appartengono al passato del parlante, bensì – in varie relazioni tempora-
li rispetto ad azione centrale – appartengono ad es. all’extratemporalità (come in
17-19) o all’avvenire (come in 20-21):

(17) Accadono in un punto cose strane, che PAREVANO impossibili o


lontane. (DP 70)
(18) James Barrie, l’autore di Peter Pan, disse una volta: La vita è un
quaderno sul quale ciascuno di noi ha intenzione di scrivere una
storia, e finisce invece con lo scriverne un’altra. E nessuna umi-
liazione è peggiore di quella che l’uomo prova nel confrontare ciò
che ha scritto con quello che SI ERA RIPROMESSO di scrivere.
(LSE 2850-12)
(19) Il guaio delle buone occasioni è che quando svaniscono sembrano
migliori di quando SI ERANO PRESENTATE. (LSE 3577-48)
(20) (riferendosi a Napoleone nella sua tipica posa, un ufficiale milita-
re all’altro) – È un trucco: dice che quando la gente avrà scorda-
to le sue battaglie, continuerà sempre a chiedersi perché TENEVA
la mano infilata lì ... (LSE 3550-43)
(21) (in sala operatoria, un chirurgo all’altro) – E va bene, faccia
come le pare, ma l’autopsia proverà che AVEVO ragione io!
(LSE 3571-15)

2.2.2. Appartenenza / non appartenenza al mondo del parlante

Già i fautori stessi della classificazione dei paradigmi verbali nei due tipi
complementari di “storia” e “commento” mostrano incertezza nell’assegnare la
forma IMPERFETTO qualche volta solo alla “storia” e altre anche al “commen-
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 559

to”. Ma anche il TRAPASSATO viene usato in enunciati che sono in alternanza


con quelli con il paradigma del gruppo opposto (PP) e riguardano fatti legati al
vissuto immediato del parlante6:

(23) Te l’avevo detto di non sbattere la porta...


(24) Ti ho detto e ridetto di non sbattere la porta...
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(24a) Ti ho detto mille volte di non sbattere la porta...

Così troviamo altri tipici testi della lingua conversazionale costruiti con
l’IMPRFETTO e con il TRAPASSATO, come ad es. gli enunciati (25) e (26), il
cui contenuto fa parte dell’immediata vita del parlante, per cui sembrano dei veri
“commenti”:

(25) – Ah, mi scusi, non l’avevo notata ...


(26) – Pino lavora in quell’ospedale lì. – Ma come? Credevo fosse
ingegnere...

D’altra parte sono altrettanto frequenti i paradigmi di “tipo commentativo”


PRESENTE (Pr), PASSATO PROSSIMO (PP), FUTURO (F), CONDIZIONALE
SEMPLICE (C), PRESENTE DEL CONGIUNTIVO (Pr’) ecc. in testi sia storici
(ad es. 27) sia fittizi (fiabe, barzellette, romanzi, ad es. 28) per azioni che non
hanno nessuna pertinenza con l’attualità del parlante (cf. anche il “procedimento
narrativo storico” in 2.3):

(27) Ormai il Mémoire è apparso da un anno e ad onta d’ogni ostilità,


il nome di S.(aussure) è ben noto: poco prima di laurearsi, il gio-
vane si presenta alle esercitazioni d’un valente germanista di
Lipsia, Zahrnicke, (...) (DM 294)
(28) Per convincere il principe all’umiliante cessione, Carlo incarica il
ministro Gian Cristoforo Bartenstein, uomo rude e sbrigativo che
mette Francesco Stefano davanti al dilemma: niente cessione della
Lorena, niente granduchessa. Frattanto, gli sono state vietate le
visite a corte. Non vedrà né l’imperatore né Maria Teresa, lo infor-
mano, se prima non avrà firmato. (MT 41)

6 È interessante osservare che in questo tipo di rimprovero prevale l’uso del TP (come in
23) – il TP indirettamente mette in rilievo l’evento per lo più negativo (ricavabile dalla situazio-
ne comunicativa) accaduto tra il “dire” e l’attualità del parlante – tranne che nelle formule che
esplicitano la frequenza (24a) o presentano due verbi in parallelo (24).
560 TJAŠA MIKLIČ

2.3. Raggruppamenti in set e procedimenti narrativi

Siamo arrivati così al punto centrale del modello. La proposta qui presentata
è scaturita dall’osservazione della distribuzione dei paradigmi nei testi. Questa
infatti fa intuire l’esistenza, nell’attività comunicativa, di un determinato princi-
pio ordinativo: come se sulla moltitudine delle azioni da verbalizzare il parlante
imprimesse, in modo ricorsivo, un modulo concettuale centro vs periferia, sele-
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zionasse cioè alcuni fatti da lui giudicati centrali, legando a loro le rimanenti azio-
ni in relazione di simultaneità, anteriorità (di I grado, II grado ecc) e posteriorità.
Metaforicamente: come se ad alcune azioni assegnasse il ruolo di pianeta mentre
ad altre quello di satellite (dove anche ogni satellite può ricevere un proprio satel-
lite e così via).

Schema 2

Questa costellazione concettuale è riconoscibile nei testi anzitutto nel rag-


gruppamento di forme verbali riunito intorno al PRESENTE (Pr) al centro (con
un altro Pr per la simultaneità, il PP per la prima anteriorità, il TP per la secon-
da anteriorità, il F per la posteriorità, l’IM per la simultaneità con punti anterio-
ri rispetto al centro). Questo raggruppamento, che chiamo “set di base”, la cui
struttura essenziale va completata da tutte le forme (congiuntivi e condizionali)
richieste da diverse modificazioni modali, è universalmente impiegabile per
denotare azioni in rapporto di temporalità relativa nell’ambito di qualsiasi sfera
temporale. Illustro, per tutte le sfere, il suo impiego per i più elementari rappor-
ti (simultaneità, anteriorità di I grado, posteriorità) – per cui bastano i paradig-
mi Pr, PP e F 7:

ATTUALITÀ
(29) HO di nuovo mal di testa perché HO DORMITO troppo poco, per-
ciò stasera ANDRÒ a dormire prima.

7 Rimando invece a Miklič 1996 per l’illustrazione dei complessi rapporti temporali nel-
l’ambito della extratemporalità, che esigono l’impiego di molte altre forme, dal PRESENTE e
dall’IMPERFETTO DEL CONGIUNTIVO fino al CONDIZIONALE COMPOSTO.
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 561

ATTUALITÀ ALLARGATA (abitudini ecc.)


(30) Quando TROVO un oggetto che mi PIACE e DECIDO che FARÀ
parte della mia collezione, SCOPRO sempre che HO LASCIATO i
soldi a casa.
AVVENIRE:
(31) Ecco, qui c’è tutto il materiale. Domani ti CHIAMO per sentire
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quale articolo ti È PIACIUTO di più e che cosa PUBBLICHERE-


MO.
EXTRATEMPORALITÀ:
(32) PUOI leggere quel che SEI STATO ma non scrivere quel che
SARAI. (DP 239)
PASSATO:
(33) Il giorno dopo TORNA solo molto tardi, perché al lavoro SONO
SUCCESSE cose impreviste. Ma non IMMAGINA ancora quanto
difficile SARÀ la decisione.

Ho chiamato, alla stregua del presente storico, procedimento narrativo storico


l’uso del “set di base” per le situazioni nel passato (come in 33). Per questa sfera
temporale è però specializzato un altro set (chiamato “set del passato” con il PAS-
SATO REMOTO (PR) (o anche il PASSATO PROSSIMO, o persino
l’IMPERFETTO NARRATIVO) al centro, e con l’IM per tutte le simultaneità, il TP
per tutte le anteriorità e il CC per la posteriorità8. Ecco l’es. 33 riscritto come 33a:

(33a) Il giorno dopo TORNÒ solo molto tardi, perché al lavoro


ERANO SUCCESSE cose impreviste. Ma non IMMAGINAVA
ancora quanto difficile SAREBBE STATA la decisione.

L’uso di questo set, in quanto essenziale per la presentazione di situazioni


passate, è stato chiamato procedimento narrativo fondamentale. I due set hanno
evidentemente molti paradigmi in comune, in parte con la stessa funzione in parte
con una diversa (l’IM, ad es., nel “set del passato” ha la funzione di esprimere
tutte le simultaneità, mentre nel set di base solo le simultaneità rispetto ai punti
anteriori al centro, come in 17, 20 e 21). Inoltre è possibile riconoscere altri due
modi espositivi abbastanza frequenti. Il primo, usato abbondantemente anche in
testi stilisticamente curati – e che ho chiamato procedimento combinato, si serve
del “set del passato” tranne che per le azioni centrali che affida al PRESENTE
STORICO (PrSt) (cfr. anche l’es. 3a):

8 Anche questo set va completato da tutte le forme richieste da modificazioni modali (perio-
do ipotetico, comparative irreali, finali, temporali di posteriorità, ecc.).
562 TJAŠA MIKLIČ

(34) Appena erano usciti, RINCASA il Mago (...) (FI 113)


(35) Forse proprio la nativa tendenza alla ricerca svolta ai limiti del già
noto è ciò che lo SPINGE fuori dai campi nei quali si erano mossi
i suoi avi, e lo AVVIA verso una disciplina ancora in fieri, quale
ancora in quegli anni era la linguistica. Nell’ambito di questi studi
l’affermazione del giovane È prodigiosamente rapida. (DM VI)
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Il secondo, che ho denominato procedimento misto, consiste nell’esprimere


azioni centrali, nell’ambito della coordinazione copulativa o avversativa, o di una
“falsa relativa”, alternando il PASSATO REMOTO e il PRESENTE STORICO.
Lo troviamo non solo in fiabe dove si potrebbe imitare la scarsa pianificazione del
racconto (es. 36), ma anche in testi di contenuto storico (37):

(36) Arrivarono a casa i genitori di Pomo e le CORRONO incontro tre


cagnolini (...) In quella ARRIVANO i genitori di Pomo e fecero
tante feste al figlio (...) (FI 115)
(37) Oltre Meillet (le lettere a lui destinate sono state edite da
Benveniste nel 1963), tra i corrispondenti vi È Streitberg, che nel
1903 gli CHIEDE notizie sull’origine del Mémoire, e ne NASCO-
NO i Suovenirs (...) che però Streitberg non ebbe da S. ma, dopo
la morte dell’amico, da Mme Saussure (Streitberg 1914.203 no. I)
(DM 313)
(37a) Tra la fine del I secolo e l’inizio del II Milano DIVIENE cristia-
na e un secolo dopo VEDE l’istituzione della Diocesi con i primi
Vescovi che ebbero un ruolo via via sempre più importante nella
vita cittadina, specialmente al tempo dell’episcopato di
Sant’Ambrogio. (...) Durante la supremazia napoleonica la città
divenne capitale della Repubblica Italiana e poi del Regno itali-
co nel 1805, ma il veloce precipitare della fortuna di Napoleone
DÀ l’estro all’Austria di riprendersi la Lombardia (1845) domi-
nandola fino al 1859. (Mi 3-4)

Lo spazio non consente di dedicare una maggiore attenzione alla distribuzio-


ne di questi moduli espositivi in vari tipi di testi e in vari autori. Anche qui la scel-
ta sembra variamente motivata: mentre per alcuni tipi testuali, ad es. le barzellet-
te e i riassunti di opere letterarie, l’uso del procedimento storico è quasi esclusi-
vo, in altri testi, la sua presenza è sporadica9. In generale però gli autori preferi-
scono variare.

9 Eppure E. Ferri lo usa come l’unico modo espositivo nel suo romanzo Maria Teresa.
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 563

2.4. Disposizione dei contenuti temporali nel testo e “orientamenti dello sguardo”

Oltre al raggruppamento delle azioni in centrali e periferiche e, per il passa-


to, alla scelta del procedimento narrativo, la tradizione testuale offre un altro
importante principio ordinativo che incide sulla scelta della forma verbale: la
disposizione nel testo dei contenuti temporali del mondo testuale. Oltre all’ordi-
ne naturale (ON), che presenta (per lo più tramite il paradigma narrativo centra-
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le: PR, PP o PrSt) le azioni nell’ordine in cui sono successe (cfr. la parte finale
dell’es. 40), è a disposizione del parlante la tecnica del flash back (FB), cioè il
ritorno, a un certo punto della narrazione degli avvenimenti focali, a fatti anterio-
ri nel tempo – da segnalare linguisticamente tramite l’uso di un paradigma in
grado di segnalare l’anteriorità) (aveva rifiutato in es. 40), mentre la tecnica del
flash forward (FForw) consiste nel presentare azioni realizzate nel passato, ma
posteriori – e perciò fuori – rispetto al fuoco narrativo. Questo espediente retori-
co può essere realizzato da un CC (ess. 1 e 33a), un FUTURO DEGLI STORICI
(FdSt) (es.9) o un FUTURO STORICO (FSt) (ess. 10 e 33). La quarta tecnica, che
ho chiamato preludio (PREL), consiste nel far iniziare un testo o un’unità testua-
le con uno o più TP (o, nel procedimento storico, PPSt) per poi continuare con il
paradigma narrativo centrale: in questo modo si toglie all’azione una parte del
peso spostandola sulle azioni centrali (cfr. Miklič 1998):

(38) A Salisbury, in Inghilterra, il giovane automobilista Robert Mount


è stato fermato dalla Polizia per eccesso di velocità. Durante il
processo ha detto al giudice: “AVEVO appena ACQUISTATO una
copia del Codice della strada: mentre guidavo lo consultavo spes-
so, e così non mi sono accorto di andare troppo veloce”. (LSE
3628-4)
(39) Un giovane S’È ARRUOLATO in Marina e quando si presenta in
caserma un sergente gli domanda: – Sai nuotare? – Perché?
Adesso non ci sono più, le navi? (LSE 3640-10)

Il seguente testo integrale contiene tutti e quattro i modi espositivi, corre-


sponsabili della scelta della forma verbale: cominciando con un flash-forward
(sarebbe diventato), passando a un doppio preludio (era stato composto e arran-
giato) rispetto all’azione centrale (passò inosservato), si prosegue con un flash-
back (aveva rifiutato) per concludere – tra due secondi piani (considerava, imper-
sonava) – con una serie di azioni in ordine naturale (comprò, sborsò, fu lancia-
to, arrivò):

(40) Il famoso brano In the mood, il boogie-woogie che SAREBBE


DIVENUTO uno dei più strepitosi successi dell’orchestra di Glenn
Miller, ERA STATO COMPOSTO da Joe Garland agli inizi degli
Anni ’30 e ARRANGIATO da numerosi jazzisti affermati, ma
564 TJAŠA MIKLIČ

passò praticamente inosservato. Addirittura, il clarinettista Artie


Shaw AVEVA RIFIUTATO d’incidere il pezzo, perché lo conside-
rava troppo lungo. Perciò, quando Miller, intravedendo la possi-
bilità di farne un brano congeniale alla sua orchestra, lo comprò
dall’autore, sborsò la ridicola somma di 5 dollari. Il brano fu lan-
ciato nel fortunatissimo film Serenata a Vallechiara del 1941, in
cui Miller impersonava se stesso insieme con i componenti della
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sua band, e arrivò nel nostro Paese con le truppe alleate, divenen-
do subito popolarissimo. (LSE 3574-4)

2.5. “Punto” di riferimento e “indipendenza temporale”

In 2.3. è stata proposta la temporalità relativa (anteriorità, simultaneità e


posteriorità rispetto al centro) come punto di partenza per la scelta, e per l’inter-
pretazione, della forma verbale. Cruciale in queste relazioni è però il punto di rife-
rimento: esso infatti non si trova sempre nell’azione della frase sintatticamente
sovraordinata. Due azioni possono essere in un forte rapporto sintattico e ciò
nonostante appartenere a due costellazioni diverse. Ho chiamato il loro rapporto
“indipendenza temporale”. Osserviamo gli enunciati in (41) e (42): il primo ha un
TP nella principale e un PP nella dipendente completiva, il secondo un IM nella
sovraordinata e un PR nella completiva:

(41) (la giovane madre al marito che fa una smorfia di dolore) – Mi


dispiace, caro! AVEVO DIMENTICATO di dirti che gli è spuntato
il primo dentino... (LSE)
(42) Pietro è stato bocciato all’esame perché non SAPEVA che Dante
morì nel 1321.

Le due azioni dei due periodi appartengono infatti a due costellazioni diver-
se. In (41), l’azione espressa dal TP è presentata come anteriore a un’azione a sua
volta anteriore al momento dell’anunciazione, inferibile dalla situazione comuni-
cativa stessa – il morso del bambino – mentre l’apparizione del primo dentino,
nonostante sia presentata in una completiva “dipendente da” un TP, è psicologi-
camente legata, come anteriore, direttamente all’attualità della madre con il PP.
Similmente in (42), dove l’occasione dell’esame di Pietro e la morte di Dante
appartengono a due costellazioni pragmatiche diverse, per cui l’azione nella com-
pletiva (morte di Dante), anche se oggettivamente anteriore rispetto all’esame
(non sapeva), è legata non a quest’occasione (con un TP), bensì direttamente al
momento dell’enunciazione come un’azione centrale nel passato, (PR):
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 565

Schema 3
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L’individuazione del punto di riferimento spiega anche l’uso dell’IM e del TP


per azioni che si riferiscono all’extratemporalità:

(17) Accadono in un punto cose strane, che PAREVANO impossibili o


lontane. (DP 70)
(19) Il guaio delle buone occasioni è che quando svaniscono sembrano
migliori di quando SI ERANO PRESENTATE. (LSE 3577-48)

In (17), al completamento dell’azione “accadono” è possibile constatare che


in un momento anteriore l’azione “parere impossibile” era ancora valida (IM per
la simultaneità con un momento anteriore del punto centrale della costellazione).
In (19) abbiamo la seguente successione di azioni: le occasioni si presentano, sva-
niscono, sembrano migliori. Nella distribuzione testuale si comincia con la secon-
da e quando, dopo la terza, si menziona la prima, la presenza della seconda funge
da punto di riferimento, esigendo l’uso del TP per la seconda anteriorità:

Schema 4

CONCLUSIONE

La scelta della forma verbale in ogni singolo punto testuale dipende quindi da
tutta una serie di fattori. Per poter interpretare bene il messaggio è utile conosce-
re le possibilità espressive sistemiche a disposizione dell’autore di un testo italia-
no, soprattutto sapere dell’esistenza di diversi moduli espressivi – procedimento
566 TJAŠA MIKLIČ

fondamentale, storico, combinato e misto, su cui si inescano poi varie tecniche


espositive, come FB, FForw e Prel, il discorso indiretto libero, nonché diverse
modificazioni modali. Munito di tali conoscenze, il ricevente potrà non solo capi-
re meglio il contenuto, ma anche gustare più intensamente il versante espressivo
del testo.
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INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 567

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SAŠA MODERC
(Università di Belgrado)

L’acquisizione dell’imperfetto da parte di discenti aventi come lingua madre


il serbocroato. Problemi aspettuali e temporali
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0. In base alle esperienze accumulate in diversi anni di insegnamento univer-


sitario, ci risulta che per i parlanti di serbocroato (SC) l’apprendimento dell’ita-
liano L2 si rivela problematico in almeno quattro elementi: l’uso dell’articolo
(manca in SC), delle preposizioni, del congiuntivo (manca in SC) e dei tempi pas-
sati dell’indicativo. Si tratta comunque di difficoltà generali, ‘tristemente’ note a
chiunque insegni l’italiano come L2. Nell’indicare i suddetti problemi di appren-
dimento dell’italiano L2 ovviamente non intendevamo riferirci ai problemi ini-
ziali di acquisizione della morfologia o delle regole sintattiche relative all’uso di
questi elementi linguistici. Piuttosto, volevamo ribadire che le sopraindicate diffi-
coltà permangono, entro limiti contenuti (ma pur sempre rilevabili e significativi),
anche a livelli superiori di conoscenza dell’italiano. Lo scarto fra quanto si deve
e si può imparare mediante un approccio scolastico e quanto invece resta di là
dalle possibilità offerte da questo stesso approccio scolastico si può identificare
con quello che viene a volte definito con il vago termine di “spirito della lingua”.
Per poter accedere a livelli avanzati di conoscenza dell’italiano bisogna adden-
trarsi negli aspetti semantici e cognitivi impliciti nelle categorie dell’articolo,
della preposizione, del congiuntivo e dei tempi verbali. Beninteso, questi aspetti
non sono indispensabili per un uso anche discreto dell’italiano, ma essi comun-
que fanno la differenza fra un italiano corretto, ma tendenzialmente “goffo”, e un
italiano invece vicino all’“eccellente”. A parte i tempi verbali dell’indicativo, già
ampiamente trattati in altre sedi, gli altri tre elementi critici della lingua italiana
non sembrano aver goduto della stessa attenzione.
Ora, per quanto riguarda il sistema verbale dell’indicativo, è noto che certi usi
dell’imperfetto italiano rappresentano una fonte di difficoltà anche per discenti
avanzati di italiano L2, specialmente se nella propria L1 non possiedono questa
forma verbale, oppure, se tale forma vi svolge delle funzioni differenti. Nella pro-
duzione linguistica avanzata in italiano L2 tali incertezze si manifestano tramite
enunciati grammaticalmente “corretti”, però scarsamente accettabili sul piano sti-
listico o pragmatico. I due ambiti del verbo in cui questi problemi emergono con
maggiore frequenza sono l’aspetto verbale e la temporalità. Dal momento che non
sembra possibile parlare di aspettualità senza entrare nel dominio della tempora-
lità (e viceversa), o anche della azionalità, non focalizzeremo l’attenzione sulla
sistematizzazione di queste brevi riflessioni in paragrafi rigorosamente separati e
dedicati a ciascuna delle categorie del verbo menzionate. Nel contempo, accette-
572 SAŠA MODERC

remo l’ipotesi che queste tre categorie possano sovrapporsi e coesistere all’inter-
no di una stessa forma verbale.

1. Come è noto, il SC ha un sistema verbale che, a livello morfologico, pre-


senta una temporalità ridotta, specialmente se comparato a lingue slave come il
bulgaro o il macedone: il SC, infatti, possiede solo un tempo passato effettiva-
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mente usato (il perfekat, passato composto, con un lessema particolare per l’a-
spetto perfettivo e uno per l’aspetto imperfettivo), avendo gli altri tempi del pas-
sato o valori tradizionalmente definiti ’modali’, oppure una frequenza bassissima.
Così, l’aoristo (aorist, passato semplice, quasi esclusivamente perfettivo) viene
usato con intenti stilistici, per dare maggiore enfasi e dinamicità alla esposizione,
oppure per esprimere valori gnomici, modali e sim1. il piucchepperfetto (plusk-
vamperfekat, trapassato, tempo composto perfettivo e imperfettivo) e l’imperfet-
to (imperfekat, tempo semplice, quasi esclusivamente imperfettivo) invece sono
tempi verbali praticamente obsoleti: anche se formalmente figurano nelle gram-
matiche del SC, e anche se si reperiscono ancora nella lingua letteraria moderna
essi, quando vengono usati, rispecchiano precisi intenti stilistici (contribuiscono,
per esempio, a creare nell’enunciato una patina di solennità o di antichità, tradu-
cibile in italiano solo tramite attente scelte lessicali2.
Quindi, all’unico tempo passato stilisticamente non marcato del SC corri-
spondono, in italiano, ben quattro Tempi passati (formalmente addirittura cinque,
se includiamo anche il poco frequente trapassato remoto). Da quanto detto, si può
concludere che in SC si ha oggi un sistema verbale a temporalità ’piatta’, caratte-
rizzato dalla assenza di suddivisioni temporali espresse a livello morfologico
all’interno del sistema del passato. Il sistema del passato in italiano invece pre-
senta diversi livelli di segmentazione del dominio temporale. Il discente deve
quindi imparare a manipolare la dimensione del passato applicando modalità di
segmentazione temporale (o, altrimenti detto, di distribuzione di eventi e di stati)
tipiche dell’italiano e non codificate morfologicamente o sintatticamente in L2.
Questa manipolazione non può essere un procedimento puramente meccanico,
bensì è il prodotto di una rielaborazione, di una ri-strutturazione di quanto si desi-
dera esporre in L2 partendo – inevitabilmente – da L1. Essendoci un solo tempo
passato, in SC riconoscere i diversi valori impliciti del perfekat diventa un com-
pito relegato all’intuizione, alla capacità logica e al talento linguistico del parlan-

1 Questo per quanto riguarda il SC standard. Tuttavia, in determinate regioni dell’area


coperta dal SC, l’aoristo mostra ancora discreta vitalità, come anche – seppure in misura mino-
re – l’imperfetto.
2 A questo proposito, cfr. l’Enciclopedia dei morti di Danilo Kić: bisogna constatare che
l’ottima traduzione di Costantini non conserva i valori stilistici dell’imperfekat, il quale conferi-
sce all’originale SC una specifica atmosfera biblica che invece è assente nella versione italiana.
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 573

te. In termini più radicali: il parlante, posto di fronte a un testo o discorso struttu-
rato con il perfekat, non ha né il bisogno né l’abitudine di ripartire razionalmente
i vari stati o azioni passati in vari “livelli” temporali e si arresta ai livelli logici di
causalità e consequenzialità, più che sufficienti per una comprensione corretta
dell’enunciato. Si tratta di una temporalità non espressa con mezzi formali (come
succede nell’italiano parlato, dove il passato prossimo è non di rado l’unico
tempo passato della narrazione) e indefinita (un po’ come avviene in italiano in
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enunciati come “Hanno ucciso un soldato”, dove non è necessariamente chiaro –


né in genere c’è bisogno che lo sia – se un sia articolo o aggettivo numerale).
Ovviamente, se gli viene richiesto di operare un’analisi dei valori temporali dei
singoli perfekat, il parlante di SC è in grado di effettuarla, grazie però quasi esclu-
sivamente alla sua conoscenza del mondo e non ai mezzi morfosintattici a dispo-
sizione del SC. Per contro, chi ha l’italiano come L1 produce testi automatica-
mente, scegliendo i tempi verbali in base a criteri stilistici (determinati dal tipo di
testo che desidera produrre) o psicologici (determinati dall’atteggiamento, o
grado di partecipazione, del parlante nei confronti di quanto si viene esponendo),
o sovrapponendo i due criteri che noi qui menzioniamo, ma che con ogni proba-
bilità non sono necessariamente gli unici due. Resta da vedere se nella struttura-
zione di testi in italiano L1 abbia un ruolo effettivamente più importante la tem-
poralità, oppure prevalgono anche in italiano i criteri di causalità e consequenzia-
lità menzionati per il SC.

2. Ora, potendo l’imperfetto riferirsi ad azioni e/o stati anteriori, contempora-


nei o posteriori rispetto ad azioni o stati nel passato, come pure ad azioni o stati
appartenenti al presente e al futuro del parlante, nonché a mondi irreali o imma-
ginari, risulta naturale che i parlanti di SC possano incontrare incertezze e prova-
re imbarazzo quando si trovano a dover usare questo tempo. È possibile, tuttavia,
rilevare una notevole corrispondenza fra l’imperfetto e il perfekat di aspetto
imperfettivo SC, come negli esempi che seguono3 tratti da traduzioni di opere let-
terarie SC e indicativi di certe linee di tendenza nel transfer da L1 a L2 proprie
anche dei discenti di italiano:

1) Sunce mu je udaraloimp pravo u teme i njemu je počinjaloimp nešto


da šumi u ušima.
Il sole gli batteva dritto sulla nuca e qualcosa cominciava a fischiar-
gli nelle orecchie. (Bulatović: 49)

3 Dopo la forma verbale segnaliamo con


imp il perfekat imperfettivo, con perf il perfekat per-
fettivo. Per riferimenti bibliografici più precisi sulle opere letterarie da cui sono stati tratti gli
esempi vedere la bibliografia.
574 SAŠA MODERC

2) “Je li moguće da moj sin obija kuće, pljačka trgovce i otima


devojke?” pitao seimp očajan otac.
“È mai possibile che mio figlio svaligi le case, depredi i mercanti e
sequestri le ragazze?” chiedeva, disperato. (Andrić1: 27)
“È mai possibile che mio figlio svaligi le case, rapini i mercanti e
rubi le ragazze?” si chiedeva atterrito il padre. (Andrić2: 29)4.
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Questo tipo di equivalenza (perfekatimp = imperfetto) è il più diffuso. Tuttavia


non è possibile attribuire valore assoluto alla relazione perfekatimp = imperfetto,
perché numerosi esempi contribuiscono a negarne la validità generale. In ambe-
due le lingue i due tempi in questione sono usati per veicolare la strategia testua-
le di descrizione (contrapposta alla strategia testuale di narrazione, entrambe parti
dell’esposizione orale o scritta). Sono infatti tutt’altro che rari gli esempi di equi-
valenza perfekatperf = imperfetto, dove le distinzioni aspettuali sono neutralizzate:

3) Lea je okrenuoperf dugačkoj i prepunoj trpezi oko koje su se


gložiliimp i veseliliimp siti i pijani svadbari.
Voltava le spalle alla lunga tavola ricolma intorno alla quale si
bisticciavano e facevano festa, sazi ed ebbri, gli invitati alle nozze.
(Bulatović: 48)
4) Zahvatio jeperf šakama prašinu i pesak sa zemlje, i dugo ih je
gnječioimp i mleoimp.
Raccoglieva da terra manciate di polvere e sabbia che comprimeva
e sminuzzava. (Bulatović: 66)

Soffermandoci sull’esempio (3), vediamo che nella traduzione si opera una


neutralizzazione fra le idee di “voltarsi” (nell’originale) e di “essere voltato”
(nella versione italiana). All’esplicitamente singolativo e dinamico “voltarsi” SC
corrisponde una forma avente valore stativo, non dinamico nell’italiano. In altre
parole, a un’azione in SC corrisponde uno stato in italiano. In questo caso si può
accettare l’idea che nel transfer dal SC in italiano L2 viene applicato il principio
di omogeneizzazione, nella versione italiana, delle strategie di esposizione, pro-
posto dalla Miklić (1981) per lo sloveno come lingua di partenza, ma applicabile
anche al SC come lingua di partenza. In sostanza, una delle differenze fra SC e
italiano consisterebbe nel fatto che in SC le strategie di narrazione e le strategie
di descrizione appaiono liberamente alternabili (cfr. la presenza contemporanea di
verbi perfettivi e imperfettivi negli esempi 3 e 4), mentre in italiano non lo sono,
e in questo ambito il principio di omogeneizzazione della Miklić costituisce

4 Abbiamo analizzato ambedue le traduzioni della “Prokleta avlija” di Andrić. Di qui le


segnature “Andrić1” e “Andrić2”.
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 575

senz’altro una comodissima regola pratica per la strutturazione di testi in italiano


L2. Ma come spiegare la discrepanza aspettuale presente negli esempi (3) e (4),
ovvero la presenza contemporanea delle due strategie di esposizione all’interno di
uno stesso enunciato? Forse avanzando l’ipotesi che nelle due lingue sia invece
presente la stessa strategia di esposizione, insensibile al valore aspettuale del
verbo. In base a questa ipotesi di lavoro si dovrebbe dedurre o che “voltava” possa
essere un’azione singolativa simile al singolativo SC “je okrenuo”, oppure che “je
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okrenuo” (perfekatperf) sia uno stato simile a “voltava”. Si avrebbe un’ipotesi in


ogni caso incompatibile con le definizioni tradizionali dei concetti di “azione” e
di “stato”, per cui emergerebbe la necessità di una loro eventuale ridefinizione. In
ogni caso, resta il fatto che una stessa idea si manifesti con forme aspettuali oppo-
ste nelle due lingue, e questo punto merita senz’altro approfondimenti e ulteriori
riflessioni, però in altra sede, per motivi di spazio.

3. Restando invece entro i limiti tradizionali della questione, possiamo con-


statare che la libera combinazione, all’interno dello stesso enunciato, di entram-
be le strategie di esposizione (descrizione e narrazione) senza che il testo perda
della sua accettabilità è una caratteristica del SC, differentemente dall’italiano,
dove il passaggio da una strategia all’altra può apparire più drammatico e rap-
presentare quasi un punto di rottura. Quanto detto può essere illustrato dal
seguente esempio:

5) Rodio seperf u Beogradu, školovao seimp Parizu, živeoimp izmeu


Pariza i Beograda. Pisao jeimp do kraja života. Umro jeperf u 75.
godini.
Nacque a Belgrado, frequentò le scuole a Parigi, visse fra Parigi e
Belgrado. Scrisse fino ai suoi ultimi giorni. Morì a 75 anni.

Se si desidera strutturare correttamente il testo in italiano L2, bisognerà


ovviamente trascurare, o neutralizzare il valore aspettuale del perfekatimp applica-
to a tre verbi in (5), ma sentito con convincente intensità in SC (probabilmente
anche per via del fatto che tale valore aspettuale è veicolato dalla stessa radice del
verbo: cfr. i due infiniti pisatiimp e napisatiperf, esempi già classici e presenti in
tanti studi sull’aspetto del verbo slavo). Cfr. anche l’esempio:

6) (...) kada je pre mnogo godina (...) potonulaperf jedna velika


prekookeanska laa, godinama se pričaloimp o tome i sve su novine
sveta daleperf veliki publicitet brodolomu.
(...) quando molti anni fa (...) affondò un grande transatlantico, per
anni se ne parlò e tutti i giornali del mondo diedero grande spazio al
naufragio.
576 SAŠA MODERC

proposto regolarmente agli studenti del secondo anno dell’Università di


Belgrado e regolarmente tradotto con l’imperfetto “parlava” come presunto equi-
valente del perfekatimp “se pričalo”, producendo in italiano un’alternazione scam-
bio inaccettabile delle strategie di esposizione (in casi simili l’avverbiale per x
tempo, una volta appreso che esso in italiano vuole di preferenza i tempi perfetti-
vi, contribuisce ad allontanare incertezze di selezione; il problema nasce però
anche dal fatto che in SC gli avverbiali del tipo per x tempo richiedono di norma
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verbi imperfettivi, essendo in SC la sequenza del tipo per x tempo + verbo per-
fettivo tendenzialmente agrammaticale5.
In ogni caso, la strutturazione della versione italiana dipende dalla strategia
di esposizione adottata per L2: essa però può anche variare individualmente, come
mostrano i seguenti esempi tratti da due traduzioni della stessa opera SC:

7) Izbezumljena od bola, majka se tome oduprlaperf.


Pazza di dolore, la madre si oppose. (Andrić1: 59)
Pazza di dolore, la madre invece si opponeva. (Andrić2: 62)
8) Nemilosrdno se okomioperf na skitnice, pijanice, secikese (...).
Prese di mira senza pietà vagabondi, ubriaconi, tagliaborse (...).
(Andrić1: 27)
Con puntiglio prendeva di mira i vagabondi, i beoni, i tagliaborse
(...). (Andrić2: 30)
9) A kad je staloperf da se mrači, mladi Turčin i fra Petar su večeraliperf
zajedno.
Quando cominciò a far buio, il giovane turco e fra Petar cenarono
insieme. (Andrić1: 51)
E quando cominciava a far sera, il giovane turco e fra’ Pietro cena-
vano insieme. (Andrić2: 53)

A livello testuale, sembra poco rilevante ai fini della comunicazione e della


comprensione insistere sulla conservazione dei valori aspettuali (a volte anche
temporali) presenti in SC. Se le versioni italiane degli esempi (7-9) derivano dalla
stessa matrice, sarebbe interessante occuparsi di quanto vi è in comune fra le sin-
gole coppie di versioni, e non tanto sulle reciproche differenze, morfologicamen-
te già così nette. Si ripropone qui in termini leggermente diversi lo stesso compi-
to linguistico a cui si è accennato poco prima, incentrato sull’eventuale ridefini-

5 Diciamo tendenzialmente, perché il verbo “ostati” (rimanere


perf), per esempio, si combi-
na liberamente con avverbiali del tipo per x tempo. In ogni caso, si è soliti dire che l’aspetto
imperfettivo del verbo SC esprime la “durata” dell’azione o dello stato, per cui l’abbinamento
con avverbiali esprimenti “durata” (per X tempo incluso) appare naturale (quantunque poi nel
transfer in italiano L2 risulti fuorviante).
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 577

zione dei concetti di “stato” e “azione” e dei concetti di “narrazione” e “descri-


zione”.
Il seguente esempio mostra, invece, un esempio di assenza di omogeneizza-
zione, dove si combinano le due strategie di esposizione (procedimento possibile
in italiano, ma non così frequente). Ma si tratta tuttavia di un caso isolato, che può
contribuire a stimolare la riflessione linguistica:
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10) Diomidije Subota se zgranuoperf pred ovakvim užasnim predlo-


gom. Preklinjao jeimp prijatelja da ne čini greške sada kad i bez-
grešni glavom plaćaju.
Diomidio Subota rimase sconvolto nel sentire una proposta così
terrificante. Scongiurava l’amico di non commettere errori nel
momento in cui anche chi non ne aveva fatti pagava con la testa.
(Pavić: 27)

Questo esempio lo citiamo semplicemente perché abbiamo l’impressione che


l’imperfetto “scongiurava” in qualche modo tradisca le origini slave della tradut-
trice, mentre rimaniamo dell’avviso che un traduttore italiano sarebbe stato più
propenso a usare un tempo perfettivo.

4. Oltre ai fenomeni di neutralizzazione aspettuale appena presentati, in ita-


liano, come è noto, è possibile, in alcuni casi (generalmente in assenza di un
avverbiale di tempo esplicito), neutralizzare l’opposizione tra imperfetto e tra-
passato prossimo selezionando uno dei due tempi a seconda di quale grado di
rilievo (maggiore o minore rispetto alla prospettiva del personaggio di cui si
espongono le vicende, o rispetto alla prospettiva del narratore) venga attribuito a
una data azione o stato in un dato segmento dell’esposizione. Illustreremo questa
idea con il seguente esempio, in cui a dire il vero figura un congiuntivo trapassa-
to. Ma, date le affinità temporali e aspettuali fra questa forma verbale e il trapas-
sato prossimo, riteniamo lecito accostare questi due tempi:

11) Fui pervaso da un’intuizione affascinante e sconvolgente, che,


riflesso di se stessa, in me divenne evidenza di una verità inconte-
stabile, attraversando il mio corpo, già debilitato, in ondate simili
a spasmi, come se avesse voluto farlo esplodere, facendomi vacil-
lare come ebbro. (Drewermann: 12)

Ora, sulla temporalità di esempi di questo tipo, che siano all’indicativo o al


congiuntivo, si può discutere; qui, tuttavia, abbiamo l’impressione che possa pre-
valere una interpretazione neutra del congiuntivo trapassato, più prossima all’i-
dea di contemporaneità nel passato che non a quella di anteriorità vera e propria.
Il contenuto semantico dell’enunciato non sembra soffrire cambiamenti impor-
578 SAŠA MODERC

tanti: l’uso del congiuntivo imperfetto o del congiuntivo trapassato sembra deter-
minato, come detto sopra, da fattori sostanzialmente esterni al verbo. Se poi si
volesse insistere sulla temporalità, si dovrebbero fare i conti con tutte le implica-
zioni prodotte dalla presenza di un tempo perfettivo del verbo volere. Si può anche
considerare il seguente esempio, contenente invece un congiuntivo imperfetto il
cui valore temporale è avvicinabile a quello del trapassato congiuntivo:
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12) Hai presente quello che ho detto dei nuovi venuti? Tuo figlio lo
sapeva ancora prima che io dicessi quelle parole. Ma non sapeva
in quale modo poteva diventare un nuovo venuto. (Bergamini)

Anche in questo caso non insistere sulla temporalità dell’enunciato può costi-
tuire un tentativo di interpretazione leggermente diverso (forse complementare)
rispetto alle interpretazioni tradizionali incentrate sulla temporalità. Ora, nel rap-
porto fra SC e italiano, il discorso sulla neutralizzazione dei valori temporali e
aspettuali si può riproporre in termini diversi, legati in maggiore misura a scelte
lessicali. Infatti, negli esempi che seguono:

13) Sunovraćivao se ponovo Leandrov pogled (...) do savskih


pašnjaka podno tvrave gde su krave (...) provalileperf u mali
zabran s prazilukom (...) i brstile ga (...).
Lo sguardo di Leandro (...) precipitava di nuovo fino ai campi
sulla Sava, sotto la torre, dove le mucche (...) entravano in un pic-
colo orto pieno di porri per mangiarli (...). (Pavić: 45)
14) Mesec se približioperf kraju, bilo je vreme kada psi pasu (...).
Il mese stava volgendo al termine, era un periodo in cui i cani
mangiano l’erba (...). (Pavić: 16)
15) Nisu – odgovorio je glasno fra Petar, kom su Haimove “mere”
počeleperf da bivaju dosadne.
“No” rispose forte fra Petar, al quale le “misure” di Haim comin-
ciavano a dar fastidio. (Andrić1: 104)
“No,” rispose forte fra’ Pietro, cui le “misure” di Haim comincia-
vano a dar fastidio. (Andrić2: 105)
16) A kad se, sasvim slučajno i ne predosećajući ništa, osvrnuo iza
sebe, spazio je onu dvojicu kako trče za njim. Pomislio je da su ga
oči (...) prevarileperf (...).
Ma quando, del tutto casualmente, senza sospettare di nulla, si
voltò all’indietro, vide quei due che lo rincorrevano. Pensò che gli
occhi (...) lo stessero ingannando (...). (Šćepanović: 26)

gli equivalenti italiani dei verbi SC sottolineati sono stati integrati in una stra-
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 579

tegia di descrizione; in ogni caso sembrerebbe poco convincente o motivato insi-


stere sulle peculiarità temporali e aspettuali dell’originale, ovvero sul fatto che le
mucche (13), letteralmente, “erano penetrate rompendo il recinto”, come vuole
Pavić, perché è il contesto a segnalare l’iteratività della situazione tramite la forma
brstile (su)imp (ovvero, una volta rotto il recinto, le mucche venivano e tornavano
e “mangiavano i porri”), o (14) che “il mese si era avvicinato alla fine” (ai fini
della comunicazione è poi così importante distinguere tra l’essersi il mese avvici-
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nato alla fine e l’avvicinarsi del mese alla fine?), o (15) che “le “misure” aveva-
no cominciato” a dare fastidio (ma in quale preciso momento? Qual è, o quand’è
avvenuto il punto di rottura6, o (16) che “gli occhi lo avessero ingannato” (a dire
il vero, e a parte i valori temporali e aspettuali: la versione italiana di [16] risulta
più carica di partecipazione emotiva del personaggio in questione, mentre questi,
nella versione SC, appare più distaccato: l’inganno prodotto dagli occhi viene
presentato in SC come uno stato di cose prodotto da un’azione, quindi come ele-
mento più vicino allo “sfondo” [background], se per “sfondo” si può intendere
quell’elemento dell’esposizione che si profila meno attuale o rilevante rispetto ad
altri elementi; in italiano, invece, questo stesso elemento viene colto nel suo dive-
nire, in un processo, e appare più vicino al “primo piano” [foreground]).
La particolare scelta lessicale in L2 influisce direttamente sulla selezione
della forma verbale e, quindi, dell’aspetto del verbo italiano anche nell’esempio
che segue:

17) Taj nadimak mu je odavno postaoperf pravo i jedino ime (...).


Questo soprannome è diventato da tempo il suo vero e unico nome
(...). (Andrić1: 26)
Quel soprannome, già appioppatogli da lungo tempo, era l’unico
suo nome riconosciuto (...). (Andrić2: 28)

Qui il verbo “essere”, nella seconda versione, come equivalente di “postati-


perf”(diventare) deve per forza figurare all’imperfetto, in quanto l’eventuale idea
di perfettività veicolata dagli altri tempi del passato dell’indicativo sarebbe perlo-
meno incompatibile con il grado di rilevanza e attualità che il soprannome di cui
si parla ha per il personaggio nel momento del racconto colto da questo segmen-
to dell’esposizione. Un caso simile si ha nei due esempi che seguono, dove al per-
fekatperf “je (...) stao” (qui: mettersi / fermarsi [davanti a qualcuno]) corrisponde
meglio delle altre varianti il passato remoto del verbo “pararsi”:

6 La forma perfettiva SC, in assenza di un avverbiale di tempo, non si interpreta necessa-


riamente come legata a un più o meno preciso momento cronologico in cui la “pazienza degli
altri viene a mancare”: con questo verbo – su (...) po_ele – si esprime semplicemente l’avvento,
tramite un’azione, di uno stato nuovo, irreversibile, diverso dallo stato precedente.
580 SAŠA MODERC

18) Sa zbunjenim i tihim pozdravom pred njega je staoperf Ćamil.


Davanti a lui c’era Ćamil, che lo salutava, imbarazzato e silenzio-
so. (Andrić1: 80)
Ćamil stava davanti a lui e lo salutava impacciato e in silenzio.
(Andrić2: 80)
19) Tako je i sada sam staoperf pored fra-Petra i sam počeo razgovor o
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čoveku sa promuklim basom.


Anche questa volta si parò davanti a fra Petar e cominciò di sua ini-
ziativa a parlare dell’uomo dalla voce roca di basso. (Andrić1: 118)
Ora se ne stava vicino a fra’ Pietro e spontaneamente cominciò a
parlare dell’uomo dalla voce bassa e roca. (Andrić2: 119)

Le altre varianti (“esserci”, “stare” e “starsene”), tutte imperfettive, costitui-


scono le uniche alternative accettabili, considerata la semantica dei verbi stessi e
dell’imperfetto, come pure le implicazioni derivanti dall’eventuale uso di un
tempo perfettivo, con il quale invece i tre verbi stativi verrebbero a esprimere delle
azioni portate a termine: ma trattandosi di verbi stativi, forse sarebbe più appro-
priato parlare di stati sostanzialmente cambiati. Per via delle possibili implicazio-
ni derivanti dall’eventuale uso di un tempo perfettivo, considerato l’originale, tali
traduzioni risulterebbero scarsamente accettabili, oppure richiederebbero adatta-
menti sostanziali del testo in L2. In ogni caso, rimane aperta la questione del pos-
sibile parallelismo fra strategia di narrazione e strategia di descrizione.

5. In alcuni casi, in verità meno frequenti, ma che vanno comunque segnala-


ti, si ha una situazione in cui l’aspetto verbale domina sopra il valore temporale
del verbo: il verbo, temporalmente, appartiene al passato, ma si tratta di un pas-
sato “vago”, indefinito, avvicinabile all’indefinitezza dell’imperfetto italiano, ma
non del tutto assimilabile ad essa. È una situazione che rammenta quella della
neutralizzazione temporale e aspettuale menzionata prima. Nell’esempio che
segue:

20) U Carigradu je tada živeo jedan Italijan, neimar, koji je gradioimp


nekoliko mostova u okolini Carigrada (...).
Viveva allora a Costantinopoli un architetto italiano che aveva costrui-
to alcuni ponti nei dintorni di Costantinopoli (...). (Andrić3: 61)

l’informazione sulla temporalità è mediata in primo luogo da implicazioni


fondate sulla conoscenza del mondo (se l’architetto all’epoca viveva a
Costantinopoli, i ponti doveva averli costruiti in precedenza, se non altro perché è
generalemente improbabile pensare che egli non avrebbe controllato di persona i
lavori), e non dalle sole forme verbali in SC o da altri segnali linguistici. La stes-
sa constatazione può applicarsi al seguente esempio:
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 581

21) Zatim je nekoliko dana odlazio u Banju, gde je bio majdan sedre
iz koga je vaenimp kamen za višegradski most.
Poi si recò alcuni giorni alla cava di Banja, da dove avevano estrat-
to le pietre per il ponte di Visegrad. (Andrić3: 61)

Qui il perfekatimp “je vaen” è caratterizzato anch’esso dalla stessa vaghezza


temporale dell’esempio precedente; la conoscenza del mondo ci suggerisce che
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(probabilmente) la costruzione del ponte di Visegrad (quello del Ponte sulla


Drina) è ormai stata portata a termine, e quindi l’estrazione delle pietre per que-
sto ponte non ha più luogo. L’imperfetto “estraevano”, coadiuvato da un’apposita
locuzione con valore avverbiale (ai tempi dei lavori: la funzione di questo avver-
biale sarebbe quella di neutralizzare il valore di “contemporaneità nel passato”
espresso tendenzialmente dall’imperfetto), avrebbe potuto essere una soluzione
accettabile, anche se in sostanza essa sarebbe temporalmente affine al trapassato
prossimo.
Nell’esempio che segue, il verbo “je (...) nestajao” indica qualcosa che è a
mezza strada fra processo (l’azione del perfekatimp è considerata nel suo insieme,
si ha un’idea di “calo” cumulativo della quantità dell’oro) e iteratività (l’azione
del perfekatimp è suddivisa in singoli episodi: la conoscenza del mondo ci induce
a pensare che l’oro veniva rubato gradualmente, poco per volta, in più occasioni
distinte):

22) Iz kovnice je polagano ali stalno nestajaoimp dragocen metal.


Dalla Zecca aveva cominciato a sparire, poco per volta, il prezio-
so metallo usato per coniare le monete. (Andrić1: 40)
Dalla zecca poco per volta ma di continuo mancava il pregiato
metallo. (Andrić2: 42)

Per rendere questa idea in italiano, bisognerebbe, in teoria, selezionare verbi


che abbiano valore progressivo, non così esplicitamente presente nel mancava
della Marchiori: esso, nonostante l’avverbiale di continuo, non sembra inibire con
sufficiente decisione l’idea di statività. Senz’altro è una soluzione migliore l’ave-
va cominciato a sparire di Costantini, benché in SC non figuri nessuna idea di
ingressività. L’imperfetto “spariva”, o “veniva/andava sparendo” e sim. poteva
essere usato tranquillamente, ed è questa la soluzione che forse ci si sarebbe
aspettati da un traduttore di madrelingua SC. Il quale, a dire il vero, nel transfer
in italiano L2 viene troppo di frequente messo in soggezione dalle caratteristiche
aspettuali del verbo in L1, per cui tende a conservare a ogni costo tali caratteri-
stiche, magari anche a scapito dello stile, insistendo su distinzioni possibili, ma
perlomeno inconsuete o addirittura superflue per l’italiano.
Da quanto esposto si può dedurre che la produzione in italiano L2, per quan-
to concerne la sfera del verbo, comporta delle difficoltà non risolvibili mediante
le nozioni fondamentali acquisite circa il valore dei tempi verbali. A livelli cogni-
582 SAŠA MODERC

tivi immediatamente superiori, sono la conoscenza del mondo e la conoscenza


delle regole di strutturazione del testo italiano a suggerire, di volta in volta, le
soluzioni linguisticamente o stilisticamente più plausibili. Comunque, in base a
quanto detto, a causa dell’asimmetria dei due sistemi verbali, si potrebbe conclu-
dere che fra distinzioni temporali, aspettuali e azionali, sono proprio le prime,
morfologicamente le più marcate nel sistema verbale italiano e contemporanea-
mente le meno morfologizzate in SC, quelle che tendono a essere più facilmente
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(rispetto ad aspetto e azione) relegate in secondo piano in ambedue le lingue,


aprendovi lo spazio per i numerosi usi “spostati” dei tempi. La apparente secon-
darietà della sfera temporale quindi non sembra una peculiarità esclusiva del SC,
dato che anche in italiano è possibile reperire esempi di uso dei tempi verbali non
esplicabili mediante i diagrammi Reichenbachiani, o altri a esso simili o da esso
derivati (e in ogni caso, basati prevalentemente sul concetto intuitivo di tempo).
Qui ci si riferisce senz’altro agli usi “modali” dei tempi verbali, o ai valori “com-
mentativi” o “introduttivi” di un tempo come, per esempio, il trapassato prossi-
mo e altri, simili fenomeni. Infatti, si ha l’impressione che né la temporalità né l’a-
spettualità o l’azionalità possano contribuire a spiegare certi usi del trapassato
prossimo, massicciamente presente, per esempio, nel romanzo di Laura Bosio “I
dimenticati” (dove esso svolge la funzione di leading tense globale), o certe rinun-
ce al suo uso, in esempi come il seguente:

23) U Dobračinu ulicu nije više odlazila, jer je dečak znao bolje od nje
desnu stranu sveske, a ona je sebe uhvatilaperf kako ga sve češće
propituje samo levu stranu (...).
Non andava più in via Dobračina, perché il bambino sapeva
meglio di lei il contenuto della parte destra del quaderno, ma lei
sorprendeva se stessa nell’atto di interrogarlo sempre più spesso
sul contenuto del lato sinistro (...). (Pavić: 23)

dove al perfekatperf “je (…) uhvatila” dovrebbe, in teoria, corrispondere un


trapassato prossimo. Anche qui però la temporalità sembra essere relegata in
secondo piano, a vantaggio della dimensione aspettuale dell’enunciato. Un altro
stimolo per delle riflessioni linguistiche e filosofiche.
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 583

CORPUS

Gli esempi italiani sono stati tratti dalle seguenti fonti:

Andrić1: Ivo Andrić, La corte del diavolo, Adelphi, Milano (trad. di Lionello Costantini)
Andrić2: Ivo Andrić, Il cortile maledetto, Bompiani, Milano (trad. di Jolanda Marchiori)
Andrić3: Ivo Andrić, “Il ponte sulla Zepa”, in: La sete, Vallecchi, Firenze (trad. di Luigi
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Salvini)
Bergamini: Giovanni Bergamini, Cuori di pelle. (htpp://dadamag.agonet.it)
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584 SAŠA MODERC

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FUORI SESSIONE
SARAH LABAT-JACQMIN
(Université de Nice-Sophia Antipolis, Laboratoire d’Ingénierie linguistique et de
Linguistique appliquée)

La definizione di vincoli fondati sulla struttura argomentale del verbo italia-


no nell’ambito di un sistema di analisi automatica
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1. INTRODUZIONE

In questo articolo cercheremo di mostrare quanto una descrizione generale


del comportamento del verbo italiano e della proposizione possa rivelarsi un
attrezzo utile per i sistemi di Elaborazione del Linguaggio Naturale. Più precisa-
mente, mostreremo come, da una molteplicità di comportamenti a volte comples-
si, sia possibile dedurre dei vincoli abbastanza semplici (chiamati ‘constraints’ da
chi preferisce l’inglese) che si rivelano assai efficienti per la risoluzione delle
ambiguità durante la prima fase di analisi, quella cioè che ha come scopo la seg-
mentazione della frase in sintagmi semplici.

2. TIPOLOGIA DEI TESTI DA ANALIZZARE

I sistemi di analisi automatica si possono dividere in due grandi gruppi:

– quelli che ricercano un’analisi completa del testo, in modo da poter


rappresentare il suo ‘contenuto’ semantico. Questi sistemi fondano
la loro analisi sul lessico, che associa a ogni parola una sua descri-
zione con un livello di precisione corrispondente a quello richiesto
dal sistema. Il lessico deve indicare in quale modo una parola può
interagire con altre. Ad esempio, deve precisare quale tipo di nome
un dato aggettivo, o gruppo di aggettivi, può modificare. Deve pure
indicare quale sia la valenza di ogni verbo e quali siano i diversi
significati associati. Queste descrizioni possono venire rappresenta-
te seguendo vari formalismi come per esempio KL-ONE1 che è il
più diffuso. Va da sé che lo sviluppo di un tale lessico comporta un
lavoro considerevole e che quindi è possibile concepirlo solo nel
quadro di campi molto limitati come certi campi particolari della

1 Brachman & Schmolze, 1985.


588 SARAH LABAT-JACQMIN

medicina o, per dare un esempio italiano, un sistema di analisi di


diagnosi di guasti per la Fiat2.
– Il secondo gruppo è quello dei sistemi di analisi automatica che
intendono consentire l’elaborazione di testi vari rilevanti di campi
tanto diversi quanto possibile, senza conoscenza speciale del campo
del testo. Il sistema deve essere in grado di analizzare nello stesso
modo, cogli stessi strumenti testi di medicina, di meccanica, di
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informatico o di ecologia, ecc... Rispondono alla esigenze di varie


applicazioni quali i sistemi documentari in campi illimitati, sia per
l’indicizzazione che per la ricerca documentaria, ma possono anche
essere utili per fornire a poco prezzo interfacce per database o siste-
mi esperti ad esempio. In questo contesto di analisi di testi in campi
illimitati, è impossibile disporre d’un dizionario abbastanza ricco da
orientare l’analisi del testo, innanzitutto perché ci vorrebbero deci-
ne di anni per sviluppare un tale dizionario, se si deve considerare
non sono tutte le parole ma anche tutte le interpretazioni legate a
ogni parola quando non si lavora su un campo limitato (basta consi-
derare il lavoro di Maurice Gross). Gli unici dati su cui è possibile
fondare l’analisi sono quindi i dati che non cambiano da un testo
all’altro, i cosiddetti ‘invarianti’ della lingua, cioè le strutture, le
parole, i morfemi che non sono legati a un campo particolare.

Il sistema che abbiamo sviluppato appartiene a questo secondo gruppo: I testi


da analizzare sono testi tecnici o scientifici reali che non sono né selezionati né
preparati prima della loro elaborazione. Possono provenire da campi molto vari
come quelli della medicina, della meccanica, dell’economia, della fisica o del-
l’informatica3.

3. TIPO DI ANALISI MIRATO: LO ‘CHUNK PARSING’

Lo scopo del nostro sistema è la segmentazione delle frasi in elementi sem-


plici tradizionalmente chiamati ‘chunks’ nel campo dell’Elaborazione del
Linguaggio Naturale. Questi elementi semplici sono il sintagma nominale sem-
plice, il verbo, il sintagma verbale semplice, l’avverbio, ecc...).
Presentiamo nella tabella qui sotto un esempio di segmentazione in ’chunks’.
Si può osservare che molti segmenti si limitano a una parola unica. Per esempio

2 Ciravegna Fabio, Campia Paolo, Colognese Alberto, Knowledge Extraction from Texts by
Sintesi, Actes de COLING-92, 23-28 Août 1992.
3 Però per questo sarà molto spesso necessario utilizzare delle conoscenze di livello più
alto, legate al lessico (sarà il lessico ad indicare quale tipo di soggetto è accettabile per un verbo
particolare, quale tipo di sostantivo un dato aggettivo può modificare, ecc...).
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 589

gli aggettivi che seguono un nome non sono sempre attaccati al nome perché un
aggettivo può essere legato o meno al nome che precede e le verifiche da appli-
care per determinare quale sia il padre di questo costituente possono rivelarsi
molto complesse e non sempre efficienti. Per esempio la frase

(1) Considerano questo problema risolto.


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ha due interpretazioni possibili: La prima analisi è quella dove risolto è un com-


plemento predicativo. Ma un’altra interpretazione sarebbe quella dove si è appe-
na parlato d’un problema risolto e dove considerare avrebbe il senso di osser-
vare.

Tabella 1

Questo tipo di segmentazione in elementi semplici va molto di moda oggi


perché si rivela utile in applicazioni svariate. Infatti costituisce un primo livello di
analisi da cui è quasi obbligatorio passare qualsiasi le applicazioni mirate: quan-
do si è arrivati a questa segmentazione, molti problemi sono già risolti, problemi
di cui è necessario liberarsi prima di passare ad un altro livello di analisi come la
ricerca delle dipendenze tra i vari sintagmi. Alla fine di questa fase di analisi, gran
parte delle ambiguità ‘lessicali’ sono risolte (ambiguità tra nome e verbo, tra arti-
colo e pronome personale...). Solo allora è possibile cominciare a ricercare quale
sia la funzione sintattica di ogni ‘chunk’ (quali siano i modificatori dei SN, del
verbo, ecc...) per costruire una rappresentazione della frase sotto forma di dipen-
denza4.
Pertanto, questo tipo di segmentazione può servire come primo livello di ana-
lisi laddove un’analisi sintattica più elaborata della frase è aspettata. Ma lo stesso
tipo di analisi può anche venire utilizzato direttamente per altre applicazioni più
semplici come la costruzione di indici ad esempio. Può anche venire usato per
varie applicazioni di apprendimento automatico a base statistica. Per esempio, si

4 cf. Basili, Pazienza, Velardi, 1992.


590 SARAH LABAT-JACQMIN

può ricercare i tipi di verbi che si incontrano spesso nei pressi d’un tipo partico-
lare di sintagma nominale, ecc (mi riferisco ai lavoro del GELN ad esempio5).

4. STRUMENTI A DISPOSIZIONE PER QUESTO TIPO DI ANALISI: GLI ‘INVARIANTI’ DELLA


LINGUA
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Abbiamo visto che i sistemi di analisi automatica in campo illimitato devono


fondarsi sugli invarianti della lingua, cioè i dati, le strutture che non cambiano da
un campo all’altro:
Tra questi invarianti si possono individuare

1) le parole strumenti (che hanno soltanto un valore grammaticale e


che si incontrano in qualsiasi testo: articoli, congiunzioni, preposi-
zioni, certi avverbi).
2) la morfologia: Sono i suffissi e le desinenze che permetteranno di
associare a ogni parola le sue categorie lessicale (Nome, Verbo..) e
grammaticali (singolare, femminile...).
3) La sintassi: I verbi – e soprattutto i sostantivi – che appaiono nei vari
testi cambiano da un tipo di testo all’altro, ma le regole sintattiche
che vanno rispettate sono le stesse (accordo tra il soggetto e il pre-
dicato, posizione degli argomenti del verbo, posizione dei pronomi
e degli articoli...).

Tutti questi dati costituiscono gli strumenti che vengono utilizzati dal nostro
sistema.
Non presentiamo qui il funzionamento dell’analizzatore morfologico né il
procedimento generale dell’analizzatore sintattico, ma presentiamo uno strumen-
to sviluppato per la risoluzione delle ambiguità Nome/Verbo che sono molto
numerose e che costituiscono uno dei problemi maggiori per l’analisi automatica
dell’italiano.

5. IL PROBLEMA DELLE AMBIGUITÀ

La prima fase dell’analisi automatica generalmente chiamata ‘analisi morfo-


logica’ consiste nel segmentare il testo in frasi e le frasi in parole ed nell’associa-

5 Per questo concetto di ‘ambiguità’ ci sembra più opportuno adottare una categoria lessi-
cale unica ‘Nome’ che si può giustificare linguisticamente: cfr. Labat-Jacqmin, 2001.
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 591

re ad ogni parola una ‘etichetta’ (un ‘label’), cioè le sue possibili categorie lessi-
cali e grammaticali. La catena di etichette così prodotta verrà poi confrontata nella
seconda fase di analisi con le regole sintattiche di descrizione della frase e dei sin-
tagmi.
Ma molto spesso queste parole sono ambigue. Ad esempio in una frase come

(2) Continua la caccia ai terroristi,


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ogni parola presa individualmente tranne ‘ai’ può venire considerata quale
’ambigua’6.

’continua’: Agg fem sg // V, 3a Pers sing. pres ind


’la’: Art det fem sg // c. ogg proclitico
’caccia’: Sost fem sing // V. 3a pers. sing. pres. ind.
’ai’: Prep ‘a’ + art det mas plur
’terroristi’: Agg mas plur o Sost mas plur

Nella tabella seguente tutte le parole ambigue sono in grassetto. Certe ambi-
guità sono ovvie come la o l’ (pronome personale o articolo determinativo). Altre
sono più teoriche come natura che normalmente è un nome ma che potrebbe esse-
re la terza persona singolare del verbo naturare.

Tabella 2

6 La Repubblica, 17.09.2001.
592 SARAH LABAT-JACQMIN

Tutte queste ambiguità non hanno la stessa ‘gravità’ per l’analisi sintattica,
nel senso che alcune sono centrali per l’analisi mentre altre non impediscono un
primo livello di analisi. Infatti l’ambiguità Nome/Aggettivo non impedisce nor-
malmente il riconoscimento dei limiti del SN (ma non si potrà riconoscere quale
sia la testa del sintagma nominale) mentre quella Nome/Verbo va necessariamen-
te riconosciuta anche quando si mira solo a un’analisi parziale della frase.
Le ambiguità che ci interessano particolarmente sono quindi queste ambiguità
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Nome /Verbo perché la loro risoluzione è fondamentale per l’analisi. Pertanto è per
queste ambiguità che abbiamo cercato di sviluppare strumenti di risoluzione. Comin-
ciamo col presentare brevemente le difficoltà legate alle ambiguità Nome/Verbo.
Queste provengono principalmente dalle identità formali

– tra la desinenza femminile singolare dei nomi o aggettivi del primo


paradigma (-a) e la desinenza dei verbi del primo gruppo alla terza
persona singolare del presente dell’indicativo, o la desinenza dei
verbi degli altri gruppi al singolare del presente del congiuntivo (es.:
caccia, ricusa, critica, faccia...)
– tra la desinenza maschile singolare dei nomi o aggettivi del primo
paradigma (-o) e la desinenza dei verbi alla prima persona del sin-
golare (es.: ricupero, ormeggio, punteggio, punto, meno...)
– tra le desinenze nominali in -i (maschile plurale del primo paradig-
ma e plurale degli altri paradigmi), e le desinenze del presente del
congiuntivo dei verbi del primo gruppo o della seconda persona del
singolare al presente dell’indicativo (es.: ricuperi, parti...)
– tra le desinenze nominali in -e (femminile plurale per il primo para-
digma o singolare per i secondo paradigma) e la desinenza della
terza persona del singolare al presente dell’indicativo per i verbi dei
secondo e terzo gruppi (es.: parte...).

6. FUNZIONAMENTO GENERALE DEI SISTEMI DI ANALISI AUTOMATICA

Generalmente, l’analisi sintattica consiste nel paragonare la catena di etichet-


te prodotte dalla prima fase di analisi con modelli di frase accettabili.
Questi modelli sono del tipo:
F –> [SAvv] SN [SAvv]SV [Avv]
SN –> [Det] [Agg] Sost [Agg]
SV –> V0
SV –> V1 SN
SV –> V2 SN SP
SV –> Vattr SN
SP –> Prep SN
SAvv –> Avv
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 593

SAvv –> [,]SP [,]


SN –> [SN,]* SN coord SN
SV –> [SV,]* SV coord SV
F –> [F,]* F cong F
F –> [Savv] SV SN
SN –> [Det] Agg
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(le parentesi quadre indicano gli elementi facoltativi)


(l’asterisco indica un elemento ripetibile)

Questo tipo di descrizione è stato sviluppato per l’inglese che è una lingua
dove l’ordine delle parole è molto vincolato. Siccome in questa lingua il sogget-
to precede normalmente il verbo, l’ordine consente di risolvere le ambiguità
Nome/Verbo facilmente. Però per l’italiano la situazione è molte diversa perché
non solo il soggetto non precede obbligatoriamente il verbo, ma anche perché può
non essere espresso. È quindi necessario sviluppare degli strumenti adattati ai
fenomeni specifici a questa lingua.

7. PROBLEMI LEGATI ALL’ADATTAMENTO DI QUESTO APPROCCIO ALLA LINGUA ITALIANA

Cinque aspetti particolari complicano l’analisi dell’italiano.

a) l’ordine libero degli argomenti del verbo,


b) i soggetti non espressi,
c) l’articolo zero,
d) le numerose ambiguità Nome/Verbo,
e) le ambiguità tra articolo e pronome personale proclitico,
f) le ambiguità tra pronome e aggettivo determinativo (questo, molti,
nessuno, uno)..

Questi aspetti rendono difficile la distinzione tra soggetto e oggetto (punti a e


b), ma anche tra il SN e il Verbo (punti a a f) e la determinazione dei limiti dei
sintagmi (punti c e f) come nella frase

(3) In questi paesi orientali sono stati aggrediti.

8. LA DEFINIZIONE DI ‘VINCOLI’ PER LA RISOLUZIONE DELLE AMBIGUITÀ

Se, subito dopo l’analisi morfologica, si vuole analizzare direttamente la cate-


na di etichette prodotta dalla prima fase di analisi confrontandola con la descri-
zione dei modelli di frase e di sintagmi dell’italiano, questa seconda fase di ana-
594 SARAH LABAT-JACQMIN

lisi diviene molto complessa e molto lunga perché ogni ambiguità lasciata dall’a-
nalisi morfologica raddoppia il numero delle combinazioni da considerare. Per
esempio per la frase (2) già considerata, ci saranno 16 combinazioni da confron-
tare con le regole di descrizione della sintassi dell’italiano:

1. Agg Art V prepArt N


2. Agg Art V prepArt Agg
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3. Agg Art N prepArt N


4. Agg Art N prepArt Agg
5. Agg pron V prepArt N
6. Agg pron N prepArt Agg
7. Agg pron N prepArt N
8. Agg pron N prepArt Agg
9. V Art V prepArt N
10. V Art V prepArt Agg
11. V Art N prepArt N
12. V Art N prepArt Agg
13. V pron V prepArt N
14. V pron V prepArt Agg
15. V pron N prepArt N
16. V pron N prepArt Agg

È quindi molto importante limitare il numero delle ambiguità prima di


cominciare l’analisi sintattica.
Per questo motivo, i sistemi di analisi automatica applicano generalmente,
prima dell’analisi sintattica, dei ‘vincoli’ che hanno per obbiettivo la riduzione del
numero delle ambiguità. Questi vincoli sono delle regole semplici il cui unico
scopo è il rigetto rapido di etichette sbagliate. Non hanno lo scopo di produrre
analisi giuste ma solo di rigettare quelle sbagliate.
Si possono individuare due tipi di vincoli:

– quelli che controllano delle concordanze, generalmente tra un even-


tuale articolo e il nome o l’aggettivo che sussegue. Questo tipo di
vincolo permette di cancellare l’interpretazione sbagliata di ‘lo’
come articolo nella catena ’lo caccia’, ma non nella catena ‘la cac-
cia’ dove ‘la’ può essere sia un articolo che un pronome personale.
– Quelli che impediscono che certe categorie lessicali si susseguano
immediatamente. Questo tipo di vincolo è sempre applicato in ita-
liano per risolvere le ambiguità Pronome Personale/Articolo a
seconda della categoria della parola che segue: se si tratta d’un
verbo, la parola anteposta non è mai un articolo, e inversamente, se
si tratta d’un nome, la parola lo, la, gli, le, l’anteposta non è mai un
pronome personale.
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 595

Un altro vincolo di questo tipo a volte applicato dai sistemi di analisi auto-
matica è quello che chiameremo *VV e che impedisce che due verbi finiti si sus-
seguano. Questo vincolo consente la risoluzione dell’ambiguità ‘caccia’ nella
frase

(4) La caccia è anche uno sport.


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Quest’ultimo vincolo, che è molto efficiente, è però troppo semplice perché


non prende in considerazione le possibilità di embricatura di proposizioni come
nella frase

(5) Il fatto che la caccia è un problema.

Però questi vincoli si fondano soltanto sul contesto immediato della parola da
analizzare. Falliscono quando è necessario prendere in considerazione un conte-
sto più ampio. Ad esempio il vincolo *VV non funziona più quando i due verbi
finiti candidati sono separati da almeno un avverbio, un sintagma preposizionale
o un altro costituente. D’altronde abbiamo anche visto che, a volte, sono troppo
semplici perché sono state dedotte da osservazioni statistiche anziché da cono-
scenze linguistiche.

9. LO SVILUPPO DI NUOVI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA VERBALE

Il nostro approccio è stato quello di determinare quali fossero le conoscenze


linguistiche da sfruttare per aumentare la portata di questo tipo di vincolo in modo
da risolvere un numero più importante di ambiguità Nome/Verbo ma anche per
renderli più efficiente evitando errori come quella della frase (5). Come, quindi,
sfruttando lo stesso tipo di conoscenze, risolvere semplicemente l’ambiguità cac-
cia non solo nella frase (4), ma anche nelle frasi (6) o (7)

(6) La caccia, anche, è uno sport.


(7) La caccia da molti anni è diventata un soggetto di discussione

Per questo, abbiamo cercato di determinare quale tipo di conoscenze fosse


all’origine del vincolo *VV, in modo da poter migliorarlo e aumentare la sua por-
tata. A questo scopo, ci siamo fondati su osservazioni che riguardano la struttura
della proposizione italiana. Queste osservazioni riguardano sia il contenuto della
proposizione (quale è il numero minimo o massimo di ogni tipo di costituente
della proposizione e quali sono i marcatori che permettono di riconoscerli) sia i
596 SARAH LABAT-JACQMIN

marcatori dei limiti della proposizione stessa. Queste osservazioni sono sette (per
motivi di semplificazione del discorso, non menzioniamo qui i fenomeni di coor-
dinazione o di enumerazione che sono nondimeno prese in considerazione dal
sistema):

a) la proposizione racchiude un solo verbo finito


b) può racchiudere un soggetto al massimo
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c) può racchiudere al massimo un complemento oggetto o un comple-


mento predicativo del soggetto (es: Questa ragazza non sembra stu-
pida)
d) con un numero limitato di verbi (appellativi, elettivi, estimativi e
effettivi) è possibile anche avere un complemento predicativo del-
l’oggetto, la posizione di cui è molto vincolata (es: l’hanno eletto
presidente)
e) gli altri costituenti che possono essere presenti sono i SP e i SAvv.
Il loro numero non è limitato.
f) i costituenti della proposizione possono essere spostati ma non pos-
sono essere incastrati fra di loro.
g) Esistono ‘marcatori’ dei limiti di proposizione (punteggiatura, con-
giunzioni, pronomi relativi).

10. LA DEFINIZIONE DI FRAMMENTI DI PROPOSIZIONE (FP)

La situazione ideale sarebbe quella di definire con precisione delle regole che
permettano di definire per tutte le frasi, il limite delle sue proposizioni.
Sfortunatamente molti marcatori dei limiti di proposizione possono essere ‘ambi-
gui’ e marcare anche limiti di altri tipi (ad esempio le congiunzioni coordinative
possono coordinare sia delle proposizioni che dei sintagmi nominali). È nondi-
meno possibile individuare, nella frase, tutti i ‘limiti potenziali di proposizione’ e
affermare che ogni porzione di frase contenuta che tra due di questi limiti poten-
ziali è inclusa dentro una unica proposizione. Chiameremo queste porzioni di
frase fra due limiti potenziali di proposizione Frammenti di Proposizione (FP).
Siccome queste ogni FP è inclusa all’interno d’una sola proposizione, è pos-
sibile dedurre dalle assunzioni già descritte che in ognuno di questi FP, c’è al mas-
simo un verbo, un soggetto e un oggetto.

11. INTRODUZIONE DELLA DISTINZIONE TRA COMPLEMENTO DIRETTO E COMPLEMEN-


TO INDIRETTO

Inoltre, siccome è difficile distinguere il soggetto dall’oggetto, un’altra


distinzione viene adoperata, quella tra complemento diretto (soggetto, oggetto e
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 597

anche complemento predicativo dell’oggetto e del soggetto) e complemento indi-


retto (i complementi introdotti da preposizioni e i complementi di tempo, il cui
numero non è limitato).
Il vincolo che viene applicato dal sistema impedisce che ci sia più di un verbo
nei FP, ma anche che ci siano più di due complementi diretti .
Il vincolo così definito, che limita all’interno di porzioni di frasi il numero dei
verbi e dei complementi diretti riduce considerevolmente il numero delle ambi-
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guità Nome/Verbo. Permette di rifiutare tutti i verbi candidati all’interno d’un FP


appena un verbo è stato riconosciuto. Consente ad esempio di risolvere l’ambi-
guità ‘caccia’ appena si incontra il verbo ‘è’ nella frase:

(8) La caccia da molti anni è diventata un soggetto di discussione

12. PRESA IN CONSIDERAZIONE DELLA PRESENZA DI FORME VERBALI NON FINITE

Va però notato che questa descrizione non è completa perché non abbiamo
ancora menzionato il caso delle forme non finite del verbo (infinito, participi pas-
sati e presenti, gerundio). Infatti pure queste forme verbali hanno la capacità di
reggere complementi diretti (uno per ogni verbo non finito). Questo fenomeno ci
impone di modificare la descrizione precedente, aggiungendo che ogni volta che
si incontra una forma verbale non finita all’interno d’un FP, si aumenta di uno il
numero dei complementi diretti che vi si possono incontrare. Quindi, in un FP,
quando c’è un verbo finito e un verbo non finito, si possono avere tre complementi
diretti e non due, come negli esempi (9) e (10)

(9) I ragazzi hanno visto il gatto mangiare il topo.


(10) Le relazioni presentanti questo fenomeno sono scarse.

13. CONCLUSIONE

I vincoli e le regole di analisi sono due strumenti diversi e complementari per


l’analisi automatica. I primi permettono di agevolare le seconde. Non producono
delle analisi ma riducono il numero delle interpretazioni da considerare al livello
dell’analisi sintattica.
È fondamentale sottolineare quanto sia importante fondare ambedue questi
tipi di strumenti su delle conoscenze linguistiche. Partendo da conoscenze sintat-
tiche complesse come quelle della struttura della proposizione e della frase italia-
na, abbiamo definito vincoli da applicare all’interno di catene di parole incluse
all’interno della proposizione che ci permettono di risolvere molte ambiguità
Nome/Verbo e di semplificare la seconda fase di analisi sintattica.
598 SARAH LABAT-JACQMIN

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