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Premessa
A Maurice Gross
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Il convegno di cui presentiamo gli atti si è svolto a Parigi, alla Sorbona, dal
20 al 22 settembre 2001, nell’ambito del congresso annuale della Società di
Linguistica italiana, il terzo ad essere organizzato al di fuori dell’Italia dopo quel-
li di Malta nel 1995 e Budapest nel 1998.
Il progetto, suggerito da Sylviane Lazard all’Assemblea S.L.I. di Padova, nel
1997, è stato preparato dal Comitato organizzatore comprendente Catherine Ca-
mugli-Gallardo e Louis Begioni, quindi presentato da Mathée Marcellesi all’As-
semblea S.L.I. di Napoli, nel 1999, e definitivamente accettato in questa sede.
È per noi un’onore e un piacere ringraziare
– i partecipanti al congresso.
Il Verbo italiano si colloca al centro degli interventi e dei dibattiti, nelle quat-
tro sessioni corrispondenti alle quattro dimensioni, diacronica, sincronica, con-
trastiva, didattica, all’interno delle quali la sessione sincronica si articola in tre
sottosessioni parallele: “Aspetti semantico-sintattici”, “Lessico e grammatica”,
“Lingua, italiani regionali e dialetti”.
X MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI
giuntivo (K. Blücher) e del trapassato remoto (Iørn Korzen). Emanuela Cresti
mostra l’importanza illocutoria della 3a persona, attraverso l’analisi del corpus di
italiano parlato del LABLITA.
Nella sottosessione parallela «Lessico e Grammatica», Daniela Giani, la cui
ricerca verte sul discorso riportato, constata che il verbo dire, quello più usato nell’i-
taliano parlato, può avere funzioni informative espresse tramite il contorno tonale in
cui il verbo si trova iserito (introduttore locativo, inciso, topic, appendice, comment).
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XIV
MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI
Partecipanti al Congresso
PARTE PRIMA
«STUDI DIACRONICI»
Conferenza Introduttiva
MARTIN MAIDEN
(Oxford College)
tanto difficile è scoprire nell’insieme delle forme singolari del presente più la
terza persona plurale del presente un tratto morfosintattico comune che le distin-
gua dal resto del paradigma. Se dovessi riassumere in poche parole l’essenza di
questo saggio, direi che dobbiamo riconoscere che la stessa incoerenza funziona-
le conferita dal cambiamento fonologico al paradigma flessivo del verbo si può
trasformare in una caratteristica fondamentale della struttura morfologica dell’i-
taloromanzo, non solo ‘passiva’, in quanto dovuta storicamente alla fonologia, ma
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anche attiva, in quanto essa si rivela ripetutamente plasmatrice della forma para-
digmatica verbale.
Le idee che esporrò qui fanno capo al brillante libro di Mark Aronoff Mor-
phology By Itself (1994) e anche all’idea di ‘deep morphology’ proposta negli an-
ni 70 da Yakov Malkiel, alla quale mi ero ispirato in un mio studio del 1992. È
inoltre una corrente di pensiero che ha trovato recentemente appoggio, dall’ottica
della morfologia computazionale, nei lavori di Vito Pirrelli e collaboratori.
Aronoff riesce a dimostrare l’esistenza, in molte lingue, di regolarità strutturali
astratte (‘morphomes’), ricorrenti all’interno del sistema morfologico paradigma-
tico, ed autonomamente morfologiche, in quanto non si lasciano rappresentare né
in termini fonologici né in termini di una funzione grammaticale coerente.
L’ottica prevalentemente sincronica adottata dallo studioso canadese non poteva
però garantire la «realtà psicologica» del morfoma. Può sorgere il dubbio che le
regolarità osservate da lui siano l’effetto di una specie di ‘inerzia’ diacronica per
cui i parlanti imparano, per così dire ‘alla spicciolata’, i paradigmi di singoli les-
semi verbali senza mai rendersi conto di generalizzazioni macroparadigmatiche
più astratte, che eventualmente rispecchiano stati sincronici oramai decaduti. Nel
mio studio del 1992 credo di aver identificato, ‘avant la lettre’, certi criteri dia-
cronici atti a garantire la realtà psicologica del morfoma, criteri elaborati ulterior-
mente in tre studi recenti (Maiden 2000; 2001a,b):
Tabella 1
Tabella 2
1 L’etichetta è volutamente opaca. ‘CPM’ sta per ‘classe di partizione morfomica’. Per il
termine ‘classe di partizione’, vedasi Pirrelli (2000).
6 MARTIN MAIDEN
Tabella 3
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Tabella 4
Si nota che i verbi con [ʎʎ], [], [d] li hanno persi a favore di varianti vela-
ri ([l], [ŋ], []) – e così anche molti altri verbi, come dolgo, ecc., salgo ecc.,
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 7
tengo ecc., rimango ecc., veggo ecc. rispettivamente con [ʎʎ], [], [d] nella
lingua antica, anche se ci sono superstiti del sistema antico, quali voglio ecc.,
soglio, ecc. Verbi come leggere, cogliere, spegnere, piangere, invece, mantengo-
no intatte le alternanze antiche. Nel complesso possiamo dire che c’è stata una
tendenza a far convergere CPM1 su una forma fonologica comune, la quale con-
tiene una consonante velare. È inoltre da osservare che:
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2 È quanto riconoscono, per lo spagnolo, Bybee e Pardo (1981: 958, anche Bybee 1985:
71:74), ma non risulta spiegato niente quando le studiose americane assumono in modo arbitra-
rio che una prima persona singolare dell’indicativo., forma relativamente ‘autonoma’ rispetto al
congiuntivo, serva di base dalla quale sarebbe derivato il congiuntivo. Ciò descrive il rapporto
di mutua dipendenza tra la prima persona del singolare e il congiuntivo, ma non lo spiega – e lo
descrive invocando un processo derivazionale del tutto ipotetico.
8 MARTIN MAIDEN
specie di semplificazione puramente fonologica per cui non solo [n] e [l] ma tutti
i segmenti più sonori (incluse le vocali), verrebbero ad alternarsi con forme ad
inserto velare. Così si potrebbe rendere ragione di casi, comuni in non poche
varietà toscane meridionali ed umbre (cfr. Hirsch 1886:435s.; Rohlfs 1968:260),
come il senese 1sg. corgo – 2sg. corri ecc., o ´mɔro ´mɔre ´mɔrono di
Pietralunga (AIS). E il tratto ‘sonorante’ spiegherebbe, infine, anche traggo – trai,
visto che le vocali comportano il più alto grado di sonorità.
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Alla tesi fonologizzante di Fanciullo si oppongono però non pochi fatti dialet-
tali. Innanzitutto, la consonante palatale può apparire davanti a vocale posteriore.
Oltre a forme italiane quali conosciuto, abbiamo nei dialetti e nel toscano antico
vagliuto, piangiuto, scegliuto, piangiuto, ecc. (v. Rohlfs 1968:370). Nei dialetti si
ha la variante non palatale anche davanti a desinenze in /e/ (p. es. umbro ant. morgo;
(che io) morga, (che tu) morghe, ecc.)3. Per di più, i dialetti umbri e toscani meri-
dionali hanno alternanze come [] – [v] in ´beo 3sg. ´beve 1pl. ba ´veno 3pl.
´beano, (Civitella Benazzone); nel cortonese lo stesso verbo cogliere, insieme
con salire e dolere, ha [] al posto di [l] o [ʎ], producendosi così un’alternanza
tutta nuova tra [l] o [ʎ] e []: p. es., cogga, dogga, saggo. Già negli scritti di
Iacopone da Todi abbiamo il congiuntivo moga ‘muoia’ (3sg.) e il 2sg moghe in
alternanza con mor-, insieme a pago (sia ‘paio’ che ‘paiono’), cong. paga ‘paia’, in
alternanza con par-. In tali casi non è lecito parlare di un ‘inserto’ velare dipenden-
te dal carattere della consonante precedente, perché sembra che sia stato introdotto
analogicamente il [()] tipico di verbi come leggo – leggi...; legga, ecc., in modo
che viene sostituita una consonante con un’altra, ai danni della trasparenza lesse-
matica, ma con rafforzamento e ipercaratterizzazione di CPM1. Anche l’Italia meri-
dionale è ricca di creazioni di alternanze nuove con velare, e per le quali non si può
ricorrere alla nozione di semplificazione fonologica in base alla ‘sonorità’ di una
delle alternanti. Nella zona del Golfo di Napoli (cfr. Capozzoli 1889; Freund 1933;
Radtke 1997:87) si riscontrano alternanze quali (1sg. vs. 3sg.): ´mεkkə ´mεttə,
atikə at´irə, ´parkə ´partə, ´sεŋə ´sεndə, ´pɔrkə ´pɔrtə, ´aʃpεkkə
a´ʃpεttə, ´rakkə ´rattə. Scartata l’ipotesi ‘fonologizzante’ (per una risposta più
dettagliata a Fanciullo, si vedano Pirrelli 2000 e Maiden 2001b), CPM1 emerge
come un ottimo esempio di ‘convergenza’ morfomica.
Tabella 5
Tabella 6
Tabella 7
Tabella 8
Tabella 9
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Tabella 10
Tabella 11
Tabella 12
vità (cfr. nell’italiano moderno tosso o tossisco, mento o mentisco ecc.). L’infisso
diventa, quindi, un elemento semanticamente vuoto. L’aumento *-edj- / *-edz-
risale (cf. Lausberg 1965:§801; Rohlfs 1968:244s.; Väänänen 1974:116;173;
Tekavčić 1980:239s.; Zamboni 1980/81) all’infisso derivazionale -iv-, introdotto-
si nel tardo latino particolarmente attraverso il lessico religioso (p. es., bapti-
vein). Nel romeno, esso caratterizza la stragrande maggioranza dei neologismi e
dei verbi denominali della prima coniugazione, ma ha una distribuzione lessicale
del tutto arbitraria. Per i dialetti della zona Matera – Foggia – Taranto, l’aumento
si presenterebbe (cfr. Lausberg 1939:156) proprio in quei verbi i cui primo secon-
do e terzo singolare e terzo plurale altrimenti avrebbero l’accento sdrucciolo (cfr.
1sg. mattsə ´ki j e màstico). Una distribuzione simile si ha nell’antico venezia-
no, nell’istriano moderno e nel còrso. Esistono, sì, dialetti meridionali in cui l’au-
mento è presente in tutto il paradigma e in cui la sua presenza sembra corrispon-
dere tuttora in certi casi ad una distinzione semantica tra azione e stato (cfr.
Iannace 1983:86; Ledgeway 1995:225; Leone 1980:40), ma prevale dappertutto
una nuova distribuzione, conforme alla CPM2 ed indipendente da considerazioni
semantiche.
Molti (p. es., Rohlfs 1968:242; Bourciez 1956; Meyer-Lübke II:241; Tekavčić
1980: II, 258) hanno cercato di rendere conto della distribuzione dell’aumento da
un’ottica ‘fonologizzante’ e teleologica, facendo richiamo al cosiddetto ‘allinea-
mento dell’accento’. Limitandosi l’aumento alle forme che altrimenti sarebbero
rizotoniche, l’accento diventa postradicale, e quindi arizotonico, in tutto il paradig-
ma. Agli occhi di molti, questa nuova regolarizzazione dell’accento non è solo un
effetto del cambiamento ma ne sarebbe addirittura la motivazione. Questo è un
approccio che oltre ad avere il grosso difetto della circolarità, non riesce nemmeno
a rendere conto in modo soddisfacente della realtà distribuzionale dell’aumento.
Innanzitutto, la teoria dell’allineamento dell’accento non tiene assolutamente conto
del fatto che in tutte le lingue romanze la schiacciante maggioranza dei verbi conti-
nua ad avere l’accento mobile: finisce per creare, cioè, un’apparente irregolarità
accentuale all’insegna della regolarizzazione! Alberto Zamboni (1983) ha proposto
che l’aumento *-isk- / -esk- avrebbe un accento tonico inerente, e che quindi esso
non può apparire insieme a desinenze accentate, ma almeno da un’ottica diacronica
ciò non spiega come mai l’aumento sia venuto ad essere caratterizzato dall’accen-
to. Secondo Zamboni l’aumento -isk- avrebbe conservato una parte del suo signifi-
cato originale derivazionale, ma il fatto che -isk- possa avere mantenuto un valore
derivazionale non spiega nemmeno perché esso avrebbe dovuto portare l’accento.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 13
dire aumenti limitati esclusivamente a quelle forme del paradigma in cui il radi-
cale, appunto, non porta l’accento.
C’è anche chi sostiene una linea che potremmo chiamare ‘semiotica’, propo-
sta ad esempio da Lausberg (1965:§801, 921): la regolarizzazione dell’accento
rende tutti i radicali arizotonici, ciò che ovvierebbe ad eventuali effetti allomorfi-
ci collegati all’accento: si stabilisce così un rapporto di biunivocità tra forma e
significato. Se è vero, come vuole Elwert (1943), che ciò può facilitare l’integra-
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zione dei neologismi nel sistema verbale, il fatto che l’infisso appare anche nei
verbi derivati da sostantivi o aggettivi è sempre contrario al principio di traspa-
renza. Nell’italromanzo l’accento cade quasi sempre ed esclusivamente sul radi-
cale del sostantivo e dell’aggettivo: aggiungendo un suffisso ai verbi derivati, il
radicale diviene però atono e quindi deve subire tutte le alternanze allomorfiche
collegate (come si crede) allo spostamento dell’accento. Vale a dire che la traspa-
renza del rapporto tra sostantivo/aggettivo e verbo viene offuscata. Così nel sopra-
silvano (cfr. Elwert 1943:144) si ha ta´mεi
ʃ ‘setaccio’ ma tame´ea ‘(egli) setac-
cia’, laddove sarebbe stata più ‘trasparente’ una forma verbale **ta´mεia. Visto
che nell’italoromanzo i verbi col radicale in [u], [i] ed [a] dimostrano un grado mini-
mo di allomorfia vocalica, sarebbe inoltre da aspettarsi che la presenza dell’aumen-
to si limitasse tendenzialmente ai verbi a vocale radicale media: ma l’italoromanzo
non sembra dimostrare neppur minimamente una tale tendenza. Aggiungerei che l’i-
potesi di Lausberg presuppone che i parlanti incontrerebbero difficoltà a produrre le
alternanze voacliche dipendenti dall’accento, cosa che sembra poco probabile se
teniamo conto della folla di verbi in cui tali alternanze si manifestano regolarissime.
E nel caso di alternanze lessicalizzate e non più dipendenti da processi fonologici,
perché i parlanti dovrebbero darsi la pena d’introdurre un aumento quando invece
potrebbero ricorrere al livellamento analogico (come infatti succede spessissimo –
si pensi all’estensione del dittongo in chiedere)? Ma l’approccio semiotico ha un
difetto ancora più grave: non spiega l’assenza dell’aumento nel resto del paradigma.
Difatti si raggiungerebbe il più alto grado di regolarità all’interno del paradigma,
sempre mantenendosi la trasparenza del radicale lessicale, se l’aumento si presen-
tasse in tutto il paradigma9. Se la tesi di Lausberg sembra in sostanza difettosa, va
sempre riconosciuto che secondo lo studioso tedesco la distribuzione dell’aumento
sarebbe stata in qualche modo un effetto delle differenziazione vocalica dovuta
all’accento. Ma io vorrei proporre che anziché essere una reazione contro gli effet-
ti antiiconici di questo cambiamento, la distribuzione dell’aumento ne sarebbe in
qualche modo una amplificazione.
Immaginiamoci in quale situazione sconcertante si sarebbero trovati quei par-
lanti nativi dell’antico romanzo davanti ad un elemento ereditato dalla struttura
9 Lo stesso dicasi di quei dialetti italiani meridionali che manifestano l’aumento dove altri-
menti si avrebbe accento proparossitono. Ciò non spiega come mai l’aumento sia diventato
esclusivamente accentato.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 15
10 Sul possibile ruolo della marcatezza nella struttura paradigmatica dell’italiano, cfr.
Anche Matthews (1981:63).
16 MARTIN MAIDEN
ca11. Per la precisione, [e] ed [o] apparivano in posizione atona e anche, in voca-
le tonica, davanti a vocale metafonizzante, mentre [ε] ed [ɔ] apparivano in tutti gli
altri casi. L’assenza delle alternanze di CPM2 si manifesta persino in un verbo
come andare, forse mutuato all’italiano, in cui o si ha and- in tutto il paradigma,
o si hanno i due allomorfi and- e va(d)-, ma distribuiti secondo criteri esclusiva-
mente morfosintattici: così a Baunei (AIS 959) sg. ´vao vas ´vaðe pl. an´damus
an´dais ´andanta; mentre nel nuorese le fome in ba- si limiterebbero (facoltati-
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Tabella 13
11 Esiste, sì, una tendenza facoltativa (Pittau 1972:118) alla chiusura in /i/ e /u/ delle voca-
li medie protoniche, ma non sembra essere molto antica.
12 Cfr. Wagner (1939:156-6).
13 Sulle possibili origini di quest’alternanza, si veda anche Jones (1993:238).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 17
(p. es. 3sg. ´βeniði < *βenit e ´pεrdiði < pεrdet si alternano a forme atone in
[βen] e [perd] entrambe con vocale chiusa).
Può ancora sorgere il dubbio che CPM2 abbia una motivazione funzionale
‘nascosta’, ma che siamo davanti ad una idiosincrazia strutturale unica delle lin-
gue romanze lo indica anche una mia rassegna preliminare (e certo da approfon-
dirsi) di altre lingue indoeuropee (slavo, celtico, greco, germanico, albanese,
indo-ariano, per non dimenticare il latino stesso) che nonostante la presenza delle
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CONCLUSIONI
14 Così non condividerei del tutto il giudizio piuttosto negativo che, sul ruolo della biuni-
vocità, dà Pirrelli (2000:197):
[...] non sembra che l’associazione diretta tra unità di contenuto morfosintattico e
costituenti formali minimi che convogliano dette unità rappresenti una priorità dal
punto di vista cognitivo, nonostante la sua naturale rispondenza a criteri astratti di
funzionalità semiotica. La coniugazione dell’italiano non sembra essersi evoluta
diacronicamente, né appare strutturata sincronicamente, in modo tale da massimiz-
zare la corrispondenza tra unità minime di forma e contenuto al suo interno. Il ricor-
so a nozioni di corrispondenza biunivoca governata dal contesto morfologico non
cambia la sostanza del problema, ma anzi si espone all’obiezione di essere una stra-
tegia di ripiego puramente descrittiva, priva di qualsiasi valore esplicativo.
15 Siamo assai lontani dall’interpretazione che di fatti simili dà Wurzel (1987), in chiave di
‘Morfologia naturale’ in cui strutture morfologiche ‘dipendenti dal sistema’ starebbero in oppo-
sizione a fatti naturali ed universali come la biunivocità. Sembra infatti che per Wurtzel fatti
‘dipendenti dal sistema’ sarebbero favoriti dalla preponderanza numerica di un dato tipo morfo-
logico. Per una critica a quest’approccio, si veda Maiden (1996;1997).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 19
dimostra innanzitutto che gli eventuali valori morfosintattici che possono essere
associati agli alternanti sono secondari rispetto all’unità formale del lessema (cfr.
Pirrelli 2000:197): CPM2 è una specie di ‘modulo’ ossia ‘template’ (per usare il
termine inglese) che riconcilia la coesistenza di forme diverse alla loro integra-
zione in un lessema unico16.
re, nello studio della storia morfologia paradigmatica italoromanza, e più gene-
ralmente romanza, a strutture autonomamente morfologiche in quanto sincroni-
camente indipendenti da condizionamenti sia fonologici che morfosintattici, ma
che si prestano diacronicamente ad una funzione altamente semiotica: quella di
garantire l’integrità formale del segno.
16 È interessante a questo proposito notare come, in alcuni dialetti italiani (d’altronde anche
nel romeno; per il siciliano cfr. Leone 1980: 135) CPM2 si presenti nel verbo lessicale avere,
mentre l’ausiliare corrispondente ha il radicale /a/ in tutto il paradigma. Ci si può chiedere se ciò
non rispecchi il fatto che CPM2 è una caratteristica dei verbi lessicali?
20 MARTIN MAIDEN
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Bybee, J. 1985. ‘Diagrammatic iconicity in stem-inflection relations’, in Iconicity in
Syntax, ed. J. Haiman, (Amsterdam: Benjamins), 11-47.
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Città di Castello: Dante Alighieri.
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* La presente ricerca si è giovata del fondo ex 60%, relativo al programma “Archivio della
sintassi dell’italiano antico” (coordinatore: Maurizio Dardano, Università Roma Tre).
1 A tal proposito cfr. per il francese antico Ménard (19944: 169-72), per un confronto tra il
francese moderno e l’italiano Arcaini (2000: 249-54, 432); per lo spagnolo cfr. Fernànder
Lagunilla (1999); per un confronto con l’italiano Carrera Díaz (1997).
2 Da alcuni assaggi effettuati con la LIZ 4.0 (2000) in un corpus di testi del ’400 emerge
che il gerundio raggiunge una frequenza media (parole/gerundi) del 13,70‰, contro il 6,57‰
dei due secoli precedenti. La frequenza relativa va da un massimo del 23,04‰ dei Detti piace-
voli del Poliziano a un minimo del 5,52‰ nei Motti e facezie del Piovano Arlotto. Tuttavia, a
parte il caso di quest’ultima opera e dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti (con
24 GIANLUCA FRENGUELLI
Tabella 1
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da costrutti espliciti (Tesi 2001: 143 e 236); l’esigenza di chiarezza perseguìta dalla
prosa umanistica e il confronto con il latino classico provocano una razionalizzazione
dei rapporti tra proposizione principale e subordinata (Dardano 1963 / 1992: 324) che
portano alla rarefazione di forme quali il gerundio e il participio
Nella nostra prima prosa il gerundio si sviluppa seguendo vie in parte diverse:
in Guido Faba, ad esempio, ricorre il gerundio assoluto, espresso nella quasi totalità
dei casi con il verbo essere e spesso posto a fianco di un gerundio con soggetto.
il 6,16‰), in tutti i testi la frequenza del gerundio non è mai inferiore all’11‰. I restanti testi
del corpus, con le relative frequenze sono: Giovanni Gherardi, Il Paradiso degli Alberti
(18,92‰), Lorenzo De’ Medici, Comento de’ miei sonetti (13,07‰), Id., Novelle (17,04‰),
Iacopo Sannazaro, Arcadia (15,33‰), Gerolamo Savonarola, Trattato circa il reggimento e
governo della città di Firenze (11,31‰), Leonardo Da Vinci, Scritti letterari (12,92‰).
3 La percentuale di incidenza del gerundio è ottenuta mettendo in relazione il numero dei
gerundi presenti nel testo con il numero delle parole. Sono consciente del fatto che, data la diver-
sità delle opere considerate, analisi del genere rischiano talvolta di fornire dati poco utili (se non
si tiene conto al tempo stesso dell’estensione dei periodi): tuttavia in questa occasione m’inte-
ressava soltanto avere un’indicazione di riferimento per capire quanto il gerundio sia usato in
una data opera. Si vedano a tal proposito le perplessità espresse da Policarpi/Rombi (1998: 339-
340) su questo tipo di analisi statistiche.
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 25
(3) Ché Dio fece la bestia chinata inver’ la terra, e gli occhi e la bocca
tenendo [= ‘che tiene’] in essa sempre, e solo d’essa conoscere l’a-
maiestrò, mostrando che sopra d’essa no ha che fare; ma l’omo fece
ritto, la testa, la bocca, li occhi, tenendo al Cielo [c.s.], dandoli inten-
dimento che la sua eredità era lassù (Guittone, Lettere, p. 8).
Si noti qui che i due gerundi tenendo hanno la funzione del “participio con-
giunto” latino 4. Tale funzione, non più presente in italiano, si ritrova invece con
qualche differenza nello spagnolo moderno 5. Invece mostrando e dandoli hanno
lo stesso soggetto della principale Dio.
Bisogna inoltre tener conto del fatto che in Guittone il gerundio trova un con-
corrente, seppur limitato (5 occorrenze) nel costrutto “in + infinito”: cfr. nel testo
ora citato: in iscampare e agiare le povere suoie ricchezze (p. 6).
Rispetto a Guittone, Brunetto usa meno frequentemente il gerundio e non con
fini retorici, ma, per così dire, “di servizio”, ovverosia per costruire sequenze
esplicative di semplice fattura:
4 Cfr. Ernout-Thomas (19532, 274-75 e 282-83). Per l’uso del gerundio in funzione parti-
cipiale nell’italiano antico cfr. Skerlj (1926: 35-42).
5 Nello spagnolo il gerundio assume tale valore in più casi: 1) frasi composte in cui il sog-
getto del verbo reggente e quello del gerundio sono diversi: Oigo a Pedro subiendo las escale-
ras ‘sento Pietro che sale le scale’ con verbi di percezione, di ritrovamento (encontrar, coger,
ecc.) e di rappresentazione (pintar, dibujar); 2) frasi in cui, a prescindere dal significato e dalle
caratteristiche del verbo reggente, il g. funziona praticamente come un aggettivo: Ha pasado por
aquí un niño llorando? ‘che piangeva’; 3) gerundio con valore specificativo (non accettato nello
26 GIANLUCA FRENGUELLI
(4) Onde Tulio purgando questi tre gravi articoli procede in questo
modo: che in prima dice che sovente e molto àe pensato che effet-
to proviene d’eloquenzia (Brunetto Rettorica, I XIV, p. 8);
(5) Nella quarta parte sì mette le pruove sopra questi tre articoli che
sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recan-
do a cciò molti argomenti, li quali muovono d’onesto e d’utile e
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(6) Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di
colui che lla mette in opera, l’uno insegnando l’altro dicendo.
(Brunetto Rettorica, I VII, p. 6) 7.
Nel Milione di Marco Polo ricorrono con una certa frequenza i gerundi pre-
dicativi e le perifrasi aspettuali con il gerundio del tipo “andare + gerundio”8, di
cui ritroviamo 27 casi su 136 gerundi totali (8), e il gerundio coordinativo9 (9) che
ricorre in 26 casi:
(8) Alotta lo Signore fece fare carte bollate come li due frategli e ’l suo
barone potessero venire per questo viaggio, e impuosegli l’amba-
scritto) Ley prohibiendo fumar ‘legge che proibisce di fumare’ Carrera Díaz (1997: 538-49).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 27
6 Cfr. anche: «e dicendo “nostro comune” intende Roma» (Brunetto Rettorica, I XV, p. 10);
«Manifestamente abbassa ’l male e difende rettorica, dicendo che…» (Brunetto Rettorica, I XV,
28 GIANLUCA FRENGUELLI
p. 11).
7 Cfr. anche «la difende abassando e menimando la malizia» (Brunetto Rettorica, X, XV, p.14).
8 Serianni (1988: 336) parla di perifrasi formate con verbi fraseologici, ausiliari di tempo o
aspettuali; Brianti (1992 e 2000) fornisce tra l’altro una cronologia del fenomeno. Su questo
argomento cfr. anche Giacalone Ramat (1995). Questo tipo di perifrasi è espresso, in italiano
antico e, in particolare, nel nostro corpus, con un numero limitato di verbi: andare (65,1%),
venire (18,6%) e mandare (11,7%); altri verbi rientrano in esempi occasionali e hanno una fre-
quenza irrilevante (tutti insieme raggiungono il 4,6%).
9 Sul quale cfr. Serianni (1988: 408-9).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 29
Tabella 2
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Di questi tre gerundi soltanto il primo è causale: gli altri due hanno, almeno
apparentemente, valore temporale. In realtà in veggendo si avverte con chiarezza
anche un significato causale, che tuttavia non è prevalente: se il vescovo e ’l mali-
scalco non avessero guardato le donne, non avrebbero certo notato monna Nonna.
Abbiamo qui quella condivisione di valori di cui abbiamo parlato poco fa. Tali valo-
ri sfumati che il gerundio assume, sono comunque funzionali allo sviluppo della
narrazione. Infatti, se in questo passo l’autore avesse voluto mettere in rilievo il rap-
porto di causa-effetto avrebbe fatto ricorso a una proposizione esplicita. Se non l’ha
fatto, vuol dire che era più interessato al ritmo del periodo e allo sviluppo tematico.
Il Boccaccio arriva ad accumulare fino a undici gerundi, come in (11), dove
la lunga serie è composta da quattro gerundi causali (si noti che causale è anche
il participio rimaso), due gerundi modali e, nella seconda parte del periodo (lega-
ta alla prima da un’avversativa), altri due gerundi causali (il secondo dei quali
incassato in una causale esplicita), un gerundio modale, un gerundio concessivo
e, a conclusione, un altro gerundio causale.
re la situazione disperata del mercante, l’autore mette in rilievo una serie di cause,
che insieme alle successive, tutte espresse al gerundio, contribuiscono al progre-
dire dell’azione. Si tratta di una progressione narrativa “globale”: cioè tutte le cau-
sali del periodo spingono la narrazione verso un’unica azione: l’arrivo del prota-
gonista a Castel Guiglielmo. Una serie di circostanze (l’essere rimasto in camicia,
il freddo, la neve, il non saper che fare, la notte che sopravviene) fa sì che Rinaldo
si guardi intorno cercando riparo per la notte. Altre due circostanze, marginali
rispetto alle precedenti (il fatto che non ci sia riparo, a causa della distruzione por-
tata dalla guerra, e il fatto che qualche soccorso si poteva trovare nel castello),
inducono Rinaldo a dirigersi al castello, luogo della risoluzione della novella. Ho
provato a rappresentare la situazione descritta con il seguente schema:
Tabella 3
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 31
Si noti la che le due causali per ciò che v’era ogni cosa arsa e poco davan-
ti essendo stata guerra nella contrada, presentano, nell’ambito della progressio-
ne narrativa, una funzione diversa rispetto alle altre: introducono infatti una cir-
costanza accessoria, secondaria rispetto allo svolgimento. In questo caso si po-
trebbe parlare di una differenza tra valore causale “di primo piano” e valore cau-
sale “di sfondo”. Il primo tipo di causale interessa fatti necessari allo svolgi-
mento dell’azione, il secondo tipo riguarda invece fatti marginali, circostanze
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secondarie.
Abbiamo detto che questo modo di esprimere la causalità ha lo scopo di far
progredire la narrazione, assecondando, al tempo stesso, il ritmo interno del
periodo, un fine ricercato con costanza dal Boccaccio13. La duplice funzione vol-
ta dalla gerundiva di marcare la successione temporale e di segnalare la presen-
za di un’implicazione tra ciò che è espresso dal gerundio e ciò che è espresso
nella sovraordinata appare lo strumento ideale per rendere lo sviluppo della nar-
razione.
La progressione narrativa è ottenuta in tre modi diversi, dal più semplice al
più complesso, abbiamo: 1) progressione lineare con stesso soggetto, 2) progres-
sione lineare con cambio di soggetto, 3) progressione “a catena”.
La progressione lineare con stesso soggetto è la modalità più semplice: una
lunga serie di gerundi con lo stesso soggetto appunto, introduce le circostanze che
promuovono un determinato svolgimento dell’azione. Segue la principale, espres-
sa di solito (e significativamente) con un verbo di moto (13). Anche qui i quattro
gerundi sono “paralleli”: sono tutti posti sullo stesso piano sintattico e nella stes-
sa prospettiva. A rendere lineare il passo contribuisce la presenza del soggetto in
prima posizione:
10 Al quale si aggiungono i più recenti Brambilla Ageno 1978 e, per il gerundio composto,
Menoni 1982.
32 GIANLUCA FRENGUELLI
(14) Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer
Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi
nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in
casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del
Papa trattando, AVVENNE CHE, che se ne fosse cagione, messer
Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mat-
tina davanti a Santa Maria Ughi passavano (Dec, VI II 8, p. 721).
La “progressione a catena” del discorso narrativo consiste nel fatto che cia-
scuna gerundiva contiene al suo interno quello che sarà il soggetto della gerundi-
va seguente come in una catena, nella quale ogni anello è legato al precedente: gli
ambasciadori, oggetto della prima, diventa il soggetto della seconda: messer
Geri, complemento della seconda diventa soggetto della terza. I tre gerundi
(avendo mandati, essendo, trattando) sono al centro di tre eventi successivi e fra
loro connessi: sono tre momenti di un’unica sequenza temporale. Il risultato è un
periodo più ampio rispetto al precedente (13); le tre subordinate gerundiali
appaiono isolate rispetto alla coppia principale-completiva, tanto da richiedere
l’uso di una formula narrativa “marcata” di ripresa: in questo caso avvenne che.
Il gerundio presenta anche un’altra fondamentale funzione narrativa: quella di
introdurre semanticamente le cause e le circostanze che danno il via all’azione.
A tal fine il Boccaccio avvia spesso il periodo con due gerundi. Si tratta di
una formula ricorrente in tutta l’opera. I due verbi presentano nella maggior parte
dei casi valore temporale e causale, come in (15), dove il primo gerundio è tem-
porale, il secondo causale:
Le configurazioni possibili sono diverse: dal punto di vista del tempo e del
modo verbale possiamo avere due gerundi presenti, come nell’esempio appena
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visto; oppure due gerundi, il primo dei quali passato il secondo presente, come
accade per avendo fornite e tornandosi (16).
In questi casi il passato esprime l’avvenimento accaduto nel punto più lonta-
no della linea temporale, mentre il gerundio presente indica che il tempo è simul-
taneo a quello della narrazione:
(17) E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo
disposto, [Marato] alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si
guardava, sconosciutamente se n’andò con alcuni suoi fidatissimi
compagni li quali a quello che fare intendeva richesti aveva, e
nella casa, secondo l’ordine tra lor posto, si nascose (Dec, II VII
34, p. 234).
(18) Alla fine, forse dopo tre o quatro anni appresso la partita fatta da
messer Guasparrino, essendo [Giannotto] bel giovane e grande
della persona divenuto e avendo sentito il padre di lui, il quale
morto credeva che fosse, essere ancora vivo ma in prigione e in cap-
tività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato vaga-
bundo andando, pervenne in Lunigiana (Dec, II VI 33, p. 209).
(19) Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo era, e
conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di
Bernabuccio e fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo
commesso da lui mansuetamente passare; (Dec, V v 37, p. 647)
Tabella 4
Il gerundio è quindi il modo preferito dal Boccaccio per portare avanti la nar-
razione: da un lato la successione dei verbi al gerundio comporta una linearità e
un’omogeneità nel ritmo del discorso, dall’altro, mediante la varia combinazione
dei vari elementi della proposizione gerundiva, usata anche in abbinamento con il
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 35
cursus e la prosa rimata, il nostro autore fa sì che tale ritmo sia sempre diverso a
seconda delle situazioni.
l’uso del gerundio appare ridotto, mentre sono frequenti le causali esplicite. Ciò
vale nella duplice dimensione macrotestuale e microtestuale. Cominciamo dalla
prima. Nella tabella comparativa (15), nella quale abbiamo indicato le percentua-
li delle causali espresse col gerundio rispetto al totale delle causali. Risulta chia-
ramente che il Decameron è l’opera in cui si fa un uso frequente del gerundio cau-
sale e causale-temporale:
Tabella 5
Come si potrà notare, ad eccezione del Milione, tutte le opere narrative si tro-
vano nella parte alta della tabella: presentano infatti le maggiori percentuali di uso
del gerundio causale, rispetto alle più basse frequenze delle opere argomentative
(dal Fiore di rettorica alla Metaura).
Tabella 6
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valore temporale e modale, solo 49 hanno un valore causale. Questi gerundi cau-
sali, presenti quasi esclusivamente in strutture narrative caratterizzate dall’uso di
tempi storici, hanno il valore di “Motivo di Fare”, che ricorre particolarmente
nelle strutture narrative. La sequenza in cui compare il gerudio può essere di tipo
prettamente storico-narrativo, come in (21) e (22); nel secondo passo il gerundio
è ripetuto tre volte:
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11 Tali forme verbali, chiamate anche “converbi” (per una definizione del termine cfr.
Haspelmath 1995: 3), hanno come caratteristica principale proprio l’indefinitezza. A tal propo-
38 GIANLUCA FRENGUELLI
sito König (1995: 58) nota come «the interpretation of a converb in a specific utterance is the
result of an interaction between a basic vague meaning of the converb and a wide variety of syn-
tactic, semantic and contextual factors». Uno dei punti principali del dibattito sui “converbi”
riguarda il quesito se essi esprimano “vaghezza” oppure “polisemia” (König 1995: 59-67).
12 Secondo Rohlfs (1969: 180-181) poi che deriva dal latino tardo post quod, che in origi-
ne aveva il valore di postquam. Sugli usi causali e temporali nel latino cfr. Ernout/Thomas
(19532: 350, 361-62). Originariamente in latino postquam aveva valore comparativo: «Les pro-
positions introduites par antequam, priusquam, postquam […] sont, pour la structure, des com-
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paratives; mais elles ne peuvent pas être séparées des temporelles ou des conditionnelles dont
elles font partie pour le sens» (Ernout/Thomas 19532: 354).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 39
14 Sulle causali di “Motivo di dire” e “Motivo di fare” cfr. Previtera (1996) e Frenguelli
(2001 e 2002).
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41 GIANLUCA FRENGUELLI
Anche negli altri testi del corpus la situazione è simile. Solo in rari casi il
gerundio introduce progressioni argomentative. In (24), dove l’emittente cerca di
convincere il destinatario del messaggio a prestargli il proprio cavallo, la gerun-
diva introduce l’argomento che dovrebbe spingere l’interlocutore a compiere il
gesto:
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(24) ve faço conto che abesono multo del vostro pallafreno, lo quale
me vogliati prestare e mandare in presenti, saipando ch’el me
convene andare all’emperiale corona in servisio de la nostra terra
(Faba Parlamenti, XXVII, p. 17).
(26) Cum ço sia cosa che ’l bono amigo scia meglio ca lo reo parente,
la vostra amistade voglio tenere cara, cognoscando inutile essere
lo stranio parentado (Faba Gemma, 28, p. 8).
Un’ultima constatazione: si è detto che nel Libro de’ vizî e delle virtudi di
Bono Giamboni il gerundio è usato con una certa frequenza e presenta spesso
fenomeni di cumulo. Analizzando la prima parte dell’opera, si nota che i primi
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 42
quattro capitoli, nei quali l’autore esprime la propria triste condizione, sono ric-
chi di gerundi (soprattutto in posizione incipitaria), mentre il quinto capitolo, il
discorso consolatorio (e argomentativo) della Filosofia ne contiene appena due.
4. CONCLUSIONE
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Fare “vicario”, “fare + N”, “fare + V”. Per un’analisi del verbo fare nell’ita-
liano antico*
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Per quel che riguarda l’italiano antico, si può rilevare che il verbo fare trova
attestazioni omogenee sia nella prosa media che in quella d’arte e ricopre presso-
ché tutta l’area semantica che il vocabolo riveste nella lingua moderna. In effetti,
nella grande varietà di testi antichi, di diverso livello stilistico, si nota in varie cir-
costanze una notevole preferenza accordata a fare 3: basti pensare che tale verbo,
unito a un sostantivo, può sostituire un verbo più specifico4. Tra gli instrumenta
indispensabili del lessico e della grammatica, al pari di altre forme verbali “uni-
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versali”, il verbo fare figura in vari ambiti sintattici e, per la sua duttilità d’impie-
go, trova spazio in numerose situazioni pragmatico-retoriche. È significativo il
passo del discorso di Agamennone nei Conti di antichi cavalieri 5:
Voi sapete, signori, che quello ch’ora ha fatto Paris no è facto per noi
ed a noi propriamente, ma è facto e pertene a noi ed a voi ed a ciascu-
no de Grecia comunamente, che ciò che quelli de Troia han fatto noi
l’hanno facto per quello che li antecessori nostri ai loro fecero, unde è
’l grande onore ch’essi a loro e a Gretia acquistaro. Non se perda ora
in voi el facto.
L’artificio del poliptoto è attuato con la ricorrenza dello stesso vocabolo (in que-
sto caso il nostro verbo) con funzioni sintattiche diverse: facto come participio
passato e come sostantivo. Anzi sembra, talvolta, che la scelta lessicale del verbo
generico fare sia saturata dalla particolare spinta retorica dell’enunciato in cui è
collocato, quasi a calibrare stilisticamente la vaghezza semantica del verbo 6.
Indubbiamente, il carattere passe-partout del verbo fare, nell’italiano antico
doveva essere avvertito in maniera preponderante, non solo sul piano semantico
ma anche su quello funzionale 7. Proprio a quest’ultima componente dedicheremo
in particolare la nostra analisi, che si avvarrà di alcuni campioni di prosa media e
d’arte dei secoli XIII e XIV 8. In questa sede non ci occuperemo, se non margi-
3 In Dante, per es., nell’intera sua opera, le occorrenze di fare «assommano a 2061»
(Delcorno 1970: 795).
4 È un aspetto che ha precedenti nel latino tardo quando tale tendenza si rafforza: cfr.
Hofmann (1980: 336) e La Fauci (1979: 37-40).
5 Il brano è indicato da Dardano (1995: 39) per evidenziare la finalità retorica, in alcuni
contesti, della ripetizione a breve distanza di parole.
6 La stessa tensione retorica si riscontra, per es. in un enunciato della confessione-beffa di
ser Ciappelletto, nel Decameron, dove è indicativa la presenza del verbo fare, più volte ripetu-
to: «ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte netta-
mente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca», (Dec I 1 43).
7 Per un primo assaggio su tali aspetti, v. Brambilla Ageno (1964: 236-443; 468-485) e per
quel che riguarda il nostro verbo in Dante, v. Delcorno (1970:794-803).
8 Per l’elenco dei testi presi in esame nel nostro spoglio, rimandiamo alla bibliografia pri-
maria.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 45
nalmente, delle proprietà semantiche e delle accezioni del verbo nella frase 9. Nel
prospettare le funzioni di fare si è cercato, nel contempo, di delineare l’intorno
sintattico-situazionale in cui il verbo è collocato al fine di poter meglio caratte-
rizzare il suo impiego.
Esaminiamo subito una funzione molto frequente sia in poesia che in prosa,
quella del fare vicario.
Il verbo fare, data appunto la sua genericità e universalità, può sostituire o
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9 Per rilevare entrambe è sufficiente consultare, per le varie fasi dell’italiano, dizionari ampi
come il GDLI o come il GRADIT (quest’ultimo ricco in particolare di espressioni della lingua par-
lata). Le locuzioni con il verbo fare, nei dizionari antichi (dalla Crusca al Tommaseo / Bellini),
sono oggetto di analisi in Pietrobono (1986).
10 Per una rapida trattazione di questo particolare ruolo del verbo, nell’italiano contempo-
raneo, v. Salvi (1988: 82) il quale sottolinea che il verbo fare, dato il suo significato, «può sosti-
tuire solo verbi che abbiano un soggetto agentivo», cioè un soggetto che compie attivamente l’a-
zione espressa dal verbo.
11 In realtà, riscontri più approfonditi in spogli ampi e articolati di italiano antico, consen-
tirebbero di evidenziare meglio l’effettivo ruolo semantico-sintattico di fare, al di là di conside-
rarlo, in molti casi, come un semplice mezzo di variazione stilistica. Quest’ultima, nel secondo
esempio infatti, può sembrare quasi imposta, considerata la presenza nell’enunciato della ricor-
renza parziale rigetta…. rigittato.
12 Mussafia (1857/1983: 58-63).
13 Vidossich (1905: 162-164).
14 Brambilla Ageno (1964: 484).
15 Delcorno (1970 alla voce fare).
46 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
re funzione del verbo rispettivamente nell’ambito più generale del “fare fraseolo-
gico” e nell’uso di Dante.
Per il francese antico la situazione è diversa. Il volume di Thierry Ponchon16,
che analizza e studia il verbo faire in testi francesi medievali, dedica un ampio
capitolo al faire “vicaire”17. Lo studioso, nel cercare di mettere in luce la polise-
mia e la plurifunzionalità del verbo fare, costruisce la sua metodologia partendo
dalla nozione di “subduction”. Si tratta di un processo di desemantizzazione di
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Nel fornire altri esempi ci siamo soffermati in particolare sulla prosa del
Decameron. Il nesso comparativo, che occupa un posto preminente nell’architet-
tura sintattica e testuale dell’opera, si serve non raramente del fare vicario, che
raggiunge pertanto una discreta frequenza. Soprattutto nelle comparative di ana-
logia o di conformità, caratterizzate da un andamento binario di proposizioni in
correlazione e da un’attenta collocazione dei componenti nella frase, il predicato
verbale presenta il nostro verbo in più occasioni. Accade così che il generico fare
svolga il suo ruolo vicario, sostituendo verbi che possiedono tratti più specifici23:
È vero che un’esigenza di variatio può essere sottesa alle scelte lessicali.
Infatti, in altre occasioni, Boccaccio nell’attuare una disposizione ordinata dei
vari componenti nella struttura periodale, privilegia alcuni caratteri che presenta-
no simmetria di situazioni e ripetitività di forme. Il ruolo vicario di fare, in effet-
ti, non sembra emergere negli esempi seguenti in cui il verbo ricorre sia nella pro-
posizione sovraordinata che nella reggente; le uniche variationes, per quel che
concerne il predicato verbale, sono affidate al mutamento del tempo24:
Siccome per adietro era stato fatto così fece ella, (Dec V C 2);
sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente, (Dec II
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In 3).
sì come essi hanno fatto così intendo che per lo mio comandamento si
canti una canzone, (Dec IV C 9);
sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese, (Dec VIII 9 62).
Tale verbo, come si vede, anticipa in maniera generica e sostituisce il verbo della
’reggente’ comparativa che segue; il fenomeno appare interessante ai fini del rap-
porto sintattico di correlazione tra le due proposizioni che costituiscono il com-
parato e il comparante. Si tratta, in altre parole, di verificare se la ’subordinata’
comparativa, cioè il secondo membro del periodo comparativo, nell’italiano anti-
co, debba essere considerata prolettica rispetto alla ’reggente ’26.
Si è evidenziato fin qui come la funzione vicaria del verbo fare possa proce-
dere parallelamente all’analisi di strutture sintattiche e come esso si esprima e
24 Uno studio attento sulla determinazione dell’uso dei tempi, soprattutto nella prosa tosca-
na del Duecento, è in Ambrosini (2000).
25 In effetti si può notare, in più occasioni, soprattutto in un membro del costrutto, l’ellissi, o
meglio l’omissione del predicato verbale. Il fenomeno, speculare alla ricorsività, permette in molti
casi di ipotizzare, come facilior, fare vicario sottinteso: per es., «essi di gran lunga sono da molto
meno, sì come quegli che, per viltà d’animo non avendo argomento, come [fanno] gli altri uomini
di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar, come [fa]’l porco» (Dec III 3 3).
26 Per quel che riguarda l’italiano moderno, Serianni (1988: 515) osserva che «quanto alla
posizione, che di massima è libera […] le comparative tendono ad anteporsi alla sovraordinata
quando questa contenga un elemento correlativo». La collocazione della subordinata compara-
tiva rispetto alla reggente, in effetti, è uno dei punti cardine di tale struttura. Da essa dipendono
numerosi fenomeni: da una modalità retorica che lasci intendere un valore ritmico dei membri
del costrutto, a una precisa strategia discorsiva con finalità dimostrativa (con il dovuto risalto per
la prospettiva funzionale della frase e per l’articolazione dell’informazione). Per alcuni di que-
sti aspetti nella prosa di Dante e di Boccaccio, cfr. rispettivamente, Agostini (1978: 402) e Pelo
(1980: 27-51).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 49
trovi una sua configurazione nel nesso comparativo. Tuttavia anche in altre circo-
stanze fare vicario assume un rilievo spiccato. In questo ambito sono da eviden-
ziare infatti, varie modalità d’uso. Particolarmente evidente, anche ai fini prag-
matici e testuali, ci è sembrato il ruolo svolto dal verbo come “incapsulatore co-
testuale” di eventi, circostanze o anche indicazioni che si sono svolti in enunciati
antecedenti: (così) fu fatto o (e) così fece sono espressioni che ricorrono frequen-
temente nei testi antichi e inglobano varie ’azioni’ già espresse27. La fenomeno-
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logia in cui tali espressioni ricorrono è molto varia 28. Qui forniamo soltanto alcu-
ni ragguagli di base. Prendiamo il passo seguente:
ordinò che tornasse a la città di Firenze. E così fece, colla sua gente e
con molti altri Fiorentini e Toscani e Romagnuoli, (NC IX XLIX 2).
È questo un caso in cui l’espressione con il fare vicario, realizza una sorta di lega-
me sintattico-testuale tra l’enunciato precedente e quello seguente; quest’ultimo
possiede una precisazione aggiuntiva (colla sua gente e con molti altri Fiorentini
e Toscani e Romagnuoli).
Analogamente in
27 Anche la forma sintagmatica fare con l’oggetto pronominale neutro lo appare un idoneo
procedimento di sostituzione di un altro sintagma verbale. È sufficiente un solo esempio: «ma
perché li parve aspro cammino a entrare in Toscana, no ’l fece», (Compagni, III XXXIV 28-29).
Per espressioni analoghe in italiano moderno, v. Salvi (1988: 83).
28 Dardano (1999: 186) nell’analizzare un passo del Decameron (V 6 40-42), che presenta
la formula finale e così fu fatto, osserva come talvolta tale formula «frequente nel Novellino e
nella narrativa del secolo precedente» si inserisca a conclusione di una struttura argomentativa
del tipo ’convinzione + effetto’, concretizzando così la soluzione positiva dell’evento.
29 Non è estraneo alla funzione vicaria del verbo, l’impiego di così (non sempre presente
tuttavia nella nostra formula con il fare) come tratto marcato ulteriore a cui affidare un esplici-
to richiamo del contesto precedente.
30 In una direzione diversa è orientata la nostra locuzione che è presente, ancora una volta,
in un passo dell’Itinerario dugentesco per la Terra Santa (v. Dardano 1966/1992: 181): «Mandò
questo giovano che tutta questa giente fosse menata dinanzi da llui. Fu fatto». Si tratta di quei
casi in cui il verbo concentra su se stesso il focus informativo, senza possibilità di progressione
50 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
del corso delle stelle. […] E tutte queste cose fece perché Roboam
regnasse dopo lui, (Nov VII 9-13)31.
Si noti l’aspetto seriale del sintagma (E più fece) e l’aggancio anaforico finale (E
tutte queste cose fece): si tratta di una sorta di ’cerniera’ che introduce un fatto
nuovo e prende le mosse dall’esplicito richiamo agli eventi precedenti; è signifi-
cativo che tale richiamo si avvalga di due forme “generali”: il sostantivo cosa e il
verbo fare.
È indubbio l’influsso che questi particolari costrutti con il verbo fare vicario
esercitano sulla compagine testuale. Ciò accade anche quando in uno o più enun-
ciati l’analogia delle circostanze è espressa da una formula conclusiva che, oltre
ad evidenziare la particolare struttura circolare del testo, ripropone il verbo in que-
stione più volte:
Ora vedesi onne die currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano.
Curro Turchi, lo simile faco, (Cron, XIII 32c-34c).
Interessante ai nostri fini anche la variatio tra la forma nominale analitica del
verbo, cioè «currerie fare» e quella piena «Curro», reiterata32. In particolare la
forma perifrastica (Fare +N) ci consente di prendere in considerazione un’altra
tipica funzione del nostro verbo che, in alcuni casi, trova un riscontro formale
nelle procedure di nominalizzazione 33.
2. Fare infatti rientra anche nella categoria dei cosiddetti verbi supporto
(insieme a avere, dare, essere). Il significato originario è quasi neutro; serve a
del discorso. Non è disgiunta da tale funzione la forma passiva del verbo. Si osserva, inoltre, a
dimostrazione dell’impiego vicario del verbo, che una variante della redazione francese
dell’Itinerario reca: «Fue ubbidita la sua volontà».
31 Il che, posto dopo E più fece, ha funzione di “tematizzatore”: v. Bertuccelli Papi (1995).
32 La forma perifrastica, volutamente marcata dall’autore con la posposizione del verbo
dopo il sostantivo, risponde a esigenze espressive tempo-aspettuali: presenta cioè uno svolgi-
mento ’dinamico’ che non sembra avere quella semplice.
33 Per alcuni riscontri sui processi di nominalizzazione, cfr., almeno per l’italiano moder-
no, Dardano (1978) ma anche da ultimo, Dardano / Frenguelli (1999: 352-354), con aggiornata
bibliografia.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 51
sostenere un nome il quale funge così da complemento 34. In questa sede è stato
possibile approntare soltanto una sintetica tipologia di alcune combinazioni di
fare + N. Rinviamo a un’altra occasione l’analisi dello stretto rapporto delle locu-
zioni con le strutture testuali in cui compaiono, nonché l’esame di numerosi aspet-
ti legati alla configurazione e alle condizioni di uso del costrutto con il nostro
verbo quali per es., l’impiego “coalescente” di fare +N35.
Schematicamente, osserviamo che la locuzione può presentare specifiche
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diosi spagnoli definiscono hacer come verbo lexico-funcional e verbo lexical 39.
Queste ultime denominazioni corrispondono grosso modo alla designazione, che
abbiamo indicato, di verbo “supporto”. La fondamentale nozione approntata da
Harris (1970)40 di “operatore” ha indotto poi gli studiosi, in alcuni casi, a consi-
derare il nostro verbo anche con tale attributo. In questa sede analizzeremo fare
come verbo operatore, quando può indurre ad una trasformazione della frase, in
particolare quando riveste una funzione causativa.
3. Per il suo contenuto semantico fare è anche il verbo base per la creazione
di costruzioni causative, atte ad esprimere un’azione non attuata dal soggetto, ma
fatta compiere da un altro agente. In particolare, prenderemo in considerazione i
costrutti in cui fare compare in perifrasi verbali come fare che, fare sì che, alle
quali fa seguito una proposizione consecutiva esplicita41:
37 Una continuità di intenti del programma francese si ritrova, sia pur con diverso sviluppo,
in indagini descrittive lessico-grammaticali dell’italiano. Si veda in proposito D’Agostino
(1992).
38 Cfr. al riguardo, Ponchon (1994: 47-48) che constata come gli studiosi francesi degli
indirizzi di ricerca a cui abbiamo fatto riferimento «en se penchant sur le mots qui accompagnent
le verbe», siano giunti «à une syntaxe du nom, plutôt qu’a une syntaxe du verbe» e che tali teo-
rie generativo-trasformazionali possano particolarmente applicarsi e valere per la fase scritta e
orale della lingua solo di epoca attuale. In effetti si consideri che molti casi di fare +N dell’ita-
liano antico si adattano male a schemi costruiti per l’italiano moderno. Pensiamo al fare +N che
dà luogo a locuzioni fisse che sono più difficilmente identificabili o deducibili nella lingua anti-
ca. Per gli aspetti metodologici legati a tali costruzioni, cfr. Gross (1996); Casadei (1996); Ruiz
Gurillo (1997).
39 Cfr. Von Polenz (1963) per il tedesco; per lo spagnolo, Solé (1966).
40 Si veda più avanti il § 3.
41 In italiano antico un caso di cancellazione del costrutto causativo appare nel verbo rubel-
lare, che spesso vale far ribellare: «i Ciciliani il disideravano a signore, e prometteano di rubel-
lare l’isola al re Carlo», (NC VIII 59). Cfr. a questo proposito Brambilla Ageno (1964: 34).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 53
Nel datore adunque dee essere la providenzia in far sì che della sua
parte rimagna l’utilitade dell’onestade, che è sopra ogni utilitade, e far
sì che allo ricevitore vada l’utilitade dell’uso della cosa donata, (Conv
I VIII 8).
42 Per uno studio sulle costruzioni causative in generale, v. invece Shibatani (1976).
54 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare […]:
Mossimi prima per magnificare lui, (Conv I X 7)43.
deva una regolare formazione di causativi per mezzo del suffisso *-EY44, di cui si
conservano tracce in greco antico, in verbi iterativo-causativi come fobew (“fac-
cio temere” ~ febomai, “temo”), dokew, sobew, e in latino, in verbi come MONĔO
(“faccio ricordare” ~ MĔMINI “ricordo”), DOCĔO, FOVĔO.
In turco tutti i verbi possono diventare causativi mediante l’inserzione degli affis-
si -dir- o -t-: yaz-mak “scrivere” → yaz-dir-mak “far scrivere”, anla-mak “ascol-
tare” → anla-t-mak “far ascoltare”; analogamente in swahili45 alcuni verbi pos-
sono assumere valore causativo con l’aggiunta di un particolare suffisso46.
Anche i causativi lessicali constano di un verbo singolo invece che di una
perifrasi verbale; in questi casi però l’idea della causatività non viene espressa
attraverso un suffisso, ma è affidata interamente al lessico: ne sono esempi verbi
come avvisare, mandare, mostrare, uccidere, che hanno lo stesso significato e
sostituiscono perifrasi quali far sapere, far andare, far vedere, far morire 47.
Soffermiamoci infine sui causativi espressi da mezzi sintattici. È a questa
categoria che appartengono le costruzioni con fare+che, delle quali ci vogliamo
occupare. Tuttavia, prima di inoltrarci nella descrizione di tali costrutti, riteniamo
opportuno confrontarli con un altro tipo di causativo sintattico, il già citato far
fare qualcosa a qualcuno, in cui fare è seguito da un infinito48. Si tratta di una
43 Nell’esempio citato il termine magnificare viene usato da Dante proprio con il suo pre-
ciso valore etimologico di “rendere grande”. Cfr. Tateo (1971 alla voce magnificare): «Chiarito
dallo stesso Dante nel suo significato etimologico (“magnificare”, cioè “fare grandi”, in Cv. I X
7) […]. La “grandezza” e nobiltà del volgare, consistenti soprattutto nella capacità di esprimere
i concetti della mente […] vengono, secondo D[ante], “attualizzate”, “palesate”: sicché può dirsi
veramente che egli “magnifichi” il volgare, ossia ne realizzi la grandezza».
44 Cfr. Robustelli (1993: 143).
45 Cfr. Comrie (1981) e Giannini (1994 alla voce causativo).
46 Il tedesco è ricco invece di causativi che derivano dai verbi primitivi mediante il cam-
biamento della vocale tematica: si pensi a fallen “cadere” ~ fällen “far cadere”, trinken “bere”~
tränken “far bere”, liegen “giacere” ~ legen “far giacere”. Cfr. Mussafia (1857/ 1983: 14).
47 Per quanto riguarda l’inglese, la non intercambiabilità tra to kill e to cause to die è dimo-
strata da Fodor (1979), il quale constata che in alcuni tipi di frase la sostituzione di to kill alla
forma analitica to cause to die dà luogo a enunciati agrammaticali. Cfr. anche Shibatami (1972).
48 Costruzione molto simile è quella composta da lasciare + infinito. Fare e lasciare hanno
in comune il contenuto causativo, ma non possono essere considerati sinonimi. Se lasciare può
essere sostituito da fare, non sempre invece può avvenire il contrario: lascialo parlare → fallo
parlare, ma: glielo faccio sapere →??glielo lascio sapere. Sul piano semantico, lasciare ha un
suo significato autonomo, vicino a quello di “permettere”, e il significato causativo del costrut-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 55
tipica innovazione romanza (si confrontino il costrutto francese faire faire quel-
que chose à quelqu’un, e in spagnolo e portoghese le costruzioni con hacer e fazer
+ infinito49). In italiano tale complesso verbale ha le stesse modalità di realizza-
zione di un verbo unico. La coesione tra fare e l’infinito è infatti così forte che i
due elementi sintatticamente si comportano come un solo costituente nella frase50:
il nostro verbo, perdendo il suo significato distintivo, diventa un ausiliare51 e
assolve la funzione di modificare in senso causativo il significato dell’infinito. Ci
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to è molto attenuato (Skytte: 1983). Mentre fare rappresenta la forma positiva del causativo (fare
che), lasciare ne rappresenta quella negativa (non fare che). Un’altra differenza risiede nel fatto
che la proposizione retta da lasciare in forma esplicita è una completiva, mentre quella retta da
fare è una consecutiva esplicita: lascialo restare → lascia che resti, fallo restare → fa’ che resti
(Serianni 1988: 465). Alcune perifrasi con lasciare si sono affermate in italiano come espres-
sioni cristallizzate: lasciare stare, lasciar perdere, lasciar correre. Ma, in generale, «i costrutti
con il verbo lasciare vengono considerati dagli italofoni meno grammaticali, più pesanti»
(Vanvolsem 1995).
49 Rispetto alle costruzioni con fare + infinito, i causativi con hacer e fazer presentano una
minore compattezza sintattica (vedi infra): questi due verbi infatti «sembrano aver subito lo
svuotamento sintattico in misura più limitata rispetto al loro omologo italiano» (Cerbasi 1998:
465).
50 Trattandosi di un unico predicato verbale complesso, raramente viene tollerato l’inseri-
mento, tra i due membri, di altri elementi, almeno per quanto riguarda l’italiano moderno (per
l’italiano antico, v. Robustelli 1994); inoltre il soggetto logico dell’infinito diventa un argomen-
to dell’intero complesso verbale; l’infinito, anche quando è intransitivo, nel costrutto può diven-
tare transitivo; i clitici, argomento dell’infinito, non si attaccano a quest’ultimo ma a fare; l’in-
finito non può essere negato.
51 Cfr. per il francese antico Ponchon (1994: 175-250), che dà al faire causativo seguito da
infinito l’etichetta di auxiliaire.
52 Il fenomeno della grammaticalizzazione è stato ampiamente trattato nella letteratura lin-
guistica degli ultimi decenni. A tale proposito, cfr. almeno Hopper-Traugot (1993) e Giacalone
Ramat (1998).
53 In questi casi molto spesso il causatore è rappresentato da un agente inanimato (Cerbasi:
1998). Cfr. inoltre Salvi-Skytte (1991: 500).
56 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
verbo. Una riprova risiede nel fatto che i costrutti analitici puri non rappresenta-
no eventi causativi in senso lato, in cui cioè l’agente causatore esercita un con-
trollo minore sull’azione54: quest’ultimo infatti è sempre dotato di intenzionalità,
perché promuove direttamente il compimento dell’azione. Definiamo per questo
motivo fare come un verbo “operatore”, in quanto il suo soggetto grammaticale
mette in moto l’azione di un altro soggetto. L’etichetta di “operatore” è stata intro-
dotta da Zellig S. Harris (1970) secondo tre modalità: a) verbi che operano sui
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FĂCĬ O, pur essendo meno usato nella lingua letteraria, per la sue maggiori
genericità e duttilità cominciò già nel latino tardo a essere impiegato per espri-
mere eventi causativi, a discapito delle forme concorrenziali (Cerbasi: 1998).
In ciascuno dei casi sopra esposti, la causatività era espressa da strutture
biproposizionali: la proposizione con FĂCĬ O, e la proposizione ad essa seguente.
Non possiamo parlare di un unico complesso verbale neppure per quanto riguar-
da i costrutti con FĂCĬ O seguito da infinitiva: si trattava, anche in questi casi, di
due predicati distinti che richiedevano argomenti separati.
54 Ponchon (1994: 184) osserva inoltre che, per quanto riguarda il francese, l’impiego di
faire+ que «entraîne une idée de résultat visé, idée qui est absente avec faire auxiliaire de verbe
infinitif».
55 Anche Ponchon (1994) si serve dell’etichetta di opérateur, ma per riferirsi al faire con
valore effettivo: «Feites moi chevalier», (Perceval 970), «Orgiuelz fait home maigre et pale»
(Miracles de Nostre Dame 10, 1938).
56 V. Harris (1970) e cfr. La Fauci (1979: 24).
57 Per un’analisi delle proposizioni consecutive nell’italiano antico, v. Dardano / Frenguelli
/ Pelo (1998).
58 In latino i costrutti causativi per eccellenza erano proprio quelli rappresentati da FACIO
/ EFFICIO+ UT e congiuntivo (Robustelli 1993: 143).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 57
babilmente da Andrea Lancia, prima del 1313 60. Abbiamo confrontato il volga-
rizzamento con l’originale latino, tenendo conto che nei versi ovidiani le scelte
lessicali e la giacitura delle parole possono essere condizionate da esigenze metri-
che, mentre il testo in prosa ubbidisce alle regole della retorica medievale. Fare +
che compare spesso in corrispondenza di FĂCĔRE all’imperativo seguito dal con-
giuntivo, con una traduzione quasi letterale:
Seu pedibus uacuis illi spatiosa teretur/ Porticus, hic socias tu quoque
iunge moras, / et modo praecedas facito, modo terga sequaris, (Ars I
489-491);
O se i-largo portico fia pestato da-llei con iscalzi piedi, tu altresì com-
pagnevole dimoranza farai co-llei; e farai ch’alcuna volta tu vadi
dinanzi, alcuna volta di drieto le sue spalle, (Arte Am I 491-494);
Fac primus rapias illius tacta labellis/ Pocula, quaque bibit parte puel-
la, bibas, (Ars I 573-574);
Fa’ che tu pigli il bic[c]hiere, col quale ella bevendo, toccherae colli suoi
labbretti, e berai da quella parte ch’ella avrae bevuto, (Arte Am I 575-576);
Cede repugnanti; cedendo uictor abiis;/ Fac modo, quas partis illa
iubebit agas, (Ars II 197-198);
Da’ luogo a chi ti ripugna e partira’ti vincitore; fa’ che tu solamente
vadi là ov’ella ti comanderae, (Arte Am II 197-198);
Iussus adesse foro iussa maturius hora/ Fac semper uenias nec nisi
serus abi, (Ars II 223-224);
S’ella ti comanda andare a-llei, fa’ che tu vi sia più tosto che l’ora
comandata e non ti partire se non tardi, (Arte Am II 223-224).
59 La rianalisi sintattica che nei causativi con fare + infinito porta dalla struttura bifrasale lati-
na a una struttura monofrasale romanza non è pertanto in questi casi completa (Cerbasi 1998: 459).
60 Vanna Lippi Bigazzi, che ha curato l’edizione critica del testo, fornisce alcune indica-
zioni per stabilire il termine ante quem del volgarizzamento: «sappiamo da una chiosa dei
Rimedi che il volgarizzatore operava al tempo della discesa in Italia di Arrigo del Lussemburgo;
poiché nel prologo di quella stessa opera si allude all’Arte come già volgarizzata [...], anche
l’Arte non varca il 1313». Per quanto riguarda l’identità del volgarizzatore, la studiosa osserva:
«le affinità più clamorose si rilevano con il volgarizzamento dell’Eneide autorevolmente attri-
58 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
«Effugere hunc non est» quare tibi possit amica / Dicere? non omni
tempore sensus obest, (Ars II 531-532);
Non fare sì che la tua amica possa dire: «Fuggi quinci!». Il senno non
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 59
quello moderno l’ordine “fare che + consecutiva esplicita” è fisso; c’è contiguità
tra fare e il complementatore che. Precisiamo tuttavia che non sono assenti
esempi che presentano vari tipi di inserzioni tra i due membri; nella maggior
parte dei casi, l’elemento che si frappone tra fare e il che è rappresentato da un
avverbio:
Registriamo infine alcune occorrenze in cui tra fare e il che si frappone un’in-
tera proposizione (un’altra reggente coordinata, in endiadi; un’ipotetica; una tem-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 62
porale):
E però quanto più posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a
fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi
sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole,
(Dec VIII 9 44);
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Facciano gl’iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa
ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me […] adope-
ri, (Dec X 8 41);
Dioneo, questa è quistion da te: e per ciò farai, quando finite fieno le
nostre novelle, che tu sopr’essa dei sentenzia finale, (Dec VI In. 12).
63 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
BIBLIOGRAFIA PRIMARIA
Ars = P. OVIDII NASONIS, Artis amatoriae, a cura di H. Bornecque, Paris, Les Belles Lettres,
1924.
Arte Am. = Libro dell’arte d’amare, a cura di V. Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecente-
schi dell’Ars amandi e dei Remedia amoris, Firenze, Accademia della Crusca, 1987.
Compagni = D. Compagni, Cronica, a cura di G. Luzzatto, Torino, Einaudi, 1968.
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Conv = Dante, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, 3 voll. Firenze, Le Lettere, 1995.
Cron = Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano, Adelphi, 1979.
Dec = G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992 [rist. dell’ed.
1980].
Met = La Metaura d’Aristotile. Volgarizzamento fiorentino anonimo del XIV secolo, a cura
di R. Librandi, 2 voll., Napoli, Liguori, 1995.
NC = G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 3 voll., Parma, Guanda, 1990-1991.
Nov = Il Novellino, a cura di A. Conte, Roma, Salerno 2001.
Simintendi = A. Simintendi, Metamorfosi volgarizzate da ser Arrigo Simintendi da Prato.
In: Corpus testuale del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, allestito presso
l’Opera del Vocabolario Italiano, Firenze.
VN = Dante, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 64
BIBLIOGRAFIA SECONDARIA
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Dardano Maurizio, 1978, La formazione delle parole nell’italiano di oggi. Primi materia-
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Dardano Maurizio, 1990, Appunti sulla formazione delle parole nella prosa antica. In: Id.,
1992: 263-285.
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Gembloux, Duculot.
Gross Gaston, 1996, Les expressions figées en français, Paris,Ophrys.
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Reidel.
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Tabella 1
Trascurando in questa sede la questione delle forme con doppio ausiliare del
passivo composto romanzo (per cui si veda La Fauci 2000c; 2000d), i punti criti-
ci del confronto sono riassunti in (2):
* Sono grata a Nunzio La Fauci non solo per l’ispirazione del lavoro ma anche per l’entu-
siasmo con il quale mi ha segnalato i molti problemi che restano da risolvere. Una precedente
versione di questo lavoro ha inoltre beneficiato della lettura del prof. Riccardo Ambrosini: pur
senza offrire qui una soluzione ai quesiti e alle critiche di specifici punti, desidero ringraziarLo
per avermi indicato, con le sue stesse domande, le direzioni in cui orientare la futura elabora-
zione della ricerca.
68 SILVIA PIERONI
Tabella 2
LATINO ITALIANO
• non corrispondenza fra il tempo dell’ausilia- • corrispondenza fra il tempo dell’ausiliare e il
re e il tempo del nucleo predicativo1 passivo tempo del nucleo predicativo passivo (sono
(laudatus sum perfetto) lodato presente)
• distinzione formale, al perfetto, fra la strut- • coincidenza formale della struttura copula +
tura participio + copula e la struttura passiva participio con la struttura passiva (fui felice
(felix vs. laudatus sum) vs. fui lodato)
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• forma sintetica e analitica del passivo • forma soltanto analitica del passivo
2. Il rapporto non biunivoco fra forme e funzioni può essere colto tramite un
procedimento di scomposizione della struttura passiva basato sull’articolazione in
tratti grammaticali, secondo il modello proposto da La Fauci (2000c), che recu-
pera e convoglia indicazioni suggerite anche in lavori di diversa impostazione teo-
rica (quali Dubinsky e Simango 1996).
Innanzitutto, è necessario sottolineare che l’informazione lessicale e quella
morfosintattica non sono distribuite omogeneamente nel nucleo predicativo, il
quale si compone funzionalmente di:
1 Con ‘nucleo predicativo’ si intendono qui le ‘unioni predicative’ (Davies e Rosen 1988;
Rosen 1997) che contengono un solo predicato con portata argomentale, distinte quindi da quel-
le che ne contengono più di uno (ad esempio, le unioni causative).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 69
strutture sintattiche nel loro complesso possano non essere rimasti funzionalmen-
te identici. Il problema teorico generale è evidentemente quello dell’opposizione
fra costrutti con predicazione verbale e costrutti con predicazione non verbale;
tuttavia, la distinzione fra valore verbale e aggettivale del participio non pare sod-
disfacente per cogliere il modo in cui si correlano la disponibilità della forma par-
tecipiale a più interpretazioni e la sua partecipazione a strutture diverse, che, in
diacronia, comporta la sostituzione delle forme sintetiche e analitiche del passivo
latino con le forme soltanto analitiche del passivo italiano (e romanzo).
L’ambiguità categoriale del participio (che ovviamente non riguarda la sola
struttura passiva, per cui una chiara definizione formale del tratto grammaticale
[± passivo] si rende preliminarmente necessaria) e conseguentemente gli aspetti
innovativi del passivo analitico romanzo possono essere articolati in termini
morfosintattici grazie all’individuazione del tratto grammaticale [± flessivo]. I
due tratti in questione sono definiti in La Fauci (2000c: 83) come segue:
In questo quadro, La Fauci propone che la distinzione fra il passivo italiano con
ausiliare essere e quello con ausiliare venire sia formalizzabile come in (3) e (4)3
2 Eccettuali usi ellittici del tipo Bella, la vita di quel tale che saranno qui trascurati.
3 I diagrammi stratigrafici che accompagnano gli esempi devono essere letti dal basso verso l’al-
to: la prima riga corrisponde infatti alla struttura di superficie. Ciò dovrebbe rendere chiaro che le for-
malizzazioni fornite non sono in alcun modo intese in senso derivazionale, ma piuttosto come rap-
presentazioni concettuali delle strutture. Una maggiore suddivisione di livelli non riflette perciò il cor-
relato di possibili ‘movimenti’, ma semplicemente la maggiore complessità strutturale dal punto di
vista morfosintattico. I termini “Carico” e “Neutro” indicano rispettivamente il settore responsabile
dell’assegnazione degli argomenti e quello devoluto all’integrazione delle funzioni morfosintattiche.
I simboli relativi alla struttura argomentale sono quelli della Grammatica Relazionale.
70 SILVIA PIERONI
Tabella 3
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Tabella 4
tiva’ delle strutture italiane4, semplificabili ai fini di questo lavoro nelle due restri-
zioni che seguono:
Anche senza entrare nel merito della direzione del rapporto causa-effetto fra
la strutturazione morfosintattica e il valore tempo-aspettuale, la concettualizza-
zione formalizzata dei tratti in questione, di per sé non assenti nelle intuizioni
della descrizione vulgata, sembra permetterne l’utilizzo concreto come strumento
per un’analisi strutturale e funzionale che integri adeguatamente l’interpretazione
semantica tradizionale5.
(5) Abs te est Popilia, mater vestra, laudata (Cic. de or. 2,44)
“Da te fu lodata Popilia, vostra madre”
Tabella5
4 Tali parametri sono individuati sulla base di campioni che non riguardano le sole struttu-
re verbali, ma anche quelle copulari: Andrea è stato felice ma Andrea è venuto felice.
5 Si vedano le osservazioni di Ambrosini sulla natura di veri e propri passivi delle struttu-
re con venire, non stative, a differenza di quelle con essere (sui casi del tipo mi viene / è venuto
detto, non passivi, si tornerà nella sezione 3.1).
72 SILVIA PIERONI
3.1. L’esame che soggiace alla formalizzazione in (5) comprende gli elemen-
ti concettuali atti a spiegare il valore temporale perfetto del nucleo predicativo
laudata est, sanando l’aporia della forma presente dell’ausiliare. Infatti, essendo
il participio [+ flessivo], la sua formazione morfosintattica è collocata nel primo
Settore Neutro: l’informazione temporale, caratteristicamente una categoria fles-
siva, può essere collocata senza difficoltà in questo preciso settore. (Si confronti-
no le osservazioni sulla primarietà del valore anteriorizzante del participio in
Kurylowicz 1931 e quelle in Pinkster 1987/ 193-194; benché in quest’ultimo caso
le strutture considerate non siano passive 7). Confrontando la struttura con la sua
corrispondente italiana in (3), si nota che anche in quest’ultima l’informazione
temporale è fornita nel primo Settore Neutro, in questo caso il settore predicativo
del participio dell’ausiliare stato: nella struttura italiana, infatti, il processo di for-
mazione del participio è invisibile alla morfosintassi. La ristrutturazione formale
sarebbe così correlata a equivalenza funzionale, ragione profonda della continuità
fra le due strutture.
L’analisi modulare e la risoluzione tramite essa dell’ambiguità del participio
permettono a questo punto il confronto con le strutture in cui la formazione del
participio non avviene a livello morfosintattico, ma morfolessicale. Di fatto,
anche il latino possiede strutture con participi [– flessivi]: è il caso di strutture
come (6) e (7).
(6) Gallia est omnis divisa in partes tres (Caes. Gall. 1,1,1)
“Nel suo complesso, la Gallia è divisa in tre parti”
Tabella 6
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(7) Omnia quae sunt conclusa nunc artibus, dispersa et dissipata quon-
dam fuerunt (Cic. de or. 1,187)
“Tutti gli elementi che ora sono contenuti nelle arti furono un tem-
po senza ordine e correlazione”
Tabella 7
8 L’esempio (8), come (5) precedente, sono stati scelti per chiarezza anche in quanto impli-
cano un complemento d’agente. Tuttavia, benché il complemento d’agente sembri favorire l’in-
terpretazione +flessiva del participio, non si intende in alcun modo dire che esso sia responsa-
bile della distinzione di funzioni e strutture.
74 SILVIA PIERONI
che preferisce parlare di «passivi non agentivi») come del resto suggerisce l’ordi-
ne lineare, che inserisce omnis fra est e divisa.
Tabella 8
Una conferma della validità della struttura proposta in (6) è il fatto che all’in-
terpretazione temporale presente si associa un oggetto indiretto piuttosto che un
complemento d’agente. Si confrontino (9) e (10):
(9) nulla tamen vox est ab eis audita populi Romani maiestate et supe-
rioribus victoriis indigna (Caes. Gall. 7,17,3)
“Tuttavia, non fu udita da loro alcuna voce indegna della grandez-
za del popolo romano e delle precedenti vittorie”
Tabella 9
Tabella 10
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3.2. Se il caso (7) visto in 3.1. è una struttura inaccusativa, sono tuttavia atte-
state in latino strutture che anticipano il passivo romanzo non solo formalmente, ma
anche funzionalmente.
Un caso non ambiguo è:
La diversità strutturale che intercorre fra le strutture del tipo (7) e quelle del
tipo (13), riconosciuta, come si diceva, nelle grammatiche, non è però in grado da
sola di rendere ragione dei modi del cambiamento intercorso. Lo slittamento
verso il passivo del tipo (13) è tradizionalmente ricondotto alla presenza di un pre-
dicato agentivo (e all’esigenza di marcarne la differenza rispetto a quelli stativi).
Ora, poiché le due strutture costituite da sum + participio (quella inaccusativa
degli esempi 6 e 7 e quella passiva degli esempi 8 e 13) si trovano per tutto l’ar-
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co della latinità con medesimi verbi, come emerge dalla considerazione dei casi
(6)-(12), non è possibile ipotizzare una distribuzione complementare delle strut-
ture riconducibile solo a fatti lessicali. D’altra parte, la coesistenza di due struttu-
re sotto un’apparente equivalenza superficiale (come nei casi latini 6 e 8) non con-
tiene in sé nessuna radice causale per il cambiamento, essendo la biunivocità
forma-funzione una possibilità, favorita dalla facilità e dalla chiarezza, ma non un
critero ineccepibile della lingua. Secondo l’ipotesi qui proposta, in (13) il partici-
pio è il primo elemento predicativo della struttura, esattamente come in (7)
(rispetto al quale la distinzione strutturale riguarda la presenza di un soggetto
diverso da quello finale9). Il perfetto di esse trova così ragione nel fatto che
l’informazione temporale di perfetto non è soddisfatta al livello della formazione
del participio. In questo senso, il processo che da una complesso esse + participio
predicativo porta a una forma perifrasica non è da riportare né solamente alla clas-
se lessicale dei singoli verbi o delle loro singole accezioni, né semplicemente
all’ausiliarizzazione di esse, ma al mutare complesso delle relazioni fra gli ele-
menti (considerando qui principalmente quelli predicativi) della proposizione, che
vedono mutare la scelta dell’ausiliare (da infectum a perfectum) in conseguenza
della diversa interazione funzionale con il participio.
3.3. In 3.1 si è visto che nel passivo analitico latino del tipo (5) l’informa-
zione temporale è collocata nel settore devoluto alla flessione del predicato con
portata argomentale (ossia al livello di formazione del participio); nel passivo
analitico italiano del tipo (3), invece, nel settore predicativo dell’ausiliare (sta-
to). In questo senso, l’equivalenza funzionale dell’ausiliare stato e della flessio-
ne del participio implica che la categoria temporale, al pari di quella diatetica,
sia espressa rispettivamente in modo analitico (in italiano) e in modo sintetico
(in latino). Da ciò risulta che la corrispondenza delle strutture analitiche latine
con quelle romanze è più apparente che reale, in quanto le forme analitiche lati-
ne contengono in ogni caso un grado di flessività e di sinteticità di cui quelle ita-
liane sono prive.
9 In quest’ottica, pur nella diversità delle interazioni funzionali, è ovvia l’analogia con le
coppie costituite da habeo (+ oggetto) + participio predicativo dell’oggetto e le strutture peri-
frastiche anticipatrici del passato prossimo (attivo) romanzo.
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 77
(15) cum id honestum putent, quod a plerisque laudetur (Cic. Tusc. 2,63)
“ritenendo onorevole ciò che è lodato dai più”
10 Si intende, nelle strutture in questione. È infatti noto che si hanno in latino non solo
stutture in cui il participio non ha valore perfettivo (di cui si è in parte detto), ma parimenti
strutture in cui non hanno valore passivo (con iuratus, cenatus, etc.)
78 SILVIA PIERONI
4. Per questa via, parrebbe quindi di poter sostenere che i principi parametrici
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individuati da La Fauci per l’italiano (non meno di un Settore Neutro, ma non più di
due per ogni struttura) siano gli stessi che valgono per il latino. Un’obiezione a que-
sta affermazione potrebbe venire dalla considerazione della possibilità, in latino a dif-
ferenza che in italiano, delle strutture cosiddette ‘nominali’ del tipo in (16) e (17):
13 Lasciando qui da parte i casi dei cosiddetti ‘deponenti transitivi’, che ci porterebbe trop-
po lontano dall’obiettivo prefisso.
80 SILVIA PIERONI
Anche fra le strutture deponenti, non sembrano mancare, d’altra parte, casi
[– flessivi]: così possono essere considerati i noti casi di perfetti con valore di pre-
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sente, individuati nelle grammatiche tradizionali nei participi come usus, com-
plexus, gavisus (Ambrosini 2001: 177):
(22) Quos sibi Caesar oblatos gavisus, illos retineri iussit (Caes. Gall.
4,13,6)
“Cesare, lieto che essi gli fossero stati offerti, ordinò di trattenerli”
D’altra parte, la stessa perdita di capacità sintetica che nel presente passivo
porta alla rideterminazione tramite mezzi analitici (ess. 14 e 15) è forse alla radi-
ce della convergenza del deponente con l’attivo, nell’ambito della quale potrebbe
essere utile riconsiderare le cosiddette ‘intransitivizzazioni’ attestate nell’intero
arco della latinità, ma sempre più frequenti in tardo latino (si veda Flobert 1975:
568-571; Feltenius 1977; Cennamo 2001), quali rappresentate dalla proposizione
con adsiccaverit in (23):
(23) ... donec adsiccetur totus humor ... Quod cum adsiccaverit ...
(Chiron 476)
“finché tutto l’umore non si secchi ... e una volta che sia seccato ...”
(24) quia sciret aquam nigram esset, unde illa (scil. nix) concreta esset
(Cic. ac. 2, 100)
“poiché sapeva che l’acqua, da cui quella (scil. la neve) si era soli-
dificata, era nera”
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Provence, 28-31 mars 1983), Aix-en-Provence, Université de Provence: 227-240.
ALVARO ROCCHETTI
(Université de la Sorbonne Nouvelle – Paris 3)
Essa si basa sul concetto di “tempo operativo”, un tempo che funge da sup-
porto alle operazioni mentali e può essere percepito dalla coscienza del locutore
(come, ad esempio, durante la costruzione della frase che inizia, si svolge e si con-
clude) o non essere percepito (come nell’opposizione tra articolo definito e arti-
colo indefinito). La non percezione non è un criterio valido per rifiutare l’esisten-
za di un tempo operativo come possiamo osservare con il computer che può dare
una risposta immediata ad una pressione su un tasto oppure richiedere un tempo
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più o meno lungo, mentre sappiamo che, in un caso come nell’altro, una serie di
operazioni – più o meno complesse – si sono svolte tra la pressione sul tasto e
l’apparizione del risultato finale sullo schermo. Queste operazioni si susseguono
talvolta così rapidamente che la nostra coscienza non riesce a registrare il tempo
impiegato. Eppure il risultato apparso sullo schermo ci dimostra che, in uno spa-
zio di tempo impercettibile per la nostra coscienza, possono svolgersi centinaia,
migliaia e perfino milioni di operazioni.
Il tempo durante il quale si sono svolte queste operazioni ha una caratteristi-
ca costante: è sempre progressivo, va sempre nella stessa direzione, aggiungendo
nuovi risultati a quelli già acquisiti. Non torna mai indietro e se il programmato-
re vuol cancellare un risultato, deve fare una programmazione “ulteriore” – quin-
di inserirsi nel tempo operativo successivo al risultato, poiché evidentemente non
può cancellare un risultato ancora... “inesistente”. Succede la stessa cosa per le
operazioni mentali: un’operazione può sempre essere sospesa prima che arrivi al
termine, ma quando vi è giunta non può più essere cancellata. Ad esempio, se
accettiamo come normale la successione: “ho visto un uomo entrare nel negozio;
l’uomo si è diretto verso la cassa...” quando si tratta dello stesso uomo e invece
come anormale la successione inversa: “ho visto l’uomo entrare nel negozio; un
uomo si è diretto verso la cassa...”, è perché l’articolo indefinito è concepito in un
primo momento e l’articolo definito in un secondo momento. Si passa infatti nor-
malmente, senza cambiare concetto, sull’asse del tempo operativo, da un’opera-
zione parziale (un uomo) a un’operazione completa (un uomo =>l’uomo), men-
tre il passaggio da un’operazione completa a una parziale implica una rottura, un
cambiamento di oggetto: non si tratta dello stesso concetto di ‘uomo’ (l’uomo ≠>
un uomo).
Gli altri postulati della linguistica operativa sono tutti legati al tempo opera-
tivo. Si tratta dell’orientamento ineluttabilmente progressivo del tempo (“non si
torna mai indietro!”), della possibilità di intercettare ogni movimento, come nel
caso del congiuntivo che è un’intercettazione del movimento che porta all’indica-
tivo, esattamente come una decisione virtualmente presa è l’anticipazione di una
decisione realmente presa. In questa prospettiva, l’opposizione saussuriana della
lingua e della parola diventa, come nella linguistica chomskyana, l’opposizione
tra una competenza (acquisita anteriormente e che viene chiamata “la lingua”) e
una “performance” concepita come un “discorso” (orale o scritto) che sfrutta
momentaneamente questa competenza. Nello stesso modo, l’opposizione tra dia-
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 87
discorso. Non possono dunque esistere contrasti tra diacronia e sincronia, ma solo
continuità. Per questa ragione vedremo, nel caso che c’interessa, che il problema
sincronico dell’uso del condizionale trova la sua spiegazione nell’evoluzione dia-
cronica.
Nell’indo europeo tutto il campo del tempo futuro era coperto dal congiunti-
vo. Mentre il passato, nel latino classico, presenta forme che risalgono all’in-
doeuropeo (come il perfectum) o sono una creazione più recente ma già ben
affermate nel latino preclassico (come l’imperfetto), l’espressione del futuro
rimane ancora legata al modo congiuntivo. Questa situazione sopravvive ancora
nelle lingue romanze poiché i tempi del passato (imperfetto e perfectum) si sono
per lo più conservati mentre i tempi del futuro sono presenti in forme ricostruite.
Visto nella prospettiva delle future lingue romanze, il latino classico presenta
abbozzi di futuro validi solo per alcuni gruppi di verbi (quelli in -are e in -ere:
amabo, monebo) mentre per gli altri usa forme derivate dal congiuntivo: dicam,
faxo, fiam, ecc. Il futuro, nelle lingue romanze, sarà ristrutturato con la creazione
di forme valide per tutti i verbi, composte con l’infinito al quale si aggiunge l’au-
siliare avere al presente: amare+ho = amerò.
È interessante soffermarci un momento su questa tappa dell’evoluzione per
capire qual è il sistema dal quale si esce (quello del latino classico) e qual è il
sistema nel quale si entra (quello delle lingue romanze). Il latino classico ha ten-
tato di generalizzare, al presente dell’indicativo, un sistema a tre livelli con l’in-
coativo -sc- (amasco), il presente (amo) e il perfectum -v- (amavi). Ma l’incoati-
vo ha avuto un’estensione limitata perché il momento iniziale di un processo non
è sempre facile da cogliere né interessante da rappresentare: se “comincio ad
arrabbiarmi” (irasco) o “comincio a finire” (finisco) sono momenti da cogliere,
molti altri inizi non presentano alcun interesse (ad esempio: “cominciare a canta-
re - *cantasco -, cominciare a sentire - *sentisco -, a ricordarsi, a... cominciare,
ecc.). Per questa impossibile generalizzazione, l’opposizione morfologica si è
presto limitata all’infectum e al perfectum, cioè a due livelli.
Possiamo rappresentare il modo indicativo del latino classico con il seguente
schema:
88 ALVARO ROCCHETTI
Figura 1
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Come si può osservare, si tratta di un sistema molto equilibrato nel quale ogni
tempo dell’infectum ha un suo corrispondente al livello del perfectum. Questo secon-
do livello è segnalato con l’infisso –v– che è invece assente al primo livello e verrà
sostituito nelle lingue romanze dalle forme composte con l’ausiliare: avevo amato –
ho amato – avrò amato. Tuttavia, malgrado la sua solida costituzione, questo sistema
ha un difetto che darà lo spunto per l’evoluzione futura. Infatti la forma amavi, da per-
fectum del presente che era all’origine, è scivolata, con il passar del tempo, verso il
passato ed ha acquistato anche il valore di passato più o meno remoto, senza però per-
dere, nel latino classico, il suo valore di perfectum del presente: si può dire “dixi” (=
ho finito di dire, ‘ho detto’), ma anche usare “dixi” come l’italiano “dissi” per un’a-
zione passata da molto tempo, che non ha più nessuna relazione con il presente.
Uno schema più rappresentativo della realtà dovrebbe quindi introdurre nel
passato il perfectum amavi. In questo caso, lo schema diventa:
Figura 2
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 89
Figura 3
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Ci si rende conto così che il sistema che si sta preparando è squilibrato, poiché pos-
siede due tempi nel passato (uno in corso – l’imperfetto –, l’altro visto globalmente –
il passato remoto –), due tempi anche nel presente (uno in corso – il presente –, l’altro
giunto al termine – il perfectum –), ma nel futuro presenta un solo tempo per rappre-
sentare l’azione in corso. Manca la rappresentazione di un’azione futura vista global-
mente, espressa dal passato remoto nel passato e dal perfectum nel presente. Il sistema
che erediteranno le lingue romanze è dunque rappresentabile con lo schema seguente:
Figura 4
90 ALVARO ROCCHETTI
Figura 5
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 91
Figura 6
situata nel futuro: se verrò a casa tua domani, ti porterò un regalo non può tradur-
si in francese con *si je viendrai chez toi demain..., né in spagnolo con *Si iré maña-
na a tu casa... Si devono usare tempi che possano lasciare una parte dell’azione
ancora da compiere, come il presente: “si je viens chez toi demain”/”si voy maña-
na a tu casa”, o l’imperfetto “si je venais chez toi demain” oppure, come fa il por-
toghese, il futuro del congiuntivo. Quando, in queste lingue, il futuro è usato dopo
“se”, non esprime un’ipotesi, ma un’azione già decisa, programmate nel futuro.
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Ecco due esempi in francese contemporaneo di uso del futuro dopo si (Le
Monde, 2 maggio 1998, pag. 3, in un article intitolato Même sans pièces ni billets,
l’euro pour tous en 1999, col. 1-4, di Henri de Bresson e Sophie Faye):
Sempre nel giornale Le Monde del 6 febbraio 1999 (p. 3, col. 6) ma sotto la
penna di un altro giornalista, Michel Bôle-Richard, in un articolo che riguarda
l’Italia: “L’Italie rejette les critiques de Bruxelles sur son insuffisante rigueur
budgétaire”:
In tutti i casi, il verbo che segue la particella ipotetica “si” indica un’azione
ammessa da tutti. Nel terzo esempio, l’avverbio “vraisemblablement” interviene
appunto per evitare che si possa interpretare la proposizione “si la croissance sera
(...) inférieure à ce qui avait été prévu” come una mera ipotesi, mentre per il mini-
stro del tesoro italiano si tratta di ammettere le previsioni del Commissario euro-
peo Yves-Thibault de Silguy. L’insieme della proposizione equivale a: “anche se
(= ammesso che) la crescita sarà (sia) inferiore a quanto previsto, non sarà neces-
sario tuttavia procedere a nuovi tagli”.
anche essersi realizzata prima del momento dell’elocuzione, il che non è mai il
caso per un “perfectum di futuro”. Per questo motivo, l’italiano ha conservato fino
alla metà del seicento l’altra costruzione (quella della Romania occidentale) che
gli ha permesso di compensare alcune insufficienze del suo condizionale “perfec-
tum di futuro”. Finché non ha trovato la soluzione.
Infatti, attorno al 1650, s’impone una nuova struttura: poiché il condizionale
non può agevolmente entrare nel passato, si divide il “futuro nel passato” in due
parti, attribuendo l’espressione del passato alla forma composta del verbo (e non
più alla forma semplice: essere venuto invece di venire) e mantenendo il condi-
zionale solo per l’espressione del futuro. Una volta trovata la costruzione del tipo
mi disse che sarebbe venuto per esprimere il futuro nel passato, in opposizione
alla costruzione ipotetica “mi disse che sarebbe venuto se...” usata dalla maggior
parte delle altre lingue romanze, l’uso del condizionale con la desinenza dell’im-
perfetto poteva sparire. Infatti, a partire da quel momento, sarìa, avrìa, potrìa,
vorrìa, ecc. escono a poco a poco dall’uso e il condizionale composto s’impone
per l’espressione del futuro nel passato, come si era già imposto il condizionale
semplice – basato sull’infinito + il perfectum dell’ausiliare avere – per l’azione
irreale nel presente e nel futuro.
Resta ancora da capire la terza forma presente nell’italiano antico, quella
venuta dal piuccheperfetto indicativo amaveram. Questa forma si spiega abba-
stanza facilmente: dopo la creazione del nuovo piuccheperfetto delle lingue
romanze, con l’ausiliare all’imperfetto + il participio passato – avevo amato –, la
forma latina amaveram ha perso l’infisso -v-, come amavi (> amai) e la maggior
parte delle forme del perfectum (amavissem --> amassem --> amasse --> amas-
si). Si arriva così alla forma del condizionale di Cielo d’Alcamo: amara, canta-
ra, ecc. Ma l’evoluzione del significato – dal piuccheperfetto dell’indicativo al
condizionale – richiede qualche chiarimento. Se infatti partiamo da un significa-
to vicino a “avevo amato” non è facile arrivare al condizionale italiano “amerei”.
Dobbiamo quindi analizzare meglio la sua funzione: il piuccheperfetto era legato
all’imperfetto a cui serviva, come indica il nome, da perfectum, cioè portava “fino
alla perfezione” l’azione dell’imperfetto. Siamo dunque rimandati al significato
dell’imperfetto. Si tratta di un tempo che presenta l’azione in parte realizzata e in
parte da realizzare, in legame con un’altra azione che interviene nel corso della
realizzazione: es. quando uscii, pioveva
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 95
Quando uscii
|
|<–––––––v. . . . . . . . . . . . . . . . >|
pioveva
dire due cose opposte: o è resa “perfetta” la parte dell’azione già realizzata – e in
questo caso ci si trova con un’azione interamente compiuta – o è resa “perfetta”
la parte ancora da realizzare – e in questo caso ci si trova con un’azione intera-
mente da realizzare –. Questo meccanismo permette di capire perché il piucche-
perfetto latino poteva avere due significati opposti: fuerat = 1) era stato; 2) sareb-
be stato.
Figura 7
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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ROMANA TIMOC-BARDY
(Aix-en-provence)
1.
Nos recherches sur le conditionnel ont été effectuées comme partie d’un tra-
vail plus ample, portant sur l’ensemble du système verbal du roumain (Timoc-
Bardy 1999: 281-542), sur son agencement, sur sa construction, vue de façon
dynamique. Dans la conception qui a présidé à ce travail (la psychosystématique
du langage), il nous importait en premier lieu de bien comprendre la morphologie du
conditionnel, de parvenir à nous expliquer son origine – la périphrase de départ –; en
deuxième lieu, de corroborer cela à la fois avec le système verbal dans son ensem-
ble et avec l’évolution de celui-ci; et, en troisième lieu, sachant que les construc-
tions morphologiques entraînent des conséquences syntaxiques, d’examiner le
plan du fonctionnement syntaxique.
Ce sont ces mêmes points qui nous occuperont ici, bien plus schématique-
ment toutefois – autant que le permettent les dimensions d’une communication –:
morphologie et fonctions du conditionnel, vues à travers la structure générale du
système verbal roumain, ensuite en rapport avec l’expression du futur. Enfin, nous
essaierons de tirer quelques conclusions d’une portée plus théorique et plus géné-
rale, en incluant la comparaison avec d’autres langues romanes, notamment avec
l’italien.
poraine, ont soutenu ce point de vue. Tels sont, par ordre chronologique, Hasdeu
(1887-1893: s.v.), Tiktin (1904: 691-704), Titova (1959: 561-571), Bourciez
(1967: 604), Rosetti (1968: 156), Bugeanu (1970: 543-563), et, plus récemment,
Coteanu (1982: 212) et Avram (1986: 162), pour ne nommer que les principaux.
Les deux derniers, du moins dans les ouvrages cités, ne s’occupent pas de l’ori-
gine des paradigmes, car il s’agit là de grammaires destinées non à des spécialis-
tes, mais à un très large public. Quant aux autres contributions, surtout les plus
anciennes, on peut dire pour l’essentiel, qu’elles abordent beaucoup plus le niveau
de l’évolution phonétique que celui de la fonction. Lorsque le côté fonctionnel est
envisagé, les solutions proposées ne sont pas suffisamment motivées, voire pas du
tout. Ainsi, après avoir constaté les coïncidences de formes sus-mentionnées –
point de départ en fait de la théorie habere –, et étant donné qu’il est impossible
d’expliquer phonétiquement le reste du paradigme à partir du présent du verbe
latin, les adeptes de l’étymologie habere ont été obligés d’inclure dans leur expli-
cation des formes subjonctives. Ainsi, pour aş, dont l’origine est la véritable pier-
re d’achoppement de toutes les théories proposées, Hasdeu suggérait un archaïque
habessim (pour habuissem), peut-être dans l’idée d’expliquer phonétiquement le
résultat par la suite s+i, évolution normale en roumain. Tiktin proposait habuis-
sem pour a, mais le subjonctif imparfait, haberem, ou parfait, habuerim, ou même
habueras, habuerat pour le reste du paradigme. De nos jours, A. Rosetti a accep-
té – avec réserve, il est vrai, et sans référence à la valeur d’emploi – l’étymon
habuissem pour a, considérant que cette évolution comportait des difficultés pho-
nétiques, mais qu’il ne voyait toutefois pas d’autre dérivation possible pour la pre-
mière personne. On constate en fait que les linguistes ne savaient pas trop com-
ment prendre en considération le côté fonctionnel. On peut se demander en effet
sur quoi repose le recours aux paradigmes haberem et habuerim. Sur le fait qu’en
latin ils pouvaient servir à dire l’hypothèse? Comment accepter ce mélange de
formes sans un support théorique qui le motive? De quelle manière peut-on relier
1 Nous prions pour cela le lecteur de bien vouloir se reporter à notre discussion Timoc
Bardy (1999: 312-337).
2 Après avoir indiqué, dans le tome II (§ 114) de sa Grammaire des langues romanes, l’é-
tymon habere, Meyer-Lübke s’est rétracté dans le volume III (§ 323), au profit de la théorie de
Weigand, mais en manifestant sa réserve pour l’origine de la 1ère personne, proposée par ce der-
nier.
102 ROMANA TIMOC-BARDY
des temps” ne se fait pas de la même manière: le passé est toujours du passé et le
futur toujours du futur, que ce soit par rapport au passé ou au futur. Une catégo-
rie “futur dans le passé” n’y existe pas.
3. NOTRE SOLUTION
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Selon nous, l’actuel conditionnel n’est autre que l’ancien futur roman du type
habeo cantare, dans lequel l’auxiliaire n’est pas devenu flexion. Quoique réduit,
il a gardé son statut de mot. Cette conception est en accord avec la structure géné-
rale du système verbal roumain, qui n’a établi aucun parallélisme entre les temps
du passé et les temps du futur. La conséquence en est que le roumain peut toujours
exprimer le futur par les formes du “temps futur”, qu’il soit dans le passé ou dans
le futur, et n’a pas besoin d’une concordance des temps. On dit dans cette langue
(4) A zis că va veni (en utilisant le futur). “Il a dit qu’il viendra”, au lieu
de “Il a dit qu’il viendrait” du français, ou de “Disse che sarebbe
venuto” de l’italien.
Si on utilisait le conditionnel,
(5) A zis că ar veni. litt. “Il a dit qu’il viendrait”
les formes les plus problématiques, aş et ar, en essayant de montrer qu’il est possi-
ble de les relier également au présent de habere.
Aş peut provenir tout simplement de la première personne du présent de habe-
re. Les linguistes se sont abondamment penchés sur l’origine de am, forme inno-
vée, mais apparemment sans se demander, quelle forme am a remplacé. Les lan-
gues romanes occidentales ont montré que la première personne de leur héritier
de habere rendait nécessaire de postuler l’existence en latin vulgaire de formes
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inattestées, telles que *ajo ou *ao ! Il est logique de penser que des formes popu-
laires autres que le classique habeo ont existé également dans les régions où le
roumain a pris naissance et que c’est leur héritier qui a été remplacé par am. Il
serait même étrange que seul le latin vulgaire dont est issu le roumain n’ait pas
connu une pareille forme ! Nous pensons aussi que l’existence de multiples issues
dialectales italiennes de *ajo étayent notre hypothèse. Il nous semble pouvoir pro-
poser pour aş cet étymon *ajo, dont l’évolution phonétique régulière aboutirait à
až 3. Il y aurait donc pour aş le problème d’une étape supplémentaire, irrégulière,
propre seulement à l’auxiliaire, l’évolution ž > š, également doublée d’un décala-
ge d’époque, car au XVIème siècle, on trouve déjà le mot noté comme [a_]. On
pourrait aussi penser à une perte de sonorité en position finale, l’auxiliaire étant
fréquemment postposé dans la langue ancienne.
En ce qui concerne ar, il est à relier à are, dont il provient. Nous pensons
avoir trouvé des raisons fonctionnelles pour étayer l’origine habuerit ou habue-
rint. Cela présente les avantages suivants. Nous savons avec certitude que l’héri-
tier du subjonctif parfait latin a vécu dans la langue et ce jusqu’au XVIIe siècle.
Cette forme, que la linguistique roumaine appelle “conditionnel synthétique”
(forme en -re), a fonctionné comme conditionnel (potentiel) et comme futur. Elle
est donc en affinité avec l’époque future. Le lien entre subjonctif et futur, propre
déjà à la langue latine, se manifeste en roumain moderne par la situation du sub-
jonctif dans le plan du futur. Le subjonctif parfait habueri(n)t nous paraît donc
convenir, du point de vue fonctionnel, en tant que forme virtuelle liée au futur. Cet
étymon a déjà été proposé, notamment par A. Rosetti, mais sans que ce linguiste
ait motivé son choix ou ait proposé une évolution phonétique.
Dans notre hypothèse, are se serait introduit dans le paradigme du présent,
par le biais de l’auxiliaire du futur, par le présent-futur lors de la réfection du pré-
sent de habere, sans doute à l’époque romane, où commençait la grammaticalisa-
tion des périphrases à l’origine du passé composé et du futur. Selon toute appa-
rence, dans cette fonction, la présence de are était appelée par la nécessité de don-
ner un signe spécial à la partie purement virtuelle du présent, qui allait participer
à l’expression du futur, ne contenant aucune part d’accomplissement ni d’accom-
pli. Or habuerit > are était justement un perfectum d’inaccompli, dont le caractè-
3 Par les étapes *ajo> adžu> až(u) >až. L’issue dž du yod initial de syllabe est régulière en
roumain.
106 ROMANA TIMOC-BARDY
re de virtualité était d’autant plus appuyé qu’il s’agissait d’un subjonctif 4. Dans
sa fonction d’auxiliaire, are s’est progressivement réduit à ar (à travers le stade
ară, attesté au XVIe siècle).
Nous deions, dans le cadre de ce travail, nous restreindre à ces quelques
remarques.
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“Acesta să nevoia să – şi lăţească împărăţia neodihnindu-se ziua şi noap-
tea, gîndind în ce chip ar supune ţările.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Celui-ci s’efforçait d’agrandir son royaume, sans repos, jour et nuit,
pensant à la manière dont il soumettrait les pays.
“Socotind boierii pe cine ar pune domnu să fie de sămînţă domnească,
după obiceiul cel vechi al acestor ţări.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Les boyards considérant que celui qu’ils mettraient sur le trône devrait
être de souche princière, suivant la vieille coutume de ces pays.
4 Pour l’évolution formelle que nous supposons pour relier habuerit à are nous renvoyons,
comme ci-dessus, à Timoc-Bardy (1999: 361-367). Cette évolution est liée à la réfection des par-
faits et ferait que habuerit serait représenté en ancien roumain par deux formes: are étymolo-
gique, pénétré dans le paradigme du présent, et avure, analogique, continuant à fonctionner
comme subjonctif (“conditionnel synthétique” en linguistique roumaine) dans le système de
l’hypothèse.
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 107
“Striga cu toţii să fie Lupu vornicul, însă îi da şi legături, ce va lua den ţară,
ce s-ari lega pentru dări, atuncea, la acel ales”. (Călăraşu cit.: 224).
3.3.
Si aş cânta était initialement un futur, par quelle évolution est-il devenu condi-
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tionnel? Qu’est-ce qui le prédisposait à plus de virtualité que le futur voi cânta?
Dans la mesure où le paradigme voleo cantare remonte également au latin, on
peut se demander d’où vient alors le décalage chronologique que l’on observe
entre la constitution des paradigmes auxiliaires spécifiques des deux futurs, aş
cânta et voi cânta? Pourquoi le paradigme du premier est, déjà au XVIe siècle,
complètement constitué, alors que les formes du second ne sont pas encore bien
séparées de celles du verbe plein?
Pour répondre à cette question, on peut faire remarquer que la situation de ces
deux auxiliaires n’est pas la même. Pour a avea, il y avait un triple problème: la créa-
tion des deux paradigmes auxiliaires pour séparer la partie passée du présent de la
partie future et en même temps la réfection du présent du verbe plein. Il y a tout lieu
de penser que ce problème a dû être réglé très tôt pendant la phase romane, lorsque
s’est institué le nouveau système verbal et qu’ont été créées les positions clés de ce
système: la structure du présent et le nouvel axe passé-présent-futur reposant sur l’u-
tilisation de l’auxiliaire habere, lequel assure la subséquence du verbe aussi bien en
direction du passé qu’en direction du futur. Pour a vrea, le problème était plus sim-
ple. Il s’agissait seulement de redonner un paradigme au verbe plein, puisque le pré-
sent de voleo se spécialisait pour ne dire que la partie future du présent en tant
qu’auxiliaire du futur. L’on peut présumer que le glissement du futur aş cânta à la
valeur de conditionnel (futur modal) a pu se produire à peu près dans les conditions
suivantes: le futur voi cânta, plus récemment grammaticalisé, s’imposait comme futur
qui pose. À mesure que son degré de grammaticalisation avançait, il “poussait” aş
cânta vers un supplément de virtualité. Ce processus a dû être favorisé pour le fait que
le paradigme aş s’était – par la plupart de ses formes – détaché du paradigme pro-
prement dit du présent, ce qui le prédisposait à l’expression du virtuel. La flexion de
a vrea auxiliaire était encore identique à celle du verbe plein, donc repérable en tant
que présent. Le futur voi cânta pouvait donc rester plus facilement ancré dans le réel.
Parallèlement, ce glissement est à mettre en rapport avec un autre fait: la déli-
quescence du subjonctif en -re, anciennement utilisé dans l’expression de l’hypo-
thèse. Faut-il voir entre ces deux réalités une relation de cause à effet? Est-ce la
faiblesse du conditionnel en -re appelant une forme de remplacement qui a déter-
miné le glissement du futur aş cânta, ou est-ce le glissement de ce futur vers la
virtualité – amorcé, de toute manière, bien avant le XVIe siècle – qui a éliminé
l’ancien conditionnel en -re? Ce qui paraît évident, c’est que les deux phénomè-
nes sont complémentaires l’un de l’autre et que, par la disparition de la forme en
-re, un nouvel équilibre s’est installé.
108 ROMANA TIMOC-BARDY
3.4.
BIBLIOGRAPHIE SÉLECTIVE
Avram Mioara, 1986, Gramatica pentru toţi, Bucureşti, Editura Academiei R.S.R.
Bourciez Edouard, 1967, Eléments de linguistique romane, Paris, Klincksieck.
Bugeanu Dan, 1970, Formarea condiţionalului în limba română. “Studii şi cercetări ling-
vistice” 21. 5.: 543-563.
Călăraşu Cristina, 1987, Timp, mod, aspect în limba română în secolele al XVI-lea – al
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PARTE SECONDA
«STUDI SINCRONICI»
Conferenza Introduttiva
1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI1
1 Nel preparare questo lavoro mi sono avvalso dei suggerimenti di Mario Squartini e di
Valentina Bianchi, cui va la mia gratitudine.
Per comodità del lettore, fornisco qui l’elenco delle abbreviazioni usate nel testo: IFC =
Infinito Composto; IFS = Infinito Semplice; ME = momento dell’enunciazione; MR = momen-
to di riferimento. Inoltre, per le valenze azionali: [a] = ‘attività’, [a/c] = ‘attività/conseguimen-
to’ (tipo azionale misto), [c] = ‘conseguimento’, [i] = incrementativo, [r] = ‘realizzazione’, [s]
= stativo, [s’] = ‘stativo [+controllo]’ (del tipo stare/restare/rimanere seduto, che ammette
l’Imperativo pur rifiutando la perifrasi progressiva, con ciò mostrando il mantenimento di un
certo margine di agentività; cf. Bertinetto 1986, § 4.1.2)).
2 Non vanno dimenticati comunque gli studi dedicati alla Concatenazione dei Tempi (in
particolare, Vanelli 1991), che toccano anche questioni attinenti l’uso dell’Infinito. E si veda
anche Berretta (1990), relativamente all’acquisizione dell’Infinito italiano in L2.
114 PIER MARCO BERTINETTO
razioni tra valenze aspettuali ed azionali3. Semmai, si potrà osservare – quale sot-
toprodotto dell’analisi – come le classificazioni su base sintattico-semantica risul-
tino non di rado sfuocate rispetto al comportamento tempo-aspettuale: ad un iden-
tico assetto sintattico possono corrispondere proprietà tempo-aspettuali fortemen-
te diversificate, e viceversa. Tuttavia, data la complessità della materia e la natu-
ra puramente esplorativa di questo saggio, non mi azzarderò a mettere in mutua
relazione i due ambiti. Un siffatto lavoro, e non è certo impresa da poco, resta
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noma capacità di designazione a tale livello (ma questa, come vedremo, è una
caratteristica di tutte le forme non finite del verbo). L’informazione temporale tra-
smessa dall’IFC si riflette nel valore retrospettivo – ossia di anteriorità non deit-
tica – associabile all’aspetto compiuto; quanto all’effettiva collocazione dell’e-
vento sull’asse temporale, in rapporto al ‘momento dell’enunciazione’ (ME), essa
dipenderà da fattori strettamente contestuali, ossia dalla collocazione del MR. Si
veda infatti come, nell’esempio seguente, l’IFC esprima compiutezza – e dunque
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almeno in senso statistico – piuttosto marginale. Tuttavia, con certi verbi reggen-
ti (si veda, in proposito, 3a) si può erroneamente credere che l’IFS possieda un
orientamento retrospettivo, laddove un esame più accurato rivela una situazione
ben diversa. Si tratta di una sorta di ‘illusione ottica’: l’orientamento è in realtà
prospettivo, come si può evincere da (3b), dove il semplice uso del Futuro nella
principale – in accezione, si badi, perfettiva – annulla l’apparente retrospettività
di (3a):
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viduato dal Tempo che regge l’IFS5. Di tutto ciò occorrerà tener conto nell’inter-
pretazione degli esempi che seguiranno, per non cadere nella trappola di scam-
biare per retrospettività tutti i casi di anteriorità rispetto al ME. Ciò che conta, per
definire l’orientamento temporale dell’IFS, non è la collocazione deittica dell’e-
vento espresso da tale forma, bensì la sua collocazione rispetto all’ancoraggio
temporale (che, negli esempi qui considerati, è fornito dal Tempo Verbale della
prima clausola dipendente).
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5 Si badi bene, però: il fatto che il giudizio di sconvenienza si applichi al momento in cui
l’evento si è verificato, non significa che il protagonista dovesse esserne consapevole in quel
medesimo momento. Piero potrebbe infatti essersi accorto solo in seguito che l’atto di uscire alle
5 era sconveniente; e tuttavia, ciò non toglie che tale atto fosse sconveniente già al momento in
cui si è verificato. Qui non conta la prospettiva soggettiva del protagonista, interna all’evento nel
suo compiersi, ma il carattere obiettivo dell’evento stesso.
118 PIER MARCO BERTINETTO
questo punto (ma si veda di nuovo Bertinetto 1986), mi limiterò a fornire una suc-
cinta esemplificazione, attingendo da fatti inerenti all’uso del Gerundio, in cui si
osserva un analogo contrasto tra forma Semplice e forma Composta. Come nota
Solarino (1996) – sull’impianto della cui analisi concordo, al di là di dissensi rela-
tivamente marginali (ma su ciò mi riprometto di tornare in altra sede) – il
Gerundio Semplice dell’italiano può esprimere, a seconda del contesto ed al pari
dell’IFS, retrospettività (cf. 5a), simultaneità (cf. 5b-c) e prospettività (cf. 5d)
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(occorre appena ribadire che le interpretazioni qui suggerite non sono necessaria-
mente le uniche, ma soltanto le più salienti):
cidere con: (i) il ME; (ii) un non meglio precisato momento futuro, ovviamente situa-
to prima di E2. La facoltà di agganciarsi al ME, preclusa al Gerundio Semplice, dipen-
de crucialmente dalla già notata proprietà del Gerundio Composto di proiettare auto-
nomamente un MR, rispetto a cui si instaura uno stato risultante (o di compiutezza).
Quando il contesto non fornisce altre indicazioni, il MR tende ad ancorarsi al ME.
Da quanto sono venuto esponendo fin qui, si possono trarre alcune conclu-
sioni, alla conferma delle quali – limitatamente al comportamento dell’Infinito –
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posizioni infinitivali: finali (cf. 9), relative (cf. 10), interrogative indirette (cf.
11)7, temporali introdotte da prima di (cf. 12).
Prima di esaminare gli esempi, sarà utile fornire qualche indicazione circa la strut-
tura degli enunciati, che verrà prevalentemente mantenuta anche nel seguito. Gli
esempi contrassegnati dalla sigla ‘S’ contengono degli IFS, mentre quelli contrasse-
gnati da ‘C’ contengono degli IFC. Inoltre, ovunque possibile, il verbo reggente è pre-
sentato sia all’Imperfetto (per lo più in accezione continua8), sia al Passato Semplice
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vazione potrebbe forse essere estesa ai verbi atelici in generale, dato che la
sovrapposizione temporale potrebbe verificarsi, nel medesimo enunciato, anche
con il predicato di ‘attività’ disegnare; ma in tal caso si rende probabilmente
necessaria la focalizzazione del verbo reggente, il che fa una differenza. Sul piano
aspettuale, è poi da notare la scarsissima accettabilità dell’aspetto perfettivo nella
principale di (11/S). Per il resto, si può osservare una generalizzata agrammatica-
lità dell’IFC (ma cf. la nota 14)11.
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11 Qui, come in seguito, gli esempi sono introdotti dall’avverbiale quel giorno, allo scopo
di escludere la possibile intrepretazione abituale dell’Imperfetto nella reggente. La ragione di
questa mossa diverrà chiara tra breve, quando discuterò il problema dell’abitualità.
Si tenga presente che la comparsa di un diacritico all’inizio dell’enunciato indica diffusi
problemi di agrammaticalità, mentre i problemi di accettabilità riferibili a singole valenze azio-
nali od aspettuali sono segnalati subito prima della forma incriminata.
12 L’accettabilità degli stativi diventa piena nel caso degli ’stativi [+controllo]’; cf. ad es.
(10/S). Va tuttavia notato – e sia detto qui una volta per tutte – che questi ultimi sono stativi
impropri, come osservato nella nota 1).
122 PIER MARCO BERTINETTO
13 In questo caso non ho usato l’Imperfetto nella principale, perché l’aspetto imperfettivo
presuppone un intervallo aperto, mentre qui l’evento della principale deve necessariamente chiu-
dersi prima dell’inizio della subordinata temporale. Per ragioni tutto sommato analoghe si
incontrano qui forti restrizioni con gli stativi, e con certi verbi di attività, in quanto l’evento della
subordinata deve avere un inizio nettamente individuabile, onde fornire un inequivocabile ter-
mine ante quem, che eviti la sovrapposizione temporale con l’evento della principale; ma que-
sto non è sempre compatibile con gli stativi, che tendono ad avere contorni temporali sfumati.
14 Si noti, del resto, che l’IFC diventa pienamente accettabile coi volitivi retti da un
Condizionale controfattuale:
(i) Quel giorno, Elio avrebbe voluto essere stato scostante / aver dormito a lungo /
aver incontrato Anna / aver mangiato una mela, ma si rendeva conto che le cose
erano andate diversamente da come aveva ipotizzato.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 123
Non c’è dubbio, tuttavia, che la tendenza generale vada verso il rifiuto
dell’IFC; il che non desta sorpresa, considerata la spiccata ipoteca retrospettiva di
tale forma. Da ciò non si può peraltro concludere che all’orientamento prospetti-
vo dell’IFS si accompagni obbligatoriamente l’ostracismo verso l’IFC. Ciò è
dimostrato per es. dai casi di Infinito retto da verbi dichiarativi (dire, affermare,
dichiarare, certificare, giurare, narrare, rimproverare etc.; cf. 15), in cui l’orien-
tamento prospettivo dell’IFS può convivere con quello retrospettivo dell’IFC; si
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Si noti comunque che l’IFS stativo di (15/S) riceve una netta interpretazione
di simultaneità, che può emergere anche con certi verbi di ‘attività’ (cf. disegnare
con gusto). Per contro, gli IFS dei verbi eventivi di (15/S) mantengono un orien-
tamento generalmente prospettivo, benché l’uso di questi predicati subisca restri-
zioni di ordine pragmatico. In effetti, (15/S) migliora qualora si introduca il verbo
volere (cf. dichiarò di voler dormire da sua zia)15.
Occorre a questo punto interrogarsi sul valore aspettuale degli IFS contenu-
ti negli enunciati esaminati in questo paragrafo, ferma restando invece la sconta-
ta interpretazione degli IFC (ove essi siano ammessi). Ovunque emerga una let-
tura chiaramente prospettiva, e dunque con l’esclusione dei pochi casi accessibi-
li alla lettura simultanea (prevalentemente ascrivibili agli stativi), l’IFS assume
valore perfettivo, che costituisce il tratto non marcato per le accezioni prospetti-
ve e futurali. È infatti evidente che nel concepire prospettivamente, a partire da
un momento dato, lo svolgimento di un evento, se ne ‘intravede’ globalmente il
compiersi.
15 Tra i verbi dichiarativi che reggono l’Infinito, merita segnalare il caso di dire, che mani-
festa un comportamento ambivalente (Skytte et al. 1991: 489):
(i) Gianni disse a Giorgioi di PROi uscire
(ii) Giannii dice di partire PROi domani.
Benché l’orientamento sia prospettivo in entrambi i casi, (i) esprime senso iussivo, (ii)
senso intenzionale.
124 PIER MARCO BERTINETTO
(16) Ogni giorno, Marta gli chiedeva l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
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più in fretta.
(17) Ogni giorno, Marta gli chiese l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
più in fretta.
Il Tempo della reggente in (17) non possiede autentico valore abituale, dal
momento che l’interpretazione iterativa è un mero effetto contestuale indotto dal-
l’avverbiale (mentre, per converso, la lettura abituale potrebbe mantenersi in (16)
anche senza il sussidio dell’avverbiale iterativo). Il Passato Semplice di (17) con-
serva insomma il proprio consueto valore aoristico, com’è dimostrato dalle anali-
si di Bertinetto (1986: §§ 3.1.4-5; 1997, cap. 9 e Lenci / Bertinetto (2000). Di
conseguenza, allo stesso modo in cui gli IFS di (17) possono soltanto avere valo-
re iterativo anziché abituale – non esistendo alcuna forma verbale in grado di tra-
smettere una siffatta interpretazione – si può ritenere che anche gli IFS di (16) si
limitino ad ereditare il valore puramente iterativo – anziché abituale in senso pro-
prio – indotto dal contesto di abitualità. Si noti infatti che, mentre l’abitualità
implica iteratività, l’inverso non è vero. Mi pare quindi più parsimonioso asserire
che gli IFS di (16), pur inseriti in contesto abituale, abbiano valore aoristico.
Questa conclusione è del resto confortata, a fortiori – dalla ben nota osservazio-
ne, secondo cui i microeventi iterati, compresi entro un macroevento abituale,
sono di per sé perfettivi, a dispetto del valore spiccatamente imperfettivo dell’a-
spetto abituale (per la dimostrazione di questo fatto, cf. Bertinetto 1997, cap. 9;
Lenci / Bertinetto 2000). A riprova, si osservi che in (18) la supposta interpreta-
zione abituale è unicamente dovuta alla presenza dell’avverbio abitualmente,
mentre non sembra facilmente accessibile in sua assenza (a meno di presupposi-
zioni contestuali):
È ben noto, invece, che simili avverbi non sono affatto indispensabili per otte-
nere la lettura abituale con i Tempi imperfettivi.
Un’ipotesi alternativa che si potrebbe avanzare a questo riguardo consiste nel-
l’assumere che, nei contesti di abitualità, l’IFS esprima nonostante tutto valore abi-
tuale, con l’unica differenza – rispetto ai Tempi Semplici dell’Indicativo – che le
diverse valenze aspettuali dell’IFS appaiono soggette ad un forte effetto di neutra-
lizzazione, avendo sempre bisogno di un contesto disambiguante. Questa considera-
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zione poggia sul fatto che persino le accezioni progressiva ed aoristica dell’IFS di
(19a), allo stesso modo della presunta lettura ‘abituale’ di (16-18), sembrano richie-
dere una disambiguazione contestuale per poter emergere con chiarezza (cf. 19b-c):
16 Benché quella qui proposta mi paia l’interpretazione più plausibile, devo ammettere che
questo problema conserva margini di incertezza. Siamo chiaramente in presenza di un effetto di
neutralizzazione, la cui portata è difficilmente valutabile. Comunque sia, nulla di sostanziale
muterebbe nell’impostazione di questo lavoro, qualora si dovesse riconoscere pieno statuto all’a-
spetto abituale anche nel caso dell’IFS.
Un ulteriore invito alla cautela mi viene dall’es. (18), in cui la presenza dell’avverbio abi-
tualmente coll’IFS non stride minimamente, in analogia con quanto accade coll’Imperfetto in (i)
e a differenza di quanto si osserva col Passato Semplice in (ii):
(i) Gigi dormiva abitualmente da sua zia
(ii) ?? Gigi dormì abitualmente da sua zia
126 PIER MARCO BERTINETTO
La stretta simultaneità è osservabile nel caso degli IFS retti da verbi di per-
cezione fisica (vedere, osservare, sentire, ascoltare, udire etc.; cf. 21), nonché in
certi costrutti pseudorelativi con IFS introdotto dalla preposizione a (cf. 22):
(21) S Quel giorno, Ettore #*vedeva / vide Lucio *restare a casa / dor-
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Dunque, benché non vi siano indizi certi per asserire che l’aspetto abituale rientra tra le
possibilità semantiche dell’IFS, è doveroso precisare che questa forma manifesta una flessibilità
assai maggiore rispetto ai Tempi inerentemente perfettivi.
17 Si noti che l’esclusione dell’IFC nei costrutti introdotti da a sembra essere assoluta,
anche indipendentemente dall’interpretazione simultanea. Nell’esempio seguente, infatti, è pos-
sibile avere un’interpretazione potenziale – ossia tendenzialmente prospettiva, e dunque non
strettamente attuale e simultanea – dell’IFS, eppure l’uso dell’IFC resta escluso:
(i) Non c’era nessuno ad avvertirlo (*averlo avvertito).
Secondo Skytte et al. (1991: 530), i costrutti di questo tipo sarebbero caratterizzati dal fatto
di non esprimere “mai un tempo indipendente da quello del verbo reggente”; ciò sarebbe in par-
ticolare dimostrato dal fatto che “l’infinitiva non può contenere un elemento circostanziale con
valore temporale”. Tuttavia, benché questo sia vero in molti casi, mi sembra che vi siano delle
eccezioni:
(ii) * È venuto ieri a vederla oggi
(iii) Ieri era intenzionato a farlo oggi, ma poi ha cambiato idea.
In quest’ultimo esempio, l’interpretazione è chiaramente prospettiva. Non sembra dunque
possibile attribuire un’interpretazione temporale unitaria ai costrutti infinitivali introdotti da a.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 127
18 Si badi, dunque, che ciò non dipende dal fatto che i ‘conseguimenti’ siano di per sé restii
ad esprimere valore progressivo. Il problema è abbastanza delicato, e merita un attimo di rifles-
sione. A giudizio di alcuni (per es., Giorgi / Pianesi (1997)), i ‘conseguimenti’ usati all’Imperfet-
to non avrebbero valore progressivo, in quanto designano eventi completi (in altre parole, impli-
cano chiusura telica), ed anzi il loro uso appare spesso poco felice (cf. (i)). A riprova di ciò, si
cita il fatto che in tali casi si ricorre spesso alla perifrasi progressiva proprio per forzare la let-
tura imperfettiva (annullando la chiusura telica; cf. ii).
(i) ? Quando arrivai, Lapo moriva.
(ii) Quando arrivai, Lapo stava morendo.
Tuttavia, a me pare che le cose non stiano in questi termini. Innanzi tutto, non è sempre
necessariamente vero che l’Imperfetto dei ‘conseguimenti’ comporti una chiusura telica (cf.
(iii)); inoltre, può anche succedere che la chiusura telica permanga pur in presenza della peri-
frasi progressiva (cf. (iv), almeno secondo la lettura più ovvia).
(iii) Quando entrai, Luca usciva; feci appena in tempo a trattenerlo
(iv) Quando puntai il binocolo, vidi che Teo stava proprio in quel momento rag-
giungendo la vetta.
Mi pare dunque che la questione vada impostata altrimenti. L’Imperfetto dei ‘conseguimen-
ti’ – anche senza perifrasi – può esprimere nei contesti appropriati la lettura imperfettiva, indipen-
dentemente dal fatto che vi sia o no chiusura telica dell’evento. Trattandosi di verbi composti di
una fase preparatoria (di durata imprecisabile) e di una brevissima fase culminante (cui è in ultima
analisi imputabile il loro carattere convenzionalmente non durativo), la visione progressiva può
alternativamente, e con pari legittimità (pur con ostacoli pragmatici difficilmente preventivabili; cf.
i), fissarsi sulla fase preparatoria dell’evento (cf. ii-iii) – producendo la tipica lettura imminenzia-
le associabile ai ‘conseguimenti’ in accezione progressiva – ovvero sulla fase culminante (cf.iv).
Da cosa nasce dunque la difficoltà riscontrata coi ‘conseguimenti’ nell’es. (21/S)? Essa è
dovuta al fatto che un verbo durativo all’Imperfetto nella reggente impone severi ostacoli all’in-
staurarsi della visione progressiva, in quanto (a meno che non vi siano avverbi puntuali, come
in (21/S’), non consente di individuare un singolo istante di focalizzazione (cf. v; che potrà sem-
mai essere interpretato in accezione abituale, come una serie di azioni ripetute). Si noti che un’a-
naloga restrizione non grava sui verbi di realizzazione (cf. vi), perché in tali casi è possibile asso-
ciare la lettura continua ad entrambi gli eventi, cosa ovviamente esclusa per i ‘conseguimenti’ a
causa della loro natura non durativa:
(v) ?? Livia vedeva che Teo usciva
(vi) Livia vedeva che Teo mangiava una mela.
A questo si aggiunga che la perifrasi progressiva non può comparire in dipendenza di verbi
di percezione diretta, neppure quando il verbo reggente è al Passato Semplice (cf. vii). Ma ciò è
probabilmente dovuto ad idiosincratiche restrizioni a carico dell’Infinito italiano, piuttosto che
a restrizioni aspettuali, dato che è qui perfettamente possibile dare un’interpretazione progressi-
va dell’lFS:
(vii) Quel giorno, Ettore vide Lucio mangiare / *stare mangiando / che stava man-
giando una mela.
128 PIER MARCO BERTINETTO
le durativo quel giorno viene sostituito dal puntuale in quel momento (perfetta-
mente compatibile con l’interpretazione progressiva), l’attrito si attenua sensibil-
mente. Quando invece il Tempo reggente è di natura perfettiva – e più specifica-
mente aoristica – allora le possibili interpretazioni aspettuali dell’IFS emergono
con chiarezza, con la seguente distribuzione: (i) lettura progressiva, accessibile
agli eventivi durativi (‘attività’ e ‘realizzazioni’); (ii) lettura aoristica, accessibile
nuovamente ai medesimi verbi ed obbligatoria coi ‘conseguimenti’, dato il loro
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Per la definizione degli aspetti progressivo e continuo, cf. Bertinetto ( 1986: §§ 3.1.1-3,
3.1.6-7). Circa invece il problema posto dall’interpretazione dell’Imperfetto coi ‘conseguimen-
ti’, cf. Bertinetto (2001).
19 Le due interpretazioni aspettuali dell’IFS italiano sono esplicitamente disambiguate in
inglese dall’alternanza tra Infinito e Gerundio:
(i) John saw Mary eat the apple /aoristico/.
(ii) John saw Mary eating the apple /progressivo/.
Siller-Runggaldier (1997) discute di analoghe costruzioni gerundivali in rumeno e in talu-
ni dialetti ladini dolomitici.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 129
negligente.
(25) S * Quel giorno, dopo stare assente / dormire nel proprio letto /
incontrare Edo / pulire la cucina, Lucia recuperò il tempo per-
duto.
C Quel giorno, dopo *essere stata assente / aver dormito nel pro-
prio letto / aver incontrato Edo / aver pulito la cucina, Lucia
recuperò il tempo perduto.
(27) Dopo aver avuto mal di denti tutto il santo giorno, mi sono alla
buon’ora deciso a chiamare la guardia medica.
Qui abbiamo infatti a che fare, verosimilmente, con un primo evento com-
piuto, cui ne segue un secondo, della stessa natura ma pur sempre distinto. Si può
dunque concludere che l’apparente comparsa della lettura inclusiva in (27) è un
mero effetto pragmatico, legato alla frequente assenza di netti contorni temporali
negli stativi; i quali, per giunta, si sottraggono al controllo agentivo del soggetto,
e non ammettono quindi la possibilità di un intervento consapevole mirante a por
fine alla situazione. Ma nonappena l’evento stativo viene esattamente delimitato
sul piano temporale, come in (26), l’impressione di inclusività si dissolve.
viene infatti a creare una struttura avversativa (del tipo: ‘invece di A, B’), che favo-
risce una lettura aspettualmente imperfettiva e temporalmente simultanea. Vale anche
la pena di ricordare che i giudizi di grammaticalità possono drasticamente mutare a
seconda dei predicati infinitivali prescelti; si riconsideri, a tal riguardo, la nota 10. In
tutti questi casi, comunque, l’orientamento temporale punta decisamente verso la let-
tura simultanea, sempre nei limiti in cui si crei una situazione di tendenziale accetta-
bilità. In (30), la situazione si presenta in modo simile, anche per quanto riguarda l’o-
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rientamento temporale. Bisogna tuttavia tener conto del fatto che, in questo caso, l’o-
rientamento può essere modificato in senso prospettivo attraverso l’inserimento di un
opportuno avverbio temporale (cf. 30/S’). Nettamente diversa è invece la situazione di
(31); in questo caso, l’IFS dei verbi eventivi acquista un netto valore prospettivo:
sere uscito troppo presto’), oltreché di simultaneità. Ma ritengo che si tratti di una
falsa impressione: in realtà, l’apparente retrospettività è unicamente dovuta al
fatto che il contesto abituale presuppone un precedente accumulo di esperienze
del tipo pertinente. Ossia: ogni giorno, Ezio pensava erroneamente che l’ora del-
l’uscita fosse anticipata rispetto all’orario canonico. Se davvero si trattasse di
orientamento retrospettivo del singolo microevento iterato, avremmo in questi
casi l’IFC (pensava di essere uscito troppo presto). Si noti comunque che, anche
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essere fatto), mentre coi verbi del gruppo [ii] permane la lettura di simultaneità:
20 L’uso di siffatti sintagmi sembra obbligatorio qualora, invece che in forma riflessiva, il
verbo reggente compaia in forma passiva:
(i) Dora era allettata *(dall’idea) di dormire in tenda.
134 PIER MARCO BERTINETTO
vi, e la lettura prospettiva con i verbi telici, mentre le ‘attività’ ammettono entram-
be le letture. Con i verbi del gruppo [iii], infine, l’IFC risulta pienamente accetta-
bile solo se preceduto da il fatto di (cf. 37/C). Dunque, l’orientamento è solo
apparentemente retrospettivo; in realtà, tali costrutti sono molto più probabilmen-
te orientati verso l’onnitemporalità indotta dalla nominalizzazione. Quanto
all’IFS, valgono a grandi linee le osservazioni avanzate per il gruppo [ii], salvo
forse che in certi casi l’accettabilità aumenta sensibilmente inserendo il sintagma
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calità. Data la pervasività del fenomeno, negli esempi che seguono mi limiterò a
sottolinearlo soltanto nelle circostanze in cui mi parrà che la presenza di tali ingre-
dienti sia imposta dall’esigenza di migliorare l’accettabilità dell’enunciato21.
I verbi che introducono queste strutture sembrano appartenere a due tipi azio-
nali (gli indici numerici rinviano all’elenco del precedente capoverso): [i] stativi;
[ii-iii] predicati ibridi, oscillanti tra una lettura di ‘attività’ (durativo-atelica) negli
impieghi imperfettivi, ed una lettura di ‘conseguimento’ negli impieghi perfetti-
vi22. È indispensabile, nella circostanza, considerare l’interazione delle variabili
azionali in entrambi i predicati coinvolti: quello introduttore e quello all’Infinito.
Per facilitare la lettura degli esempi, indicherò le diverse valenze azionali con le
seguenti sigle: [s] per stativo, [a] per ‘attività’, [c] per ‘conseguimento’, [r] per
‘realizzazione’, [i] per incrementativo23, [a/c] per il tipo misto ‘attività/consegui-
mento’.
Il comportamento tipico dell’IFC è mostrato in (40/C, 41/C), in cui viene
segnalata la quasi obbligatorietà dell’inserzione di il fatto di o dell’articolo deter-
minativo. Trattandosi tuttavia (come già segnalato) di un dato praticamente
costante, mi asterrò nei successivi esempi di questa batteria dal produrre ulteriori
enunciati coll’IFC, a meno che non occorra segnalare qualche variazione rispetto
alla tendenza generale (cf. 52/C). Valgono, ovviamente, le considerazioni già fatte
circa l’effettiva interpretazione temporale delle clausole introdotte da siffatti stru-
menti di nominalizzazione, che indirizzano piuttosto verso l’onnitemporalità che
non verso l’autentica retrospettività. Circa invece l’orientamento dell’IFS, la
situazione appare piuttosto articolata, fatta salva l’osservazione che i predicati del
24 Molto simili alle strutture appena discusse sono quelle di carattere equativo, che specifi-
cano il valore o il significato dell’evento infinitivale, anziché indicarne le conseguenze:
(i) Finire il lavoro in tempo equivaleva a / significava potersela spassare.
(ii) Finire il lavoro in tempo appariva estremamente allettante.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 137
(40) S Quel giorno, aver mal di denti [s] implicava / implicò la rinun-
cia ai suoiprogrammi [s].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) aver avuto mal di denti [s] impli-
cava / implicò la rinuncia ai suoi programmi [s].
(41) S Quel giorno, essere di cattivo umore [s] gli alienava / alienò le
simpatie di tutti [a/c].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) essere stato di cattivo umore [s]
gli alienava / alienò le simpatie di tutti [a/c].
(42) S Quel giorno, essere alto [s] gli dava / diede degli indubbi van-
taggi [a/c].
(43) S Quel giorno, dipingere dal vero [a] comportava / comportò un
forte impegno [s].
(44) S Quel giorno, osservare i dintorni [a] lo riempiva / riempì di
ricordi [a/c].
(45) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] implicava / implicò gros-
se conseguenze [s].
(46) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] tanto precocemente lo
? riempiva / riempì d’eccitazione [a/c].
(47) S Quel giorno, tagliare le pensioni [c] così inaspettatamente pro-
25 Un altro caso lo abbiamo in verità già trovato nella nota 7, a proposito delle proposizio-
ni interrogative indirette introdotte da perché.
26 Ma non, si badi, in spagnolo. Su ciò ritornerò in § 4.
138 PIER MARCO BERTINETTO
27 Autunno 2001.
140 PIER MARCO BERTINETTO
(58) S Quel giorno, Edo appariva / apparve stanco di essere poco con-
siderato / giocare a pallone / %uscire di casa / scrivere la sua
relazione.
C * Quel giorno, Edo era / fu stanco di essere stato poco consi-
derato / aver giocato a pallone / essere uscito di casa / aver
scritto la sua relazione.
In questi casi, può talvolta sorgere il sospetto che l’orientamento sia retro-
spettivo (cf. Edo era stanco di giocare a pallone). Ritengo tuttavia che questa sia
una conseguenza illusoriamente indotta dal contesto. Benché, nell’esempio dato,
l’insofferenza sia fondata su un certo accumulo di esperienze passate, tale sensa-
zione vale al momento designato dal Tempo della copula, indipendentemente dal
fatto che vi siano stati episodi precedenti. Le considerazioni appena svolte si
applicano, con identica plausibilità, agli IFS retti da abituato a, avvezzo a, solito,
che ovviamente possono solo creare contesti di iteratività28:
tanto prospettivo quanto simultaneo. È il caso, per esempio, di: facile, difficile,
bello, brutto, impensabile, necessario, sufficiente, indispensabile, costretto a,
degno di. Anche in questo caso l’IFC risulta agrammaticale. Per quanto riguar-
da l’IFS, valgono invece le osservazioni seguenti. Se si ha l’Imperfetto nella
proposizione principale, l’orientamento può essere prospettivo ovvero simulta-
neo (benché, in quest’ultimo caso, possano esserci forti vincoli pragmatici coi
‘conseguimenti’). Se invece si ha un Tempo perfettivo nella principale, l’orien-
tamento tende alla simultaneità, almeno in contesto passato, anche se con il
Futuro riemerge – come una delle possibili interpretazioni – la lettura prospet-
tiva (es.: sarà difficile uscire alle 5). Si noti infatti che neppure la presenza di
un opportuno avverbiale temporale consente la lettura prospettiva con un passa-
to perfettivo nella principale (cf. 60/S’). Una siffatta divergenza tra passato e
futuro va debitamente sottolineata, visto che, di solito, il diverso valore tempo-
rale non comporta conseguenze, a parità di valore aspettuale. Quanto a que-
st’ultimo, esso sarà, del tutto prevedibilmente, continuo nella lettura simultanea,
aoristico nella lettura prospettiva:
Da questi usi vanno peraltro tenuti distinti casi come i seguenti, apparente-
mente simili, in cui tuttavia alcuni degli aggettivi sopra elencati compaiono
accompagnati da una preposizione (cf. facile a, brutto a, necessario per, suffi-
ciente per). Ciò altera significativamente la prospettiva temporale, imponendo
anche forti restrizioni lessicali. In (62-3), per esempio, l’IFS deve preferibilmen-
142 PIER MARCO BERTINETTO
Un secondo tipo è invece costituito dagli aggettivi che accolgono senza pro-
blemi l’IFC, e che mantengono coll’IFS una duplice possibilità di orientamento,
prospettivo o simultaneo, sia pure con le eventuali difficoltà pragmatiche ingene-
rate – nel secondo caso – dai ‘conseguimenti’, e con la netta propensione degli
stativi per la lettura simultanea. Si pensi a: felice di, contento di, lieto di, soddi-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 143
sfatto di, compiaciuto di, certo di, sicuro di, convinto di etc.:
(66) S Quel giorno, Isa era / fu lieta di possedere una bici nuova / gio-
care a carte con Tino / uscire di casa / scrivere la sua relazione.
C Quel giorno, Isa era / fu lieta di aver posseduto una bici nuova
/ aver giocato a carte con Tino / essere uscita di casa / aver
scritto la sua relazione.
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(67) S Quel giorno, Aldo era / fu certo di avere ragione / giocare bene
/ ritrovare la serenità / scrivere la relazione in maniera con-
vincente.
C Quel giorno, Aldo era / fu certo di aver avuto ragione / aver
giocato bene / aver ritrovato la serenità / aver scritto la rela-
zione in maniera convincente.
Un caso a parte è costituito da capace di, che ammette l’IFC solo in unione con
Tempi imperfettivi nella principale, e solo – adoperando beninteso un registro sub-
standard – con accezione epistemica (per es., con riferimento a 68/C: ‘è più che mai
possibile che Leo avesse avuto ragione’; a ciò allude il diacritico ≠). Quanto all’IFS,
esso oscilla nuovamente tra simultaneità e prospettività, benché gli stativi tendano
decisamente a prediligere la prima possibilità (con una netta sfumatura epistemica) 29:
aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.
(70) S * Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere presente /
dormire nel suo letto / uscire di casa con l’ombrello / scrivere
la sua relazione per ultimo.
C Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere stato presente
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/ aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.
dunque, nelle grandi linee, quello offertoci dall’Infinito sotto dipendenza da verbi.
L’IFC conserva il proprio carattere univoco, mentre l’IFS si presta ad esprimere
un’ampia gamma di valori tempo-aspettuali. La cosa non sorprende, se si conside-
ra che i contesti sopra esaminati presentano sempre l’aggettivo in unione con un
ausiliare, cui sono affidate le valenze tempoaspettuali. Dunque, anche in tali circo-
stanze agiscono in pratica i medesimi fattori che abbiamo visto all’opera nella sezio-
ne dedicata all’Infinito introdotto da verbi: semantica lessicale dell’elemento reg-
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(77) Lieto di scrivere / aver scritto, certo di avere / aver avuto ragione
ragione, fortunato a ottenere / aver ottenuto, consapevole di
incontrare / aver incontrato un pregiudicato...
Questi esempi mostrano con assoluta evidenza che l’IFS (a differenza, come
ormai ben sappiamo, dell’IFC) non contribuisce alcunché all’interpretazione tem-
porale, data l’ampia gamma di letture ad esso accessibili. Si noti inoltre, a con-
ferma di quanto osservato nel paragrafo precedente, che neppure in questi casi
l’interpretazione temporale dipende esclusivamente dalla semantica lessicale del-
l’aggettivo, ma risente anche del carattere azionale del verbo. Per es., l’IFS retto
da dimentico di (cf. 76) esibisce un orientamento temporale di simultaneità coi
verbi atelici, mentre risulta agrammaticale coi verbi telici (cf. dimentico di avere
ragione [s] / giocare senza parastinchi [a] / *ritrovare il portofoglio [c] / *scrive-
re la sua relazione [r]...). Questo è dunque, a rigore, un caso di parziale ambiva-
lenza, piuttosto che di orientamento retrospettivo tout court.
Del resto, neanche in queste circostanze viene a mancare il contributo – non
immediatamente evidente, ma non per questo meno essenziale – delle valenze
aspettuali. Non ci si deve lasciare trarre in inganno dal fatto che, negli esempi appe-
na considerati, non compaiano ausiliari debitamente coniugati. In assenza di ulte-
riori specificazioni, prevale qui l’interpretazione generica solitamente associata, nei
contesti appropriati, ai Tempi imperfettivi (tipicamente, Presente e Imperfetto).
Fuori contesto, una locuzione aggettivale che regga un Infinito tende infatti a desi-
gnare una – sia pur temporanea – condizione statica, piuttosto che un’accezione
ingressiva (beninteso, ove quest’ultima sia accessibile). Tuttavia, mi parrebbe erra-
to attribuire un peso eccessivo a questa circostanza; l’orientamento temporale attri-
buibile all’Infinito in queste locuzioni non sembra dipendere in maniera determi-
nante dalla natura aspettuale del Tempo eventualmente associato all’ausiliare (cf.
Leo appare / appariva / apparve / apparirà costretto ad accettare, che mantiene
sempre il proprio carattere prospettivo). Il Tempo dell’ausiliare contribuisce (quan-
to meno in proposizione principale) a specificare la localizzazione deittica dell’e-
vento indicato dal predicato aggettivale – cui si aggancia anaforicamente l’Infinito
34 Si badi che questo dato è tutt’altro che scontato. Nel caso delle infinitive soggettive intro-
dotte da verbi che danno vita a strutture di senso ‘consequenziale’, infatti, la commutazione tra
Tempi perfettivi o imperfettivi influisce anche sull’orientamento temporale dell’Infinito. Si
riconsiderino gli ess. (45-53).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 147
Il fatto che gli aggettivi trasmettano agli Infiniti da essi retti un preciso orien-
tamento temporale può anche non sorprendere, data la natura in parte nominale e
in parte verbale di questa classe grammaticale35. Ci si potrebbe invece aspettare
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35 Com’è noto, la vocazione piuttosto verbale o – a seconda dei casi – nominale degli agget-
tivi costituisce un importante fattore di variazione tipologica. Su questo punto, mi limito a rin-
viare a Bhat (1994).
36 Trascuro qui, per ragioni che mi appaiono ovvie, i predicati complessi che sembrano con-
tenere un sintagma infinitivale con testa nominale (cf. aver l’aria di sentirsi a proprio agio). In
questi casi, infatti, si ha una locuzione predicativa sintagmatica pienamente lessicalizzata (aver
l'aria di), anziché una struttura nominale.
148 PIER MARCO BERTINETTO
locuzioni fuori contesto, anziché di autentici enunciati. Ciò è stato fatto intenzio-
nalmente, per depurare l’interpretazione da ogni effetto contestuale estraneo al
mero rapporto tra la testa nominale e l’Infinito. Non sarà comunque inutile
richiamare una volta ancora all’esercizio della prudenza; l’interpretazione effetti-
va di un dato esempio può infatti dipendere da sottili condizionamenti pragmati-
ci, che andrebbero verificati sulla base di un’illustrazione molto più ampia di
quella che potrò qui esibire:
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(78) PROSPETTIVITÀ
es.: L’obbligo / la decisione / la scelta / l’ordine / la volontà / il
tentativo di + INFINITO; il modo / il mezzo / il sistema / l’e-
spediente / le iniziative / il motivo per + INFINITO; l’autoriz-
zazione / l’esortazione / l’invito / la riluttanza / la spinta / lo
stimolo / la tendenza / l’impulso a + INFINITO.
a. S La decisione di *essere in bolletta [s] / restare alzati fino a
tardi [s’] / dormire vestiti [a] / rientrare tardi [c] / bere una
spremuta a colazione [r]...
C * La decisione di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti [a] / essere rien-
trati tardi [c] / aver bevuto una spremuta a colazione [r]
b. S Il motivo per possedere una Mercedes [s] / restare uniti [s’]
/ giocare in notturna / uscire in anticipo [c] / restaurare la
facciata [r]...
C * Il motivo per aver posseduto una Mercedes [s] / essere resta-
ti uniti [s’] / aver giocato in notturna [a] / essere usciti in
anticipo [c] / aver restaurato la facciata [r]
c. S Il modo per aver ragione [s] / restare a lungo svegli [s] / dor-
mire senza interruzion [a] / trovare l’uscita [c] / bere tutto
d’un fiato [r]...
C * Il modo per aver avuto ragione [s] / essere restati a lungo
svegli [s’] / aver dormito senza interruzioni [a] / e aver tro-
vato l’uscita [c] / aver bevuto tutto d’un fiato [r]...
d. S Le iniziative per ?? possedere una Mercedes [s] / restare
uniti [s’] / giocare in notturna (a) / ottenere il giusto ricono-
scimento [c] / restaurare la facciata [r]...
C * Le iniziative per aver posseduto una Mercedes [s] / essere
restati uniti [s’] / ave giocato in notturna [a] / aver ottenuto il
giusto riconoscimento [c] / aver restaurato, la facciata [r]...
e. S L’autorizzazione a (??)essere in ritardo [s] / restare seduti
[s’] / giocare in notturna [a] / uscire dalla porta di servizio
[c] / scrivere al sindaco [r]...
C * L’autorizzazione a essere stati in ritardo [s] / essere resta-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 149
37 L’esempio mi è stato suggerito da Patrizia Tabossi. Si noti, per contro, la scarsa accetta-
bilità di (81d/C).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 151
che le diverse attitudini aspettuali palesate dall’IFS nei costrutti con testa nomi-
nale dipendono dall’interazione tra i medesimi fattori che ne determinano l’inter-
pretazione temporale: semantica lessicale del nome, valenza azionale
dell’Infinito, eventuali condizionamenti pragmatici. Una volta di più dobbiamo
dunque constatare l’ambiguità tempo-aspettuale dell’IFS.
parte mantenendo ed in parte alterando le valenze della base verbale; cf. la nota
30), la morfosintassi dell’italiano mostra chiari indizi circa la gradualità dell’op-
posizione in questione (Simone / Jezek, in stampa). Ciò riconferma che, a saper
usare il microscopio, ogni lingua ricapitola almeno in parte, nelle linee di tenden-
za generali, gli orientamenti osservabili macroscopicamente a livello tipologico.
(83) PROSPETTIVITÀ
es.: A costo, in attesa, al fine, a meno, piuttosto, invece, al posto
di + INFINITO; piuttosto che, anziché + INFINITO.
a. S A costo di ??essere nel torto [s] / restare ultimo [s´] / dormi-
re vestito / entrare dalla porta servizio / scrivere la tesi da
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solo...
C * A costo di essere stato nel torto / essere restato ultimo /
aver dormito vestito / essere entrato dalla porta di servizio /
aver scritto la tesi da solo...
b. S In attesa di *essere nel torto [s] / restare da solo [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la tesi
C * In attesa di essere stato nel torto / essere restato da solo /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi...
c. S Invece di avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la
tesi da solo...
C * Invece di aver avuto buoni voti / essere restato seduto /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
d. S Piuttosto che avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dor-
mire nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scri-
vere la tesi da solo...
C * Piuttosto che aver avuto buoni voti / essere restato seduto
/ aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
(84) SIMULTANEITÀ
es.: In atto di, a forza, a furia di + INFINITO.
a. S In atto di *avere ragione [s] / restare deliberatamente sedu-
to [s´] / correre a più non posso / entrare dalla porta princi-
pale / scrivere la tesi...
C * In attesa di avere avuto ragione / essere restato delibera-
tamente seduto / aver corso a più non posso / essere entrato
dalla porta principale / aver scritto la tesi...
b. S A furia di *avere ragione [s] / restare seduto [s´] / agire senza
riguardo / entrare in ritardo / preparare la lezione all’ultimo...
C * A furia di aver avuto ragione / essere restato seduto / aver
agito senza riguardo / essere entrato in ritardo / aver prepa-
rato la lezione all’ultimo...
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 155
(85) PROSPETTIVITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: A condizione di + INFINITO.
S A condizione di avere buoni voti [s] / restare ultimo [s´] /
dormire nel proprio letto / entrare dalla porta principale /
scrivere la tesi da solo...
S A condizione di aver avuto buoni voti [s] / essere restato
ultimo [s´] / aver dormito proprio letto / essere entrato dalla
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Si noterà innanzi tutto che, in qualche caso, si hanno restrizioni sugli stativi
puri. Si veda per es. (oltre a 83a-b): *piuttosto di avere buoni voti, da contrastar-
si – pur nel comune orientamento prospettivo – con (83d)38.
Quanto alle locuzioni temporalmente ambivalenti, merita segnalare che in
(85) l’orientamento è complementarmente distribuito sulle due forme, con l’IFS
che implica prospettività e l’IFC che presuppone retrospettività. L’orientamento
temporale è invece prettamente polivalente in (86), dove anche la simultaneità
rientra tra le possibilità designative. Degno di speciale menzione è però il fatto
che la retrospettività possa qui esplicarsi direttamente coll’IFS, oltreché con
l’IFC. A conferma, si consideri la localizzazione temporale dell’IFS in corsivo
nell’esempio seguente, che può – anche se non deve necessariamente – precedere
il momento indicato dal Tempo della principale:
4. OSSERVAZIONI IN MARGINE
Un’ulteriore prova a favore di questa conclusione si ricava dal fatto che l’IFC
appare perfettamente ammissibile anche in taluni contesti in cui l’IFS, per parte
sua, è caratterizzato da un netto orientamento prospettivo. Ciò accade per es. in (15,
85); ma qualcosa del genere si verifica anche nelle circostanze in cui l’IFC convive
– a livello paradigmatico – con un IFS esprimente simultaneità, come in (29, 71),
ovvero simultaneità/prospettività, come in (30-31, 66-67, 82, 86)40. Per converso, si
noti come in non pochi casi le due forme dell’Infinito manifestino un orientamento
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40 Per alcuni degli esempi qui citati, come pure per altri subito sotto ricordati, valgono
ovviamente le precisazioni fatte – al momento della loro prima presentazione – in merito al com-
portamento delle diverse classi azionali o con riferimento all’effetto prodotto dalla natura aspet-
tuale del verbo reggente.
158 PIER MARCO BERTINETTO
strutture causali o nelle temporali introdotte da dopo / después de, in cui l’italia-
no reclama l’IFC, mentre lo spagnolo esige l’IFS:
(88) a. Il giocatore fu espulso per *insultare / aver insultato il
guardalinee.
b. El jugador fue expulsado por insultar / *haber insultado
al juez de linea.
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Questo induce ad ipotizzare che l’IFS spagnolo sia molto più caratterizzato in
senso perfettivo del suo omologo italiano, tanto da dover essere esplicitamente
marcato come imperfettivo in frasi come (91), o da potersi sostituire all’IFC in
frasi come (88-90).
Si noti, infine, come l’IFS nominalizzato dello spagnolo tenda, coi consegui-
menti, ad assumere un’accezione iterativo-generica, a differenza dell’analoga
struttura italiana, che può senza difficoltà esprimere senso semelfattivo-specifico
(come in: quest’anno, il fiorire dei garofani mi ha colto di sorpresa):
di più. Né, d’altra parte, quelle indicate sono le uniche differenze nell’uso
dell’Infinito, visto che anche a livello sintattico il comportamento di italiano e
spagnolo può divergere in maniera piuttosto netta41. Ma l’esame di questi fatti
esula dall’orizzonte del presente lavoro.
Un dato costante, che emerge dall’analisi qui condotta sulle proprietà aspet-
tuali dell’Infinito, è rappresentato dalla netta divisione di lavoro tra IFS e IFC.
Quest’ultimo, come più volte sottolineato, è specificamente deputato ad esprime-
re l’aspetto compiuto; l’IFS, invece, assolve una gamma più ampia di funzioni,
potendo manifestare – a seconda dei casi – l’aspetto aoristico o l’aspetto imper-
fettivo (nelle fattispecie della progressività e della continuità). Ciò propone un
problema teorico non banale, dato che si sarebbe piuttosto portati – e per ragioni
tutt’altro che peregrine – ad associare gli aspetti aoristico e compiuto sotto il
comune vessillo della perfettività. Questo, almeno, è quanto risulta dallo studio
del comportamento delle forme finite del verbo, che dununcia un’evidente affinità
semantica tra aoristicità e compiutezza; affinità manifestata, per esempio, dalla
41 A titolo di breve illustrazione, riporto qui una scelta di enunciati tratti da Pérez Vázquez
(2000/01), che denunciano alcuni punti di divergenza. Per una proposta di analisi formale,
rimando al lavoro citato:
(i) a. Me suspendieron por no contestar / *haber contestado nada.
b. Mi sospesero per non *rispondere / ??aver risposto nulla [semmai: ... per il
fatto di non aver risposto nulla].
(ii) a. Al tener Marta tantos hijos, entiende muy bien a los niños.
b. * Per aver Marta tanti figli, comprende molto bene i bambini.
(iii) a. El irse Juan de Madrid carece de sentido.
b. * L’andarsene Juan da Madrid è privo di senso.
(iv) a. Busco gente que dibujar (el mes próximo).
b. * Cerco gente che disegnare (il mese prossimo).
(v) a. Nada mas llegar el invierno, los osos se retiran a dormir.
b. * Nient'altro che arrivare l'inverno, (e) gli orsi cadono in letargo.
L’es. (i) mostra, in aggiunta alle già notate restrizioni riguardanti l’uso di IFS e IFC nelle strut-
ture causali, come il soggetto dell’Infinito possa in certi casi essere omesso con una certa liberalità.
Per contro, gli ess. (ii-iii) mostrano come proprio il soggetto dell’Infinito possa non di rado compa-
rire esplicitamente in contesti nei quali l’italiano preferirebbe ometterlo (il che darebbe peraltro a (iii)
un senso generico), magari trasferendolo nella principale (una mossa possibile in (ii) , anche se la
frase tenderebbe comunque ad avere un valore concessivo, piuttosto che causale).
Anche gli ess. (iv-v) illustrano costrutti che esigerebbero una diversa struttura. In (iv)
dovremmo infatti usare il Congiuntivo, il che manterrebbe il senso temporalmente generico
ovvero prospettivo (specie in presenza di un avverbiale di futurità) che si osserva nella frase spa-
gnola. In (v), invece, dovremmo cambiare la struttura sintattica della temporale (per es., all 'arri-
vare dell'inverno; ed anche qui, per inciso, il soggetto non potrebbe essere espresso, se non
mediante un sintagma preposizionale).
42 Rimando nuovamente a Bertinetto (1986, cap. 2-3) per la dimostrazione.
160 PIER MARCO BERTINETTO
similarità delle reazioni indotte, in queste due categorie aspettuali, dagli avver-
biali temporali sensibili alle valenze aspettuali ed azionali42.
Siamo insomma avvezzi a concepire il dominio aspettuale secondo lo schema
seguente:
Aspetto
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imperfettivo perfettivo
(A)
Dall’analisi delle forme non finite sembra invece emergere una struttura radi-
calmente diversa:
Aspetto
...
(B)
Il problema è costituito dalla scissione osservabile in (B) all’interno dell’a-
spetto perfettivo, le cui sottocategorizzazioni (aoristico e compiuto) si ripartisco-
no sotto snodi diversi.
Prima di tentare una giustificazione di quest’ultima ipotesi interpretativa, è
opportuno valutarne la plausibilità. L’obiezione che si affaccia subito alla mente
riguarda il fatto che anche nel sistema delle forme finite si osservano convergen-
ze, in una stessa forma verbale, di valori aspettuali contrastanti, appartenenti al
comparto perfettivo ed imperfettivo. Il caso più lampante, in italiano, è quello del
Presente Indicativo, che può agevolmente esprimere, oltre alle valenze imperfet-
tive, anche quella aoristica (cf. per esempio, il Presente ‘pro futuro’ o il Presente
‘performativo’). Tuttavia, l’esistenza – almeno nel comparto passato – di una netta
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 161
43 Si consideri, oltre al Presente Indicativo, anche il Futuro Semplice, per il quale si potreb-
bero fare osservazioni molto simili. La differenza sta nel fatto che, mentre il Presente assegna
valore marcato alle valenze perfettive, il Futuro Semplice predilige proprio queste ultime, salvo
accollarsi l'onere di esprimere anche le valenze imperfettive, per supplire all’assenza di un appo-
sito strumento morfologico.
162 PIER MARCO BERTINETTO
(ma non così in spagnolo). I dati discussi nei paragrafi precedenti mostrano che,
per guidare la scelta tra accezione simultanea vs. prospettiva – e, corrispondente-
mente, tra valenza aspettuale imperfettiva vs. perfettiva – non appaiono assoluta-
mente disponibili criteri ancorati al relativo grado di marcatezza. Credo dunque che
si debba prendere atto dell’identica disponibilità dell’IFS italiano ad assumere l’una
o l’altra di queste coppie di valori semantici, a seconda del contesto in cui compare.
Ma a parte queste considerazioni, mi pare che le ragioni che militano in favo-
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‘ragazza seduta’.
intervallo temporale ‘chiuso’. Prova ne sia il frequente slittamento del Perfetto (inte-
so come ‘Presente Compiuto’) nel mero Passato Aoristico.
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SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 165
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dell’Indicativo, Firenze, Accademia della Crusca.
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1.
Aspetti semantico-sintattici
KOLBJÖRN BLÜCHER
(Università di Bergen, Norvegia)
dello spagnolo, lingua che ha una sintassi modale molto simile a quella dell’ita-
liano, il quale nel suo libro “Del indicativo al subjuntivo” dice che “(---) en reali-
dad, como veremos, los modos verbales presentan un contenido de modalidad
bastante general y abstracto (---)”2.
Sono dunque del parere che in un’analisi della sintassi modale dell’italiano,
o di un’altra lingua romanza, i criteri di base debbano essere formali/strutturali e
funzionali, mentre i criteri semantici siano da considerarsi nella seconda fase del-
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l’analisi. D’altra parte non si può affrontare la problematica dei modi senza tener
debitamente conto del lato del contenuto del segno linguistico. Un equilibrio
appropriato fra questi criteri è oggi, ci pare, un principio generalmente accettato
nella linguistica.
L’obiettivo che ci si propone nel presente succinto contributo allo studio della
sintassi modale dell’italiano è sostanzialmente di giungere a una definizione più
soddisfacente della “natura” del congiuntivo e delle sue funzioni.
In base al ruolo funzionale che il congiuntivo svolge nella lingua, si distin-
guono tre livelli funzionali3, i quali si possono presentare come una gerarchia:
Esaminiamo ora nei particolari alcune delle funzioni del congiuntivo e così il
ruolo sintattico svolto dalla sua MOD.C Ma+. Come un primo approccio in que-
st’analisi occorre fare una distinzione fra due gruppi di funzioni fondamental-
mente diverse del congiuntivo, i quali si possono definire uno di carattere indi-
pendente e l’altro di tipo dipendente. Nel primo gruppo, in cui è solo l’opposi-
zione binaria all’indicativo a produrre un effetto sintattico e semantico, i tipi fun-
zionali sono ben pochi, e sono tutti limitati alla proposizione principale. Troviamo
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della principale, e la modalità vasta, generica e astratta del lato del contenuto del
grammema che esprime il congiuntivo. A nostro parere, l’interpretazione più logi-
ca e soddisfacente dell’influsso esercitato dal lessema della principale sulla scel-
ta del modo nella completiva, influsso collegato al rapporto sintattico subordina-
zione/dipendenza/incorporazione grammaticale fra le due proposizioni, è vedere
in questo fatto una corrispondenza semantica fra la modalità del lessema in que-
stione e la modalità che caratterizza il modo scelto nella completiva. La modalità
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emessa da un tale lessema “reggente”, la quale può essere di vari tipi, ma sempre
limitata a una determinata sfera modale, cioè semanticamente circoscrivibile e
definibile, richiede un riscontro alla sua modalità nel verbo della subordinata.Nel
caso del congiuntivo tale riscontro lo costituisce la modalità MOD.C Ma+ del
grammema di questo modo, semanticamente vasta, vaga, generica, astratta, ma
dunque modalmente affine alle modalità semanticamente circoscritte, espresse
lessicalmente. Questa corrispondenza fra la modalità di un elemento lessicale e
quella di un elemento grammaticale che è il grammema “congiuntivo” si può in
ultima analisi considerare e definire una concordanza modale. L’effetto della con-
cordanza modale nel contesto è poi quello di sottolineare, mettere in risalto la
modalità particolare, semanticamente definibile, dell’elemento lessicale concor-
dato con il modo congiuntivo, ma il modo non esprime semanticamente questa
modalità come tale. Si può dire che è l’uso combinato del lessema che seleziona
il modo e del modo selezionato a trasmettere nella sua totalità il messaggio inte-
so dal parlante. Lo stesso tipo di concordanza modale obbligatoria avviene in frasi
come È giusto che si riposino dopo tanto lavoro; C’era qualche probabilità che
quel giorno la incontrasse all’università e così via.
In altri tipi di subordinate del livello funzionale I, e cioè non completive, ci
sono elementi diversi da quelli finora discussi, più o meno con caratteristiche
modali proprie, a determinare una simile concordanza modale. Le subordinate
introdotte da congiunzioni o locuzioni congiunzionali quali purché, a meno che,
a condizione che, affinché, benché, come se, senza che, prima che, da pronomi
e proavverbi relativi come chiunque, dovunque, e vari altri tipi di subordinate
hanno regolarmente il congiuntivo.
Sia nelle subordinate completive discusse che in queste ultime il congiuntivo
è così un elemento sintattico formale fisso, caratteristico, o in concordanza con la
modalità di un elemento nella proposizione dalla quale dipende la subordinata,
come nelle completive, o in sintonia con l’elemento introduttore della subordina-
ta stessa, come è il caso degli altri tipi di subordinate citati. In altri termini, il
modo caratterizza la completiva nel suo contesto sintattico/modale, mentre in que-
gli altri tipi di subordinate il modo è un elemento sintattico caratteristico della loro
struttura interna, senza rapporti sintattici/modali con elementi esterni. In tutti e
due i casi il congiuntivo risulta quindi dal punto di vista formale una marca gram-
maticale fissa della struttura di cui fa parte. In certe strutture, quest’aspetto sin-
tattico/funzionale del congiuntivo sembra essere in primo piano. Nella completi-
va dislocata a sinistra, cioè anteposta, il congiuntivo è d’obbligo, e la sua funzio-
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 173
Per quanto riguarda l’influsso di modalità, essa può in vari casi anche prove-
nire da elementi che non hanno un rapporto sintattico diretto con la proposizione
in cui c’è il verbo concordato modalmente. Questo è il caso in periodi come per
esempio Preferirei un colore che si accordi con questa maglia. Qui il verbo pre-
ferirei, si può dire, impregna della sua modalità il sintagma nominale un colore,
antecedente semanticamente indeterminato della relativa che segue, il quale attra-
verso il suo sostituto e “prolungamento” sintattico che trasmette questa modalità
al verbo della relativa determinando la concordanza modale. È il carattere seman-
ticamente indeterminato dell’antecedente in questione, indeterminezza creata dal
contesto, che permette il passaggio dell’influsso di modalità, contribuendo così a
tale tipo di “trasmissione” modale.
Se il congiuntivo, come dimostrato, in una varietà di strutture, e in primo
luogo nelle subordinate, dal punto di vista puramente formale costituisce una
marca grammaticale fissa, obbligatoria, lo è in opposizione formale ad altre strut-
ture in cui questo modo non ricorre oppure nelle quali ha funzioni di tipo diverso.
Nei tipi di subordinate discussi il congiuntivo ovviamente s’inserisce nella tota-
lità dei fattori sintattici che caratterizzano tali subordinate. La funzione primaria
di indicatore sintattico di subordinazione, che è il ruolo che Schmitt Jensen nel
suo studio Subjonctif et hypotaxe en italien del 1970 attribuisce al congiuntivo
nelle subordinate, a nostro parere non trova riscontro nella realtà linguistica se si
tiene conto di tutti gli aspetti diversi della sintassi del congiuntivo e della sintassi
modale in generale. Il grammema che esprime il modo congiuntivo l’abbiamo
definito un monema funzionale, ma come non è unitaria e varia la sua semantica,
tale è il caso anche delle sue funzioni. Una proposizione completiva come per
esempio Tutti sanno che quell’uomo mente quando gli conviene non si può dal
punto di vista formale considerare sintatticamente meno subordinata delle com-
pletive con un congiuntivo. L’uso dell’uno o dell’altro modo in tali completive e
in vari altri tipi di subordinate avviene per effetto del meccanismo della concor-
danza modale, non primariamente per indicare la subordinazione. Siccome però,
come è stato detto, il congiuntivo è uno tra i fattori caratteristici delle subordina-
te in questione, in questa qualità contribuisce a mettere in rilievo la funzione sin-
tattica della proposizione, avendo così un effetto secondario, sussidiario, di indi-
care la subordinazione. È questo ruolo sussidiario che si colloca funzionalmente
in primo piano in costrutti come Credevo fosse una bugia, con l’omissione del-
l’indicatore di subordinazione che.
174 KOLBJÖRN BLÜCHER
4 Cfr. Serianni (1997: 386): “Alcuni grammatici parlano di una presunta ‘morte del con-
giuntivo’ nell’italiano di oggi (---). Ma in realtà il congiuntivo è ben saldo nell’italiano scritto,
anche senza pretese letterarie (---)”.
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 175
chi riceve il messaggio, ovviamente è l’uso dell’uno o dell’altro modo che in tutti
questi casi definisce il significato.
Come abbiamo potuto osservare, i meccanismi modali possono avere un carat-
tere diverso a seconda dei tipi di struttura sintattica. Ulteriore illustrazione di que-
sto fatto possono essere strutture quali È un problema che questi bambini non sap-
piano nuotare – Il problema è che questi bambini non sanno nuotare; Era la nostra
speranza che nel frattempo arrivassero gli alleati – La nostra speranera era che
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nel frattempo arrivassero gli alleati; È importante che non si perda nessuna pos-
sibilità di dialogo; L’importante è che la guerra finisca; L’importante è che la
guerra è finita. Il primo di questi esempi ha la struttura verbo copulativo essere –
elemento con modalità atta a determinare la concordanza modale MOD.C
Ma+ – completiva. In questo caso la concordanza modale MOD.C Ma+ avviene
regolarmente. Nella seconda frase, invece, in cui l’ordine dei costituenti della strut-
tura è elemento con modalità MOD.C Ma+ – verbo copulativo essere – com-
pletiva, il modo che s’impone è l’indicativo. Qui evidentemente è la modalità di
essere a dominare, bloccando la modalità MOD.C Ma+ e determinando la concor-
danza modale MOD.I Ma÷. Nei due esempi in cui l’elemento con modalità MOD.C
Ma+ è speranza, la struttura è identica a quella dei primi due, ma qui la concor-
danza modale MOD.D Ma+ avviene in tutte e due le strutture. Questi fatti portano
a due conclusioni. Prima conclusione: il fattore modale “mira temporale futura”
insito in speranza e che non è presente in problema deve essere quello decisivo per
la concordanza modale. Seconda conclusione: ci deve essere una gradazione di
potenza d’influsso di modalità MOD.C Ma+, concetto per altro adottato da Schmitt
Jensen nel suo citato studio. A questa problematica di tipi di modalità è da collega-
re anche la possibilità o no dell’uso del futuro e del condizionale in strutture sog-
gette a un influsso modale MOD.C Ma+. Nei tre esempi in cui l’elemento con
modalità MOD.C Ma+ è importante, troviamo ancora un tipo di meccanismo
modale. Nella struttura È importante – completiva la concordanza modale è di tipo
“regolare”, in cui l’aggettivo importante, il quale contiene il fattore modale “valu-
tazione soggettiva”, s’accorda obbligatoriamente con il congiuntivo, come in È un
problema – completiva. Nella struttura L’importante è – completiva però si vedo-
no usati i due modi, con sfumature semantiche diverse. Da questi due casi si con-
clude che l’aggettivo sostantivato importante può rivestire, a scelta del parlante
(come del resto altri elementi di modalità MOD.C Ma+), il fattore modale “mira
temporale futura”. In L’importante è che la guerra finisca tale fattore modale, evi-
dentemente di potenza d’influsso forte, s’impone bloccando la modalità MOD.I
Ma÷ di è (essere) e determina così la concordanza modale MOD.C Ma+. Invece in
L’importante è che la guerra è finita questo fattore modale non c’è, si tratta di una
valutazione di un fatto, ed è la modalità MOD.I Ma÷ di è (essere) (“fatto/realtà”) a
imporsi sulla modalità MOD.C Ma+ “valutazione/soggettività” di importante
determinando la concordanza modale con l’indicativo.
Il terzo livello funzionale della gerarchia stabilita raggruppa gli usi modali in
cui non si tratta né di marca obbligatoria né di differenziazione semantica.
176 KOLBJÖRN BLÜCHER
L’alternanza dei modi è dal punto di vista puramente grammaticale più o meno
facoltativa. La scelta del modo può dipendere da fattori stilistici di vario tipo, da
preferenze personali e così via. Più è elevato lo stile più è frequente il congiunti-
vo. In ciascun tipo di struttura sintattica ci sono vari fattori con la proprietà di
creare un ambiente di modalità che in varia misura permette la concordanza
modale MOD.C Ma+. Si può per esempio trattare di completive subordinate a
certi verbi, aggettivi o sostantivi come in Ignorava che la guerra era/fosse finita;
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Era evidente che i due non avevano/avessero altro da dirsi. Una negazione, inter-
rogazione o condizione nella proposizione dalla quale dipende la completiva crea
una simile situazione modale. Altri costrutti sintattici con una sintassi modale di
questo tipo sono le relative con un antecedente che esprime un’idea superlativa (È
il miglior libro che ha/abbia scritto), le relative di tipo restrittivo con un elemen-
to indefinito di negazione come antecedente (Non conosco nessuno che sia/è più
arrogante di lui), le temporali con mira futura nel presente introdotte da finché
(Finché io vivo/vivrò/viva lo ricorderò) e numerosi altri costrutti. Un caso com-
plicato e allo stesso tempo molto interessante è l’interrogativa indiretta, nella
quale la tendenza verso l’uno o l’altro modo dipende dalla quantità di fattori atti
a creare un determinato clima di modalità. Più sono presenti fattori quali interro-
gazione espressa nella principale, verbo modale nella principale, gli elementi
introduttori come, perché, quanto, negazione nella principale, dislocazione a sini-
stra e altre particolarità, più si crea un ambiente di modalità che tende alla con-
cordanza modale MOD.C Ma+ e quindi più frequentemente avviene tale concor-
danza, cioè con il modo congiuntivo. In una situazione sintattica/modale come
questa ovviamente hanno un ruolo importante il livello di stile e la preferenza per-
sonale.
A questo terzo livello temporale si può, come per il livello 1, dal punto di
vista strettamente formale definire il congiuntivo come un elemento ridondante.
Qui però è un elemento facoltativo, non obbligatorio.
In questo breve spazio, naturalmente, è stato possibile trattare solo una pic-
cola frazione della vasta problematica che rappresenta la sintassi modale dell’ita-
liano. Sono stati lasciati da parte i registri inferiori a quello standard, i quali in un
certo senso sono una problematica a sé. La nostra intenzione è stata in primo
luogo discutere certe questioni di carattere teorico generale e proporre alcune idee
e interpretazioni.
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 177
BIBLIOGRAFIA
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Munchsgaard.
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1. INTRODUZIONE
Si vedano per es. Regula/Jernej (1975: 221), Spore (1975: 353-354), Plum
(1978: 171) e Sabatini (1984: 669). Altri studiosi vi aggiungono i cosiddetti “usi
modali” del Trapassato Prossimo, fra cui il Trapassato “attenuativo”, il quale serve
per “mitigare” un avvenimento in contesti di cortesia o di modestia, come in:
Come indicato, gli esempi (3) provengono da Bertinetto (1986a) che com-
prende uno degli studi più approfonditi sul Trapassato con l’analisi di una serie di
sfumature semantiche particolari; per es. fra gli usi modali viene incluso il cosid-
detto Trapassato “di fantasia”, esemplificato in:
frontato la masnada degli sbirri, lui e solo lui che aveva strappato
la maschera dal volto del falso e perverso arcivescovo (op. cit. 451)
Come molti degli altri studiosi citati, Bertinetto sottolinea fortemente, sia in
(1986a) che in (1986b), la “ineludibile caratteristica” del TRP di implicare “un
MR [momento di riferimento] situato nel passato e successivo al MA [momento
dell’avvenimento]” (Bertinetto 1986a: 432). Però già nel 1969 Fogarasi (1969:
283) aveva aggiunto, a proposito di casi come:
che “l’altra azione del passato [...] può anche mancare”, e “il rapporto di ante-
riorità vale rispetto al momento presente, quando sto riscrivendogli, oppure rispet-
to a un altro tempo passato espresso o non espresso”. Simili osservazioni si tro-
vano in Moretti/Orvieto (1979: 48), in Serianni (1989: 473) e in Squartini
(1999) 2. Lo studio di Squartini contiene osservazioni molto approfondite sulle
varie sfumature temporali del Trapassato, e lo studioso aggiunge (giustamente)
che “its typology is more complex and multifarious than has traditionally been
assumed and […] there are intermediate steps between a purely anaphoric
Pluperfect and its more deictic usage in past temporal frames” (op. cit. 59-60).
La complessità del Trapassato si evidenzia in una serie di altri usi, come per es.:
In questo intervento, che si concentrerà sul Trapassato Prossimo e sulla sua fun-
zione pragmatico-testuale, proporrò un’analisi di tale Tempo sulla base di una spe-
cie di “connessione”, o considerazione un poco più globale, delle nozioni di “uso
temporale” e di “uso modale”, e cercherò di delucidare il legame tra il valore (forse
fondamentalmente) modale del Tempo (“modale” in senso un poco più ampio e ge-
nerale di quello adoperato tradizionalmente) e il suo tipico valore pragma-testuale
di backgrounding, cioè di espressione di una dislocazione dell’evento testualizzato
dalla cosiddetta “event-line” primaria (il “primo piano”) ad uno sfondo pragmatico-
narrativo. A mio avviso l’analisi proposta – che non intende scartare o sostituirsi alle
analisi precedentemente presentate da altri studiosi, ma vorrebbe invece integrarvi-
si – potrebbe anche accennare alle premesse linguistiche, pragmatiche e cognitive
per gli usi sperimentali documentati da Bertinetto (1999).
3 Bertinetto parla qui di ’compimento immediato’, in cui “[i]l risultato viene presentato, per
così dire, come se esso si desse prima dello stesso svolgimento dell’evento” (op. cit., p. 458-459).
4 In Bertinetto/Squartini (1996) sono presentati i risultati di una ricerca sull’uso dei Passati
da parte di soggetti di diversa provenienza regionale, ai quali era stato chiesto di sostituire, in
una serie di enunciati, gli Infiniti con il Passato Remoto o Prossimo a seconda della preferenza
personale. Ma in non pochi casi i soggetti settentrionali (soprattutto torinesi) o sardi avevano
scelto invece il Trapassato Prossimo; cfr. op. cit. 407-408.
182 IØRN KORZEN
5 Lo stesso passo è citato da Bazzanella (1994: 103) nel suo capitolo sugli usi modali
dell’Imperfetto.
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 183
Tale analisi spiega per es. i molti usi modali del Futuro e dell’Imperfetto, fra
cui gli Imperfetti normalmente detti “onirico”, “fantastico”, “ipotetico”, “ludico”,
“di cortesia o di modestia”, ecc. (cfr. Bazzanella 1990, 1994; Korzen 2002), non-
ché usi del tipo:
3. IL TRAPASSATO PROSSIMO
(14) Bianchi ha perso l’aereo per Roma: era arrivato tardi in aeroporto
invece che nel costrutto citato era arrivato esprime la causa della perdita del-
l’aereo; la perdita dell’aereo è l’avvenimento centrale, il cosiddetto “nucleo reto-
rico” (nella terminologia di Matthiessen/Thompson (1988), cfr. anche Korzen
(1999: 328-329)), e l’arrivo ritardato è il “satellite” di causa, un classico esempio
di status testuale di background. (Invece in costrutti come:
i due eventi sono descritti allo stesso livello retorico e pragmatico, cfr. anche
Korzen (in stampa a)). Un caso parallelo a (14) si ha in:
7 È noto che la distinzione tra relazioni temporali e relazioni causali sia tutt’altro che rigi-
da: in molti casi un avvenimento che precede un altro può essere interpretato come causa o
motivo dell’altro, cfr. per es.:
– Giovanni, tu hai dato a questi ragazzi un permesso inconcepibile.
– Felice, mi avevano dato la loro parola. (dal telefilm Compagni di scuola).
186 IØRN KORZEN
Un background può avere anche altre sfumature semantiche, può essere per
es. esemplificativo:
(18) Circa 700 anni dopo Cristo cominciò una nuova epoca, l’era
vichinga. Ben presto la Danimarca diventò un popolo di cattiva
fama a causa delle loro scorrerie lungo le coste europee. A un
certo punto i vichinghi avevano conquistato sia l’Inghilterra, l’Ir-
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8 Sulla funzione pragma-testuale di background delle forme verbali infinite, cfr. Korzen
(1999; in stampa a).
9 Per tale uso del Trapassato Prossimo, vedi anche Miklič (1998).
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 187
(20) Finiti gli studi universitari, due studenti avevano avuto due borse
di studio per preparare le loro tesi di specializzazione, ed erano
partiti verso una città straniera dove abitava un celebre maestro
con cui volevano studiare. Studiare con una persona così impor-
tante era una fortuna, dicevano molti. I due erano cresciuti insie-
me, avevano sempre studiato assieme, e s’erano anche abituati a
pensare le stesse cose, come una coppia di vecchi sposi. (Celati:
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Cinema naturale cit., p. 81; inizio del racconto Novella di due stu-
denti)
(21) Siracusa. Il killer, un albanese di 29, è stato arrestato
Uccide a bastonate il suocero mancato
SIRACUSA – Lo avevano accolto come fosse un altro loro figlio,
per lungo tempo erano stati convinti che sarebbe stato un buon
marito per la loro ragazza. Invece lui, un albanese di 29 anni,
mirava solo ai loro risparmi e quando si è visto scoperto non ha
trattenuto la rabbia ed ha massacrato il mancato suocero a colpi di
bastone. [...] (La Repubblica 15.4.2001, 22)
(22) Nel 1642 la svolta. Per non perdere l’eredità della moglie, non si
risposa. [...] Ancora guai: Rembrandt incappa nel fallimento eco-
nomico e si abbandona a trucchetti per ingannare i creditori: inte-
sta la casa al figlio, si fa impiegato di una società di commercio
gestita dall’ex domestica e dal figlio stesso. È la bancarotta socia-
le. Neanche il suo modo di dipingere incontra più successo: i com-
mittenti sono ormai pochi. La morte, nel 1669, chiude la parabola.
La società aveva serrato le file contro di lui, che forse si era illuso di
poter infrangere i tabù comunemente accettati: lo scrive Dudok van
Heel nella sua biografia in catalogo. Per tutta la vita Rembrandt aveva
cercato di elevarsi, di diventare un borghese: “Non riuscì a raggiun-
gere l’obiettivo. Non venne mai chiamato signore”. Claudio Altaroc-
ca (Stampa 12.9.91)
Sia “prologo” che “epilogo” sono mezzi stilistici piuttosto frequenti nella
prosa giornalistica e narrativa e sono funzionali a segnalare il trapasso tra “story-
188 IØRN KORZEN
(23) Tutto era stato, fin dal principio, uno scangio dopo l’altro.
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(24) Adesso che la storia era finita, avevo capito che tutto era stato fin dal
principio uno scangio dopo l’altro. Maurizio di Blasi era stato scan-
giato per un assassino, la scarpa per una bomba a mano, un violino
scangiato per un altro violino. Il piccolo François aveva addirittura
scangiato famiglia. (La voce del violino, regia: Alberto Sironi)
(25) E l’altro [...], restituirà alla povera vedova quella somma che il
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(26) Quanti palazzi avevamo già controllato? (da telefilm “Law and
order”)
10 “Risultato ribaltato” è la mia traduzione del termine di Squartini (1999: 57) “reversed
result”.
190 IØRN KORZEN
Un esempio simile:
11 Questo volume contiene 27 “scene” videoregistrate in cui gli attori (fiorentini e romani)
avevano piena autonomia linguistica nello svolgimento dei loro ruoli prestabiliti.
12 Devo questa nozione a Carla Bazzanella (comunicazione personale).
13 Cfr. Korzen (2002; in stampa a/b) per altri esempi di tali costrutti.
TEMPO O MODO? IL CASO DEL TRAPASSATO PROSSIMO 191
(33) Interv.: Tu hai detto che torni a lavorare in autunno. Vuol dire che
usufruisci di tutte le possibilità di aspettativa che ti dà la legge?
Cristina: In un certo senso sì, perché io sono rimasta ... rimango a
casa nove mesi dopo l’arrivo della bambina. E per i tre mesi suc-
cessivi, fino a che la bambina non è in casa nostra per l’arco di un
anno, avrei due possibilità: o tornare al lavoro, con orario ridotto,
di circa il 25% in meno, ma il mio stesso stipendio, oppure posso
chiedere, se ho bisogno, un’aspettativa dal lavoro senza stipen-
dio. Io avevo pensato di tornare al lavoro in ottobre, insomma, in
metà settembre ...
Interv.: Ciò sarebbe dopo quanti mesi?
Cristina: Dopo i nove mesi regolari. (Korzen: Gli italiani vivono
(anche) così cit., p. 85)
Trapassato “ludico”:
(34) (Facciamo che) io ero la mamma e ti avevo appena preparato la
cena
Trapassato “ipocoristico”:
(35) La mia bambina non aveva mangiato abbastanza?
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Trapassato “epistemico-doxastico”:
(36) A (guardando nella sua borsa): Costanza, non c’è il portafoglio!
B: Ma non è possibile, guarda bene.
A: No guarda: occhiali, agenda, chiavi, fazzoletti, non c’è. [...]
Dobbiamo assolutamente fare la denuncia; te non sai dov’è la
questura?
B: No, non lo so.
A: Non eri già stata a Firenze? [Non avevi detto che...]
B: Sono stata a Firenza ma non sono mai stata in questura, non
conosco bene Firenze. (Korzen: Scene italiane cit., p. 39 – la
scena precedente di quella di (27))
4. CONCLUSIONE
Sulla base delle osservazioni precedenti risponderei ora alla domanda posta
nel titolo del mio intervento, dicendo che il Trapassato Prossimo esprime sia
tempo che modo. Il Trapassato può dirsi segnalare iconicamente un doppio
distanziamento, e per l’interdipendenza tra distanziamento temporale e distanzia-
mento modale tale Tempo ottiene un particolare valore testuale e pragmatico. Il
Tempo designa sempre un avvenimento (evento, processo o situazione) di un pas-
sato rispetto al momento dell’enunciazione, ma per di più distanziato dal co- o
contesto attuale o in corso. Per questo arriva a svolgere una generale funzione
pragmatica o pragma-testuale di backgrounding, cioè di relegazione dell’avveni-
mento designato ad uno sfondo co- o contestuale.
epilogo: (22)-(24)
dislocazione “di fantasia”: (4)
Dato che l’italiano è una lingua con una tendenza particolarmente forte a
codificare morfologicamente distinzioni e rilievi testuali (basti pensare all’espli-
citazione morfologica di differenze aspettuali, alla possibile codificazione della
rilevanza psico-cognitiva per il momento dell’enunciazione nei Passati Prossimo
vs. Remoto e alla codificazione dello status di background attraverso forme ver-
bali infinite come il gerundio e i participi, cfr. nota 8), non deve sorprendere che
appunto in italiano il Trapassato Prossimo appaia con una frequenza notevole; si
194 IØRN KORZEN
veda Squartini (1999: 56-57) per un confronto con inglese e svedese e Korzen
(2001a/b; 2002; in stampa b) per un confronto con il danese. Né deve meraviglia-
re che per es. le sperimentazioni linguistiche della narrativa moderna documenta-
te da Bertinetto (1999) giochino appunto sulle possibilità morfologiche di codi-
ficare tali distinzioni testuali. Quello che sembra manifestarsi in alcuni autori
moderni potrebbe essere forse una tendenza a diminuire – o addirittura abolire? –
la distinzione tra diversi livelli narrativi nel senso di foreground vs. background a
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NUNZIO LA FAUCI
(Zurigo)
Sul limite
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1. IL QUADRO
tipo rivalutativo formalmente definita nel diagramma stratigrafico della Tav. 12.
L’Argomentow è l’Oggetto Diretto di uno Strato transitivo Sx, in cui un elemento
distinto, l’Argomentoy, è il Soggetto. L’Argomentow è a sua volta il Soggetto
nello Strato intransitivo Sx + 1. L’Argomentoy è sintatticamente fossile nella fun-
zione di Soggetto a partire da Sx + 13:
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Tavola 1
2 I diagrammi stratigrafici vanno letti dal basso verso l’alto: dalla profondità alla superfi-
cie. La notazione delle funzioni grammaticali è quella della Grammatica Relazionale, con una
sola semplificazione tipografica: F indica un elemento sintatticamente fossile, la cui funzione è
recuperabile solo in prospezione stratigrafica (è Chômeur, si diceva in Grammatica
Relazionale).
3 In conseguenza del già ricordato principio di unicità stratale: cfr. Davies & Rosen (1988)
e i riferimenti ivi presenti. Sulle nozioni formali di strato transitivo e intransitivo v. La Fauci
(1988: 20 sg.) e relativi rinvii.
4 In uno stadio precedente della sua elaborazione teorica chiamata Gemmazione Predicativa
(cfr. La Fauci 2000).
SUL LIMITE 199
timare Argomenti: un elemento con una Carica Argomentale che è titolare della fun-
zione di Predicato nel primo Strato del PN. Uno Strato il cui P ha Carica Argomentale
è denominato (Strato argomentalmente) Carico. Come previsto dalla teoria
dell’Unione Predicativa, ciascun elemento con funzione di Predicato è titolare poi di
un Settore Predicativo, composto di uno o più strati: si tratta del Settore della struttu-
ra funzionale in cui esso esercita la funzione di Predicato. Il Settore Predicativo il cui
primo Strato è uno Strato Carico è denominato (Settore argomentalmente) Carico.
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Per Fissione Predicativa, la struttura è più articolata e conta tre Strati, con un
Nucleo Predicativo composto di tre Settori Predicativi funzionalmente distinti. Il
Settore Carico è il medesimo che si incontra in (1), ma (1) ha un solo Settore
Neutro, (2) ha due Settori Neutri, il primo (come l’unico di (1)) il cui titolare ha
6 Le questioni di stretta natura morfologica saranno tenute fuori dalla presente discussione,
per lo sviluppo della quale non avrebbero grande importanza, al momento.
SUL LIMITE 201
si allontana da tali idiosincrasie e apre forme predicative prima trattate come fun-
zionalmente atomiche. Fissione Predicativa coglie e distingue in questo modo la
duplice funzione sintattica compressa in quelle forme: la proprietà nucleare di legit-
timare gli Argomenti della proposizione e la proprietà di manifestare interazioni sin-
tattiche di varia natura, ma soprattutto l’interazione col Soggetto finale della propo-
sizione. Più specificamente, per Fissione Predicativa forme come fileggiano, hanno
fileggiato e lasciano fileggiare non hanno autonoma e intrinseca realtà linguistica,
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2. IL LIMITE
Tavola 2
Tavola 3
7 “Ainsi il ne suffit pas de dire, en se plaçant à un point de vue positif, qu’on prend mar-
chons! parce qu’il signifie ce qu’on veut exprimer. En réalité l’idée appelle, non une forme, mais
204 NUNZIO LA FAUCI
Così, da un lato, si osserva che non di dànno più di due commutazioni fun-
zionali della funzione predicativa del medesimo Nucleo Predicativo. Dall’altro, si
osserva che non si dànno più di due combinazioni funzionali di elementi predica-
tivi del medesimo Nucleo Predicativo.
In modo più formale: paradigmaticamente, la prospezione stratigrafica della
macrofunzione di Predicato a partire da qualsiasi Settore Neutro di un Nucleo
Predicativo incontra un Settore Carico a non più di un Settore Neutro di profon-
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Tavola 4
tout un système latent, grâce auquel on obtient les oppositions nécessaires à la constitution du
signe” (Saussure 1916: 185).
8 La formalizzazione (si spera non inutilmente) rende implicitamente problematico un po’
di quel che nelle parole che seguono suona come esplicitamente misterioso:
Alla formazione di frasi col verbo al passivo si oppongono, in italiano, inaccettabi-
lità sia specifiche della nostra lingua sia comuni a più lingue: di queste inaccettabi-
lità mi occuperò in queste pagine che tendono, da un lato, a descrivere le caratteri-
stiche di frasi che, al passivo, sono rispettivamente accettabili ed inaccettabili, dal-
l’altro a far sì che la non-accettabilità… sia considerata non tanto una forma di non-
detto quanto di consapevolmente non-dicibile, di scientemente negativo, di qualco-
sa che è escluso per cause non chiare ma che certamente richiedono di essere pre-
cisate, perché se è difficile chiamarle linguistiche soltanto, è forse inesatto (o pre-
maturo) chiamarle logiche: unica cosa certa è che, di qualunque natura siano, impe-
discono il realizzarsi di stringhe linguistiche (Ambrosini 1982: 1).
SUL LIMITE 205
Lo stesso si può dire (per fare un esempio romanzo) dei seguenti dati spa-
gnoli, dove non sono affissi, ma ausiliari diversi a manifestare l’opposizione11:
10 Dati e glosse sono ripresi da Dubinsky & Simango (1996: 751) e qui adattati.
11 Classici esempi da Sanz (2000: 17), ma Varela (1992: 225) segnala opportunamente che
in spagnolo “the copula test will not function in the same way with all verbs: La casa es con-
struida por los proprios dueños del terreno… La casa está construida por obreros cualificados”.
Tra i tratti rivelatori dello stato infantile (o di rimbambimento) dell’odierna linguistica, c’è l’in-
genua credenza di molti (in positivo, come fede, o negativo, come ragione di condanna, qui poco
importa) che, una volta formulata una “regola” (in realtà: un’esperienza), essa debba ipso facto
risultare verificabile sotto ogni condizione d’osservabilità. Non è necessario chiamare in causa
complessi dibattiti epistemologici. La stessa banale osservazione a occhio nudo che fonda la
conoscenza dell’esistenza della luna basta per rendersi conto dell’interazione concettuale che
necessita un’esperienza: la luna ora si vede, ora si vede in parte e sempre variabilmente, ora non
si vede per nulla. Che concluderne? È un miraggio o si cela? E quali sono le condizioni del suo
celamento, cioè le sue condizioni di osservabilità? Sono le medesime durante il giorno e duran-
te la notte? Durante una notte con cielo libero e durante una notte con cielo coperto? E così via.
Senza una precisa determinazione delle condizioni di osservabilità dei fenomeni che manifesta-
no l’esistente e senza la precisa consapevolezza che né i fenomeni né le condizioni di osserva-
bilità si identificano con l’esistente ogni avanzamento della conoscenza è impossibile. Come i
nichilisti d’ogni specie desiderano (per altro, comprensibilmente).
SUL LIMITE 207
La diversa natura sintattica dei due costrutti si riflette allora sulla differenza
di ausiliari e sullo schema di manifestazione della morfosintassi predicativa.
Nella rappresentazione formalizzata, è allora plausibile correlare esplorativa-
mente distinzione tra schemi di sviluppo della manifestazione della funzione pre-
dicativa in italiano e diversa natura funzionale del Settore Carico. Con un Settore
Carico multistratale la manifestazione della morfosintassi predicativa si sviluppa
secondo lo schema A. Con un Settore Carico monostratale essa si sviluppa secon-
do lo schema B. Si tratta ancora una volta d’una correlazione formale che rende
sintatticamente problematico quanto finora è categorialmente misterioso (che
cosa è infatti un verbo? che cosa è un non-verbo?). Si aprono ulteriori campi di
ricerca.
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Si noti che la cattiva formazione di (26) e il contrasto che ne deriva con (25)
sono stati attribuiti tradizionalmente ad una presunta imperfetta grammaticalizza-
zione di venire come ausiliare: così già Ambrosini (1982), quindi Giacalone
Ramat (1998).
Ma (23) e (24) mostrano che essere e venire rispondono allo stesso modo alla
fondamentale prova formale che determina il loro statuto sintattico di ausiliari. E
che la questione non riguardi per ontologia lessicale gli ausiliari, ma le relazioni
sintattiche e funzionali che gli elementi intrattengono nella proposizione è dimo-
strato dagli esempi (4)-(15). Si osservi soprattutto che l’ausiliare essere si svilup-
pa secondo schemi diversi in funzione del contesto sintattico in cui ricorre. È fuor
di dubbio (e universalmente riconosciuta), d’altra parte, la natura di ausiliari com-
piutamente grammaticalizzati (qualsiasi significato si attribuisca a tale qualifica-
zione) di avere, essere e stare, anche quando (anzi, soprattutto quando) essi non
ricorrono su un doppio livello di ausiliazione. Solo venire si troverebbe così a
ricevere un trattamento particolare, fondato su suoi presunti caratteri lessicali.
In realtà, “tout repose sur des rapports” (Saussure 1916: 176) e non su carat-
teri ontologici. Come i profani, anche gli specialisti sembrano resistere, quasi
impauriti, a questa lampante constatazione, che assorbì per intero la mente di
Ferdinand de Saussure. Nel linguaggio tutto è sintassi, cioè operazione combina-
toria. Oggetti, categorie, parole, forme, significati non preesistono alle operazio-
ni combinatorie. Le operazioni combinatorie e le loro funzioni creano gli oggetti,
le categorie, le parole, le forme, i significati. Questa creazione proietta forme nel
mondo sensibile delle apparenze. Determinare le funzioni combinatorie è il solo
modo di capire qualcosa dei fenomeni, schivando i rompicapi dell’ipostatizzazio-
ne dell’apparenza (per quel la finitezza umana concede).
Le forme perifrastiche di tutti questi esempi (che siano passivi o non passivi),
qualsiasi ausiliare essi comportino, rispettano allora rigorosamente i limiti fun-
zionali di complessità di manifestazione della macrofunzione predicativa, secon-
do i due modi di realizzazione dettati dagli schemi A e B. L’italiano dispone sem-
plicemente di due passivi, la cui differenza sintattica e funzionale ha per una volta
chiara e addirittura ridondante manifestazione e (non sempre) trasparenti correla-
ti nell’interpretazione semantica13.
Con altre e più profonde parole,
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EMANUELA CRESTI
(Lablita – Università degli Studi di Firenze)
1. PREMESSE
Fin dalle origini della riflessione linguistica la classe lessicale (parte del
discorso) del verbo è stata identificata rispetto al nome, che può essere conside-
rata la classe lessicale “neutra” corrispondente all’atto di dare nome alle cose, per
caratteri sia semantici che morfologici di tempo, che non sono propri del nome,
fondato morfologicamente sulla categoria casuale (Aristotele, De interpretatio-
ne), e in lingue che non la contemplino, su genere e numero (quantificazione). La
tradizione grammaticale ha confermato tale concezione definitoria aggiungendo a
quella di tempo le categorie di diatesi, modo e aspetto, ed essa è continuata in
sostanza fino ai più recenti sviluppi della grammatica generativa che nella sua ver-
sione minimalista colloca le categorie funzionali del tempo, dell’aspetto e del
modo (impropriamente indicato a volte come forza illocutiva)1 come nodi tra i più
alti della clausola (Chomsky 1995, Rizzi 1997).
La persona al contrario non è stata considerata una categoria fondamentale;
al di là di descrizioni convenzionali, come se ne può trovare in tutte le grammati-
che (Serianni 1988; Beretta 1993), manca una piena valutazione teorica di essa e
un tentativo di trovarne una spiegazione. Opere generali come la Grande gram-
matica italiana di consultazione (Renzi et alii 1988-1995), o il più importante
lavoro per lo studio semantico del verbo italiano (Bertinetto 1986), non dedicano
alcuno studio specifico all’argomento. Lo stesso vale per esempio per la ricca ed
aggiornata Gramatica descriptiva de la lengua española (1999). La maggior parte
della letteratura s’interessa della persona verbale soprattutto in lavori dedicati ai
pronomi personali (Brunet 1985 e 1987; Palermo 1997). Tra le poche trattazioni
di carattere più generale Lyons (1977), Simone (1995). Naturalmente è possibile
trovare in un’opera come The philosophy of grammar (Jespersen 1924) un accen-
no geniale nelle conclusioni – dove vengono indicati diversi casi di conflitto tra
categorie, come quella tra genere e caso per esempio –, circa il fatto che la perso-
na possa essere più forte del modo (la seconda persona singolare sembra essere
stata più forte della distinzione tra indicativo e congiuntivo).
1 Per una distinzione tra illocuzione e modalità, si veda Cresti e Firenzuoli (1999) e Cresti
(2002 e 2003).
212 EMANUELA CRESTI
Indicativo 82,3%
Presente indicativo 69%
2 Studi su corpus di scritto e di parlato mostrano come di certi verbi vengano usate solo
poche forme; tra quelle più frequenti: la terza persona singolare del presente (bisogna), l’infini-
to (mixare), il participio passato (nato).
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 213
Prima di passare all’analisi del corpus sono necessarie però alcune premesse
teoriche e metodologiche.
3 L’ipotesi che la flessione personale sia una categoria primaria di identificazione della
classe verbale, inoltre, trova un forte riscontro nell’acquisizione. Una ricerca (Moneglia e
Cresti 2001) condotta in maniera sistematica su tre soggetti da 19 a 33 mesi, e accompagnata
da osservazioni sull’intero corpus infantile LABLITA (circa 100 ore), mostra un profilo comu-
ne nella formazione del paradigma dei morfemi di persona (Fletcher 1981, Chiat 1988, Dressler
et alii 2000), pur in soggetti scelti per le loro forti differenze di strategia di acquisizione lin-
guistica. Il paradigma delle persone da un lato viene formato in una fase precedente alle prime
differenziazioni temporali, dall’altro appare in forte connessione con tratti di modalità e con
l’acquisizione di illocuzioni specifiche che sembrano essere all’origine della differenziazione
di persona.
214 EMANUELA CRESTI
4 Rimandiamo per una panoramica ed una discussione articolata della diverse proposte a
Quirk et alii (1985) e Miller e Weinert (1998).
5 Nella nostra proposta le caratteristiche linguistiche dell’enunciato sono da un lato di tipo
semantico, legate ad una condizione minima di significanza (almeno un’interiezione o un’e-
spressione lessicale piena), e dall’altro ad un impiego “attuale” di esso che implica una realiz-
zazione intonativa dell’espressione secondo profili convenzionali di valore illocutivo. Si veda
Cresti 2000.
6 Si veda Cresti (1987). La nostra proposta è rimasta per lungo tempo isolata, ma recente-
mente ha cominciato a incontrare consensi e quello che è più importante consonanze teoriche:
come quella con l’analisi macrosintattica svolta da Blanche-Benveniste e dall’équipe che lavo-
ra presso l’Université de Provence, con la quale sono in corso scambi scientifici fino dal 1996.
7 Fino dagli anni ’70 presso il Département de linguistique française dell’Université de
Provence un gruppo di ricercatori guidato da Claire Blanche-Benveniste (GARS) ha iniziato a
raccogliere testi di parlato, arrivando a formare il più ampio corpus di parlato francese, e a stu-
diarne in particolare gli aspetti sintattici fondati sulla reggenza verbale, con un approccio noto
come “teoria pronominale”. Un livello superiore a quello della reggenza, detto macrosintattico,
trova il suo punto centrale nel nucleo dell’enunciato, il noyau, definito per caratteri di modalità
molto vicini alla forza illocutiva. Si veda Blanche-Benveniste (1991) e i contributi della rivista
Récherches sur le français parlé.
8 Si veda Biber et alii (1999) il cui corpus di riferimento comprende sia la varietà diafasi-
ca con registri, così sono chiamati, di conversazioni, di scrittura letteraria, di saggi accademici e
lingua dei mass-media, sia la varietà diatopica con campionamenti di inglese americano e bri-
tannico.
9 Naturalmente anche se fa piacere vedere confermata una nostra ipotesi, sorprende che né
la definizione di utterance in termini illocutivi sia accompagnata da alcuna spiegazione, come
invece appare necessario, né che di tale unità venga fatta alcuna applicazione nel corso dell’a-
nalisi del corpus parlato di inglese-americano.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 215
nità sintattica di riferimento del parlato, gli autori indicano come unità di riferi-
mento una cosiddetta C-unit che comprenderebbe sia clausal che non-clausal
units, ovvero espressioni che abbiano sia struttura sintattica di clausola sia che
non ne abbiano alcuna. Evidentemente dobbiamo interpretare tale assunzione, che
appare particolarmente debole da un punto di vista teorico, come una conseguen-
za obbligata della verifica del corpus parlato, sul quale è costituita la grammatica,
che assomma a circa 10 milioni di parole di parlato, oltre a quasi 30 milioni di
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parole dello scritto. Il riscontro che circa il 38% dei testi di parlato non presenta
in effetti struttura di clausola10 – e del resto anche le verifiche che abbiamo potu-
to condurre sull’italiano e alcuni primi riscontri sul francese e sullo spagnolo con-
fermano sostanzialmente tale percentuale – costringono a ipotesi come la prece-
dente. Vorremmo notare tuttavia che un’entità come la C-unit, nel momento che
comprenda sia espressioni con struttura di clausola11 sia espressioni che ne sono
prive (e variamente indicate, fra l’altro come frammenti), non può essere altro che
un’etichetta priva di alcuna consistenza e che non sorte altro effetto che quello di
evidenziare la mancanza di un’unità di riferimento del parlato, congrua. Del resto
però chi, come da più parti intrapreso, proponesse la clausola come unità di rife-
rimento, cercando un’unità valida sia per lo scritto che per il parlato, e un’unità
che mantenga una natura sintattica, al di là di una serie di questioni che anche tale
entità lascia aperte, deve escludere dal dominio d’indagine più di un terzo della
produzione parlata che non presenta tale struttura.
Tornando quindi alla nostra proposta dell’enunciato (énoncé, utterance), vor-
remmo far notare che proprio la sua natura pragmatica di corrispettivo linguistico
di uno speech act e l’impossibilità di darne un equivalente sintattico, lungi da
costituire un deficit o un’inadeguatezza, fa di essa l’entità di riferimento adatta a
riempire linguisticamente ciò che nella Longman Grammar è stato identificato
come C-unit, con la quale si è cercato invano di ricondurre ad una qualche rego-
larità sintattica proprio l’enunciato.
La nostra impressione è che a seguito delle evidenze empiriche risultanti dal-
l’osservazione dei corpora sia stata ormai individuata la natura propria della lin-
gua parlata (natura pragmatica) e il dominio delle sue unità componenti (l’enun-
ciato come corrispettivo dell’atto linguistico), ma che si cerchi di continuare a
10 Il dato statistico è confermato dalle ricerche condotte sui nostri corpora di parlato spon-
taneo italiano (LABLITA). In alcuni testi di tipo strettamente familiare esso può crescere anche
al 50%.
11 Del resto nella Longman Grammar la clausola è definita come unità indipendente sulla
base del suo valore tipologico di speech: ovvero se è una clausola dichiarativa, iussiva, espres-
siva, interrogativa. Evidentemente continua a sussistere la confusione tra tipologia di frase, che
è solo la grammaticalizzazione locutiva dell’illocuzione, e il compimento dell’illocuzione che è
ciò che assicura nella realtà l’indipendenza di un’unità di speech. Rimandiamo per la distinzio-
ne tra tipologia di frase e forza illocutiva alla più generale distinzione tra modalità, con tutte le
sue caratteristiche morfo-sintattiche e lessicali, e illocuzione. Si veda Cresti (2002 e 2003).
216 EMANUELA CRESTI
come espressione che veicoli un’immagine) e una forma sonora con movimento
(l’intonazione che veicoli un affetto). Quindi l’unità di riferimento del parlato è
un’unità la cui salienza è pragmatica, ed essa non può avere definizione sintatti-
ca, ovvero essere “tradotta” in configurazione sintattica13, perché gli affetti che
fondano e attuano la parola non hanno corrispondenza sintattica, mentre hanno un
necessario segnale nell’intonazione14.
rispetto ...a che cosa? rispetto al numero di frasi del corpus di riferimento? rispetto
al numero delle clausole? Noi proponiamo: rispetto al numero degli enunciati, che
in maniera uniforme permettono di analizzare un qualsiasi testo parlato16.
2.3. Anche una indagine sulla categoria di persona, che potrebbe sembrare il
caso tipico da poter essere affrontato in termini di frequenze rispetto al numero
delle entrate, se così condotto, rimane “opaco” e non ci svela dati che invece sem-
brano chiarificatori, se analizzato secondo criteri diversi. Nel nostro lavoro, quin-
di, anche le occorrenze di persona verbale sono state calcolate su campioni di par-
lato, sistematicamente analizzati in enunciati. Dal momento che ogni forma verba-
le è valutata rispetto alla sua appartenenza ad un enunciato, che è caratterizzato dal
compimento di una forza illocutiva, è facile comprendere come confrontando
insieme le due caratteristiche, quella di persona e quella illocutiva, quest’ultima
potrebbe rivelarsi determinante per l’impiego della prima. Per esempio, tutti sanno
che le dichiarazioni, secondo Searle – o illocuzioni rituali secondo noi –, hanno
forme generali al presente e alla prima persona (io ti condanno a tre anni di car-
cere, io mi scuso per il ritardo), i direttivi che implicano richiesta di comporta-
mento azionale, come gli ordini e gli inviti (chiudi la porta!; vieni al cinema?), ten-
denzialmente sono alla seconda persona, i rappresentativi che impegnano il par-
lante sulla verità di un assunto tendono a presentare quest’ultimo in maniera ogget-
tiva alla terza persona (il cane è il fedele amico dell’uomo; Carlo è partito ieri). Di
qui l’idea di un’indagine che verifichi la corrispondenza tra i due aspetti.
Dobbiamo però premettere che non ci possiamo aspettare una associazione
immediata tra la forza illocutiva di un enunciato e l’occorrenza di una certa per-
sona verbale, perché l’enunciato non è un’unità monolitica ma un’unità comples-
sa e più precisamente un pattern informativo. L’enunciato, infatti, può realizzarsi
co)17. Una forma verbale quindi può occorrere in una qualsiasi unità d’informa-
zione e di conseguenza non sempre può essere connessa direttamente all’espres-
sione della forza illocutiva. È necessario allora affinare l’indagine, e cercare in
maniera più precisa la connessione di ogni forma verbale con l’unità d’informa-
zione, entro la quale essa occorre, più che con l’enunciato nel suo complesso. Il
nostro assunto generale, dunque, è che la messa in atto di espressioni verbali
richieda la persona come categoria o tratto funzionale al compimento dell’illocu-
zione (funzione informativa di Comment), o secondariamente delle altre funzioni
informative, che sono sviluppate in concomitanza con il compimento dell’illocu-
zione.
Bisogna però aggiungere ancora che la corrispondenza tra l’impiego di una
persona e il valore funzionale dell’unità d’informazione in cui compare non può
essere biunivoca. Esistono infatti motivi come:
3.1. Il Comment
Può capitare anche che la forma verbale compaia nel Topic e non nel
Comment:
Per quanto riguarda l’unità di Comment, i dati che presentiamo sono quelli
raccolti dal lavoro già citato di Firenzuoli (1997), e sono stati verificati in un cor-
pus di parlato spontaneo di 2007 enunciati20. Da una serie di ricerche condotte in
LABLITA possiamo dare una stima indicativa riguardante la strategia del
Comment che risulta essere a prevalenza verbale (60-65%). Nel campione in
esame, nel quale prevalgono testi familiari, essa è leggermente al di sotto della
media con un 59,8%.
Per quanto concerne l’uso delle persone verbali, considerando insieme le per-
sone singolari e quelle plurali, le occorrenze assolute sono le seguenti:
20 Ringraziamo Firenzuoli per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
222 EMANUELA CRESTI
A questo punto se andiamo a cercare quale sia il rapporto tra l’impiego di una
persona verbale in un Comment e il tipo illocutivo compiuto i risultati sono i
seguenti:
Tabella 1
Frequenza della correlazione tra persona e classe illocutiva
21 Per una nuova classificazione delle illocuzioni si veda Cresti e Firenzuoli (1999), Cresti
(2000 e in stampa).
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 223
sentativi, che costituiscono quasi il 53% delle illocuzioni messe in atto, la terza
persona rimane in assoluto la più frequente con 81,2%, però al tempo stesso essa
presenta una concentrazione con un valore difforme dal valore medio (circa 60%)
di quasi 20 punti. Diversamente nelle altre classi illocutive tale predominio cessa
e in particolare nella classe direttiva il 42,17% è coperto dalla seconda persona
(calcolata insieme con la terza di cortesia) e in quella espressiva quasi il 56% è
coperto dalla prima e quasi il 20% dalla seconda, ancora calcolata insieme con la
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terza di cortesia. Per quanto concerne le restanti classi (rifiuto e rito), i dati sono
poco significativi a causa del campione non troppo esteso ed in ogni caso sele-
zionato secondo caratteristiche sociolinguistiche a prevalenza familiari, nelle
quali difficilmente sono realizzati atti come le illocuzioni di rito, nelle quali devo-
no essere considerate tutte le azioni linguistiche di valore legale e le formule di
cortesia, che nel corpus sono ridotte al minimo. Per quanto riguarda il rifiuto, esso
è in ogni caso poco frequente e risulta legato a particolari tipi di scambio (dispu-
te, scontri, ecc..). Naturalmente sarebbe interessante scendere ancor più in detta-
glio per verificare le correlazioni anche con specifiche illocuzioni e non solo con
le classi illocutive.
Per quanto riguarda quello che in letteratura viene chiamato discorso diretto
riportato (DDR), s’intende la citazione integrale delle parole d’altri, ivi compresa
la riproduzione non solo della forza illocutiva e dell’articolazione informativa
degli enunciati riportati, ma in particolare la simulazione della loro intonazione,
secondo un principio di contrabbandata fedeltà. Fedeltà, che infedele è per neces-
sità e per volontà del parlante, che usa tale drammatizzazione per lo più a fini per-
suasivi dell’interlocutore. Il DDR viene realizzato tramite enunciati con Comment
la cui vera illocuzione è il riporto stesso, indipendentemente dal fatto che faccia-
no la parodia di una domanda o di un’istruzione. L’enunciato di riporto viene
molto spesso introdotto da una specifica unità d’informazione, l’Introduttore
locutivo, costituito per lo più da un verbo dicendi. Ci interesseremo quindi del-
l’impiego della persona verbale in tale unità d’informazione, che è strettamente
funzionale alla buona riuscita di una illocuzione di riporto.
I dati che presentiamo sono quelli raccolti da Daniela Giani (1999, 2003) 22,
la cui ricerca è stata condotta su un campionamento di 9876 enunciati e dalla
quale si evince che il DDR costituisce all’incirca il 4% degli enunciati23.
Bisogna precisare, però, che quando un parlante inserisce tra i suoi enunciati
un DDR, in genere non mette in piedi quella che possiamo indicare come una
drammatizzazione del suo discorso, per fare la semplice citazione di un enun-
ciato altrui, ma spesso inscena una sequenza di più enunciati di riporto (episo-
dio di riporto). In genere è solo il primo enunciato dell’episodio di riporto, che
viene preceduto dall’Introduttore locutivo, come unità di informazione apposi-
tamente dedicata alla disambiguazione del valore fittizio dell’intero episodio di
riporto.
*PN3: sicché ieri sera / gli dissi / guardi /’ professore /’ c’è lo sciopero
//’ i giornali /’ i comunicati stampa /’ ne parlano //”
%ill: riporto
%inf: topic, introduttore locutivo, [1°] fatico, allocutivo, comment, [2°]
topic, topic, comment
*ILA: cioè loro gli hanno detto / che siamo /’ sfrattati //’ siamo col-
l’acqua alla gola //’ […]
%ill: riporto
%inf: introduttore locutivo, [1°], comment scandito, [2°] comment
22Ringraziamo Daniela Gianni per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
23In ogni caso da una verifica disaggregata del valore percentuale, si scopre che nel parla-
to familiare, conversazione, esso sale ben al 10%, mentre scende sensibilmente nel parlato pub-
blico formale.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 225
Il restante 27, 81% degli episodi di riporto è costituito da casi senza introdut-
tore, che per lo più sono secondi episodi di riporto, ovvero appaiono in una cor-
nice di dialogo riportato già introdotta. La verifica delle caratteristiche lessicali e
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Tabella 2
Frequenza della correlazione tra persona e classe illocutiva
226 EMANUELA CRESTI
La tabella mostra, infatti, che a parte l’assenza della terza persona in quei
pochi casi di uso direttivo del DDR, la percentuale della prima persona per
l’Introduttore di riporto narrativo-descrittivo, che raggiunge quasi il 30%, è note-
volmente più alta di quel generico 22% che si potrebbe eleggere a valore medio
dell’occorrenza della prima persona. Quindi la narrazione fatta familiarmente tra-
mite drammatizzazione e DDR sceglie spesso la prima persona.
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3.3. L’inciso
Oppure può essere complesso (un vero e proprio enunciato con Comment e
articolazione informativa):
24 Ringraziamo Ida Tucci di averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
25 Da una verifica disaggregata del valore percentuale, è possibile ricavare che le frequen-
ze variano molto in relazione alla tipologia sociolinguistica e comunicativa. L’Inciso,in realtà, è
una caratteristica tipica di un parlato pubblico, programmato, monologico, in certe conferenze
può arrivare a comparie anche nel 65% degli enunciati.
228 EMANUELA CRESTI
Come è evidente anche se si mantiene una certa prevalenza della terza perso-
na, è molto forte l’impiego della prima persona che si presta naturalmente al
commento metalinguistico, che il parlante fa appunto in prima persona. I pochi
casi alla seconda persona riguardano delle forme di appello diretto all’interlocu-
tore, come per esempio:
3.4. Possiamo aggiungere ai risultati fin qui presentati, anche se non abbiamo
ancora a disposizione dati semantici, alcune osservazioni su altre unità d’informa-
zione come i Fatici o i Conativi, che sono portatori di illocuzioni secondarie per il
buon funzionamento o il controllo dell’atto linguistico 26. Entrambe le unità d’infor-
mazione sono a prevalente strategia verbale e in esse è possibile ipotizzare una pre-
dominanza della seconda persona (guarda, vedi, hai capito, ti pare, senti, vai, dai).
Possiamo concludere notando come l’impiego della persona verbale appaia for-
temente correlato a:
tanza funzionale delle forme verbali e quindi anche alla loro riduzione quantitativa.
4.1. Il Topic
Il Topic è la principale unità d’informazione dopo il Comment. Esso può
essere definito funzionalmente come il campo di applicazione della forza del
Comment. Il Topic è concepito come una rappresentazione conoscitiva, fuori illo-
cuzione, e come tale costituisce la premessa semantica, dotata di una propria mo-
dalità, della locuzione in Comment. Il Topic è sempre antecedente al Comment,
anche se non deve essere necessariamente ad esso contiguo.
*PAT: le fragole / dove sono?
%ill: domanda
%inf: topic, comment
*INS: il concorso / vinto!
%ill: valutazione positiva (enfasi)
%inf: topic, comment
*LID: poi / ni’ ventitré / l’è nato il primo figliolo //
%ill: racconto
%inf: incipit, topic, comment
*CL7: se c’è le donne / vengo da solo //
%ill: proposta
%inf: topic, comment
*GUG: sì / quando ti pare / lo mandi via //
%ill: contrasto
%inf: incipit, topic, comment
I dati che presentiamo sono quelli raccolti da Sabrina Signorini (2001 e in
stampa) 27, la cui ricerca è stata condotta su un campionamento di 8093 enunciati
e dalla quale si evince che il Topic costituisce circa il 14% degli enunciati28.
Inoltre solo una parte di quelli verbali corrisponde ad una forma di modo finito
In generale possiamo notare che quando un Topic usa una strategia verbale, essa
serve a dare premesse narrative o descrittive, che per lo più sono restituite alla 3° per-
sona, oppure serve a fare ipotesi caratterizzate epistemicamente ed allora spesso inter-
vengono la 1° persona e la 2°, che in certi casi corrisponde ad un tu generico.
Guardiamo ora la distribuzione delle persone nei Topic e riportiamo quella
delle persone nei Comment al di fuori della distribuzione secondo le diverse clas-
si illocutive.
Tabella 3
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 231
Forse il dato più interessante che risulta dal confronto è quello che mostra
come la realizzazione di un’espressione verbale in Topic, ovvero fuori illocuzio-
ne, porta a risultati che sono molto simili ai valori medi di uso nel Comment, qua-
lora non si tenga conto della distribuzione disaggregata secondo le classi illocuti-
ve, ma con un avvicinamento complessivo delle tre persone.
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4.2. Le Appendici
Ma una delle forme più tipiche di uso di una forma verbale in Appendice è
232 EMANUELA CRESTI
Per quanto riguarda l’uso delle persone verbali, esso appare piuttosto casua-
le, anche se la terza persona è nettamente prevalente.
4.3. In conclusione, anche se i dati sulle Appendici non sono ancora disponi-
bili, sembra assicurato che le unità d’informazione che non sono coinvolte in fun-
zioni illocutive primarie (Comment) o secondarie (Inciso, Fatico, Conativo) o di
appoggio ad un Comment (Introduttore locutivo), da un lato sono a prevalente
strategia nominale e dall’altro presentano forme verbali che hanno una distribu-
zione media o con caratteri di casualità. Il peso di queste unità per l’impiego della
27 Ringraziamo Sabrina Signorini per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 233
28 Da una verifica disaggregata del valore percentuale, è possibile ricavare che la frequenza del
Topic varia in relazione alla tipologia sociolinguistica e comunicativa. Il Topic caratterizza in manie-
ra sistematica il parlato pubblico nel quale può arrivare a coprire anche il 50% degli enunciati.
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234 EMANUELA CRESTI
29 Ringraziamo Claudia Ferri per averci messo a disposizione i dati della sua ricerca.
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235 EMANUELA CRESTI
Tale resistenza appare perciò fondata in aspetti costitutivi del parlato e non assi-
milabile a quel processo di riduzione del paradigma morfologico del verbo per
quanto riguarda le categorie di tempo e di modo, che per ragioni opposte proprio
nel parlato vengono in parte neutralizzate.
LA CATEGORIA DELLA PERSONA: ANALISI DELLE FORME VERBALI 236
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aristotele, Opere, [trad. italiana Opere, vol I°, BUR, Laterza, Bari, 1988]
Austin, J.L. (1962), How to do things with words, Oxford University Press, Oxford
Bally, Ch. (1950), Linguistique générale et linguistique française, Francke Verlag, Berne
Benveniste, E. (1946), Structure des relations de personne dans le verbe, in Bulletin de la
Société de Linguistique de Paris, XLIII, fasc. 1,[trad. italiana Struttura delle relazioni di
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2.
Lessico e grammatica
DANIELA GIANI
(Lablita, Università degli Studi di Firenze)
Il verbo dire è tra i verbi più usati nella lingua parlata. Il Lip colloca il verbo
al sedicesimo rango di frequenza di uso in una classifica che vede anche le paro-
le funzionali come articoli e congiunzioni. L’altissima frequenza di questo verbo
impone di vedere quali sono gli usi effettivi nel parlato che la giustifichino.
L’osservazione dell’uso del verbo dire, inoltre, in relazione a quello che viene
considerato, da un punto di vista sintattico, il suo oggetto diretto risulta prezioso
nella ricerca sul discorso riportato, di cui il lavoro presente è parte, in particolar
modo riguardo alla definizione dei vari modi di riporto (diretto, indiretto ecc.).
Il lavoro è basato sull’osservazione dell’uso del verbo dire in un corpus di ita-
liano parlato spontaneo di circa sei ore, campionamento (Cresti 2000) del corpus
di circa quaranta archiviato presso il Laboratorio di linguistica italiana dell’uni-
versità di Firenze (LABLITA).
Il campionamento esaminato è rappresentativo dal punto di vista sociolingui-
stico. In esso, infatti, sono rappresentate la variazione diafasica (il campionamen-
to è composto da testi pubblici e privati, da conversazioni tra due parlanti o più e
in vari rapporti gli uni con gli altri), diastratica (sono stati scelti testi di parlanti di
tutte le età e di tutti i gradi di scolarità, senza tralasciare i linguaggi tecnici legati
all’esercizio delle varie professioni) e diamesica (nel campionamento sono pre-
senti esempi di parlato radiofonico, telefonico, televisivo e cinematografico).
Gli esempi da (i) a (iiia) sono rappresentativi dei problemi inerenti alla distin-
zione tra i vari modi riporto. Se, infatti, prendiamo la definizione dei vari modi di
riporto in base al centro dettico (Mortara-Garavelli 1995) il discorso diretto è il
modo di riporto in cui le coordinate spazio-temporali del discorso originario non
vengono adottate all’hic et nunc al discorso citante, contro il modo indiretto dove
invece si realizza tale adattamento. La definizione, sebbene sia molto efficace per
distinguere il discorso diretto riportato da quello indiretto senza ricorrere a con-
cetti non verificabili nel testo linguistico come la fedeltà all’originale, tuttavia
presenta due ordini di problemi: uno riguarda l’applicazione del criterio al parla-
to e l’altro è di natura sintattica.
L’esempio (i) rappresenta un caso in cui il discorso riportato è una frase atem-
porale e dove, di conseguenza, il criterio del centro deittico non ci viene incontro
240 DANIELA GIANI
sibili costruzioni sintattiche in cui ricorre il discorso diretto riportato. Nelle dislo-
cazioni a destra presentate dall’autrice, ma lo stesso vale anche per quelle a sini-
stra, il verbo dire non può essere sostituito dal verbo fare senza arrivare a risulta-
ti agrammaticali. La distinzione tra i due modi di riporto in base al centro deitti-
co non è, dunque del tutto predittiva riguardo ai verbi compatibili con il discorso
diretto così definito. La spiegazione data (Mortara-Garavelli) per cui ci si trove-
rebbe di fronte ad un uso intransitivo del verbo fare che impedirebbe qualunque
costruzione di tale verbo con un clitico è una descrizione di ciò che avviene e non
dice perché in (ii) il discorso diretto non sia rispetto al suo verbo introduttore nella
stessa relazione sintattica che troviamo in (iii).
La descrizione dei dati offerti dall’analisi della lingua parlata è possibile uti-
lizzando una categoria pragmatica, l’atto linguistico. Secondo la trattazione di
Austin l’atto linguistico si compie nella realizzazione simultanea di tre atti: l’atto
locutivo, l’atto illocutivo e quello perlocutivo.
La teoria della lingua in atto, che rappresenta il quadro teorico del lavoro pre-
sente, (Cresti 2000) lega l’atto locutivo a quello illocutivo attraverso l’intonazio-
ne, l’aspetto della locuzione che veicola l’illocuzione, vale a dire il valore prag-
matico del contenuto conoscitivo espresso, invece, dalle caratteristiche lessicali e
sintattiche della locuzione.
L’unità di analisi del parlato, quella che scandisce il continuum del parlato e
a cui ci si riferisce per lo studio del parlato, è l’enunciato, vale a dire l’“entità lin-
guistica” corrispondente all’entità pragmatica dell’atto linguistico: “quando nella
prassi dello scambio verbale con il proferimento di un’espressione è compiuto un
atto linguistico e quindi in particolare è compiuta un’illocuzione, tale espressione
è un enunciato” (Cresti 2000). L’enunciato, così concepito, è composto necessa-
riamente da un’unità, il comment, autonoma e interpretabile pragmaticamente in
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 241
quanto riguarda il nostro problema, dei casi in cui il verbo dire e il proprio ogget-
to si trovano nella stessa unità informativa e casi in cui il verbo dire si trova in
un’unità informativa diversa rispetto a quello che viene considerato il suo oggetto.
Nel primo caso si tratta di vera e propria reggenza sintattica, mentre nel
secondo si tratterà di una strutturazione informativa. In particolare, quello che
nella strutturazione sintattica è l’oggetto del verbo, quindi in un rapporto di subor-
dinazione con esso, nella strutturazione informativa è il comment, vale a dire l’u-
nità informativa essenziale per costituire un enunciato mentre il verbo si trova in
unità informative accessorie che vedremo nei paragrafi successivi.
In 115 delle 420 occorrenze del verbo dire quest’ultimo è nella stessa unità
informativa del suo oggetto diretto con una casistica piuttosto varia.
In 52 enunciati il verbo dire ha come proprio oggetto sintattico un pronome.
In particolare in 30 casi l’oggetto pronominale è rappresentato da un clitico. In 24
di questi casi la referenza del clitico è deittica, intentendo per referenza deittica la
referenza del clitico che non sia nello stesso enunciato del clitico stesso, vale a
dire nel contesto extralinguistico oppure in un enunciato precedente, come nell’e-
sempio seguente dove il clitico si riferisce a un discorso fatto dall’interlocutore:
Negli altri sei casi, invece, il clitico è coreferenziale a un oggetto che si trova
nello stesso enunciato con costruzione dislocata. Il referente lessicale e il clitico
possono trovarsi sia nella stessa unità informativa come nell’esempio seguente:
sia in unità informative diverse. Gli esempi che seguono mostrano tale even-
tualità. I costrutti dislocati corrisondono a strutture informative tipiche del parlato:
il topic- comment, la modalità parlata di realizzazione della dislocazione a sinistra
oppure comment-appendice che realizza nel parlatao la dislocazione a destra.
3) la prima idea / te l’ho detta //
242 DANIELA GIANI
5) Ha detto questo?
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6) Diciamo così//
Gli esempi da 8 a 10 mostrano la possibile reggenza del verbo dire con ogget-
ti di tipo lessicale e non pronominale.
11) quando dice “lasciate i bambini vengano a me”/ vuol dire …(da
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 243
Omelia)
12) dicono che nel 1490 / evidentemente / Ercole è alla riscossa // (da
Ercole I duca di Ferrara)
13) tutti dicevano queste teste erano false // (da Intercity)
14) disse di avermi visto ad una riunione mafiosa // (da Interrogatori
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in corte d’Assise)
Nel paragrafo precedente abbiamo visto i casi in cui il verbo dire è in rapporto
sintattico con il proprio oggetto. Nel paragrafo presente vedremo, invece, le strut-
ture informative che legano il verbo dire al proprio oggetto quando questo si trova
in altra unità informativa.
Tutte le strutture in questione prevedono che l’oggetto costituisca un com-
ment, vale a dire l’unità d’informazione che veicola l’illocuzione e che, dunque,
possa costituire di per sé un enunciato, mentre il verbo dire si trova in unità infor-
mative accessorie.
Le unità informative interessate alla presenza del verbo dire sono: l’introdut-
tore locutivo, l’inciso e il fatico, unità informative definite sulla base della loro
specificità
a) intonativa,
b) distributiva
c) funzionale.
4.2. L’inciso
1 Non ci dilungheremo sul valore illocutivo del discorso diretto riportato quando costitui-
sce enunciato. Rimandiamo per il problema a Giani 2000.
IL VERBO DIRE NELL’ITALIANO PARLATO: SINTASSI E ARTICOLAZIONE INFORMATIVA 245
17) c’è ogni cinque minuti /’ gli ho detto / il ventitré //” (da Panchina)
18) anche accanto / se qualche volta è necessario [!] / a / diciamo /
gruppi o organizzazioni / locali / di cittadini [!] // (da TG 3)
2 Riguardo alle differenze distribuzionali e alle diverse funzioni, di introduttore e inciso nel
riporto si vedano Scarano-Giani in stampa.
246 DANIELA GIANI
4.3. Il fatico
Il verbo dire, infine, si può trovare nel fatico. L’unità informativa del fatico è
caratterizzata dal punto di vista intonativo da un’esecuzione molto rapida, quasi
accennata e dall’assenza di movimento F0; dal punto di vista distribuzionale tale
unità non ha restrizioni e si può trovare in qualsiasi punto dell’enunciato. Il fati-
co, inoltre, non è una vera e propria unità informativa, ma ciò che si può definire
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un ausilio dialogico che serve a prendere tempo e a mantenere il proprio turno nel
dialogo, ma non a comunicare informazione.
Si vedano gli esempi di seguito:
parlato:
1) dove il discorso diretto è nella stessa unità informativa del verbo dire
2) dove il verbo dire è un introduttore locutivo e il discorso diretto è il
comment dell’enunciato di riporto, con la mimesi dell’intonazione
corrispondente all’illocuzione originale.
3 In Giani 1999 è proposto un sistema di virgolettatura per il parlato che renda ragione della
distinzione tra riporto e discorso diretto che è oggetto sintattico del verbum dicendi. Nel primo
caso il segno di interpunzione all’interno delle virgolette indica la lettura dell’enunciato riporta-
to con l’intonazione corrispondente all’illocuzione originale. Nel caso di una lettura sintattica le
virgolette sono all’interno del segno interpuntivo e l’enunciato riportato viene letto sotto il con-
torno intonativo dell’enunciato citante.
248 DANIELA GIANI
6. CONCLUSIONI
Il verbo dire, a differenza di altri verbi, è legato agli usi metalinguistici nel
parlato e possiamo quindi spiegare il suo larghissimo uso.
Per quanto riguarda il discorso riportato, la nostra ipotesi è quella di propor-
re per il parlato una distinzione tra un discorso riportato che sia in rapporto sin-
tattico con il verbo introduttore e uno che costituisce enunciato in cui il verbo dire
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ELISABETTA JEZEK
(Università degli Studi di Pavia)
a. Proprietà sintattiche
i. numero degli Arg. ‘nucleari’ (1, 2, 3 o 4);
ii. realizzazione sintattica degli Arg. (Sogg.; Ogg. Diretto; Ogg. Indiretto);
iii. posizione degli Arg. nella frase (preverbale, postverbale);
iv. ordine degli Arg. nella frase.
b. Proprietà semantiche
i. tratti semantici singoli ([MOTO]: spostare) o in combinazione ([MO-
TO]+[MANIERA]: pedalare);
ii. tratti aspettuali binari ([+dur] [+tel]: costruire);
iii. tipo di evento espresso dal V (Processo (correre); Stato (possedere) ecc.);
iv. ruolo tematico degli Arg. obbligatori (Ag.; Pt. ecc.);
v. restrizioni sulla selezione degli Arg. ([+anim][-anim] ecc.).
Laddove tale metodologia ha prodotto degli ottimi risultati dal punto di vista
descrittivo, la ricerca più recente in ambito lessicologico ha però progressiva-
mente evidenziato come tale procedimento si riveli insoddisfacente da un punto
di vista esplicativo, data la presenza di numerose classi di parole omogenee dal
punto di vista semantico ma disomogenee dal punto di vista del comportamento
sintattico (o viceversa). Valga come esempio il caso di due V italiani quali corre-
re e camminare, per molti aspetti semanticamente affini, ma che presentano diver-
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se proprietà di complementazione:
Dati tali fatti, la ricerca lessicologica più recente, nel tentativo di individuare
classi di parole, e, nello specifico, di V, privilegia metodologie focalizzate sul-
l’interfaccia tra sintassi e semantica, interessate a come descrivere le correlazioni
tra proprietà semantiche e proprietà sintattiche degli elementi lessicali (cfr. tra i
molti Levin 1993).
In questa linea si colloca il presente contributo, che si pone i seguenti obiettivi:
I. TR
II. INTR AV
III. INTR ES
IV. INTR PRON
CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 253
Tabella 1
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3 Ringraziamo al proposito Vincenzo Lo Cascio, coordinatore del progetto, per aver con-
254 ELISABETTA JEZEK
lista di elementi lessicali per ognuna delle classi in esame. Lo spoglio di tali liste
ha costituito la base dell’analisi.
In questa sede ci limitiamo a presentare il commento di un ‘segmento’ della
classificazione proposta, quello che comprende le classi da 2 a 7 della Tab I (per
un totale di 7 classi), corrispondenti ai V SOLO INTRANSITIVI, verbi cioè che non
presentano mai una forma transitiva ma che possono presentare una o più forme
INTR. Si tratta dei verbi che potremmo definire Intransitivi ‘puri’.
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Figura 1
sono infatti presenti altre quattro classi, costituite da V INTR che alternano tra
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3.2.1. L’Agentività
Vi sono inoltre casi di V INTR che ammettono entrambi gli ausiliari secondo
una distribuzione che conferma nuovamente l’ipotesi:
È presente inoltre anche il caso contrario, quello cioè dei V INTR AV che pre-
sentano un Sogg. [-Agentivo], sia esso animato o non animato:
CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 257
Vi sono infine casi di V INTR che possono presentare entrambi gli ausiliari,
senza che questo comporti una percepibile differenza relativamente al grado di
Agentività del Sogg. (diversi quindi da abortire in (12)):
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Riassumendo, sulla base dei dati discussi, ci sembra di poter affermare che
l’Agentività appare un parametro rilevante ma non sufficiente per rendere conto
della distribuzione dell’ausiliare negli usi intransitivi dell’italiano.
3.2.2. La telicità
Altro criterio utile, per rendere conto dei diversi comportamenti intransitivi
sembra essere un parametro di tipo aspettuale, e, nello specifico, il tratto della teli-
cità6. È stato notato infatti come i V INTR ES esprimano soprattutto eventi [+tel],
laddove i V INTR AV tendono piuttosto ad esprimere eventi [-tel]. Cfr. in (16) i V
ripresi da (3):
1) sul motivo per cui tra i V di moto Agentivi, alcuni selezionano l’ausiliare
avere, altri l’ausiliare essere. Cfr. (13):
(13) a. correre ‘ha corso nel parco per ore’ [+Ag] [-tel]
b. tornare ‘è tornato a casa *per ore8’ [+Ag] [+tel]
diamo per la discussione dei fenomeni indagati in tale quadro teorico. Precisiamo però che nel
contributo citato abbiamo mostrato come i V INTR ES [+SI] costituiscano una sottoclasse dei verbi
inaccusativi e come l’italiano possieda un tipo di verbi inergativi (russare), e due tipi di verbi
inaccusativi, i V INACC [-si] (cadere) e i V INACC [+si] (infortunarsi).
258 ELISABETTA JEZEK
In (13) dati due eventi [+Ag], a. esprime un evento [-tel] e presenta l’ausilia-
re AVERE; b. esprime un evento [+tel] e presenta l’ausiliare ESSERE.
2) sul motivo per cui alcuni V di moto ammettono entrambi gli ausiliari: si
veda nuovamente il caso di correre in (14):
(14) correre a. ‘ha corso nel parco per un’ora/ [+Ag] [-tel]
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*in un’ora’
b. ‘è corso a casa *per un’ora/ [+Ag] [+tel]
in un’ora’
Figura 2
Sulla base dei dati emersi dall’analisi, è plausibile supporre che INTR AV e INTR
ES esprimano due diversi tipi di evento, e che tali eventi possano essere rappre-
sentati come riportato in (15), dove utilizziamo, adattandolo, un formalismo ripre-
so da Pustejovsky 1995, volto a evidenziarne la struttura interna:
3.3. Criteri semantici per l’opposizione tra INTR ES [+SI] e INTR ES [-SI]
Tale ipotesi, emersa dall’analisi comparata delle liste di V INTR ES [+SI] con le
liste di V INTR ES [-SI], sembra supportata da vari test che abbiamo effettuato. Ne
presentiamo brevemente tre:
Test 1.
Cosa è successo a x? [-si] ‘Paolo è scivolato’
‘la macchia è sparita’
[+si] ‘Paolo si è infortunato’
‘il vetro si è appannato’
Il primo test mostra come sia i V INTR ES [-SI], sia i V INTR ES [+SI] risponda-
no positivamente alla domanda ‘cosa è successo a x’, il che permette di afferma-
re che esprimano entrambi un evento telico.
Test 2.
Cosa hai notato? [-si] *ho notato un uomo scivolato
*ho notato una macchia sparita
[+si] ‘ho notato un uomo infortunato’
‘ho notato un vetro appannato’
Il secondo test mostra come solo i participi passati dei V INTR ES [+SI] sem-
brano poter svolgere una funzione aggettivale e indicare il nuovo stato raggiunto
CLASSI DI VERBI ITALIANI TRA SEMANTICA E SINTASSI 261
Test 3.
Rimanere + stato [-si] *Paolo è rimasto scivolato
*la macchia è rimasta sparita
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3.3.2. Eventi sottostanti alle costruzioni con V INTR ES [-SI] e V INTR ES [+SI]
Sulla base dei risultati dei test in 3.3.1, ci sembra plausibile supporre che i V
INTR ES [-SI] e V INTR ES [+SI] esprimano due diversi tipi di evento, di cui propo-
niamo una rappresentazione che ne evidenzia la struttura interna in (19):
interne.
4. CONCLUSIONI
5. PROSPETTIVE DI RICERCA
ne del ‘tornare’.
MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI
(Université de la Sorbonne Nouvelle-Paris III)
Cette étude correspond à un interrogation déjà ancienne sur les relations entre
les verbes de type andar via et les verbes du type andarsene appelés plus tradi-
tionnellement verbes pronominaux. Nous classerons les deux types dans un même
ensemble «les verbes syntagmatiques», reprenant en cela la classification globale
et l’analyse de Raffaele Simone (1997)1. La démarche s’inscrit dans une perspec-
tive de recherche visant à mieux comprendre la co-existence et, sous une appa-
rente synonymie, les incertitudes et les variations, en mettant au centre de la
réflexion l’intervention de l’homme dans le savoir comme dans l’action, en intè-
grant l’aspect affectif et intersubjectif avec la réflexion sur le langage 2.
1. LE CONCEPT DE COMPONENTIALITÉ
La problématique envisagée renvoie au concept de componentialité, systématisé
comme instrument théorique d’investigation par les grammaires catégorielles3. Il s’a-
git pour les grammairiens d’abolir la division entre grammaire et lexique en proposant
la construction d’un réseau architectonique structuré par les propriétés formelles de
réflexivité, de symétrisation et de transivité4, une architecture à plusieurs niveaux de
représentation, entre phonie et sémantique, avec, comme plans intermédiaires, les
conditions de l’énonciation, la perception du milieu, les modalités d’action, les moda-
lités d’interférence, les représentations figuratives, visuelles, iconiques5.
«Les prédicats laissent apparaître des décompositions plus ou moins synthé-
tisées avec des jeux plus ou moins apparents de préfixes (dé-placer, en-dormir)
ou de constructions analytiques (se bouger, faire marcher)»6.
La grammaire catégorielle s’inscrit dans une démarche qui prend son origine
dans les recherches de philosophie logique de Husserl, lui-même héritier de
Bolzano et de Brentano, dont il analyse, élucide et retravaille les concepts pour
préserver et réaffirmer la liberté constitutive de la conscience dans le rapport à la
connaissance:
«Les catégories logiques forment précisément la source de toute science en
tant que telle, donc de toute science selon sa forme théorique.
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Les grammaires catégorielles analysent les relations qui expriment les particu-
larités syntaxiques des langues naturelles en leur affectant un ordre défini par des
lettres. Dans la présentation qu’en donne Jean-Pierre Desclés, la relation (g) traduit
la réduction applicative de «gauche à droite», tandis que l’autre, la relation (h), cor-
respond au modèle RAISING ou LIFTING. Nous reconaissons dans la relation (g) les
verbes du type andar via, dans la relation (h) les verbes du type andarsene.
Les archétypes topologiques de position sont le plus souvent mis en jeu dans
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Tout énoncé peut être analysé selon une visualisation des composantes essen-
tielles d ’un événement que définit le schéma analytique tracé par Bernard Pottier
sous l’inspiration de la théorie des catastrophes de René Thom:
«Une entité existe dans le temps et l’espace. Le point d’existence se déplace
dans le temps et l’espace, et devient une ligne, orientée délibérément de gauche à
droite. L’entité peut également entrer en relation avec le monde objectif, c’est la
localisation, et avec le monde subjectif, c’est le domaine de la cognitivité (des
sensations, de l’intellection, de la modalisation)»12.
Schema
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elèvo, io scelgo tiro su 14. En fait, il n’y a pas véritablement coïncidence séman-
tique entre elevare e tirar su. Tirar su signifie, dans certains contextes, allevare (i
figli) «élever (les enfants)», et comporte une dimension concrète, métaphorique,
expressive de l’effort, qui est absente dans le verbe notionnel.
Les verbes de ce type peuvent être classés selon la nature de leur valeur
sémantique qui coïncide parfois avec la valeur du verbe-tête ou, si le verbe tête est
très polysémique, avec la significations de l’affixe. Elle peut aussi correspondre à
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une valeur prévisible d’après la signification du verbe-tête. Elle peut enfin être
totalement imprévisible. Le verbe peut appartenir à l’une ou l’autre de ces trois
catégories, ou même appartenir à deux, voire à trois.
Dans la 1ère catégorie, la valeur expressive, emphatisante de l’expansion via
est bien illustrée dans le verbe scappare via, Le corse connaît le verbe scappà,
avec le même sens, «s’enfuir», ainsi qu’un substantif composé, u scappa via qui
désigne un attelage élégant destiné à être utilisé par une seule personne,.
Quelques verbes peuvent être rattachés aux trois catégories:
14 Mioni Alberto, “Tra “èlevo” ed “elèvo”, io scelgo “tiro sù” “in Rinascita.
VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 271
(1) Non ce la faccio a fare su e giù per sei mesi, devo chiedere il sab-
batico»
«je ne réussirai pas à faire le va-et-vient pendant six mois, je dois
demander le congé sabbatique»
sont pas sans rapport avec ceux précédemment évoqués. L’emploi de cette forme
correspond au processus de RAISING, mais comporte aussi la simplification
puisque elle évite la répétition d’un syntagme nominal ou d’un proposition (PRU-
NING).
Dans les cas les plus fréquent, ne a une valeur pronominale anaphorique ou
cataphorique:
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Dans l’étude très précise consacrée à ce problème, Patrizia Cordin met sur le
même plan le lieu de départ et le lieu vers lequel on tend16.
(11)
Ni vidi spuntà lu soli
a livanti, alla marina
E pari ch’illu fighjoli
L’orriu li Culioli
Espostu su la collina 18
16 Cordin Patrizia, 1988, «Il clitico «ne», in Renzi Lorenzo, Salvi Giampaolo (a cura di),
Grande Grammatica italiana di consultazione, vol. I, I sintagmi nominali e preposizionali,
Bologna, Il Mulino.
17 Stefanini Jean, 1961, La voix pronominale en ancien français, Gap,, Ophrys, p. 405.
18 Giacomo-Marcellesi Mathée, 1989, Contra-Salvatica, Légendes et Contes du Sud de la
Corse, suivi des Chansons de Ghj. Andria Culioli, Aix-en-Provence, Edisud, p. 121.
274 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI
En un autre partie du corpus, une éducatrice raconte l’histoire des sept che-
vreaux, La narrazione della storia dei 7 capretti
19 Cresti Emanuela, 2000, Corpus di italiano parlato, 2 vol. vol. II, «Campioni,» Firenze,
Accademia della Cruca.
20 Battaglia e Pernicone, Grammatica italiana, Torino, Loescher, p. 179.
VERBES SYNTAGMATIQUES, REPRÉSENTATIONS MENTALES 275
la solitude des chevreaux, une fois la mère partie. Cette construction du type
andarsene «s’en aller», est donnée fréquemment comme exemple pour illustrer la
force de l’être humain, dans un univers où il n’a pas de place, pour s’en créer
une 21.
ser de façon absolue les différents éléments des catégories grammaticales pré-
existantes naît du caractère discutable de l’interprétation en terme de complé-
ments d’objets directs ou compléments directs partitifs. En règle générale, la co-
référence du sujet et du verbe est la source de confusion des fonctions actanciel-
les, avec leurs problèmes d’indétermination, mais cette confusion peut être aussi
la source des effets sémantiques importants qui justifient, jusqu’à un certain point,
la tentative de définir une troisième voie, la voie réfléchie, entre voix active et voie
passive.
CONCLUSION
Incomplète est la démarche mais elle sera poursuivie pour essayer de répondre à
la question initiale. Les résultats obtenus peuvent paraître disproportionnés eu
égard à l’ambition des approches théoriques. Ils montrent cependant comment l’ê-
tre de parole s’efforce à l’infini de dépasser par l’expression la finitude de sa
condition.
21 Authier-Revuz Jacqueline, 1995, Ces mots qui ne vont pas de soi, Boucles réflexives et
non-coïncidences du dire, Paris, Larousse.
276 MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI
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1. INTRODUZIONE
Il verbo fare, certamente uno dei prototipi della categoria grammaticale del
verbo in italiano, è al centro di un formidabile intreccio di sintassi e semantica.
Esso è presente in un elevato numero di costrutti e può assumere una grande
varietà di significati, così come testimoniano le numerose pagine che ogni buon
dizionario dedica alla voce fare. Il presente lavoro ha come oggetto una modesta
ma significativa porzione di tale intreccio e prende come punto di partenza espres-
sioni come (1), la cui struttura superficiale può essere indicata come in (2), con
N0 a indicare il soggetto della proposizione e N1 a rappresentare il sintagma post-
verbale (in caso di ordine lineare non marcato)1:
* Ringrazio Nunzio La Fauci e Silvia Pieroni per i loro commenti su una precedente stesu-
ra di questo lavoro. Una versione diversa è stata presentata al XIX International Colloquium on
Compared Lexicons and Grammars, tenuto a Ericeira, in Portogallo (18-20 settembre 2000). In
quell’occasione ho beneficiato di alcuni commenti di Michele Di Gioia e Claude Muller, che rin-
grazio vivamente, e di Maurice Gross, alla cui memoria dedico queste pagine.
1 È la notazione utilizzata nel quadro Lessico-grammatica (v. Gross 1975). Con il simbolo
N1 viene qui indicata o la testa del sintagma post-verbale oppure l’intero sintagma.
2 In questo significato, così come negli altri, è irrilevante che Nino sia un medico o meno.
278 IGNAZIO MAURO MIRTO
(4) e (5) hanno entrambe l’aspetto di proposizioni transitive e in esse fare assu-
me significati diversi. Si potrebbe sostenere che tali significati non dipendono da
strutture diverse, ma dalle conoscenze pragmatico-enciclopediche del parlante. Tali
conoscenze svolgono certamente un ruolo nella semantica di queste proposizioni.
Ad esempio, in (5) il significato attivato sarà quello legato al costrutto-scena se si è
a conoscenza del fatto che Sordi è un attore. Anche le conoscenze pragmatiche pos-
sono entrare in gioco, come si vedrà più avanti. Né le une né le altre, però, rendono
conto di una serie di proprietà presenti in CS, ma assenti in CM. Si tratta di prove
empiriche che testimoniano di differenze strutturali tra le proposizioni alla base dei
due significati e che esamineremo nella sezione che segue.
2. PROPRIETÀ EMPIRICHE
3 Un’analisi del costrutto francese parallelo a (3c), con N aggettivale o nominale, si può
1
trovare in Giry-Schneider 1984. Secondo quanto indicato in Yule (1997: 81), il costrutto è pos-
sibile anche in alcune varietà d’inglese: [John is] doing the nasty.
4 Le esemplificazioni del costrutto-scena saranno indicate ponendo ‘CS’ accanto al nume-
ro dell’esempio, quelle del costrutto-mestiere saranno invece indicate con ‘CM’. Allo scopo di
renderli più espliciti, in alcuni esempi è stato inserito un circostanziale.
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 279
2.3. Nel costrutto-mestiere risulta improbabile anche l’uso di avverbi come spes-
so, che sono invece utilizzabili nel costrutto-scena, come si può osservare in (9):
5 La proposizione con chi è ambigua: Max e chi possono alternativamente essere sia N0 che
N1.
280 IGNAZIO MAURO MIRTO
2.7. Nel caso in cui N1 sia un nome mobile, l’accordo tra N0 e N1 può distin-
guere CS da CM:
(15/CS), appropriata nel caso in cui l’attore Max interpreti un ruolo femmini-
le, è ben formata. Di contro, nel costrutto-mestiere soggetto e sintagma post-ver-
bale devono condividere il genere, così come accade con proposizioni copulative
come Gianni è un poliziotto / *una poliziotta 8.
2.8. Un’ulteriore differenza tra i due costrutti concerne l’uso dell’articolo par-
titivo nel sintagma post-verbale, illustrato in (16):
2.9. N1 può contenere una relativa restrittiva nel costrutto-scena. Nel costrut-
to-mestiere, però, tale presenza produce una proposizione malformata:
Tabella 1
fasi:
Il processo in (21) non blocca né l’articolo indefinito per N1 né, tanto meno,
elementi come sé stesso, te, Romeo.
zero o con un articolo indefinito (Gianni è (un) idraulico), e il tipo definibile come ‘equaziona-
le’, con articolo definito o nome proprio di persona (Gianni è l’idraulico)). Come è noto, esi-
stono test atti a distinguere formalmente i due tipi. Ad esempio, per il tipo equazionale: (a) la
posizione dei due SN può essere invertita (L’idraulico è Gianni) senza determinare un ordine
marcato (ma v. Hurford e Heasley (1983: 40-1), Moro 1997); (b) in presenza di una negazione,
i due SN non sono coreferenziali (Parigi non è la capitale dell’Inghilterra).
14 Nel costrutto-mestiere i nomi mediatori possono essere almeno due: mestiere e profes-
sione (v. La Fauci e Mirto 1999).
284 IGNAZIO MAURO MIRTO
variazione stilistica. La tabella 2, che ripete i test della tabella 1 16, registra che
fare e interpretare sono perfettamente intercambiabili senza conseguenze seman-
tico-sintattiche17:
Tabella 2
proxy di fare non è limitata ai suoi rapporti con interpretare, come mostrano i casi
in (26):
In questi casi non esiste distinzione tra le proposizioni con fare e quelle in cui
compare un verbo più specifico. Le proposizioni con fare mostrano una qualche
indeterminatezza semantica e necessitano quindi di contesti sufficientemente
espliciti, tali da non enfatizzare l’ambiguità. Tuttavia, la sostituzione del verbo
specifico con il proxy non ha effetti né sul carattere eventivo della proposizione né
sulla referenzialità di N1.
Le modalità della sostituzione rimangono in gran parte da investigare. Alcune
caratteristiche necessarie sono comunque identificabili: (a) il soggetto deve esse-
re umano (o, almeno, animato), (b) la struttura deve contenere un oggetto diretto.
(b) è necessaria ma non sufficiente: verbi transitivi quali vedere e tradire non sono
sostituibili: Gianni vide Mario ≠ Gianni fece Mario, Gianni tradì Luca ≠ Gianni
fece Luca 18. Nelle proposizioni in (26), la sostituzione con il proxy è un’opera-
una fune), ma non necessariamente, come mostrano (26 a-e), in cui il tratto [+concreto] del-
l’oggetto diretto sembra non essere .
19 Sugli usi sostitutivi di faire in medio e antico francese e di do in inglese, cfr. Miller 1997.
20 Il dialogo è tratto da un’intervista a Charles M. Schutz.
21 Un caso peculiare in italiano è quello del verbo effettuare, che sembra avere soltanto fun-
zione di variante accurata (nel linguaggio burocratico) di fare: effettuare (un pagamento + una
misurazione + un progetto), il treno effettua solo tre fermate (esempi tratti da Il dizionario della
lingua italiana di De Mauro). Il caso è probabilmente più complesso di quanto non appaia, in
quanto fare è qui analizzabile come verbo supporto.
288 IGNAZIO MAURO MIRTO
Tabella 3
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Allo stesso titolo, una rappresentazione grammaticale dei due costrutti dovrà
rendere conto:
22 Ciò vale anche per un caso diverso di fare proxy, quello di costrutti medi come (a)
Daniela si è fatta (= mangiata, preparata) un panino e (b) Gianni si è fatto (= comprato, costrui-
to) la macchina. Alla luce dell’analisi condotta in La Fauci (1984: 224-6), che attribuisce a sin-
tagmi post-verbali come un panino e la macchina la condizione di oggetti diretti iniziali della
struttura, la possibilità di usare fare come proxy non dovrebbe sorprendere, in quanto la struttu-
ra possiede entrambe le caratteristiche indicate: presenza di un soggetto umano e di un oggetto
diretto (che non deve essere necessariamente finale). I due possibili significati di fare in (b) sol-
levano un interessante problema: la corrispondente proposizione transitiva Gianni ha fatto la
macchina ne consente infatti soltanto uno (fare = costruire).
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 289
7. CONCLUSIONE
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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La Fauci Nunzio, 1984, ‘Sulla natura assolutiva del controllore dell’accordo del participio
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Yule George, 1997, Introduzione alla linguistica, Bologna, Il Mulino.
CHE FARE? ANALISI DI COSTRUTTI DI UN VERBO CRITICO IN ITALIANO 291
DIZIONARI
1. PROLOGO
Pur essendo la bibliografia sulle proprietà categoriali del verbo molto ampia,
e nonostante l’argomento abbia una storia che di fatto coincide con la storia della
riflessione linguistica, il dibattito su quali debbano essere i tratti inerenti al verbo,
e di che natura debbano essere, è tutt’altro che concluso (cfr. Sasse 1993; Ramat
1999; Bybee 2000). Ciò dipende da una parte dall’aumento di dati a disposizione
su un numero sempre maggiore di lingue, e dall’altra dall’assunzione di nuovi
punti di vista.
Un nuovo impulso a questo tipo di riflessioni e indagini deriva oggi dalle
ricerche di neuropsicologia e psicologia del linguaggio che negli ultimi decenni
hanno dedicato ampio spazio allo studio dei correlati neurali e delle rappresenta-
zioni mentali delle diverse parti del discorso. Tali ricerche sono state condotte su
individui adulti con o senza disturbi acquisiti del linguaggio e hanno indagato
soprattutto le prestazioni in compiti di riconoscimento, comprensione, produzio-
ne, lettura e scrittura.
In questo intervento presenteremo alcuni dati che provengono da lavori di neu-
ropsicologia, linguistica e psicologia del linguaggio che mostrano alcune convergen-
ze, ci pare, non casuali. Come risulterà chiaro nel corso dell’esposizione, il nostro
scopo non è quello di offrire un panorama delle ricerche in corso in questi diversi
ambiti disciplinari, ma illustrare i temi e le questioni di maggiore interesse comune
relativamente all’individuazione dei tratti pertinenti per la definizione del verbo.
Riteniamo, infatti, che la linguistica, la psicologia e la neurologia del linguaggio
lavorino, di fatto, su molti temi comuni e che una maggiore interazione tra queste
discipline permetterebbe di cogliere elementi nuovi non banali e non casuali.
su pazienti sia con lesioni focali, sia con disturbi degenerativi, concordano sul
fatto che i diversi tipi di deficit sono connessi a localizzazioni diverse dell’area
cerebrale danneggiata e fanno ipotizzare l’esistenza di correlati neurali specifici
di classi morfosintattiche di parole, le parti del discorso (Cappa, Perani in corso
di stampa; Caramazza, Shapiro in corso di stampa). Non è questa la sede per
discutere di queste questioni per le quali rimandiamo agli articoli citati e all’am-
pia bibliografia in essi riportata, è utile invece soffermarsi sul tipo di dati speri-
mentali a disposizione e sulla loro rilevanza ai nostri fini: una migliore definizio-
ne delle proprietà categoriali del verbo.
Il punto che appare più interessante è il fatto che i disturbi nell’uso di alcune
classi di parole possono essere presenti in alcuni usi linguistici e non in altri. In
primo luogo, vi sono casi di pazienti con disturbi acquisiti del linguaggio a segui-
to di lesioni cerebrali che manifestano serie difficoltà nell’uso di alcune classi di
parole in produzione, ma non in comprensione e viceversa: ciò vuol dire che un
paziente può avere difficoltà nel produrre verbi, ma non nel capirli o viceversa. In
secondo luogo, l’uso di alcune classi di parole può manifestarsi in modo disuguale
a secondo della modalità di discorso usata, per esempio nello scritto e non nel par-
lato, o viceversa. Infine i due tipi di deficit possono apparire insieme: vi sono cioè
casi di pazienti che pur manifestando serie difficoltà nella produzione di una
determinata classe di parole nel parlato e/o nello scritto, non manifestano nessun
deficit nella comprensione.
I casi di tre diversi pazienti cerebrolesi con disturbi acquisiti del linguaggio
possono chiarire meglio il tipo di dati a disposizione. Un primo caso, riportato in
Rapp e Caramazza (1997), è quello di un paziente cerebroleso (PBS) con distur-
bi acquisiti del linguaggio che quando parla usa con estrema difficoltà quasi tutte
le parole, tranne i verbi e quelle funzionali, mentre quando scrive mostra un'as-
senza quasi totale di parole funzionali, ma un uso relativamente normale dei
nomi.
Un secondo caso, citato in Rapp e Caramazza (1998), è quello di un pazien-
te cerebroleso (PW) con disturbi acquisiti del linguaggio che era in grado di
produrre nomi e verbi normalmente nel parlato (per esempio nei compiti di
denominazione e di descrizione di una scena), ma che aveva serie difficoltà nel-
l’usare i verbi quando svolgeva gli stessi compiti per iscritto. Un terzo caso,
riportato in Hillis e Caramazza (1995), è infine quello di una paziente (EBA)
che, malgrado il suo discorso fosse fluente, presentava gravi difficoltà nel pro-
durre e leggere nomi oralmente, mentre non sembrava avere problemi nel pro-
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 295
durre i verbi. Inoltre EBA non aveva difficoltà nella comprensione dei nomi sia
quando le erano presentati oralmente sia quando le erano presentati per iscritto.
EBA mostrava quindi una comprensione normale sia dei nomi sia dei verbi in
entrambe le modalità (orale e scritta), ma un grave deficit nella produzione orale
solo dei nomi.
I tre casi riportati, benché non esauriscano la casistica riportata in letteratura,
mettono in evidenza alcuni elementi ricorrenti: le dissociazioni tra nomi e verbi,
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anche se possono essere spiegate in alcuni casi da variabili semantiche (in base a
un’opposizione tra nomi di oggetti e nomi di azioni) e in altri casi da variabili
morfosintattiche (in base a un’associazione tra disturbi dei verbi e disturbi delle
parole funzionali), in un numero non trascurabile di casi dipendono da un distur-
bo selettivo della classe grammaticale, a volte nella sola modalità scritta o nella
sola modalità parlata.
Non esistono interpretazioni definitive ed unanimi dei dati esposti. Vi sono
tuttavia due principali ipotesi di ricerca nella letteratura degli ultimi anni. Un
cospicuo numero di studi ha indagato la possibilità che i deficit registrati dipen-
dano da proprietà specifiche delle classi di parole coinvolte. In particolare si è cer-
cato di capire se gli usi deficitari potessero essere attribuiti a difficoltà nell’acces-
so alle proprietà morfologiche, semantiche o sintattiche delle varie parti del
discorso (Bates et al. 1991). Il primo risultato di questi studi sperimentali è stato
quello di allargare e approfondire il campo di indagine possibile. Se in prima bat-
tuta si sono indagati prevalentemente gli aspetti semantici, oggi esistono ricerche
che studiano in dettaglio aspetti sempre più sofisticati, come le proprietà argo-
mentali o distinzioni semantiche più sottili (Breedin, Martin 1996). Il secondo
risultato di queste indagini è stato quello di mettere in evidenza la forte interdi-
pendenza delle proprietà indagate. La maggior parte delle indagini concorda sul
fatto che anche quando si individua la rilevanza di una determinata proprietà cate-
goriale, poniamo semantica, non si può escludere il concorso delle altre. In
sostanza anche la neuropsicologia del linguaggio, seguendo un percorso simile a
quello della linguistica, è concorde sul fatto che la definizione della classe verbo
non può che essere multidimensionale.
Una seconda ipotesi di ricerca è quella che cerca di spiegare i dati attribuen-
doli ad un effetto di classe grammaticale (Caramazza, Hillis, 1991; Rapp, Ca-
ramazza 1997). Il ragionamento è in sostanza il seguente: attribuire i deficit in
esame a difficoltà nell’accesso a specifiche proprietà morfologiche, sintattiche e
semantiche non è sufficiente. Ciò, infatti, non spiega come mai alcuni pazienti
governino perfettamente la morfologia, la semantica e la sintassi per esempio dei
verbi in alcuni usi e non in altri, nel parlato, ma non nello scritto. L’esistenza di
questo tipo di disturbi selettivi farebbe propendere piuttosto per l’idea che la clas-
se verbo (ma questo vale anche per altre parti del discorso, per esempio i nomi)
abbia una rilevanza per sé, che cioè la classe grammaticale sia un principio orga-
nizzativo del lessico.
296 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA
3. LE RICERCHE LINGUISTICHE
Esistono vari studi linguistici sulle differenze nell’uso dei verbi, e di altre
parti del discorso, in testi diversi e in modalità diverse. Si tratta per lo più di studi
di tipo quantitativo su corpora di varie lingue, non solo indoeuropee (Voghera in
corso di stampa), che mostrato che il parlato e lo scritto manifestano un uso e una
frequenza d’uso sistematicamente diversa di verbi e di nomi. In particolare si è
mostrato che i testi tipicamente parlati, cioè i testi dialogici spontanei, presentano
più verbi e meno nomi, mentre i testi tipicamente scritti, cioè i testi monologici
formali, presentano più nomi e meno verbi. In questo paragrafo riporteremo alcu-
ne ricerche recenti per indagare se l’esistenza di differenze quantitative nasconda
differenze di altra natura.
Presentiamo qui dei dati sull’uso dei verbi, confrontando i testi parlati e scrit-
ti più tipici, rispettivamente del LIP e del LIF, ciò che, usando la ormai classica
terminologia di Nencioni (1983), chiamiamo parlato-parlato e scritto-scritto. I
testi del LIP comprendono cinque diversi tipi di testo graduabili su una scala che
va dal più al meno dialogico e dal testo che concede la massima libertà di presa
di parola al testo che meno la consente. I cinque tipi sono: conversazioni faccia a
faccia, conversazioni telefoniche, interviste e interrogazioni, monologhi, testi
radio-televisivi. È evidente che pur essendo tutti testi di parlato spontaneo a pieno
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 297
titolo (sono stati esclusi i testi di parlato-letto o recitato), si tratta di testi che dif-
feriscono molto tra loro. In sostanza potremmo dire che mentre le conversazioni
faccia a faccia e quelle telefoniche sono testi per definizione non pianificati, gli
altri tre tipi di testo prevedono un certo grado di pianificazione precedente all’e-
nunciazione. Abbiamo quindi considerato parlato-parlato le conversazioni faccia
a faccia e quelle telefoniche.
Il corpus del LIF aveva lo scopo di essere rappresentativo dell’italiano nel suo
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complesso e non dell’italiano scritto in particolare. Per questo motivo gli autori
hanno incluso anche testi poco rappresentativi dello scritto in quanto tale, ma che
potessero offrire un ampio panorama di usi. I testi inclusi nel corpus del LIF sono:
romanzi, sussidiari, periodici, copioni cinematografici e copioni teatrali. Ai nostri
fini abbiamo ritenuto più corretto considerare scritto-scritto solo i testi monolo-
gici formali: sussidiari e i periodici. Riporteremo, infine, dati separati sui roman-
zi, che pur essendo testi scritti tipici, presentano caratteristiche diverse rispetto
agli altri due tipi considerati.
I dati che qui presentiamo si basano sul vocabolario fondamentale, cioè sui
primi 2000 lemmi in ordine di frequenza. L’idea di considerare la fascia ad alta
frequenza deriva da considerazioni quantitative e linguistiche. Dal punto di vista
quantitativo il vocabolario fondamentale si può ritenere rappresentativo dell’inte-
ro corpus. Esso copre più del 90% dell’intero corpus del LIP e del LIF. Nei primi
2000 lemmi vi sono rispettivamente il 53% e il 43% di tutti i lemmi verbali del
LIP e del LIF, le cui occorrenze sono rispettivamente il 94% e il 92% di tutte le
occorrenze verbali del LIP e del LIF. Da un punto di vista linguistico, ci è parso
opportuno considerare la fascia di frequenza che il parlato e lo scritto maggior-
mente condividono, convinti che le differenze che si manifestano in questa fascia
abbiano un peso maggiore, rispetto a quelle che si possono trovare nelle basse fre-
quenze, nel caratterizzare il parlato e lo scritto.
Un’attenta valutazione del peso che i verbi hanno nelle diverse modalità di
discorso deve distinguere gli aspetti più propriamente lessicali da quelli sintatti-
co-discorsivi, che derivano dai vincoli imposti alla struttura sintattica dalla strut-
tura dell’informazione (distinzione tra elementi tematici e rematici). È quindi
necessario valutare separatamente i due diversi ambiti attraverso misure diverse:
da un lato, considereremo la numerosità dei lemmi e delle forme verbali, che è
indice della ricchezza lessicale dei vari tipi di testi, e, dall’altra, la frequenza delle
occorrenze verbali, che è indice dell’uso effettivo dei verbi nell’andamento sin-
tattico-discorsivo nei vari tipi di testi. Sarà proprio il confronto tra queste varie
misure che metterà in luce aspetti interessanti.
298 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA
Grafico 1
Numerosità dei lemmi verbali e frequenza d’occorrenza dei verbi nel LIP e nel LIF*
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* I dati considerano la frequenza di tutti i verbi, esclusi quelli ausiliari. Ricordiamo inoltre che si con-
sidera qui solo la porzione del vocabolario fondamentale.
Come si vede dal Grafico 1, esistono delle differenze tra numerosità dei
lemmi verbali e frequenza di occorrenza dei verbi. Le analisi statistiche effettua-
te a tale proposito confermano che le percentuali di lemmi e occorrenze seguono
due andamenti significativamente differenti nel parlato e nello scritto (c2(1)=
23.3, p<.0001). Se osserviamo la colonna dei lemmi, lo scritto presenta un nume-
ro più alto di lemmi di 7 punti in percentuale circa rispetto al parlato. Se invece
consideriamo la frequenza d’occorrenza dei verbi nei testi, il parlato presenta più
verbi dello scritto, con una differenza di circa 6 punti in percentuale.
Il primo dato interessante è rappresentato dal fatto che la consistenza nume-
rica dei verbi è molto diversa nel parlato e nello scritto: ciò fornisce una base
empirica all’idea che la variazione della modalità di discorso sia connessa ad un
diverso peso dei verbi nei vari tipi di testo. Si tratta di differenze sistematiche regi-
strate anche in altre lingue, come l’inglese e il tedesco (Biber et al. 1999; Miller,
Weinert 1998), e per altre classi di parole.
La maggiore numerosità dei lemmi verbali nello scritto conferma l’opinione
espressa da più parti secondo la quale lo scritto manifesta una maggiore varietà e
ricchezza lessicale del parlato (Plag et al. 1999), che si manifesta anche per altre
parti del discorso, per esempio i nomi (Voghera in corso di stampa). Un altro indi-
ce della varietà e ricchezza lessicale dello scritto è tra l’altro il maggior numero
di forme verbali diverse presenti nel LIF (Giordano, Voghera 2002), come si vede
dal grafico 2.
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 299
Grafico 2
Numero di forme verbali diverse nel LIP e nel LIF
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Il numero delle forme, ancor più del numero dei lemmi, ben rappresenta la
maggiore varietà dello scritto: mentre nel parlato si registrano mediamente 5,8
forme per ogni lemma, nello scritto il numero medio di forme per lemma sale a
7,6 1.
Non c’è tuttavia una relazione direttamente proporzionale tra ricchezza lessi-
cale e frequenza dei verbi nei testi: il parlato usa, infatti, più verbi di quanti non
ne usi lo scritto, e ciò accade indipendentemente dal numero di lemmi e delle
forme distinte. La maggiore frequenza d’uso dei verbi nel parlato può natural-
mente dipendere da numerosi fattori. Ci pare tuttavia che si possa escludere che il
maggiore uso di verbi dipenda da fatti esclusivamente semantici. L’analisi dei
lemmi verbali dei verbi usati nel LIP e nel LIF non fa emergere differenze seman-
tiche vistose tra le due modalità. Da un’analisi svolta da Giordano e Voghera
(2002) sul sistema verbale del parlato e dello scritto si ricava che i lemmi verbali
più usati nel LIP e nel LIF coincidono e che le differenze maggiori sono soprat-
tutto differenze di rango. Se si guarda, quindi, al vocabolario di base, la semanti-
ca dei verbi del parlato e dello scritto non sembra divergere in modo rilevante. Dai
dati a nostra disposizione non sembrerebbe giustificata l’idea di Halliday (1989)
secondo cui il maggior numero dei verbi nel parlato avrebbe origine dal fatto che
“(…) speech and writing impose different grids on experience. There is a sense in
1 È utile sottolineare inoltre che la differenza tra il numero di forme per lemma nel parlato
e nello scritto è inversamente proporzionale al rango del lemma (Giordano, Voghera 2002).
300 MIRIAM VOGHERA – ALESSANDRO LAUDANNA
which they create different realities. Writing creates a world of things; talking
creates a world of happening” (Halliday 1989: 93).
Appare invece più convincente, e confermato da numerose ricerche in tutte le
lingue studiate sotto questo aspetto (Biber 1995), che il maggior uso di verbi
dipenda dalla tipica struttura sintattico-discorsiva del parlato e, in ultima analisi,
dalle condizioni ideative e di produzione e ricezione del dialogo. L’avvicenda-
mento dei turni, la discontinuità locutiva e tematica creata dall’inserzione di altri
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parlanti e dalle sovrapposizioni con altri parlanti fanno sì che si tenda a produrre
piccole porzioni di testo alla volta. La sintassi del dialogo risulta in tal modo, per
dir così, leggera: un susseguirsi di clausole brevi connesse le une alle altre in
modo seriale e non gerarchico. La struttura seriale permette sia al parlante sia
all’ascoltatore di procedere aggiungendo un po’ di informazione alla volta senza
dover sovraccaricare la memoria. Clausole brevi significa spesso, per una lingua
come l’italiano, clausole costituite da soli sintagmi verbali o clausole con copula.
Lo dimostra, tra l’altro, il fatto che la terza persona singolare del verbo essere, è,
copre da sola il 10,3% di tutte le occorrenze verbali del parlato-parlato, contro il
6,9% dello scritto-scritto.
A ciò si deve aggiungere il fatto che i verbi sono perlopiù elementi rematici
che possono cioè costituire il comment di un topic dato nel contesto materiale o
ideale condiviso dai parlanti, senza dover essere necessariamente richiamato ver-
balmente (Sornicola 1981; Berretta 1994; Brazil 1995). È stato infatti da più parti
notato che le condizioni enunciative del parlato permettono di saturare le valenze
del verbo con elementi deittici, come i pronomi, ma anche con elementi non ver-
bali, cioè con elementi del contesto. Ciò può naturalmente avvenire anche attra-
verso l’uso di aggettivi e di nomi, per esempio nelle frasi nominali, ma di fatto
avviene più frequentemente attraverso l’uso di verbi2. L’insieme di questi fattori
spiega inoltre forse più chiaramente il ridotto numero di costituenti nominali nel
parlato rispetto allo scritto notato in più ricerche (Halliday 1989; Biber 1995;
Miller, Weinert 1996; Biber et al. 1999).
La rilevanza dei fattori discorsivi è confermata del resto dal fatto che la per-
centuale di occorrenza dei verbi è direttamente proporzionale al grado di dialogi-
cità e inversamente proporzionale al grado di pianificazione dei testi (Voghera in
corso di stampa). La frequenza dei verbi si riduce nei testi parlati dialogici con un
più alto livello di pianificazione, mentre aumenta nei testi scritti che presentano
porzioni dialogiche. Nei testi parlati dialogici con presa di parola non libera, come
le interviste, i dibattiti, le interrogazioni, le occorrenze verbali sono infatti circa il
16% contro il 20% circa del parlato-parlato, e nei romanzi i verbi arrivano al
16,8% contro il 13,7% dello scritto-scritto 3.
2
Sulla percentuale di frasi nominali nel parlato si veda Voghera 1992.
3
La rilevanza delle parti dialogiche per la frequenza dei verbi nei romanzi è stata notata
anche per l’inglese da Johansson e Hofland (1989).
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 301
vista lessicale questo significa nella maggior parte dei casi più verbi e meno nomi.
I dati linguistici offrono quindi una base empirica all’idea che il verbo abbia
effettivamente una diversa salienza nel parlato rispetto allo scritto.
modo, per esempio aprire. Questo accade perché il parlante scompone le parole e
questa scomposizione produce un’ambiguità, la cui risoluzione richiede più
tempo e induce maggiormente in errore. L'effetto viene interpretato come il risul-
tato di una competizione a livello lessicale, dovuta all'identità formale delle radi-
ci delle due parole (sparito vs. sparava).
Abbiamo misurato se sussistono differenze nella direzione e nell'entità del-
l'effetto di omografia di radice tra target verbali e nominali: la presenza di tali dif-
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ferenze potrebbe indicare un diverso peso dei fattori morfologici nel riconosci-
mento dei verbi rispetto, per esempio, ai nomi. I risultati del compito di decisio-
ne lessicale hanno mostrato un effetto significativamente maggiore di interferen-
za sui verbi (35 millisecondi) rispetto ai nomi (13 millisecondi).
Grafico 3
Tempi di riconoscimento dei target nominali e verbali nelle diverse condizioni
sperimentali
Nel grafico 4 si vede bene che il tempo di decisione lessicale è sempre mag-
giore nelle coppie omografe, ma che la differenza tra le coppie omografe del tipo
sparito/sparava (sede/sedare, stile/stilare) e le coppie non omografe del tipo apri-
re/sparava nei verbi è maggiore e statisticamente significativa, mentre è inferiore
e non significativa statisticamente nei nomi.
Tali risultati forniscono un sostegno empirico all’ipotesi che le rappresenta-
zioni lessicali di input incorporano informazione circa la classe grammaticale
delle parole, anche indipendentemente dalle proprietà semantiche che a queste
corrispondono. I parlanti cioè mettono in atto strategie di riconoscimento diverse
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 303
dipendenti dalla classe grammaticale cui le parole appartengono. Inoltre, per ciò
che riguarda i verbi, le rappresentazioni lessicali sono presumibilmente scompo-
ste in radici + suffissi e sono funzionalmente distinte dalle rappresentazioni dei
nomi che invece non sono scomposte.
È possibile interpretare questi dati sulla base del diverso valore dei suffissi
flessivi verbali rispetto a quelli nominali. La rappresentazione composizionale del
verbo in radice+suffissi potrebbe derivare dal fatto che i suffissi sono immagazzi-
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nati separatamente dalle radici verbali poiché i parlanti sono sensibili alla loro
natura prevalentemente sintattica. I suffissi flessivi di persona e numero sono,
come è ovvio, totalmente dipendenti dal contesto sintattico (Booij 1996) in cui il
verbo è usato e non possono essere considerati propriamente caratteristiche lessi-
cali. Anche adottando un modello che preveda che nel lessico siano presenti tutti
i tratti morfologici che caratterizzano ciascuna unità lessicale (Chomsky 1993),
questi risultati suggeriscono che i tratti associati al verbo svolgono nell’identifi-
cazione lessicale del verbo un ruolo diverso rispetto a quello svolto nell’identifi-
cazione del nome. Ciò può forse essere attribuito al fatto che i tratti morfologici
assegnati al verbo sono portatori di categorie funzionali più forti e più fortemen-
te identificabili come elementi non inerenti la radice lessicale.
I dati di psicologia del linguaggio, benché richiedano ulteriori analisi, per-
mettono quindi di sostenere che i parlanti adottano procedimenti di riconosci-
mento diversi per i verbi rispetto ad altre classi di parole. Ancora una volta sem-
bra confermata l’idea che il verbo ha una sua specifica riconoscibilità e salienza e
che la classe grammaticale è un principio organizzativo del lessico.
5. CONCLUSIONI
quenti nei testi tipicamente parlati, come le conversazioni, e meno frequenti nei
testi tipicamente scritti, monologici e fortemente pianificati. È dunque la diversa
fisionomia sintattico-discorsiva delle due modalità a determinare una salienza
diversa del verbo nel parlato e nello scritto. Ciò è evidentemente connesso al tipo
e al numero di significati grammaticali associati ai verbi che permettono loro di
svolgere la funzione di comment anche in assenza di elementi tematici espliciti. È
naturalmente possibile che le proprietà che paiono basiche nel parlato non lo siano
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ugualmente in tutti i contesti d’uso. È sempre bene tuttavia tenere a mente che
“natural languages are primarily designed, so to speak, for use in face-to-face
interaction, and thus there are limits to the extent to which they can be analysed
without taking this into account” (Levinson 1983: 54).
La rilevanza delle caratteristiche morfosintattiche del verbo sembra emergere
dalle ricerche di psicologia del linguaggio. Dati sperimentali mostrano l’esisten-
za di una rappresentazione lessicale propria dei verbi, diversa per esempio da
quella dei nomi, connessa probabilmente al diverso ruolo dei suffissi flessionali
associati al verbo: i parlanti procedono diversamente al riconoscimento dei verbi
grazie al particolare peso che le categorie funzionali assumono in questa classe di
parole.
L’insieme di questi dati non è di facile e immediata interpretazione, ci pare
però che siano possibili alcune conclusioni provvisorie. In primo luogo, emerge
abbastanza chiaramente che, per avere un quadro realistico delle proprietà delle
parti del discorso, è necessario considerare il loro uso in un ampio numero di con-
testi. L’osservazione della varietà d’uso permette, infatti, di cogliere aspetti che
altrimenti rimarrebbero in ombra o sottospecificati. Il confronto tra il parlato e lo
scritto ha evidenziato che l’uso dei verbi è fortemente condizionato dai vincoli
enunciativi propri delle due modalità di discorso. La differenza tra modalità
discorso non è evidentemente l’unico tipo di varietà da considerare. Riteniamo
però che ciò può fornire tra l’altro una possibile linea interpretativa anche dei dati
afasiologici: il fatto che alcuni parlanti afasici preservino i verbi quando parlano
può essere connesso allo specifico ruolo sintattico-discorsivo svolto nel discorso
parlato.
In secondo luogo, il fatto che l’uso dei verbi nel parlato sia da attribuire a fat-
tori sintattico-discorsivi è compatibile con i risultati di esperimenti di psicologia
del linguaggio dai quali emerge che i parlanti tendono a riconoscere l’esistenza di
una specificità dei suffissi flessivi verbali, rispetto a quelli nominali, separandoli
dalla radice nei compiti di riconoscimento lessicale. È importante richiamare l’at-
tenzione sugli aspetti discorsivi perché ricordiamo che i significati veicolati dai
suffissi flessivi del verbo, almeno in italiano, (la persona, il numero, il tempo, in
parte anche l’aspetto e il modo) sono di tipo deittico, servono cioè a contestualiz-
zare il contenuto proposizionale dell’enunciato. Ciò non esclude a priori che ci
siano forti connessioni con aspetti semantici: ci pare tuttavia che in tutti e tre gli
ambiti considerati questi non appaiono primari nell’architettura delle rappresen-
tazioni lessicali. Del resto, perplessità sulle possibilità di individuare definizioni
PROPRIETÀ CATEGORIALI E RAPPRESENTAZIONE LESSICALE DEL VERBO 305
semantiche soddisfacenti del verbo anche solo per un gruppo di lingue, e tanto più
per lingue distanti tra loro, sono manifestate da molti ricercatori (da ultima Bybee
2000).
Da ciò non si deduce che gli elementi pertinenti per il riconoscimento lessi-
cale debbano necessariamente coincidere con quelli che determinano la salienza
del verbo nel parlato e che eventualmente ne preservano l’uso negli afasici. Non
stiamo qui ipotizzando un meccanico isomorfismo tra le proprietà rilevanti per la
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3.
Lingua, italiani regionali e dialetti
FRANCESCO AVOLIO
(Università dell’Aquila)
1. Gli appunti che qui si presentano hanno lo scopo di illustrare i primi risulta-
ti di indagini recentemente avviate sui sistemi verbali di varietà italo-romanze non
standard (“dialetti”) dell’Italia centro-meridionale, e di dar conto delle prospettive
che, con il proseguimento delle ricerche, sono andate pian piano delineandosi. In
particolare, sono state prese più approfonditamente in esame, anche per finalità
diverse da quelle qui predominanti, le parlate della conca aquilana (Abruzzo), del
Reatino ad essa contiguo, dell’area metropolitana di Roma e della provincia di
Latina (Lazio) – e più esattamente della sezione meridionale di quest’ultima, appar-
tenuta fino al 1927 alla provincia di Caserta –, e dell’entroterra partenopeo (area
frattese-afragolese), con la non-lontana costiera d’Amalfi (Campania).
L’analisi ha riguardato anche, e non secondariamente, le modalità del contat-
to con i vari sottosistemi della parte italiana del repertorio linguistico di queste
stesse zone (italiani «regionali», italiano standard o comune, ecc.). Non è inutile
sottolineare fin d’ora, infatti, che, per quanto tali modalità – sintetizzate nell’e-
spressione lingua cum dialectis – siano state studiate ormai abbastanza a fondo,
almeno dal punto di vista teorico e relativamente ad alcune aree, e soprattutto in
riferimento alla fonetica e al lessico, non disponiamo ancora di molte notizie
riguardanti le reazioni e ristrutturazioni di ambito morfologico, e più specifica-
mente nella morfologia flessiva e verbale. Il terreno è ancora abbastanza vergine,
e ben si presta, quindi, sia a nuove inchieste sul campo, sia a primi tentativi di
sistemazione e riflessione teorica.
Il corpus di parlato è stato raccolto in più riprese, soprattutto con il metodo
ormai definito (sia pure con qualche non infondata perplessità1) dell’“osservazio-
ne partecipante” (o “partecipazione osservante”), eccetto pochi dati, tratti da rile-
vamenti dialettologici effettuati in altre occasioni e per altri scopi, dal 1993 al
2000. Tale metodo, per l’indubbia “neutralità” e la sua natura non invasiva, è stato
preferito all’intervista con questionario, pure ampiamente adoperato nelle inchie-
ste dialettali e non2, e sulla cui utilità generale per i nostro studi non sembra leci-
1 Su cui si era già pronunciato, in anni “non sospetti”, Glauco Sanga (cfr. Sanga 1982).
2 Piace segnalare, per esempio, il recentissimo questionario messo a punto da Teresa Poggi
Salani e Annalisa Nesi nell’ambito del progetto di ricerca interuniversitaria ex 40% «La lingua
della città: italiano regionale e varietà dialettali», coordinato proprio dalla collega Poggi Salani
e attualmente in corso.
312 FRANCESCO AVOLIO
to, in definitiva, continuare a nutrire troppi dubbi3. Le conseguenze della sua natu-
ra metalinguistica, però, se non rappresentano un (grosso) ostacolo quando,
appunto, si suggerisce una traduzione da un codice ad un altro, sufficientemente
distinto dal primo, si fanno invece sentire se abbiamo a che fare con domande che
impongono all’informatore una riflessione all’interno di un’unica varietà, che per
di più coincide, in gran parte, con quella adoperata nel corso dell’intervista. Ciò
non significa, ovviamente, che ricerche condotte con l’ausilio di questo strumen-
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3 Jaberg e Jud, del resto, hanno già spiegato chiaramente, nell’acuta e ancor oggi fonda-
mentale Introduzione all’AIS, che l’uso del questionario ha “certo il difetto che non ci dice come
parla l’intervistato, ma solo come reagisce a una domanda posta in lingua scritta. Ma l’esame
dei materiali raccolti ha dimostrato che il buon informatore può ampiamente sottrarsi alla sug-
gestione della domanda e che la risposta in dialetto rappresenta, nella grande maggioranza dei
casi, il parlato reale: il testimone è certo condizionato, e perciò le sue risposte, prima di essere
accettate, vanno sottoposte a verifica: ma egli vuole dire la verità, cosa che non può disconoscere
chi giudichi con prudenza e avvedutezza” (AIS 1987, vol. I: 300-01).
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 313
Non è fuori luogo, data la tematica del presente volume e del Congresso, sottoli-
neare la centralità attribuita al morfema grammaticale. Anche il concetto di “interfe-
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renza”, inoltre, dovrebbe essere riservato a casi ben precisi, senza arrivare a includer-
vi tutti i diversi tipi di contatto italiano-dialetto nel’ambito della morfologia del verbo.
smorzare, essi possono essere usati in italiano, anche se oggi, dentro e fuori
l’Urbe, appaiono invecchiati, se non arcaici (cioè ricordati, ma non più in uso). Un
altro, analogo esempio, che questa volta accomuna Roma alla maggior parte del-
l’area mediana ad essa vicina, è la forma, tanto italiana quanto romanesca (e
umbro-orientale, sabina, ecc. guadambià “guadagnare”6, dovuta sempre ad iper-
correttismo (per reazione a verbi dialettali come cagnà “cambiare” ecc.).
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6 Cfr. la frase se il latte lo fai bbòno, guadambi ‘se il latte lo fai buono, guadagni’, raccol-
ta da un allevatore di Testa di Lepre (località rurale del Comune di Roma, nei pressi della via
Aurelia), nel dicembre 1991, e classico esempio del frequente, inestricabile intreccio fra dialet-
to e italiano, in cui nemmeno la forma verbale consente una chiara attribuzione all’uno o all’al-
tro dei due codici principali.
7 Cfr., su questo, Sobrero 1989.
8 Per la loro posizione geolinguistica nell’ambito della Campania dialettale, mi permetto di
rinviare ad Avolio 1999 e Avolio 2000a.
9 Un’attestazione significativa, proprio per Campobasso città, e in Piemontese 1985: 68,
che riporta la stessa forma anche per Campolieto (Cb).
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 315
10 E, più esattamente, del sistema vado: imo (cfr. Rohlfs 1966-69, § 545).
11 Cfr. Rohlfs 1966-69, §§ 532, 541-43, 546.
12 Sulla partizione geolinguistica dell’area aquilana, per la quale queste forme hanno note-
vole rilevanza, cfr. Avolio 1995: 94 (e carta a p. 99), 1998: 15 (più la nota 21 e le carte alle pp. 17
e 18), 2001: 110-11.
13 Cfr. Avolio 1995: 97. Tali forme sono comunque diffuse in presso che tutta l’area “media-
na”. Nelle zone in cui non si è mantenuta la distinzione, alla finale, fra -O- e -U-, troviamo gene-
ralmente ào, dao, fao, ecc. Perfino in alcune varietà “meridionali, ad esempio nella Val di
Comino, tra Sora e Cassino si possono rinvenire esempi come fauë ‘fanno’ (cfr. Avolio 1992:
305).
316 FRANCESCO AVOLIO
(2) i’stó ssèmpë ccà, stónghë ancòrë ccà ’io sto (sono) sempre qui, sto
ancora qui’,
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mostrando che la scelta, a brevissima distanza, per l’una o l’altra variante è detta-
ta unicamente da ragioni metrico-ritmiche. Delle due, però, solo la prima è in
grado di passare ai vari livelli di italiano regionale.
19 Difficile, peraltro, stabilire se stó continui direttamente (e, per di più, in modo fonetica-
mente regolare) STO o se sia, invece, una riduzione più tarda di stónghë: il confronto con altre
zone del Centro-Sud, dove si sono stabilizzate forme uniche in -go (cfr. aquil., abruzz. e mol.
stèngo, stènghë, o di altro tipo (reat. stajo, luc. stachë) potrebbe deporre a favore della seconda
ipotesi (ma si tratta soltanto di uno degli elementi di valutazione).
20 Cfr. Berruto 1987: 29-31.
21 Cfr. su questo, almeno Stehl 1988: 9-11.
318 FRANCESCO AVOLIO
sia
3.3. Dopo aver provato a chiarire cosa siano le forme verbali impermeabili, vi
è infine da considerare la casistica che proponiamo di denominare “interferenza”
stricto sensu, non limitata, come avviene per la coesistenza, alla fonetica. Anche
qui gli esempi sono piuttosto numerosi e di un certo interesse. La maggior parte
di essi è rappresentata da casi in cui forma italiana e forma italoromanza (dialet-
tale) non sono foneticamente molto distanti (tendendo quindi a sovrapporsi e a
ibridarsi) ma conservano pur sempre, in origine, valori semantici parzialmente
diversi; accade così che, alcune volte, l’attribuzione all’una o all’altra delle due
parti fondamentali del repertorio possa risultare assai ardua.
ta – o, tutt’al più, un altro banale caso di coesistenza; ecco, però, che enunciati
comunissimi come
3.3.2. Un altro problema interessante che può essere affrontato dal punto di
vista dell’interferenza non riguarda, stavolta, singole forme, ma la sorte di un inte-
ro modo verbale, il condizionale, che, come si sa, è da tempo in sensibile regres-
so in molte aree del Centro-Sud d’Italia24. La perdita di vitalità nel dialetto è cer-
tamente dovuta – oltre che a situazioni locali – al prolungato influsso dei vari
livelli italiani del repertorio: al condizionale, infatti, viene oggi sistematicamente
preferito il congiuntivo, modo che è, in molte varietà, e specialmente nell’imper-
23 Cfr. Avolio 1995: 94, Avolio 1998: 17, Avolio 2001: 109-12.
24 Cfr. Rohlfs 1966: 69 §§ 604 -744.
FORME VERBALI ITALIANE E ITALO-ROMANZE NEL CENTRO-SUD 321
fetto, quasi identico a quello della lingua standard (mentre il condizionale assume
altrettanto spesso sembianze piuttosto diverse). Ma l’avanzata del congiuntivo –
ed è qui il fatto interessante – non ha portato, almeno per adesso, ad un livella-
mento sulle condizioni delle varietà più alte di italiano, nelle quali anzi, le forme
del condizionale, presente e passato, restano del tutto usuali, quando non sono
addirittura in espansione fra i parlanti semicolti di altre zone (e in queste – il det-
taglio non è trascurabile – rientra la stessa Roma, cfr. § 3.3.3.); di più, il con-
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(frasi che sono anche il titolo di una ancor oggi popolarissima canzone napoleta-
na e di un ormai noto volume degli amici e colleghi Patricia Bianchi, Nicola De
Blasi e Rita Librandi) e
25 Nelle parlate della costiera amalfitana il condizionale ha resistito di più – anche rispet-
to ad altre aree napoletane periferiche, per es. la costa flegrea – e forme come farrië ‘farei’ e
vurrië ‘vorrei’ sono ancora udibili con una certa frequenza. Per quanto riguarda le stesse dina-
miche nell’area aquilana vestina, ed in particolare nel paese di Monticchio, frazione
dell’Aquila sulle sponde dell’Aterno, cfr. quanto afferma, quasi contraddicendosi (ma ciò non
è senza significato!), il poeta Pasquale Serri, autore di una pregevole raccolta di versi dialet-
tali, in un dattiloscritto rimasto inedito: “Notiamo ancora, per quanto riguarda i verbi, che il
congiuntivo, nell’uso dialettale, è spesso adoperato al posto del condizionale. I’volésse sapé
significa ‘io vorrei sapere’; mentre l’espressione vurria sapé, forse più bella [nonché titolo di
una delle sue poesie in monticchiese, cfr. Serri (1992: 56)], non è propria del dialetto di Mon-
ticchio”.
322 FRANCESCO AVOLIO
in realtà il parlante lontano dallo scherma più diffuso nell’italiano moderno, con-
notandolo come fortemente dialettofono.
3.3.3. Ancora una volta, il quadro offerto da Roma, riguardo a questa parti-
colare casistica dell’interferenza, mostra aspetti originali. Nella capitale, infatti, la
situazione è rovesciata rispetto a quella di Napoli e dell’Aquilano: non solo il con-
dizionale di base italiana si espande a scapito del congiuntivo (cfr. frasi del tipo
se cce l’avrèi, lo farèi), ma va anche a rimpiazzare le forme condizionali del
romanesco più stretto (ad es. avrébbe, farébbe, dirébbe nella prima persona del
condizionale presente), in regresso anche se non ancora scomparse 26. L’estrema
(e piuttosto antica) fluidità di questo stato di cose, che vede la convivenza, nel
repertorio linguistico di un buon numero di Romani, di ben due tipi di condizio-
nale più il congiuntivo, ha facilmente determinato l’insorgere di forme analogiche
(in -ss-) non ancora del tutto stabilizzate e quindi apparentemente nuove, come
quelle della frase
Qui, con ogni probabilità, è il condizionale più recente (“italiano”), non solo
sentito come basso (proprio perché anche “dialettale”!), ma poco usato (si tratta
infatti di una quarta persona), a consentire un tentativo di innalzamento di registro
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328 LOUIS BEGIONI
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330 LOUIS BEGIONI
significati lessicalizzati. Alla fine della nostra relazione torneremo sulla possibi-
lità di illustrare il funzionamento dinamico di questo tipo di costruzione nell’am-
bito della psicomeccanica del linguaggio.
Un’altra osservazione riguarda la tendenza che ha l'aggiunta della particella
postverbale a rendere l’aspetto del verbo più perfettivo poiché fa considerare l’a-
zione verbale più vicina al suo punto terminale. Il fatto di precisare il termine spa-
ziale dell’azione ha delle conseguenze sul piano temporale finendo così per modi-
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ficare il contenuto aspettuale stesso della forma verbale. Per esempio, in katar sy
di fõz (raccogliere dei funghi), l’accento è posto sul risultato dell’azione grazie
all’avverbio sy mentre questa dimensione aspettuale è completamente assente nel-
l’espressione katar i fõz (andare per funghi).
I verbi che abbiamo incontrato nelle costruzioni del tipo Verbo + Indicatore
spaziale appartengono al seguente insieme:
V = {ãdàr (andare), bèvεr (bere), bytàr (buttare), dar (dare), dir (dire),
far / fàrεs (fare / farsi), fikàr (mettere con forza, conficcare), diràr
(girare), katàr (trovare dopo una ricerca), kavàr (togliere), lavàr (lava-
re), mεtεr (mettere), ñir (venire), passàr (passare), pigàr (piegare),
rivàr (arrivare), saltàr (saltare), sbraiàr (gridare), sbyrlàr (spingere),
sgyrlàr (cadere perdendo l’equilibrio, anche rotolare), skapàr (scappa-
re), skrìvεr (scrivere), sràr (chiudere), stàr (stare, rimanere), takàr
(attaccare, appendere), taiàr (tagliare), tiràr (tirare), tʃapàr (afferrare),
tør (prendere, togliere), trar (tirare)}.
Questa lista non è certo esauriente, ma contiene i verbi riscontrati più fre-
quentemente nelle costruzioni V + IS.
Tutti i verbi elencati qui sopra possono essere considerati globalmente come
verbi di movimento. Infatti, se si prova a classificarli dal punto di vista semanti-
co, si hanno i seguenti sottoinsiemi:
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 331
V1 = {ãdàr (andare), diràr (girare), ñir (venire), passàr (passare), rivàr (arriva-
re), saltàr (saltare), sbyrlàr (spingere), sgyrlàr (cadere perdendo l’equilibrio,
anche rotolare), skapàr (scappare)};
– un secondo sottoinsieme V2 più difficile da definire; i verbi che lo costitui-
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S1V2 = {bytàr, fikàr, katàr, kavàr, lavàr, mεtεr, pigàr, sràr, takàr, taiàr,
tiràr, tʃapàr, tør, tràr};
esempio:
esempio:
Dal punto di vista morfologico, questi due indicatori spaziali sono composti
da IN che indica il movimento, mentre LA aggiunge il significato dell’area del
NON-IO con la consonante “l” e SA esprime il riavvicinamento al locutore in un
movimento contrario.
LE COSTRUZIONI VERBALI V + INDICATORE SPAZIALE 333
V – sy:
– Le seguenti relazioni verbo – indicatore spaziale assomigliano al modello V
– sy anche se il verbo può essere realizzato in diversi contesti senza “sy” o senza
la presenza di una particella postverbale almeno per lo stesso significato di base;
esempi:
– star sy (alzarsi)
a sö sta sy a ɔt ùri
(mi sono alzato alle otto)
– mεtεr sy (“aprire” nel significato di “aprire un negozio”,
“cominciare un’attività commerciale”):
l a mis sy un negɔsi
(ha aperto un negozio)
– katàr sy (raccogliere);
334 LOUIS BEGIONI
Per tutti gli altri verbi, la relazione è meno forte e l’indicatore spaziale sy pre-
cisa soltanto il significato del verbo:
esempi:
pigàr sy (piegare)
bytàr sy (cambiare)
tʃapàr sy (prendere, acchiappare)
– ñir sy, ãdàr sy (salire)
Per i
verbi mãdàr (mangiare) e bèvεr (bere), l’indicatore spaziale sy intensifica il con-
cetto di mangiare e di bere:
mãdà sy e bèva sy.
– kavàrεs zy (spogliarsi).
Esempio:
prima d ãdàr a let al se kàva zy
(prima di andare a letto si spoglia).
Esempio:
tør zy l piat (prendere il piatto – se questo è posto in alto relativamente alla
coppia locutore / interlocutore) ecc.
È evidente anche il fatto che le particelle postverbali sy e zy sono le più pro-
duttive nei dialetti dell’area appenninica parmense.
–
ãdàr
ñir
] føra (uscire)
ãdàr
ñir
] dε̃jtεr (entrare)
–
ãdàr
ñir
] sùra (salire – il riferimento essendo il punto di arrivo)
V+( adré);
esempi:
–
ãdàr
ñir
] adré (seguire, accompagnare)
ãdàr
]
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–
tør
tiràr
] vìa (togliere)
Per queste due costruzioni, insà che esprime l’avvicinarsi al locutore e inlà
l’allontanarsi, hanno una forte carica semantica e danno una grande precisione
spaziale; in questo modo, la maggior parte delle costruzioni sarà del tipo:
esempi:
–
ãdàr
ñir
] insà (avvicinarsi); ãdàr inlà (allontanarsi); va inlà (allontanati).
–
ãdàr
ñir
] inãs (andare avanti, avanzare)
–
ãdàr
ñir
] indré (andare indietro)
–
ãdàr
ñir
] adɔs
andare
venire
] - addosso)
Come per gli aggettivi ed i pronomi dimostrativi, gli indicatori spaziali ki,
ùtεr, li, la possono essere associati ai verbi che nel loro semantismo comprendo-
no il concetto esplicito o implicito di movimento, considerate le compatibilità con
la posizione del locutore nello spazio della comunicazione;
esempi:
340 LOUIS BEGIONI
[
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ki
– mεta li
la
Lingua discorso
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Questo fenomeno può essere osservato anche in italiano che tuttavia è meno
ricco quanto al numero delle costruzioni possibili. Un aspetto che non manchere-
mo di approfondire in una prossima ricerca.
FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
(Université de Toulouse – Le Mirail)
è comune alle lingue, le restrizioni parametriche, invece, sono delle opzioni mar-
cate, selezionate da una lingua, all’interno della gamma di possibilità offerta dalla
grammatica universale. Le lingue possono rispondere affermativamento o negati-
vamente a queste opzioni e una risposta negativa indica il rifiuto di un certo tipo
di complessità, ossia la scelta di un’opzione non-marcata. In questo caso una lin-
gua è caratterizzata da una restrizione negativa. Le restrizioni però possono esse-
re violate e la loro violazione comporta automaticamente l’applicazione delle SR.
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A partire da questo schema, possiamo osservare che il livello più basso è for-
mato dalla linea melodica dei segmenti associati a delle categorie prosodiche
gerarchizzate. La prima categoria è costituita dalla mora (m). La mora è un’unità
di peso (v. Hayes (1989), ciò significa che due more costituiscono una sillaba
pesante e una mora, invece, una sillaba leggera. Le more sono dunque associate
alle sillabe (s) e queste ultime sono associate a dei piedi (F). I piedi dipendono, a
loro volta, dalla parola prosodica (PrW)2. Se ad un dato livello ci troviamo in pre-
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4a
fai ([‘faj]) / fa’ ([‘fa]) (infinito: fare ([‘fa:re]))
dai ([‘daj]) / da’ ([‘da]) (infinito: dare ([‘da:re]))
vai ([‘vaj]) / va’ ([‘va]) (infinito: andare ([an‘da:re]))
stai ([‘staj]) / sta’ ([‘sta]) (infinito: stare ([‘sta:re]))
2 Esistono delle categorie di livello superiore a cui però non faremo riferimento nell’ambi-
to di questo contributo, anche perché la pertinenza di alcune di esse è tuttora oggetto di dibatti-
to (v. Nespor (1993: Cap. 7).
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 347
4b
di’ ([‘di]) (infinito: dire ([‘di:re]))
sii ([‘si:]) (infinito: essere ([‘εs:ere]))
5.
na’ ([‘na] < nara [‘na:ra] ‘di’!’)
mi’ ([‘mi] < mira [‘mi:ra] ‘guarda!’)
te’ ([‘tε] < tene ([‘tε:nε]) ‘tieni!’)
ba’ ([‘ba] < bae [‘ba:ε]) ‘vai!’)
bi’ ([‘bi] < bie [‘bi:ε]) ‘ecco!’)
to’ ([‘tɔ] < tocca [‘tɔk:a]) ‘dai!’)
6.
Nel caso dei verbi fare, dare e stare, tali operazioni producono un output cor-
retto, vale a dire fai, dai, e stai. Però, nel caso di andare, la forma che ne risulta
non è quella dell’imperativo – vai – bensì quella del passato remoto, andai. A
nostro avviso, gli imperativi in 4a sono mutuati dal paradigma dell’indicativo pre-
sente. Dal punto di vista semantico-referenziale, la coincidenza di forme di pre-
sente con forme di imperativo non ha niente di sorprendente: infatti, come osser-
va Kuryowicz (1975), il compimento di un’azione o di un processo può effet-
tuarsi solo nell’intervallo che si apre dal momento di locuzione. Dal punto di vista
prosodico, le rappresentazioni in 7. mostrano che questi imperativi rispettano lo
schema binario di un piede bimorico:
348 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
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Di conseguenza, l’analisi che rende conto nel modo più semplice delle forme
apocopate fa’, da’, sta’, e va’ comporta la dissociazione del glide dalla seconda
mora della sillaba. La derivazione in 8. mostra infatti che la geminazione della
consonante iniziale dei clitici è il risultato dell’operazione di dissociazione:
Nel caso dell’imperativo sii e degli imperativi abbi e sappi, bisogna invece
partire dalle forme di congiuntivo. Viene così confermata l’ipotesi proposta da
tipologi come Dolinina (2001), secondo cui esiste una Super Categoria
‘Imperativo’ o ‘Ingiuntivo’, che raggruppa delle forme appartenenti a paradigmi
diversi; si pensi al francese Va!, Qu’il aille!, Allons!, ecc. Quindi nel caso di sia,
abbia e sappia, la forma di imperativo viene ottenuta tramite la cancellazione
della vocale finale. Questa operazione è indicata in 9.:
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 349
(2000)3.
3 Marotta (c.p.) ci ha fatto notare che la forma sii potrebbe essere interpretata come bisilla-
bica: in questo caso, avremmo a che fare con una rappresentazione come quella esemplificata in
(11):
Secondo questa ipotesi, il livello al quale il principio di binarietà verrebbe rispettato sareb-
be quello della sillaba e non della mora. Va osservato però che una rappresentazione come (11)
è particolarmente marcata nel senso che implica l’adiacenza di due nuclei vocalici identici, il che
dovrebbe essere proibito dall’OCP; d’altra parte, abbiamo registrato degli esempi di raddoppia-
mento della consonante associata al clitico nei contesti V + cl: siimi fedele ([‘sim:ife’dεle]).
Come mostra la rappresentazione (12), la geminazione della consonante associata al clitico risul-
ta dal delinking – relinking della seconda mora associata alla vocale accentata (cf. Floricic,
2000, 239-240):
350 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
italiani. Esiste infatti un’altra serie di verbi che chiaramente risultano da una dop-
pia operazione di cancellazione. La derivazione in 13a. mostra che gli imperativi
gua’, to’, tie’, ve’, aspe’ e asco’ sono generati tramite la cancellazione della sil-
laba post-tonica, e della seconda mora della sillaba accentata. La consonante in
coda non essendo più associata a un’unità prosodica, viene a sua volta eliminata
via Stray Erasure:
segue n. 3
14.
kie [‘ki:ε] < ki (‘chi’)
tie [‘ti:ε] < ti (‘te’)
mie [‘mi:ε] < mi (‘me’)
dae [‘da:ε] < da (‘dai!’)
Chiaramente, se una forma presenta già uno schema prosodico binario, l’e-
pentesi non ha più nessuna raison d’être, per cui abbiamo per esempio:
15.
fage [‘fa:ε] < fages (cfr. fagere ‘fare’)
nara [‘na:a] < naras (cfr. narrere ‘dire’)
tene [‘tε:nε] < tenes (cfr. tennere ‘prendere’)
beni [‘be:ni] < benis (cfr. bennere ‘venire’)
fini [‘fi:ni] < finis (cfr. finire ‘finire’)
iski [‘iski] < iskis (cfr. iskire ‘sapere’)
In che modo dunque possiamo render conto dell’assenza di una SR per gli
imperativi di’, gua’, to’, tie’, e ve’?. In primo luogo bisogna precisare che queste
forme sono a cavallo tra due categorie, cioè la categoria del verbo e quella del-
l’interiezione. Il punto fondamentale è che lo statuto interiettivo di questi impera-
tivi è a nostro avviso responsabile del loro essere fuorvianti rispetto ai principi che
regolano la fonologia dell’italiano, e in particolar modo rispetto alla restrizione di
minimalità. Vero è che è pur sempre possibile proporre una soluzione che faccia
riferimento a nient’altro che a principi fonologici. Joaquim Brandão de Carvalho
352 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
(c. p.) suggerisce che nel caso dell’imperativo dei verbi dire e guardare in ita-
liano, si potrebbe prendere come punto di partenza una forma astratta /dik/ e
/gwar/; a livello sottostante, la consonante finale sarebbe sempre presente e que-
sto potrebbe spiegare il mancato allungamento vocalico, oppure anche l’assen-
za di un glide finale: tale soluzione è illustrata dalle rappresentazioni in (16):
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Però, nel caso delle forme to’, tie’ e ve’, non possiamo supporre l’esistenza di
una consonante flottante per render conto dell’assenza dell’allungamento vocali-
co. La stessa osservazione vale ovviamente per gli imperativi in sardo. Se le forme
na’, mi’, te’, e ba’ hanno in sardo una vocale breve e derogano alla constraint sul
“minimal word”, è perché si tratta di una classe di elementi che dalla categoria del
verbo sono passati a quella dell’interiezione. Già nella prima metà del Novecento,
lo Hoffman (1926) e poi anche Hjelmslev (1966), avevano osservato che gli impe-
rativi latini dı-c (< dı-cĕ), dc (< du-cu-), fĕc (< făcă) e ĕm (< ĕmĕ) potevano consi-
derarsi delle interiezioni, donde l’assenza di vocale tematica, normale negli impe-
rativi latini. Nel caso di ĕm (< ĕmĕ), è rilevante non solo l’assenza della vocale
tematica ma anche il semantic shift; infatti la forma breve ĕm non significa pren-
di! / compra! come la forma tematica, ma piuttosto guarda! / ecco!. Per cui,
sembra proprio che esista una correlazione profonda tra riduzione fonetica, de-
referenzializzazione e transcategorialità.
Inoltre, bisogna tener presente che l’interiezione occupa un posto particolare
nel sistema della lingua. Come giustamente osserva Karcevski (1941: 177):
interjectionnel 4.
Ora, se per certi versi l’interiezione deroga alle restrizioni fonologiche di una
lingua, è proprio perché sta al di fuori delle correlazioni sintagmatiche e paradig-
matiche.
(17)
“Des phonèmes à fonction spéciale apparaissent en outre dans des interjections, des
onomatopées, ainsi que dans des appels ou commandements adressés à des animaux
domestiques. Ces mots n’ont aucune fonction représentative au sens propre du
terme, et forment par conséquent une section tout à fait à part du vocabulaire, pour
laquelle le système phonologique habituel n’est pas valable.”
354 FRANCK FLORIČIĆ – LUCIA MOLINU
Di’ la verità!
(18)
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(…) there does not exist any clear line separating Center and
Periphery, but a continuous transitional zone. While there certainly
exist phenomena situated “in the very centre” or “in the obvious peri-
phery”, one cannot overlook the existence of items which can only be
denoted as “more central” (or, respectively, “more peripheral”) than
others. In short, the central and the peripheral character are qualities
revealed by different items of the language system in different degrees
(and in view of the fact that the transitions appear to be continuous it
would hardly make sense to establish any exactly defined degrees of
peripheral character.
Ora, questa osservazione vale in particolar modo per i fenomeni che rilevano
del “piano dell’appello” o del “plan locutoire du langage”, che in virtù del loro
statuto (orientazione o polarizzazione verso le istanze del discorso) sono partico-
larmente soggetti a distorsioni e modulazioni.
Per concludere, abbiamo avanzato l’ipotesi secondo cui gli imperativi mono-
sillabici o sono ottenuti grazie a un’operazione di troncazione, o vengono presi in
prestito da altri paradigmi. Questa osservazione che riguarda la composizione
stessa del paradigma dell’imperativo trova conferma anche in altre lingue. Il
IMPERATIVI ‘MONOSILLABICI’ E ‘MINIMAL WORD’ IN ITALIANO ‘STANDARD’ E IN SARDO 355
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Fra lingua e dialetto: potere e dovere con valore epistemico nell’Italia meri-
dionale 1
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1. LA RICERCA
Nell’attuale situazione di ‘lingua cum dialectis’, nelle molte aree ancora par-
zialmente dialettofone d’Italia, si incontrano-scontrano due fuzzy systems, quello
della modalità in dialetto e quello della modalità in italiano: l’equilibrio raggiun-
to al proprio interno da ogni sistema è rimesso continuamente in gioco, e il con-
testo è sovraccaricato di funzioni relative alla contrattazione del significato, per-
ché alla fisiologica coesistenza, per ogni elemento, di un significato centrale e di
significati periferici, si aggiunge un significativo incremento della vaghezza
semantica (Sobrero-Miglietta 2001). Nelle produzioni linguistiche reali si genera,
insomma, una pluralità di varianti sia morfosintattiche che lessicali, per ciascuna
delle quali il significato contestuale viene stabilito di volta in volta, all’interno
dell’interazione comunicativa, con l’ausilio incrociato di fattori sia linguistici che
extralinguistici (pragmatici, conversazionali, socio- e geolinguistici).
Con la ricerca di cui presentiamo i primi risultati abbiamo voluto studiare il qua-
dro delle varianti relative alla modalità epistemica nei dialetti del Mezzogiorno
d’Italia, e in particolare del Salento, tenendo conto sia di variabili di sistema (appun-
to, il carattere fuzzy del sistema della modalità, tanto in italiano quanto in dialetto)
sia pragmatiche (modalità escussive da una parte, ‘visione del mondo’ dall’altra), sia
contestuali, sia storico-linguistiche (il processo di italianizzazione dei dialetti), sia –
infine – sociolinguistiche (l’età e il grado di istruzione del parlante), con l’ambizio-
ne di trovare indizi di un orientamento generale del processo di italianizzazione dei
dialetti meridionali, per quanto riguarda il riassetto della modalità epistemica.
La ricerca si è svolta, attraverso inchieste con questionari di traduzione ita-
liano-dialetto appositamente elaborati, in 32 località dell’Italia meridionale
opportunamente selezionate: 19 in Salento e 13 nelle regioni: Puglia settentriona-
le, Basilicata, Calabria, Molise, Campania2. In ogni località sono stati intervistati
4 informatori con queste caratteristiche:
1 Questo lavoro è frutto della collaborazione dei due autori, in ogni fase della ricerca. Vanno
comunque attribuiti ad Alberto A. Sobrero i §§ 1, 2.1, 2.2 e ad Annarita Miglietta i §§ 3.1, 3.2.
2 Ecco l’elenco delle località: Carovigno, Ceglie Messapico, S. Pietro Vernotico, Grottaglie,
S. Giorgio Ionico, Trepuzzi, Carmiano, Monteroni, Lequile, Leverano, Corigliano
360 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
d’Otranto, Galatina, Maglie, Otranto, Gallipoli, Tricase, Patù, Montesano, Parabita, Crispiano,
Poggiorsini, Santeramo in Colle, Francavilla in Sinni, Pomarico, Altomonte, Papasìdero,
Carpino, Lupara, Castelpetroso, Ginestra degli Schiavoni, San Giovanni a Piro, Roccarainola.
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 361
Le quattro frasi sono dunque poste in successione, lungo una linea che va
dalla congettura (n. 1) all’inferenza (n. 4).
Gli esiti ottenuti possono essere raccolti in otto gruppi:
Se si mettono a confronto gli esiti raccolti per le singole frasi (fig. 1) si osser-
va innanzitutto che la frase 4, inferenziale, totalizza il maggior numero di occor-
renze di forme che ricalcano quella infinitivale dell’italiano (80%). Si può ipotiz-
zare con buone ragioni che un costrutto inferenziale orienti verso la traduzione
con l’infinito: per la stessa frase, infatti, si registra solo l’1% per le perifrasi e il
3% per le forme fattuali.
Agli antipodi si collocano gli esiti della frase n. 1, che è di tipo congetturale
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3 Per rappresentare gli anziani scegliamo gli informatori C, che sono omogenei con i gio-
vani ed i parlanti di mezza età per livello d’istruzione, e consentono perciò di paragonare i dati
neutralizzando l’eventuale incidenza della variabile ‘istruzione’.
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 363
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Rispetto alla sintassi dialettale le tre frasi hanno un grado diverso di ‘naturalez-
za’ (riferita sia alla struttura linguistica che al grado di esperienzialità). La 5 è la più
evidenziale, in quanto presenta un’inferenza basata non su un’affermazione ma su
un’esperienza concreta e inconfutabile (un lampo accecante, un tuono fortissi-
mo…); la 6 ha una struttura logica più complessa, perché propone un uso di ‘dove-
re’ fra l’inferenziale e il congetturale, poggiando su un’affermazione a sua volta
inferenziale (‘l’ho visto, e secondo la mia valutazione era felice’): a differenza della
precedente si colloca in prossimità del polo epistemico. Con la 7, infine, si ha un
‘salto’ dal modo pragmatico al modo sintattico: è la frase che presenta la più alta dif-
ficoltà di traduzione dall’italiano al dialetto, sia per l’alto grado di epistemicità (l’in-
ferenza appare debole, perché lo studente può essere stato bocciato anche per altri
differenti motivi), sia per la complessa grammaticalizzazione7:
Anche queste frasi sono dunque poste in successione, lungo una linea che va
dall’inferenza (n. 5) alla congettura (n. 7), e inoltre sono in ordine decrescente di
‘naturalezza’ rispetto al dialetto.
Confrontiamo le rese delle tre frasi, utilizzando tutto il corpus a nostra dispo-
sizione. Il grafico di fig. 4 mette a confronto le soluzioni adottate dai parlanti per
rendere l’epistemicità nelle due frasi a costruzione più ‘naturale’: la 5 e la 6.
7 la frase principale è dislocata a destra ed è negativa, i tempi verbali sono coordinati ‘all’i-
taliana’, tutto il costrutto è tipicamente ‘italiano’.
366 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
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esempio, per ‘se è stato bocciato non doveva essere molto prepara-
to’: nu duvìa essere mutu preparatu
– CAUSALE: il rapporto fra le due proposizioni che, in italiano, dà
luogo all’inferenza (o giustifica la congettura) viene trasformato in
un rapporto di causa-effetto. Ad esempio: (era felice), deve averla
incontrata diventa … ka l’aie nkuntrata, cioè “… di averla incon-
trata”
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Si osserva che:
La distribuzione degli esiti pare risentire del fattore ‘classe di età’ più che per
gli esiti relativi a ‘potere’. Osservando le linee di tendenza si osserva infatti che le
persone più anziane tendono a privilegiare le soluzioni:
– causali
– ‘altre’
– deontiche
– endemiche (‘sirai’)
– ricalcate sull’italiano.
– endemiche (sirai)
– con forse e le locuzioni del tipo ‘si vede che’ ecc.
– deontiche
– ricalcate sull’italiano.
– fattuali
– causali.
Le differenze più forti sono relative alle costruzioni fattuali (10%) e causali
(9%) privilegiate dai meno istruiti. Questi più spesso degli altri risolvono il pro-
blema della traduzione ricorrendo a costruzioni che spostano l’ipotesi dal mondo
della possibilità al mondo della fattualità, e che – coerentemente – sostituiscono
il nesso inferenziale con un nesso causale. I diplomati e i laureati privilegiano
costruzioni comprese nella (o compatibili con la) grammatica sia del dialetto che
dell’italiano, conservando e anzi rendendo esplicito il valore epistemico, con
espressioni la cui modalità epistemica è percepita come trasparente.
FRA LINGUA E DIALETTO: POTERE E DOVERE CON VALORE EPISTEMICO 373
Il verbo ‘dovere’, si è già detto, in dialetto ha come valore centrale quello deon-
tico. Se nell’input è utilizzato con valore epistemico, riescono a tradurlo con mezzi
epistemici dialettali più i diplomati e i laureati che i poco scolarizzati. Ciò è dovu-
to verosimilmente alla competenza metalinguistica che questi hanno acquisito attra-
verso le frequenti transcodifiche che caratterizzano l’apprendimento scolastico.
Riassumendo, e generalizzando, per quanto riguarda età e scolarità risultano
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9 Per avere un campione equilibrato nelle componenti ‘classe di età’ e ‘grado di scolarità’
374 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
abbiamo escluso dal conteggio che è alla base del grafico 10 gli informatori del tipo D.
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375 ALBERTO A. SOBRERO – ANNARITA MIGLIETTA
tiche ‘fini’. Questo dimostra che il passaggio dal dialetto all’italiano non è più
l’attraversamento del guado per passare dall’una all’altra sponda: è riorganizzare
le conoscenze e governare il cambiamento, assicurando carattere di continuità e
di sistematicità anche a fuzzy systems di transizione.
Questo è oggi il compito – difficile – di una ‘massa livellatrice’ che agisce al
centro delle nostre comunità linguistiche, sotto l’azione di spinte contrastanti che
muovono – con strategie anche complesse – da due punti sempre meno lontani:
un’anima dialettale, a cui il parlante non sembra voler rinunciare, e un abito ita-
lianeggiante, che appare sempre più seduttivo. E questi sono anche i confini veri
del nostro campo d’osservazione, se vogliamo capire il senso delle dinamiche lin-
guistiche in atto.
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PARTE TERZA
«STUDI CONTRASTIVI»
Conferenza Introduttiva
1 kilo 500 1 (et non pas: 500 grammes 1 kilo); 3 volts 5; 37,5 degrés C
Pour les dates horaires, il en va de même, mais pas pour les dates de calen-
drier, en effet, en français, les jours, mois et années s’énoncent en commençant
par les unités de poids les plus faibles:
May 6th, 1969 ou bien May the 6th, 1969 ou bien the 6th of May, 1969
1 La dernière unité, ici les grammes, s’abrège. Mais il existe une autre expression où elle
s’abrège moins facilement: 1 kilo et 500 grammes. Nous retrouverons de telles particularités
grammaticales avec les unités de temps.
382 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA
dans le domaine de l’informatique, il existe un usage qui consiste à placer ces uni-
tés selon leurs poids décroissants, ce qui permet de trier simplement les dates dans
l’ordre chronologique. Donc, la date 6 mai 1969 sera notée 690506, ou plutôt
19690506, car au voisinage du troisième millénaire, il n’est plus possible d’abré-
ger les années en supprimant les deux premiers chiffres qui indiquent le siècle, ici
19. En effet, une date comme le 6 mai 2003 serait notée 030506 et se trouverait
placée dans une liste chronologique avant 990506 2
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2 Le nom du jour, redondant, se placera à droite: 990506.mardi. Les dates imprécises (cf
Ch II, § 3.2.3) s’obtiennent en supprimant les unités des poids les plus faibles: 9905, 99.
3 L’unité attoseconde: 10-12 secondes est entrée récemment en usage.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 383
Nous allons rassembler des faits connus pour une bonne part afin de les repla-
cer dans le cadre des descriptions par lexiques-grammaires et par grammaires loca-
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1. LE TEMPS PHYSIQUE
Le temps physique est formalisé par un axe orienté de -∞ à +∞, avec un point
origine O arbitraire. Une date est un point de l’axe, elle est localisée par son
abscisse, une durée correspond à un intervalle de l’axe; un intervalle de temps est
une portion de l’axe délimitée par deux dates4. Une durée est une mesure d’un
intervalle de temps, c’est un nombre exprimé en unités de temps. L’axe des temps
physiques peut être gradué, autrement dit, on peut choisir une unité pour mesurer
les distances entre dates et les tailles des intervalles. On peut toujours subdiviser
une unité en parties égales. Le choix d’une unité et de ses subdivisions est lié à la
nature des phénomènes auxquels on s’intéresse. En électricité par exemple, on uti-
lise des unités aussi différentes que le Volt pour les courants domestiques (i.e. 220
Volts) que le microVolt en électronique. Le choix est déterminé par la commodi-
té à manipuler les nombres en jeu, en particulier par leur taille. Il en va de même
pour le temps, les durées sont alors exprimées par des formes comme:
4 L’une des dates peut être -_ ou +_, ce qui peut convenir pour représenter des durées
comme celle de Je vous aimerai toujours.
384 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA
le locuteur fait un choix d’échelle très différent de ceux opérés dans les phrases
suivantes, pourtant identiques du point vue du temps physique:
5 On notera que dans quinze jours est en fait synonyme de dans deux semaines qui est
numériquement identique à dans quatorze jours, dès lors quatorze et quinze sont synonymes
dans ces formes. Par ailleurs, les expressions: dans 24 heures, il y a 48 heures sont ressentis
comme équivalentes à: dans un jour, il y a deux jours, mais ce n’est pas le cas avec dans 96 heu-
res.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 385
sont le plus souvent cantonnées à des langues techniques. Les systèmes d’unités
de la physique (i.e. CGS, MTS, MKS, etc.) ont distingué la seconde comme unité
de base et ses subdivisions sont décimales6. Par ailleurs, il existe de nombreuses
expressions de date qui ne sont pas numériques en soi, même si des contextes par-
ticuliers permettent parfois de leur attribuer des valeurs approximatives:
Nous avons signalé le caractère arbitraire du choix d’une origine des temps
dans les descriptions de la physique, de la mécanique ou de l’astronomie. Il n’en
va pas de même pour le temps linguistique où l’origine des temps verbaux est
nécessairement le moment où une assertion (discours, texte) est produite. Le
temps grammatical du présent est alors associé à cette origine. Le discours suivant
comporte deux assertions:
6 Avec la diffusion des ordinateurs, l’unité microseconde, qui appartenait à la langue tech-
nique de la physique, passe de la langue technique à la langue ordinaire.
386 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA
neiger et dire correspondent à des faits antérieurs à l’élocution du discours (2) (Je
dis que dont la position est en tête de ce discours est omis), s’écrouler fait l’objet
d’une assertion indépendante introduite par le performatif Luc a dit que, s’écrou-
ler est au futur par rapport à Luc dire, mais on ne peut pas affirmer que ce futur
est antérieur ou postérieur à l’élocution du discours complet, c’est-à-dire par rap-
port au performatif omis Je dis que. Il faut un supplément d’information pour
localiser s’écrouler: une suite au discours (2) comme il avait raison localise l’é-
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croulement dans le passé; une autre suite de (2), comme on attend avec angoisse
le localise dans le futur.
La représentation du temps sur un axe donne aux dates un statut de notion pri-
mitive. L’axe est orienté, il possède une origine et les dates sont des points de
l’axe repérés par une abscisse numérique. Alors que la notion de date repère ou
origine est profondément ancrée dans la langue par l’effet performatif, la notion
de durée devrait se déduire logiquement de la notion de date: une durée est asso-
ciée à un intervalle borné par deux dates. Mais on verra que les expressions de
date et celles de durée sont en général indépendantes, c’est-à-dire sans relation
syntaxique ou lexicale. En fait, nous pensons que du point de vue psychologique,
donc linguistique, les deux notions de base date et durée coexistent indépen-
damment l’une de l’autre. La mémoire localise et ordonne les événements dans le
passé comme des séries de dates, mais par ailleurs, la sensation de durée est uni-
verselle, autrement dit, elle aurait un fondement biologique7. Les calendriers et les
montres indiquent des dates, ce sont clairement des constructions culturelles,
comme telles, elles ont beaucoup évolué dans le temps et l’espace. Rappelons que
du point de vue de la physique expérimentale, les mesures de temps sont unique-
ment des mesures de durée. On ne mesure pas une date, cette expression n’a pas
beaucoup de sens (e.g. la date du big bang!).
Précisons les deux notions de base. Un axe des temps est pris et orienté, son
origine est choisie comme étant la date de l’élocution du discours que nous cher-
chons à représenter:
– une date est donc un point de l’axe (orienté) du temps. Chaque date
a une abscisse, les dates sont ordonnées par nature;
– l’emploi courant du terme durée est alors ambigu dans le sens suivant:
(i) une durée est une mesure, c’est-à-dire un nombre positif
attaché à une assertion, comme dans Luc a dormi pendant
deux jours où deux jours est une durée de sommeil,
(ii) une durée peut être aussi un intervalle défini par ses bor-
nes, donc un vecteur, comme dans Luc dort depuis deux
7 Les horloges biologiques mettent en jeu des durées et non pas des dates.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 387
Le fait que date et durée soient des notions indépendantes n’interdit pas que
la langue les relient par des relations logiques: il existe des formes qui expriment
algébriquement des durées par des dates et des dates par des durées (cf. § 4, ci-
dessous). Un tel tableau limite donc sérieusement le recours à un modèle logique
du temps qui formaliserait l’interprétation des expressions linguistiques. On doit
en effet s’attendre à des incohérences entre les représentations de formes gram-
maticales lentement formées au cours de l’histoire et issues de deux notions indé-
pendantes au départ, mais que les progrès de l’astronomie et de la physique ont
rapprochées au cours des six ou sept millénaires passés.
D’un point de vue syntaxique, on s’efforcera de séparer les dates des durées
au moyen de critères formels fondés sur deux formes d’expressions:
que les notions de temps que nous venons d’évoquer en commentant des phrases
particulières sont approximatives et souvent instables: dans une assertion, des
modifications portant sur des éléments comme les déterminants et les adjectifs
peuvent modifier nos évaluations. Le problème est particulièrement aigu puis-
qu’on cherche à attribuer des notions de temps à des phrases entières. Tradi-
tionnellement, les grammairiens ont attaché des notions de temps à des parties du
discours comme verbe, adverbe, auxiliaire ou encore suffixe, mais en fait, tout
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et bien sûr, une assertion peut être constituée d’un discours ou texte de longueur
non bornée.
Les assertions ont une forme syntaxique, celle de phrase simple ou complexe.
L’intuition de phrase est le point de départ des études syntaxiques modernes. Le
statut scientifique de ces études est directement lié à la qualité de l’intuition de
phrase. Il se trouve que cette intuition présente une bonne reproductibilité: par
exemple, tout locuteur ressent avec force que l’assemblage de mots Il neige est
une phrase mais que l’assemblage la neige n’en est pas une. De même, on recon-
naît que Le bébé mange du poisson est une phrase, alors que la suite de mots
quasi-identique le bébé qui mange du poisson n’en est pas une, elle n’engendre
pas la même intuition. Nous signalerons l’inacceptabilité d’une phrase en la fai-
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 389
sant précéder d’une étoile ‘*’ et nous utiliserons le point d’interrogation ‘?*’ pour
modérer ce jugement.
8 Un proverbe comme: La nuit porte conseil a une forme de phrase élémentaire. Les pro-
verbes sont intemporels par définition, les temps de leur verbe sont fixes, souvent au présent (M.
Conenna 1995).
390 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA
temps. Par ailleurs, on observe une grande variété de phrases dont la fonction
sémantique principale est d’expliciter des notions de temps, comme par exemple:
Il est six heures, On est le 6 mai, Cet événement remonte à dix jours, La séance a
duré six heures, On a déplacé la réunion à 6 heures. Ici, suffixes et auxiliaires
sont secondaires, voire redondants, pour l’expression des dates et des durées, ces
notions sont incorporées aux verbes, autrement à la construction de la phrase.
C’est à la localisation syntaxique des notions intuitives de temps que nous allons
consacrer notre étude. La démarche que nous adoptons prend pour point de départ
des notions sémantiques liées au temps, des intuitions donc. Les difficultés de
cette approche sont bien connues. On sait d’avance qu’il sera difficile, sinon
impossible, d’isoler des notions premières, car on est certain que l’exploration de
la langue révélera un continuum entre différentes notions, même lorsqu’elles sem-
blent clairement séparées au départ. Par exemple, les phrases:
comportent une intuition de vitesse: cette notion a-t-elle une relation linguistique
avec l’intuition de temps que nous cherchons à décrire? Du point de vue de la
physique, temps et vitesse sont des notions liées, mais quand nous chercherons à
les localiser avec précision dans des formes lexico-grammaticales, nous aurons
des difficultés à les séparer (cf Ch III, § 4). Considérons encore les exemples:
(1) N0 T V W
Luc est courageux, Le mur est solide, Cette idée est révoltante
Luc a du tonus, Le mur est haut de 2 m, Cette idée a la vie dure
Luc fait un plan, Ce mur fait de l’ombre, Cette idée fait des vagues, etc.
Les circonstances temporelles des phrases sont exprimées, soit par des varia-
tions du temps T, soit par des adverbes, notés Adv. Les phrases prennent alors la
forme:
(2) N0 T V W Adv
9 C’est le cas en français, mais aussi dans les langues indo-européennes, sémitiques, voire
dans d’autres familles.
10 Par verbe propre, on entend les verbes qui ne sont pas des auxiliaires, excluant ainsi la
plupart des emplois de avoir, être, faire et bien d’autres.
392 MAURICE GROSS – ANNIBALE ELIA
11 Les déplacements dans la phrase des groupes nominaux composants des adverbes de
temps sont ceux de tous les adverbes.
LE TEMPS GRAMMATICAL ET LE TEMPS QUI S’ÉCOULE 393
RÉFÉRENCES BIBLIOGRAPHIQUES
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mato secondo il modello di rugir, mugir (dai verbi latini di derivazione onomato-
peica rugire, mugire); le metafore dal mondo animale, infatti, si applicano spesso
alle automobili, come si vede verificarsi in frasi come, ad es., une Ferrari rugit.
Una classe di flessione ha la massima produttività se soddisfa il primo e il
secondo criterio, e, in principio, tutti i criteri successivi. Se soddisfa solo il quin-
to criterio una classe flessiva non è produttiva, ma al massimo stabile.
Nella morfologia dinamica le categorie e regole applicate ad un verbo speci-
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fico producono il suo paradigma flessivo. Allo stesso tempo un paradigma verba-
le è anche la realizzazione delle generalizzazioni della sua microclasse. Definia-
mo una microclasse flessiva come l’insieme di tutti i paradigmi che condividono
esattamente le stesse generalizzazioni morfologiche e morfonologiche. Le diffe-
renze dovute a regole fonologiche automatiche (nel senso della Fonologia
Naturale) non possono dar luogo a microclassi diverse. Pertanto i paradigmi di it.
correre, corsi, corso e di ardere, arsi, arso appartengono alla stessa microclasse
flessiva perché né una consonante lunga né un’occlusiva dentale sono pronuncia-
bili prima di una /s/ (e di qualsiasi /s/, non soltanto di quella del passato remoto e
participio passato). D’altra parte, i paradigmi di dare e stare non formano una
microclasse flessiva, perché il passato remoto diedi non ha un’esatta corrispon-
denza nel verbo stare in italiano standard. Dare e stare sono invece paradigmi iso-
lati; definiamo “isolato” qualsiasi paradigma flessivo che comporti almeno una
distinzione morfo(no)logica rispetto a tutti gli altri paradigmi. Sia i paradigmi
suppletivi sia quelli idiosincraticamente difettivi (per es., fr. gésir, cfr. Morin
1998) sono paradigmi isolati.
Le microclassi improduttive sono più o meno marginali nella morfologia
dinamica1. Le microclassi flessive più marginali sono quelle più piccole, quali:
Le classi flessive (nel senso ampio) possono essere disposte in una struttu-
ra rappresentabile con un grafo ad albero. Nelle figure 1, 2.1, 2.2 e 2.3 sono illu-
strate le due macroclassi dei verbi francesi; nelle figure 3 e 4 sono illustrate le
due macroclassi dei verbi italiani. I nodi posti più in basso e basali rappresen-
tano le microclassi. La cima rappresenta la macroclasse. Poi abbiamo in ordine
gerarchico discendente le classi (nel senso stretto, spesso equivalente a quello
tradizionale), le sottoclassi e, se necessario, le sotto(sotto(sotto(sotto)))classi,
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finché non si arriva alle microclassi. In questa gerarchia vale il principio della
“default inheritance” (cfr. Corbett / Fraser 1993): un nodo può essere caratte-
rizzato da una proprietà obbligatoria o da un proprietà di default, che sono poi
ereditate dai nodi immediatamente dipendenti e sottostanti. Le proprietà di default
vengono o ereditate come tali, o sono trasformate in una proprietà obbligatoria
(nel caso di un nodo-sorella default) oppure sono cancellate (nel caso di un nodo-
sorella non-default). Al livello delle microclassi, tutti i default devono essere o tra-
sformati in proprietà obbligatorie o cancellati, perché le microclassi esprimono
identità, mentre le classi gerarchicamente superiori esprimono similarità2.
Le proprietà delle classi vengono espresse attraverso delle implicazioni, le
cosiddette Paradigmenstrukturbedingungen di Wurzel 1984 (d’ora in poi PSB
“condizioni di struttura di paradigmi”). Prendiamo come esempio la prima macro-
classe dei verbi francesi in -er (cfr. Dressler / Kilani-Schoch 2003):
PSB A & B: Se inf. /X+e/, allora PP /X+e/ & 1a sing. passéS /X+e/
PSB C & D & E: Se inf. /X+e/, allora pres. sing. e 3a pl. /X/, tutti
defaults (le condizioni valgono per l’indicativo, il congiuntivo e l’im-
perativo).
PSB F: Se 1a sg. passéS /X+e/, allora 2a = 3a sing. /X+a/.
Come default i verbi della prima macroclasse hanno soltanto un’unica base /X/.
Questa macroclasse francese viene suddivisa in due classi, di cui la prima rap-
presenta il default ed equivale alla microclasse 1 (tipo parler /parl+e/), totalmen-
te produttiva (v. ad es. i prestiti inglesi dribbl-er, flirt-er, zapp-er). Tutti i defaults
della macroclasse sono trasformati in proprietà obbligatorie, quindi: PSB A & B:
/parl+e/, PSB C & D & E: /parl/ equivalente all’unica base.
Nella seconda classe (non-default) i defaults della macroclasse (almeno
per quel che riguarda l’unica base) sono invalidati dalla PSB G: se la base X
viene accentata, allora X → Y, cioè X viene modificata in una delle due
maniere seguenti: i) l’ultima vocale della base di X cambia in /ə/ oppure /e/
muta in /ε/, ii) la /j/ finale di X in verbi come, per es., employer, viene can-
cellata in Y.
2 I grafi ad albero dei verbi francesi sono stati realizzati da Marc Xioira, che ringraziamo
vivamente.
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402
W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON
404
W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON
406
W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON
Questo principio vale anche per le due macroclassi italiane. La prima macro-
classe comprende la microclasse produttiva del tipo parl-a-re (cfr. supra per gli
esempi che ne attestano la produttività). Nella seconda macroclasse, la microclasse
modicamente produttiva è quella del tipo fin-isc-o, fin-i-re, che ha accolto alcuni
prestiti germanici antichi da verbi in -jan (arrostire <*raustjan, ghermire
<*krimmjam, guarire <*warjan, guarnire <*warnjan, schermire < longob.
skirmjan, smarrire < germ. occ. marrjan) e presenta alcuni neologismi novecente-
schi (i parasintetici impuzzolentire, infeltrire, involgarire, irrobustire, infiochire,
inacetire3, elegantire (Migliorini 1963, che s.v. cita un passo di Cecchi dove occor-
re la forma elegantiscono), brusire, graffire, stranirsi (DISC Compact 1997); gli
infiniti gerire e impuerire segnalati da Migliorini 1963 appartengono con ogni pro-
babilità a questa microclasse, ma la documentazione non permette di affermarlo con
certezza perché consta solo di forme dell’infinito o del passato remoto). Per quanto
riguarda i metaplasmi, la microclasse di finire ha accolto alcuni verbi latini in –ére
(ardire < ARDERE, censire < CENSERE…; per altri esempi cfr. Davis /Napoli
1994: 20), e attualmente attrae diversi verbi della microclasse di dormire, che pre-
sentano sempre più spesso forme con –isc-: bollire, cucire, sdrucire, tossire (che
sembra ormai completamente passato alla microclasse in –isco, cfr. Verna 2001).
Tuttavia questo principio non vale per la seconda macroclasse francese che è
totalmente improduttiva e quindi non-prototipica.
3 Questi dati ci sono stati comunicati personalmente da Claudio Iacobini e da Maria Iliescu,
che qui ringraziamo; provengono dagli spogli effettuati per un lavoro inedito di Crocco-Galèas
e Iacobini e per Iliescu 1986, 1990.
410 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON
sing. del cong. pres.; 1a pl. del pres. ind. = 1a pl. del pres. cong.)
sono superstabili, cioè valgono per tutte le microclassi e così non
differenziano classi.
Nella morfologia statica le classi flessive sono meno rilevanti che nella
morfologia dinamica; sono invece importanti le singole forme con la loro fre-
quenza di occorrenza e le loro relazioni con altre forme sia dello stesso paradig-
ma sia di altri paradigmi, inclusi quelli isolati. Tuttavia, certe relazioni interpara-
digmatiche sono pertinenti in quanto contribuiscono decisamente a costituire
microclassi improduttive e a dar loro stabilità diacronica. Da tali microclassi dob-
biamo distinguere le famiglie di paradigmi (soprattutto isolati) contraddistinti da
similarità fonologiche (e parzialmente semantiche) comuni, cioè da quelle che noi
chiamiamo “somiglianze di famiglia” (nel senso delle Familienähnlichkeiten di L.
Wittgenstein), ovverosia da “schemi” (cfr. Bybee 1988, Köpcke 1993).
Tra queste relazioni di somiglianze le relazioni morfosemantiche hanno un
peso minore (contra Bybee 1985, 1988): in entrambe le lingue i verbi modali it.
dovere, potere, volere, fr. devoir, pouvoir, vouloir non solo condividono proprietà
pragmatiche, semantiche e sintattiche, ma appartengono anche alla stessa classe
morfologica, o come paradigmi isolati o come membri di microclassi (fr. devoir).
In francese si aggiunge anche falloir. Altri verbi marginalmente modali sono in
francese savoir, avoir e in italiano sapere, avere, i cui paradigmi riflettono in
maniera iconica nella morfotattica il loro status di marginalità morfosemantica
dato che hanno anche forme della prima macroclasse.
Anche nella strutturazione morfotattica della morfologia statica le due lingue
sono molto simili, poiché ambedue presentano un continuum di numero di basi
che in italiano va da due a sette (nei paradigmi di dolere e volere, cfr. anche
Pirrelli 2000) e in francese da una a sei basi (nel paradigma di pouvoir). La prin-
cipale differenza consiste nell’esistenza di verbi a base unica in francese (micro-
classi I.1 parl-er, II.1 ri-re, fuir, II. 26 ex-/ con-clu-re, PP fem. -cluse vs. -clue),
connessa alla tendenza francese verso il monosillabismo.
La stessa tendenza spiega anche perché esistano dei “verbi brevi” (cfr.
Nübling 1995 per il tedesco) che come famiglia di paradigmi hanno una maggior
salienza in italiano che in francese: it. pres. ind. 3a sg. dà, sta, fa, va, sa, ha, è.
Questi verbi hanno le seguenti caratteristiche: 1) sono quasi tutti ausiliari o
semiausiliari, 2) sono tutti paradigmi isolati (tranne fare), 3) sono paradigmi tran-
sizionali, cioè fanno parte di entrambe le macroclassi, 4) hanno forme monosilla-
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 413
biche. Altri verbi condividono al massimo una o marginalmente anche una secon-
da di queste quattro proprietà. Per es., volere e dire hanno poche forme monosil-
labiche (vuoi, di!), e volere è un paradigma isolato.
Ulteriori somiglianze morfotattiche come principi di organizzazione della
morfologia statica possono essere classificate secondo quattro scale, nelle quali
una posizione più a sinistra indica più efficienza come principio organizzativo
(cfr. Dressler 2001) e quindi più importanza per la stabilità di una famiglia di
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paradigmi (o microclasse):
4 I risultati dei nostri test off-line sono quindi diversi per le due lingue; li esporremo in altra
sede (cfr. Spina / Dressler in stampa per l’italiano).
LE CLASSI DI CONIUGAZIONE IN ITALIANO E FRANCESE 415
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416 W. U. DRESSLER – M. KILANI SCHOCH – R. SPINA – A. M. THORNTON
Nel testo russo il primo attante e soggetto sintattico della prima proposizione
(P1) è “la nonna”, mentre nella seconda proposizione (P2) lo stesso ruolo è svol-
to dal pronome “loro”, che rimanda alla nonna e alle sue due figlie. La situazione
viene descritta in russo come più generale, l’inversione del soggetto rafforza un
carattere più descrittivo, “epico” del frammento testuale. Per il testo italiano inve-
ce non è tipico un simile cambiamento del tema. Il traduttore italiano preferisce
in P2 conservare lo stesso soggetto semantico e sintattico che era in P1, anche
alterando leggermente il senso della frase. Cercheremo di dimostrare che in que-
sto caso non si tratta di un semplice “arbitrio” del traduttore, ma che il traduttore
segue una tendenza della sintassi italiana: conservare la coreferenza dei primi
attanti in due proposizioni adiacenti. Un altro esempio di una simile conservazio-
ne del primo attante è illustrato dall’esempio seguente:
Gli compra dei giocattoli e va con lui in piscina. Di recente l’ha por-
tato a pescare. (Dovlatov)
Dunque mentre in russo i primi attanti delle due frasi adiacenti tendono ad
essere presentati senza omogeneità sintattica e senza coreferenza, l’italiano nelle
stesse condizioni preferisce presentare i primi attanti come omogenei dal punto di
vista sintattico e coreferenti. È un procedimento grammaticale che permette di
assicurare la coesione del testo italiano. Per assicurare questa coesione nella tra-
duzione dal russo in italiano si usano alcune regole di “trasformazione”. Per
descriverle dobbiamo prendere in considerazione un livello più “profondo” di
analisi, in cui le due proposizioni (P1 e P2) sono presentate come una situazione
semantica complessa. La regola del passaggio dalla struttura profonda a quella
superficiale sta nel fatto che il secondo elemento della situazione non viene rap-
presentato da una proposizione indipendente, ma viene trasformato in un gruppo
predicativo dipendente. In particolare, nella seconda proposizione viene inserito
un predicato che esprime un rapporto esistente tra i primi attanti della situazione
420 ROMAN GOVORUKHO
complessa. Nella versione russa tale predicato non viene espresso in maniera
esplicita, ma è presupposto dalla situazione. In italiano tra i predicati capaci di
svolgere questa funzione, ci sono verbi di percezione, verbi di azione attiva e verbi
causativi.
1. Il primo gruppo è formato dai verbi di percezione e sono verbi quali vede-
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re, sentire, trovare che marcano a livello superficiale il rapporto tra il primo attan-
te di P1 e il primo attante di P2:
Nella prima frase l’autore indica direttamente chi è l’Esperiente di tutta la scena
“Elisewin sentiva”. Così la sua presenza esplicita nella seconda frase del testo russo
diventa superflua, l’attenzione si concentra sull’oggetto, mentre il verbo che carat-
terizza quest’ultimo ha nel suo significato un sema “vedere”. In generale il parlan-
te o il protagonista è sempre presente nella situazione che viene descritta e quindi la
sua presenza esplicita in forma di soggetto sintattico può essere considerata super-
flua. E così succede in russo. La presenza esplicita dell’Esperiente in italiano porta
all’uso dei verbi di percezione e può quindi essere considerata un procedimento
formale che permette di usare strutture transitive invece di intransitive.
Qui in russo abbiamo per così dire due inquadrature apparentemente slegate
tra di loro. La situazione viene descritta attraverso la localizzazione o lo stato del-
l’oggetto (“era disteso”) che sono il risultato dell’azione del primo attante di P1.
Questa azione è messa in evidenza in italiano con il verbo “appendere”, mentre in
testo russo il rapporto tra il primo attante di P1 e il primo attante di P2 non è
espresso a livello superficiale. Anche nel caso in cui non si tratta di un’azione da
parte dell’Agente di P1 ma di una appartenenza, l’italiano preferisce un costrutto
più esplicito rispetto a una semplice localizzazione:
422 ROMAN GOVORUKHO
2.2. Se in P2 c’è uno strumento, l’italiano offre due possibilità di passare dalla
struttura profonda a quella superficiale.
a) La prima possibilità si realizza se in P2 si usa un predicato che definisce
l’azione che si compie con lo strumento. Il nome dello strumento viene introdot-
to con la preposizione con:
preposizione con. Anche le parti del corpo umano sono viste come strumenti che
vengono usati per produrre azioni:
Nella frase italiana come in quella russa sia la diatesi passiva che la forma
della terza persona plurale servono per non dare informazione sul soggetto seman-
tico o, in altri termini, per abbassare il grado comunicativo connesso con l’agen-
te. Però il rapporto dentro il sistema tra queste due forme non è uguale in italiano
e in russo, ed esistono restrizioni d’uso normative che incidono sulle scelte del
parlante (cf.: Alisova, 1972: 108). In russo la forma della terza persona col verbo
transitivo serve per mettere in rilievo il predicato che in questo caso è preceduto
dal complemento. La costruzione con la terza persona plurale è usata in tutti i
registri del russo, mentre il passivo analitico ha una sfumatura più formale e libre-
424 ROMAN GOVORUKHO
sca. In italiano in questo caso una netta preferenza va alla forma passiva.
Nell’esempio esaminato l’esigenza della trasformazione è sempre comunicativa:
il passivo permette alla parola “madre” di conservare il ruolo tematico senza la
ripresa anaforica e la segmentazione della frase. Nella versione russa questa paro-
la occupa il primo posto svolgendo il ruolo sintattico di oggetto diretto.
In russo la forma passiva si usa spesso quando si intende fornire informazio-
ne sul risultato di un’azione e non sull’azione stessa. Il primo attante di P2 in que-
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sto caso molto spesso viene omesso in quanto sottinteso, ricavabile dal contesto
precedente o dalla situazione:
Oltre ai causativi lessicali, l’italiano dispone di causativi analitici che non esi-
stono in russo:
Ricapitolando, possiamo dire che tutti e tre i tipi di verbi che vengono scelti
in italiano per presentare la situazione complessa in modo più coerente, hanno una
valenza in più rispetto ai verbi russi. Così, ai verbi russi di esistenza corrispondo-
no i verbi di possesso o di percezione, ai semplici verbi di azione attiva corri-
spondono i verbi causativi. Quindi in italiano una netta preferenza va ai costrutti
transitivi, cosicché spesso si può parlare di una certa formalizzazione del costrut-
to con l’oggetto diretto, che si usa non solo per denominare il rapporto tra il sog-
getto e l’oggetto, ma anche per denominare i rapporti che in russo vengono
espressi normalmente con costrutti di tipo circostanziale (causale, temporale,
locativo ecc.). Il rapporto circostanziale è sempre concreto ed ha un significato
specifico, mentre il rapporto di tipo transitivo (oggettivo) non esprime nient’altro
che una relazione tra l’azione e la sostanza. I complementi circostanziali vengo-
no caratterizzati dal punto di vista semantico mentre i complementi oggetto si
distinguono solo dal punto di vista formale: oggetto diretto o indiretto. Così l’uso
più frequente dei costrutti oggettivi può significare una tendenza dell’italiano a
usare costruzioni più astratte e con funzione formale di servizio, in quanto una
forma transitiva viene usata per legare due nozioni. L’argomento semantico che
emerge in italiano è l’Agente o l’Esperiente che tende sempre ad essere al centro
della situazione, al centro del testo mentre nel testo russo il suo ruolo tende ad
essere minimizzato. In altri termini, una minore o maggiore attività del Soggetto
semantico è marcata sintatticamente. Si può inoltre osservare che, mentre in russo
gli oggetti si uniscono spesso intorno ad una situazione chiusa in sé, formano una
specie di legame materiale e quindi l’attenzione si concentra sull’oggetto, – in ita-
IL PRIMO ATTANTE IN RUSSO E IN ITALIANO: ASPETTI SINTATTICI E PRAGMATICI 427
liano in primo piano risulta esserci una relazione, un legame non tanto materiale
quanto logico, mentale e al centro del testo così si ritrova il soggetto cogitans,
agens.
Le regole che determinano le diversità descritte sono basilari per la costru-
zione dell’enunciato e del testo coesivo, naturalmente insieme ad altri fenomeni
quali la sostituzione anaforica, il sistema temporale e aspettuale e la prospettiva
comunicativa. Queste regole sono importanti anche dal punto di vista didattico
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Tesnière, L. 1959. Eléments de syntaxe structurale, Paris: Klincksiek.
PIA MÄNTTÄRI
(Helsinki)
2. Prima di cominciare l’analisi degli esempi italiani può essere utile ricorda-
re le possibilità che ha il finnico di tradurre dei passivi. Un passivo vero e proprio
non c’è – non esiste un costrutto dove sia soggetto il paziente e il soggetto logico
compaia (o possa comparire) come complemento d’agente. Invece il finnico
dispone di tre tipi di soluzione impersonale: soluzione morfologica (tipo I); solu-
zione sintattica (tipo II) e soluzione lessicale (tipo III)1.
2.1. Il finnico possiede una forma morfologica che serve per “tacere l’agente”,
mentre il complemento d’oggetto conserva la propria funzione. Questo costrutto
1 Purtroppo abbiamo una buona presentazione del cosiddetto passivo finnico solo in finni-
co. Quindi si dovrà rinviare a studi e manuali in tale lingua, in primo luogo Shore 1986 e Vilkuna
2000.
Per i passivi italiani, si è seguito la presentazione che ne fa la Grande grammatica italiana
di consultazione, in particolare Giampaolo Salvi 1988 e Pier Marco Bertinetto 1991.
Un articolo dove si confrontano alcuni passivi italiani con le loro traduzioni in finnico è
Mänttäri 2000.
430 PIA MÄNTTÄRI
può essere formato anche a partire da un verbo intransitivo. L’agente omesso è sem-
pre plurale e si riferisce a degli umani (o comunque ha il tratto + animato2.
Abbiamo quindi sia
(Ia) Työ tehdään.
lavoro-OGG. fare-INDEF. “Il lavoro viene fatto.”
che
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2.2. Troviamo poi, con una certa frequenza, altri due costrutti nelle traduzio-
ni dei passivi italiani. La soluzione sintattica consiste nell’omissione del sogget-
to di un verbo di terza persona singolare.
Bisogna premettere che in finnico c’è l’obbligatorietà del soggetto di 3a per-
sona (e solo di 3a persona), tranne nelle frasi a soggetto zero, che hanno un senso
generico. L’agente non espresso è un “chiunque”. Questo tipo di impersonale sin-
tattico non si limita ai verbi transitivi.
Il senso della frase (II) è interpretabile come “nel caso che qualcuno le andas-
se a guardare”.
2 L’indefinito finnico è stato a volte descritto come la quarta persona; questo spiegherebbe
la difficoltà di utilizzare con l’indefinito i pronomi e i possessivi che si riferiscono alle tre per-
sone (Vilkuna 2000: 140).
3 È quindi del tutto parallelo al tipo “Si va”. Cf. Shore 1986: 33-36.
4 Su questo gruppo di verbi, v. Räisänen 1988.
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 431
2.4. Negli studi sul finnico si è prestata molta attenzione al carattere dell’a-
gente non espresso: se include cioè il parlante (e qui si può pensare al limite a
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tutto il genere umano) oppure no. La soluzione I può essere o inclusiva o esclusi-
va – tutto dipende dal contesto, ma anche dall’ordine dei costituenti5. Per quanto
riguarda il costrutto II, si tratta di una forma generica e quindi inclusiva. Per i
verbi del gruppo III, le caratteristiche dell’agente sono marginali.
3. Cosa succede poi con il passivo perifrastico con agente quando lo si tradu-
ce in finnico? Di solito la soluzione è attiva, poiché i costituenti in finnico hanno
un ordine libero. L’es. (1) viene reso in finnico semplicemente con questo mezzo:
(1) Il re Garamante, che era stato tradotto in prigionia dai suoi nemici, era
stato riportato in patria da una muta di duecento cani [...] (E: 285) 6
Kuningas Garamanten ... toivat kotiin kaksisataa koiraa...
re Garamante-OGG. portare-3a PERS. PL. casa-a 200 cani-
SOGG.
(E: 356-7)
5 Il primo studio che abbia sondato le differenze interne all’indefinito finnico è stato Shore
nel 1986. Ha cercato di chiarificare i due prototipi “scritto” e “parlato” del passivo (pp. 25-29):
il primo presenta l’ordine SV, è in genere esclusivo, sebbene l’agente sia spesso irrelevante, e ha
un carattere stativo; il secondo invece ha l’ordine VS, è spesso inclusivo, l’agente è ricavabile
dal contesto, e il passivo descrive tipicamente degli eventi. Le indicazioni “scritto” e “parlato”
sono ovviamente delle semplificazioni.
6 Gli esempi provengono da quattro romanzi italiani tradotti in finnico: Se una notte d’inverno
un viaggiatore di Italo Calvino [C], Il nome della rosa di Umberto Eco [E], La donna della domeni-
432 PIA MÄNTTÄRI
Anche in italiano sembra raro il caso dei complementi d’agente “da me” o “da
noi” – almeno nella narrativa. Però risulta del tutto naturale in una precisazione
del tipo:
(3) Quanto a te, ti manderanno in una finta prigione, ossia, in una vera pri-
gione di stato che però è controllata non da loro ma da noi. (C: 215)
Qui l’agente è appunto messo in rilievo, e dal punto di vista testuale il passi-
vo perifrastico è ben motivato.
Un caso interessante è l’es. (4).
(4) Bada, queste cose io non te le dico solo dell’amore cattivo, che
naturalmente deve essere sfuggito da tutti come cosa diabolica, io
dico questo e con grande paura anche dell’amore buono che corre
tra Dio e l’uomo, tra prossimo e prossimo. (E: 233-4)
La scelta del passivo perifrastico sembra qui una scelta stilistica: rappresenta
un livello più letterario di altre possibilità, p. es. “che naturalmente si deve sfug-
gire come cosa diabolica”. Ovviamente è il verbo modale ‘dovere’ a dare un senso
particolare al costrutto, insieme al complemento d’agente “da tutti”. Il risultato è
una regola generalizzata, che viene di conseguenza tradotta con un verbo a sog-
getto zero. L’agente “da tutti” non c’è bisogno di esprimerlo, e del resto potrebbe
essere omesso anche in italiano.
4. Gli esempi del passivo perifrastico senza complemento d’agente sono sud-
divisi in due sezioni in base all’ordine dei costituenti: SV oppure VS.
4.1. Sembrerebbe a prima vista che i passivi del gruppo SV siano traducibili
con l’indefinito finnico, e spesso ciò è vero – ma non sempre. Andiamo a vedere
più in dettaglio.
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 433
L’es. (5) mette in luce una caratteristica di questo tipo di passivo: la temati-
cità del soggetto. L’agente invece è del tutto irrelevante, non ricavabile in nessun
modo dal contesto, semplicemente non include il parlante.
(5) Ma nessun corteo (era questo l’amaro segreto della città?) veniva
mai, sarebbe mai venuto, il percorso era stato modificato all’ultimo
momento, il cocchio, le piume, le fanfare sarebbero sempre passati
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Anche il passivo dell’es. (6) è esclusivo, ma qui dal contesto si può capire che
si tratta dei nemici del parlante, e l’agente preciso è ricavabile dal contesto.
(6) Siamo in un paese in cui tutto quel che è falsificabile è stato falsifi-
cato: quadri dei musei, lingotti d’oro, biglietti dell’autobus. (C: 213)
Nell’es. (7), sia il soggetto che l’agente sono fortemente presenti nel conte-
sto, anche se l’agente a questo punto è ancora vago.
(7) – Venerdì. È stato vistato venerdì, tre giorni dopo. (F&L: 428)
L’es. (8) è più interessante perché presenta un uso direi ironico del passivo: si
parla di una persona presente come se non ci fosse, nascondendola – è appunto la
signora Tabusso l’assassino dell’architetto Garrone, e chi legge lo sa.
Gli esempi di questa sezione dimostrano molto bene che l’interpretazione del
significato del passivo perifrastico dipende sempre dal contesto. Questo è vero in
particolare per quanto riguarda l’agente.
Nell’es. (9), infatti, troviamo un agente chiaramente inclusivo, è un “noi”, ma
sembra che l’uso di un passivo serva per liberare il parlante dalla responsabilità
per l’attività dell’organizzazione – una tipica motivazione burocratica per l’uso
del passivo.
(9) Non che ci fosse sconosciuto: avevamo tutti i suoi dati nei nostri
schedari, era stato identificato da un pezzo nella persona d’un tra-
duttore faccendiere e imbroglione; ma le vere ragioni della sua atti-
vità restavano oscure. (C: 241)
ca di Carlo Frutteri & Franco Lucentini [F&L] e Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia [S].
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434
7
PIA MÄNTTÄRI
Si è già detto che questo tipo di agente è poco naturale. L’indefinito finnico è
ancora più decisamente associato al carattere esclusivo dell’agente, e quindi qui
la traduzione adotta “noi” come soggetto – una soluzione non più indefinita né
impersonale.
Anche l’es. (10) sembra stilisticamente marcato, poiché l’agente inespresso
non è umano. Potrebbe essere Dio, ma si parla delle cose che il parlante può
osservare nel mondo.
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(10) E tanto più queste cose mi vengono rivelate quanto più la materia
che io guardo è per sua natura preziosa, [...] (E: 149)
4.2. Per il passivo perifrastico senza agente l’ordine naturale sembra essere
SV, benché l’ordine VS non sia eccezionale. Gli esempi (11-14) presentano dei
casi, direi, paradigmatici per l’ordine VS.
Nell’es. (11) i soggetti sono dei costituenti pesanti che si trovano in serie.
Anche il finnico, di solito restio a mettere con l’indefinito il verbo all’inizio della
frase, ha qui deciso per il VO. L’agente è irrelevante, poiché si tratta di una descri-
zione di una situazione, di un sogno.
4.3. Come abbiamo visto, il passivo perifrastico serve per esprimere sia la
tematicità del paziente, sia il carattere rematico dell’agente. Se l’agente non è
espresso, può essere esclusivo o inclusivo, ma questo deve essere ricavato dal con-
testo. L’agente può anche essere del tutto irrelevante. A differenza di tutti gli altri
tipi di costrutti passivi, nel passivo perifrastico con agente, questo agente può
essere di qualsiasi tipo, anche non umano o non animato, mentre sia il passivo
perifrastico senza agente che il si passivante richiedono un agente animato.
Il passivo perifrastico tende a esprimere delle situazioni o degli eventi pun-
tuali o circostanziati. Sono possibili anche casi di generalizzazione o di istruzio-
ne, ma sono significati che vengono veicolati da tutta la frase, e in particolare dai
verbi modali.
(15) Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche
apprezzare il gioco dell’insipiente che ride di ciò di cui solo si
deve sapere l’unica verità, che è già stata detta una volta per sem-
pre. (E: 139)
Nell’es. (16) i due costituenti sono stati tradotti con l’indefinito. Nel primo
caso c’è la negazione a incidere sul significato. Sono tutti e due dei begli esempi
dell’accezione di ’dovere’: “non si deve esorcizzare, si deve distruggere”. Però,
l’uso del solo verbo ‘distruggere’ sembra dare al secondo costrutto anche un senso
di decisione. Negli ess. (15) e (16) il passivo è fortemente inclusivo.
La frase (17) è un esempio, per la traduzione finlandese, di una soluzione
poco riuscita. Infatti, l’indefinito sembra non avere esattamente lo stesso senso di
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una constatazione generale, è piuttosto un “gli errori ... non vengono più corret-
ti”. – Per l’interpretazione del significato degli esempi (15-17) incide in maniera
non trascurabile il tempo presente.
(17) E quegli errori lì, una volta fatti, non si correggono più, restano in
eterno. (F&L: 415)
Con l’es. (18) entriamo in un’altro ordine di significati del si passivante: quel-
lo delle potenzialità. Si parla delle qualità dello specchio, di ciò che consente di
fare, se qualcuno lo guarda mentre sta avvicinando una nave. La situazione è quel-
la descritta per il verbo a soggetto zero e per i verbi riflessivo-passivi (del finnico).
I verbi di percezione vengono tipicamente tradotti con i verbi riflessivo-passivi.
(18) I geografi arabi del Medio Evo nelle descrizioni del porto
d’Alessandria ricordano la colonna che s’alza sull’isola di Pharos,
sormontata da uno specchio d’acciaio in cui si vedono a immensa
distanza le navi avanzare al largo di Cipro e di Costantinopoli e di
tutte le terre dei Romani. (E: 165)
L’es. (19) è alquanto diverso: qui abbiamo la descrizione concisa di una serie
di eventi, e sembra prendere sopravvento il verbo stesso. Non trattandosi di gene-
ralizzazioni o di regole, la traduzione presenta l’indefinito.
(20) A quel punto si udì uno schianto: il pavimento del labirinto aveva
ceduto in qualche punto precipitando le sue travi infuocate al
piano inferiore, [...] (E: 491)
CARATTERISTICHE SINTATTICO-TESTUALI DEI PASSIVI ITALIANI 438
Gli ess. (21) e (22) presentano dei verbi modali o fraseologici, il cui legame
con il si passivante è noto. In finnico, questo tipo di generalizzazione comporta,
tipicamente, all’uso di un verbo a soggetto zero.
In molti esempi del si passivante non si può dire che ci sia una topicalizzazione
del paziente o che questo sia tematizzato. È invece il verbo ad acquistare rilievo,
soprattutto se si trova nella posizione iniziale e ha certe caratteristiche semantiche.
(24) La casa dell’Abate era sopra il capitolo e dalla finestra della sala,
grande e sontuosa, in cui egli ci ricevette, si poteva vedere, nel
439 PIA MÄNTTÄRI
CORPUS
Calvino, Italo, 1979, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, (trad. in fin-
nico a cura di Jorma Kapari, Jos talviyönä matkamies, Helsinki, Tammi, 1983).
Eco, Umberto, 1984, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, (trad. in finnico a cura di Aira
Buffa, Ruusun nimi, Porvoo- Helsinki-Juva, WSOY, 1986).
Fruttero, Carlo & Lucentini, Franco, 1978, La donna della domenica, Milano, Mondadori,
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lingue del mondo, strutturalmente anche molto diversi tra loro, utilizzando delle
mappe semantiche che garantiscono la legittimità del confronto:
applicano i nomi dei colori di una data lingua. Le lingue differiscono tra loro per
l’inventario dei nomi dei colori (alcune hanno pochissimi termini, altre moltissi-
mi), e può capitare che un termine di una lingua copra un’area dello spettro cro-
matico che in un’altra lingua è suddivisa tra due o più termini.
Fatte le debite proporzioni, questo metodo funziona anche per strutture
morfosintattiche complesse. Lo spettro dei colori sarà sostituito in questo caso
da un dominio astratto. Come il dominio dei colori si poteva definire in termini
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3 I situation types non sono infatti da considerarsi come stati del mondo reali, ma impli-
cano una concettualizzazione attiva da parte del parlante: “I do not mean simple ‘real world
contexts’ existing independently of the language-user; situational contexts include ‘real
world’ information, but that information is necessarily filtered through the conceptual appa-
ratus of the speaker. This conception of situational contexts thus allows for the obvious role
of the language-user in construing particular real world situations in different ways” (Kemmer
1993: 7).
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 445
care l’una e l’altra. Se guardiamo ad altre lingue, però, scopriamo che si tratta di
una distinzione significativa, dato che esistono lingue, come l’inglese e il russo,
in cui le due situazioni sono codificate linguisticamente attraverso strumenti
morfosintattici diversi (si confronti l’inglese John sees himself in the mirror vs
John is shaving, e il russo Ivan nenavidit sebja [Ivan si odia] vs Ivan moetsja [Ivan
si lava]).
lo);
(b) un corpus parallelo, che comprende il romanzo di Umberto Eco, Il
nome della rosa (Fabbri-Bompiani-Sonzogno, Milano 1980; d’ora in
avanti NRI) e la sua traduzione spagnola (El nombre de la rosa, tradu-
zione spagnola di Ricardo Pochtar, Edizioni Plaza y Janés, Barcellona
2000; d’ora in avanti NRS). Più avanti (§ 4) faremo poi riferimento alle
traduzioni tedesca, olandese e polacca del medesimo romanzo.
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ogni struttura grammaticale (ad esempio il morfema riflessivo-medio si) tenderà a codificare
un’area omogenea della mappa stessa (senza discontinuità).
448 ANDREA SANSÒ
nosce che spesso marche di medio o di riflessivo codificano anche dei situation
types più propriamente passivi (in cui, cioè, il soggetto è diverso dall’agente) e
raccoglie questi situation types sotto l’etichetta generica di passive middle, ma
evita di fornire un’esatta definizione semantica di questo situation type. Inoltre
riconosce l’esistenza di un altro situation type, etichettato genericamente come
passive, che resta fuori, secondo la studiosa, dal dominio concettuale codificato
dal medio e dal riflessivo6 ed è di norma codificato da costruzioni passive, come
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quella perifrastica, che nulla hanno a che vedere, sul piano morfologico, con il
medio o con il riflessivo.
3. IL PASSIVO
L’analisi dei testi dimostra che i situation types codificati dalle costruzioni
passive prese in esame sono di più di quanto non risulti dallo schema di Kemmer.
Se ne possono individuare almeno tre, che possono figurare a buon diritto nella
mappa semantica di Kemmer, in quanto basati anch’essi sul parametro di mag-
giore o minore individuazione dell’evento e dei suoi partecipanti. Più avanti (§ 4)
si cercherà di definire il rapporto tra questi tre situation types e l’area concettua-
le del medio e del riflessivo.
Introduciamo innanzitutto questi tre situation types, che si configurano come
agglomerati di tratti prototipici associati con frequenza non casuale con alcune
costruzioni passive:
6 “The passive node by itself forms a semantic opposition to the entire active continuum”
(Kemmer 1993: 204).
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 449
(5) Nicola prese la forcella che Guglielmo gli porgeva con grande inte-
resse: “Oculi de vitro cum capsula!” esclamò. “Ne avevo udito
parlare da un certo fra Giordano che conobbi a Pisa! Diceva che
non erano passati vent’anni da che erano stati inventati. Ma parlai
450 ANDREA SANSÒ
con lui più di vent’anni fa”. “Credo che siano stati inventati molto
prima” disse Guglielmo.
(6) Nicola cogió la horquilla que Guillermo le ofrecía. La observó con
gran interés, y exclamó: “¡Oculi de vitro cum capsula! ¡Me habló
de ellas cierto fray Giordano que conocí en Pisa! Decía que su
invención aún no databa de dos décadas. Pero ya han transcurrido
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3.2. In gran parte della letteratura sul passivo si afferma che la funzione prin-
Tabella 4. Continuità del paziente nei passivi spagnoli;
risultati statisticamente significativi (c2 = 35.79; d.f. = 2; p < 0.1)
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3.3. Sulla base dei dati presentati nella sezione precedente, possiamo conclu-
dere che la diversa divisione del lavoro fra passivo perifrastico e passivo imper-
sonale nelle due lingue considerate è innegabile. A rigore, però, il confronto tra
italiano e spagnolo può portarci a individuare solo due situation types. L’unica
separazione netta che è presente nei nostri dati (cfr. ancora tabella 1) è quella dello
spagnolo, che utilizza il passivo perifrastico solo quando il paziente è topic (o
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quando deve essere introdotto come topic), e il passivo impersonale in tutti gli
altri casi. In italiano, le divisioni sono ancora meno nette. È vero che l’ordine delle
parole VS è di preferenza correlato a situazioni in cui il paziente non è topicaliz-
zato, ma (come dimostra anche l’esempio (16)) ciò non accade sempre. Perché,
allora, abbiamo postulato l’esistenza di tre situation types? Nella prossima sezio-
ne, vedremo che individuare tre situation types è legittimo se prendiamo in con-
siderazione i dati di altre lingue.
4. CONSIDERAZIONI TIPOLOGICHE
7 Negli esempi seguenti sono presenti anche casi di costruzione impersonale da verbi intran-
sitivi (che pertanto non possono essere etichettati come passivi in senso stretto, ma che si com-
portanto come la costruzione passiva, di cui devono essere ritenuti il corrispettivo intransitivo).
456 ANDREA SANSÒ
(24) Michele verhief wederom zijn stem om de valse meningen die hem
werden toegeschreven te bestrijden, en het betrof eerlijk gezegd
zulke subtiliteiten dat ik ze me niet herinner en ze toen niet goed
begreep. Maar op grond daarvan werd blijkbaar tot de dood van
Michele en tot de vervolging van de fraticelli besloten (NRD:
250).
(25) Si fu infine fuori della porta e davanti a noi apparve la pira, o
capannuccio, come là la chiamavano, perché il legno vi era dispo-
sto in forma di capanna, e lì si fece un cerchio di cavalieri arma-
ti perché la gente non si avvicinasse troppo (NRI: 242).
(26) Eindelijk waren we buiten de poort en voor onze ogen verrees de
brandstapel, of het hutje, zoals hij daar werd genoemd, omdat het
hout in de vorm van een hut was opgestapeld, en daar werd een
kring van gewapende ruiters gevormd om te zorgen dat de men-
sen niet te dichtbij konden komen (NRD: 252).
(27) Schließlich traten wir durch das Tor hinaus, und vor unseren
Augen erhob sich der Sceiterhaufen oder das “Hüttchen”, wie die
Florentiner sagten, weil die Balken in Form einer kleinen
Blockhütte übereinandergeschichtet waren, und es wurde ein
Kreis aus bewaffneten Reitern gebildet, damit das Volk nicht zu
nahe herankam (NRG: 319).
(28) E mi raccontò una strana storia. Disse che si poteva rendere
qualsiasi cavallo, anche la bestia più vecchia e fiacca, altrettan-
to veloce di Brunello (NRI: 223).
(29) Daarop vertelde hij me een vreemd verhaal. Hij zei dat je elk wil-
lekeurig paard. ook het oudste en slapst op de benen staande dier,
even snel kon maken als Brunello (NRD: 231).
(30) Da erzählte er mir eine sonderbare Geschichte. Er sagte, man
könne jedes beliebige Pferd, auch dem lahmsten Klepper, genau-
so schnell wie Brunellus machen (NRG: 292).
(31) Poi mi disse: “Soprattutto, Adso, cerchiamo di non farci prendere
dalla fretta. Le cose non si risolvono rapidamente quando si devono
PASSIVO ED INDIVIDUAZIONE DELL’EVENTO: UN CONFRONTO ITALIANO-SPAGNOLO 457
5. CONCLUSIONI
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EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
(Università di Milano-Bicocca – Università di Pavia)
1.1. Un morfo (una “parola”) cinese acquista la sua propria funzione solo e
unicamente in quanto elemento di una catena sintattica: nel caso di un morfo iso-
lato, non si può quindi dire aprioristicamente se esso appartenga ad una partico-
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o guoyu “lingua nazionale”) diffuso su tutto il territorio della Repubblica Popolare Cinese a par-
tire dagli anni ’50 del sec. XX, attraverso la scuola, l’amministrazione statale e, a livello capil-
lare, come lingua parlata grazie ai grandi mezzi di comunicazione di massa.
4 Kao Ming-K’ai 1940: 11-13.
5 Chao Yuen Ren 1948; Simon 1959; Jachontov 1967; Cartier 1972.
6 Chao Yuen Ren 1948: 47.
7 Simon 1959: 561.
8 Cartier 1972: 25.
9 Cartier 1972: 25-26.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 463
il morfo bisillabico xuesheng, che non accetta di essere preceduto dalla nega-
zione bu, non può essere V (esso ha funzione, bensì, di N).
re di V.
Solo nella posizione di determinante del N il valore del morfo può risultare
ambiguo. Così, l’esempio
oppure
b] “il tempo in cui si lavora” (in questo caso gongzuo ha funzione di V).
Il cinese, a livello di struttura della frase, al pari di altre lingue dell’Asia sud-
orientale14, è una tipica lingua SVO15 l’ordine secondo il quale i singoli morfi
(semplici o composti) si dispongono nella frase permette di attribuire loro un pre-
ciso valore logico-semantico e di inserirli entro una precisa classe grammaticale.
L’ordine delle parole funziona, di fatto, quale “marca” per la definizione delle
relazioni sintattiche intercorrenti tra gli elementi della frase cinese.
Dal punto di vista della forma della parola, il cinese moderno, al pari del cinese
classico, prevede essenzialmente morfi liberi, mentre rarissimi sono i morfi legati.
A differenza del cinese classico16, il cinese moderno presenta numerose paro-
le formate da due (o tre, raramente quattro) morfi17 tuttavia, pur nella maggiore
complessità morfologica della parola del cinese moderno rispetto al cinese anti-
co, le parole plurimorfiche del cinese moderno non si comportano dal punto di
vista grammaticale in modo diverso rispetto alle parole monomorfiche. Tanto in
cinese antico quanto in cinese moderno vale la proprietà, già esposta in 1.2.,
secondo la quale i singoli morfi acquistano diversa funzione unicamente in base
alla loro posizione nella catena sintattica.
2.1. Da quanto sopra esposto deriva che il V cinese, costituito come è da morfi
non flessi, non possiede, a differenza del V italiano, forme verbali finite.
Il semplice esame del paradigma del presente indicativo di un V italiano, raf-
frontato a forme “parallele”18 del V cinese, mostra la ricchezza del componente
morfologico di una lingua tipicamente flessiva-fusiva, l’italiano appunto, con-
trapposta alla marca-Ø del componente morfologico di una lingua isolante (ana-
litica), il cinese:
cinese italiano
Si noti, per altro, che l’esempio del V italiano sopra riportato si riferisce ad
un V che non prevede, nella coniugazione, variazioni della radice. Le cose si com-
plicano, evidentemente, nel caso di V – e sono frequentissimi19 in italiano – in cui,
nella flessione del V, oltre che la serie dei morfi indicanti numero e persona, muti
anche la radice.
2.1.2. Il V italiano prevede, nella varietà standard, una serie articolata di para-
digmi indicanti le categorie di tempo e di modo20: il loro uso è obbligatorio nei
punti alti dell’architettura del sistema (nei registri formali e/o formalizzati), men-
tre esso appare (in certi casi anche sensibilmente) ridotto nell’italiano dell’uso
colloquiale/informale: in tali livelli si ha a che fare, infatti, per ciò che concerne i
tempi deittici, con un sistema di base limitato al presente, al passato perfettivo
(prossimo o remoto, con variazioni sensibili connesse con la dimensione diatopi-
ca) e all’imperfetto; per quanto riguarda i tempi anaforici, il sistema ricorre quasi
esclusivamente al trapassato prossimo21.
passato remoto non è mai stato troppo vitale), ma esso è sempre più usato anche
in Toscana e in altre aree centro-meridionali ove, tradizionalmente, vige la distin-
zione tra gli usi del passato prossimo e del passato remoto.
Ad un livello poco sorvegliato degli usi linguistici, il passato prossimo tende
anche a sovrestendersi ad usi propri del futuro anteriore (quando ho finito di lavo-
rare [vs. avrò finito], tornerò a fare le cose che più mi interessano).
26 Il fenomeno sembra dipendere dal fatto che la subordinata è intesa quasi una principale
in quanto quest’ultima è o ridotta a una semplice formula (penso; mi pare, ecc.), priva del valo-
re sintattico di reggente, oppure perché, comunque, il legame sintattico tra le due frasi risulta
meno percepito.
27 Simile è il ricorso all’indicativo invece che al congiuntivo in altri tipi di frasi dipendenti
ove a connettori che richiedono nello standard l’attivazione del congiuntivo (qualora, sebbene,
ecc.) segue l’indicativo (sebbene sei stanco, non devi andare subito a letto). Va comunque detto
che tale uso non è ammesso nei livelli sorvegliati dell’italiano ove, ovviamente, è di rigore il
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 469
ove zuotian “ieri” colloca l’azione in un tempo passato. Oltre a tutti i sintag-
mi contenenti riferimenti temporali al passato, altri Av utilizzati frequentemente
per indicare il passato sono gangcai, gang “poco fa, or ora”;
ove mingtian “domani” colloca l’azione nel futuro. Oltre a tutti i sintagmi
contenenti riferimenti temporali al futuro (prossimo o remoto), quali marche atte
ad indicare il futuro sono spesso utilizzati anche gli Av jiang, kuai, jiu “presto,
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2.2.1.2. Oltre a quanto esposto fino ad ora, la indicazione del valore tempo-
rale può essere espressa mediante l’utilizzo di una serie di marche, prioritaria-
mente aventi un valore aspettuale/modale e la cui funzione risulta essere parzial-
mente sovrestesa anche a valori temporali32. Tali marche sono:
2.2.3.5.).
31 Oltre a tutti i sintagmi contenenti riferimenti temporali al presente, quale marca di pre-
sente è spesso utilizzata muqian “al presente, adesso”.
32 Chaofen Sun 1996: 85 spiega l’origine di le come esito del processo di grammaticaliz-
472 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
(19) ni zuo guo feiji ma? “tu hai già viaggiato in aereo”
tu viaggiare Ptc aereo PtcInt
(20) qunian wo qu guo Chang Cheng
passare anno io andare Ptc lunga muraglia
“lo scorso anno io sono andato alla Grande Muraglia”.
Il morfo/particella guo altro non è se non la forma del V guo “passare, attra-
versare”, grammaticalizzata quale marca di passato esperienziale.
(shi) de
essere Ptc/Modif.
(21) ta (shi) zuotian lai de
lui/lei (essere) ieri arrivare Ptc/Modif.
“lui/lei è arrivato/a proprio ieri”
(22) ta (shi) zai jiaoshi li fuxi de
ciò (essere) in classe-in ripetere Ptc/Modif.
“ciò è stato ripetuto in classe”
(23) ta (shi) zai Beijing daxue de xueshi zhongwen
lui/lei (essere) in Beijing università Ptc/Modif. studiare cinese
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 473
a] (kuai) yao
b] kuai (yao)
c] kuai yao
d] jiu yao ... le
tutti “volere”36:
Keyi indica possibilità nel caso in cui le condizioni di possibilità non siano
inerenti al referente del tema (concessione, permesso, ecc.):
Hui significa sia “può darsi che” (reso in italiano spesso mediante un futuro),
sia “sapere (fare)”: nel primo caso si tratta di una modalità tipicamente epistemi-
ca; nel secondo, tale modalità, combinata con un valore attributivo, si riferisce a
un piccolo numero di V ausiliati (indicanti azioni del tipo “cantare”, “scrivere”,
“parlare”, ecc.) e richiede un referente animato:
zazione, in medio cinese, della forma verbale liao propria del cinese antico, il cui significato ori-
ginario era “completare, finire”, “capire” (come V non stativo) o “essere ovvio” (come V stati-
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 475
vo). Dal sec. X, le compare nei testi in posizione immediatamente postverbale e nel valore esclu-
sivo di “completare, finire”. Per questioni connesse con l’evoluzione fonetica di liao > le,
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 477
probabilmente favorita dall’incrocio con la forma lai “venire”, cfr. ibid. 92-93.
33 Sulla categoria generale dell’aspetto in cinese, cfr. Kalousková 1964. Importanti osser-
vazioni anche in Thompson 1968, Thompson 1970 e Cartier 1972: 120-122.
478 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
Banfi.
Nelle prime registrazioni di CH le relazioni temporali non sono espresse dal
verbo: nelle narrazioni personali riguardanti la famiglia negli anni in cui viveva in
Cina, o i nonni morti in Cina, CH non usa verbi con marche di passato. Nella 14^
registrazione (fatta circa dieci mesi dopo l’inizio dello studio) CH produce una
serie di enunciati in cui il verbo è al “presente”, o meglio in forma lessicale non
morfologizzata priva di indicazioni di tempo e di aspetto. L’apprendente ricalca
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Anche in (46) e (47), parlando dei genitori e del nonno materno, CH fa uso di
riferimenti temporali e spaziali che consentono di collocare gli eventi nel passa-
to, mentre le distinzioni temporali marcate sul verbo sono assenti:
(46) CH14: prima viene eh mio padre poi seconda volta viedono
anche mio mio madre anche fratelo
“prima è venuto (in Italia) mio padre, poi dopo sono venuti anche mia
madre e mio fratello”
(47) CH14: mio nonno mio nonno non è Giappone + ha va eh lavoro
Giappone
lavoro ha tant/tanti anni e poi è ve/eh+++ torna a casa /poi lavo-
ro eh talia capelli
“mio nonno non era giapponese; ha lavorato per molti anni in
Giappone poi è tornato a casa e si è messo a lavorare come bar-
biere”
verbo. La categoria della persona viene espressa anche dai pronomi, che in italia-
no non sono richiesti obbligatoriamente come in inglese o in francese. Tutti gli
apprendenti apprendono precocemente i pronomi personali e li usano esplicitare
il soggetto, supplendo alla mancanza di morfologia verbale.
Per quanto riguarda l’accordo di persona espresso dalle desinenze del verbo,
il processo di acquisizione procede lentamente e anche alla fine dell’osservazio-
ne CH non controlla completamente tale accordo. L’accordo soggetto-verbo fa
parte delle proprietà del V finito. La nozione di finitezza non è non realizzata in
maniera esplicita nella grammatica del cinese che, come abbiamo detto, ha mor-
femi verbali invariabili. Non rientra negli scopi e nei limiti di questo lavoro discu-
tere la nozione di finitezza, che viene qui intesa secondo l’uso della tipologia
come un insieme di marche morfologiche che segnalano il tempo, la persona, il
numero del verbo40. È stato sostenuto che ad un livello più profondo la funzione
della finitezza è di marcare la forza illocutiva di un enunciato (Klein 1998): in tal
caso CH avrebbe la nozione semantica della finitezza, ma non avrebbe concettua-
lizzato la necessità di segnalarla mediante apposite marche nella lingua italiana.
Pertanto non si tratta di chiedersi quando è appresa la categoria, ma quando e in
quale ordine sono appresi i morfemi che la segnalano.
Nei dati di CHU non troviamo all’inizio, com’era prevedibile, verbi finiti: le
forme usate sono forme in -a o in –i (lavora, mangi) che esprimono il contenuto
lessicale del verbo, poi forme in –to, che sono analoghe al participio passato della
lingua di arrivo e forme in –re analoghe all’infinito, usate forse con una sfumatu-
ra modale-aspettuale, come suggeriscono Banfi (1990) e Berretta (1990).
Nella prima registrazione compaiono in tutto una dozzina di verbi, tra cui tre
occorrenza della copula è. In almeno tre casi la forma del verbo è semplicemente
ripresa dalla domanda che l’intervistatrice rivolge a CH usando la seconda perso-
na, come in (49). Qui CH mostra di non aver concettualizzato la segnalazione
della persona nella terminazione del verbo: in altre parole non conosce l’accordo
di persona:
34 Sulle marche aspettuali (sul loro rapporto con valori temporali), cfr. Cheng Guang Tsai
1979; Iljic 1986.
35 Un esame esaustivo delle ricorrenze e delle funzioni del morfo guo è in Li Chor Sing 1984.
480 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
Nella seconda registrazione compaiono più verbi lessicali. Il verbo essere con
funzione di copula sembra avere una flessione, o perlomeno occorre in due forme
è e sono: sono non compare però sempre in contesti appropriati di 1sing. e 3plu-
rale, ma può riferirsi anche alla 3sing. e talvolta co-occorre con è (51):
lei, loro, noi sono usati. L’uso sembra dettato da esigenze comunicative (attribu-
zione dei ruoli di soggetto), da principi testuali generali (distanza dalla prima
menzione) (rimando a Valentini 1992:143sgg. per una analisi dell’uso dei prono-
mi soggetto). Valentini nota che nelle ultime registrazioni la frequenza dei sog-
getti pronominali diminuisce in relazione inversa all’aumento dell’accordo di per-
sona. Anche queste tendenze (che non escludono l’uso di soggetti nelle ultime
registrazioni anche là dove un nativo non li riterrebbe necessari) sono un indizio
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(54) CH04: sua molie lava questo eh lava pentola lavato eh pentola
guarda come eh specchio
“la moglie lava una pentola e dopo averla lavata la guarda come
uno specchio”
(55) CH03: anghe poi mangiare +++ mangiare pane e prosc/prosciutto
eh mangiato poi eh va cucina+ lavo eh lava tutto…. poi lavare
denti eh fatto poi v/va letto dormì
“poi mangia pane e prosciutto, finito di mangiare va in cucina e
sato è un’interpretazione di default, dal momento che le può riferirsi anche al pre-
sente e al futuro. Simile è la situazione del cantonese in cui il suffisso con valore
aspettuale è jó , usato in costruzioni seriali per esprimere una sequenza di azioni
(Matthews e Yip 1994:204sgg.)43. Il participio passato ha valore aspettuale in que-
sti contesti e compare accanto a forme “basiche” che descrivono un’azione in
svolgimento. In realtà quindi CH non marca il tempo sul verbo, ma la compiutez-
za di un evento (Giacalone Ramat 1995,1999 e in stampa).
I dati dell’ultima registrazione di CH, effettuata circa un anno e mezzo dopo
la prima, mostrano molti cambiamenti, non solo per quanto riguarda il lessico e il
numero di parole degli enunciati, ma anche nella struttura della grammatica.
I verbi appaiono accordati con maggiore regolarità, il participio passato è di
solito accompagnato da un ausiliare, come in (56).
(56) CH19: Int.: tua sorella quand’era in Cina faceva anche lei la
sarta?
CH: eh mia sorella minore eh sì in Cina ha lavorato eh sarta
….
L’ausiliare è “avere” (ha venuto), tuttavia in due occasioni CH produce cor-
rettamente: no(n) sono andato. L’ausiliare non è fornito in tutti contesti in cui è
obbligatorio in italiano per formare il passato prossimo44.
Come mostrano gli esempi (48) e (49), l’infinito è talvolta usato con funzio-
37 Utile, a questo proposito, il rinvio alla testimonianza riportata alla nota n. 46.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 483
40 Nel quadro della sintassi generativa la finitezza è una categoria funzionale che è parte
delle categorie funzionali INFL o AGR. Il concetto di finitezza implica anche una interrela-
zione con fenomeni sintattici quali la posizione della negazione (Schlyter 2000). Negli studi sul-
l’acquisizione di L1 e L2 si è insistito sull’importanza della flessione verbale per segnalare l’i-
nizio di un trattamento grammaticale della lingua.
VERBI ITALIANO E CINESE A CONFRONTO E QUESTIONI DI ACQUISIZIONE DEL VERBO 485
41 Alcuni studiosi che lavorano nel quadro teorico del generativismo hanno sostenuto che il
case marking corretto nei pronomi è indizio del fatto che il tempo è specificato come [+finito]
perché è il tratto T (ossia la categoria funzionale Tempo) che controlla il caso del soggetto
(Lardiere 1998). In questa ottica l’assenza di realizzazione morfologica dell’accordo di tempo e
persona non prova che le categorie funzionali di Tempo e Accordo siano assenti dalla gramma-
tica degli apprendenti. Le nostre indagini si inquadrano in modelli teorici di tipologia funzio-
nale più legati alle manifestazioni di superficie.
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486 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
42 Ad esempio, nei dati di FD una giovane donna cinese registrata da G. Massariello tro-
viamo:
a casa studia un liblo+++ studiato un liblo+ mh mangia un mela una me/
(Giacalone Ramat 1995:296)
43 ngóhdeih git-jó-f_n jauh heui douh maht-yuht
noi sposare-PERF poi andare passare luna di miele
“dopo esserci sposati andremo in luna di miele”
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09).
Nella stessa registrazione TU fa un confronto col cinese e osserva ;
verbo no cambia niente metono n picolo come italiano articolo sempre uguale arti-
colo+ sempre uguale+ no come qua cambiare tropo+ de l’ultima sempre cambiare
wo ni ta+ io tu lui loro noi voi sempre cambiare, no? Invece in Cina no cambiato
niente solo metono n articolo come questo+ sempre ugu/più facile
(TU09).
488 EMANUELE BANFI – ANNA GIACALONE RAMAT
46 Ci siamo soffermati più che altro sulla distanza tipologica tra l’italiano e il cinese, tut-
tavia è il caso di ricordare che ci sono vari fattori individuali che hanno un peso nello sviluppo
linguistico. Le produzioni di CH sono molto esitanti e mostrano lo sforzo di mettere insieme le
parole: le forme che presumibilmente CH ha acquisito non sono ancora completamente auto-
matizzate, al contrario sono scarsamente controllate, come mostrano appunto le molte esitazio-
ni. Occorre confrontare più percorsi di apprendimento in una coppia di L1-L2 per poter genera-
lizzare i risultati
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PARTE QUARTA
«STUDI DIDATTICI»
Conferenza Introduttiva
RÉMY PORQUIER
(Université de Nanterre-Paris-X)
«Gli corro dietro» / «Je lui cours après». / A propos d’une construction ver-
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On n’abordera pas ici, sur ce point, une comparaison détaillée entre le fran-
çais et l’italien. Celle-ci, à faire en détail, supposerait en effet, une délimitation de
l’objet de comparaison et un inventaire approfondi en principe semblables pour
l’italien à ce que nous avons proposé (Porquier 2001) sur le français. On se limi-
tera donc à quelques observations de méthode, touchant à l’identification et à la
caractérisation de la structure considérée, d’une part, et à des questions termino-
logiques et notionnelles d’autre part.
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1 que nous avons appelée p (la lettre grecque «pi») pour à la fois distinguer et neutraliser
l’opposition préposition-adverbe d’une part, et les termes de ‘préposition’ et ‘postposition’: p
recouvre alors une série d’adverbes, de prépositions, de locutions prépositionnelles et de locu-
tions adverbiales.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 493
D'un point de vue syntaxique, il m'a sauté dessus, je vais lui rentrer dedans,
cours-lui après peuvent être décrits selon deux constructions:
x + pronom + verbe + p
verbe + pronom + p
2 A été exclue de l’analyse la structure avec complément d’objet, du type «Il m’a versé de
l’eau dessus», dont les propriétés sont sensiblement différentes.
3 Avant que le coq chante. Paris, Gallimard, 1953 (trad. par Nino Frank de Paesi tuoi. Prima
che il gallo canti. Einaudi, 1949).
494 RÉMY PORQUIER
(13) Ma guido le venne accanto Mais Guido vint près d’elle […]
(14) Voialtre non fate che corrervi dietro Vous ne faites que vous cou-
rir après
Les grammaires de l’italien font une place assez importante, avec un traitement
parfois détaillé, à ce qu’elles nomment «verbi sintagmatici’ et ‘verbi frasali’, pour
désigner des unités d’un statut voisin de celles mentionnées en 1 à propos du français.
La Grande grammatica italiano di consultazione (Renzi 1987) en traite à plu-
sieurs reprises, dans des chapitres différents6, dont nous extrayons la série
d’exemples qui suit:
4 La bella estate/Le bel été, Paris, Gallimard, 1955, (trad. Par Michel Arnaud).
5 Pour mieux mettre en évidence la relation entre plusieurs paires de phrases-exemples, nous les
avons regroupées et disposées ici d’une façon différente de celle figurant dans le texte de référence.
6 Une étude systématique serait à faire dans ce cadre, par exemple auprès d’apprentis ensei-
gnants et d’apprentis traducteurs, dans l’acquisition/apprentissage du français par des italopho-
nes, de l’italien par des francophones, mais aussi de l’italien et du français par des anglophones
et inversement.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 495
Ci ho pensato su
Mi viene dietro il cane
Gli è andato addosso
alors que d’autres ont un statut identique ou comparable aux phrasal verbs de
l’anglais (sur l’anglais, voir Biber & al. 1999), qui, pour être à valeur prototypi-
quement spatiale, n’impliquent pas le même type de rection syntaxique avec pro-
nominalisation qu’en italien ou en français. On en arrive donc à constater l’exis-
tence en italien de deux types de construction, l’une correspond aux phrasal verbs
de l’anglais, l’autre à la structure française verbe + p.
Cette observation comparative pourrait s’illustrer sommairement ainsi:
Schema 1
496 RÉMY PORQUIER
au moins jusqu’à une étude comparative plus poussée entre les trois langues pour
les unités concernées. Une telle étude pourrait s’étendre, avec quelques présomp-
tions de comparabilité, à d’autres langues romanes: la structure verbe + ___exis-
te par exemple en espagnol (se me echó encima, me viene detrás). Elle permettrait
en outre de confronter les latitudes et les limites lexico-sémantiques de ses
emplois dans les langues concernées (cf. par exemple si guarda intorno / *il se
regarde autour / il regarde autour de lui).
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7 Punjabi -> anglais, italien -> anglais, italien -> allemand, turc -> allemand, turc -> néer-
landais, arabe -> néerlandais, arabe -> français, espagnol -> français, espagnol -> suédois, fin-
nois -> suédois.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 497
logie verbale, et qui modifie chemin faisant la structure globale, y compris syn-
taxique (en termes de topic-focus ou de thème-rhème) des énoncés. L’acquisition du
lexique verbal est inscrite dans cet itinéraire et contribue à le structurer.
La recherche menée à Pavie (voir Giacalone, 1995) auprès d’apprenants adul-
tes de langues maternelles diverses (chinois, tigré, arabe, allemand, anglais, etc.) en
milieu majoritairement naturel met globalement en évidence une séquence d’acqui-
sition des temps verbaux, selon les étapes suivantes (Giacalone Ramat 1995, 6):
présent > part. passé (aux. + part. passé) > imparfait > futur,
9 Pour lequel on rencontre les mêmes contraintes: venir de + Vinf, à valeur de ‘passé immé-
diat’, n’est possible qu’au présent et à l’imparfait de l’indicatif.
«GLI CORRO DIETRO» / «JE LUI COURS APRÈS». A PROPOS D’UNE CONSTRUCTION 499
Schema 2
BIBLIOGRAPHIE *
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0. PRESENTAZIONE
1 Cfr. in particolare Bernini / Giacalone Ramat (a cura di) 1990 e Giacalone Ramat / Crocco
Galeas (a cura di) 1995.
2 Cfr. fra gli altri il progetto di Heidelberg (Dittmar / Klein 1979), il progetto ZISA
(Clashen/Meisel/Pienemann 1983); Andersen (a cura di) 1984; il progetto ESF (Perdue (a cura
di) 1982; Perdue (a cura di) 1993); il progetto di Pavia (Bernini / Giacalone Ramat 1990;
Giacalone Ramat / Crocco Galeas 1995).
502 CECILIA ANDORNO
3 Può trattarsi di una delle prime tre persone del presente, usata indifferentemente per le
diverse persone, o comunque di una forma costituita dalla radice più una terminazione vocalica.
La flessione personale si sviluppa parallelamente alla flessione TAM, ma non ne tratteremo in
questo contributo.
4 Il participio congiunge, almeno inizialmente, valori aspettuali perfettivi e azionali telici,
come osserva Giacalone Ramat 1990. Le prime forme di participio sono infatti di verbi telici,
come fatto, andato, preso.
5 Nei dati di Berretta 1990 l’emergere per l’infinito di questo valore, insieme a quello di
marca di dipendenza in nessi verbali, sembra particolarmente precoce.
6 Le opposizioni funzionali descritte possono trovare mezzi di espressione alternativi di tipo
lessicale: già può marcare perfettività, basta un risultativo, sempre un iterativo o continuativo
(cfr. Massariello Merzagora 1990).
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 503
Il sistema della copula e degli ausiliari (forme atematiche), che pure concorrono
nell’italiano nativo a veicolare differenze TAM, si sviluppa parallelamente a questo,
ma con leggero ritardo. Nelle varietà iniziali non compaiono infatti né forme di ausi-
liare né di copula (Giacalone Ramat 1990, Bernini 1990); successivamente compare
la copula, mentre l’ausiliare fa il suo ingresso nell’interlingua solo dopo la costituzio-
ne del primo paradigma tematico, costituito dall’opposizione fra presente e participio.
Con l’ingresso dell’ausiliare, è a disposizione dell’apprendente un doppio
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sistema di marcatura delle funzioni TAM: quello che sfrutta le forme tematiche e
quello che si serve delle atematiche. L’introduzione del sistema delle forme ate-
matiche, che portano i valori di finitezza della predicazione su un’unità verbale
autonoma rispetto alla forma verbale portatrice di valore lessicale, ha importanti
ripercussioni anche sull’organizzazione della frase. Per mostrare quali ristruttura-
zioni del sistema tale innovazione renda necessarie, abbiamo analizzato le strate-
gie di integrazione degli avverbi fasali nell’interlingua di 12 apprendenti di quat-
tro diverse L1 (tigrino, cinese, inglese, tedesco), tutti compresi nella Banca Dati
di Italiano L2 del Progetto di Pavia e per la maggior parte già studiati relativa-
mente allo sviluppo del sistema verbale (cfr. Banca Dati di Italiano L2, 2001); i
dati relativi agli apprendenti sono presentati in Tabella 2.
JO, EO, AB, oltre all’imperfetto, proseguono acquisendo altre forme (condizio-
nale, futuro, congiuntivo, passato remoto); FI, AN, MT, UL, che possiedono già
all’inizio delle osservazioni l’imperfetto, sviluppano successivamente altre forme;
FR possiede fin dall’inizio un sistema a più forme.
2. LA POSIZIONE DELL’AVVERBIO
Gli avverbi fasali (o avverbi temporali di contrasto, TAC, cfr. Klein 1994),
presenti nelle varietà di apprendimento dell’italiano fin dalle varietà iniziali, sono
direttamente interessati allo sviluppo del sistema delle forme verbali. Tali avver-
bi sono collocati nella varietà nativa in posizione interausiliare11, ovvero, nei ter-
11 Cfr. Lonzi 1991; tralasciamo di discutere le differenze delle varietà regionali, dato anche
l’input prevalentemente di varietà settentrionali dei nostri apprendenti, per il quale la descrizio-
ne di Lonzi è appropriata.
506 CECILIA ANDORNO
mini di Klein 1998, seguono la forma verbale portatrice di finitezza (VFIN). Tale
forma può essere costituito da un verbo lessicalmente pieno (VLEX) o vuoto
(VNLEX). In Tabella 6 descriviamo le posizioni possibili per l’avverbio nella
varietà nativa in termini di finitezza e di valore lessicale.
osserveremo considerando ora i soli enunciati a nodo verbale (la prima colonna
della Tabella 3).
La tendenza alla collocazione preverbale è maggioritaria nelle varietà più
arretrate, in cui il processo di acquisizione del sistema verbale atematico e tema-
tico è nelle fasi iniziali, ma diminuisce negli apprendenti in cui il sistema è pie-
namente sviluppato. Nei dati di JO l’unico esempio di TAC interno in enunciato
a nodo verbale è preverbale:
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12 Agiscono in questa fase anche meccanismi di diffusione delle strutture per singoli lesse-
mi: con alcuni avverbi – in particolare con le strutture comprendenti una negazione: (non…) più,
(non…) mai, (non…) ancora – lo spostamento in posizione postverbale dell’avverbio fasale
avviene prima.
510 CECILIA ANDORNO
4. CONCLUSIONI
inglese L2) per i focalizzatori additivi e restrittivi. Tale percorso ricorrente non
può essere giustificato che su basi semantico-pagmatiche, indipendenti dalle lin-
gue di partenza e di arrivo coinvolte. Osservando l’enunciato sotto il profilo della
struttura informativa, gli avverbi in questione risultano essere collocati nel punto
di snodo fra topic e comment, in posizione precedente il comment:
1. AVV COMMENT
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Ora, gli avverbi considerati sono tutti modificatori del comment: in particola-
re, la negazione ne modifica la polarità assertiva; gli avverbi fasali il valore
tempo-aspettuale; i focalizzatori additivi e restrittivi vi agiscono come quantifica-
tori (Longobardi 1988). La posizione pre-comment risponde quindi a un criterio
semantico che sembra largamente operativo nelle varietà di apprendimento,
secondo il quale un elemento modificatore è immediatamente seguito dal proprio
scope (cfr. anche Becker / Dietrich 1998). In enunciati a nodo verbale, la posizio-
ne pre-comment si traduce poi, nelle lingue considerate, in una posizione prever-
bale, essendo il verbo il nucleo della predicazione e, nella struttura sintattica
lineare, il primo elemento della porzione in comment:
2. AVV V
Nelle fasi successive, laddove questa struttura contrasta con i dati della varietà
nativa, il sistema di interlingua deve essere ulteriormente elaborato. È il caso, per l’i-
taliano L2, degli avverbi fasali e focalizzanti, e, per le altre lingue citate, di negazio-
ne, avverbi fasali e focalizzanti: le regole di collocazione degli avverbi di predicato
devono cioè essere integralmente ristrutturate nelle interlingue di francese, inglese e
tedesco, mentre per l’italiano tale ristrutturazione riguarda i soli avverbi focalizzanti
e fasali. Le strutture dell’italiano nativo relative a questi avverbi presentano tuttavia
delle difficoltà di integrazione, in una varietà di apprendimento ancora prevalente-
mente operante su criteri lessicali-semantici e non morfosintattici: da questo punto di
vista, il sistema nativo appare infatti incoerente, in quanto l’avverbio viene talvolta
anteposto, talvolta posposto all’elemento lessicalmente pieno (cfr. ancora Tabella 6).
Una prima revisione della struttura enunciata in operante nelle varietà di apprendi-
mento, ancora basata su un criterio lessicale-semantico, prevede la preposizione del-
l’avverbio al primo elemento predicativo lessicalmente pieno; l’avverbio resta quin-
di preposto al verbo tematico, ma viene posposto all’ausiliare e alla copula, renden-
dosi così adiacente al primo elemento lessicalmente pieno (LEX) del comment:
Tuttavia, è solo con una completa ristrutturazione delle regole sulla base della
categoria di finitezza che le varietà di apprendimento approdano al sistema nati-
vo. Il passaggio alla struttura conseguente:
512 CECILIA ANDORNO
ma meno coerente nella scelta della posizione dell’avverbio di predicato, poiché pre-
vede posizioni diverse per gruppi avverbiali diversi. Mentre per la negazione – l’av-
verbio di predicato più precocemente appreso e di gran lunga più usato nelle varietà
di apprendimento –, è prevista la posizione pre-VFIN che appare, anche sulla scorta
delle succitate osservazioni interlinguistiche, la più naturale sulla base del criterio
semantico di precedenza del modificatore allo scope, per gli avverbi fasali e focaliz-
zanti è richiesta la posizione post-VFIN. L’apprendente di italiano deve quindi svi-
luppare, per questi soli avverbi, un sistema ad hoc basato su una categoria, quella di
finitezza, fino a questo punto sconosciuta allo sviluppo dell’interlingua.
La maggior lentezza di apprendimento può poi essere data da un’altra pecu-
liarità delle interlingue di italiano. Le varietà di apprendimento dell’italiano si
contraddistinguono per una precoce sensibilità alla morfologia flessiva, che porta
gli apprendenti allo sviluppo di sistemi di opposizioni di forme tematiche molto
prima di quanto accada per altre interlingue (Bernini 1990, Berretta 1990,
Giacalone Ramat 1990). Il fatto viene imputato da un lato alla peculiare salienza
della morfologia flessiva dell’italiano – che si distingue in ciò dalle altre lingue di
arrivo menzionate, le quali non conservano che irregolari tracce di un sistema fles-
sivo –, dall’altro alla discreta trasparenza – per la relativa biunivocità fra forma e
funzione e regolarità di formazione – che caratterizza la morfologia verbale del-
l’italiano, almeno nelle forme interessate dalle prime tappe di apprendimento
(participi passati, infiniti, imperfetti)14. Per converso, anche in virtù della facilità
e rapidità con cui è costituito un sistema di opposizioni di forme tematiche, la
marcatura TAM attraverso le forme atematiche resta nelle interlingue di italiano
una strategia secondaria, che compare solo in seguito al fissarsi delle prime oppo-
sizioni di forme tematiche e raggiunge la pervasività propria della varietà nativa
solo in apprendenti avanzati15. Viceversa, il sistema di marcatura TAM sulle forme
14 La più elevata allomorfia del participio passato causa infatti qualche fenomeno di fossi-
lizzazione.
15 Benché la strategia di marcatura TAM sulle forme atematiche non sia in italiano né il
primo ad emergere né quello prevalente, esso si presenta in alcune occorrenze sporadiche come
alternativo a quello di marcatura sulle forme tematiche. Questo è mostrato, come rilevato anche
da Bernini 2001, da sporadiche costruzioni di ausiliare + forma tematica in cui il solo ausiliare
si carica dei valori TAM. È il caso di forme di ausiliare al presente seguite da una forma tema-
tica al presente o infinito, con valore di perfettività:
\CH\ lui detto ho io ha uccidere [CH12.374]
LA COLLOCAZIONE DELL’AVVERBIO NELL’ACQUISIZIONE DELLA FLESSIONE 513
\AB\ è passato di lì/ di là allora lei ha credo che era un altro [AB4.538]
\FI\ la prossima + giorno abbiamo fare/ ha fatto ancora + di autostop [FI9.159]
o forme di ausiliare all’imperfetto seguite da una forma tematica al presente o infinito, con
valore di passato imperfettivo:
\JO\ e molto triste ma++ anche+ ero+ contente + perché ero ehm?lasciare? […] lasciavo
l’Irlanda [JO3.155]
\MK\ secondo me eh: se – i documenti – non c’è erano di lui + non/non era: trovare
tu/teléfono numero [MK10.336]
“secondo me, se i documenti di lui non c’erano, non trovava (non poteva trovare) il nume-
ro di telefono (ipotetica di primo tipo: “siccome i documenti non c’erano…”)”
o ancora costrutti in cui l’ausiliare porta la marca di persona:
\MK\ noi_non fa: non non ha f:/siamo non ha fatto la nostra spettacolo [MK6.336]
“non abbiamo fatto il nostro spettacolo”
514 CECILIA ANDORNO
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0. INTRODUZIONE
In questo contributo si intende presentare una parte dei risultati di una ricer-
ca che ha avuto come obiettivo principale l’analisi qualitativa e quantitativa delle
preposizioni in apprendenti avanzati di italiano L21. In particolare si sono volute
verificare le seguenti ipotesi:
1 Il titolo della ricerca, svolta dalla scrivente e oggetto della tesi di Dottorato in Didattica
dell’Italiano a Stranieri, è il seguente: Preposizioni in apprendenti di italiano L2 di competenza
quasi-bilingue/quasi-nativa. Usi e funzioni di un sistema in evoluzione: riflessioni teoriche e
implicazioni didattiche, Siena, Università per Stranieri, A.A. 2000-2001.
518 CARLA BAGNA
rare apprendenti la cui competenza fosse stata misurata e valutata come avanzata,
abbiamo preferito una definizione di apprendente quasi-bilingue per gli infor-
manti che abbiamo utilizzato. Proprio per avere un gruppo che risultasse rappre-
sentativo di una competenza valutata secondo parametri precisi, la scelta di un
gruppo di informanti appartenenti al livello più alto di una certificazione è sem-
brata la soluzione più trasparente. In particolare sono stati scelti 80 candidati che
hanno superato, sia in Italia che all’estero, nella sessione di dicembre ’99, il livel-
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Poiché ogni livello CILS è costituito da diversi test per misurare e valutare la
comprensione dell’ascolto, la comprensione della lettura, la produzione scritta e
la produzione orale, le strutture di comunicazione dell’italiano, per lo studio delle
reggenze verbali e delle preposizioni abbiamo scelto di trattare in particolar modo
le produzioni scritte. Tale motivazione trova origine in primo luogo nel fatto che
la prova di produzione scritta è una prova aperta e quindi, al di là dell’input dato,
il candidato può scegliere le forme che ritiene più adeguate ed esatte per argo-
mentare le proprie opinioni; di conseguenza si presume che scelga la forma per
lui più corretta. Inoltre è stata analizzata anche la seconda prova scritta, una prova
semistrutturata (una lettera) che richiede sì formule fisse (di apertura e di chiusu-
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 519
ra, di saluto, scelte di registro ecc.), ma che lascia in parte libero il candidato2.
Non è stata considerata la produzione orale in quanto nella prima prova il candi-
dato dialoga con l’esaminatore e quindi la variabile ‘esaminatore’ (diverso per
ogni candidato) può influire sulla struttura del parlato, mentre il monologo richie-
derebbe una ricerca a sé proprio per il fatto che si tratta di parlato. Ciò non toglie
che una seconda ricerca che consideri il monologo degli stessi apprendenti di cui
è stata analizzata la produzione scritta non possa essere svolta.
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2 Il candidato doveva svolgere due produzioni scritte, scegliendo uno tra gli argomenti pro-
posti, in particolare per la prova 1 i temi erano i seguenti: a) “Si parla spesso di ‘infanzia nega-
ta’. I numerosi conflitti presenti nel mondo ripropongono sempre in primo piano i traumi psico-
logici e fisici causati ai bambini ai quali viene negata la possibilità di giocare, studiare, cresce-
re. Esprimi un'opinione sulla situazione dell'infanzia nel tuo paese e sul futuro che intravedi per
i bambini del 2000”; b) "La pubblicità è l'anima del commercio – dice un vecchio detto. Oggi si
è sommersi di pubblicità che abbagliano tutti per strada, alla radio, in televisione. Secondo te
quanto la pubblicità condiziona e quanto invece è necessaria per proporre nuovi prodotti?”; per
la prova 2 la scelta era tra i seguenti input: a) “Lavori come giornalista per una rivista specializ-
zata. Scrivi il resoconto di una manifestazione culturale che si è verificata recentemente nella tua
città”; b) “Sei il rappresentante dell'associazione che raccoglie i residenti in Italia del tuo paese.
Scrivi al presidente della provincia in cui risiedi per comunicare le iniziative previste per il pros-
simo anno e per richiedere eventuali finanziamenti alle attività”.
3 È possibile infatti per i candidati che superano solo le prove relative ad alcune abilità capi-
talizzare il risultato ottenuto e sostenere le prove insufficienti entro un anno dalla data del primo
esame. Per questo motivo un candidato CILS può ottenere tre esiti diversi: promosso (p), capi-
talizzato (c), non promosso (np).
520 CARLA BAGNA
2. LE PREPOSIZIONI
Una teoria descrittiva delle preposizioni, nel caso dell’italiano, come di altre
lingue, lascia aperti numerosi interrogativi, in cui si distinguono studiosi che trat-
tano le preposizioni solo come elementi di relazione, quindi con un ruolo sintatti-
co ben preciso, oppure dal punto di vista del contenuto semantico e lessicale che
ogni preposizione può apportare e aggiungere agli elementi che unisce. Da
l’idea degli interrogativi ancora aperti. Se infatti non si può dire che le preposi-
zioni, in particolare quelle proprie, abbiano subito dei cambiamenti particolari,
non sono aumentate né diminuite, l’apporto semantico sembra rimodellarsi conti-
nuamente.
Se poi consideriamo anche solo le più recenti grammatiche descrittive dell’i-
taliano (in particolare Serianni 1988, Renzi-Salvi 1988, Dardano-Trifone 1985-
1995, Sensini 1997), i dizionari (Dizionario di Italiano Sabatini-Coletti – DISC
1997, Grande Dizionario Italiano dell’Uso – GRADIT 1999, Vocabolario della
Lingua Italiana di N. Zingarelli 2000), non troviamo una linea comune che con-
senta di districarsi da interrogativi relativi agli usi delle preposizioni, dove spesso
è la provenienza geolinguistica del parlante, oltre al contesto, a stabilire usi e
regole delle preposizioni. Inoltre non dimentichiamo che l’italiano è ricco di una
serie di locuzioni preposizionali, unità lessicali complesse o polirematiche e di
altre costruzioni utilizzate come tali (o come routines) in cui talvolta la preposi-
zione non sembra avere alcun ruolo se non una presenza grafica, che l’uso, per
ora, non elimina.
In ultimo, queste particelle così frequenti rappresentano tasselli, in alcuni
casi necessari, in altri superflui, nella struttura di una lingua e questo non fa che
consolidare il loro status di categoria grammaticale ‘vaga’. Se prendiamo cinque
grammatiche italiane, i valori semantici indicati per le preposizioni proprie (tab.
n. 2), anche se in parte combaciano, non sembrano essere esaustivi e chiarifica-
tori.
3. L’ANALISI QUANTITATIVA
Il corpus contiene 34.862 forme, incolonnate in modo tale che ogni cella di
Excel contenga una sola parola (con criteri particolari per i nomi propri, il verbo
esserci ecc.); le preposizioni occupano un totale di 7451 celle: in questo gruppo
sono inserite anche forme non riconducibili a preposizioni vere e proprie, ma arti-
coli, sostantivi, aggettivi, avverbi che costituiscono parti di locuzioni preposizio-
nali o di polirematiche con preposizioni. Per indicare il nucleo del nostro corpus
dobbiamo quindi apportare un’ulteriore selezione.
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522
CARLA BAGNA
Tabella 3. Le preposizioni 6
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Il totale degli errori (#, #ar, #arp, #bis, #i, #p7), a cui possiamo aggiungere
anche casi dubbi e omissioni, è di 515 forme che rispetto alle 7451 forme consi-
derate rappresenta solo il 6,91%. Se poi sottolineiamo solo le forme segnalate con
# (errore di preposizione), 313, e le rapportiamo a 5525, abbiamo una percentua-
le del 5,66%. Questi dati indicano chiaramente che l’incidenza degli errori è
bassa, testimoniando quindi che le preposizioni vengono usate correttamente in
più del 90% dei casi.
4. L’ANALISI QUALITATIVA
In questo contributo consideriamo gli errori relativi alle reggenze verbali con
preposizione (1° caso), le preposizioni che reggono verbi all’infinito (2° caso) e
le polirematiche con preposizioni categorizzate come verbi (3° caso).
4.1. 1° CASO. GLI ERRORI R, R+, R-. Sotto l’etichetta r sono stati raggruppati
gli errori dovuti a problemi di reggenze e in particolare alla scelta errata della pre-
posizione che il verbo regge. Sono gli errori in cui l’apprendente inserisce una
preposizione dopo un verbo, ma non si tratta di quella esatta.Vi sono 33 errori di
questo tipo in tutto il corpus, commessi solo da 24 informanti su 80. Se in primo
errori siano simili, non tanto nel tipo di errore quanto negli elementi interessati
dall’errore, in particolare verbi appartenenti per lo più al Vocabolario di Base
(VdB) e frequenti.
Per errori r+ (Tab. 5) intendiamo i casi in cui il verbo è seguito da una pre-
posizione dove invece dovrebbe esserci un complemento diretto. Si tratta di 21
esempi, appartenenti a 16 informanti in cui il dato che stupisce maggiormente è
la L1 degli apprendenti che presentano tali errori: si tratta infatti prevalentemente
di spagnoli e portoghesi e questo è un chiaro segnale di come questi errori siano
causati dall’interferenza della L1. Colpiscono, infatti, alcuni errori in cui il verbo,
invece di reggere il complemento diretto, è seguito da una preposizione (aiutare
a q.no, ringraziare a q.no), errori che possono essere dovuti a un’interferenza
anche a questi stadi da parte della L1, o anche al tipo di input, visto che nell’ita-
liano regionale spesso verbi come aiutare, ringraziare sono seguiti dalla preposi-
zione a. In ogni caso si tratta di errori che sembrano per lo più insoliti, non chia-
ri in apprendenti che hanno alle loro spalle un percorso di apprendimento dell’i-
taliano, in vari contesti, guidato e spontaneo. Non dimentichiamo inoltre che sono
esempi tratti da produzioni scritte.
Tali errori rispetto agli errori r ci sembrano più significativi, visto che se da
una parte gli esempi sono sporadici, dall’altra interessano verbi che rientrano nel
bagaglio lessicale di un apprendente iniziale. Il fatto che a tali livelli si presenti-
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 525
no ancora questi tipi di errori, riguardanti non verbi utilizzati con un’accezione
specialistica, o all’interno di testi particolarmente complicati, pone interrogativi
che non possono non andare a ricadere anche sulla didattica. La didattica a questi
livelli deve sbloccare le fossilizzazioni presenti, esplicitando i problemi con una
riflessione accurata, o deve affidare all’input il ruolo di rendere sensibile l’ap-
prendente a certi fenomeni?
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528
CARLA BAGNA
5. CONCLUSIONI
r- > r+ > o > e+ > r > e- > a- > m > a+ > ? > e,
lopz, po > pz(i) > pz > pz(ar) > pz(v) > pzar > ^lopz + ^po > pzar(v) > pzi.
Tralasciando pzar(v) e pzi per i valori esigui, abbiamo una sequenza con
caratteristiche che confermano ai due estremi la presenza da una parte delle forme
meno intaccate da fenomeni di ricodificazione semantica e strutturale, come le
polirematiche e le locuzioni preposizionali, e, dall’altra, l’area in cui maggiore è
il tentativo da parte dell’apprendente di applicare regole di analogia nei confron-
ti delle lopz e po oppure di adattare fenomeni anche della propria L1.
Per i 3 casi considerati possiamo concludere che se alcuni problemi di reg-
genze possono trovare qualche causa nell’input degli apprendenti, input che peral-
tro non possiamo conoscere del tutto nel dettaglio, rimane latente una contraddi-
zione: all’esiguo numero di errori si riscontra una qualità degli errori che a questi
livelli poteva essere ritenuta ormai superata. È proprio da questa riflessione che
devono partire delle proposte per far intervenire la didattica dell’italiano L2 sulla
base dello stadio acquisizionale registrato negli esempi.
Due infatti sono le aree in cui è auspicabile che la didattica dell’italiano L2 si
inserisca: da una parte, riprendendo la sequenza ipotizzata in questa sede, si occu-
pi di quelle aree in cui maggiormente si presentano problemi, quindi le reggenze
verbali, l’uso della preposizione con o senza articolo, dall’altra, partendo proprio
dalle produzioni (scritte o orali) e da quei casi che risultano dubbi, o in qualche
530 CARLA BAGNA
competenza minima per insegnare italiano nel proprio paese d’origine, anche se
in alcuni casi sono presenti evidenti lacune a livello morfologico e sintattico. Pur
sottolineando quindi che si tratta, in ogni caso, di apprendenti che hanno affron-
tato un percorso di apprendimento dell’italiano mediamente lungo, in modo gui-
dato e anche spontaneo, si auspica un’azione puntuale e specifica sugli usi delle
preposizioni, tenendo sempre presente che persino le grammatiche e i dizionari
non sono univoci nel definire e distinguere gli usi delle preposizioni e che reper-
tori sistematici delle preposizioni con una gamma ampia ed esauriente di esempi
non esistono. Le preposizioni vengono apprese fin dagli stadi iniziali, con forme
e funzioni che deviano dalla lingua obiettivo, ma è indubbio che alcuni valori
semantici (locativi e temporali in particolare) siano appresi. Se quindi obiettivo è
anche quello di formulare ipotesi di applicazione didattica che possano rendere
maggiormente sensibili gli apprendenti nei confronti di quelle preposizioni che
presentano un più ampio uso (in particolare di, a, per ecc.) una didattica delle pre-
posizioni va teorizzata e applicata in ogni fase dell’insegnamento dell’italiano L2.
Anche la presenza di errori diversificati in base alla L1 del candidato, problemi di
reggenze, soprattutto per gli ispanofoni, e di preposizioni che introducono verbi
all’infinito, soprattutto per anglofoni e germanofoni, deve produrre un modello di
insegnamento che possa essere applicato nei casi di classi di apprendenti omoge-
nei. Da ciò deriva che l’insegnante dovrà formalizzare in modo più sistematico
l’uso delle preposizioni, anche in base al tipo di apprendente. In alcuni manuali
osserviamo schede e tabelle relative ad alcune preposizioni per determinati con-
testi e cotesti, ma non è mai sottolineato il legame tra le varie funzioni delle pre-
posizioni. Le funzioni ‘di relazione’ e ‘subordinante’, individuate dalle gramma-
tiche italiane, vanno trattate in sede di insegnamento, creando continui paralleli-
smi tra le preposizioni come elemento di reggenza, di supporto ad articoli, di rela-
zione tra due elementi. Solo in questo modo, considerata la frequenza delle pre-
posizioni nell’input di un parlante nativo, verranno sistematizzate. Il tratto delle
preposizioni, nonostante l’analisi degli errori svolta, è acquisito, ma la didattica
non può esimersi dal cercare di indirizzare l’apprendente verso strutture standard.
La semplicità del sintagma preposizionale ha un’ombra di difficoltà data dal pro-
filo semantico che alcune preposizioni conservano ed è probabilmente per questo
che esiste un’area in cui le preposizioni si rimodellano. È in virtù di quell’area che
apprendenti e parlanti nativi si confondono e confrontano.
IL VERBO E LE SUE REGGENZE 531
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1. PREMESSA
1 La presente relazione è frutto di un’analisi e di una riflessione comune fra le autrici, pur
se ciascuna è responsabile di singole parti: Monica Barni è autrice dei parr. 1 e 3, Silvia Lucarelli
del par. 2, Fiammetta Carloni dei parr. 4 e 5.
536 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI
realizzare una interfaccia fra questi stessi dati e la didattica di una lingua straniera.
Infatti, come affermato da Anna Giacalone Ramat (2001: 68), “è ragionevole assu-
mere che i processi naturali di sviluppo della competenza linguistica e la progressio-
ne dell’apprendimento nel contesto scolastico siano processi comparabili e fonda-
mentalmente dello stesso tipo, che si basano sulle capacità linguistiche innate degli
esseri umani (su quelli che i linguisti chiamano ’universali linguistici’) e su processi
cognitivi anche questi comuni”. L’osservazione di come si sviluppa una seconda lin-
gua può avere dei riflessi importanti per la didattica e si può quindi arrivare a sup-
porre che “l’insegnamento di una lingua in ambito istituzionale, in contesto guidato,
avrà tante più possibilità di successo quanto più seguirà il processo naturale di acqui-
sizione e non si porrà in conflitto con esso” (Giacalone Ramat 1992: 484).
Studi sperimentali sulla possibilità di interazione fra l’apprendimento sponta-
neo e l’insegnamento sono stati realizzati a partire dal fondamentale volume di
Krashen e Terrell (1983) fino agli studi di Nunan (1987), di Pienemann (1986 e
1998), secondo il quale l’ordine naturale di acquisizione non deve essere modifi-
cato in caso di apprendimento in contesto guidato. Bachman e Cohen (1998)
hanno inoltre cercato di stabilire un dialogo fra la linguistica acquisizionale e un
altro aspetto della linguistica applicata, il language testing.
In Italia, come abbiamo visto, sono proprio coloro che si sono maggiormente
impegnati nelle ricerche di linguistica acquisizionale ad auspicare che si sviluppi
anche una didattica acquisizionale per dare una prospettiva di applicabilità alle
ricerche teoriche. Intendiamo per didattica acquisizionale una didattica linguistica
che non violi l’ordine naturale di acquisizione, tracciando dei percorsi di apprendi-
mento che utilizzino come base quei fenomeni linguistici che finora sono stati ana-
lizzati e per i quali si è arrivati a delineare una sequenza di acquisizione condivisa.
Come abbiamo detto, scopo del nostro studio è evidenziare possibili forme di
interazione fra la linguistica acquisizionale e la glottodidattica, partendo dall’a-
nalisi di un particolare aspetto della lingua italiana: il sistema verbale e il suo trat-
tamento in alcuni materiali per l’insegnamento dell’italiano a stranieri.
Il processo di acquisizione del verbo in italiano L2 è stato uno degli aspetti
indagati per primi e in maniera più sistematica da parte della linguistica acquisi-
zionale (ricordiamo in particolare Giacalone Ramat 1990, Bernini / Giacalone
Ramat 1990, Giacalone Ramat 1993, Giacalone Ramat / Crocco Galèas 1995). Il
sistema verbale dell’italiano è molto complesso e articolato in un’ampia varietà di
forme (Berretta 1992). Sul verbo vengono espresse non solo le categorie di tempo,
aspetto e modo, ma anche le informazioni sul numero e talvolta anche sul genere
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 537
del soggetto. Per questo motivo la morfologia verbale italiana è un settore molto
difficile da apprendere, non solo secondo il giudizio degli studiosi (Berretta 1990:
182), ma anche degli stessi apprendenti di italiano come L2, secondo i quali risul-
ta essere l’ostacolo strutturale maggiore all’apprendimento stesso (Vedovelli
1990: 247, 2001: 133).
Le ricerche di linguistica acquisizionale hanno portato all’individuazione
della sequenza di acquisizione delle marche morfologiche che nel verbo italiano
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presente > ausiliare + passato prossimo > imperfetto > futuro > con-
dizionale > congiuntivo
2. IL CORPUS
Il corpus su cui è stata effettuata l’indagine è costituito da sette manuali per
l’insegnamento dell’italiano a stranieri2.
2 I sette manuali sono stati ordinati e identificati con le lettere dalla A alla G in base all'an-
no di pubblicazione, senza fornire informazioni sui titoli, sugli autori, o sulle case editrici (v.
tabella n.1).
538 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI
Si tratta di testi pubblicati negli ultimi dieci anni, prodotti dunque negli anni
in cui le ricerche di linguistica acquisizionale sull’italiano L2 si sono fortemente
sviluppate. Sono quindi tutti testi potenzialmente influenzabili dai risultati rag-
giunti da essa.
Tutti e sette i manuali si rivolgono esplicitamente a apprendenti nello stadio
iniziale del loro processo di apprendimento. Sono tutti dedicati ad adulti, nella
maggior parte di essi si specifica ad adulti immigrati3. La crescente presenza di
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Per effettuare la nostra indagine, abbiamo deciso di utilizzare gli indici dei
manuali, facendo riferimento a quelle sezioni del testo in cui vengono espressa-
mente dichiarati i tratti linguistici relativi al sistema verbale di volta in volta pre-
sentati ed esplicitati. Il momento di esplicitazione di un determinato tratto
dovrebbe rappresentare la formalizzazione delle caratteristiche strutturali presen-
ti nell’input. Infatti, come sappiamo, può essere talvolta riscontrato uno scarto tra
l’input presentato e le strutture esplicitate, in quanto negli input testuali sono
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spesso presenti strutture che non sono ancora state oggetto di trattazione e rifles-
sione esplicita. Non sono stati considerati quei casi in cui una particolare forma
verbale è presente nell’input e, talvolta, anche nella sezione relativa alla riflessio-
ne sulla lingua, ma viene volutamente trattata come se fosse una parola-forma,
non segmentabile, non mutabile e quindi non diviene oggetto di analisi. Un esem-
pio tipico è sia la presenza nell’input, sia la presentazione, nella parte di rifles-
sione, della 1a persona del condizionale presente del verbo volere. La forma di
cortesia vorrei viene solitamente introdotta molto presto in manuali che utilizza-
no una metodologia didattica che privilegia l’apprendimento delle funzioni lin-
guistiche e di comunicazione, perché ritenuta funzionalmente e pragmaticamente
molto utile per l’apprendente, ma molto spesso non viene analizzata, ma presen-
tata come formula fissa, da utilizzare come routine di comunicazione.
La trattazione esplicita di un determinato tratto invece dovrebbe rappresenta-
re il momento in cui il tratto stesso viene ’processato’, cioè entra a far parte delle
caratteristiche della varietà di apprendimento e diventa presente in modo sistema-
tico nell’output dell’apprendente. Abbiamo quindi assunto che il momento della
trattazione esplicita e l’ordine in cui i vari momenti si susseguono nel testo equi-
valgano alla sequenza di insegnamento.
sequenza di insegnamento dei modi e dei tempi verbali nell’ordine in cui si suc-
cedono all’interno di ciascun testo.
Le successive tre colonne contengono informazioni collaterali: abbiamo rite-
nuto interessante presentarle per fornire un quadro quanto più chiaro ed esaustivo
possibile dei materiali analizzati. Nella terza colonna è stato riportato il numero
dell’unità didattica nella quale sono presentati gli argomenti relativi al sistema
verbale in ciascun manuale4. Questo dato è stato estrapolato per poter determina-
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4 Non sono state inserite in questo elenco le unità in cui non è presente nessuna riflessione
grammaticale sul verbo.
IL VERBO NEI MATERIALI DIDATTICI PER IMMIGRATI STRANIERI 541
rale. Questo indice si ottiene calcolando la distanza fra i tratti nella sequenza di
sviluppo naturale, intesa come numero di stadi saltati. Maggiore è il valore di que-
sta distanza, più ci si allontana dalla sequenza di sviluppo naturale.
Alcuni testi, come il testo B e D, invertono di varie posizioni alcuni tratti (il
testo D inverte un tratto di una posizione, mentre il testo B inverte ugualmente un
tratto, ma di tre posizioni). In questo modo si mette in evidenza che il testo B, che
presenta in maniera esplicita il condizionale subito dopo il presente indicativo,
avrà un indice pari a 3 di allontanamento dalla sequenza naturale di acquisizione.
Una volta calcolato il valore dell’indice di distanza, possiamo applicare la
formula a ciascun testo, per ottenere l’indice di rispetto della sequenza. Il valore
ricavato ci segnala in quale percentuale i testi del corpus non violano la sequenza
di sviluppo naturale. Ad esempio, nel testo D sono presenti cinque tratti sui sei che
compongono la sequenza di riferimento, quindi N è uguale a 5. Uno dei tratti è
invertito rispetto all’ordine naturale di acquisizione, quindi Id è uguale a 1. Con
questi dati possiamo applicare la formula per calcolare l’indice di rispetto della
sequenza, che nel caso del testo D è uguale all’80%. Invece il testo G presenta
tutti e sei i tratti, ma ne inverte tre: il suo indice di distanza è pari a 4.
Conseguentemente sarà pari al 34% il suo indice di rispetto della sequenza5.
Una volta ottenuto Ir, un’altra valutazione che l’insegnante deve fare è quel-
la di verificare in quale fase della sequenza acquisizionale sono presenti le inver-
sioni. Se l’inversione di tratti avviene nella parte iniziale della sequenza avrà un
peso diverso a livello implicazionale, rispetto a quando avviene nella parte finale
della sequenza stessa. Ad esempio i testi A ed E hanno lo stesso indice di rispet-
to della sequenza, hanno lo stesso indice di distanza, ma nel testo A l’inversione
è nella parte iniziale e invece nel testo E nella parte finale. Il peso dell’inversione
presente nel testo E sarà minore all’interno della valutazione generale del testo
stesso.
4.3. Un altro dato da analizzare, che possiamo osservare dalla stessa tabella
considerata fino ad ora, è l’assenza dei tratti rispetto ai sei presenti nella sequen-
za naturale. I testi del nostro corpus che presentano assenza di tratti sono tre. I
5 Nel caso di questo testo i tratti invertiti sono più di uno, quindi per calcolare l’indice di
distanza abbiamo sommato le distanze di ciascuno dei tratti invertiti.
542 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI
tratti mancanti sono il congiuntivo, non presente in tre testi, il condizionale, assen-
te in un solo testo. Occorre sottolineare che il condizionale e il congiuntivo si tro-
vano nella parte finale della sequenza acquisizionale. Il problema che si apre dal-
l’osservazione di questo indice è quello della definizione del profilo di compe-
tenza che un apprendente dovrebbe raggiungere utilizzando un determinato mate-
riale. Mentre tutti e sette i materiali dichiarano che il loro destinatario è uno stra-
niero all’inizio del processo di apprendimento, in nessuno di essi è esplicitamen-
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te precisato il profilo di competenza che può essere raggiunto con il loro utilizzo.
5. CONCLUSIONI
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544 MONICA BARNI – FIAMMETTA CARLONI – SILVIA LUCARELLI
Tabella 1
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0. PREMESSA
1. PRESUPPOSTI TEORICI
Per illustrare quanto detto in 1.1 prenderò il caso del paradigma CONDIZIO-
NALE COMPOSTO (CC)3. L’interpretazione del messaggio della parte testuale
in cui appare questa entità linguistica non risulta che dalla combinazione del suo
contributo semantico con quello di altri fattori del co- e contesto: costruzione sin-
tattica, semantica lessicale, sapere enciclopedico, tipo di testo e varietà di lingua,
informazioni precedenti, plausibilità dell’interpretazione, ecc. Il CC appare infat-
ti in enunciati che si riferiscono ad azioni caratterizzate da modalità assai diverse.
Così, mentre l’azione in (1), in un flash forward, è presentata come realmente
1 Nelle scuole slovene, tanto nell’insegnamento della lingua materna quanto in quello delle
lingue straniere, persiste tuttora un troppo diretto collegamento tra il “tempo verbale” e la loca-
lizzazione temporale dell’azione denotata, con risvolti negativi per l’apprendimento della L2
(cfr. Miklič 1991).
2 Per l’opposizione specifica tra il PASSATO PROSSIMO e il PASSATO REMOTO, inve-
ce, cfr. Bertinetto/Squartini (1996).
3 Si veda l’elenco delle opere da cui sono tratti gli esempi illustrativi con le relative sigle.
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 555
accaduta nel passato, in (2) si tratta di azioni passate sulla cui realtà il parlante ha
delle riserve, in (3) di azioni programmate (o considerate poco probabili) per la
posteriorità nel passato, ed in (4) infine, di azioni non affatto realizzate e irreali:
(1) Bruner era uno psicologo che nel suo campo aveva conquistato
molto minore notorietà di quella che AVREBBE GUADAGNATO –
specie in Italia – nel campo pedagogico. (SRu 698)
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Questi diversi usi del CC sono noti, insisto invece sul fatto che è il contesto
più o meno ampio a fornire la chiave interpretativa4.
4 La problematicità del concetto di “significato di base” di una forma verbale e il ruolo cru-
ciale del contesto potrebbero essere ulteriormente illustrati anche con il fatto che, in costrutti sin-
tattici diversi e con un lessico diverso, la forma italiana TRAPASSATO DEL CONGIUNTIVO,
nelle traduzioni slovene trova il corrispettivo rispettivamente in tutte le sei forme verbali slove-
ne, ognuna con il suo “significato di base”: È stato più caro di quanto non AVESSIMO PREVI-
556 TJAŠA MIKLIČ
dell’IMPERFETTO (IM), che può essere usato oltre che per le azioni reali nel
passato (es. 5) anche per quelle irreali nell’attualità (es. 6):
(5) Allo zoo di Saigon (la odierna Ho Chi Minh), se SI OFFRIVA una
monetina all’elefante Tobby, esso la LANCIAVA verso un banco di
frutta situato davanti alla gabbia, per farsi gettare una banana sbuc-
ciata. (LSE 3625-39)
(6) Se non ERAVAMO gemelli, adesso non ERAVAMO qui. (in una tra-
smissione dedicata ai gemelli, RAI 1)
o nel caso del FUTURO COMPOSTO (FF), che oltre alla funzione temporale,
spesso riferita, come in (7), all’avvenire, ha anche la funzione epistemica, relati-
va ad azioni nel passato (es. 8):
STO (“trapassato sloveno”); Raccontò di come Antonio FOSSE TORNATO prima (“passato slo-
veno”): Parla l’inglese come se AVESSE STUDIATO in Inghilterra (“condizionale passato slo-
veno”); Conosceva il paese come se ci FOSSE già STATO (“condizionale presente sloveno”);
Era rosso come se AVESSE AVUTO la febbre (“presente sloveno”); Disse che l’avrebbe regala-
ta al primo che FOSSE PASSATO (“futuro sloveno”). Va da sé che, come spesso si osserva nelle
traduzioni, le forme proposte non sono le uniche possibili. (Cfr. Miklič 1991).
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 557
(9) Gli interessi per la linguistica generale non erano però solamente
implicito presupposto delle nitide formule descrittive, delle pene-
tranti analisi storiche, dell’“accento personale” delle lezioni parigi-
ne. SCRIVERÀ Meillet (1916.33): (...) (DM 305)
soliti tre ambiti temporali prototipici verso i quali si volge il parlante nel momen-
to dell’enunciazione: le “sfere temporali” sarebberro quindi – oltre al passato
(es.10), l’attualità 5 vera e propria (11) e l’avvenire (12) – anche l’attualità allar-
gata (13), ma soprattutto l’atemporalità /extratemporalità (14):
(10) Nel semestre d’estate del 1904 supplisce Emile Redard nella cat-
tedra di lingua e letteratura tedesca e tiene un corso sui Nibe-
lungen; dal 1907 insegnerà anche linguistica generale. (DM 310)
(11) Non ho fame: ho già mangiato.
(12) Torno subito, se per caso mi chiama qualcuno.
(13) Dormo sempre male se la sera ho bevuto il caffé.
(14) È inutile chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. (DMDLI 320)
Schema 1
Prima di affrontare i casi di “tempi passati” usati per le sfere non passate con-
viene ricordare i noti usi del paradigma PASSATO PROSSIMO per indicare l’an-
teriorità nelle sfere non passate, ad es. nell’extratemporalità (es.14), nell’attua-
lità allargata (es.13) o nell’avvenire, come nei seguenti due casi:
(16) (il medico al paziente) – Voglio che smetta di fumare e che perda
dieci chili! Poi torni da me, e mi dica come HA FATTO. (LSE
3628-21)
Già i fautori stessi della classificazione dei paradigmi verbali nei due tipi
complementari di “storia” e “commento” mostrano incertezza nell’assegnare la
forma IMPERFETTO qualche volta solo alla “storia” e altre anche al “commen-
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 559
Così troviamo altri tipici testi della lingua conversazionale costruiti con
l’IMPRFETTO e con il TRAPASSATO, come ad es. gli enunciati (25) e (26), il
cui contenuto fa parte dell’immediata vita del parlante, per cui sembrano dei veri
“commenti”:
6 È interessante osservare che in questo tipo di rimprovero prevale l’uso del TP (come in
23) – il TP indirettamente mette in rilievo l’evento per lo più negativo (ricavabile dalla situazio-
ne comunicativa) accaduto tra il “dire” e l’attualità del parlante – tranne che nelle formule che
esplicitano la frequenza (24a) o presentano due verbi in parallelo (24).
560 TJAŠA MIKLIČ
Siamo arrivati così al punto centrale del modello. La proposta qui presentata
è scaturita dall’osservazione della distribuzione dei paradigmi nei testi. Questa
infatti fa intuire l’esistenza, nell’attività comunicativa, di un determinato princi-
pio ordinativo: come se sulla moltitudine delle azioni da verbalizzare il parlante
imprimesse, in modo ricorsivo, un modulo concettuale centro vs periferia, sele-
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zionasse cioè alcuni fatti da lui giudicati centrali, legando a loro le rimanenti azio-
ni in relazione di simultaneità, anteriorità (di I grado, II grado ecc) e posteriorità.
Metaforicamente: come se ad alcune azioni assegnasse il ruolo di pianeta mentre
ad altre quello di satellite (dove anche ogni satellite può ricevere un proprio satel-
lite e così via).
Schema 2
ATTUALITÀ
(29) HO di nuovo mal di testa perché HO DORMITO troppo poco, per-
ciò stasera ANDRÒ a dormire prima.
7 Rimando invece a Miklič 1996 per l’illustrazione dei complessi rapporti temporali nel-
l’ambito della extratemporalità, che esigono l’impiego di molte altre forme, dal PRESENTE e
dall’IMPERFETTO DEL CONGIUNTIVO fino al CONDIZIONALE COMPOSTO.
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 561
8 Anche questo set va completato da tutte le forme richieste da modificazioni modali (perio-
do ipotetico, comparative irreali, finali, temporali di posteriorità, ecc.).
562 TJAŠA MIKLIČ
9 Eppure E. Ferri lo usa come l’unico modo espositivo nel suo romanzo Maria Teresa.
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 563
2.4. Disposizione dei contenuti temporali nel testo e “orientamenti dello sguardo”
le: PR, PP o PrSt) le azioni nell’ordine in cui sono successe (cfr. la parte finale
dell’es. 40), è a disposizione del parlante la tecnica del flash back (FB), cioè il
ritorno, a un certo punto della narrazione degli avvenimenti focali, a fatti anterio-
ri nel tempo – da segnalare linguisticamente tramite l’uso di un paradigma in
grado di segnalare l’anteriorità) (aveva rifiutato in es. 40), mentre la tecnica del
flash forward (FForw) consiste nel presentare azioni realizzate nel passato, ma
posteriori – e perciò fuori – rispetto al fuoco narrativo. Questo espediente retori-
co può essere realizzato da un CC (ess. 1 e 33a), un FUTURO DEGLI STORICI
(FdSt) (es.9) o un FUTURO STORICO (FSt) (ess. 10 e 33). La quarta tecnica, che
ho chiamato preludio (PREL), consiste nel far iniziare un testo o un’unità testua-
le con uno o più TP (o, nel procedimento storico, PPSt) per poi continuare con il
paradigma narrativo centrale: in questo modo si toglie all’azione una parte del
peso spostandola sulle azioni centrali (cfr. Miklič 1998):
sua band, e arrivò nel nostro Paese con le truppe alleate, divenen-
do subito popolarissimo. (LSE 3574-4)
Le due azioni dei due periodi appartengono infatti a due costellazioni diver-
se. In (41), l’azione espressa dal TP è presentata come anteriore a un’azione a sua
volta anteriore al momento dell’anunciazione, inferibile dalla situazione comuni-
cativa stessa – il morso del bambino – mentre l’apparizione del primo dentino,
nonostante sia presentata in una completiva “dipendente da” un TP, è psicologi-
camente legata, come anteriore, direttamente all’attualità della madre con il PP.
Similmente in (42), dove l’occasione dell’esame di Pietro e la morte di Dante
appartengono a due costellazioni pragmatiche diverse, per cui l’azione nella com-
pletiva (morte di Dante), anche se oggettivamente anteriore rispetto all’esame
(non sapeva), è legata non a quest’occasione (con un TP), bensì direttamente al
momento dell’enunciazione come un’azione centrale nel passato, (PR):
INTERPRETAZIONE DELLA FUNZIONE TESTUALE DEI PARADIGMI VERBALI ITALIANI 565
Schema 3
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Schema 4
CONCLUSIONE
La scelta della forma verbale in ogni singolo punto testuale dipende quindi da
tutta una serie di fattori. Per poter interpretare bene il messaggio è utile conosce-
re le possibilità espressive sistemiche a disposizione dell’autore di un testo italia-
no, soprattutto sapere dell’esistenza di diversi moduli espressivi – procedimento
566 TJAŠA MIKLIČ
CORPUS
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SAŠA MODERC
(Università di Belgrado)
remo l’ipotesi che queste tre categorie possano sovrapporsi e coesistere all’inter-
no di una stessa forma verbale.
mente usato (il perfekat, passato composto, con un lessema particolare per l’a-
spetto perfettivo e uno per l’aspetto imperfettivo), avendo gli altri tempi del pas-
sato o valori tradizionalmente definiti ’modali’, oppure una frequenza bassissima.
Così, l’aoristo (aorist, passato semplice, quasi esclusivamente perfettivo) viene
usato con intenti stilistici, per dare maggiore enfasi e dinamicità alla esposizione,
oppure per esprimere valori gnomici, modali e sim1. il piucchepperfetto (plusk-
vamperfekat, trapassato, tempo composto perfettivo e imperfettivo) e l’imperfet-
to (imperfekat, tempo semplice, quasi esclusivamente imperfettivo) invece sono
tempi verbali praticamente obsoleti: anche se formalmente figurano nelle gram-
matiche del SC, e anche se si reperiscono ancora nella lingua letteraria moderna
essi, quando vengono usati, rispecchiano precisi intenti stilistici (contribuiscono,
per esempio, a creare nell’enunciato una patina di solennità o di antichità, tradu-
cibile in italiano solo tramite attente scelte lessicali2.
Quindi, all’unico tempo passato stilisticamente non marcato del SC corri-
spondono, in italiano, ben quattro Tempi passati (formalmente addirittura cinque,
se includiamo anche il poco frequente trapassato remoto). Da quanto detto, si può
concludere che in SC si ha oggi un sistema verbale a temporalità ’piatta’, caratte-
rizzato dalla assenza di suddivisioni temporali espresse a livello morfologico
all’interno del sistema del passato. Il sistema del passato in italiano invece pre-
senta diversi livelli di segmentazione del dominio temporale. Il discente deve
quindi imparare a manipolare la dimensione del passato applicando modalità di
segmentazione temporale (o, altrimenti detto, di distribuzione di eventi e di stati)
tipiche dell’italiano e non codificate morfologicamente o sintatticamente in L2.
Questa manipolazione non può essere un procedimento puramente meccanico,
bensì è il prodotto di una rielaborazione, di una ri-strutturazione di quanto si desi-
dera esporre in L2 partendo – inevitabilmente – da L1. Essendoci un solo tempo
passato, in SC riconoscere i diversi valori impliciti del perfekat diventa un com-
pito relegato all’intuizione, alla capacità logica e al talento linguistico del parlan-
te. In termini più radicali: il parlante, posto di fronte a un testo o discorso struttu-
rato con il perfekat, non ha né il bisogno né l’abitudine di ripartire razionalmente
i vari stati o azioni passati in vari “livelli” temporali e si arresta ai livelli logici di
causalità e consequenzialità, più che sufficienti per una comprensione corretta
dell’enunciato. Si tratta di una temporalità non espressa con mezzi formali (come
succede nell’italiano parlato, dove il passato prossimo è non di rado l’unico
tempo passato della narrazione) e indefinita (un po’ come avviene in italiano in
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verbi imperfettivi, essendo in SC la sequenza del tipo per x tempo + verbo per-
fettivo tendenzialmente agrammaticale5.
In ogni caso, la strutturazione della versione italiana dipende dalla strategia
di esposizione adottata per L2: essa però può anche variare individualmente, come
mostrano i seguenti esempi tratti da due traduzioni della stessa opera SC:
tanti: l’uso del congiuntivo imperfetto o del congiuntivo trapassato sembra deter-
minato, come detto sopra, da fattori sostanzialmente esterni al verbo. Se poi si
volesse insistere sulla temporalità, si dovrebbero fare i conti con tutte le implica-
zioni prodotte dalla presenza di un tempo perfettivo del verbo volere. Si può anche
considerare il seguente esempio, contenente invece un congiuntivo imperfetto il
cui valore temporale è avvicinabile a quello del trapassato congiuntivo:
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12) Hai presente quello che ho detto dei nuovi venuti? Tuo figlio lo
sapeva ancora prima che io dicessi quelle parole. Ma non sapeva
in quale modo poteva diventare un nuovo venuto. (Bergamini)
Anche in questo caso non insistere sulla temporalità dell’enunciato può costi-
tuire un tentativo di interpretazione leggermente diverso (forse complementare)
rispetto alle interpretazioni tradizionali incentrate sulla temporalità. Ora, nel rap-
porto fra SC e italiano, il discorso sulla neutralizzazione dei valori temporali e
aspettuali si può riproporre in termini diversi, legati in maggiore misura a scelte
lessicali. Infatti, negli esempi che seguono:
gli equivalenti italiani dei verbi SC sottolineati sono stati integrati in una stra-
L’ACQUISIZIONE DELL’IMPERFETTO DA PARTE DI DISCENTI 579
nato alla fine e l’avvicinarsi del mese alla fine?), o (15) che “le “misure” aveva-
no cominciato” a dare fastidio (ma in quale preciso momento? Qual è, o quand’è
avvenuto il punto di rottura6, o (16) che “gli occhi lo avessero ingannato” (a dire
il vero, e a parte i valori temporali e aspettuali: la versione italiana di [16] risulta
più carica di partecipazione emotiva del personaggio in questione, mentre questi,
nella versione SC, appare più distaccato: l’inganno prodotto dagli occhi viene
presentato in SC come uno stato di cose prodotto da un’azione, quindi come ele-
mento più vicino allo “sfondo” [background], se per “sfondo” si può intendere
quell’elemento dell’esposizione che si profila meno attuale o rilevante rispetto ad
altri elementi; in italiano, invece, questo stesso elemento viene colto nel suo dive-
nire, in un processo, e appare più vicino al “primo piano” [foreground]).
La particolare scelta lessicale in L2 influisce direttamente sulla selezione
della forma verbale e, quindi, dell’aspetto del verbo italiano anche nell’esempio
che segue:
21) Zatim je nekoliko dana odlazio u Banju, gde je bio majdan sedre
iz koga je vaenimp kamen za višegradski most.
Poi si recò alcuni giorni alla cava di Banja, da dove avevano estrat-
to le pietre per il ponte di Visegrad. (Andrić3: 61)
23) U Dobračinu ulicu nije više odlazila, jer je dečak znao bolje od nje
desnu stranu sveske, a ona je sebe uhvatilaperf kako ga sve češće
propituje samo levu stranu (...).
Non andava più in via Dobračina, perché il bambino sapeva
meglio di lei il contenuto della parte destra del quaderno, ma lei
sorprendeva se stessa nell’atto di interrogarlo sempre più spesso
sul contenuto del lato sinistro (...). (Pavić: 23)
CORPUS
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584 SAŠA MODERC
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FUORI SESSIONE
SARAH LABAT-JACQMIN
(Université de Nice-Sophia Antipolis, Laboratoire d’Ingénierie linguistique et de
Linguistique appliquée)
1. INTRODUZIONE
2 Ciravegna Fabio, Campia Paolo, Colognese Alberto, Knowledge Extraction from Texts by
Sintesi, Actes de COLING-92, 23-28 Août 1992.
3 Però per questo sarà molto spesso necessario utilizzare delle conoscenze di livello più
alto, legate al lessico (sarà il lessico ad indicare quale tipo di soggetto è accettabile per un verbo
particolare, quale tipo di sostantivo un dato aggettivo può modificare, ecc...).
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 589
gli aggettivi che seguono un nome non sono sempre attaccati al nome perché un
aggettivo può essere legato o meno al nome che precede e le verifiche da appli-
care per determinare quale sia il padre di questo costituente possono rivelarsi
molto complesse e non sempre efficienti. Per esempio la frase
Tabella 1
può ricercare i tipi di verbi che si incontrano spesso nei pressi d’un tipo partico-
lare di sintagma nominale, ecc (mi riferisco ai lavoro del GELN ad esempio5).
Tutti questi dati costituiscono gli strumenti che vengono utilizzati dal nostro
sistema.
Non presentiamo qui il funzionamento dell’analizzatore morfologico né il
procedimento generale dell’analizzatore sintattico, ma presentiamo uno strumen-
to sviluppato per la risoluzione delle ambiguità Nome/Verbo che sono molto
numerose e che costituiscono uno dei problemi maggiori per l’analisi automatica
dell’italiano.
5 Per questo concetto di ‘ambiguità’ ci sembra più opportuno adottare una categoria lessi-
cale unica ‘Nome’ che si può giustificare linguisticamente: cfr. Labat-Jacqmin, 2001.
LA DEFINIZIONE DI VINCOLI FONDATI SULLA STRUTTURA ARGOMENTALE DEL VERBO 591
re ad ogni parola una ‘etichetta’ (un ‘label’), cioè le sue possibili categorie lessi-
cali e grammaticali. La catena di etichette così prodotta verrà poi confrontata nella
seconda fase di analisi con le regole sintattiche di descrizione della frase e dei sin-
tagmi.
Ma molto spesso queste parole sono ambigue. Ad esempio in una frase come
ogni parola presa individualmente tranne ‘ai’ può venire considerata quale
’ambigua’6.
Nella tabella seguente tutte le parole ambigue sono in grassetto. Certe ambi-
guità sono ovvie come la o l’ (pronome personale o articolo determinativo). Altre
sono più teoriche come natura che normalmente è un nome ma che potrebbe esse-
re la terza persona singolare del verbo naturare.
Tabella 2
6 La Repubblica, 17.09.2001.
592 SARAH LABAT-JACQMIN
Tutte queste ambiguità non hanno la stessa ‘gravità’ per l’analisi sintattica,
nel senso che alcune sono centrali per l’analisi mentre altre non impediscono un
primo livello di analisi. Infatti l’ambiguità Nome/Aggettivo non impedisce nor-
malmente il riconoscimento dei limiti del SN (ma non si potrà riconoscere quale
sia la testa del sintagma nominale) mentre quella Nome/Verbo va necessariamen-
te riconosciuta anche quando si mira solo a un’analisi parziale della frase.
Le ambiguità che ci interessano particolarmente sono quindi queste ambiguità
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Nome /Verbo perché la loro risoluzione è fondamentale per l’analisi. Pertanto è per
queste ambiguità che abbiamo cercato di sviluppare strumenti di risoluzione. Comin-
ciamo col presentare brevemente le difficoltà legate alle ambiguità Nome/Verbo.
Queste provengono principalmente dalle identità formali
Questo tipo di descrizione è stato sviluppato per l’inglese che è una lingua
dove l’ordine delle parole è molto vincolato. Siccome in questa lingua il sogget-
to precede normalmente il verbo, l’ordine consente di risolvere le ambiguità
Nome/Verbo facilmente. Però per l’italiano la situazione è molte diversa perché
non solo il soggetto non precede obbligatoriamente il verbo, ma anche perché può
non essere espresso. È quindi necessario sviluppare degli strumenti adattati ai
fenomeni specifici a questa lingua.
lisi diviene molto complessa e molto lunga perché ogni ambiguità lasciata dall’a-
nalisi morfologica raddoppia il numero delle combinazioni da considerare. Per
esempio per la frase (2) già considerata, ci saranno 16 combinazioni da confron-
tare con le regole di descrizione della sintassi dell’italiano:
Un altro vincolo di questo tipo a volte applicato dai sistemi di analisi auto-
matica è quello che chiameremo *VV e che impedisce che due verbi finiti si sus-
seguano. Questo vincolo consente la risoluzione dell’ambiguità ‘caccia’ nella
frase
Però questi vincoli si fondano soltanto sul contesto immediato della parola da
analizzare. Falliscono quando è necessario prendere in considerazione un conte-
sto più ampio. Ad esempio il vincolo *VV non funziona più quando i due verbi
finiti candidati sono separati da almeno un avverbio, un sintagma preposizionale
o un altro costituente. D’altronde abbiamo anche visto che, a volte, sono troppo
semplici perché sono state dedotte da osservazioni statistiche anziché da cono-
scenze linguistiche.
marcatori dei limiti della proposizione stessa. Queste osservazioni sono sette (per
motivi di semplificazione del discorso, non menzioniamo qui i fenomeni di coor-
dinazione o di enumerazione che sono nondimeno prese in considerazione dal
sistema):
La situazione ideale sarebbe quella di definire con precisione delle regole che
permettano di definire per tutte le frasi, il limite delle sue proposizioni.
Sfortunatamente molti marcatori dei limiti di proposizione possono essere ‘ambi-
gui’ e marcare anche limiti di altri tipi (ad esempio le congiunzioni coordinative
possono coordinare sia delle proposizioni che dei sintagmi nominali). È nondi-
meno possibile individuare, nella frase, tutti i ‘limiti potenziali di proposizione’ e
affermare che ogni porzione di frase contenuta che tra due di questi limiti poten-
ziali è inclusa dentro una unica proposizione. Chiameremo queste porzioni di
frase fra due limiti potenziali di proposizione Frammenti di Proposizione (FP).
Siccome queste ogni FP è inclusa all’interno d’una sola proposizione, è pos-
sibile dedurre dalle assunzioni già descritte che in ognuno di questi FP, c’è al mas-
simo un verbo, un soggetto e un oggetto.
Va però notato che questa descrizione non è completa perché non abbiamo
ancora menzionato il caso delle forme non finite del verbo (infinito, participi pas-
sati e presenti, gerundio). Infatti pure queste forme verbali hanno la capacità di
reggere complementi diretti (uno per ogni verbo non finito). Questo fenomeno ci
impone di modificare la descrizione precedente, aggiungendo che ogni volta che
si incontra una forma verbale non finita all’interno d’un FP, si aumenta di uno il
numero dei complementi diretti che vi si possono incontrare. Quindi, in un FP,
quando c’è un verbo finito e un verbo non finito, si possono avere tre complementi
diretti e non due, come negli esempi (9) e (10)
13. CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA
Allegranza Valerio, 1983, Sulla notizia di “quantificazione ristretta” in logica e nella teo-
ria grammaticale, Rivista di Grammatica Generativa, 8, p 3-64
Antinucci & Cinque G., 1977, Sull’ordine delle parole in italiano: l’emarginazione, Studi
di Grammatica Italiana IV, p 121-146
Bianchi Valentina, 1992, Sulla struttura funzionale del sintagma nominale italiano, Rivista
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of the 5th annual conference (TALN 1998), Paris, France, June 10-12. 1998