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MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI

Premessa

A Maurice Gross
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Il convegno di cui presentiamo gli atti si è svolto a Parigi, alla Sorbona, dal
20 al 22 settembre 2001, nell’ambito del congresso annuale della Società di
Linguistica italiana, il terzo ad essere organizzato al di fuori dell’Italia dopo quel-
li di Malta nel 1995 e Budapest nel 1998.
Il progetto, suggerito da Sylviane Lazard all’Assemblea S.L.I. di Padova, nel
1997, è stato preparato dal Comitato organizzatore comprendente Catherine Ca-
mugli-Gallardo e Louis Begioni, quindi presentato da Mathée Marcellesi all’As-
semblea S.L.I. di Napoli, nel 1999, e definitivamente accettato in questa sede.
È per noi un’onore e un piacere ringraziare

– i membri del Comitato scientifico:


Pier Marco Bertinetto, Ilaria Bonomi, Emilio Bonvini, Jacqueline Brunet, An-
nibale Elia, Maurice Gross†, Pierre Le Goffic, Rémy Porquier, Bernard Pottier;

– gli organismi che hanno sostenuto l’iniziativa del congresso:


• C.N.R.S. (Centre national de la Recherche scientifique);
• Ministero Italiano dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca;
• Istituto Italiano di Cultura di Parigi;
• Union latine;
• Université de la Sorbonne Nouvelle-Paris 3 (Conseil scientifique, Equipe
d’Accueil E.A. 2097 «Langues romanes»);
• Université de Caen (Conseil scientifique, C.R.I.S.C.O.);
• Université Vincennes-Saint-Denis-Paris 8;
• Université Charles de Gaulle-Lille 3;

– i partecipanti al congresso.

Il Verbo italiano si colloca al centro degli interventi e dei dibattiti, nelle quat-
tro sessioni corrispondenti alle quattro dimensioni, diacronica, sincronica, con-
trastiva, didattica, all’interno delle quali la sessione sincronica si articola in tre
sottosessioni parallele: “Aspetti semantico-sintattici”, “Lessico e grammatica”,
“Lingua, italiani regionali e dialetti”.
X MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI

L’aspirazione alla novità dei metodi e della terminologia è comune ai 43 rela-


tori e co-relatori che hanno cercato di mettere in luce vari aspetti della manifesta-
zione del verbo rimasti finora trascurati o presentati tradizionalmente secondo
ipotesi e teorie che si rivelano inadeguate per spiegare i fenomeni osservati.
Dai 33 interventi emergono alcuni temi principali che intercorrono traversal-
mente tra le quattro sessioni: flessione, modi, modalità, proforme, diatesi, co-
composizione, processi acquisizionali.
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Nella sezione diacronica, gli interventi vertono su problemi morfologici,


morfosemantici o semantico-sintattici che mettono in luce i tratti caratteristici del
verbo italiano. Martin Maiden sviluppa la sua conferenza introduttiva intorno alla
differenziazione allomorfica del radicale del verbo a seconda del tempo, della per-
sona e del numero, fenomeno che contraddistingue le lingue romanze rispetto al
latino ed è troppo spesso ricondotto a fatti fonologici intervenuti nei primi secoli,
quali il cambiamento dell’accento. Il concetto di Classe di Partizione Morfologica
(CPM) mette in rilievo l’originalità del verbo italiano che si rivela proprio a livel-
lo morfemico: una rassegna preliminare nelle altre lingue indoeuropee dimostra
che, nonostante la presenza delle stesse categorie morfosintattiche del verbo, sono
ignorate le distinzioni paradigmatiche CPM2 anziché CPM1.
Confrontando le forme passive latine e gli equivalenti italiani, Silvia Pieroni
nota il ritardo della concettualizzazione della strutturazione morfosintattica, e la
mancanza, nella tradizione vulgata, di un quadro formale del mutamento in que-
stione. La sua ricerca, articolata su vari punti specifici, permette di cogliere il rap-
porto non biunivoco tra forme e funzioni. La considerazione dell’opposizione
sntetico versus analitiico e della transizione dall’uno all’alto stato tipologico
acquista una concretezza operativa, visibile e verificabile.
Dall’approccio della linguistica testuale in italiano antico, Gianluca
Frenguelli, Adriana Pelo e Ilde Consales ricavano un chiarimento proficuo per lo
studio del gerundio, e del verbo o proverbo fare.
Le origini dei condizionali romanzi sono studiate in una prospettiva psico-
meccanica da Alvaro Rocchetti e Romana Timoc-Bardy. Il paragone tra le lingue
romanze occidentali mette in luce l’originalità del verbo italiano, in base alla
quale viene individuato e corretto un errore di Gustave Guillaume. Dopo gli aspri
dibattiti sull’origine del condizionale rumeno, si è così potuta avanzare un’ipote-
si valida e feconda.

La conferenza introduttiva della sezione sincronica esposta da Pier Marco


Bertinetto analizza attraverso innumerevoli «batterie» di esempi, i diversi valori
dell’infinito in vari contesti.
Nella sottosessione «Aspetti semantico-sintattici», Nunzio La Fauci chiari-
sce, con lo strumento teorico della Fissione Predicativa, il problema dei doppi
ausiliari essere e venire. Sono presentati in una nuova prospettiva i casi del con-
PREMESSA XI

giuntivo (K. Blücher) e del trapassato remoto (Iørn Korzen). Emanuela Cresti
mostra l’importanza illocutoria della 3a persona, attraverso l’analisi del corpus di
italiano parlato del LABLITA.
Nella sottosessione parallela «Lessico e Grammatica», Daniela Giani, la cui
ricerca verte sul discorso riportato, constata che il verbo dire, quello più usato nell’i-
taliano parlato, può avere funzioni informative espresse tramite il contorno tonale in
cui il verbo si trova iserito (introduttore locativo, inciso, topic, appendice, comment).
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L’esemplarità di un altro verbo rappresentativo della categoria, il verbo fare,


consente a Ignazio Mirto di individuare una ricchezza di costrutti diversi dal punto
di vista semantico e sintattico. Dalle differenze morfosintattiche che esistono tra
i costrutti esemplificati, apparentemente identici, emerge la distinzione tra un fare
«verbo supporto» e un fare «verbo proxy», distinzione che si correla ad una dif-
ferenza tra predicatività ed argomentalità.
Sulla base della co-composizione secondo la quale la semantica dei verbi
affiora pienamente soltanto in specifici contesti sintattici, Elisabetta Jezek cerca
di isolare classi omogenee analizzando i verbi italiani attraverso il filtro delle
alternanze argomentali ovvero a partire dalla gamma di realizzazioni che ogni
verbo può presentare. Una problematica non priva di affinità è condotta, con mez-
zi teorici diversi, da Mathée Giacomo-Marcellesi.
Miriam Voghera e Alessandro Laudanna si basano su studi psicolonguistici
che attestano come le proprietà categoriali vadano collegate sia con le modalità
d’uso, sia con i processi di riconoscimento, comprensione e produzione dei verbi
in lingue appartenenti a svariate famiglie linguistiche.
Nella sottosessione parallela «Lingua, italiani regionali, dialetti» sono presi in
esame il dialetto parmense, per una particolarità semanticosintattica dei verbi sintag-
matici studiata da Louis Begioni, e il dialetto sardo, nel quale Franck Floričić e Lucia
Molinu hanno individuato la specificità fonomorfologica delle forme verbali brevi.
Due studi sono dedicati alla situazione di interpenetrazione tra lingua e dialetti, osser-
vata sotto l’angolo sociolinguistico. Francesco Avolio, nell’Italia centro-meridionale
(Campania e Lazio) espone una ricerca i cui risultati permettono di individuare tre
categorie principali: 1) l’impermeabilità, 2) la coesistenza, 3) l’interferenza. Alberto
Sobrero e Annarita Miglietta osservano l’uso dei verbi modali volere e potere con
valore epistemico, esaminando le risposte raccolte attraverso le inchieste in 35 loca-
lità dell’Italia meridionale (Salento, Puglia, Basilicata, Calabria, Molise, Campania).
La competenza multipla genera perturbazioni nei sistemi in contatto, fino a proietta-
re stabilmente le microstrutture dell’uno sulle microstrutture dell’altro.
Nella sessione contrastiva, la conferenza preparata in collaborazione da
Maurice Gross e da Annibale Elia venne presentata dal solo Elia. Maurice Gross
è scomparso due mesi dopo il convegno. In omaggio, Annibale Elia ha scelto di
presentare per gli Atti, invece del testo preparato della conferenza, un capitolo di
un libro sul tempo che Maurice Gross stava scrivendo.
Confrontando i sistemi flessivi dei verbi italiani e francesi secondo un modello di
morfologia naturale, Wolfang U. Dressler, Marianne Kilani-Schoch, Rossella Spina,
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Anna M. Thornton osservano due strutturazioni che si sovrappongono in larga


misura. Entrambe le lingue hanno due macroclassi, la prima che contiene tutti i
verbi con infniito in -are (It.), -er (Fr.), la seconda che contiene tutti gli altri verbi.
Inoltre esistono le molte microclassi corrispondenti nelle due lingue (i tipi it. fini-
re /fr. finir, it. aprire/ fr. ouvrir). Ma le ramificazioni dei livelli fra macroclassi e
microclassi differiscono molto, presupponendo la distinzione fra produttività fles-
siva e produttività derivazionale, produttività e singole analogie superficiali.
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Andrea Sansò dedica il suo intervento al confronto tra lo spagnolo e l’italia-


no nello sviluppo di due costruzioni passive che, pur derivando dalle stesse strut-
ture latine (o tardo-latine) presentano differenze a livello pragmatico e testuale. Le
statistiche permettono di osservare, nello spagnolo, una diffusione del passivo
riflessivo molto più importante che in italiano. Lo spagnolo sembra conformarsi
a un pattern ben noto di alternanza fra costruzione passiva principale topicaliz-
zante (quella perifrastica in molte lingue indoeuropee) e passivo-riflessivo (o
comunque caratterizzato dalla marca della diatesi media) non topicalizzante.
L’italiano sembra postulare un pattern diverso e finora mai ampiamente descritto
negli studi sulla diatesi passiva.
I contributi di Pia Mänttäri e Roman Govorukho presentano problemi tra loro
correlati. Roman Govorukho confronta l’organizzazione degli enunciati nelle lin-
gue russa e italiana per spiegare la difficoltà che il parlante deve affrontare.
L’analisi del corpus di esempi nelle due lingue dimostra che, mentre in italiano i
primi attanti tendono a essere presentati in modo omogeneo dal punto di vista
sintattico, e ad essere coreferenti tra di loro, la lingua russa, nelle stesse condi-
zioni, preferisce presentare i primi attanti in modo sintattico diverso e senza core-
ferenza. Il passaggio dal russo all’italiano può realizzarsi nella traduzione usan-
do regole di «trasformazione» che tocchino un livello profondo di analisi, Nel
passaggio dalla struttura profonda alla struttura superficiale, il secondo elemen-
to non viene rappresentato da una situazione indipendente, ma viene trasforma-
to in un gruppo predicativo dipendente. Tra i predicati capaci di svolgere questa
funzione, ci sono i verbi di percezione, di azione attiva, e i verbi causativi. Pia
Mänttäri affronta il problema della traduzione da una lingue passivante ad un’al-
tra senza passivi, partendo dalla lingua dei testi italiani letterari di cui cerca la
traduzione possibile in finnico. Il finnico non possiede un passivo vero e proprio
ma dispone di tre tipi di soluzione impersonale: soluzione morfologica «il lavo-
ro viene fatto» o «si cammina nel bosco», soluzione sintattica (tipo equivalente
finnico di «sta notte le stelle si vedono bene)», e soluzione lessicale con uso di
un gruppo particolare di verbi intransitivi, i cosidetti rifessivo-passivi, che vei-
colano una qualità del soggetto.
Emanuele Banfi e Anna Giacalone-Ramat sviluppano uno studio tipologico e
contrastivo del sistema verbale italiano e cinese, evidenziando la complessità mor-
fologica del primo e la relativa «leggerezza» del secondo. Vengono individuate e
analizzate diverse strategie attuate dagli apprendenti entro i due sistemi per ciò che
si riferisce alla codificazione delle categorie temporali, aspettuali, modali.
PREMESSA XIII

La conferenza di Rémy Porquier apre la sessione didattica con un avvio


metodologico. In base ad un esempio preciso di paragone tra due costrutti speci-
fici in italiano e in francese, gli corro dietro / “je lui cours après”, viene illustrata
la complementarietà tra i metodi della linguistica contrastiva, della linguistica
acquisizionale e della didattica delle lingue, che mira anche a dimostrare lo stret-
to legame tra le categorie semantico-referenziali grammaticali e lessicalizzate.
Cecilia Andorno osserva l’evoluzione del trattamento da parte di apprendenti
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cinesi, tigrini, inglesi, tedeschi di un insieme di avverbi di predicato – anche,


ancora, appena, già, mai, più- accomunati nella varietà nativa dalla collocazione
in posizione interausialiare. L’indagine mostra attraverso varie tappe le ristruttu-
razioni categoriali del sistema da parte degli apprendenti che passano dalla ini-
ziale preferenza per la collocazione preverbale alla distribuzione propria della
varietà nativa.
Sempre nell’ambito della linguistica didattica e/o acquisizionale, Monica
Barni, Fiammetta Carloni, e Silvia Lucarelli studiano i manuali per gli immigrati
stranieri in Italia, mentre Carla Bagna individua, attraverso l’apprendimento in
italiano L2 da parte di apprendenti di varie madrelingue, l’emergere di regole
implicazionali da una varietà basica a una varietà avanzata.
Saša Moderc prende in considerazione le difficoltà dell’apprendimento del-
l’italiano L2 che, per i parlanti di serbocroato, che permangono anche a livelli
superiori di conoscenza dell’italiano. Ai quattro tempi passati dell’italiano (cin-
que se si aggiunge il poco usato trapassato remoto), corrisponde un unico tempo
in serbocroato, il perfektat, i cui diversi valori impliciti pongono problemi di rico-
noscimento.
La ricerca di Tjaša Miklič, verte sulla ricezione di testi italiani da parte di pro-
fessionisti di vari settori, di lingua materna diversa dall’italiano. La scelta di un
dato tempo verbale dipende organicamente da tutta una serie di parametri, ma c’è
un apporto funzionale specifico della singola forma verbale. L’ipotesi che emer-
ge dalle analisi sistematiche delle forme verbali nei testi è quella di un funziona-
mento in forma di team, per cui le forme verbali si comportano solidariamente,
come se fossero raggruppate in “squadre”.
Fuori sessione, Sarah Labat-Jacqmin dimostra quanto una descrizione gene-
rale del comportamento del verbo italiano e della proposizione possa rivelarsi uno
strumento utile per i sistemi di elaborazione del Linguaggio Naturale (TALN).

Nel quadro storico della Sorbona, nell’anfiteatro Louis Liard, nell’aula


Bourjac, nell’atrio Pierre de Coubertin, all’Istituto Italiano di Cultura, gli scambi
verbali intorno al verbo italiano si sono svolti tra rappresentanti di gruppi scienti-
fici provenienti da vari paesi europei, vicini e lontani. Esempio di cooperazione
internazionale e di interattività istituzionale, il presente volume assume l’impor-
tanza di un evento scientifico incontestabile, crogiolo di infinite prospettive per la
linguistica del verbo.
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XIV
MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI
Partecipanti al Congresso

ALBANO LEONE Federico (Napoli), ANDORNO Cecilia (Pavia), ANTONI-


NI Anna (Pisa-Scuola Normale Superiore), AVOLIO Francesco (L’Aquila),
BAGNA Carla (Siena-Università per Stranieri), BANFI Emanuele (Milano-
Bicocca), BARNI Monica (Siena-Università per Stranieri), BEGIONI Louis (Lille
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3-Charles de Gaulle), BERTINETTO Pier Marco (Pisa-Scuola Normale Superio-


re), BLÜCHER Korlbjorn (Bergen), CAMUGLI-GALLARDO Catherine (Caen),
CARETTI Franco (Firenze), CARLONI Fiammetta (Siena-Università per
Stranieri), COLOMBO Adriano (Bologna), CONENNA Mirella (Bari), CONSA-
LES Ilde (Roma Tre), CORDIN Patrizia (Trento), CORRA` Loredana (Padova),
CRESTI Emanuela (Firenze), CRISTOFARO Sonia (Pavia), DARDANO Mauri-
zio (Roma-La Sapienza), DE MAURO Tullio (Roma-La Sapienza), DE SANCTIS
Cristiana (Bologna), DELLA CORTE Federico, DOGLIONI Anna (Bergamo),
DRESSLER Wolfgang (Wien), ELIA Annibale (Salerno), FERRERI Silvana
(Viterbo), FLORIČIĆ Franck (Toulouse-Le Mirail), FORESTI Fabio (Bologna),
FRENGUELLI Gianluca (Roma Tre), GAETA Livio (Padova), GIACALONE–RA-
MAT Anna (Pavia), GIACOMO-MARCELLESI Mathée (Paris 3-Sorbonne
Nouvelle), GIANI Daniela (Lablita, Firenze), GOVORUKHO Roman (Mosca),
IORIO Alfredo (Napoli-Federico II), JEZEK Elisabetta (Pavia), KILANI-SCHO-
CH Marianne (Losanna), KORZEN Iørn (Copenaghen), LA FAUCI Nunzio
(Zurigo), LABAT-JAQMIN Sarah (Nice-Sophia Antipolis), LAUDANNA Ales-
sandro, LAZARD Sylviane (Vincennes-Saint-Denis-Paris 8), LE GOFFIC Pierre
(Sorbone Nouvelle-Paris 3), LEONE Vittorio (Napoli), LUCARELLI Silvia
(Siena-Università per Stranieri), MAIDEN Martin (Oxford), MÄNTTÄRI Pia
(Helsinki), MARASCHIO Nicoletta (Firenze), MAROTTA (Pisa), MIGLIETTA
Annarita (Lecce), MIKLIČ Tjaša (Lubjana), MIRTO Ignazio (Palermo), MO-
DERC Šasa (Belgrado), MOLINELLI Piera (Bergamo), MOLINU Lucia
(Toulouse-Le Mirail), MONCHELLI Angiolo, PANI Giuseppina (Lugano), PAN-
ZIERI Chiara, PASSAROTTI Marco (Lugano), PELO Adriana (Roma Tre),
PESCOSTA, PETRALLI Alessio (Lugano), PIERONI Silvia (Università della
Tuscia), PORQUIER Rémy (Paris 10- Nanterre), RAMAT Paolo (Pavia), RENZI
Lorenzo (Padova), RESTIVO Chiara (Lugano), ROCCHETTI Alvaro (Paris 3-
Sorbonne Nouvelle), ROMEO Silvia (Paris), SAFFI Sophie (Aix-Marseille 3),
SALVI Giampaolo (Budapest), SANSÒ Andrea (Pavia), SCARANO Antonietta
(Firenze), SILLER Heidi Maria (Pavia), SOBRERO Alberto (Lecce), SORNICO-
LA Rosanna (Napoli), SPINA Rossella (Vienna), SPRUGNOLI Laura (Napoli),
SQUARTINI Mario (Pisa–Scuola Normale Superiore), STAMMERJOHAN Hano
(Frankfurt), STEFANELLI Stefania (Firenze), STEFINLONGO Antonella (Roma
Tre), STRUDSHOLM Erling (Copenaghen), SUOMERA Elina (Helsinki), TER-
ZOLO Luca (Torino-UTET), THORNTON Anna M. (L’Aquila), TIMOC-BARDY
Romana (Aix-en-Provence), VANELLI Laura (Padova), VARVARO Alberto
(Napoli), VOGHERA Miriam (Salerno), ZABBAN Aldo.
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PARTE PRIMA
«STUDI DIACRONICI»
Conferenza Introduttiva

MARTIN MAIDEN
(Oxford College)

Il verbo italoromanzo: verso una storia autenticamente morfologica


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Una differenza fondamentale quanto generalmente trascurata che distingue le


lingue romanze dal latino è l’allomorfia del radicale nel verbo. Se il latino cono-
sceva distinzioni allomorfiche nel radicale collegate all’aspetto perfettivo o imper-
fettivo, era invece pressoché inesistente la differenziazione allomorfica a seconda
del tempo, della persona e del numero. Il posto centrale che occupano tali alter-
nanze nella compagine morfologica del romanzo si deve, in primo luogo, a due
cambiamenti fonologici avvenuti (o comunque avviati) prima della fine del quin-
to secolo, intendo le due ‘ondate’ di palatalizzazione delle consonanti, e la diffe-
renziazione della qualità vocalica condizionata dall’accento.
Mi si osserverà che, lungi dall’essere ‘trascurati’, questi sono fatti arcinoti,
facilmente reperibili in qualsiasi manuale di linguistica storica romanza. Gli stu-
denti di storia dell’italiano imparano che le alternanze vocaliche che distinguono
le forme del singolare presente e la terza persona plurale presente dal resto del
paradigma in verbi come morire, sedere, udire, dovere, ecc., risalgono a processi
fonetici, di varia antichità, tendenti a dittongare le vocali medie in sillaba tonica
aperta, o a chiudere le medie in sillaba atona; si sa anche che gli allomorfi che uni-
scono e caratterizzano la prima persona singolare, la terza persona plurale del pre-
sente indicativo, e le forme del congiuntivo presente sono effetti di due ondate
successsive di palatalizzazione, una davanti a yod primitivo (come in soglio) e
l’altra davanti a vocale anteriore (come in legge). Se questi fatti sono stati neglet-
ti credo che sia dal punto di vista propriamente morfologico. Si sa che i relativi
cambiamenti si ripercuotono sul sistema morfologico, dando luogo ad alternanze,
ma da questa prospettiva esse non sarebbero altro che un effetto regolarissimo di
banalissimi cambiamenti fonologici. Tutto qui. Immagino che la tendenza a vede-
re l’alternanza del radicale come un fenomeno in fondo fonologico si dovrà anche
all’impossibilità, in molti casi, di collegare le alternanze risultanti a funzioni
morfosintattiche chiaramente delineate. In linea di massima, si ritiene che il cam-
biamento fonologico si produca automaticamente ed indifferentemente dal conte-
nuto lessicale e grammaticale, motivo per cui i suoi effetti sono spesso incoeren-
ti dal punto di vista della funzione morfologica. Prendendo l’esempio delle alter-
nanze già menzionate, è impossibile assegnare un valore comune e fondamentale
ad un insieme costituito dal congiuntivo presente più la prima persona singolare
del presente indicativo più la terza persona plurale del presente indicativo; altret-
4 MARTIN MAIDEN

tanto difficile è scoprire nell’insieme delle forme singolari del presente più la
terza persona plurale del presente un tratto morfosintattico comune che le distin-
gua dal resto del paradigma. Se dovessi riassumere in poche parole l’essenza di
questo saggio, direi che dobbiamo riconoscere che la stessa incoerenza funziona-
le conferita dal cambiamento fonologico al paradigma flessivo del verbo si può
trasformare in una caratteristica fondamentale della struttura morfologica dell’i-
taloromanzo, non solo ‘passiva’, in quanto dovuta storicamente alla fonologia, ma
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anche attiva, in quanto essa si rivela ripetutamente plasmatrice della forma para-
digmatica verbale.
Le idee che esporrò qui fanno capo al brillante libro di Mark Aronoff Mor-
phology By Itself (1994) e anche all’idea di ‘deep morphology’ proposta negli an-
ni 70 da Yakov Malkiel, alla quale mi ero ispirato in un mio studio del 1992. È
inoltre una corrente di pensiero che ha trovato recentemente appoggio, dall’ottica
della morfologia computazionale, nei lavori di Vito Pirrelli e collaboratori.
Aronoff riesce a dimostrare l’esistenza, in molte lingue, di regolarità strutturali
astratte (‘morphomes’), ricorrenti all’interno del sistema morfologico paradigma-
tico, ed autonomamente morfologiche, in quanto non si lasciano rappresentare né
in termini fonologici né in termini di una funzione grammaticale coerente.
L’ottica prevalentemente sincronica adottata dallo studioso canadese non poteva
però garantire la «realtà psicologica» del morfoma. Può sorgere il dubbio che le
regolarità osservate da lui siano l’effetto di una specie di ‘inerzia’ diacronica per
cui i parlanti imparano, per così dire ‘alla spicciolata’, i paradigmi di singoli les-
semi verbali senza mai rendersi conto di generalizzazioni macroparadigmatiche
più astratte, che eventualmente rispecchiano stati sincronici oramai decaduti. Nel
mio studio del 1992 credo di aver identificato, ‘avant la lettre’, certi criteri dia-
cronici atti a garantire la realtà psicologica del morfoma, criteri elaborati ulterior-
mente in tre studi recenti (Maiden 2000; 2001a,b):

coerenza: l’inscindibilità formale, diacronica, del morfoma: l’identità


formale tra diverse parti del paradigma rimane inviolata; il rapporto di
mutua implicazione paradigmatica si mantiene sempre intatto, nono-
stante la eterogeneità fonologica e funzionale.
convergenza: il morfoma si ‘concretizza’ fonologicamente, perdendo
attraverso il tempo una parte della sua eterogeneità fonologica a questi
ne aggiungerei un altro, che sarà al centro di questa relazione, e cioè
l’attrazione.
attrazione: una distribuzione funzionalmente e fonologicamente etero-
genea si riproduce e si diffonde attraverso il tempo attraendo a sé nuove
alternanti.

Prima di passare ad un’analisi dettagliata dei fatti italoromanzi, premetterei


che dovremo combattere un atteggiamento profondamente radicato nello studio
dell’evoluzione del sistema flessivo (italo)romanzo che spartisce il cambiamento
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 5

paradigmatico esclusivamente tra fattori fonologici (generatori di allomorfia, neu-


tralizzazioni, ecc.), da una parte, e riassestamenti funzionalmente ossia morfosin-
tatticamente motivati (livellamenti analogici, analogia proporzionale), dall’altra.
Sono approcci il cui valore non è in questione, ma non devono comunque emar-
ginare quanto c’è di autenticamente ed autonomamente morfologico nella storia
morfologica, soprattutto perché è proprio al livello ‘morfomico’ che si rivelano i
tratti più caratteristici della struttura di una lingua come l’italiano.
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Una storia ‘morfomica’ della morfologia italoromanza è ancora tutta da scri-


versi, ma sono emersi finora almeno tre fenomeni che ne farebbero parte. Il primo,
su cui non mi soffermerò in questa sede perché è già stato discusso in Maiden
(2000, 2001a), è la sorte dei radicali perfettivi latini – fonologicamente eteroge-
nei sin dall’inizio, e diventati funzionalmente incoerenti nel romanzo – caratte-
rizzata da coerenza e da una serie di convergenze formali. Mi occuperò invece di
due altri fatti, ai quali darò rispettivamente l’etichetta di ‘CPM1’1 (‘classe di par-
tizione morfomica 1’) e CPM2. CPM11 è il tipo di allomorfia prodotta dalle due
palatalizzazioni, e in cui la 1a pers. sing. pres. condivide con il cong. pres. un radi-
cale che contraddistingue queste persone dal resto del paradigma. CPM2 è il tipo
di allomorfia associata alla differenziazione della qualità vocalica dovuta all’al-
ternanza dell’accento. I radicali delle tre persone singolari e della terza persona
plurale del presente condividono una vocale che li contraddistingue da altri tempi,
modi e persone:

Tabella 1

Tabella 2

1 L’etichetta è volutamente opaca. ‘CPM’ sta per ‘classe di partizione morfomica’. Per il
termine ‘classe di partizione’, vedasi Pirrelli (2000).
6 MARTIN MAIDEN

Intendo occuparmi soprattutto in questa relazione dei verbi a CPM2, ma pre-


metto un breve aggiornamento di quanto avevo detto nel 1992 sul tipo CPM1. Si
confrontino i seguenti paradigmi del presente in toscano antico (a) e le corrispon-
denti forme moderne (b):

Tabella 3
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Tabella 4

Si nota che i verbi con [ʎʎ], [], [d] li hanno persi a favore di varianti vela-
ri ([l], [ŋ], []) – e così anche molti altri verbi, come dolgo, ecc., salgo ecc.,
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 7

tengo ecc., rimango ecc., veggo ecc. rispettivamente con [ʎʎ], [], [d] nella
lingua antica, anche se ci sono superstiti del sistema antico, quali voglio ecc.,
soglio, ecc. Verbi come leggere, cogliere, spegnere, piangere, invece, mantengo-
no intatte le alternanze antiche. Nel complesso possiamo dire che c’è stata una
tendenza a far convergere CPM1 su una forma fonologica comune, la quale con-
tiene una consonante velare. È inoltre da osservare che:
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a. Il fenomeno interessa un insieme di celle morfosintattiche essen-


zialmente eterogeneo. ‘1a pers. sing. indic. pres.’, ‘pres. cong.’ e ‘3a
pers. plu. indic. Pres’2,
b. Nonostante l’eterogeneità funzionale e fonologica di CPM1, il feno-
meno rivela una straordinaria coerenza diacronica (cfr. Maiden
1992). Un cambiamento (come l’estensione della velare) che inte-
ressa il cong. pres. interessa ugualmente le due forme dell’indic.
pres., e viceversa.
c. L’estensione della velare a volte non si lascia interpretare come un
caso di banale ‘analogia proporzionale’. Infatti si creano delle alter-
nanze del tutto nuove e senza precedenti nella lingua, per esempio
[ŋ] – [n] (vengo vieni), [l] – [l] (valgo vali), [] – vocale (trag-
go – trai) ed anche, in certi dialetti, altre ancora più spinte (e, pace
Fanciullo 1998, non spiegabili in termini fonologici) come beggo
bevi, ecc., nella zona perugina. Si tratterebbe, a tutti gli effetti, di
una specie di convergenza, di un concretizzarsi, formale per cui l’in-
sieme eterogeneo di categorie morfosintattiche avrebbe acquisito
una veste fonologica sempre più uniforme.

Un esempio di reazione ‘fonologizzante’ è Fanciullo (1998), il quale, segna-


lando che la velare appare sempre ed esclusivamente davanti a desinenze in -a o
-o, ipotizza una specie di ‘allofonia’ particolare per cui si avrebbe variazione tra
una consonante che appare davanti a vocale anteriore ed un’altra, non palatale,
che appare davanti a segmento non palatale: così, in base al tipo colgo cogli
(colto), ecc., spengo spegni (spento), ecc., la velare viene interpretata come un
inserto che consente la depalatalizzazione della consonante finale del radicale
davanti a vocale non palatale. In quanto alla successiva creazione di alternanze
come [ŋ] – [n], [l] – [l], [] – vocale, si tratterebbe secondo Fanciullo di una

2 È quanto riconoscono, per lo spagnolo, Bybee e Pardo (1981: 958, anche Bybee 1985:
71:74), ma non risulta spiegato niente quando le studiose americane assumono in modo arbitra-
rio che una prima persona singolare dell’indicativo., forma relativamente ‘autonoma’ rispetto al
congiuntivo, serva di base dalla quale sarebbe derivato il congiuntivo. Ciò descrive il rapporto
di mutua dipendenza tra la prima persona del singolare e il congiuntivo, ma non lo spiega – e lo
descrive invocando un processo derivazionale del tutto ipotetico.
8 MARTIN MAIDEN

specie di semplificazione puramente fonologica per cui non solo [n] e [l] ma tutti
i segmenti più sonori (incluse le vocali), verrebbero ad alternarsi con forme ad
inserto velare. Così si potrebbe rendere ragione di casi, comuni in non poche
varietà toscane meridionali ed umbre (cfr. Hirsch 1886:435s.; Rohlfs 1968:260),
come il senese 1sg. corgo – 2sg. corri ecc., o ´mɔro ´mɔre ´mɔrono di
Pietralunga (AIS). E il tratto ‘sonorante’ spiegherebbe, infine, anche traggo – trai,
visto che le vocali comportano il più alto grado di sonorità.
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Alla tesi fonologizzante di Fanciullo si oppongono però non pochi fatti dialet-
tali. Innanzitutto, la consonante palatale può apparire davanti a vocale posteriore.
Oltre a forme italiane quali conosciuto, abbiamo nei dialetti e nel toscano antico
vagliuto, piangiuto, scegliuto, piangiuto, ecc. (v. Rohlfs 1968:370). Nei dialetti si
ha la variante non palatale anche davanti a desinenze in /e/ (p. es. umbro ant. morgo;
(che io) morga, (che tu) morghe, ecc.)3. Per di più, i dialetti umbri e toscani meri-
dionali hanno alternanze come [] – [v] in ´beo 3sg. ´beve 1pl. ba ´veno 3pl.
´beano, (Civitella Benazzone); nel cortonese lo stesso verbo cogliere, insieme
con salire e dolere, ha [] al posto di [l] o [ʎ], producendosi così un’alternanza
tutta nuova tra [l] o [ʎ] e []: p. es., cogga, dogga, saggo. Già negli scritti di
Iacopone da Todi abbiamo il congiuntivo moga ‘muoia’ (3sg.) e il 2sg moghe in
alternanza con mor-, insieme a pago (sia ‘paio’ che ‘paiono’), cong. paga ‘paia’, in
alternanza con par-. In tali casi non è lecito parlare di un ‘inserto’ velare dipenden-
te dal carattere della consonante precedente, perché sembra che sia stato introdotto
analogicamente il [()] tipico di verbi come leggo – leggi...; legga, ecc., in modo
che viene sostituita una consonante con un’altra, ai danni della trasparenza lesse-
matica, ma con rafforzamento e ipercaratterizzazione di CPM1. Anche l’Italia meri-
dionale è ricca di creazioni di alternanze nuove con velare, e per le quali non si può
ricorrere alla nozione di semplificazione fonologica in base alla ‘sonorità’ di una
delle alternanti. Nella zona del Golfo di Napoli (cfr. Capozzoli 1889; Freund 1933;
Radtke 1997:87) si riscontrano alternanze quali (1sg. vs. 3sg.): ´mεkkə ´mεttə,
atikə at´irə, ´parkə ´partə, ´sεŋə ´sεndə, ´pɔrkə ´pɔrtə, ´aʃpεkkə
a´ʃpεttə, ´rakkə ´rattə. Scartata l’ipotesi ‘fonologizzante’ (per una risposta più
dettagliata a Fanciullo, si vedano Pirrelli 2000 e Maiden 2001b), CPM1 emerge
come un ottimo esempio di ‘convergenza’ morfomica.

I verbi a CPM2 rivelano un nuovo aspetto diacronico della struttura morfo-


mica, e cioè il suo ruolo come ‘forza di attrazione’, regolatrice di alternanze erra-
tiche e sporadiche sorte nella storia dell’italoromanzo. Quasi tutte le lingue
romanze conoscono una classe di partizione nata dalla differenziazione di qualità
vocalica condizionata dall’accento. Alla stessa distribuzione paradigmatica ven-

3 Critiche simili si potrebbero muovere a Vogel (1993:226), la quale propone un processo


sincronico di ‘cancellazione’ della velare davanti a desinenze che non contengano /a/ o /o/.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 9

gono a conformarsi – in diversi periodi e luoghi – le seguenti alternanze del tutto


indipendenti da fattori fonologici prosodici:

a. Il propagarsi analogico di [g] finale di radicale caratteristico del con-


giuntivo si produce secondo CPM2, in molte varietà (cfr. anche la
frequente assenza della velare nella 1a e 2a plu. pres. cong. in ita-
liano moderno):
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Tabella 5

b. Accade spesso che la fusione suppletiva di due verbi si regoli secon-


do CPM2. Il caso di gran lunga più noto (cfr. Aski 1995) riguarda
l’integrazione in un unico paradigma lessicale dei continuatori di
UADERE, AMBITARE, IRE. L’alternanza particolare di uscire si deve alla
fusione di escire da EXIRE col sostantivo uscio da OSTIUM (Maiden
1995). Numerosi dialetti settentrionali (cfr. AIS 1994) fanno prova
di una contaminazione del tipo CPM2 tra potere e volere. Per esem-
pio, Roncone (AIS 340):

Tabella 6

A Minerbio (AIS 446) il congiuntivo presente di essere ha assunto [p], appa-


rentemente dal verbo ʃa ´vεr ‘sapere’, ma solo seguendo la CPM2:

Tabella 7

Il radicale a struttura sillabica CV di STARE e DARE si riproduce in altri verbi


frequenti:
10 MARTIN MAIDEN

Tabella 8

Tabella 9
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Nella Sicilia sudorientale (Leone 1980:36-39;91s.) si ha suppletivismo tra


DONARE e DARE, tra AFFLARE (> (a)ʃ´ʃare) con *TROPARE4 e tra SAPERE o FACERE, e
STARE:

Tabella 10

Un altro esempio della stessa distribuzione è la perdita, facoltativa, della -l


finale dei verbi valiri e vuliri appunto nel singolare e nella terza persona plurale
del presente5. Lo stesso vale per la dentale di putiri.
Uno degli esempi più spiccati, e meglio noti, di conformità alla CPM2 riguar-
da gli aumenti (‘infissi’) aggiunti al radicale. Gli affissi latini -ISC-/-ESC-, detti
‘incoativi’ ma dal valore piuttosto ‘ingressivo’ (cfr. Sihler 1995:506), apparivano
in tutte le forme imperfettive e, cosa ancora più importante, indifferentemente
dalla persona o dal tempo. Se vediamo invece le varietà romanze moderne, con-

4 Mi pare poco probabile la spiegazione che di questa integrazione dà Leone (1980:39),


secondo il quale s’introduce tr(w)ov- per supplire ad una supposta forma aferetica ʃʃ- (da aʃʃ-),
incapace di portare l’accento. In realtà l’aferesi sarà stata sicuramente solo delle forme atone, in
modo che sarebbe stato da aspettarsi una semplice alternanza tra aʃʃ- in sillaba accentata e ʃʃ-
altrove.
5 Nel caso di vuliri si sovrappone a CPM2 anche CPM1, conferendo alla prima persona sin-
golare un radicale a consonantismo diverso.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 11

statiamo che è andata persa la correlazione aspettuale e che, nell’italoromanzo6 ed


in molte altre varietà romanze, l’aumento si conforma perfettamente alla CPM2.
Lo stesso vale per i continuatori di -*edj- protoromanzo, che fanno capo alla clas-
se di verbi greci in -izein. Tale infisso doveva essere presente, all’origine, in tutto
il paradigma verbale, situazione che si mantiene tutt’oggi nel sardo, nonché nella
maggior parte delle lingue romanze occidentali. Se guardiamo invece all’italoro-
manzo, vediamo che in una zona dell’Italia meridionale delimitata da Matera,
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Taranto e Foggia, in Corsica, ed anche nel Veneto settentrionale, in Ladinia, e


nell’Istria (come pure nel dalmatico e nel romeno), -*edj- si conforma alla CPM2.
È da notare che la presenza dell’aumento da *-edj- presuppone sempre e dapper-
tutto quella dell’aumento in -*isk-:

Tabella 11

Tabella 12

6 In alcune località (S.Elpidio a Mare, Serrone, Nemi, Teggiano, Serrastretta, S. Chirico


Raparo -v. AIS carte 1687) l’aumento appare in tutto il paradigma. Qua e là nel Lazio meridio-
nale e in Calabria, l’aumento si ha in tutte le persone del presente. Certe varietà toscane (Rohlfs
1968:243) avrebbero l’aumento in tutte le persone del congiuntivo presente (ma si tratterà di una
distribuzione a CPMI sobrappostasi alla CPM2). Il fatto che in alcuni dialetti merdionali l’au-
mento si presenti anche nell’infinito sembra ascrivibile alla frequente identità formale tra infini-
to e terza persona singolare presente nei relativi dialetti (cfr. Iannace 1983:69).
12 MARTIN MAIDEN

Le interpretazioni diacroniche degli aumenti – particolarmente di -isk-,


abbondano (p. es., Maurer 1951; Rohlfs 1968:242-4; Lausberg 1965:§921-23;
Blaylock 1975; Wolf 1998). Nel latino l’infisso in -ivein- si limitava alle forme
imperfettive per ovvi motivi di compatibilità semantica. Il sostanziale crollo nel
romanzo delle antiche distinzioni morfologiche aspettuali avrebbe fatto sì che si
perdesse anche il valore distintamente ingressivo dell’infisso: già nel tardo latino
la presenza dell’infisso era facoltativa, senza apparenti connotazioni di ingressi-
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vità (cfr. nell’italiano moderno tosso o tossisco, mento o mentisco ecc.). L’infisso
diventa, quindi, un elemento semanticamente vuoto. L’aumento *-edj- / *-edz-
risale (cf. Lausberg 1965:§801; Rohlfs 1968:244s.; Väänänen 1974:116;173;
Tekavčić 1980:239s.; Zamboni 1980/81) all’infisso derivazionale -iv-, introdotto-
si nel tardo latino particolarmente attraverso il lessico religioso (p. es., bapti-
vein). Nel romeno, esso caratterizza la stragrande maggioranza dei neologismi e
dei verbi denominali della prima coniugazione, ma ha una distribuzione lessicale
del tutto arbitraria. Per i dialetti della zona Matera – Foggia – Taranto, l’aumento
si presenterebbe (cfr. Lausberg 1939:156) proprio in quei verbi i cui primo secon-
do e terzo singolare e terzo plurale altrimenti avrebbero l’accento sdrucciolo (cfr.
1sg. mattsə ´ki j e màstico). Una distribuzione simile si ha nell’antico venezia-
no, nell’istriano moderno e nel còrso. Esistono, sì, dialetti meridionali in cui l’au-
mento è presente in tutto il paradigma e in cui la sua presenza sembra corrispon-
dere tuttora in certi casi ad una distinzione semantica tra azione e stato (cfr.
Iannace 1983:86; Ledgeway 1995:225; Leone 1980:40), ma prevale dappertutto
una nuova distribuzione, conforme alla CPM2 ed indipendente da considerazioni
semantiche.
Molti (p. es., Rohlfs 1968:242; Bourciez 1956; Meyer-Lübke II:241; Tekavčić
1980: II, 258) hanno cercato di rendere conto della distribuzione dell’aumento da
un’ottica ‘fonologizzante’ e teleologica, facendo richiamo al cosiddetto ‘allinea-
mento dell’accento’. Limitandosi l’aumento alle forme che altrimenti sarebbero
rizotoniche, l’accento diventa postradicale, e quindi arizotonico, in tutto il paradig-
ma. Agli occhi di molti, questa nuova regolarizzazione dell’accento non è solo un
effetto del cambiamento ma ne sarebbe addirittura la motivazione. Questo è un
approccio che oltre ad avere il grosso difetto della circolarità, non riesce nemmeno
a rendere conto in modo soddisfacente della realtà distribuzionale dell’aumento.
Innanzitutto, la teoria dell’allineamento dell’accento non tiene assolutamente conto
del fatto che in tutte le lingue romanze la schiacciante maggioranza dei verbi conti-
nua ad avere l’accento mobile: finisce per creare, cioè, un’apparente irregolarità
accentuale all’insegna della regolarizzazione! Alberto Zamboni (1983) ha proposto
che l’aumento *-isk- / -esk- avrebbe un accento tonico inerente, e che quindi esso
non può apparire insieme a desinenze accentate, ma almeno da un’ottica diacronica
ciò non spiega come mai l’aumento sia venuto ad essere caratterizzato dall’accen-
to. Secondo Zamboni l’aumento -isk- avrebbe conservato una parte del suo signifi-
cato originale derivazionale, ma il fatto che -isk- possa avere mantenuto un valore
derivazionale non spiega nemmeno perché esso avrebbe dovuto portare l’accento.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 13

Rimane sempre una linea di spiegazione apparentemente fonologica. Esiste


una stretta correlazione positiva tra la CPM2 e la rizotonia (la presenza dell’ac-
cento sul radicale lessicale). Personalmente sarei incline a vedere anche nella
distribuzione dell’accento un fatto puramente morfologico sensibile ad un assetto
paradigmatico astratto che unisce le tre persone del singolare presente e la terza
persona plurale del presente, e le differenzia dal resto del paradigma. Ma qualcu-
no – per esempio Vogel (1993:224-26), la quale invoca ad esempio una curiosa
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regola di ‘cancellazione’ dell’aumento 7 davanti a sillaba accentata – ha voluto


vedere nella CPM2 un fenomeno in parte fonologico in quanto condizionato dalla
posizione dell’accento. Innanzitutto bisognerebbe obiettare che, a prescindere
dalle alternanze vocaliche che sono, o meglio erano diacronicamente, effetti fono-
logici dell’accento, gli altri fenomeni a CPM2 non corrispondono a nessun prin-
cipio fonologico naturale, e non trovano riscontro al di fuori del paradigma ver-
bale. E difatti sono quanto mai innaturali da un punto di vista fonologico, ma
rimangono irriducibilmente morfologici in quanto limitati al verbo! Quindi, anche
a voler far dipendere la CPM2 dall’accento, dovremmo sempre specificare la
distribuzione dell’accento radicale nel verbo – e rieccoci di nuovo di fronte alle
solite 1,2,3 singolari e 3 plurale del presente8. Inoltre sembra esserci una con-
traddizione fondamentale tra la distribuzione degli aumenti e l’ipotesi di alter-
nanze condizionate dall’accento. Nell’italoromanzo l’aumento e non il radicale
lessicale porta sempre l’accento tonico, e quindi la sua presenza ha come effetto
di distruggere lo stesso assetto accentuale che ne avrebbe condizionato la distri-
buzione. Diacronicamente, sembra poco probabile che l’aumento s’introduca
nelle forme rizotoniche se ne risulta appunto uno spostamento dell’accento. Anzi,
se la distribuzione dell’aumento dipendesse davvero dall’accento radicale, sareb-
be da aspettarsi esattamente il contrario di quello che in realtà osserviamo, vale a

7 La sopravvivenza di una forma derivata aggettivale ad infisso come appariscente mette


ancora di più in dubbio l’ipotesi di un processo fonologico.
8 Si noti che nel caso di un verbo il cui radicale esistesse anche come sostantivo o aggetti-
vo, sarebbe da aspettarsi che forme derivate da questi ultimi, in cui l’accento si spostasse su un
suffisso, subissero la stessa alternanza come nel verbo. Esempi adatti scarseggiano, ma mi sem-
bra poco probabile che nel siciliano sudorientale, per esempio, a ´runu ‘dono’ si alterni un dimi-
nutivo ra´ittu, come a ´runa ‘dà’ si alterna ´ramu, ecc.. L’ipotesi della dipendenza dall’accento
verrebbe confirmata anche nel caso di uno spostamento dell’accento dalla desinenza sul radica-
le, al quale si dovrebbe accompagnare la comparsa dell’alternante ‘tonica’. In realtà, non si tro-
vano esempi adatti nel dominio italoromanzo (un esempio ipotetico ne sarebbe > uscìte >
**èscite anziché **ùscite.), ma esistono varietà romanze (cfr. Maiden in preparazione), in cui la
creazione di nuove forme rizotoniche si verifica senza che s’introduca l’allomorfo ‘tonico’. Per
ultimo, se ci fosse uno stretto legame tra alternanza e accento, sarebbe da aspettarsi che nel
verbo avere usato come ausiliare e quindi, di solito, protonico, prevalesse la forma ‘atona’ (così
che in italiano si avrebbe ha un libro, avete un libro ma **ave fatto). Esistono dialetti (come pure
in romeno) in cui avere ha, sì, una forma ridotta in tutto il paradigma dell’ausiliare’, ma in cui
essa corrisponde alla forma tonica del verbo ausiliare: p. es. siciliano (Leone 1980:134s.) 1pl.
a´vjemu ´tjempu 3pl. ´anu ´tjempu di contro a 1pl. amu ´fattu, ecc.
14 MARTIN MAIDEN

dire aumenti limitati esclusivamente a quelle forme del paradigma in cui il radi-
cale, appunto, non porta l’accento.
C’è anche chi sostiene una linea che potremmo chiamare ‘semiotica’, propo-
sta ad esempio da Lausberg (1965:§801, 921): la regolarizzazione dell’accento
rende tutti i radicali arizotonici, ciò che ovvierebbe ad eventuali effetti allomorfi-
ci collegati all’accento: si stabilisce così un rapporto di biunivocità tra forma e
significato. Se è vero, come vuole Elwert (1943), che ciò può facilitare l’integra-
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zione dei neologismi nel sistema verbale, il fatto che l’infisso appare anche nei
verbi derivati da sostantivi o aggettivi è sempre contrario al principio di traspa-
renza. Nell’italromanzo l’accento cade quasi sempre ed esclusivamente sul radi-
cale del sostantivo e dell’aggettivo: aggiungendo un suffisso ai verbi derivati, il
radicale diviene però atono e quindi deve subire tutte le alternanze allomorfiche
collegate (come si crede) allo spostamento dell’accento. Vale a dire che la traspa-
renza del rapporto tra sostantivo/aggettivo e verbo viene offuscata. Così nel sopra-
silvano (cfr. Elwert 1943:144) si ha ta´mεi
ʃ ‘setaccio’ ma tame´ ea ‘(egli) setac-
cia’, laddove sarebbe stata più ‘trasparente’ una forma verbale **ta´mεi a. Visto
che nell’italoromanzo i verbi col radicale in [u], [i] ed [a] dimostrano un grado mini-
mo di allomorfia vocalica, sarebbe inoltre da aspettarsi che la presenza dell’aumen-
to si limitasse tendenzialmente ai verbi a vocale radicale media: ma l’italoromanzo
non sembra dimostrare neppur minimamente una tale tendenza. Aggiungerei che l’i-
potesi di Lausberg presuppone che i parlanti incontrerebbero difficoltà a produrre le
alternanze voacliche dipendenti dall’accento, cosa che sembra poco probabile se
teniamo conto della folla di verbi in cui tali alternanze si manifestano regolarissime.
E nel caso di alternanze lessicalizzate e non più dipendenti da processi fonologici,
perché i parlanti dovrebbero darsi la pena d’introdurre un aumento quando invece
potrebbero ricorrere al livellamento analogico (come infatti succede spessissimo –
si pensi all’estensione del dittongo in chiedere)? Ma l’approccio semiotico ha un
difetto ancora più grave: non spiega l’assenza dell’aumento nel resto del paradigma.
Difatti si raggiungerebbe il più alto grado di regolarità all’interno del paradigma,
sempre mantenendosi la trasparenza del radicale lessicale, se l’aumento si presen-
tasse in tutto il paradigma9. Se la tesi di Lausberg sembra in sostanza difettosa, va
sempre riconosciuto che secondo lo studioso tedesco la distribuzione dell’aumento
sarebbe stata in qualche modo un effetto delle differenziazione vocalica dovuta
all’accento. Ma io vorrei proporre che anziché essere una reazione contro gli effet-
ti antiiconici di questo cambiamento, la distribuzione dell’aumento ne sarebbe in
qualche modo una amplificazione.
Immaginiamoci in quale situazione sconcertante si sarebbero trovati quei par-
lanti nativi dell’antico romanzo davanti ad un elemento ereditato dalla struttura

9 Lo stesso dicasi di quei dialetti italiani meridionali che manifestano l’aumento dove altri-
menti si avrebbe accento proparossitono. Ciò non spiega come mai l’aumento sia diventato
esclusivamente accentato.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 15

morfologica verbale latina ma oramai privo di contenuto semantico proprio e dif-


ficilmente collegabile ad una classe morfosintattica: esso appariva nel presente,
nell’infinito, nell’imperfetto, nel participio presente, ma non nel preterito e nem-
meno nei continuatori del piucchepperfetto congiuntivo ed indicativo latino, né
nel participio passato. Per colmo, in alcuni verbi la presenza dell’aumento era
facoltativa. Da un’ottica panromanza, abbiamo a quanto sembra due ‘soluzioni’
prevalenti, ed in entrambe l’aumento viene analizzato come parte integrante del
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radicale: nell’iberoromanzo come nel sardo, esso si estende all’intero paradigma;


nell’italoromanzo (ed altrove) si conservano i due alternanti del radicale (p. es.,
finisk- a fianco a fin-), ridistribuendosi l’aumento secondo l’assetto l’astratto
creato dalla differenziazione accentuale. A questo viene a conformarsi anche l’au-
mento in -edz-: sebbene fosse all’origine presente in tutto il paradigma verbale,
sembra che il modello di -isk- abbia indotto anche l’aumento -edz- nelle relative
varietà romanze ad adottare la distribuzione che gli conosciamo. Va sottolineato,
inoltre, che i tentativi di spiegare la distribuzione degli aumenti in termini della
trasparenza morfologica perde di vista una generalizzazione più profonda e certo
non casuale, vale a dire che l’aumento ubbidisce allo stesso principio di distribu-
zione degli allomorfi suppletivi già visti.
Sono concepibili anche spiegazioni che cercano di rendere conto di tutti i casi
di CPM2 in termini di ‘marcatezza’ dell’insieme di categorie morfosintattiche
intersessate10. Giacché il plurale è più marcato del singolare, le prime e seconde
persone più marcate della terza, e i tempi non presenti più marcati del presente,
non ne conseguirebbe che la CPM2 distingue le forme non marcate da quelle mar-
cate? Ma si badi che non si tratta di una nozione di marcatezza binaria (marcato
vs. non marcato), ma di un tipo di marcatezza molteplice in cui s’intrecciano ben
tre parametri di marcatezza distinti: sotto quest’aspetto la CPM2 è quanto mai
arbitraria: perché non si dovrebbero distinguere presente e non presente, o con-
giuntivo e non congiuntivo, o singolare e plurale? Perché l’alternanza si dovreb-
be conformare proprio a questa combinazione delle categorie morfosintattiche, e
non a tante altre possibili ed anch’esse compatibili con nozioni di ‘marcatezza’?
L’idea che la CPM2 si sia sviluppata diacronicamente non come effetto diret-
to dell’accento, ma come generalizazzione di una distribuzione allomorfica
impressa al paradigma verbale dall’alternanza vocalica trova appoggio nella sto-
ria del sardo. Il sardo – o comunque le varietà logudoresi – si discosta da tutte le
altre lingue romanze in quanto non ha la minima traccia della CPM2. Ha, sì, la
solita alternanza tra rizotonia e arizotonia, ma manca della relativa differenzia-
zione vocalica, se facciamo astrazione di una variazione di apertura delle vocali
medie la quale era, almeno fino a non molto fa, del tutto automatica ed allofoni-

10 Sul possibile ruolo della marcatezza nella struttura paradigmatica dell’italiano, cfr.
Anche Matthews (1981:63).
16 MARTIN MAIDEN

ca11. Per la precisione, [e] ed [o] apparivano in posizione atona e anche, in voca-
le tonica, davanti a vocale metafonizzante, mentre [ε] ed [ɔ] apparivano in tutti gli
altri casi. L’assenza delle alternanze di CPM2 si manifesta persino in un verbo
come andare, forse mutuato all’italiano, in cui o si ha and- in tutto il paradigma,
o si hanno i due allomorfi and- e va(d)-, ma distribuiti secondo criteri esclusiva-
mente morfosintattici: così a Baunei (AIS 959) sg. ´vao vas ´vaðe pl. an´damus
an´dais ´andanta; mentre nel nuorese le fome in ba- si limiterebbero (facoltati-
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vamente) al solo imperativo. Stando a Wagner (1939:166), è possibile che l’anti-


co sardo abbia avuto vad- in tutto il presente. In quanto ad avere, nessuna traccia
dell’alternanza tra radicale a consonante finale e radicale a vocale finale, nota in
tutte le altre lingue romanze12

Tabella 13

Appena scendiamo nel campidanese troviamo però esempi di alternanze a


CPM2: così a Villacidro (AIS 973) ´bandu ´bandas ´bandaða an´daus an´dais
´bandanta13. Qua e là si ha anche il congiuntivo di ‘dire’ (< NARRARE) (Blasco
Ferrer 1984:231) ´nεri ´nεris ´nεridi na´reus na´reis ´nεrinu, con creazione ana-
logica di un’alternanza dovuta a quanto pare (cfr. Wagner 1939:169) all’influenza
dell’[ε] del congiuntivo di dare (ma si badi che in dare la vocale è di tutte le per-
sone). Ora, un tratto che differenzia le varietà campidanesi da quelle logudoresi è
appunto la natura fonemica (e quindi spesso imprevedibile) della distinzione tra
vocali medie chiuse e quelle aperte, dovuta soprattutto alla neutralizzazione stori-
ca dell’opposizione tra vocali atone metafonizzanti ([i] ed [u]) e vocali atone non
metafonizzanti medie ([e] ed [o]). Ciò avrebbe conferito una maggiore prominen-
za ed imprevedibilità all’alternanza tra vocali aperte e chiuse nel radicale del verbo

11 Esiste, sì, una tendenza facoltativa (Pittau 1972:118) alla chiusura in /i/ e /u/ delle voca-
li medie protoniche, ma non sembra essere molto antica.
12 Cfr. Wagner (1939:156-6).
13 Sulle possibili origini di quest’alternanza, si veda anche Jones (1993:238).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 17

(p. es. 3sg. ´βeniði < *βenit e ´pεrdiði < pεrdet si alternano a forme atone in
[βen] e [perd] entrambe con vocale chiusa).
Può ancora sorgere il dubbio che CPM2 abbia una motivazione funzionale
‘nascosta’, ma che siamo davanti ad una idiosincrazia strutturale unica delle lin-
gue romanze lo indica anche una mia rassegna preliminare (e certo da approfon-
dirsi) di altre lingue indoeuropee (slavo, celtico, greco, germanico, albanese,
indo-ariano, per non dimenticare il latino stesso) che nonostante la presenza delle
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stesse categorie morfosintattiche nel verbo (persona, tempo, numero), sembrano


ignorare distribuzioni paradigmatiche paragonabili a CPM2 (nonché a CPM1).

CONCLUSIONI

L’esistenza, e soprattutto la persistenza diacronica, di classi di partizione


morfomiche porta ad interessantissime riflessioni sul modo di apprendimento del
proprio sistema morfologico da parte dei parlanti, per le quali rinvierei all’ottimo
libro di Vito Pirrelli (2000). Mi trovo del tutto d’accordo con quanto dice a que-
sto proposito lo studioso italiano:

[...] la struttura paradigmatica di associazioni lessicali tra forme costi-


tui[rebbe] un dominio cognitivo autonomo. In altre parole, il parlante
sarebbe portato ad estendere sistematicamente l’alternanza radicale
variabile attestata in una certa cella ck ad un’altra cella cj, se e solo se
ck e cj appartengono alla stessa classe di partizione.
Generalizzazioni paradigmatiche di questa natura hanno il ruolo di
alleviare considerevolmente il peso della variabilità fonologica e
morfologica sul processo di apprendimento del sistema verbale di una
lingua, ponendo dei vincoli d’identità formale non locali. In linea con
questa ipotesi, le alternanze variabili, indipendentemente dalla loro
natura intrinseca, dovrebbero manifestare una fondamentale congruen-
za dal punto di vista della loro distribuzione nel paradigma, cioè
dovrebbero risultare sistematicamente associate alle stesse classi di
partizione. (Pirrelli 2000:61)

Aggiungerei che la stessa ricerca di ‘generalizzazioni paradigmatiche’ sem-


bra manifestarsi, diacronicamente, come resistenza ad eventuali cambiamenti ten-
denti a contraddire tali generalizazzioni, nonché come ‘rafforzamento’ formale
delle classi di partizione, attraverso l’astrazione ed estensione di tratti fonologici
caratteristici del morfoma. Questi fatti potrebbero essere interpretati come una
specie di ‘deriva antisemiotica’ (cfr. Pirrelli 2000:102), in quanto sembrano con-
trari al principio di biunivocità nel radicale lessicale tra contenuto e forma. Io però
sarei incline a vedere in essi fenomeni che hanno invece una motivazione profon-
18 MARTIN MAIDEN

damente semiotica14. In Maiden (1992;2000) interpreto casi di convergenza come


una specie di ‘livellamento analogico’, simile a quello tra contenuto lessicale e
forma che si ha nella storia di verbi come suonare, con questa straordinaria diffe-
renza che il ‘signatum’ sembra essere un’entità puramente morfologica – vale a
dire la classe di partizione stessa (per altri esempi di ‘signata’ autonomamente
morfologici, cfr. anche Carstairs-McCarthy 2001). Da quest’ottica, la convergen-
za, e il fenomeno dell’attrazione che è stato al centro di questa comunicazione,
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sembrano essere in netta contraddizione, giacché la prima tende a minimizzare la


variazione allomorfica, e la seconda ad aumentarla, attraendo a sé nuovi alternan-
ti eterogenei. In realtà credo che i due fenomeni, insieme con la coerenza, vada-
no concepiti come sottovarietà locali di un principio semiotico di biunivocità ine-
rente alla morfologia lessicale di tutte le lingue. Si tratta di quella che si potrebbe
chiamare una ‘teoria del segno all’italiana’ (o meglio ‘alla romanza’ giacché essa
caratterizza quasi tutte le lingue romanze, ma appunto solo queste), una specie di
‘distorsione’ ovvero ‘deformazione’ paradigmatica e localizzata del rapporto ‘nor-
male’ tra contenuto lessicale e forma (cfr. a questo proposito l’idea di una lingui-
stica ‘imperfezionista’ proposta da Aronoff 1999 nel trentunesimo congresso
SLI). Coerenza, convergenza ed attrazione sono strategie cui il parlante ricorre
quando impari che questo rapporto non è perfettamente isomorfico, facendo così
ripiego su una specie di ‘compromesso’15, che tende a garantire un specie di iso-
morfismo rendendo il più possibile prevedibili gli anisomorfismi. A questo pro-
posito i casi di attrazione di alternanti suppletivi hanno una caratteristica alta-
mente interessante. Mentre coerenza e convergenza mantengono e rafforzano
alternanti già esistenti, l’attrazione assegna alternanza a delle forme varianti e lo
fa come parte del processo stesso di creare un’unità lessicale. Così nel siciliano
sudorientale i due radicali sinonimi run- (<DON-) e ra- (<DA-) erano invarianti in
quanto a tempo, numero e persona, ma vengono distribuiti secondo la CPM2. Ciò

14 Così non condividerei del tutto il giudizio piuttosto negativo che, sul ruolo della biuni-
vocità, dà Pirrelli (2000:197):
[...] non sembra che l’associazione diretta tra unità di contenuto morfosintattico e
costituenti formali minimi che convogliano dette unità rappresenti una priorità dal
punto di vista cognitivo, nonostante la sua naturale rispondenza a criteri astratti di
funzionalità semiotica. La coniugazione dell’italiano non sembra essersi evoluta
diacronicamente, né appare strutturata sincronicamente, in modo tale da massimiz-
zare la corrispondenza tra unità minime di forma e contenuto al suo interno. Il ricor-
so a nozioni di corrispondenza biunivoca governata dal contesto morfologico non
cambia la sostanza del problema, ma anzi si espone all’obiezione di essere una stra-
tegia di ripiego puramente descrittiva, priva di qualsiasi valore esplicativo.
15 Siamo assai lontani dall’interpretazione che di fatti simili dà Wurzel (1987), in chiave di
‘Morfologia naturale’ in cui strutture morfologiche ‘dipendenti dal sistema’ starebbero in oppo-
sizione a fatti naturali ed universali come la biunivocità. Sembra infatti che per Wurtzel fatti
‘dipendenti dal sistema’ sarebbero favoriti dalla preponderanza numerica di un dato tipo morfo-
logico. Per una critica a quest’approccio, si veda Maiden (1996;1997).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 19

dimostra innanzitutto che gli eventuali valori morfosintattici che possono essere
associati agli alternanti sono secondari rispetto all’unità formale del lessema (cfr.
Pirrelli 2000:197): CPM2 è una specie di ‘modulo’ ossia ‘template’ (per usare il
termine inglese) che riconcilia la coesistenza di forme diverse alla loro integra-
zione in un lessema unico16.

Spero di essere riuscito, per lo meno, a dimostrare l’importanza da accorda-


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re, nello studio della storia morfologia paradigmatica italoromanza, e più gene-
ralmente romanza, a strutture autonomamente morfologiche in quanto sincroni-
camente indipendenti da condizionamenti sia fonologici che morfosintattici, ma
che si prestano diacronicamente ad una funzione altamente semiotica: quella di
garantire l’integrità formale del segno.

16 È interessante a questo proposito notare come, in alcuni dialetti italiani (d’altronde anche
nel romeno; per il siciliano cfr. Leone 1980: 135) CPM2 si presenti nel verbo lessicale avere,
mentre l’ausiliare corrispondente ha il radicale /a/ in tutto il paradigma. Ci si può chiedere se ciò
non rispecchi il fatto che CPM2 è una caratteristica dei verbi lessicali?
20 MARTIN MAIDEN

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GIANLUCA FRENGUELLI
(Università degli Studi di Roma Tre)

Tra narrazione e argomentazione: il gerundio nella prosa d’arte dei primi


secoli*
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1. IL GERUNDIO IN ITALIANO ANTICO

In italiano antico il gerundio assume diverse funzioni e si presenta con diver-


si aspetti in rapporto al livello di scrittura, alla testualità e, naturalmente, al perio-
do storico. Per tale motivo l’uso di questo modo verbale è senza dubbio un para-
metro da non trascurare nel fondare una tipologia sintattica e testuale dell’antica
prosa. Come è noto, per quanto riguarda l’uso del gerundio, esistono, tra le lingue
romanze (per es. tra italiano, francese e spagnolo) differenze funzionali, che
hanno anche una dimensione diacronica1. L’italiano antico mostra alcune diffe-
renze rispetto all’italiano moderno (gerundio con funzione di participio; gerundio
preposizionale, maggiore frequenza del gerundio assoluto, ecc.); al tempo stesso
mostra, all’interno delle sue varietà, differenze di carattere pragmatico: le tipolo-
gie testuali e gli scopi del testo ne condizionano l’uso. Innanzi tutto cerchiamo di
illustrare queste differenze.
Come si nota dalla tabella 1, il gerundio è frequente nella nostra prosa d’arte
fin dalle Origini: un testo come Parlamenti ed epistole di Guido Faba presenta un
rapporto gerundi/parole del 6,62‰.
Non è possibile definire, almeno con statistiche di questo tipo, uno sviluppo
in diacronia dell’uso del gerundio, uso che si presenta piuttosto altalenante: si va
da un minimo di 0,8‰ nel volgarizzamento della Metaura di Aristotele a un mas-
simo del 17,79‰ nel Decameron.
Il gerundio sembra raggiungere la sua massima diffusione nel XV secolo2,
per poi diminuire gradatamente: i costrutti gerundiali sono sempre più sostituiti

* La presente ricerca si è giovata del fondo ex 60%, relativo al programma “Archivio della
sintassi dell’italiano antico” (coordinatore: Maurizio Dardano, Università Roma Tre).
1 A tal proposito cfr. per il francese antico Ménard (19944: 169-72), per un confronto tra il
francese moderno e l’italiano Arcaini (2000: 249-54, 432); per lo spagnolo cfr. Fernànder
Lagunilla (1999); per un confronto con l’italiano Carrera Díaz (1997).
2 Da alcuni assaggi effettuati con la LIZ 4.0 (2000) in un corpus di testi del ’400 emerge
che il gerundio raggiunge una frequenza media (parole/gerundi) del 13,70‰, contro il 6,57‰
dei due secoli precedenti. La frequenza relativa va da un massimo del 23,04‰ dei Detti piace-
voli del Poliziano a un minimo del 5,52‰ nei Motti e facezie del Piovano Arlotto. Tuttavia, a
parte il caso di quest’ultima opera e dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti (con
24 GIANLUCA FRENGUELLI

Tabella 1
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da costrutti espliciti (Tesi 2001: 143 e 236); l’esigenza di chiarezza perseguìta dalla
prosa umanistica e il confronto con il latino classico provocano una razionalizzazione
dei rapporti tra proposizione principale e subordinata (Dardano 1963 / 1992: 324) che
portano alla rarefazione di forme quali il gerundio e il participio
Nella nostra prima prosa il gerundio si sviluppa seguendo vie in parte diverse:
in Guido Faba, ad esempio, ricorre il gerundio assoluto, espresso nella quasi totalità
dei casi con il verbo essere e spesso posto a fianco di un gerundio con soggetto.

il 6,16‰), in tutti i testi la frequenza del gerundio non è mai inferiore all’11‰. I restanti testi
del corpus, con le relative frequenze sono: Giovanni Gherardi, Il Paradiso degli Alberti
(18,92‰), Lorenzo De’ Medici, Comento de’ miei sonetti (13,07‰), Id., Novelle (17,04‰),
Iacopo Sannazaro, Arcadia (15,33‰), Gerolamo Savonarola, Trattato circa il reggimento e
governo della città di Firenze (11,31‰), Leonardo Da Vinci, Scritti letterari (12,92‰).
3 La percentuale di incidenza del gerundio è ottenuta mettendo in relazione il numero dei
gerundi presenti nel testo con il numero delle parole. Sono consciente del fatto che, data la diver-
sità delle opere considerate, analisi del genere rischiano talvolta di fornire dati poco utili (se non
si tiene conto al tempo stesso dell’estensione dei periodi): tuttavia in questa occasione m’inte-
ressava soltanto avere un’indicazione di riferimento per capire quanto il gerundio sia usato in
una data opera. Si vedano a tal proposito le perplessità espresse da Policarpi/Rombi (1998: 339-
340) su questo tipo di analisi statistiche.
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 25

(1) Unde noi te mandamo x libre a removere la tua indigentia, consi-


gliando te che tu altro modo supra lo to facto deipe [= debba] provi-
dere, sipando [= essendo] che contra conscientia no volemo espen-
dere lo patrimonio dei Iesu Cristo (Faba Parlamenti, II p. 9-10);
(2) A vui, sì como ad altro meo deo in terra in lo quale è onne mia
fidança, seguramente recurro in le mie necessitade, sperando ch’eo
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no podrave essere offeso u gravado da alcuno omo u persona, scì


che la vostra potentia defensando (Faba Gemma, 20, p. 7).

Nella prima delle Lettere di Guittone (a Gianni Bentivegna) ricorrono ben 31


gerundi. Per quanto riguarda la loro disposizione, si nota la tendenza a collocare
il gerundio nella parte finale del periodo, in modo da ricavarne effetti ritmici. Il
condizionamento ritmico nella prosa d’arte è, come si vedrà a proposito del
Boccaccio, uno dei fattori che regolano l’uso del gerundio. Per tale motivo in
Guittone sono numerosi i fenomeni di cumulo e soprattutto le coppie di gerundi.
Eccone una serie di quattro:

(3) Ché Dio fece la bestia chinata inver’ la terra, e gli occhi e la bocca
tenendo [= ‘che tiene’] in essa sempre, e solo d’essa conoscere l’a-
maiestrò, mostrando che sopra d’essa no ha che fare; ma l’omo fece
ritto, la testa, la bocca, li occhi, tenendo al Cielo [c.s.], dandoli inten-
dimento che la sua eredità era lassù (Guittone, Lettere, p. 8).

Si noti qui che i due gerundi tenendo hanno la funzione del “participio con-
giunto” latino 4. Tale funzione, non più presente in italiano, si ritrova invece con
qualche differenza nello spagnolo moderno 5. Invece mostrando e dandoli hanno
lo stesso soggetto della principale Dio.
Bisogna inoltre tener conto del fatto che in Guittone il gerundio trova un con-
corrente, seppur limitato (5 occorrenze) nel costrutto “in + infinito”: cfr. nel testo
ora citato: in iscampare e agiare le povere suoie ricchezze (p. 6).
Rispetto a Guittone, Brunetto usa meno frequentemente il gerundio e non con
fini retorici, ma, per così dire, “di servizio”, ovverosia per costruire sequenze
esplicative di semplice fattura:

4 Cfr. Ernout-Thomas (19532, 274-75 e 282-83). Per l’uso del gerundio in funzione parti-
cipiale nell’italiano antico cfr. Skerlj (1926: 35-42).
5 Nello spagnolo il gerundio assume tale valore in più casi: 1) frasi composte in cui il sog-
getto del verbo reggente e quello del gerundio sono diversi: Oigo a Pedro subiendo las escale-
ras ‘sento Pietro che sale le scale’ con verbi di percezione, di ritrovamento (encontrar, coger,
ecc.) e di rappresentazione (pintar, dibujar); 2) frasi in cui, a prescindere dal significato e dalle
caratteristiche del verbo reggente, il g. funziona praticamente come un aggettivo: Ha pasado por
aquí un niño llorando? ‘che piangeva’; 3) gerundio con valore specificativo (non accettato nello
26 GIANLUCA FRENGUELLI

(4) Onde Tulio purgando questi tre gravi articoli procede in questo
modo: che in prima dice che sovente e molto àe pensato che effet-
to proviene d’eloquenzia (Brunetto Rettorica, I XIV, p. 8);
(5) Nella quarta parte sì mette le pruove sopra questi tre articoli che
sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recan-
do a cciò molti argomenti, li quali muovono d’onesto e d’utile e
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possibile e necessario (Brunetto Rettorica, I XIV, p. 9) 6.

Anche le coppie di gerundi hanno questo carattere:

(6) Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di
colui che lla mette in opera, l’uno insegnando l’altro dicendo.
(Brunetto Rettorica, I VII, p. 6) 7.

Invece Bono Giamboni anticipa, in un certo senso, quei fenomeni di cumulo,


presenti soprattutto in posizione incipitaria, che diverranno frequenti nel Decameron:

(7) Considerando a una stagione lo stato mio, e la mia ventura fra me


medesimo esaminando, veggendomi subitamente caduto di buon
luogo in malvagio stato, seguitando il lamento che fece Iobo nelle
sue tribulazioni, cominciai a maladire l’ora e ’l dì ch’io nacqui e
venni in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m’avea
nutricato e conservato. (Giamboni Vizî, I 6-7, p. 3).

Nel Milione di Marco Polo ricorrono con una certa frequenza i gerundi pre-
dicativi e le perifrasi aspettuali con il gerundio del tipo “andare + gerundio”8, di
cui ritroviamo 27 casi su 136 gerundi totali (8), e il gerundio coordinativo9 (9) che
ricorre in 26 casi:

(8) Alotta lo Signore fece fare carte bollate come li due frategli e ’l suo
barone potessero venire per questo viaggio, e impuosegli l’amba-

scritto) Ley prohibiendo fumar ‘legge che proibisce di fumare’ Carrera Díaz (1997: 538-49).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 27

sciata che volea che dicessero, tra le quali mandava dicendo al


papa che gli mandasse C uomini savi e che sapessero tutte le VII
arti (Milione, VII 6, p. 10);
(9) regni di quelle grandissime parti, ebbe udito de’ fatti de’ latini dagli
due frategli, molto gli piacque, e disse fra se stesso di volere man-
dare mesaggi a messer lo papa. E chiamò gli due frategli, pregan-
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doli che dovessero fornire questa ambasciata a messer lo papa.


(Milione, VII 2, p. 10).

Spesso all’interno della produzione di un autore, l’uso del gerundio varia,


anche notevolmente, nelle diverse opere a seconda del tipo di testo (narrativo,
argomentativo, espositivo ecc.). Le scelte pragmatico-testuali condizionano le
scelte sintattiche. Per quanto riguarda Dante, l’uso libero e il cumulo dei gerundi
presente nelle Rime e nella Vita Nova non si ritrova nel Convivio (v. infra e Segre
1963: 240). Qui di seguito vedremo meglio gli aspetti del fenomeno.
Occorre notare che in italiano antico il gerundio si presta a esprimere diverse
funzioni sintattiche, non sempre chiaramente distinguibili le une dalle altre, ma
spesso convergenti nel perseguire lo sviluppo narrativo e la progressione dei temi.
Per questo motivo il gerundio sembra essere preferito soprattutto nei testi narrati-
vi e nelle sequenze narrative (sia autonome sia inserite in contesti più ampi). Ciò
appare evidente se si osservano le modalità d’uso e la frequenza di un tipo parti-
colare di gerundio: quello causale. Infatti, soprattutto in italiano antico, l’espres-
sione della causalità appare fondamentale in vari tipi testuali. Nelle narrazioni la
causalità dà spesso l’avvio a una vicenda; nei testi argomentativi costituisce la
struttura portante del ragionamento, che si attua sovente mediante schemi sillogi-
stici. Attraverso uno spoglio selettivo di testi in prosa dei secoli XIII e XIV, cer-
cherò di mettere in luce le differenze di uso del gerundio causale tra testi narrati-
vi e testi argomentativi e di mostrare come il modo verbale qui considerato sia
peculiare della prosa narrativa. Infatti il gerundio ha, per così dire, una “specia-
lizzazione narrativa”. L’analisi si svolgerà a partire dagli usi presenti nel
Decameron, opera centrale della mia ricerca.
Tornando all’indefinitezza sintattica del gerundio, va notato che le ricerche
sviluppatesi negli ultimi decenni non hanno fornito, su tale problema, significati-
vi progressi. Mentre studi “classici” (ovvio il riferimento a Skerlj 1926)10 offrono
ancora validi punti di riferimento, minore efficacia sembrano avere avuto talune
proposte formulate a proposito dell’italiano moderno (per es., la distinzione tra
gerundio predicativo e gerundio frasale; cfr. Lonzi 1991). Per tale motivo, piutto-
sto che cercare di attribuire al gerundio un valore invece di un altro, appare oppor-

6 Cfr. anche: «e dicendo “nostro comune” intende Roma» (Brunetto Rettorica, I XV, p. 10);
«Manifestamente abbassa ’l male e difende rettorica, dicendo che…» (Brunetto Rettorica, I XV,
28 GIANLUCA FRENGUELLI

tuno, in molti casi, parlare di “predominanza” di un valore rispetto all’altro


(Antonini 1974-75) o di “condivisione di relazioni” (Frenguelli 2001 e 2002).
In italiano antico il gerundio presenta spesso la condivisione del valore cau-
sale e del valore temporale. Ciò accade perché i due valori sono strettamente con-
nessi tra loro; il succedersi della causa e dell’effetto presuppone sempre una suc-
cessione temporale. Così, mentre nelle causali esplicite i connettivi specializzati
il più delle volte pongono in primo piano l’uno o l’altro valore, il gerundio ne per-
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mette la compresenza. Si tratta di una caratteristica peculiare del gerundio e delle


forme indefinite dei verbi11 usata dagli autori anche per favorire la progressione
narrativa. Tuttavia la compresenza dei due valori era possibile, già in latino, nelle
proposizioni costruite con il participio e in quelle introdotte da cum e postquam e
in italiano antico con poi che 12.

2. IL GERUNDIO NEL DECAMERON

Per le sue caratteristiche la gerundiva causale e causale-temporale appaiono


adatte a rendere un ampio sviluppo della narrazione, dal momento che esse svol-
gono la duplice funzione di marcare la successione degli eventi e di segnalare la
presenza di un’implicazione tra due fatti. In effetti la gerundiva causale e causa-
le-temporale rappresentano due dei tipi di gerundio più frequentemente usati nel
Decameron: opera in cui il numero elevato di causali espresse al gerundio si addi-
ce perfettamente a una modulazione ritmica del periodo, prossima alle cadenze
della prosa latina.
Nel Decameron l’uso del gerundio assume infatti aspetti particolari (quantità,
varietà di configurazioni e di usi, fenomeni di cumulo). Nel Filocolo invece tro-
viamo modalità d’uso più semplici e contesti più lineari: l’apprendista scrittore
sperimenta gli strumenti di una “macchina sintattica”, che perfezionerà in seguito.
L’assoluta preminenza che il gerundio causale ha all’interno del Decameron
è resa più significativa dal frequente ricorrere delle successioni serrate e dei feno-
meni di cumulo:

p. 11).
7 Cfr. anche «la difende abassando e menimando la malizia» (Brunetto Rettorica, X, XV, p.14).
8 Serianni (1988: 336) parla di perifrasi formate con verbi fraseologici, ausiliari di tempo o
aspettuali; Brianti (1992 e 2000) fornisce tra l’altro una cronologia del fenomeno. Su questo
argomento cfr. anche Giacalone Ramat (1995). Questo tipo di perifrasi è espresso, in italiano
antico e, in particolare, nel nostro corpus, con un numero limitato di verbi: andare (65,1%),
venire (18,6%) e mandare (11,7%); altri verbi rientrano in esempi occasionali e hanno una fre-
quenza irrilevante (tutti insieme raggiungono il 4,6%).
9 Sul quale cfr. Serianni (1988: 408-9).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 29

Tabella 2
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Come risulta dalla tabella (2), nonostante prevalgano i gerundi singoli, in


quasi il 40% dei casi il gerundio appare in serie doppie, triple, come in (10), in cui
si succedono tre gerundi, con diversi valori:

(10) Per che, usando molto insieme il vescovo e ’l maliscalco, avven-


ne che il dí di San Giovanni, cavalcando l’uno allato all’altro veg-
gendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una
giovane […] il cui nome fu monna Nonna de’ Pulci (Dec, VI III 8,
p. 728).

Di questi tre gerundi soltanto il primo è causale: gli altri due hanno, almeno
apparentemente, valore temporale. In realtà in veggendo si avverte con chiarezza
anche un significato causale, che tuttavia non è prevalente: se il vescovo e ’l mali-
scalco non avessero guardato le donne, non avrebbero certo notato monna Nonna.
Abbiamo qui quella condivisione di valori di cui abbiamo parlato poco fa. Tali valo-
ri sfumati che il gerundio assume, sono comunque funzionali allo sviluppo della
narrazione. Infatti, se in questo passo l’autore avesse voluto mettere in rilievo il rap-
porto di causa-effetto avrebbe fatto ricorso a una proposizione esplicita. Se non l’ha
fatto, vuol dire che era più interessato al ritmo del periodo e allo sviluppo tematico.
Il Boccaccio arriva ad accumulare fino a undici gerundi, come in (11), dove
la lunga serie è composta da quattro gerundi causali (si noti che causale è anche
il participio rimaso), due gerundi modali e, nella seconda parte del periodo (lega-
ta alla prima da un’avversativa), altri due gerundi causali (il secondo dei quali
incassato in una causale esplicita), un gerundio modale, un gerundio concessivo
e, a conclusione, un altro gerundio causale.

(11) Rinaldo, rimaso in camiscia e scalzo, essendo il freddo grande e


nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo già
sopravenuta la notte, tremando e battendo i denti, cominciò a
riguardare se da torno alcuno ricetto si vedesse dove la notte
potesse stare, che non si morisse di freddo; ma niun veggendone,
per ciò che poco davanti essendo stata guerra nella contrada v’era
ogni cosa arsa, sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò verso
30 GIANLUCA FRENGUELLI

Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò che il suo fante là o


altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrar vi potesse,
qualche soccorso gli manderebbe Idio (Dec, II II 15, p. 145).

La serie di gerundi è qui funzionale alla progressione narrativa. I primi quat-


tro gerundi coordinati, insieme al participio rimaso, servono a specificare le circo-
stanze, le “concause”, che accompagnano lo svolgersi dell’azione. Per sottolinea-
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re la situazione disperata del mercante, l’autore mette in rilievo una serie di cause,
che insieme alle successive, tutte espresse al gerundio, contribuiscono al progre-
dire dell’azione. Si tratta di una progressione narrativa “globale”: cioè tutte le cau-
sali del periodo spingono la narrazione verso un’unica azione: l’arrivo del prota-
gonista a Castel Guiglielmo. Una serie di circostanze (l’essere rimasto in camicia,
il freddo, la neve, il non saper che fare, la notte che sopravviene) fa sì che Rinaldo
si guardi intorno cercando riparo per la notte. Altre due circostanze, marginali
rispetto alle precedenti (il fatto che non ci sia riparo, a causa della distruzione por-
tata dalla guerra, e il fatto che qualche soccorso si poteva trovare nel castello),
inducono Rinaldo a dirigersi al castello, luogo della risoluzione della novella. Ho
provato a rappresentare la situazione descritta con il seguente schema:

Tabella 3
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 31

Si noti la che le due causali per ciò che v’era ogni cosa arsa e poco davan-
ti essendo stata guerra nella contrada, presentano, nell’ambito della progressio-
ne narrativa, una funzione diversa rispetto alle altre: introducono infatti una cir-
costanza accessoria, secondaria rispetto allo svolgimento. In questo caso si po-
trebbe parlare di una differenza tra valore causale “di primo piano” e valore cau-
sale “di sfondo”. Il primo tipo di causale interessa fatti necessari allo svolgi-
mento dell’azione, il secondo tipo riguarda invece fatti marginali, circostanze
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secondarie.
Abbiamo detto che questo modo di esprimere la causalità ha lo scopo di far
progredire la narrazione, assecondando, al tempo stesso, il ritmo interno del
periodo, un fine ricercato con costanza dal Boccaccio13. La duplice funzione vol-
ta dalla gerundiva di marcare la successione temporale e di segnalare la presen-
za di un’implicazione tra ciò che è espresso dal gerundio e ciò che è espresso
nella sovraordinata appare lo strumento ideale per rendere lo sviluppo della nar-
razione.
La progressione narrativa è ottenuta in tre modi diversi, dal più semplice al
più complesso, abbiamo: 1) progressione lineare con stesso soggetto, 2) progres-
sione lineare con cambio di soggetto, 3) progressione “a catena”.
La progressione lineare con stesso soggetto è la modalità più semplice: una
lunga serie di gerundi con lo stesso soggetto appunto, introduce le circostanze che
promuovono un determinato svolgimento dell’azione. Segue la principale, espres-
sa di solito (e significativamente) con un verbo di moto (13). Anche qui i quattro
gerundi sono “paralleli”: sono tutti posti sullo stesso piano sintattico e nella stes-
sa prospettiva. A rendere lineare il passo contribuisce la presenza del soggetto in
prima posizione:

(12) Arrighetto, avendo il governo dell’isola nelle mani, sentendo che


il re Carlo primo avea a Benevento vinto e ucciso Manfredi, e tutto
il regno a lui si rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede de’-
ciciliani e non volendo suddito divenire del nimico del suo signo-
re, di fuggire s’apparecchiava (Dec, II VI 6, p. 202).

Il secondo tipo di progressione è quello con cambio di soggetto (13), dove i


quattro gerundi (temporale il primo, causali gli altri tre) presentano diversi attan-
ti: nei primi tre il soggetto sono le monache, nel quarto Masetto. Tale alternanza
genera un cambio di prospettiva nella narrazione pur lasciando inalterato il ritmo.
La successione dei gerundi, oltre a esprimere rapporti logici fondamentali allo

10 Al quale si aggiungono i più recenti Brambilla Ageno 1978 e, per il gerundio composto,
Menoni 1982.
32 GIANLUCA FRENGUELLI

svolgimento della vicenda, contribuisce a creare una narrazione ritmicamente


uniforme, che potrebbe con difficoltà realizzarsi mediante l’uso di connettivi espli-
citi (dei fattori ritmici che condizionano l’uso del gerundio si è già parlato nel § 1):

(13) Ultimamente della sua camera alla stanzia di lui rimandatolone e


molto spesso rivolendolo e oltre a ciò più che parte volendo da lui,
non potendo Masetto sodisfare a tante, s’avisò che il suo esser
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mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare


(Dec, III I 36, p. 335).

Nel terzo tipo di progressione, che chiameremo “a catena”, il fenomeno del


cambio di soggetto si ripete più volte e assume un valore particolare quanto più il
periodo stesso si estende. In (14), ognuno dei tre gerundi causali presenta un sog-
getto diverso: avendo mandati è riferito a Bonifazio papa; essendo è riferito a essi
nobili ambasciadori; trattando è riferito a messer Geri Spina:

(14) Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer
Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi
nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in
casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del
Papa trattando, AVVENNE CHE, che se ne fosse cagione, messer
Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mat-
tina davanti a Santa Maria Ughi passavano (Dec, VI II 8, p. 721).

La “progressione a catena” del discorso narrativo consiste nel fatto che cia-
scuna gerundiva contiene al suo interno quello che sarà il soggetto della gerundi-
va seguente come in una catena, nella quale ogni anello è legato al precedente: gli
ambasciadori, oggetto della prima, diventa il soggetto della seconda: messer
Geri, complemento della seconda diventa soggetto della terza. I tre gerundi
(avendo mandati, essendo, trattando) sono al centro di tre eventi successivi e fra
loro connessi: sono tre momenti di un’unica sequenza temporale. Il risultato è un
periodo più ampio rispetto al precedente (13); le tre subordinate gerundiali
appaiono isolate rispetto alla coppia principale-completiva, tanto da richiedere
l’uso di una formula narrativa “marcata” di ripresa: in questo caso avvenne che.
Il gerundio presenta anche un’altra fondamentale funzione narrativa: quella di
introdurre semanticamente le cause e le circostanze che danno il via all’azione.
A tal fine il Boccaccio avvia spesso il periodo con due gerundi. Si tratta di
una formula ricorrente in tutta l’opera. I due verbi presentano nella maggior parte
dei casi valore temporale e causale, come in (15), dove il primo gerundio è tem-
porale, il secondo causale:

(15) E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata,


avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per pic-
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 33

col pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli,


passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi
starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» (Dec, II V 4,
p. 178).

Le configurazioni possibili sono diverse: dal punto di vista del tempo e del
modo verbale possiamo avere due gerundi presenti, come nell’esempio appena
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visto; oppure due gerundi, il primo dei quali passato il secondo presente, come
accade per avendo fornite e tornandosi (16).
In questi casi il passato esprime l’avvenimento accaduto nel punto più lonta-
no della linea temporale, mentre il gerundio presente indica che il tempo è simul-
taneo a quello della narrazione:

(16) Era adunque, al tempo del marchese Azzo da Ferrara, un merca-


tante chiamato Rinaldo d’Asti per sue bisogne venuto a Bologna;
le quali avendo fornite e a casa tornandosi, avvenne che, uscito di
Ferrara e cavalcando verso Verona, s’abbatté in alcuni li quali
mercatanti parevano, e erano masnadieri e uomini di malvagia vita
e condizione, con li quali ragionando incautamente s’accompagnò
(Dec, II II 5, p. 142).

È invece molto meno frequente la successione gerundio presente – gerundio


passato, che vediamo in (17); probabilmente per il fatto che non segue la natura-
le disposizione degli eventi lungo l’asse temporale:

(17) E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo
disposto, [Marato] alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si
guardava, sconosciutamente se n’andò con alcuni suoi fidatissimi
compagni li quali a quello che fare intendeva richesti aveva, e
nella casa, secondo l’ordine tra lor posto, si nascose (Dec, II VII
34, p. 234).

Poco frequente è anche la successione di due gerundi passati:

(18) Alla fine, forse dopo tre o quatro anni appresso la partita fatta da
messer Guasparrino, essendo [Giannotto] bel giovane e grande
della persona divenuto e avendo sentito il padre di lui, il quale
morto credeva che fosse, essere ancora vivo ma in prigione e in cap-
tività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato vaga-
bundo andando, pervenne in Lunigiana (Dec, II VI 33, p. 209).

A volte, invece dei due gerundi, ritroviamo a inizio di frase un participio e un


gerundio. In questo caso il participio ha valore prevalentemente temporale (19):
34 GIANLUCA FRENGUELLI

(19) Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo era, e
conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di
Bernabuccio e fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo
commesso da lui mansuetamente passare; (Dec, V v 37, p. 647)

Dal punto di vista del valore sintattico, la successione gerundio temporale –


gerundio causale (15) è come abbiamo detto, la più frequente. Tuttavia il primo
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elemento della coppia può avere a volte un valore temporale-causale:

(20) Costoro [i masnadieri], veggendol [Rinaldo d’Asti] mercatante e


estimando lui dovere portar denari, seco diliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo (Dec, II II 5, p. 142).

Questo particolare uso incipitario del gerundio risponde probabilmente all’e-


sigenza di iniziare una sequenza narrativa, mettendo subito in evidenza le coordi-
nate temporali e le cause che avviano l’evento narrato.
La successione temporale e la progressione narrativa avvengono di preferen-
za mediante una coppia di verba sentiendi. I verbi di percezione si trovano infat-
ti in posizione incipitaria nel 63% dei casi. Di questi, nel 75% dei casi è presente
udendo. Dal punto di vista sintattico, mentre in prima posizione troviamo per lo
più gerundi con valore temporale o temporale-causale, in seconda posizione si
trovano per lo più gerundi causali, tuttavia non sono infrequenti quelli causali-
temporali.
È degno di nota il fatto che tali coppie di gerundi ricorrano per lo più con for-
mule fisse, attraverso la selezione di un numero ridotto di verbi e di combinazio-
ni. Il che ci fa comprendere quanto, anche in un autore come il Boccaccio, lo stile
formulare abbia un notevole rilievo. Le formule più diffuse sono indicate nella
seguente tabella:

Tabella 4

Il gerundio è quindi il modo preferito dal Boccaccio per portare avanti la nar-
razione: da un lato la successione dei verbi al gerundio comporta una linearità e
un’omogeneità nel ritmo del discorso, dall’altro, mediante la varia combinazione
dei vari elementi della proposizione gerundiva, usata anche in abbinamento con il
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 35

cursus e la prosa rimata, il nostro autore fa sì che tale ritmo sia sempre diverso a
seconda delle situazioni.

3. STRUTTURE NARRATIVE E STRUTTURE ARGOMENTATIVE

Veniamo al secondo punto della nostra ricerca: nelle strutture argomentative


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l’uso del gerundio appare ridotto, mentre sono frequenti le causali esplicite. Ciò
vale nella duplice dimensione macrotestuale e microtestuale. Cominciamo dalla
prima. Nella tabella comparativa (15), nella quale abbiamo indicato le percentua-
li delle causali espresse col gerundio rispetto al totale delle causali. Risulta chia-
ramente che il Decameron è l’opera in cui si fa un uso frequente del gerundio cau-
sale e causale-temporale:

Tabella 5

Al polo opposto della frequenza troviamo un esempio di prosa scientifica: il


trattato-volgarizzamento della Metaura, in cui tale percentuale scende al di sotto
dell’1%. Per fissare un termine di confronto si osserverà che nel Convivio, tratta-
to dalla struttura sintattica complessa, i gerundi causali superano di poco il 6%.
36 GIANLUCA FRENGUELLI

Come si potrà notare, ad eccezione del Milione, tutte le opere narrative si tro-
vano nella parte alta della tabella: presentano infatti le maggiori percentuali di uso
del gerundio causale, rispetto alle più basse frequenze delle opere argomentative
(dal Fiore di rettorica alla Metaura).

Tabella 6
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Dalla tabella 6 risulta che, nell’ambito dell’uso complessivo del gerundio, il


valore causale riguarda in primo luogo i testi narrativi: si va dal 36,89% del Libro
de’ vizi e delle virtudi al 4,17% della Metaura.
Passiamo dalla considerazione generale del testo all’analisi di singole sequen-
ze testuali. Se quanto abbiamo detto finora è valido, i pochi esempi di gerundio
presenti nei testi della parte bassa della tabella dovrebbero trovarsi per la maggior
parte in microstrutture narrative. Ciò è vero innanzi tutto per il Convivio.
L’argomentazione, di tipo scolastico, di questo trattato privilegia la chia-
rezza espositiva e pertanto non rappresenta un ambiente ideale per la prolifera-
zione del gerundio, il cui significato «non è reso evidente da nessun segno par-
ticolare e risulta unicamente dal contesto» (Brambilla Ageno 1978: 296). In
effetti Dante fa un uso pressoché costante di nessi causali espliciti: ché, però
che, con ciò sia cosa che, ecc.
Dei 441 casi di gerundio presenti nel Convivio, per la maggior parte aventi
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 37

valore temporale e modale, solo 49 hanno un valore causale. Questi gerundi cau-
sali, presenti quasi esclusivamente in strutture narrative caratterizzate dall’uso di
tempi storici, hanno il valore di “Motivo di Fare”, che ricorre particolarmente
nelle strutture narrative. La sequenza in cui compare il gerudio può essere di tipo
prettamente storico-narrativo, come in (21) e (22); nel secondo passo il gerundio
è ripetuto tre volte:
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(21) combattendo [Ercule] collo gigante che si chiamava Anteo, tutte


[le] volte che lo gigante era stanco [ed] elli ponea lo suo corpo
sovra la terra disteso o per sua volontà o per forza d’Ercule, forza
e vigore interamente della terra in lui risurgea, nella quale e della
quale era esso generato. Di che acorgendosi Ercule, alla fine prese
lui; e stringendo quello e levatolo dalla terra, tanto lo tenne sanza
lasciarlo alla terra ricongiugnere, che lo vinse per soperchio e
uccise (Cv, III III 8, p. 164);
(22) lo suo obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e
soperchia. Per che li filosofi eccellentissimi nelli loro atti aperta-
mente lo ne dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l’altre cose,
fuori che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito,
della propia persona non curando, né barba né capelli né unghie si
tollea; Platone, delli beni temporali non curando, la reale dignita-
de mise a non calere, ché figlio di re fue; Aristotile, d’altro amico
non curando, contra lo suo migliore amico – fuori di quella – com-
batteo, sì come contra lo nomato Platone (Cv, III XIV 8, p. 238).

La sequenza può esporre, con modalità narrativa, il procedere di un ragiona-


mento (23). Anche in questo caso non si può parlare propriamente di struttura
ragionativa, perché il passo narra i presupposti, l’origine e l’articolarsi del pen-
siero dell’autore: le causali rientrano tutte nell’ambito del “Motivo di Fare”, non
in quello del “Motivo di Dire”, che è proprio del ragionamento14:

(23) Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia dell’amico fa


l’uomo sollicito a lunga provedenza. Onde, pensando che lo desi-
derio d’intendere queste canzoni [a] alcuno illitterato averebbe
fatto lo comento latino transmutare in volgare, e temendo che ‘l
volgare non fosse stato posto per alcuno che l’avesse laido fatto
parere, come fece quelli che transmutò lo latino dell’Etica – ciò
fue Taddeo ipocratista –, providi a ponere lui, fidandomi di me più

11 Tali forme verbali, chiamate anche “converbi” (per una definizione del termine cfr.
Haspelmath 1995: 3), hanno come caratteristica principale proprio l’indefinitezza. A tal propo-
38 GIANLUCA FRENGUELLI

sito König (1995: 58) nota come «the interpretation of a converb in a specific utterance is the
result of an interaction between a basic vague meaning of the converb and a wide variety of syn-
tactic, semantic and contextual factors». Uno dei punti principali del dibattito sui “converbi”
riguarda il quesito se essi esprimano “vaghezza” oppure “polisemia” (König 1995: 59-67).
12 Secondo Rohlfs (1969: 180-181) poi che deriva dal latino tardo post quod, che in origi-
ne aveva il valore di postquam. Sugli usi causali e temporali nel latino cfr. Ernout/Thomas
(19532: 350, 361-62). Originariamente in latino postquam aveva valore comparativo: «Les pro-
positions introduites par antequam, priusquam, postquam […] sont, pour la structure, des com-
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paratives; mais elles ne peuvent pas être séparées des temporelles ou des conditionnelles dont
elles font partie pour le sens» (Ernout/Thomas 19532: 354).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 39

13 In altri testi, ad esempio la Cronica di Dino Compagni, il gerundio ha invece funzione


opposta: contribuisce, insieme al participio, alla segmentazione del periodo. Si veda il caso di
Cronica, III, XXIII, pp. 167-8, dove ricorrono un gerundio e quattro participi passati. Sono grato
a Maurizio Dardano per avermi segnalato il passo.
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40 GIANLUCA FRENGUELLI

14 Sulle causali di “Motivo di dire” e “Motivo di fare” cfr. Previtera (1996) e Frenguelli
(2001 e 2002).
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41 GIANLUCA FRENGUELLI

che d’un altro (Cv, I X 19, p. 43).

Anche negli altri testi del corpus la situazione è simile. Solo in rari casi il
gerundio introduce progressioni argomentative. In (24), dove l’emittente cerca di
convincere il destinatario del messaggio a prestargli il proprio cavallo, la gerun-
diva introduce l’argomento che dovrebbe spingere l’interlocutore a compiere il
gesto:
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(24) ve faço conto che abesono multo del vostro pallafreno, lo quale
me vogliati prestare e mandare in presenti, saipando ch’el me
convene andare all’emperiale corona in servisio de la nostra terra
(Faba Parlamenti, XXVII, p. 17).

In (25) il gerundio esprime la motivazione per la quale il protagonista dovreb-


be essere allegro dopo aver perduto ricchezze e gloria:

(25) se tu hai perdute le ricchezze e la gloria del mondo, non te ne


dovresti crucciare, ma esserne allegro, pensando che se’ meglio
acconcio di venire a quel fine glorioso per che fosti fatto da Dio.
(Giamboni Vizî, v 23, p. 15).

In (26) l’autore, mediante la gerundiva, introduce il motivo che lo spinge a


tener cara l’amicizia dell’interlocutore:

(26) Cum ço sia cosa che ’l bono amigo scia meglio ca lo reo parente,
la vostra amistade voglio tenere cara, cognoscando inutile essere
lo stranio parentado (Faba Gemma, 28, p. 8).

Come appare, queste strutture argomentative hanno un andamento lineare;


andamento che si complica e si inspessisce quando il ragionare diventa comples-
so, mediante distinctiones, suddivisioni e connettivi di tipo esplicito.
In (27) troviamo un esempio significativo ai fini della nostra analisi: il microte-
sto narrativo è reso mediante il gerundio, mentre l’unica argomentazione è espres-
sa, in forma di discorso indiretto, mediante una causale introdotta da per ciò che:

(27) essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse


che ciò in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era
terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere
(Dec, II V 35, p. 186).

Un’ultima constatazione: si è detto che nel Libro de’ vizî e delle virtudi di
Bono Giamboni il gerundio è usato con una certa frequenza e presenta spesso
fenomeni di cumulo. Analizzando la prima parte dell’opera, si nota che i primi
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 42

quattro capitoli, nei quali l’autore esprime la propria triste condizione, sono ric-
chi di gerundi (soprattutto in posizione incipitaria), mentre il quinto capitolo, il
discorso consolatorio (e argomentativo) della Filosofia ne contiene appena due.

4. CONCLUSIONE
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Di quel settore, assai ricco di fenomeni e di implicazioni, che è la sintassi del


gerundio in italiano antico, abbiamo esaminato un aspetto particolare, ma non
privo di interesse: la specializzazione narrativa del gerundio. Forse ci siamo sof-
fermati troppo su aspetti riguardanti lo stile. Ma alcuni degli autori trattati sono
grandi autori la cui prosa non può essere descritta solo mediante una mera anali-
si sintattica. E in ogni modo abbiamo cercato di affrontare problemi di carattere
generale, sempre utili nell’esame dell’antica prosa, dando al tempo stesso spazio
a considerazioni di carattere pragmatico e testuale.
ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
(Università degli Studi di Roma Tre)

Fare “vicario”, “fare + N”, “fare + V”. Per un’analisi del verbo fare nell’ita-
liano antico*
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1. Ci si propone di fornire alcuni dati e indicazioni sul verbo fare nell’italia-


no antico. Tale verbo sarà analizzato secondo le seguenti tipologie di funzioni: 1)
fare vicario, 2) fare di supporto, 3) fare causativo o operatore.
I tre percorsi di ricerca saranno svolti tenendo in considerazione recenti studi
sul verbo; particolare attenzione sarà prestata alle proposte metodologiche e teo-
riche riguardanti la natura e il ruolo del verbo fare 1. A tali prospettive si farà rife-
rimento di volta in volta con il procedere dell’analisi che non potrà prescindere da
considerazioni riguardanti la testualità e la teoria dell’enunciazione.
È noto che il verbo fare abbraccia un’estensione vastissima di significati; viene
genericamente a identificarsi con numerosi verbi, molti dei quali indicano un’azio-
ne. La penetrazione smisurata in tutti i contesti possibili di alcuni verbi universali,
come appunto fare, si può osservare in moltissime lingue, specialmente nel parlato2.

* La presente ricerca, che si è giovata di un finanziamento ex 60% coordinatrice Adriana


Pelo Università degli Studi di Roma Tre, è stata ideata e condotta congiuntamente dalle due
autrici, ciascuna delle quali è responsabile dei metodi seguiti e dei risultati raggiunti. Il fare vica-
rio e il fare di supporto (§§ 1 e 2) si devono a A.P. Il fare causativo o operatore a I.C. (§ 3).
1 Cfr. Brambilla Ageno (1964), Delcorno (1970), Giry-Schneider (1978), (1987), La Fauci
(1979), Robustelli (1993) (1994) e (1995), Ponchon (1994), Cerbasi (1998).
2 Si pensi al ted. tun, al francese faire, all’inglese do. È noto il carattere generico di FĂCĔRE
nello stesso latino familiare (per i valori del verbo in latino, cfr. Hofmann (1980: 335-337). Del
resto fare in italiano moderno assume numerose connotazioni a cui non sono estranei gli ele-
menti (sostantivi, aggettivi, avverbi) a cui si accompagna. A seconda della gamma di varietà lin-
guistiche in cui il verbo si stabilisce e in base anche al suo grado di desemantizzazione ha acce-
zioni e caratteristiche specifiche spesso con particolari riflessi pragmatici. Molti casi si potreb-
bero citare. Ricorderemo soltanto, in maniera cursoria, alcuni impieghi diffusi soprattutto nel-
l’italiano colloquiale attuale: usato in senso assoluto, quanto fa? per “quanto costa?”; il ’vuoto’
fa per “dice”. Frequente poi, nell’italiano medio colloquiale, la I persona plurale del verbo (cioè
facciamo) come segnale discorsivo indicatore di esemplificazione (su cui v. Bazzanella 1995:
249). Si consideri poi farsi nel senso di “drogarsi” (probabile ellissi di locuzioni come farsi una
pera, farsi un trip). Sono numerosi anche vari fraseologismi e sintagmi fissi con fare (cfr.
Berruto 1987: 143-144). Rinviano a un ambiente, a una moda o a un costume espressioni del
tipo: “la sua giacca fa molto francese”, “un caffè che fa oriente”. Interessante è, inoltre, la pre-
senza di fare in un costrutto interrogativo di spiccata marcatezza regionale, tipico del parlato
contemporaneo, cioè il tipo “che ce lo dici a fare?”, analizzato da D’Achille / Giovanardi (2001).
Per un’indagine statistica sulle funzioni più frequenti svolte da fare in base alle occorrenze nei
vari contesti frastici del LIP, v. D’Agostino (2001: 555-565).
44 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

Per quel che riguarda l’italiano antico, si può rilevare che il verbo fare trova
attestazioni omogenee sia nella prosa media che in quella d’arte e ricopre presso-
ché tutta l’area semantica che il vocabolo riveste nella lingua moderna. In effetti,
nella grande varietà di testi antichi, di diverso livello stilistico, si nota in varie cir-
costanze una notevole preferenza accordata a fare 3: basti pensare che tale verbo,
unito a un sostantivo, può sostituire un verbo più specifico4. Tra gli instrumenta
indispensabili del lessico e della grammatica, al pari di altre forme verbali “uni-
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versali”, il verbo fare figura in vari ambiti sintattici e, per la sua duttilità d’impie-
go, trova spazio in numerose situazioni pragmatico-retoriche. È significativo il
passo del discorso di Agamennone nei Conti di antichi cavalieri 5:

Voi sapete, signori, che quello ch’ora ha fatto Paris no è facto per noi
ed a noi propriamente, ma è facto e pertene a noi ed a voi ed a ciascu-
no de Grecia comunamente, che ciò che quelli de Troia han fatto noi
l’hanno facto per quello che li antecessori nostri ai loro fecero, unde è
’l grande onore ch’essi a loro e a Gretia acquistaro. Non se perda ora
in voi el facto.

L’artificio del poliptoto è attuato con la ricorrenza dello stesso vocabolo (in que-
sto caso il nostro verbo) con funzioni sintattiche diverse: facto come participio
passato e come sostantivo. Anzi sembra, talvolta, che la scelta lessicale del verbo
generico fare sia saturata dalla particolare spinta retorica dell’enunciato in cui è
collocato, quasi a calibrare stilisticamente la vaghezza semantica del verbo 6.
Indubbiamente, il carattere passe-partout del verbo fare, nell’italiano antico
doveva essere avvertito in maniera preponderante, non solo sul piano semantico
ma anche su quello funzionale 7. Proprio a quest’ultima componente dedicheremo
in particolare la nostra analisi, che si avvarrà di alcuni campioni di prosa media e
d’arte dei secoli XIII e XIV 8. In questa sede non ci occuperemo, se non margi-

3 In Dante, per es., nell’intera sua opera, le occorrenze di fare «assommano a 2061»
(Delcorno 1970: 795).
4 È un aspetto che ha precedenti nel latino tardo quando tale tendenza si rafforza: cfr.
Hofmann (1980: 336) e La Fauci (1979: 37-40).
5 Il brano è indicato da Dardano (1995: 39) per evidenziare la finalità retorica, in alcuni
contesti, della ripetizione a breve distanza di parole.
6 La stessa tensione retorica si riscontra, per es. in un enunciato della confessione-beffa di
ser Ciappelletto, nel Decameron, dove è indicativa la presenza del verbo fare, più volte ripetu-
to: «ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte netta-
mente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca», (Dec I 1 43).
7 Per un primo assaggio su tali aspetti, v. Brambilla Ageno (1964: 236-443; 468-485) e per
quel che riguarda il nostro verbo in Dante, v. Delcorno (1970:794-803).
8 Per l’elenco dei testi presi in esame nel nostro spoglio, rimandiamo alla bibliografia pri-
maria.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 45

nalmente, delle proprietà semantiche e delle accezioni del verbo nella frase 9. Nel
prospettare le funzioni di fare si è cercato, nel contempo, di delineare l’intorno
sintattico-situazionale in cui il verbo è collocato al fine di poter meglio caratte-
rizzare il suo impiego.
Esaminiamo subito una funzione molto frequente sia in poesia che in prosa,
quella del fare vicario.
Il verbo fare, data appunto la sua genericità e universalità, può sostituire o
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’rappresentare’ alcuni verbi già espressi (o che saranno espressi successivamen-


te)10. L’effetto che si ricava è quello di evitare una ripetizione. Se prendiamo i
passi seguenti del volgarizzamento anonimo del XIV sec. della Metaura riscon-
triano che nel primo viene reiterato il verbo escire; nel secondo invece fare sosti-
tuisce il verbo rigettare 11:

E questo asub, imperciò ch’è grosso e terrestre, hae la fiamma torbida


e non chiara, ed esce dell’aiere freddo e nuvoloso com’esce il fuoco
d’una canna, (Met I 19 43-45);
Altri furono che dissero che la comata è uno lume che gettano le stelle nel-
l’aiere umido e puro, e quello aiere puro lo rigetta poscia in su come fa lo
specchio, e quel lume rigittato in su pare una coma, (Met I 16 42-44).

Manca uno studio complessivo sul costrutto presente in italiano antico.


L’importanza del verbo fare vicario nella nostra prima prosa è segnalata, tuttavia,
nelle osservazioni e annotazioni di Adolfo Mussafia all’edizione del Decameron
curata da P. Fanfani12. Anche Giuseppe Vidossich13 ricorda la presenza di fare
vicario in alcuni passi del Tristano veneto. A quest’ultimo studioso si riferiscono
poi Franca Brambilla Ageno14 e Carlo Delcorno15, i quali indicano tale particola-

9 Per rilevare entrambe è sufficiente consultare, per le varie fasi dell’italiano, dizionari ampi
come il GDLI o come il GRADIT (quest’ultimo ricco in particolare di espressioni della lingua par-
lata). Le locuzioni con il verbo fare, nei dizionari antichi (dalla Crusca al Tommaseo / Bellini),
sono oggetto di analisi in Pietrobono (1986).
10 Per una rapida trattazione di questo particolare ruolo del verbo, nell’italiano contempo-
raneo, v. Salvi (1988: 82) il quale sottolinea che il verbo fare, dato il suo significato, «può sosti-
tuire solo verbi che abbiano un soggetto agentivo», cioè un soggetto che compie attivamente l’a-
zione espressa dal verbo.
11 In realtà, riscontri più approfonditi in spogli ampi e articolati di italiano antico, consen-
tirebbero di evidenziare meglio l’effettivo ruolo semantico-sintattico di fare, al di là di conside-
rarlo, in molti casi, come un semplice mezzo di variazione stilistica. Quest’ultima, nel secondo
esempio infatti, può sembrare quasi imposta, considerata la presenza nell’enunciato della ricor-
renza parziale rigetta…. rigittato.
12 Mussafia (1857/1983: 58-63).
13 Vidossich (1905: 162-164).
14 Brambilla Ageno (1964: 484).
15 Delcorno (1970 alla voce fare).
46 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

re funzione del verbo rispettivamente nell’ambito più generale del “fare fraseolo-
gico” e nell’uso di Dante.
Per il francese antico la situazione è diversa. Il volume di Thierry Ponchon16,
che analizza e studia il verbo faire in testi francesi medievali, dedica un ampio
capitolo al faire “vicaire”17. Lo studioso, nel cercare di mettere in luce la polise-
mia e la plurifunzionalità del verbo fare, costruisce la sua metodologia partendo
dalla nozione di “subduction”. Si tratta di un processo di desemantizzazione di
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una parola: in particolare il verbo fare (che originariamente, ha un valore pieno e


primario di “fabbricare”) trova una sua collocazione lungo un percorso all’inter-
no del quale sono individuabili diverse e minime sfumature di significato che con-
ducono progressivamente alla perdita dell’integrità semantica del verbo e al suo
successivo impiego con un valore solo formale. In altre parole, il verbo perde in
taluni casi la sua valenza lessicale per assumere quella grammaticale18. È inevita-
bile pertanto che in base a tale desemantizzazione, fare possa sostituire un altro
verbo (ma anche un sintagma verbale o un’azione o un’idea) che questi rappre-
senta. Per tale motivo il fare vicario nella terminologia moderna ha assunto anche
la denominazione di pro-verbo19, perché ha, in rapporto agli altri verbi, un ruolo
analogo a quello che hanno i pronomi nei confronti dei nomi: vale cioè come un
sostituente 20.

16 Ponchon (1994: 251-341).


17 Per la fase moderna, basterà riferirsi a Eriksson (1984) e (1985) e Grevisse (19882). In
particolare Eriksson (1985), a proposito della «suppléance verbale» attuata con faire, nel fran-
cese contemporaneo, concentra la sua attenzione, evidenziandone le proprietà, su altri due pro-
cedimenti che con essa hanno relazione: la ripetizione e l’implicazione del verbo. Alcuni fatto-
ri, presi in considerazione dallo studioso svedese (per es., la presenza di faire come verbo sup-
plente e strumento sintattico specifico nelle comparative più complesse) trovano un’applicazio-
ne anche nell’italiano antico.
18 Si vedrà più avanti (§ 3) come alla graduale opacizzazione semantica del verbo fare si
sia sovrapposta una manifestazione altrettanto graduale di grammaticalizzazione. Tale sviluppo
morfogenetico, rientra infatti nella grammaticalization chain di cui parla Heine (1992). Si trat-
ta di un processo ancora in fieri di un fenomeno, una sorta di compromesso tra fasi di deseman-
tizzazione e fasi di grammaticalizzazione che, in realtà, in un dato momento, potrebbero coesi-
stere. Cfr., a tal proposito, almeno Giacalone-Ramat (1998: 442).
19 Cfr. Beaugrande / Dressler (1981/1984: 93-94); Eriksson (1985: 9). Non è così in
Ponchon (1994: 29). che con l’etichetta di pro-verbe assegna al verbo faire il valore semantico
di «arranger, mettre en état quelque chose, redonner à quelque chose sa fonction première. […]
Pour prendre un exemple en français moderne, faire la cuisine est pourvu d’un [V-prb], quand
l’expression signifie nettoyer/arranger la cuisine». In questo caso il verbo non sostituisce un
altro verbo, bensì si pone nel processo di desemantizzazione appena al di sotto del suo signifi-
cato primario, detenendo ancora un suo valore specifico.
20 Nella classe dei sostituenti è da annoverare anche to do: cfr. Halliday / Hasan (1976: 112-
123). Tuttavia Vignuzzi (1986:325) osserva che «l’impiego vicario di fare non è comparabile
con quello assolutamente grammaticalizzato di to do inglese»; cfr.anche Eriksson (1985: 13-14,
con esplicito rinvio a Ellegård (1953) e Simone (1994: 217 e 419). Lavinio (1990: 15) com-
prende il verbo fare (insieme a cosa e dire) sotto l’etichetta di “parola ombrello”.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 47

Il fare vicario sembra intimamente legato alla struttura comparativa, poiché si


presenta abitualmente in costrutti di questo genere 21. Ecco un brano tratto dal
Volgarizzamento della Metaura:

E segno di ciò si è che quando l’acqua calda è posta in luogo d’a-


ghiacciare, aghiaccia più che non22 fa la fredda, imperciò che il freddo
è contrario al caldo, e mostra più la sua virtude quando truova il suo
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contrario, (Met T II 10 2-6).

Nel fornire altri esempi ci siamo soffermati in particolare sulla prosa del
Decameron. Il nesso comparativo, che occupa un posto preminente nell’architet-
tura sintattica e testuale dell’opera, si serve non raramente del fare vicario, che
raggiunge pertanto una discreta frequenza. Soprattutto nelle comparative di ana-
logia o di conformità, caratterizzate da un andamento binario di proposizioni in
correlazione e da un’attenta collocazione dei componenti nella frase, il predicato
verbale presenta il nostro verbo in più occasioni. Accade così che il generico fare
svolga il suo ruolo vicario, sostituendo verbi che possiedono tratti più specifici23:

così lei poppavano come la madre avrebber fatto, (Dec II 6 17);


con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva […] che
fanno i gran bevitori il vino, (Dec I 1 41).

È vero che un’esigenza di variatio può essere sottesa alle scelte lessicali.
Infatti, in altre occasioni, Boccaccio nell’attuare una disposizione ordinata dei
vari componenti nella struttura periodale, privilegia alcuni caratteri che presenta-
no simmetria di situazioni e ripetitività di forme. Il ruolo vicario di fare, in effet-

21 Anche nella struttura modale-comparativa senza elementi di correlazione è ricorrente il


suo impiego: si osservi il passo «currenno e sparienno da onne lato, como fae la spinosa alli
cani», (Cron XI 13), in cui fare sintetizza e sostituisce addirittura una coppia di verbi.
22 Per il non “pleonastico” in strutture comparative nella lingua antica (fenomeno che è
anche strettamente legato alla determinazione del modo del verbo), si vedano almeno Brambilla
Ageno (1955), Ulleland (1965: 71-72); Jonas (1971).
23 Mussafia (1857/1983:59) distingue i casi del Decameron in cui il verbo fare «logica-
mente, per il proprio suo valore lessicale, rappresenta il verbo antecedente» («ne va al re del
Garbo, come prima faceva, per moglie», Dec II 7 rub) da quelli in cui appare una desemantiz-
zazione totale del verbo, che manifesta in quest’ultimo modo il suo effettivo ruolo di vicario («se
così avesse saputo consigliar sé come gli altri faceva», Dec II 10 5). Tra i due gruppi lo studio-
so individua casi in cui emerge invece un attenuamento del significato primario di fare: cioè
quando il verbo ricorda intransitivi che non indicano azione («così muoiano i lavoratori, come
fanno i cittadini», Dec In 68) e quando regge gli stessi oggetti indiretti del verbo che sostituisce
(«il quale forse credendosi con quelle medesime opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli
studii», Dec II 10 5). Sulla «puissance de répresentation» come proprietà specifica di fare vica-
rio, insiste anche Eriksson (1985: 81).
48 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

ti, non sembra emergere negli esempi seguenti in cui il verbo ricorre sia nella pro-
posizione sovraordinata che nella reggente; le uniche variationes, per quel che
concerne il predicato verbale, sono affidate al mutamento del tempo24:

Siccome per adietro era stato fatto così fece ella, (Dec V C 2);
sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente, (Dec II
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In 3).

Sarebbe forse lecito considerare in un’unica prospettiva l’analisi del nesso


comparativo e la selezione, operata dal Boccaccio, degli elementi costitutivi dei
membri del costrutto25. Sono infatti significativi i casi che presentano fare vicario
nella proposizione ’subordinata’ comparativa antecedente (qui introdotta da sì
come):

sì come essi hanno fatto così intendo che per lo mio comandamento si
canti una canzone, (Dec IV C 9);
sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese, (Dec VIII 9 62).

Tale verbo, come si vede, anticipa in maniera generica e sostituisce il verbo della
’reggente’ comparativa che segue; il fenomeno appare interessante ai fini del rap-
porto sintattico di correlazione tra le due proposizioni che costituiscono il com-
parato e il comparante. Si tratta, in altre parole, di verificare se la ’subordinata’
comparativa, cioè il secondo membro del periodo comparativo, nell’italiano anti-
co, debba essere considerata prolettica rispetto alla ’reggente ’26.
Si è evidenziato fin qui come la funzione vicaria del verbo fare possa proce-
dere parallelamente all’analisi di strutture sintattiche e come esso si esprima e

24 Uno studio attento sulla determinazione dell’uso dei tempi, soprattutto nella prosa tosca-
na del Duecento, è in Ambrosini (2000).
25 In effetti si può notare, in più occasioni, soprattutto in un membro del costrutto, l’ellissi, o
meglio l’omissione del predicato verbale. Il fenomeno, speculare alla ricorsività, permette in molti
casi di ipotizzare, come facilior, fare vicario sottinteso: per es., «essi di gran lunga sono da molto
meno, sì come quegli che, per viltà d’animo non avendo argomento, come [fanno] gli altri uomini
di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar, come [fa]’l porco» (Dec III 3 3).
26 Per quel che riguarda l’italiano moderno, Serianni (1988: 515) osserva che «quanto alla
posizione, che di massima è libera […] le comparative tendono ad anteporsi alla sovraordinata
quando questa contenga un elemento correlativo». La collocazione della subordinata compara-
tiva rispetto alla reggente, in effetti, è uno dei punti cardine di tale struttura. Da essa dipendono
numerosi fenomeni: da una modalità retorica che lasci intendere un valore ritmico dei membri
del costrutto, a una precisa strategia discorsiva con finalità dimostrativa (con il dovuto risalto per
la prospettiva funzionale della frase e per l’articolazione dell’informazione). Per alcuni di que-
sti aspetti nella prosa di Dante e di Boccaccio, cfr. rispettivamente, Agostini (1978: 402) e Pelo
(1980: 27-51).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 49

trovi una sua configurazione nel nesso comparativo. Tuttavia anche in altre circo-
stanze fare vicario assume un rilievo spiccato. In questo ambito sono da eviden-
ziare infatti, varie modalità d’uso. Particolarmente evidente, anche ai fini prag-
matici e testuali, ci è sembrato il ruolo svolto dal verbo come “incapsulatore co-
testuale” di eventi, circostanze o anche indicazioni che si sono svolti in enunciati
antecedenti: (così) fu fatto o (e) così fece sono espressioni che ricorrono frequen-
temente nei testi antichi e inglobano varie ’azioni’ già espresse27. La fenomeno-
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logia in cui tali espressioni ricorrono è molto varia 28. Qui forniamo soltanto alcu-
ni ragguagli di base. Prendiamo il passo seguente:

ordinò che tornasse a la città di Firenze. E così fece, colla sua gente e
con molti altri Fiorentini e Toscani e Romagnuoli, (NC IX XLIX 2).

È questo un caso in cui l’espressione con il fare vicario, realizza una sorta di lega-
me sintattico-testuale tra l’enunciato precedente e quello seguente; quest’ultimo
possiede una precisazione aggiuntiva (colla sua gente e con molti altri Fiorentini
e Toscani e Romagnuoli).
Analogamente in

Disse missore Marsilio: «No. Torna in reto. Va’ in la mea cammora».


Così fu fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de
Missore Marsilio, (Cron VIII 31c-34c).

è evidente che, nell’organizzazione interna degli enunciati, l’intero sintagma29,


attuando una precisa strategia dell’informazione, segmenta la narrazione svolgen-
do un ruolo anaforico e al tempo stesso cataforico: in tal modo conferma le indi-
cazioni degli enunciati precedenti e introduce il passaggio all’azione effettiva e
risolutiva30.

27 Anche la forma sintagmatica fare con l’oggetto pronominale neutro lo appare un idoneo
procedimento di sostituzione di un altro sintagma verbale. È sufficiente un solo esempio: «ma
perché li parve aspro cammino a entrare in Toscana, no ’l fece», (Compagni, III XXXIV 28-29).
Per espressioni analoghe in italiano moderno, v. Salvi (1988: 83).
28 Dardano (1999: 186) nell’analizzare un passo del Decameron (V 6 40-42), che presenta
la formula finale e così fu fatto, osserva come talvolta tale formula «frequente nel Novellino e
nella narrativa del secolo precedente» si inserisca a conclusione di una struttura argomentativa
del tipo ’convinzione + effetto’, concretizzando così la soluzione positiva dell’evento.
29 Non è estraneo alla funzione vicaria del verbo, l’impiego di così (non sempre presente
tuttavia nella nostra formula con il fare) come tratto marcato ulteriore a cui affidare un esplici-
to richiamo del contesto precedente.
30 In una direzione diversa è orientata la nostra locuzione che è presente, ancora una volta,
in un passo dell’Itinerario dugentesco per la Terra Santa (v. Dardano 1966/1992: 181): «Mandò
questo giovano che tutta questa giente fosse menata dinanzi da llui. Fu fatto». Si tratta di quei
casi in cui il verbo concentra su se stesso il focus informativo, senza possibilità di progressione
50 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

Finalizzata alla progressione del discorso e dotata di particolare efficacia


comunicativa si può considerare una locuzione con il verbo fare, diversa dalle pre-
cedenti, connotata come formula di collegamento cataforico:

Ch’el fece dalla gioventudine infino alla senettute ordinare la vita al


figliuolo […]. E più fece: che tesoro li ammassoe grandissimo […]. E
più fece: che incontanente poi si brigò […]. E più fece: che lo dottrinò
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del corso delle stelle. […] E tutte queste cose fece perché Roboam
regnasse dopo lui, (Nov VII 9-13)31.

Si noti l’aspetto seriale del sintagma (E più fece) e l’aggancio anaforico finale (E
tutte queste cose fece): si tratta di una sorta di ’cerniera’ che introduce un fatto
nuovo e prende le mosse dall’esplicito richiamo agli eventi precedenti; è signifi-
cativo che tale richiamo si avvalga di due forme “generali”: il sostantivo cosa e il
verbo fare.
È indubbio l’influsso che questi particolari costrutti con il verbo fare vicario
esercitano sulla compagine testuale. Ciò accade anche quando in uno o più enun-
ciati l’analogia delle circostanze è espressa da una formula conclusiva che, oltre
ad evidenziare la particolare struttura circolare del testo, ripropone il verbo in que-
stione più volte:

Ora vedesi onne die currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano.
Curro Turchi, lo simile faco, (Cron, XIII 32c-34c).

Interessante ai nostri fini anche la variatio tra la forma nominale analitica del
verbo, cioè «currerie fare» e quella piena «Curro», reiterata32. In particolare la
forma perifrastica (Fare +N) ci consente di prendere in considerazione un’altra
tipica funzione del nostro verbo che, in alcuni casi, trova un riscontro formale
nelle procedure di nominalizzazione 33.

2. Fare infatti rientra anche nella categoria dei cosiddetti verbi supporto
(insieme a avere, dare, essere). Il significato originario è quasi neutro; serve a

del discorso. Non è disgiunta da tale funzione la forma passiva del verbo. Si osserva, inoltre, a
dimostrazione dell’impiego vicario del verbo, che una variante della redazione francese
dell’Itinerario reca: «Fue ubbidita la sua volontà».
31 Il che, posto dopo E più fece, ha funzione di “tematizzatore”: v. Bertuccelli Papi (1995).
32 La forma perifrastica, volutamente marcata dall’autore con la posposizione del verbo
dopo il sostantivo, risponde a esigenze espressive tempo-aspettuali: presenta cioè uno svolgi-
mento ’dinamico’ che non sembra avere quella semplice.
33 Per alcuni riscontri sui processi di nominalizzazione, cfr., almeno per l’italiano moder-
no, Dardano (1978) ma anche da ultimo, Dardano / Frenguelli (1999: 352-354), con aggiornata
bibliografia.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 51

sostenere un nome il quale funge così da complemento 34. In questa sede è stato
possibile approntare soltanto una sintetica tipologia di alcune combinazioni di
fare + N. Rinviamo a un’altra occasione l’analisi dello stretto rapporto delle locu-
zioni con le strutture testuali in cui compaiono, nonché l’esame di numerosi aspet-
ti legati alla configurazione e alle condizioni di uso del costrutto con il nostro
verbo quali per es., l’impiego “coalescente” di fare +N35.
Schematicamente, osserviamo che la locuzione può presentare specifiche
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caratterizzazioni: 1) quando l’espressione ha puntuale corrispondenza con un


verbo della stessa radice del nome: far(e) badalucchi “badaluccare” cioè “fare
scaramucce”, “dare qualche assalto”, far(e) comandamenti “comandare”, far(e)
giuramento “giurare”, far(e) mercatanzia “mercanteggiare”, far(e) menzione
“menzionare”, far(e) perdonanza / perdono “perdonare”, far(e) (del) torneamen-
to “torneare”, far(e) onore “onorare”; 2) quando sussiste un rapporto semantico
ma non corrispondenza lessicale tra la locuzione analitica e il verbo equivalente:
far(e) agio “compiacere” e non nel senso di “agiare”; far(e) (i) comandamenti nel
senso di “ubbidire” e non in quello di ’comandare’, far(e) (la) lega “unirsi in
alleanza politica o militare”; 3) in perifrasi particolari in cui l’eventuale corri-
spondenza con il verbo pieno non ha nessun rapporto lessicale e semantico col
nome compreso nella locuzione formata da fare +N: far(e) forza nel senso di
“importare”, far(e) mestiere “giovare”, far(e) mobile, “mettere assieme, accumu-
lare ricchezze”, far(e) taglia “formare un esercito di confederati”.
Come si può osservare, questo tentativo di classificazione non ci permette una
visione d’insieme del costrutto. Risultati in questo ambito sono stati conseguiti da
Giry-Schneider (1978) e (1987), per il francese moderno, da La Fauci (1979), per
l’italiano antico36. Pur essendo diverso il campo d’indagine, entrambi i settori di

34 Per alcuni esempi in italiano moderno, v. Salvi (1988: 79-82).


35 Si intende con “coalescenza” il legame molto stretto tra un verbo di supporto e il sostantivo
(cfr. da ultimo, Ponchon 1994: 65-67). L’inserimento in tale sintagma riguarda vari elementi: l’ar-
ticolo determinativo o indeterminativo, l’aggettivo con o senza articolo, l’avverbio. Un’attenzione
particolare deve essere posta alla posizione prenominale o postnominale delle forme aggettivali o
avverbiali e soprattutto alle relazioni che esse intrattengono nella nostra costruzione. L’assenza o la
presenza di “determinanti” crea infatti considerevoli riflessi sullo statuto del costrutto: si ha, talvol-
ta, una vasta gamma di coloriture semantiche desumibili di volta in volta dal contesto (per es.,: «lo
padre […] comanda alle veloci ore che giungano i cavalli. Le frettolose iddie fanno i comandamenti
e menano i cavalli», Simintendi II 19-23 in Corpus testuale del TLIO; non si esclude qui, infatti,
che l’articolo e il ’numero’ del sostantivo diano il senso di “ubbidire” all’espressione). È da notare
infine il valore ’durativo’ di alcuni suffissi del sostantivo a cui si accompagna fare: si pensi, tra l’al-
tro, al tipo fare dimoranza, fare perdonanza, rispetto alla forma piena del verbo corrispondente (cfr.
al proposito, Ponchon 1994: 70-71,e con una diversa prospettiva, Gaeta 1999). Per un’analisi della
formazione delle parole nella prosa antica, v. Dardano (1990/1992). Sull’enantiosemia, fenomeno
per cui una parola sviluppa sensi opposti, v. Basile (1996).
36 Corti (1953: 75) aveva sottolineato, con diversa modalità, la tendenza comunissima negli
scrittori della nostra tradizione prestilnovistica a usare tali forme che si inserivano perfettamen-
te in una visione reificante e ontologizzante propria dell’epoca.
52 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

ricerca possiedono un obiettivo comune: fornire un ampio terreno di riflessione


sul problema del rapporto e dell’integrazione tra lessico e sintassi. Si tratta di un
percorso di ricerca che ha avuto in Francia un punto di riferimento fondamentale
in Maurice Gross 37. Tuttavia i criteri che regolano le caratteristiche distribuzionali
delle funzioni di fare sono fluidi; a tali funzioni sono state attribuite più “etichet-
te”, generate appunto dalla eterogeneità delle procedure e dalle diverse modalità
di analisi38. A tale proposito gli studiosi tedeschi parlano di Funktionverb; gli stu-
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diosi spagnoli definiscono hacer come verbo lexico-funcional e verbo lexical 39.
Queste ultime denominazioni corrispondono grosso modo alla designazione, che
abbiamo indicato, di verbo “supporto”. La fondamentale nozione approntata da
Harris (1970)40 di “operatore” ha indotto poi gli studiosi, in alcuni casi, a consi-
derare il nostro verbo anche con tale attributo. In questa sede analizzeremo fare
come verbo operatore, quando può indurre ad una trasformazione della frase, in
particolare quando riveste una funzione causativa.

3. Per il suo contenuto semantico fare è anche il verbo base per la creazione
di costruzioni causative, atte ad esprimere un’azione non attuata dal soggetto, ma
fatta compiere da un altro agente. In particolare, prenderemo in considerazione i
costrutti in cui fare compare in perifrasi verbali come fare che, fare sì che, alle
quali fa seguito una proposizione consecutiva esplicita41:

voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la


forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la
tua puerizia. […]. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu
non parli a lei immediatamente, (VN V 14);

37 Una continuità di intenti del programma francese si ritrova, sia pur con diverso sviluppo,
in indagini descrittive lessico-grammaticali dell’italiano. Si veda in proposito D’Agostino
(1992).
38 Cfr. al riguardo, Ponchon (1994: 47-48) che constata come gli studiosi francesi degli
indirizzi di ricerca a cui abbiamo fatto riferimento «en se penchant sur le mots qui accompagnent
le verbe», siano giunti «à une syntaxe du nom, plutôt qu’a une syntaxe du verbe» e che tali teo-
rie generativo-trasformazionali possano particolarmente applicarsi e valere per la fase scritta e
orale della lingua solo di epoca attuale. In effetti si consideri che molti casi di fare +N dell’ita-
liano antico si adattano male a schemi costruiti per l’italiano moderno. Pensiamo al fare +N che
dà luogo a locuzioni fisse che sono più difficilmente identificabili o deducibili nella lingua anti-
ca. Per gli aspetti metodologici legati a tali costruzioni, cfr. Gross (1996); Casadei (1996); Ruiz
Gurillo (1997).
39 Cfr. Von Polenz (1963) per il tedesco; per lo spagnolo, Solé (1966).
40 Si veda più avanti il § 3.
41 In italiano antico un caso di cancellazione del costrutto causativo appare nel verbo rubel-
lare, che spesso vale far ribellare: «i Ciciliani il disideravano a signore, e prometteano di rubel-
lare l’isola al re Carlo», (NC VIII 59). Cfr. a questo proposito Brambilla Ageno (1964: 34).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 53

Nel datore adunque dee essere la providenzia in far sì che della sua
parte rimagna l’utilitade dell’onestade, che è sopra ogni utilitade, e far
sì che allo ricevitore vada l’utilitade dell’uso della cosa donata, (Conv
I VIII 8).

Il significato espresso da tali perifrasi è quello di “sforzarsi per ottenere”, “indur-


re”. Indicheremo questi costrutti, che rappresentano la più chiara espressione del
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valore causativo in forma sintattica e analitica, come “analitici puri”, riprendendo


la classificazione proposta da Comrie (1981); li distingueremo inoltre dai causa-
tivi, anch’essi analitici, con fare + infinito (tipo far fare qualcosa a qualcuno),
ampiamente studiati soprattutto da Robustelli (1993, 1994, 1995, 2000) e Cerbasi
(1998) in prospettiva diacronica, e da Skytte (1976, 1983), per quanto concerne
l’italiano moderno42.
Chiariamo prima il concetto di causatività: in generale, le costruzioni causa-
tive servono a descrivere un rapporto di causa / effetto tra due eventi. La situazio-
ne di cui esse sono l’espressione linguistica è complessa: al suo interno possono
essere distinti un evento causale (ad es. Luca ha spinto Giovanni) e un evento
risultativo (ad es. Giovanni è caduto). I causativi nascono dalla combinazione di
queste due fasi (Luca ha fatto cadere Giovanni).

In italiano l’espressione della causatività può essere affidata a mezzi morfo-


logici, lessicali e sintattici. Nei primi due casi, si parla di causativi sintetici; nel
terzo, di causativi analitici, formati cioè da perifrasi verbali.
Nei causativi espressi da mezzi morfologici, l’idea del “far fare qualcosa a
qualcuno” è realizzata mediante il morfema derivativo -ificare (beatificare = “fare

42 Per uno studio sulle costruzioni causative in generale, v. invece Shibatani (1976).
54 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

beato”, fortificare = “rendere forte”), tratto direttamente dal latino e connesso al


verbo FĂCĔRE:

E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare […]:
Mossimi prima per magnificare lui, (Conv I X 7)43.

Fenomeni analoghi sono attestati anche in altre lingue: l’indoeuropeo posse-


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deva una regolare formazione di causativi per mezzo del suffisso *-EY44, di cui si
conservano tracce in greco antico, in verbi iterativo-causativi come fobew (“fac-
cio temere” ~ febomai, “temo”), dokew, sobew, e in latino, in verbi come MONĔO
(“faccio ricordare” ~ MĔMINI “ricordo”), DOCĔO, FOVĔO.
In turco tutti i verbi possono diventare causativi mediante l’inserzione degli affis-
si -dir- o -t-: yaz-mak “scrivere” → yaz-dir-mak “far scrivere”, anla-mak “ascol-
tare” → anla-t-mak “far ascoltare”; analogamente in swahili45 alcuni verbi pos-
sono assumere valore causativo con l’aggiunta di un particolare suffisso46.
Anche i causativi lessicali constano di un verbo singolo invece che di una
perifrasi verbale; in questi casi però l’idea della causatività non viene espressa
attraverso un suffisso, ma è affidata interamente al lessico: ne sono esempi verbi
come avvisare, mandare, mostrare, uccidere, che hanno lo stesso significato e
sostituiscono perifrasi quali far sapere, far andare, far vedere, far morire 47.
Soffermiamoci infine sui causativi espressi da mezzi sintattici. È a questa
categoria che appartengono le costruzioni con fare+che, delle quali ci vogliamo
occupare. Tuttavia, prima di inoltrarci nella descrizione di tali costrutti, riteniamo
opportuno confrontarli con un altro tipo di causativo sintattico, il già citato far
fare qualcosa a qualcuno, in cui fare è seguito da un infinito48. Si tratta di una

43 Nell’esempio citato il termine magnificare viene usato da Dante proprio con il suo pre-
ciso valore etimologico di “rendere grande”. Cfr. Tateo (1971 alla voce magnificare): «Chiarito
dallo stesso Dante nel suo significato etimologico (“magnificare”, cioè “fare grandi”, in Cv. I X
7) […]. La “grandezza” e nobiltà del volgare, consistenti soprattutto nella capacità di esprimere
i concetti della mente […] vengono, secondo D[ante], “attualizzate”, “palesate”: sicché può dirsi
veramente che egli “magnifichi” il volgare, ossia ne realizzi la grandezza».
44 Cfr. Robustelli (1993: 143).
45 Cfr. Comrie (1981) e Giannini (1994 alla voce causativo).
46 Il tedesco è ricco invece di causativi che derivano dai verbi primitivi mediante il cam-
biamento della vocale tematica: si pensi a fallen “cadere” ~ fällen “far cadere”, trinken “bere”~
tränken “far bere”, liegen “giacere” ~ legen “far giacere”. Cfr. Mussafia (1857/ 1983: 14).
47 Per quanto riguarda l’inglese, la non intercambiabilità tra to kill e to cause to die è dimo-
strata da Fodor (1979), il quale constata che in alcuni tipi di frase la sostituzione di to kill alla
forma analitica to cause to die dà luogo a enunciati agrammaticali. Cfr. anche Shibatami (1972).
48 Costruzione molto simile è quella composta da lasciare + infinito. Fare e lasciare hanno
in comune il contenuto causativo, ma non possono essere considerati sinonimi. Se lasciare può
essere sostituito da fare, non sempre invece può avvenire il contrario: lascialo parlare → fallo
parlare, ma: glielo faccio sapere →??glielo lascio sapere. Sul piano semantico, lasciare ha un
suo significato autonomo, vicino a quello di “permettere”, e il significato causativo del costrut-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 55

tipica innovazione romanza (si confrontino il costrutto francese faire faire quel-
que chose à quelqu’un, e in spagnolo e portoghese le costruzioni con hacer e fazer
+ infinito49). In italiano tale complesso verbale ha le stesse modalità di realizza-
zione di un verbo unico. La coesione tra fare e l’infinito è infatti così forte che i
due elementi sintatticamente si comportano come un solo costituente nella frase50:
il nostro verbo, perdendo il suo significato distintivo, diventa un ausiliare51 e
assolve la funzione di modificare in senso causativo il significato dell’infinito. Ci
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troviamo, in altri termini, di fronte a un caso di grammaticalizzazione52: fare,


delessicalizzandosi, diviene un semplice indicatore di categorie grammaticali
(persona, tempo, modo), mentre l’altro verbo, in forma non finita, conserva il con-
tenuto lessicale.
In virtù dell’avanzata desemantizzazione di fare, in alcuni casi questi costrutti
possono avere anche un significato causativo più attenuato: l’intervento dell’a-
gente causatore può essere infatti anche indiretto e involontario53.
Nei causativi analitici puri con fare +che, invece, il verbo non perde del tutto
il proprio contenuto semantico e non si riduce a mero ausiliare: queste costruzio-
ni non constano infatti di un unico predicato verbale complesso, ma di due pro-
posizioni distinte, come vedremo meglio fra poco; per tale motivo riteniamo che
in casi di questo genere non si possa parlare di una completa grammaticalizza-
zione, ma piuttosto di uno stadio intermedio rispetto all’ausiliarizzazione del

to è molto attenuato (Skytte: 1983). Mentre fare rappresenta la forma positiva del causativo (fare
che), lasciare ne rappresenta quella negativa (non fare che). Un’altra differenza risiede nel fatto
che la proposizione retta da lasciare in forma esplicita è una completiva, mentre quella retta da
fare è una consecutiva esplicita: lascialo restare → lascia che resti, fallo restare → fa’ che resti
(Serianni 1988: 465). Alcune perifrasi con lasciare si sono affermate in italiano come espres-
sioni cristallizzate: lasciare stare, lasciar perdere, lasciar correre. Ma, in generale, «i costrutti
con il verbo lasciare vengono considerati dagli italofoni meno grammaticali, più pesanti»
(Vanvolsem 1995).
49 Rispetto alle costruzioni con fare + infinito, i causativi con hacer e fazer presentano una
minore compattezza sintattica (vedi infra): questi due verbi infatti «sembrano aver subito lo
svuotamento sintattico in misura più limitata rispetto al loro omologo italiano» (Cerbasi 1998:
465).
50 Trattandosi di un unico predicato verbale complesso, raramente viene tollerato l’inseri-
mento, tra i due membri, di altri elementi, almeno per quanto riguarda l’italiano moderno (per
l’italiano antico, v. Robustelli 1994); inoltre il soggetto logico dell’infinito diventa un argomen-
to dell’intero complesso verbale; l’infinito, anche quando è intransitivo, nel costrutto può diven-
tare transitivo; i clitici, argomento dell’infinito, non si attaccano a quest’ultimo ma a fare; l’in-
finito non può essere negato.
51 Cfr. per il francese antico Ponchon (1994: 175-250), che dà al faire causativo seguito da
infinito l’etichetta di auxiliaire.
52 Il fenomeno della grammaticalizzazione è stato ampiamente trattato nella letteratura lin-
guistica degli ultimi decenni. A tale proposito, cfr. almeno Hopper-Traugot (1993) e Giacalone
Ramat (1998).
53 In questi casi molto spesso il causatore è rappresentato da un agente inanimato (Cerbasi:
1998). Cfr. inoltre Salvi-Skytte (1991: 500).
56 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

verbo. Una riprova risiede nel fatto che i costrutti analitici puri non rappresenta-
no eventi causativi in senso lato, in cui cioè l’agente causatore esercita un con-
trollo minore sull’azione54: quest’ultimo infatti è sempre dotato di intenzionalità,
perché promuove direttamente il compimento dell’azione. Definiamo per questo
motivo fare come un verbo “operatore”, in quanto il suo soggetto grammaticale
mette in moto l’azione di un altro soggetto. L’etichetta di “operatore” è stata intro-
dotta da Zellig S. Harris (1970) secondo tre modalità: a) verbi che operano sui
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nomi, (tale denominazione è stata poi ripresa da Giry-Schneider 1978 e da La


Fauci 1979)55; b) verbi che operano su altri verbi; c) verbi che operano su intere
proposizioni56. Quest’ultima proprietà sembra particolarmente adatta per i causa-
tivi analitici puri, in cui fare regge e introduce una consecutiva57.
Ancora in uso nell’italiano contemporaneo, questi costrutti rivestono nell’ita-
liano antico un notevole interesse soprattutto perché rappresentano la diretta pro-
secuzione delle costruzioni causative analitiche latine. Nel latino classico infatti
l’idea della causatività era più frequentemente espressa, con mezzi sintattici,
mediante una proposizione principale contenente un verbo di comando, costrizio-
ne o persuasione, seguita da una secondaria, introdotta da un complementatore o
infinitiva. Si poteva infatti avere:

COGO / SUADĔO / IUBĔO + UT e congiuntivo / AD e gerundivo


IUBĔO + accusativo / dativo e infinito
FĂCĬ O / EFFĬ CĬ O + UT e congiuntivo58
FĂCĬ O + accusativo e infinito.

FĂCĬ O, pur essendo meno usato nella lingua letteraria, per la sue maggiori
genericità e duttilità cominciò già nel latino tardo a essere impiegato per espri-
mere eventi causativi, a discapito delle forme concorrenziali (Cerbasi: 1998).
In ciascuno dei casi sopra esposti, la causatività era espressa da strutture
biproposizionali: la proposizione con FĂCĬ O, e la proposizione ad essa seguente.
Non possiamo parlare di un unico complesso verbale neppure per quanto riguar-
da i costrutti con FĂCĬ O seguito da infinitiva: si trattava, anche in questi casi, di
due predicati distinti che richiedevano argomenti separati.

54 Ponchon (1994: 184) osserva inoltre che, per quanto riguarda il francese, l’impiego di
faire+ que «entraîne une idée de résultat visé, idée qui est absente avec faire auxiliaire de verbe
infinitif».
55 Anche Ponchon (1994) si serve dell’etichetta di opérateur, ma per riferirsi al faire con
valore effettivo: «Feites moi chevalier», (Perceval 970), «Orgiuelz fait home maigre et pale»
(Miracles de Nostre Dame 10, 1938).
56 V. Harris (1970) e cfr. La Fauci (1979: 24).
57 Per un’analisi delle proposizioni consecutive nell’italiano antico, v. Dardano / Frenguelli
/ Pelo (1998).
58 In latino i costrutti causativi per eccellenza erano proprio quelli rappresentati da FACIO
/ EFFICIO+ UT e congiuntivo (Robustelli 1993: 143).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 57

Allo stesso modo, in italiano, nella costruzione fare + che la predicazione è


rimasta radicalmente distinta in due proposizioni59: la reggente con fare e la
secondaria consecutiva esplicita. È il motivo per il quale abbiamo definito i cau-
sativi di questo tipo “analitici puri”.
A tale proposito, ci sembra indicativo che i costrutti con fare + che compaia-
no con netta preponderanza rispetto a quelli con fare + infinito proprio in un vol-
garizzamento dal latino: una traduzione dell’Ars amandi di Ovidio eseguita, pro-
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babilmente da Andrea Lancia, prima del 1313 60. Abbiamo confrontato il volga-
rizzamento con l’originale latino, tenendo conto che nei versi ovidiani le scelte
lessicali e la giacitura delle parole possono essere condizionate da esigenze metri-
che, mentre il testo in prosa ubbidisce alle regole della retorica medievale. Fare +
che compare spesso in corrispondenza di FĂCĔRE all’imperativo seguito dal con-
giuntivo, con una traduzione quasi letterale:

Seu pedibus uacuis illi spatiosa teretur/ Porticus, hic socias tu quoque
iunge moras, / et modo praecedas facito, modo terga sequaris, (Ars I
489-491);
O se i-largo portico fia pestato da-llei con iscalzi piedi, tu altresì com-
pagnevole dimoranza farai co-llei; e farai ch’alcuna volta tu vadi
dinanzi, alcuna volta di drieto le sue spalle, (Arte Am I 491-494);
Fac primus rapias illius tacta labellis/ Pocula, quaque bibit parte puel-
la, bibas, (Ars I 573-574);
Fa’ che tu pigli il bic[c]hiere, col quale ella bevendo, toccherae colli suoi
labbretti, e berai da quella parte ch’ella avrae bevuto, (Arte Am I 575-576);
Cede repugnanti; cedendo uictor abiis;/ Fac modo, quas partis illa
iubebit agas, (Ars II 197-198);
Da’ luogo a chi ti ripugna e partira’ti vincitore; fa’ che tu solamente
vadi là ov’ella ti comanderae, (Arte Am II 197-198);
Iussus adesse foro iussa maturius hora/ Fac semper uenias nec nisi
serus abi, (Ars II 223-224);
S’ella ti comanda andare a-llei, fa’ che tu vi sia più tosto che l’ora
comandata e non ti partire se non tardi, (Arte Am II 223-224).

59 La rianalisi sintattica che nei causativi con fare + infinito porta dalla struttura bifrasale lati-
na a una struttura monofrasale romanza non è pertanto in questi casi completa (Cerbasi 1998: 459).
60 Vanna Lippi Bigazzi, che ha curato l’edizione critica del testo, fornisce alcune indica-
zioni per stabilire il termine ante quem del volgarizzamento: «sappiamo da una chiosa dei
Rimedi che il volgarizzatore operava al tempo della discesa in Italia di Arrigo del Lussemburgo;
poiché nel prologo di quella stessa opera si allude all’Arte come già volgarizzata [...], anche
l’Arte non varca il 1313». Per quanto riguarda l’identità del volgarizzatore, la studiosa osserva:
«le affinità più clamorose si rilevano con il volgarizzamento dell’Eneide autorevolmente attri-
58 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

Spesso ci troviamo però anche di fronte ad ampliamenti operati dal tradutto-


re, di modo che l’espressione latina risulti “arricchita” nel testo volgare. Nel
primo degli esempi qui sotto riportati, il volgarizzatore si avvale di fare + che per
tradurre un UIDEARE all’imperativo, mentre negli altri tre passi la perifrasi ricorre
in corrispondenza di un semplice congiuntivo:

Si dederis aliquid, poteris ratione reliqui […]; / At quod non dederis,


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semper uideare daturus, (Ars I 445-447);


Se tu darai alcuna cosa alla femina, di ragione ella ti potrae abbando-
nare […]. Ma fa’ che paia che tu sempre le debbi dare: così lo sterile
campo spesse volte ingannoe il suo signore, (Arte Am I 447-450);
Hoc decet uxores; dos est uxoria lites./ Audiat optatos semper amica
sonos, (Ars II 155-156);
Questo si conviene alle mogli, cioè che lite nasca della sua dote; ma tu,
amante, fa’ sì che la tua donna oda sempre quello ch’ella disidera, (Arte
Am II 155-156);
Conueniunt tenues scapulis analeptrides altis;/ Angustum circa fascìa
pectus eat, (Ars III 273-274);
Alle alte spalle si è convenevole sottili vestimenta, chiamate “aneliti-
de”, e intorno de lo stretto petto fa’ che vada una fascia, (Arte Am III
273-274);
Se quoque det populo mulier speciosa uidendam, (Ars III 421);
La bella femina faccia che ella sia veduta dal popolo, (Arte Am III 421-
422).

Registriamo un caso in cui la struttura bifrasale compare in corrispondenza di


un FĂCĔRE con valore effettivo, seguito da complemento predicativo (tuam):
Fac plebem, mihi crede, tuam; sit semper in illa/ Ianitor et thalami qui
iacet ante fores, (Ars II 259-260);
Credi a me: fa’ che la gente minuta sia tua, e sia sempre tra coloro il
portinaio e colui che giace dinanzi alla porta della camera, (Arte Am II
259-260).

Riportiamo infine un passo in cui la presenza di fare + consecutiva in luogo


dell’interrogativa retorica dell’originale manifesta un chiaro intento glossatorio ed
integrativo da parte del traduttore, secondo un procedimento comune ad altri vol-
garizzamenti trecenteschi:

«Effugere hunc non est» quare tibi possit amica / Dicere? non omni
tempore sensus obest, (Ars II 531-532);
Non fare sì che la tua amica possa dire: «Fuggi quinci!». Il senno non
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 59

puote in ogni tempo riparare, (Arte Am II 531-532).


Si è detto che i causativi analitici puri constano di una struttura bifrasale: in que-
sti costrutti l’espressione della causatività è affidata pertanto a due predicati, che ri-
chiedono argomenti separati. Anche per questo riguardo le nostre costruzioni si distin-
guono dai causativi con fare +infinito, in cui il soggetto logico dell’infinito diventa un
argomento, diretto o indiretto a seconda dei casi61, dell’intero complesso verbale.
Di solito, in particolare nel Decameron, il soggetto della principale con fare
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non coincide con quello della subordinata consecutiva:

quelli ch’era di mia condizione, figliuolo di re, e che portava corona di


re, […] per la sua follia avea <sì> fatto che i sudditi suoi l’aveano cac-
ciato, (Nov VIII 25);
Folco e Ughetto […] ogni studio ponevano in far che dal fuoco la
Ninetta dovesse campare, (Dec IV 3 25);
«Deh! vammi per la mia fante e fa sì che ella possa qua su a me veni-
re», (Dec VIII 7 136).

Disponiamo tuttavia di diversi brani in cui la consecutiva e la reggente hanno


lo stesso soggetto: in questi casi fare ha valore perifrastico (Del Corno, 1978); in
tutte le occorrenze inoltre appare all’imperativo o al futuro con valore iussivo, e
riveste una funzione conativa (Serianni 1988: 444):

Disse il monaco: «Di questo ti dovevi tu avvedere mentre che eri di là e


ammendartene; e se egli avvien che tu mai vi torni, fa che tu abbi sì a
mente quello che ti fo or, che tu non sii mai più geloso», (Dec III 8 52);
Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse:
«Prenderai quel cuor di cinghiare e fa che tu ne facci una vivandetta la
migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai, (Dec IV 9 16);
«Adunque» disse Bruno «fa che tu mi rechi un poco di carta non nata
e un vipistrello vivo e tre granella d’incenso, (Dec IX 5 47);
Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò
io il ti dono e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa
notte che viene tutta trapassi. E acciò che questo abbia effetto, farai che

buito ad Andrea Lancia [...]».


60 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

61 Infatti, se l’infinito è intransitivo o se comunque non regge alcun complemento oggetto,


il suo soggetto logico diventa l’oggetto diretto del complesso verbale causativo: Marco esce →
faccio uscire Marco; ma se l’infinito, transitivo, regge un complemento oggetto, il suo sogget-
to logico diventa argomento indiretto dell’unità verbale causativa, e il complemento oggetto
argomento diretto: Lucia canta una canzone → faccio cantare a Lucia una canzone. Ciò acca-
de perché nella proposizione italiana il verbo può avere un solo argomento oggetto diretto, e non
è ammesso il doppio accusativo: *faccio cantare Lucia una canzone.
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61 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

in su la mezzanotte tu venghi alla camera mia, (Dec VII 7 24-25);


Disse il medico: «Non aver pensiero. Io ti farò fare una certa bevanda
[…] e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia savio e più
non incappi in queste sciocchezze, (Dec IX 3 28).

Vorremmo concludere con due osservazioni: sia nell’italiano antico che in


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quello moderno l’ordine “fare che + consecutiva esplicita” è fisso; c’è contiguità
tra fare e il complementatore che. Precisiamo tuttavia che non sono assenti
esempi che presentano vari tipi di inserzioni tra i due membri; nella maggior
parte dei casi, l’elemento che si frappone tra fare e il che è rappresentato da un
avverbio:

La giovane è figliuola di Marin Bolgaro, la cui potenza fa oggi che la


tua signoria non sia cacciata d’Ischia, (Dec V 6 39);
L’abate contentissimo disse: «E noi faremo che egli v’andrà inconta-
nente; farete pure che domane o l’altro dì egli qua con meco se ne
venga a dimorare», (Dec III 8 29);
Allora disse il maestro: «Troppo mi piace ciò che tu ragioni; e se egli
è uomo che si diletti de’ savi uomini e favellami pure un poco, io farò
bene che egli m’andrà sempre cercando, per ciò che io n’ho tanto del
senno, che io ne potrei fornire una città, (Dec VIII 59);
Madonna, io non so come piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la
pure avrem noi: fate adunque che alle vostre bellezze l’opere sien
rispondenti, (Dec VIII C 1).

Talvolta è il pronome personale soggetto della reggente, posposto al verbo


fare, a precedere il che:

Disse allora Bruno: «Sozio, io ti spierò chi ella è; e se ella è la moglie


di Filippo, io acconcerò i fatti tuoi in due parole, per ciò che ella è
molto mia dimestica. Ma come farem noi che Buffalmacco nol sappia?,
(Dec IX 5 18).

Nell’esempio che segue, l’elemento di inserzione è un complemento indiretto:

Due usano insieme: l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro,


avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa,
sopra la quale […] con la moglie dell’un si giace, (Dec VIII 8 rub).

Registriamo infine alcune occorrenze in cui tra fare e il che si frappone un’in-
tera proposizione (un’altra reggente coordinata, in endiadi; un’ipotetica; una tem-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 62

porale):

E però quanto più posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a
fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi
sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole,
(Dec VIII 9 44);
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Facciano gl’iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa
ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me […] adope-
ri, (Dec X 8 41);
Dioneo, questa è quistion da te: e per ciò farai, quando finite fieno le
nostre novelle, che tu sopr’essa dei sentenzia finale, (Dec VI In. 12).
63 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES

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SILVIA PIERONI
(Università della Tuscia)

Forme del passivo latino e italiano: identità e differenze funzionali*


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1. Il confronto tra le forme passive latine e gli equivalenti funzionali italiani


mette in luce i problemi di un’analisi che muova dalla considerazione di un rap-
porto biunivoco fra forme e funzioni. La tavola 1 visualizza schematicamente i
punti critici sia delle equivalenze sincroniche che delle corrispondenze diacroni-
che, tramite la distinzione fra strutture passive e inaccusative (in ragione della
rispettiva assenza o presenza, dal punto di vista concettuale, di un soggetto diver-
so da quello finale) e, all’interno di queste ultime, fra strutture con predicato ver-
bale e nominale:

Tabella 1

Trascurando in questa sede la questione delle forme con doppio ausiliare del
passivo composto romanzo (per cui si veda La Fauci 2000c; 2000d), i punti criti-
ci del confronto sono riassunti in (2):

* Sono grata a Nunzio La Fauci non solo per l’ispirazione del lavoro ma anche per l’entu-
siasmo con il quale mi ha segnalato i molti problemi che restano da risolvere. Una precedente
versione di questo lavoro ha inoltre beneficiato della lettura del prof. Riccardo Ambrosini: pur
senza offrire qui una soluzione ai quesiti e alle critiche di specifici punti, desidero ringraziarLo
per avermi indicato, con le sue stesse domande, le direzioni in cui orientare la futura elabora-
zione della ricerca.
68 SILVIA PIERONI

Tabella 2
LATINO ITALIANO
• non corrispondenza fra il tempo dell’ausilia- • corrispondenza fra il tempo dell’ausiliare e il
re e il tempo del nucleo predicativo1 passivo tempo del nucleo predicativo passivo (sono
(laudatus sum perfetto) lodato presente)
• distinzione formale, al perfetto, fra la strut- • coincidenza formale della struttura copula +
tura participio + copula e la struttura passiva participio con la struttura passiva (fui felice
(felix vs. laudatus sum) vs. fui lodato)
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• forma sintetica e analitica del passivo • forma soltanto analitica del passivo

Più o meno esplicitamente, le descrizioni della transizione attualmente disponibi-


li si sono concentrate esattamente su tali questioni, privilegiando tuttavia l’analisi se-
mantica dello slittamento temporale, in particolare per quanto riguarda i correlati
aspettuali. La concettualizzazione della strutturazione morfosintattica non è invece
avanzata di pari passo e la descrizione vulgata continua a soffrire della mancanza di
un quadro formale eventualmente falsificabile del mutamento in questione.
Scopo di questo intervento è tentare un inizio di formalizzazione morfosin-
tattica e sondarne la validità come strumento analitico operativo integrabile nel
quadro tradizionale.

2. Il rapporto non biunivoco fra forme e funzioni può essere colto tramite un
procedimento di scomposizione della struttura passiva basato sull’articolazione in
tratti grammaticali, secondo il modello proposto da La Fauci (2000c), che recu-
pera e convoglia indicazioni suggerite anche in lavori di diversa impostazione teo-
rica (quali Dubinsky e Simango 1996).
Innanzitutto, è necessario sottolineare che l’informazione lessicale e quella
morfosintattica non sono distribuite omogeneamente nel nucleo predicativo, il
quale si compone funzionalmente di:

– una sezione responsabile della legittimazione degli argomenti e rap-


presentata dal participio (dall’ultimo participio nell’ordine lineare,
nel caso che ce ne sia più di uno);
– una sezione di pura operatività morfosintattica in cui non sono legit-
timati nuovi argomenti, rappresentata da una o più forme verbali di
supporto (ausiliari) e in italiano completata da una forma verbale
finita, con la funzione di verificare morfologicamente l’esistenza di
un soggetto finale. La flessione del participio, infatti, al pari di quel-

1 Con ‘nucleo predicativo’ si intendono qui le ‘unioni predicative’ (Davies e Rosen 1988;
Rosen 1997) che contengono un solo predicato con portata argomentale, distinte quindi da quel-
le che ne contengono più di uno (ad esempio, le unioni causative).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 69

la dell’aggettivo, è inadatta a tale verifica, come risulta dall’impos-


sibilità di participi e aggettivi di ricorrere quali unici predicati di una
proposizione 2.

Dal punto di vista diacronico, il quesito specifico da porsi riguarda dunque la


possibilità che, nel mutamento generale del sistema, non solamente gli ausiliari,
ma anche i participi perfetti e quindi le interazioni funzionali fra gli elementi delle
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strutture sintattiche nel loro complesso possano non essere rimasti funzionalmen-
te identici. Il problema teorico generale è evidentemente quello dell’opposizione
fra costrutti con predicazione verbale e costrutti con predicazione non verbale;
tuttavia, la distinzione fra valore verbale e aggettivale del participio non pare sod-
disfacente per cogliere il modo in cui si correlano la disponibilità della forma par-
tecipiale a più interpretazioni e la sua partecipazione a strutture diverse, che, in
diacronia, comporta la sostituzione delle forme sintetiche e analitiche del passivo
latino con le forme soltanto analitiche del passivo italiano (e romanzo).
L’ambiguità categoriale del participio (che ovviamente non riguarda la sola
struttura passiva, per cui una chiara definizione formale del tratto grammaticale
[± passivo] si rende preliminarmente necessaria) e conseguentemente gli aspetti
innovativi del passivo analitico romanzo possono essere articolati in termini
morfosintattici grazie all’individuazione del tratto grammaticale [± flessivo]. I
due tratti in questione sono definiti in La Fauci (2000c: 83) come segue:

– [± passivo] = il settore predicativo del participio contiene ([+ passi-


vo]) oppure non contiene ([– passivo]) la rimozione di un soggetto
iniziale per via dell’avanzamento di un oggetto diretto;
– [± flessivo] = la formazione del participio è un processo morfosin-
tatticamente funzionale localizzato nella struttura proposizionale
([+ flessivo]) oppure un processo morfolessicale esterno alla struttu-
ra proposizionale propriamente detta, perché collocato in un livello
sub- o infrasintattico ([– flessivo]).

In questo quadro, La Fauci propone che la distinzione fra il passivo italiano con
ausiliare essere e quello con ausiliare venire sia formalizzabile come in (3) e (4)3

2 Eccettuali usi ellittici del tipo Bella, la vita di quel tale che saranno qui trascurati.
3 I diagrammi stratigrafici che accompagnano gli esempi devono essere letti dal basso verso l’al-
to: la prima riga corrisponde infatti alla struttura di superficie. Ciò dovrebbe rendere chiaro che le for-
malizzazioni fornite non sono in alcun modo intese in senso derivazionale, ma piuttosto come rap-
presentazioni concettuali delle strutture. Una maggiore suddivisione di livelli non riflette perciò il cor-
relato di possibili ‘movimenti’, ma semplicemente la maggiore complessità strutturale dal punto di
vista morfosintattico. I termini “Carico” e “Neutro” indicano rispettivamente il settore responsabile
dell’assegnazione degli argomenti e quello devoluto all’integrazione delle funzioni morfosintattiche.
I simboli relativi alla struttura argomentale sono quelli della Grammatica Relazionale.
70 SILVIA PIERONI

(2) Andrea è stato lodato dal padre

Tabella 3
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(4) Andrea viene lodato dal padre

Tabella 4

In (3) il participio ([– flessivo]) entra nella struttura proposizionale come


tale e i Settori Neutri sono rappresentati dagli ausiliari. In (4) il primo Settore
Neutro è quello devoluto alla formazione del participio stesso ([+ flessivo]) e
un solo Settore Neutro è rappresentato dall’ausiliare. La positività o meno del
tratto di flessività non caratterizza perciò il participio in quanto tale, ma il par-
ticipio in quanto componente di una struttura predicativa complessa. In altre
parole, l’ambiguità categoriale del participio è risolvibile nel diverso funzio-
namento morfosintattico che esso mostra in strutture morfosintatticamente
diverse.
Diviene così possibile rendere ragione della diversità fra i due costrutti con
essere e venire, e in particolare del diverso numero di elementi ausiliari ammessi
(sono stato lodato ma non *sono venuto lodato), che risulta coerente con i princi-
pi parametrici individuati da La Fauci (2000d: 101) per la ‘gemmazione predica-
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 71

tiva’ delle strutture italiane4, semplificabili ai fini di questo lavoro nelle due restri-
zioni che seguono:

– dopo il Settore Carico di un predicato, non meno di un Settore


Neutro: Andrea è lodato ma *Andrea lodato;
– dopo il Settore Carico di un predicato, non più di due Settori Neutri,
di cui il secondo è sempre quello di un ausiliare (nel senso tecnico
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di predicato che eredita il suo soggetto dal settore predicativo pre-


cedente): è stato lodato ma *è venuto lodato.

Anche senza entrare nel merito della direzione del rapporto causa-effetto fra
la strutturazione morfosintattica e il valore tempo-aspettuale, la concettualizza-
zione formalizzata dei tratti in questione, di per sé non assenti nelle intuizioni
della descrizione vulgata, sembra permetterne l’utilizzo concreto come strumento
per un’analisi strutturale e funzionale che integri adeguatamente l’interpretazione
semantica tradizionale5.

3. Il primo passo dell’analisi diacronica consiste nel supporre che il passivo


analitico latino con sum (nelle forme del perfetto, quindi) sia caratterizzato, diver-
samente da quello italiano, da participio [+ flessivo]. In sostanza, si può proporre
che la struttura di una proposizione come Abs te est Popilia, mater vestra, lauda-
ta sia quella fornita in

(5) Abs te est Popilia, mater vestra, laudata (Cic. de or. 2,44)
“Da te fu lodata Popilia, vostra madre”

Tabella5

4 Tali parametri sono individuati sulla base di campioni che non riguardano le sole struttu-
re verbali, ma anche quelle copulari: Andrea è stato felice ma Andrea è venuto felice.
5 Si vedano le osservazioni di Ambrosini sulla natura di veri e propri passivi delle struttu-
re con venire, non stative, a differenza di quelle con essere (sui casi del tipo mi viene / è venuto
detto, non passivi, si tornerà nella sezione 3.1).
72 SILVIA PIERONI

Il participio latino nella struttura passiva sarebbe cioè il risultato di un pro-


cesso flessivo, esattamente come nel passivo italiano con venio in (4)6, ma diver-
samente da quanto avviene nel passivo con essere in (3). Da questo punto di
vista, la transizione dal passivo latino a quello italiano consisterebbe dunque,
come emerge confrontando (5) e (3), nell’oscuramento di un processo morfosin-
tattico e nella sua elezione a fatto infrasintattico (morfolessicale con terminolo-
gia più tradizionale, riguardante cioè il Settore Carico). A questo stadio del lavo-
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ro, la proposta qui avanzata costituisce un’ipotesi in parte solo speculativa. È


possibile tuttavia verificarne la capacità esplicativa tramite l’analisi dei punti
enucleati in (2).

3.1. L’esame che soggiace alla formalizzazione in (5) comprende gli elemen-
ti concettuali atti a spiegare il valore temporale perfetto del nucleo predicativo
laudata est, sanando l’aporia della forma presente dell’ausiliare. Infatti, essendo
il participio [+ flessivo], la sua formazione morfosintattica è collocata nel primo
Settore Neutro: l’informazione temporale, caratteristicamente una categoria fles-
siva, può essere collocata senza difficoltà in questo preciso settore. (Si confronti-
no le osservazioni sulla primarietà del valore anteriorizzante del participio in
Kurylowicz 1931 e quelle in Pinkster 1987/ 193-194; benché in quest’ultimo caso
le strutture considerate non siano passive 7). Confrontando la struttura con la sua
corrispondente italiana in (3), si nota che anche in quest’ultima l’informazione
temporale è fornita nel primo Settore Neutro, in questo caso il settore predicativo
del participio dell’ausiliare stato: nella struttura italiana, infatti, il processo di for-
mazione del participio è invisibile alla morfosintassi. La ristrutturazione formale
sarebbe così correlata a equivalenza funzionale, ragione profonda della continuità
fra le due strutture.
L’analisi modulare e la risoluzione tramite essa dell’ambiguità del participio
permettono a questo punto il confronto con le strutture in cui la formazione del
participio non avviene a livello morfosintattico, ma morfolessicale. Di fatto,
anche il latino possiede strutture con participi [– flessivi]: è il caso di strutture
come (6) e (7).

(6) Gallia est omnis divisa in partes tres (Caes. Gall. 1,1,1)
“Nel suo complesso, la Gallia è divisa in tre parti”

6 È chiaro che il confronto è unicamente strutturale, senza alcuna implicazione diacro-


nica.
7 Non mi pare del resto che l’analisi di proposizioni con elissi di esse (pure preferenzial-
mente legate a contesti con valore gnomico) si correli necessariamente a un’interpretazione pre-
sente (o stativa; si pensi anche alla possibilità di omissione del verbo finito nel caso di imperso-
nali passivi. Sulle strutture nominali si veda la sezione 4 (es. 17, in particolare).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 73

Tabella 6
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(7) Omnia quae sunt conclusa nunc artibus, dispersa et dissipata quon-
dam fuerunt (Cic. de or. 1,187)
“Tutti gli elementi che ora sono contenuti nelle arti furono un tem-
po senza ordine e correlazione”

Tabella 7

Una descrizione fine di queste strutture è già nelle grammatiche tradiziona-


li (in particolare Juret 1926: 43:44; Ernout-Thomas2: 228-229), che sottolineano
il carattere predicativo del participio e ls funzione «anteriorizzante» del perfetto
di esse in casi come (7).
Mentre per casi come (7) il tempo perfetto dell’ausiliare sum (escluso dal
paradigma del passivo) rivela immediatamente che la struttura è costituita da
copula e participio [– flessivo] piuttosto che da una coniugazione perifrastica, al
presente la coincidenza formale superficiale fra le strutture copulari e quelle pas-
sive ne oscura la diversità strutturale. Una rappresentazione stratificata aiuta in
questo senso a rendere evidente che il caso (8) è una struttura passiva8, a diffe-
renza di (6) che, come (7), è una struttura inaccusativa (ma si veda Vesler 1985,

8 L’esempio (8), come (5) precedente, sono stati scelti per chiarezza anche in quanto impli-
cano un complemento d’agente. Tuttavia, benché il complemento d’agente sembri favorire l’in-
terpretazione +flessiva del participio, non si intende in alcun modo dire che esso sia responsa-
bile della distinzione di funzioni e strutture.
74 SILVIA PIERONI

che preferisce parlare di «passivi non agentivi») come del resto suggerisce l’ordi-
ne lineare, che inserisce omnis fra est e divisa.

(8) Ab eodem rege ... divisa sunt loca (Liv. 1,35,10)


“Dal medesimo re furono suddivisi i luoghi”
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Tabella 8

Una conferma della validità della struttura proposta in (6) è il fatto che all’in-
terpretazione temporale presente si associa un oggetto indiretto piuttosto che un
complemento d’agente. Si confrontino (9) e (10):

(9) nulla tamen vox est ab eis audita populi Romani maiestate et supe-
rioribus victoriis indigna (Caes. Gall. 7,17,3)
“Tuttavia, non fu udita da loro alcuna voce indegna della grandez-
za del popolo romano e delle precedenti vittorie”

Tabella 9

(10) quod nondum auditum Caesari erat (B. Alex. 25,1)


“la qual cosa non era ancora nota a Cesare”
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 75

Tabella 10
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La diversità strutturale di (9) e (10) è in grado di rendere conto sia della


diversa interpretazione temporale (rispettivamente selezionata dal participio o
dall’ausiliare), sia degli altri aspetti semantici che conseguono (è stato udito vs.
è noto).
Il tipo di struttura in (10), eventualmente da confrontare con il tipo italiano Il
tema mi è venuto scritto male (in cui il participio ha chiaro valore non flessivo: La
Fauci 2000c: 91-93), può così essere applicato a una serie di casi la cui struttura-
zione morfosintattica resta altrimenti problematica:

(11) Mihi bibere decretum est aquam (Pl. Aul. 572)


“Sono risoluto a non bere che acqua”
(12) est ambulantibus ad hunc modum sermo ille nobis institutus. (Cic.
Tusc. 2,10)
“Ecco come era iniziato il dibattito fra noi che camminavamo.”

3.2. Se il caso (7) visto in 3.1. è una struttura inaccusativa, sono tuttavia atte-
state in latino strutture che anticipano il passivo romanzo non solo formalmente, ma
anche funzionalmente.
Un caso non ambiguo è:

(13) Cyrene autem condita fuit ab Aristaeo (Iust. 13,7,1)


“Cirene fu fondata da Aristeo”
76 SILVIA PIERONI

La diversità strutturale che intercorre fra le strutture del tipo (7) e quelle del
tipo (13), riconosciuta, come si diceva, nelle grammatiche, non è però in grado da
sola di rendere ragione dei modi del cambiamento intercorso. Lo slittamento
verso il passivo del tipo (13) è tradizionalmente ricondotto alla presenza di un pre-
dicato agentivo (e all’esigenza di marcarne la differenza rispetto a quelli stativi).
Ora, poiché le due strutture costituite da sum + participio (quella inaccusativa
degli esempi 6 e 7 e quella passiva degli esempi 8 e 13) si trovano per tutto l’ar-
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co della latinità con medesimi verbi, come emerge dalla considerazione dei casi
(6)-(12), non è possibile ipotizzare una distribuzione complementare delle strut-
ture riconducibile solo a fatti lessicali. D’altra parte, la coesistenza di due struttu-
re sotto un’apparente equivalenza superficiale (come nei casi latini 6 e 8) non con-
tiene in sé nessuna radice causale per il cambiamento, essendo la biunivocità
forma-funzione una possibilità, favorita dalla facilità e dalla chiarezza, ma non un
critero ineccepibile della lingua. Secondo l’ipotesi qui proposta, in (13) il partici-
pio è il primo elemento predicativo della struttura, esattamente come in (7)
(rispetto al quale la distinzione strutturale riguarda la presenza di un soggetto
diverso da quello finale9). Il perfetto di esse trova così ragione nel fatto che
l’informazione temporale di perfetto non è soddisfatta al livello della formazione
del participio. In questo senso, il processo che da una complesso esse + participio
predicativo porta a una forma perifrasica non è da riportare né solamente alla clas-
se lessicale dei singoli verbi o delle loro singole accezioni, né semplicemente
all’ausiliarizzazione di esse, ma al mutare complesso delle relazioni fra gli ele-
menti (considerando qui principalmente quelli predicativi) della proposizione, che
vedono mutare la scelta dell’ausiliare (da infectum a perfectum) in conseguenza
della diversa interazione funzionale con il participio.

3.3. In 3.1 si è visto che nel passivo analitico latino del tipo (5) l’informa-
zione temporale è collocata nel settore devoluto alla flessione del predicato con
portata argomentale (ossia al livello di formazione del participio); nel passivo
analitico italiano del tipo (3), invece, nel settore predicativo dell’ausiliare (sta-
to). In questo senso, l’equivalenza funzionale dell’ausiliare stato e della flessio-
ne del participio implica che la categoria temporale, al pari di quella diatetica,
sia espressa rispettivamente in modo analitico (in italiano) e in modo sintetico
(in latino). Da ciò risulta che la corrispondenza delle strutture analitiche latine
con quelle romanze è più apparente che reale, in quanto le forme analitiche lati-
ne contengono in ogni caso un grado di flessività e di sinteticità di cui quelle ita-
liane sono prive.

9 In quest’ottica, pur nella diversità delle interazioni funzionali, è ovvia l’analogia con le
coppie costituite da habeo (+ oggetto) + participio predicativo dell’oggetto e le strutture peri-
frastiche anticipatrici del passato prossimo (attivo) romanzo.
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 77

Questa considerazione consente fra l’altro di spiegare la contraddizione che


sembra emergere qualora si confronti la diversa interpretazione temporale della
forma italiana del passivo con venire in (4) e della forma latina del passivo son
sum in (5), che abbiamo rappresentato come strutturalmente identiche. Mentre nel
caso in (5), infatti, la formazione del participio include, sinteticamente e in modo
caratteristicamente flessivo, sia i processi inerenti la categoria diatetica (passiviz-
zazione) che quelli inerenti la categoria temporale (perfettivizzazione)10, in italia-
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no ciò non avviene e la formazione pur morfosintattica del participio, coerente-


mente con il minor grado di flessività della lingua, si presta o alla funzione diate-
tica (così in casi del tipo viene lodato) o a quella temporale (così nei casi attivi e
medi del tipo ha camminato, è giunto), ma non a entrambe contemporaneamente.
D’altra parte, la struttura latina e quella italiana, pur nel differente grado di
sinteticità di cui si è appena detto, finiscono per essere più simili di quanto non
appaiano: un Settore Carico; due Settori Neutri, al primo dei quali è da ricondur-
re l’informazione temporale.
In quest’ottica, un’equivalenza strutturale completa si osserva nel presente,
dove semplicemente si ha un unico Settore neutro (invece di due):

(14) Andrea è lodato dal padre

(15) cum id honestum putent, quod a plerisque laudetur (Cic. Tusc. 2,63)
“ritenendo onorevole ciò che è lodato dai più”

10 Si intende, nelle strutture in questione. È infatti noto che si hanno in latino non solo
stutture in cui il participio non ha valore perfettivo (di cui si è in parte detto), ma parimenti
strutture in cui non hanno valore passivo (con iuratus, cenatus, etc.)
78 SILVIA PIERONI

Diviene in questo modo evidente la corrispondenza funzionale fra la flessio-


ne sintetica latina e quella analitica romanza, connessa al diverso ordine lineare,
che vede l’indicazione morfosintattica spostarsi tendenzialmente a destra e a sini-
stra (si veda, su questo, Rosen 1987).

4. Per questa via, parrebbe quindi di poter sostenere che i principi parametrici
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individuati da La Fauci per l’italiano (non meno di un Settore Neutro, ma non più di
due per ogni struttura) siano gli stessi che valgono per il latino. Un’obiezione a que-
sta affermazione potrebbe venire dalla considerazione della possibilità, in latino a dif-
ferenza che in italiano, delle strutture cosiddette ‘nominali’ del tipo in (16) e (17):

(16) omnia praeclara rara (Cic. Lel. 79)


“tutte le cose nobili sono rare”
(17) ubi id a Caesare negatum (Caes. civ. 1,84,2)
“quando ciò fu negato da Cesare”

Si aprono a questo punto due ipotesi. La prima individuerebbe una differenza


parametrica fra latino e italiano per quanto riguarda il numero dei settori neutri: il
latino ammetterebbe cioè un grado zero di operatività morfosintattica, ossia struttu-
re del tutto prive della sezione neutra. Si tratta però di un’ipotesi che si limita all’os-
servazione superficiale e non considera la presenza di una flessione completa, per
numero, genere e caso: i primi due variabili, a seconda dell’accordo richiesto dal
soggetto; il terzo anch’esso definito sulla base dell’accordo col soggetto, ma in quan-
to tale non variabile e necessariamente nominativo (o accusativo, in caso di accusa-
tivus cum infinitivo). È vero che anche in italiano (e nelle lingue romanze) participi
e aggettivi hanno una flessione: concordano infatti in genere e numero con l’ele-
mento nominale a cui si riferiscono. Tuttavia, la flessione non garantisce loro la pos-
sibilità di ricorrere come unici predicati di una proposizione finita11, per la quale è
necessaria, come si diceva all’inizio, la verifica morfologica del soggetto. Si può
allora riconoscere al caso nominativo latino (o l’accusativo nell’accusativus cum
infinitivo) questa precisa funzione: si tratta di ammettere, in considerazione delle
relazioni funzionali, che la verifica morfologica del soggetto possa avvenire non solo
tramite la morfologia verbale, ma anche tramite quella nominale. In latino, insom-
ma, la concordanza del predicato nominale con il soggetto può (può, non deve) esse-
re il sostituto funzionale della desinenza di una forma verbale finita12. I fenomeni di

11 Almeno per quanto riguarda la proposizione indipendente dichiarativa non marcata,


come si diceva alla nota 2.
12 Non si tratta, d’altronde, di una sostituzione meccanica, come dimosta il fatto che inter-
linguisticamente non basta la presenza di morfologia casuale a garantire la possibilità di struttu-
re ‘nominali’ (prive cioè di una forma verbale finita).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 79

accordo con il soggetto (tramite il caso nominativo o tramite la desinenza di per-


sona) vedrebbero così reintegrata un’unitarietà funzionale altrimenti sfuggente.

5. In chiusura, qualche osservazione sulle strutture deponenti. In base a quanto si


è detto, la struttura di una proposizione come Caesar profectus est è quella in (18):
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(18) (Caesar) in Transalpinam Galliam profectus est (Caes. Gall. 7,6,1)


“Cesare partì per la Gallia Transalpina”
La differenza con il perfetto passivo consiste, naturalmente, nel tratto diateti-

co (nell’impossibilità, cioè, di essere accompagnato da un complemento d’agen-


te, essendo il verbo intransitivo13). Nessuna differenza per quanto riguarda il trat-
to [ flessivo], positivo nel medio come nel passivo: lo dimostra il valore tempo-
rale, questa volta conservato nelle strutture medie italiane del tipo è giunto.
Nella struttura deponente, la presenza di un oggetto indiretto non si correla
perciò a una differenza temporale, come avveniva nel caso dell’es. (10): visum est
a me o visum est mihi si distinguono puramente per la diatesi, come risulta dagli
esempi (19) e (20), rispettivamente passivo e medio, e entrambi perfetti. Il valore
non perfettivo si ha, come è logico, solo col tema del presente, come in (21).
(19) nec prius ab hoste est visus quam loco quem petebat appropin-
quavit (Liv. 7,34,7)
“e non fu visto dal nemico prima di essersi avvicinato al luogo che
desiderava raggiungere”
(20) Haec cogitanti accidere visa est facultas bene rei gerendae (Caes.
Gall. 7,44,1)
“A lui che rifletteva su queste cose sembrò offrirsi una possibilità
di azione”

13 Lasciando qui da parte i casi dei cosiddetti ‘deponenti transitivi’, che ci porterebbe trop-
po lontano dall’obiettivo prefisso.
80 SILVIA PIERONI

(21) Ac nonnullae eius rei praetermissae occasiones Caesari videban-


tur (Caes. civ. 3,25,1)
“Ma a Cesare sembrava che alcune opportunità fossero state tra-
scurate”

Anche fra le strutture deponenti, non sembrano mancare, d’altra parte, casi
[– flessivi]: così possono essere considerati i noti casi di perfetti con valore di pre-
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sente, individuati nelle grammatiche tradizionali nei participi come usus, com-
plexus, gavisus (Ambrosini 2001: 177):

(22) Quos sibi Caesar oblatos gavisus, illos retineri iussit (Caes. Gall.
4,13,6)
“Cesare, lieto che essi gli fossero stati offerti, ordinò di trattenerli”

D’altra parte, la stessa perdita di capacità sintetica che nel presente passivo
porta alla rideterminazione tramite mezzi analitici (ess. 14 e 15) è forse alla radi-
ce della convergenza del deponente con l’attivo, nell’ambito della quale potrebbe
essere utile riconsiderare le cosiddette ‘intransitivizzazioni’ attestate nell’intero
arco della latinità, ma sempre più frequenti in tardo latino (si veda Flobert 1975:
568-571; Feltenius 1977; Cennamo 2001), quali rappresentate dalla proposizione
con adsiccaverit in (23):

(23) ... donec adsiccetur totus humor ... Quod cum adsiccaverit ...
(Chiron 476)
“finché tutto l’umore non si secchi ... e una volta che sia seccato ...”

Si comprenderebbe così il motivo per cui le strutture intransitive (risultato di


intransitivizzazione) sono spesso caratterizzate (a detta del Feltenius nel 70% dei
casi) dalla presenza di una controparte riflessiva o mediopassiva, anche nel mede-
simo testo, come si vede nell’esempio che precede.
Si tratta anche in questo caso di riconoscere nella transizione latino-romanza
una superficializzazione nella segnalazione delle relazioni morfosintattiche, che
finiscono per non distinguere (nelle forme semplici delle strutture inaccusative,
delle strutture inaccusative, delle strutture cioè che non conoscono soggetti diver-
si da quello finale) fra i soggetti finali che sono anche soggetti iniziali e quelli che
non lo sono, salvo poi recuperare la distinzione (nelle forme composte) tramite la
selezione di un diverso ausiliare, ancora una volta quindi con mezzi analitici (La
Fauci 1992: 218). La presenza di una diatesi scissa fra forme dell’infectum e del
perfectum è, d’altra parte, fatto anche latino, come testimoniano i cosiddetti
‘semideponenti’ del tipo di soleo, solitus sum (su cui si veda Ambrosini 2001:
178-179), ai quali potrebbero essere raffrontati, pur in via del tutto speculativa, gli
usi di alcune strutture inaccusative formate da participio (aggettivo) + sum, fun-
zionalmente equivalenti a perfetti attivi (Tuttle 1986: 250-251), come in
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 81

(24) quia sciret aquam nigram esset, unde illa (scil. nix) concreta esset
(Cic. ac. 2, 100)
“poiché sapeva che l’acqua, da cui quella (scil. la neve) si era soli-
dificata, era nera”

6. Riassumendo: un’analisi funzionale articolata in tratti grammaticali di for-


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me e categorie implicate nel passivo latino e italiano sembra permettere, almeno


in nuce, una descrizione morfosintattica non solo integrabile nei resoconti seman-
tici e aspettuali della transizione, ma anche dotata di una propria capacità espli-
cativa.
La proposizione con passivo composto latino (da distinguere tramite precise
differenze strutturali dalle proposizioni inaccusative) si presta a una definizione
sulla base del tratto [+ flessivo] del participio, che la oppone alla proposizione pas-
siva italiana (con essere). Il cambiamento strutturale qui semplificato supponendo
l’inversione da positivo a negativo di tale tratto crea il presupposto della necessità,
in italiano, di marcare la categoria temporale sull’ausiliare, spiegando, in ultima
analisi, i modi dello ‘slittamento’ dei tempi, che semanticamente si correla alla rein-
terpretazione stativa del perfetto passivo latino. Che la flessività del participio lati-
no in tali strutture sia la ragione morfosintattica del suo valore di perfectum impli-
ca d’altronde che la categoria temporale sia in latino pienamente flessiva, ossia
espressa sinteticamente.
La considerazione dell’opposizione sintetico versus analitico e della transi-
zione dall’uno all’altro stato tipologico acquista così una concretezza operativa,
visibile e verificabile. Ad esempio, anche le forme analitiche del perfetto passivo
latino svelano in questo modo un grado di sinteticità di cui l’italiano è privo. In
altre parole, l’intera coniugazione verbale latina (e non solo le forme semplici) ha
ceduto la sua capacità flessiva e sintetica, al pari di quanto è avvenuto nella decli-
nazione nominale.
Anche quanto a quest’ultima, del resto, la perdita di sinteticità (nella fattispe-
cie, del caso) ha implicazioni più profonde sulla struttura della proposizione di
quanto non si tenda a riconoscere: in particolare, l’accordo al nominativo fra sog-
getto e predicato nominale in proposizioni prive di una forma finita del verbo
(ammesse in latino a differenza che in italiano) risulta l’equivalente funzionale
della desinenza di persona e, in quanto tale, capace di per sé di verificare morfo-
logicamente il soggetto.
La ragione ultima di questa serie di cambiamenti interrelati trova la sua veri-
dicità tipologica nell’individuazione delle condizioni di oscuramento dei proces-
si morfosintattici (in particolare, della formazione del participio, ma così delle
altre desinenze verbali e, ugualmente, della desinenza casuale) che innescano la
necessità di una nuova marcatura, secondo un diffuso processo di assorbimento
della morfosintassi nella morfologia lessicale e un conseguente rinnovamento
morfosintattico.
82 SILVIA PIERONI

In questo modo, diviene possibile comprendere la continuità funzionale


profonda che soggiace alla ristrutturazione formale evidente. Diviene inoltre pos-
sibile inserire nello stesso quadro fenomeni in genere studiati indipendentemente,
quali il prevalere delle forme attive (intransitive) sulle corrispondenti medie nelle
fasi tarde del latino, riscoprendo infine la comunanza di processi funzionali non
solo in stadi diacronici diversi, ma anche nell’evoluzione diacronica di strutture
distinte.
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FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 83

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84 SILVIA PIERONI

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ALVARO ROCCHETTI
(Université de la Sorbonne Nouvelle – Paris 3)

Il condizionale in italiano e nelle lingue romanze:


“Mi disse che sarebbe venuto/me dijo que vendría/il m’a dit qu’il viendrait”
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Lo spunto per questa communicazione mi è venuto dalle belle pagine che il


Prof. Maiden ha dedicate all’evoluzione del condizionale nel suo volume sulla
“Storia linguistica dell’italiano”. Si sa in effetti che, per questo tempo verbale ine-
sistente all’epoca del latino ma presente oggi nelle principali lingue romanze, l’i-
taliano antico offriva tre costruzioni tra le quali ha esitato per molti secoli: dap-
prima una forma verbale ereditata dal piuccheperfetto dell’indicativo. La trovia-
mo ad esempio nei primi testi della poesia siciliana come il Contrasto di Cielo
d’Alcamo: cantara [< cantavera(m/t)], amara [< amavera(m/t)], fora [< fuerat],
ecc., tutte forme che sussistono nello spagnolo moderno: quisiera (= ‘vorrei’),
hubiera (= ‘avrei’). La seconda costruzione è quella che è stata scelta dal france-
se, dallo spagnolo e dal portoghese. Si tratta dell’infinito seguito dall’ausiliare
avere coniugato all’imperfetto: cantarìa [< cantare + habeba(m/t)], sarìa (fr.
chanterait, serait; sp. cantaría, sería). La terza costruzione – tipica dell’italiano –
è originale rispetto alla altre lingue ed è basata sull’infinito seguito dall’ausiliare
avere coniugato non più all’imperfetto, ma al passato remoto: canterebbe [< can-
tare + ebbe, con una modifica (a > e) della vocale accentata dell’infinito diventa-
ta atona nel condizionale], sarebbe. Maiden spiega che la scelta definitiva di que-
st’ultima forma è avvenuta attorno al 1650. È un’osservazione interessante, ma
rimane una costatazione che, a sua volta, pone il problema delle cause dell’evo-
luzione: infatti, le ragioni della scelta sfuggono. Il nostro intento, in questo con-
tributo, è appunto di cercare di capire perché l’italiano, dopo aver esplorato la
stessa strada del francese, dello spagnolo e del portoghese, si è orientato diversa-
mente, preferendo una soluzione originale, non contemplata dalle altre lingue
romanze. Faremo un accenno anche a un’altra evoluzione originale verso il con-
dizionale: quella messa in atto nella lingua rumena.

Per capire le cause, le condizioni e le conseguenze di questa scelta nella sto-


ria linguistica dell’italiano, dobbiamo rivolgerci a un tipo di linguistica che non
guarda solo i fatti, ma risale alle strutture mentali che li condizionano: ed è appun-
to quello che ci permette di fare la linguistica operativa, che studia le operazioni
necessarie all’attività linguistica. Questa linguistica chiamata anche Linguistica
teorica, psicosistematica o psicomeccanica del linguaggio, è stata proposta dal
linguista francese Gustave Guillaume scomparso nel 1960.
86 ALVARO ROCCHETTI

Essa si basa sul concetto di “tempo operativo”, un tempo che funge da sup-
porto alle operazioni mentali e può essere percepito dalla coscienza del locutore
(come, ad esempio, durante la costruzione della frase che inizia, si svolge e si con-
clude) o non essere percepito (come nell’opposizione tra articolo definito e arti-
colo indefinito). La non percezione non è un criterio valido per rifiutare l’esisten-
za di un tempo operativo come possiamo osservare con il computer che può dare
una risposta immediata ad una pressione su un tasto oppure richiedere un tempo
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più o meno lungo, mentre sappiamo che, in un caso come nell’altro, una serie di
operazioni – più o meno complesse – si sono svolte tra la pressione sul tasto e
l’apparizione del risultato finale sullo schermo. Queste operazioni si susseguono
talvolta così rapidamente che la nostra coscienza non riesce a registrare il tempo
impiegato. Eppure il risultato apparso sullo schermo ci dimostra che, in uno spa-
zio di tempo impercettibile per la nostra coscienza, possono svolgersi centinaia,
migliaia e perfino milioni di operazioni.
Il tempo durante il quale si sono svolte queste operazioni ha una caratteristi-
ca costante: è sempre progressivo, va sempre nella stessa direzione, aggiungendo
nuovi risultati a quelli già acquisiti. Non torna mai indietro e se il programmato-
re vuol cancellare un risultato, deve fare una programmazione “ulteriore” – quin-
di inserirsi nel tempo operativo successivo al risultato, poiché evidentemente non
può cancellare un risultato ancora... “inesistente”. Succede la stessa cosa per le
operazioni mentali: un’operazione può sempre essere sospesa prima che arrivi al
termine, ma quando vi è giunta non può più essere cancellata. Ad esempio, se
accettiamo come normale la successione: “ho visto un uomo entrare nel negozio;
l’uomo si è diretto verso la cassa...” quando si tratta dello stesso uomo e invece
come anormale la successione inversa: “ho visto l’uomo entrare nel negozio; un
uomo si è diretto verso la cassa...”, è perché l’articolo indefinito è concepito in un
primo momento e l’articolo definito in un secondo momento. Si passa infatti nor-
malmente, senza cambiare concetto, sull’asse del tempo operativo, da un’opera-
zione parziale (un uomo) a un’operazione completa (un uomo =>l’uomo), men-
tre il passaggio da un’operazione completa a una parziale implica una rottura, un
cambiamento di oggetto: non si tratta dello stesso concetto di ‘uomo’ (l’uomo ≠>
un uomo).

Gli altri postulati della linguistica operativa sono tutti legati al tempo opera-
tivo. Si tratta dell’orientamento ineluttabilmente progressivo del tempo (“non si
torna mai indietro!”), della possibilità di intercettare ogni movimento, come nel
caso del congiuntivo che è un’intercettazione del movimento che porta all’indica-
tivo, esattamente come una decisione virtualmente presa è l’anticipazione di una
decisione realmente presa. In questa prospettiva, l’opposizione saussuriana della
lingua e della parola diventa, come nella linguistica chomskyana, l’opposizione
tra una competenza (acquisita anteriormente e che viene chiamata “la lingua”) e
una “performance” concepita come un “discorso” (orale o scritto) che sfrutta
momentaneamente questa competenza. Nello stesso modo, l’opposizione tra dia-
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 87

cronia e sincronia è da rianalizzare: si tratta solo di un problema di prospettiva


poiché la sincronia è sempre il risultato della diacronia. Saussure ha voluto iden-
tificare la linguistica sincronica con la parola, mentre per Gustave Guillaume essa
studia i sistemi linguistici che ci permettono di parlare, quelli appunto che la dia-
cronia ha elaborato durante i millenni, i secoli, gli anni precedenti. Gustave
Guillaume concepisce la parola come la messa in opera dei meccanismi linguisti-
ci acquisiti. La sua linguistica si accentra dunque sulla transizione dalla lingua al
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discorso. Non possono dunque esistere contrasti tra diacronia e sincronia, ma solo
continuità. Per questa ragione vedremo, nel caso che c’interessa, che il problema
sincronico dell’uso del condizionale trova la sua spiegazione nell’evoluzione dia-
cronica.

Nell’indo europeo tutto il campo del tempo futuro era coperto dal congiunti-
vo. Mentre il passato, nel latino classico, presenta forme che risalgono all’in-
doeuropeo (come il perfectum) o sono una creazione più recente ma già ben
affermate nel latino preclassico (come l’imperfetto), l’espressione del futuro
rimane ancora legata al modo congiuntivo. Questa situazione sopravvive ancora
nelle lingue romanze poiché i tempi del passato (imperfetto e perfectum) si sono
per lo più conservati mentre i tempi del futuro sono presenti in forme ricostruite.
Visto nella prospettiva delle future lingue romanze, il latino classico presenta
abbozzi di futuro validi solo per alcuni gruppi di verbi (quelli in -are e in -ere:
amabo, monebo) mentre per gli altri usa forme derivate dal congiuntivo: dicam,
faxo, fiam, ecc. Il futuro, nelle lingue romanze, sarà ristrutturato con la creazione
di forme valide per tutti i verbi, composte con l’infinito al quale si aggiunge l’au-
siliare avere al presente: amare+ho = amerò.
È interessante soffermarci un momento su questa tappa dell’evoluzione per
capire qual è il sistema dal quale si esce (quello del latino classico) e qual è il
sistema nel quale si entra (quello delle lingue romanze). Il latino classico ha ten-
tato di generalizzare, al presente dell’indicativo, un sistema a tre livelli con l’in-
coativo -sc- (amasco), il presente (amo) e il perfectum -v- (amavi). Ma l’incoati-
vo ha avuto un’estensione limitata perché il momento iniziale di un processo non
è sempre facile da cogliere né interessante da rappresentare: se “comincio ad
arrabbiarmi” (irasco) o “comincio a finire” (finisco) sono momenti da cogliere,
molti altri inizi non presentano alcun interesse (ad esempio: “cominciare a canta-
re - *cantasco -, cominciare a sentire - *sentisco -, a ricordarsi, a... cominciare,
ecc.). Per questa impossibile generalizzazione, l’opposizione morfologica si è
presto limitata all’infectum e al perfectum, cioè a due livelli.
Possiamo rappresentare il modo indicativo del latino classico con il seguente
schema:
88 ALVARO ROCCHETTI

Figura 1
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Come si può osservare, si tratta di un sistema molto equilibrato nel quale ogni
tempo dell’infectum ha un suo corrispondente al livello del perfectum. Questo secon-
do livello è segnalato con l’infisso –v– che è invece assente al primo livello e verrà
sostituito nelle lingue romanze dalle forme composte con l’ausiliare: avevo amato –
ho amato – avrò amato. Tuttavia, malgrado la sua solida costituzione, questo sistema
ha un difetto che darà lo spunto per l’evoluzione futura. Infatti la forma amavi, da per-
fectum del presente che era all’origine, è scivolata, con il passar del tempo, verso il
passato ed ha acquistato anche il valore di passato più o meno remoto, senza però per-
dere, nel latino classico, il suo valore di perfectum del presente: si può dire “dixi” (=
ho finito di dire, ‘ho detto’), ma anche usare “dixi” come l’italiano “dissi” per un’a-
zione passata da molto tempo, che non ha più nessuna relazione con il presente.
Uno schema più rappresentativo della realtà dovrebbe quindi introdurre nel
passato il perfectum amavi. In questo caso, lo schema diventa:

Figura 2
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 89

Se escludiamo da questo schema le forme verbali (amaveram e amavero) che


saranno presto sostituite dalle forme composte con l’ausiliare e il participio passa-
to per indicare non più il perfectum ma l’anteriorità rispetto ad un’altra azione (es.:
avevo finito prima che partisse; quando saremo usciti dal cinema, andremo a pren-
dere una bibita al bar), lo schema si riduce alle forme verbali fondamentali:

Figura 3
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Ci si rende conto così che il sistema che si sta preparando è squilibrato, poiché pos-
siede due tempi nel passato (uno in corso – l’imperfetto –, l’altro visto globalmente –
il passato remoto –), due tempi anche nel presente (uno in corso – il presente –, l’altro
giunto al termine – il perfectum –), ma nel futuro presenta un solo tempo per rappre-
sentare l’azione in corso. Manca la rappresentazione di un’azione futura vista global-
mente, espressa dal passato remoto nel passato e dal perfectum nel presente. Il sistema
che erediteranno le lingue romanze è dunque rappresentabile con lo schema seguente:

Figura 4
90 ALVARO ROCCHETTI

Questa rappresentazione evidenzia lo squilibrio fondamentale tra il passato –


già molto simile a quello delle lingue romanze, nonostante la forma di perfectum
copra tre funzioni: quella di perfectum del presente (≈ ho amato), quella di pas-
sato più o meno remoto (≈ amai) e quella di passato anteriore (≈ ebbi amato) – e
il futuro. Questo squilibrio sarà avvertito in tutte le lingue romanze le quali met-
teranno in atto diverse strategie per colmare la lacuna evidente nel futuro.
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La prima occasione si presenta al momento in cui il futuro viene sostituito da una


forma analittica (infinito + presente dell’ausiliare avere). Questa ristrutturazione dà la
possibilità di introdurre anche nel futuro un’opposizione tra un’azione vista dall’inter-
no, nel suo svolgimento, e un’azione vista globalmente, sul modello di ciò che è avve-
nuto nel passato. Infatti è possibile costruire, accanto a questo nuovo futuro un altro
tempo usando sempre l’infinito ma completandolo con l’ausiliare avere coniugato,
non più al presente, ma a uno dei due tempi del passato: sia l’imperfetto, sia il perfet-
to. Tutte le lingue romanze sapranno cogliere quest’occasione, anche se il romeno,
separato fin dal 270 dalle altre lingue romanze, dovrà trovare una via un po’ diversa.
Per l’italiano e le lingue romanze occidentali, due sono le possibilità che si
presentano:
1) se accanto al nuovo futuro delle lingue romanze si accosta un tempo
formato con l’imperfetto, cioè costruito per esprimere un’azione in
corso, vorrà dire che il futuro sarà portato a esprimere l’altra visio-

Figura 5
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 91

ne, quella globale, e avremo l’opposizione delle lingue romanze


occidentali: j’aimerais (azione incipiente)/j’aimerai (azione vista
globalmente) per il francese; cantaría / cantaré per lo spagnolo. Ad
esempio, nel caso del francese, la ristrutturazione dell’indicativo
può essere rappresentata come nella figura 5;
2) se invece si accosta al futuro un tempo formato con l’ausiliare al
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passato remoto (per esprimere un’azione vista globalmente), vorrà


dire che il futuro esprimerà l’azione in corso e avremo l’opposizio-
ne dell’italiano: amerò (azione in corso nel futuro)/amerei (azione
globalmente futura). In questo caso, la rappresentazione dell’indica-
tivo diventa:

Figura 6

Le conseguenze di questa scelta saranno notevoli e avranno un influsso deci-


sivo, in particolare sulla sintassi del verbo: nel primo caso – quello scelto dalle
lingue romanze occidentali –, il futuro deve subire un’evoluzione che lo porta da
una posizione d’infectum (che aveva nel latino) a una nuova posizione, di tipo
perfectum, che corrisponde, nel futuro, a quella assunta dal passato remoto nel
passato. In questo caso non sarà più in grado di esprimere l’ipotesi poiché essa
richiede un’azione incipiente. Per questa ragione, lo spagnolo e il francese non
possono usare il futuro in una frase ipotetica anche se l’azione è esplicitamente
92 ALVARO ROCCHETTI

situata nel futuro: se verrò a casa tua domani, ti porterò un regalo non può tradur-
si in francese con *si je viendrai chez toi demain..., né in spagnolo con *Si iré maña-
na a tu casa... Si devono usare tempi che possano lasciare una parte dell’azione
ancora da compiere, come il presente: “si je viens chez toi demain”/”si voy maña-
na a tu casa”, o l’imperfetto “si je venais chez toi demain” oppure, come fa il por-
toghese, il futuro del congiuntivo. Quando, in queste lingue, il futuro è usato dopo
“se”, non esprime un’ipotesi, ma un’azione già decisa, programmate nel futuro.
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Ecco due esempi in francese contemporaneo di uso del futuro dopo si (Le
Monde, 2 maggio 1998, pag. 3, in un article intitolato Même sans pièces ni billets,
l’euro pour tous en 1999, col. 1-4, di Henri de Bresson e Sophie Faye):

“Le basculement des opérations interbancaires et des avoirs des Etats


en euros, le 1er janvier 1999, ne va pas susciter de révolution dans les
foyers. Le premier signe tangible du changement pour le public va être
l’ouverture de la Bourse du lundi 4. De ce jour-là, dans les onze pays
euro, les cotations ne seront plus faites dans les monnaies nationales,
mais dans la monnaie européenne. Les petits détenteurs de titres peu-
vent toutefois se rassurer. Si les coupons des sicav se calculeront en
euros, ils afficheront aussi la contre-valeur en francs.” (col. 1-2)
“Pour les salariés, le changement ne sera pas immédiatement visible.
La feuille de paie restera libellée en francs, même si progressivement
les entreprises ou les administrations devraient inscrire la contre-valeur
en euros. [...] Il en sera de même pour les relevés bancaires. S’il fau-
dra attendre 2002 pour régler en euros sa tournée au bistrot, rien
n’interdira dès 1999 de demander un carnet de chèques dans la
monnaie européenne.” (col. 2-3)

Sempre nel giornale Le Monde del 6 febbraio 1999 (p. 3, col. 6) ma sotto la
penna di un altro giornalista, Michel Bôle-Richard, in un articolo che riguarda
l’Italia: “L’Italie rejette les critiques de Bruxelles sur son insuffisante rigueur
budgétaire”:

“Ce qui inquiète Yves-Thibault de Silguy [commissario europeo per gli


affari economici e monetari] est l’année en cours et tout particulière-
ment les prévisions de croissance de 2,5% qui lui semblent ambitieu-
ses et qu’il faudra sans doute réduire. Ce qui implique un nouveau cor-
rectif budgétaire qui a été évalué à 7000 ou 8000 milliards de lires
(entre 3,5 et 4 milliards d’euros). Cette perspective a immédiatement
été rejetée par Massimo D’Alema qui a exclu toutes mesures d’ajuste-
ment, tandis que Carlo Azeglio Ciampi, ministre du Trésor, a expliqué
à Yves-Thibault de Silguy que, si la croissance sera vraisemblable-
ment inférieure à ce qui avait été prévu (2% ou peut-être moins), il
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 93

ne sera pas pour autant nécessaire de procéder à de nouvelles cou-


pes pour respecter le taux de déficit public fixé à 2% par rapport au
PIB”.

Ultimo esempio sentito alla televisione su FR3 il 30/12/00:

“Dès le 1er janvier prochain, les boutiques se mettent à l’heure de


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l’EURO. Si on ne pourra payer en billets qu’à partir de 2002, les


étalages affichent déjà les prix dans la nouvelle monnaie”

In tutti i casi, il verbo che segue la particella ipotetica “si” indica un’azione
ammessa da tutti. Nel terzo esempio, l’avverbio “vraisemblablement” interviene
appunto per evitare che si possa interpretare la proposizione “si la croissance sera
(...) inférieure à ce qui avait été prévu” come una mera ipotesi, mentre per il mini-
stro del tesoro italiano si tratta di ammettere le previsioni del Commissario euro-
peo Yves-Thibault de Silguy. L’insieme della proposizione equivale a: “anche se
(= ammesso che) la crescita sarà (sia) inferiore a quanto previsto, non sarà neces-
sario tuttavia procedere a nuovi tagli”.

Come si vede, il sistema adottato dalle lingue romanze occidentali, con un


condizionale che è solo un abbozzo di futuro e un tempo futuro ormai diventato
un “perfectum” di futuro, ha la conseguenza paradossale di impedire l’uso del
futuro per fare un’ipotesi che, nella maggior parte dei casi, si svolgerà nel...
futuro!

Ma la soluzione ritenuta dall’italiano ha anche essa le sue restrizioni. Vedia-


mo quali sono.

Mentre le lingue occidentali sembrano non aver avuto nessuna esitazione


nello scegliere il primo tipo di opposizione (il condizionale in posizione incipien-
te e il futuro visto globalmente), l’italiano ha conservato per alcuni secoli le due
possibilità. Ognuna di loro aveva infatti vantaggi e inconvenienti propri. Abbiamo
visto quelli della soluzione “occidentale”. L’adozione di un condizionale del tipo
“perfectum” del futuro ha il vantaggio di corrispondere esattamente al valore che
si può prevedere per un “condizionale”, cioè per un avvenimento “irreale” situa-
to nel presente (ad es. “vorrei ma non posso”) o nel futuro (“se tu venissi doma-
ni, ti darei...”). Ogni azione espressa dal futuro è sempre, più o meno, un’azione
incerta: “saranno le due” equivale a ‘sono forse (circa, probabilmente...) le due’.
Concepire il condizionale come “un perfectum di futuro” vuol dire quest’incer-
tezza al suo massimo grado, fino a esprimere una mera ipotesi, un’azione perfet-
tamente irreale. Tale procedimento ha permesso di non trasformare il futuro ere-
ditato dal latino, conservandolo per l’espressione dell’ipotesi, tanto nella protasi
quanto nell’apodosi: “se verrai domani, ti darò...”.
94 ALVARO ROCCHETTI

Ma, quando si tratta di esprimere il futuro nel passato, il condizionale italia-


no non è uno strumento adeguato. Se funziona perfettamente come “perfectum”
di futuro finché l’azione è posta nel futuro o nel presente, è inadeguato per l’uso
nel passato. Infatti, mentre l’azione “perfettamente” passata è espressa in modo
adeguato dal perfectum del passato, l’introduzione di un “perfectum di futuro” nel
passato non permette di esprimere correttamente il “futuro nel passato”. In questo
caso, l’azione espressa dal futuro nel passato può certo rimanere “futura”, ma può
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anche essersi realizzata prima del momento dell’elocuzione, il che non è mai il
caso per un “perfectum di futuro”. Per questo motivo, l’italiano ha conservato fino
alla metà del seicento l’altra costruzione (quella della Romania occidentale) che
gli ha permesso di compensare alcune insufficienze del suo condizionale “perfec-
tum di futuro”. Finché non ha trovato la soluzione.
Infatti, attorno al 1650, s’impone una nuova struttura: poiché il condizionale
non può agevolmente entrare nel passato, si divide il “futuro nel passato” in due
parti, attribuendo l’espressione del passato alla forma composta del verbo (e non
più alla forma semplice: essere venuto invece di venire) e mantenendo il condi-
zionale solo per l’espressione del futuro. Una volta trovata la costruzione del tipo
mi disse che sarebbe venuto per esprimere il futuro nel passato, in opposizione
alla costruzione ipotetica “mi disse che sarebbe venuto se...” usata dalla maggior
parte delle altre lingue romanze, l’uso del condizionale con la desinenza dell’im-
perfetto poteva sparire. Infatti, a partire da quel momento, sarìa, avrìa, potrìa,
vorrìa, ecc. escono a poco a poco dall’uso e il condizionale composto s’impone
per l’espressione del futuro nel passato, come si era già imposto il condizionale
semplice – basato sull’infinito + il perfectum dell’ausiliare avere – per l’azione
irreale nel presente e nel futuro.
Resta ancora da capire la terza forma presente nell’italiano antico, quella
venuta dal piuccheperfetto indicativo amaveram. Questa forma si spiega abba-
stanza facilmente: dopo la creazione del nuovo piuccheperfetto delle lingue
romanze, con l’ausiliare all’imperfetto + il participio passato – avevo amato –, la
forma latina amaveram ha perso l’infisso -v-, come amavi (> amai) e la maggior
parte delle forme del perfectum (amavissem --> amassem --> amasse --> amas-
si). Si arriva così alla forma del condizionale di Cielo d’Alcamo: amara, canta-
ra, ecc. Ma l’evoluzione del significato – dal piuccheperfetto dell’indicativo al
condizionale – richiede qualche chiarimento. Se infatti partiamo da un significa-
to vicino a “avevo amato” non è facile arrivare al condizionale italiano “amerei”.
Dobbiamo quindi analizzare meglio la sua funzione: il piuccheperfetto era legato
all’imperfetto a cui serviva, come indica il nome, da perfectum, cioè portava “fino
alla perfezione” l’azione dell’imperfetto. Siamo dunque rimandati al significato
dell’imperfetto. Si tratta di un tempo che presenta l’azione in parte realizzata e in
parte da realizzare, in legame con un’altra azione che interviene nel corso della
realizzazione: es. quando uscii, pioveva
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 95

Quando uscii
|
|<–––––––v. . . . . . . . . . . . . . . . >|
pioveva

Rendere quest’azione “perfetta” come fa il “perfectum” può dunque voler


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dire due cose opposte: o è resa “perfetta” la parte dell’azione già realizzata – e in
questo caso ci si trova con un’azione interamente compiuta – o è resa “perfetta”
la parte ancora da realizzare – e in questo caso ci si trova con un’azione intera-
mente da realizzare –. Questo meccanismo permette di capire perché il piucche-
perfetto latino poteva avere due significati opposti: fuerat = 1) era stato; 2) sareb-
be stato.

Figura 7

Ora, quando il piuccheperfetto latino amaveram è stato sostituito dal nuovo


piuccheperfetto delle lingue romanze avevo amato, la sostituzione non è stata
completa: avevo amato ha sostituito amaveram solo per l’espressione del per-
fectum della parte realizzata. Ha quindi lasciato la stessa forma disponibile per
esprimere il perfectum della parte non ancora realizzata. E quest’azione “intera-
mente da realizzare”, che cos’è? se non un condizionale, cioè un’azione poten-
ziale eventualmente dipendente da una condizione. In questo modo si capisce
come l’italiano e lo spagnolo abbiano sfruttato questa forma per l’espressione del
condizionale: cantara (= ‘canterei’) per Cielo d’Alcamo e hubiera (= ‘avrei’) per
lo spagnolo contemporaneo non sono altro che la sopravvivenza dell’antico piuc-
cheperfetto latino “imperfettamente” sostituito dal piuccheperfetto romanzo. Ma
lo spagnolo ha, per lo più, usato questa forma in -ra per un nuovo tempo impro-
priamente chiamato “imperfetto del congiuntivo” trattandosi di un congiuntivo
perfetto, tanto per la sua origine quanto per il suo significato.
96 ALVARO ROCCHETTI

Si noterà che lo stesso tipo di evoluzione permette di capire la trasformazio-


ne del piuccheperfetto del congiuntivo amavissem in amassi – congiuntivo per-
fetto anch’esso, impropriamente chiamato “imperfetto del congiuntivo” – dopo la
creazione del nuovo piuccheperfetto avessi amato. La trasformazione inversa è
avvenuta in rumeno per cantavissem con la sostituzione in questo caso della parte
virtuale ad opera dell’ausiliare a fi, il quale, a differenza dell’ausiliare avere, vir-
tualizza l’azione che esprime. Il nuovo congiuntivo să fi cântat ha dunque par-
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zialmente sostituito cantavissem lasciando questa forma disponibile per l’espres-


sione della realtà: oggi, in rumeno, cântasem significa “avevo cantato” e non ha
più alcun legame con il congiuntivo. Questi due spostamenti inversi – del con-
giuntivo latino cantavissem verso l’indicativo rumeno cântasem e dell’indicati-
vo latino cantaveram verso il congiuntivo spagnolo cantara – mostrano che i
modi (indicativo e congiuntivo) non sono dei compartimenti stagni che si passa
con facilità da un modo all’altro ma nella misura in cui la realtà o la virtualità
viene meno o aumenta.

L’evoluzione comparata delle lingue romanze permette quindi di capire le


caratteristiche proprie di ogni lingua e anche di correggere un errore di interpre-
tazione di Gustave Guillaume. Possiamo osservare infatti (vedi Principi di lingui-
stica teorica di Gustave Guillaume nella traduzione di Roberto Silvi uscita nel
2000 presso Liguori), come il parallelismo tra il futuro francese e il passato remo-
to (j’aimerai/j’aimai, tu aimeras/tu aimas, il aimera/il aima...) abbia portato
Gustave Guillaume a situare il passato remoto al livello del futuro. Ma il lingui-
sta ha pensato che il futuro francese esprimesse solo la virtualità e ha quindi inter-
pretato il passato remoto come un “perfectum di virtualità”. La sua raffigurazio-
ne deve solo essere capovolta: l’imperfetto e il condizionale (con le medesime
desinenze) occupano il livello dell’infectum, mentre il passato remoto e il futuro
occupano il livello del perfectum.
Abbiamo visto che il sistema verbale italiano è tutt’altro, poiché il livello del-
l’infectum è occupato dall’imperfetto e dal futuro, mentre il passato remoto e il
condizionale si situano al livello del perfectum.
Tra le lingue romanze, lo spagnolo si accosta al francese, mentre il romeno,
pur seguendo altre vie, si è accostato all’italiano. In effetti, la lingua romena pre-
senta, nel cinquecento/seicento, un condizionale ereditato dal latino volgare (infi-
nito + ausiliare “a avea” al presente: cântare ai) che ha ancora alcuni usi di futu-
ro. L’estensione delle numerose forme di futuro (tra le quali vei cânta, ai să cânţi
e oggi o să cânţi) ha spinto il futuro ereditato dal latino (cântare ai diventato oggi
ai cânta) verso la posizione di perfectum di futuro, come è avvenuto per il con-
dizionale italiano. Ritroviamo dunque nella costruzione del sistema verbale l’op-
posizione tra la Romania occidentale e la Romania orientale.
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 97

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Guillaume, Gustave, 2000, Principi di linguistica teorica. Raccolta di testi inediti sotto la
direzione di Roch Valin. Presentazione di Arturo Martone. Traduzione di Roberto
Silvi. Nota bio-bibliografica di Alberto Manco. Napoli, Liguori, 232 p.
Guillaume, Gustave, 1965, Temps et verbe, théorie des aspects, des modes et des temps
(134 p.), suivi de l’architectonique du temps dans les langues classiques (66 p.), Paris,
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Champion.
Guillaume, Gustave, 1964, Langage et science du langage, Paris, Nizet, Québec, PUL, 287 p.
Maiden, Martin, 1998, Storia linguistica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 312 p.
Moignet Gérard, 1981, Systématique de la langue française, Paris, Klincksieck, 346 p.
Rocchetti, Alvaro, 1987, «De l’indo européen aux langues romanes: une hypothèse sur
l’évolution du système verbal», Chroniques italiennes, n° 11/12, pp. 19-40.
Touratier, Christian, 1996, Le système verbal français. Paris, Armand Colin, 253 p.
ROMANA TIMOC-BARDY
(Aix-en-provence)

Du futur roman au conditionnel roumain


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1.

Nos recherches sur le conditionnel ont été effectuées comme partie d’un tra-
vail plus ample, portant sur l’ensemble du système verbal du roumain (Timoc-
Bardy 1999: 281-542), sur son agencement, sur sa construction, vue de façon
dynamique. Dans la conception qui a présidé à ce travail (la psychosystématique
du langage), il nous importait en premier lieu de bien comprendre la morphologie du
conditionnel, de parvenir à nous expliquer son origine – la périphrase de départ –; en
deuxième lieu, de corroborer cela à la fois avec le système verbal dans son ensem-
ble et avec l’évolution de celui-ci; et, en troisième lieu, sachant que les construc-
tions morphologiques entraînent des conséquences syntaxiques, d’examiner le
plan du fonctionnement syntaxique.
Ce sont ces mêmes points qui nous occuperont ici, bien plus schématique-
ment toutefois – autant que le permettent les dimensions d’une communication –:
morphologie et fonctions du conditionnel, vues à travers la structure générale du
système verbal roumain, ensuite en rapport avec l’expression du futur. Enfin, nous
essaierons de tirer quelques conclusions d’une portée plus théorique et plus géné-
rale, en incluant la comparaison avec d’autres langues romanes, notamment avec
l’italien.

2. LA QUESTION DE L’AUXILIAIRE DU CONDITIONNEL

Dans les grammaires du roumain, dont beaucoup demeurent encore fidèles à


la vieille conception qui met un signe d’égalité entre la modalité et le mode, le
conditionnel est déclaré mode à part, dit “conditionnel-optatif”. Y voir un mode,
du moins sur cette base-là, est pour nous sujet à caution, mais ce n’est pas ce qui
nous intéresse en premier lieu ici. Disons pour l’instant que le conditionnel se pré-
sente comme une forme verbale composée: auxiliaire a avea (avoir), conjugué à
toutes les personnes, suivi de l’infinitif. Soit pour le verbe a cânta (chanter): aş
cânta, ai cânta, ar cânta, am cânta, ar cânta “je chanterais”, “tu chanterais”, “il
chanterait” etc. Dans la langue moderne – et déjà d’ailleurs dans celle des textes
les plus anciens conservés (XVIe siècle) –, cette forme verbale composée est
réservée à l’expression modale, essentiellement celle d’une action désirée (fonc-
tion dite d’“optatif”):
100 ROMANA TIMOC-BARDY

(1) Ar pleca. “Il partirait” avec le sens de “il aimerait partir”.


ou bien, celle d’une action simplement possible:
(2) Se zice că ar pleca mâine. “On dit qu’il partirait demain.”
ou bien, celle d’une action dépendant d’une condition;
(3) Dacă ar veni, ar vedea. “S’il venait, il verrait.”
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Le conditionnel roumain présente des difficultés ardues en étymologie gram-


maticale, qui ont leur source dans les réductions formelles que peuvent subir dans
cette langue les verbes remplissant un rôle d’auxiliaire. L’attestation tardive du
roumain accroît la difficulté d’interprétation de ces formes réduites et exige par
conséquent de la part du linguiste qui les aborde de posséder une technique d’a-
nalyse qui lui permette d’approcher, par un raisonnement linguistique adapté aux
phénomènes examinés, des faits non attestés. Le chercheur se trouve souvent dans
la situation de faire des hypothèses, des déductions théoriques, de développer des
raisonnements, dont il doit ensuite vérifier la pertinence par un retour obligé et
constant aux faits du discours, afin d’atteindre ainsi un degré de plausibilité qui
puisse être jugé satisfaisant dans l’état actuel de nos connaissances. C’est ainsi
que nous avons dû procéder.
La réduction de forme des verbes auxiliaires, trait morphologique majeur du
roumain, est telle que, parfois, elle peut même cacher aux chercheurs l’apparte-
nance claire d’un paradigme auxiliaire à un verbe donné. Cela arrive notamment
dans le cas du conditionnel, comme le reconnaît la Grammaire de l’Académie
roumaine elle-même, évitant ainsi de se prononcer sur la question (1966, I: 204).
Et cela explique que l’on en soit venu, en effet, à pouvoir faire remonter le para-
digme de l’auxiliaire du conditionnel à l’imparfait du verbe a vrea (vouloir).
C’est là une théorie bien connue, élaborée il y a un siècle par Weigand (1896:
139-161) – et encore aujourd’hui reprise par certains –, qui soutenait que le
paradigme aş provenait de la réduction à l’extrême de l’imparfait lat. vulg. vole-
bam. Sa démonstration nécessitait, il est vrai, quelques acrobaties étymolo-
giques, et pour cause: dans le paradigme aş il est tout de même plus facile de
reconnaître, dès le prime abord, plus de ressemblance avec certaines formes de
l’héritier de habere (a avea) plutôt qu’avec des formes représentant volere. En
effet, trois personnes (2e ai, 4e am, 5e aţi) du paradigme de l’auxiliaire du
conditionnel coïncident avec celles (ai, am, aţi) de l’auxiliaire du passé compo-
sé. Or, dans ce dernier, on s’accorde unanimement à reconnaître le présent (de
forme spéciale!) de a avea (<habere) ! Quant à ar du conditionnel (3e et 6e per-
sonnes), il rappelle bien are, la troisième personne du verbe plein. Qui plus est,
au XVIe siècle, ar du conditionnel apparaissait parfois sous la forme are (ou ăr).
Cela signifie en fait quatre formes identiques pour ces trois paradigmes (présent
du verbe plein, auxiliaire du passé composé, auxiliaire du conditionnel, cf. ci-
après).
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 101

Pourtant, la théorie volere – source d’une longue polémique, et que nous ne


pouvons pas présenter in-extenso ici, ni discuter dans les limites de cette étude1 –
a fait école, a convaincu nombre de linguistes de renom, parmi lesquels Meyer-
Lübke, qui avait d’abord soutenu l’origine habere 2. Certaines grammaires rou-
maines optent encore aujourd’hui pour l’origine volere.
Prenant position pour l’étymologie habere, nous nous situons, quant à nous,
dans une autre lignée de linguistes, qui, par le passé, ou bien à l’époque contem-
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poraine, ont soutenu ce point de vue. Tels sont, par ordre chronologique, Hasdeu
(1887-1893: s.v.), Tiktin (1904: 691-704), Titova (1959: 561-571), Bourciez
(1967: 604), Rosetti (1968: 156), Bugeanu (1970: 543-563), et, plus récemment,
Coteanu (1982: 212) et Avram (1986: 162), pour ne nommer que les principaux.
Les deux derniers, du moins dans les ouvrages cités, ne s’occupent pas de l’ori-
gine des paradigmes, car il s’agit là de grammaires destinées non à des spécialis-
tes, mais à un très large public. Quant aux autres contributions, surtout les plus
anciennes, on peut dire pour l’essentiel, qu’elles abordent beaucoup plus le niveau
de l’évolution phonétique que celui de la fonction. Lorsque le côté fonctionnel est
envisagé, les solutions proposées ne sont pas suffisamment motivées, voire pas du
tout. Ainsi, après avoir constaté les coïncidences de formes sus-mentionnées –
point de départ en fait de la théorie habere –, et étant donné qu’il est impossible
d’expliquer phonétiquement le reste du paradigme à partir du présent du verbe
latin, les adeptes de l’étymologie habere ont été obligés d’inclure dans leur expli-
cation des formes subjonctives. Ainsi, pour aş, dont l’origine est la véritable pier-
re d’achoppement de toutes les théories proposées, Hasdeu suggérait un archaïque
habessim (pour habuissem), peut-être dans l’idée d’expliquer phonétiquement le
résultat par la suite s+i, évolution normale en roumain. Tiktin proposait habuis-
sem pour a, mais le subjonctif imparfait, haberem, ou parfait, habuerim, ou même
habueras, habuerat pour le reste du paradigme. De nos jours, A. Rosetti a accep-
té – avec réserve, il est vrai, et sans référence à la valeur d’emploi – l’étymon
habuissem pour a, considérant que cette évolution comportait des difficultés pho-
nétiques, mais qu’il ne voyait toutefois pas d’autre dérivation possible pour la pre-
mière personne. On constate en fait que les linguistes ne savaient pas trop com-
ment prendre en considération le côté fonctionnel. On peut se demander en effet
sur quoi repose le recours aux paradigmes haberem et habuerim. Sur le fait qu’en
latin ils pouvaient servir à dire l’hypothèse? Comment accepter ce mélange de
formes sans un support théorique qui le motive? De quelle manière peut-on relier

1 Nous prions pour cela le lecteur de bien vouloir se reporter à notre discussion Timoc
Bardy (1999: 312-337).
2 Après avoir indiqué, dans le tome II (§ 114) de sa Grammaire des langues romanes, l’é-
tymon habere, Meyer-Lübke s’est rétracté dans le volume III (§ 323), au profit de la théorie de
Weigand, mais en manifestant sa réserve pour l’origine de la 1ère personne, proposée par ce der-
nier.
102 ROMANA TIMOC-BARDY

l’emploi de ces formes latines au système roumain de l’hypothèse? Ces questions


restent sans réponse. Elles n’étaient d’ailleurs pas, le plus souvent, explicitement
évoquées.
Les contributions plus récentes (Titova, Bugeanu) ont le mérite d’asseoir la
réflexion sur le plan théorique. Titova a affirmé avec justesse que le paradigme du
conditionnel est construit sur le modèle du futur roman avec habere, ce qui cons-
titue pour le chercheur un indice important. Bugeanu propose une solution plus
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complexe, dans laquelle il s’agirait, à l’origine, du passé simple de l’auxiliaire, sur


le modèle, en somme, de l’italien. Sa solution ne nous apparaît pas plus que celle
de Weigand, adaptée à la structure générale du système verbal roumain, d’autant
plus que la dérivation phonétique proposée est difficile et oblige l’auteur à de
nombreuses manipulations, ce qui, selon nous, donne à cette hypothèse un carac-
tère trop aléatoire.
Le recours exclusif à la phonétique, même au prix de forcer l’explication, est
un grief auquel n’échappe pas non plus, bien sûr, la théorie volere. Ainsi, on peut
d’emblée réfuter l’explication de aş par la “phonétique syntaxique” (aş < volebam
sic), proposée par Weigand et répandue comme méthode explicative à l’époque.
Une telle postposition s’est-elle jamais pratiquée en latin? Et d’ailleurs pourquoi sic
se serait-il agglutiné seulement à la première personne? Cette agglutination devait
peut-être paraître problématique à Weigand lui-même, puisqu’il proposait, pour en
étayer la vraisemblance, une influence analogique supplémentaire venant de la pre-
mière personne des passés simples sigmatiques de l’ancien roumain, en –ş. Donc,
aş, par analogie avec les anciens arş (<arsi) ou duş (<duxi). Par ailleurs, comme l’a-
vait déjà mentionné Tiktin dans sa critique à la théorie de Weigand, dans l’hypothè-
se ou ar cânta représenterait la forme réduite de vrea cânta, comme celui-ci le pen-
sait, comment se fait-il que les textes du XVIe siècle ne présentent que ces deux for-
mes, celle supposée être la forme de départ et celle d’aboutissement, sans que
jamais n’apparaisse aucune des étapes intermédiaires de l’évolution phonétique
vrea(+ şi) >vreaşi >reaşi >aş, postulées par l’auteur?
Ce qui a favorisé le succès de la théorie volere a été la non compréhension de
la spécificité du système roumain sur le plan structurel et fonctionnel. Dans les
langues romanes, et plus largement encore en anglais, ou en allemand, le condi-
tionnel et le futur sont généralement construits à l’aide du même auxiliaire, habe-
re pour le domaine roman, werden pour l’allemand etc. Weigand appliquait au
roumain le même raisonnement: futur construit avec volere, par conséquent
conditionnel construit également avec volere. En nommant le conditionnel rou-
main un imparfait du futur, Weigand commettait en fait une impropriété, celle de
supposer au système roumain des vues constructives similaires à celles du fran-
çais, où le conditionnel apparaît effectivement comme une amorce de temps futur
(Guillaume 1968: 54-57), une sorte d’infectum de futur (ce qui se reflète dans le
temps de l’auxiliaire, qui est à l’imparfait). Il méconnaissait ainsi le fait que le
système du roumain moderne est assis sur un seul plan fondé sur le présent, et non
sur deux comme celui des autres langues romanes. En roumain, la “concordance
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 103

des temps” ne se fait pas de la même manière: le passé est toujours du passé et le
futur toujours du futur, que ce soit par rapport au passé ou au futur. Une catégo-
rie “futur dans le passé” n’y existe pas.

3. NOTRE SOLUTION
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Selon nous, l’actuel conditionnel n’est autre que l’ancien futur roman du type
habeo cantare, dans lequel l’auxiliaire n’est pas devenu flexion. Quoique réduit,
il a gardé son statut de mot. Cette conception est en accord avec la structure géné-
rale du système verbal roumain, qui n’a établi aucun parallélisme entre les temps
du passé et les temps du futur. La conséquence en est que le roumain peut toujours
exprimer le futur par les formes du “temps futur”, qu’il soit dans le passé ou dans
le futur, et n’a pas besoin d’une concordance des temps. On dit dans cette langue

(4) A zis că va veni (en utilisant le futur). “Il a dit qu’il viendra”, au lieu
de “Il a dit qu’il viendrait” du français, ou de “Disse che sarebbe
venuto” de l’italien.
Si on utilisait le conditionnel,
(5) A zis că ar veni. litt. “Il a dit qu’il viendrait”

on n’exprimerait pas un futur dans le passé mais une éventualité relative à


l’ancrage dans le temps de la principale (ici, le passé). Comme le présent demeu-
re présent (ou simultané) sur tout l’axe du temps, le conditionnel va lui aussi
exprimer une éventualité ou une hypothèse dans le présent qui, devient contem-
porain de n’importe quel moment sur l’axe du temps, présent, passé ou futur. Ce
qui explique l’utilisation d’un auxiliaire conjugué au présent.

3.1. Notre conception permet de considérev autremen l’étude de l’auxiliaire et


la recherche sur l’origine de ses formes. Car si ce conditionnel est, à l’origine, le
futur avec habeo, il devient évident que l’étude de son auxiliaire est indissociable
de celle de l’ensemble dont il fait partie intégrante, à savoir les trois paradigmes du
présent de a avea: verbe plein, auxiliaire du passé composé et auxiliaire du futur:

Auxiliaire du passé composé Verbe plein Auxiliaire du futur


am am a
ai ai ai
a are ar
am avem am
aţi aveţi aţi
au au ar
104 ROMANA TIMOC-BARDY

Nous pouvons, entre autres, faire les constatations suivantes:

– une distinction sémiologique s’installe à certaines personnes entre le


verbe plein, d’un côté, et les deux auxiliaires, de l’autre, de forme
réduite. Are, avem et aveţi appartiennent exclusivement au verbe
plein. La réduction de forme que subit en roumain le verbe auxiliai-
re, est également constatable dans le cas de l’héritier de volere (a
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vrea), devenu auxiliaire du futur. Celui-ci, à travers une longue évo-


lution, a abouti à une morphologie très réduite, sous laquelle il est
même parfois méconnaissable. Parallèlement, la langue a construit
un autre paradigme pour le verbe plein, de sorte que nous avons
aujourd’hui voi, vei, va, vom, veţi, vor, pour l’auxiliaire, et vreau,
vrei, vrea, vrem, vreţi, vor, pour le verbe plein. Au XVIe siècle, les
deux paradigmes ne sont pas encore séparés, ce qui rend possible de
suivre historiquement la réfection du verbe plein et la réduction pro-
gressive de l’auxiliaire. Cela amène la constatation intéressante que
la grammaticalisation du futur avec habeo est bien antérieure dans
le temps à celle du futur avec volere, car, déjà au XVIe siècle, – et
excepté la troisième personne ară, qui pouvait apparaître à cette
époque comme are, ar – a avea auxiliaire du futur avait déjà abouti
à la forme qu’on lui connaît aujourd’hui. La mise en place de ces
trois paradigmes est bien antérieure aux témoignages écrits.
– La deuxième constatation concerne les différences entre les deux
paradigmes auxiliaires. Etant donné que nous travaillons selon une
conception linguistique qui postule que le signe signifie, nous nous
sommes demandé ce que le système indique à travers la scission qui
touche la troisième et la sixième: a/au pour former le passé (com-
posé), contre ar pour former le futur, et même la première, qui pré-
sente am pour le passé, mais aş pour le futur. Ces oppositions
concernent justement les personnes qui ont posé le plus de problè-
mes aux chercheurs par le passé.

Dans la théorie de Gustave Guillaume, fondatrice de la psychomécanique du


langage, le présent, et en particulier le présent latin, correspond à un espace de
temps étroit, mais possédant néanmoins une certaine étendue où se conjoignent
une partie passée et une partie future. Nous avons émis, comme hypothèse de tra-
vail, que, par cette sémiologie différenciée à certaines personnes, le système indi-
querait la séparation mentale opérée entre les deux parties du présent, la partie
passée et la partie future. Pour construire le futur, on n’utiliserait, dans cette hypo-
thèse, que la partie future du présent, alors que pour construire le passé, on n’uti-
liserait que la partie passée. C’est sur cette base que nous avons cherché une
explication pour les formes de l’auxiliaire du futur (aujourd’hui conditionnel).
Nous allons ici nous limiter, à titre d’exemple, à quelques remarques succintes sur
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 105

les formes les plus problématiques, aş et ar, en essayant de montrer qu’il est possi-
ble de les relier également au présent de habere.
Aş peut provenir tout simplement de la première personne du présent de habe-
re. Les linguistes se sont abondamment penchés sur l’origine de am, forme inno-
vée, mais apparemment sans se demander, quelle forme am a remplacé. Les lan-
gues romanes occidentales ont montré que la première personne de leur héritier
de habere rendait nécessaire de postuler l’existence en latin vulgaire de formes
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inattestées, telles que *ajo ou *ao ! Il est logique de penser que des formes popu-
laires autres que le classique habeo ont existé également dans les régions où le
roumain a pris naissance et que c’est leur héritier qui a été remplacé par am. Il
serait même étrange que seul le latin vulgaire dont est issu le roumain n’ait pas
connu une pareille forme ! Nous pensons aussi que l’existence de multiples issues
dialectales italiennes de *ajo étayent notre hypothèse. Il nous semble pouvoir pro-
poser pour aş cet étymon *ajo, dont l’évolution phonétique régulière aboutirait à
až 3. Il y aurait donc pour aş le problème d’une étape supplémentaire, irrégulière,
propre seulement à l’auxiliaire, l’évolution ž > š, également doublée d’un décala-
ge d’époque, car au XVIème siècle, on trouve déjà le mot noté comme [a_]. On
pourrait aussi penser à une perte de sonorité en position finale, l’auxiliaire étant
fréquemment postposé dans la langue ancienne.
En ce qui concerne ar, il est à relier à are, dont il provient. Nous pensons
avoir trouvé des raisons fonctionnelles pour étayer l’origine habuerit ou habue-
rint. Cela présente les avantages suivants. Nous savons avec certitude que l’héri-
tier du subjonctif parfait latin a vécu dans la langue et ce jusqu’au XVIIe siècle.
Cette forme, que la linguistique roumaine appelle “conditionnel synthétique”
(forme en -re), a fonctionné comme conditionnel (potentiel) et comme futur. Elle
est donc en affinité avec l’époque future. Le lien entre subjonctif et futur, propre
déjà à la langue latine, se manifeste en roumain moderne par la situation du sub-
jonctif dans le plan du futur. Le subjonctif parfait habueri(n)t nous paraît donc
convenir, du point de vue fonctionnel, en tant que forme virtuelle liée au futur. Cet
étymon a déjà été proposé, notamment par A. Rosetti, mais sans que ce linguiste
ait motivé son choix ou ait proposé une évolution phonétique.
Dans notre hypothèse, are se serait introduit dans le paradigme du présent,
par le biais de l’auxiliaire du futur, par le présent-futur lors de la réfection du pré-
sent de habere, sans doute à l’époque romane, où commençait la grammaticalisa-
tion des périphrases à l’origine du passé composé et du futur. Selon toute appa-
rence, dans cette fonction, la présence de are était appelée par la nécessité de don-
ner un signe spécial à la partie purement virtuelle du présent, qui allait participer
à l’expression du futur, ne contenant aucune part d’accomplissement ni d’accom-
pli. Or habuerit > are était justement un perfectum d’inaccompli, dont le caractè-

3 Par les étapes *ajo> adžu> až(u) >až. L’issue dž du yod initial de syllabe est régulière en
roumain.
106 ROMANA TIMOC-BARDY

re de virtualité était d’autant plus appuyé qu’il s’agissait d’un subjonctif 4. Dans
sa fonction d’auxiliaire, are s’est progressivement réduit à ar (à travers le stade
ară, attesté au XVIe siècle).
Nous deions, dans le cadre de ce travail, nous restreindre à ces quelques
remarques.
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3.2. Notre conception est également étayée par le témoignage de textes


anciens. Les attestations, à date ancienne, de l’actuel conditionnel, avec une
valeur de futur proprement dit – ou proches d’une telle valeur –, dans des contex-
tes qui aujourd’hui réclameraient nécessairement l’emploi du futur ont déjà été
signalées par Titova qui soutenait que aş cânta(re) devait être initialement «un
futur qui pose» (futur thétique). Voici un des exemples cités par Titova (1959:
568): “Ce folosu e omului să ară toată lumea dobândi iară sufletul deşerta-l-va?
(Ev. Matei, XVI, 26)”, littéralement: Que sert à l’homme s’il gagnera le monde
entier et si, dans le même temps, il perdra son âme?
À trente ans de distance, l’étude de C. Călăraşu (1987: 223-224), portant sur
l’emploi des temps verbaux dans des textes originaux roumains des XVIe-XVIIIe
siècles, arrive aux mêmes conclusions. Nous citerons, à partir de cette étude:

“Acesta să nevoia să – şi lăţească împărăţia neodihnindu-se ziua şi noap-
tea, gîndind în ce chip ar supune ţările.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Celui-ci s’efforçait d’agrandir son royaume, sans repos, jour et nuit,
pensant à la manière dont il soumettrait les pays.
“Socotind boierii pe cine ar pune domnu să fie de sămînţă domnească,
după obiceiul cel vechi al acestor ţări.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Les boyards considérant que celui qu’ils mettraient sur le trône devrait
être de souche princière, suivant la vieille coutume de ces pays.

Cet auteur considère que, à l’époque étudiée, le conditionnel présent ne s’é-


tait pas encore constitué comme forme spécifique pour marquer le caractère hypo-
thétique d’une action et que le processus de l’acquisition du sens modal par cette
forme n’allait s’achever pleinement qu’en roumain moderne (Călăraşu cit. 226).

4 Pour l’évolution formelle que nous supposons pour relier habuerit à are nous renvoyons,
comme ci-dessus, à Timoc-Bardy (1999: 361-367). Cette évolution est liée à la réfection des par-
faits et ferait que habuerit serait représenté en ancien roumain par deux formes: are étymolo-
gique, pénétré dans le paradigme du présent, et avure, analogique, continuant à fonctionner
comme subjonctif (“conditionnel synthétique” en linguistique roumaine) dans le système de
l’hypothèse.
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 107

“Striga cu toţii să fie Lupu vornicul, însă îi da şi legături, ce va lua den ţară,
ce s-ari lega pentru dări, atuncea, la acel ales”. (Călăraşu cit.: 224).

3.3.

Si aş cânta était initialement un futur, par quelle évolution est-il devenu condi-
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tionnel? Qu’est-ce qui le prédisposait à plus de virtualité que le futur voi cânta?
Dans la mesure où le paradigme voleo cantare remonte également au latin, on
peut se demander d’où vient alors le décalage chronologique que l’on observe
entre la constitution des paradigmes auxiliaires spécifiques des deux futurs, aş
cânta et voi cânta? Pourquoi le paradigme du premier est, déjà au XVIe siècle,
complètement constitué, alors que les formes du second ne sont pas encore bien
séparées de celles du verbe plein?
Pour répondre à cette question, on peut faire remarquer que la situation de ces
deux auxiliaires n’est pas la même. Pour a avea, il y avait un triple problème: la créa-
tion des deux paradigmes auxiliaires pour séparer la partie passée du présent de la
partie future et en même temps la réfection du présent du verbe plein. Il y a tout lieu
de penser que ce problème a dû être réglé très tôt pendant la phase romane, lorsque
s’est institué le nouveau système verbal et qu’ont été créées les positions clés de ce
système: la structure du présent et le nouvel axe passé-présent-futur reposant sur l’u-
tilisation de l’auxiliaire habere, lequel assure la subséquence du verbe aussi bien en
direction du passé qu’en direction du futur. Pour a vrea, le problème était plus sim-
ple. Il s’agissait seulement de redonner un paradigme au verbe plein, puisque le pré-
sent de voleo se spécialisait pour ne dire que la partie future du présent en tant
qu’auxiliaire du futur. L’on peut présumer que le glissement du futur aş cânta à la
valeur de conditionnel (futur modal) a pu se produire à peu près dans les conditions
suivantes: le futur voi cânta, plus récemment grammaticalisé, s’imposait comme futur
qui pose. À mesure que son degré de grammaticalisation avançait, il “poussait” aş
cânta vers un supplément de virtualité. Ce processus a dû être favorisé pour le fait que
le paradigme aş s’était – par la plupart de ses formes – détaché du paradigme pro-
prement dit du présent, ce qui le prédisposait à l’expression du virtuel. La flexion de
a vrea auxiliaire était encore identique à celle du verbe plein, donc repérable en tant
que présent. Le futur voi cânta pouvait donc rester plus facilement ancré dans le réel.
Parallèlement, ce glissement est à mettre en rapport avec un autre fait: la déli-
quescence du subjonctif en -re, anciennement utilisé dans l’expression de l’hypo-
thèse. Faut-il voir entre ces deux réalités une relation de cause à effet? Est-ce la
faiblesse du conditionnel en -re appelant une forme de remplacement qui a déter-
miné le glissement du futur aş cânta, ou est-ce le glissement de ce futur vers la
virtualité – amorcé, de toute manière, bien avant le XVIe siècle – qui a éliminé
l’ancien conditionnel en -re? Ce qui paraît évident, c’est que les deux phénomè-
nes sont complémentaires l’un de l’autre et que, par la disparition de la forme en
-re, un nouvel équilibre s’est installé.
108 ROMANA TIMOC-BARDY

3.4.

Le roumain présente donc l’originalité d’avoir spécialisé un ancien futur pro-


prement dit aux fonctions de conditionnel.
Du point de vue des formes qui expriment le futur, nous pouvons constater en
revanche que l’italien et le roumain ont procédé d’une manière analogue. La res-
semblance se manifeste à un niveau conceptuel, à savoir dans la façon de consi-
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dérer l’époque future: le futur est un infectum de futur en italien, et le condition-


nel un perfectum, comme l’indique leur morphologie (présent ou bien passé sim-
ple de l’auxiliaire), ce qui, comme l’a montré ici la communication d’Alvaro
Rocchetti, a d’importantes conséquences, notamment dans l’expression de l’hy-
pothèse. De la même manière, en roumain, voi cânta est un infectum de futur, et
aş cânta, qui est le plus virtuel, est un perfectum de futur. Cela relève d’une
conception du futur commune à ces deux langues, et qui tient compte de la spéci-
ficité de ce temps: plus une action est plongée dans le futur, plus elle contient
d’hypothèse. Mais, pour le roumain, où l’expression du futur se fait par morpho-
logie externe (forme composée), la notion de perfectum et d’infectum de futur
nous paraît applicable uniquement au sens de la hiérarchisation des deux formes
aş cânta et voi cânta, l’une par rapport à l’autre.
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 109

BIBLIOGRAPHIE SÉLECTIVE

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Bourciez Edouard, 1967, Eléments de linguistique romane, Paris, Klincksieck.
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+++ Gramatica limbii române, 1966, Bucureşti, Editura Academiei R.S.R.
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PARTE SECONDA
«STUDI SINCRONICI»
Conferenza Introduttiva

PIER MARCO BERTINETTO


(Scuola Normale Superiore, Pisa)

Sulle proprietà tempo-aspettuali dell’Infinito in italiano


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Per Theo Vennemann

1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI1

Sull’Infinito italiano esistono importanti studi di carattere descrittivo (Skytte


1983; Skytte et al. 1991), che hanno validamente dissodato il terreno, facilitando
il compito per chi voglia riavventurarsi in questo comparto della grammatica. Mi
sembra tuttavia di poter affermare che non esista, a tutt’oggi, un tentativo siste-
matico di riassumere le proprietà tempo-aspettuali di questa forma verbale, nono-
stante le molte osservazioni disseminate nei lavori disponibili (in particolare, i due
studi sopra citati)2. Lo scopo del presente lavoro sarà dunque quello di affrontare
per la prima volta la questione.
Mi pare necessario premettere che, nel far ciò, mi proporrò soprattutto di for-
nire un’esemplificazione il più possibile rappresentativa dei diversi usi tempo-
aspettuali dell’Infinito, senza ambire ad una trattazione esauriente e lasciando da
parte il problema della classificazione organica degli impieghi sintattici. Circa
questi ultimi, mi rifarò a precedenti tentativi di classificazione, traendo spunto
soprattutto dal lavoro di Pérez Vázquez (2001), che si ispira a sua volta a
Delbecque / Lamiroy (1999). Mi accontenterò dunque di mostrare la gamma di
possibilità tempo-aspettuali che si aprono all’Infinito, anche in rapporto alle inte-

1 Nel preparare questo lavoro mi sono avvalso dei suggerimenti di Mario Squartini e di
Valentina Bianchi, cui va la mia gratitudine.
Per comodità del lettore, fornisco qui l’elenco delle abbreviazioni usate nel testo: IFC =
Infinito Composto; IFS = Infinito Semplice; ME = momento dell’enunciazione; MR = momen-
to di riferimento. Inoltre, per le valenze azionali: [a] = ‘attività’, [a/c] = ‘attività/conseguimen-
to’ (tipo azionale misto), [c] = ‘conseguimento’, [i] = incrementativo, [r] = ‘realizzazione’, [s]
= stativo, [s’] = ‘stativo [+controllo]’ (del tipo stare/restare/rimanere seduto, che ammette
l’Imperativo pur rifiutando la perifrasi progressiva, con ciò mostrando il mantenimento di un
certo margine di agentività; cf. Bertinetto 1986, § 4.1.2)).
2 Non vanno dimenticati comunque gli studi dedicati alla Concatenazione dei Tempi (in
particolare, Vanelli 1991), che toccano anche questioni attinenti l’uso dell’Infinito. E si veda
anche Berretta (1990), relativamente all’acquisizione dell’Infinito italiano in L2.
114 PIER MARCO BERTINETTO

razioni tra valenze aspettuali ed azionali3. Semmai, si potrà osservare – quale sot-
toprodotto dell’analisi – come le classificazioni su base sintattico-semantica risul-
tino non di rado sfuocate rispetto al comportamento tempo-aspettuale: ad un iden-
tico assetto sintattico possono corrispondere proprietà tempo-aspettuali fortemen-
te diversificate, e viceversa. Tuttavia, data la complessità della materia e la natu-
ra puramente esplorativa di questo saggio, non mi azzarderò a mettere in mutua
relazione i due ambiti. Un siffatto lavoro, e non è certo impresa da poco, resta
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tutto da fare (ma vedi intanto Bianchi 2001).


Una cosa si può comunque dare per assodata: l’uso dell’Infinito Composto
(IFC) implica sempre, necessariamente, il valore aspettuale di ‘compiutezza’,
così come esso è definito in Bertinetto (1986), dove si osserva che la compiutez-
za è valutabile in rapporto ad un ‘momento di riferimento’ (MR) contestualmen-
te dato, da intendersi precipuamente come ‘stato risultante’ (cf. la nozione di
‘Perfect’ nella grammatica inglese). L’IFC è dunque una forma assolutamente uni-
voca dal punto di vista aspettuale4. E lo stesso si può dire per quanto riguarda il
punto di vista temporale, nonostante il fatto che l’IFC sia del tutto privo di auto-

3 Circa la definizione delle nozioni di Aspetto ed Azionalità, mi limiterò qui a rimandare


alla trattazione contenuta in Bertinetto (1986; 1997).
4 Per chi avesse familiarità coi miei studi precedenti, potrà emergere a questo proposito un
dubbio circa l’effettiva interpretazione aspettuale di IFC come quelli in (i):
(i) Marco si ricordava di essere uscito alle 5.
dove l’avverbio temporale localizza con precisione il momento dell’avvenimento, anziché indi-
care il MR. Si confronti, a verifica, quanto accade negli esempi seguenti:
(ii) a. Alle 5, Marco era uscito.
b. Marco era uscito alle 5.
In (ii,a), l’avverbiale temporale indica di preferenza il MR; in (ii,b), invece, ciò che viene
designato è il momento dell’avvenimento, esattamente come in (i). È dunque lecito sospettare che
il Piucheperfetto di (ii,b) – così come l’IFC di (i) – esprima un valore aspettuale parzialmente
connotato da ‘aoristicità’, piuttosto che un valore di compiutezza in senso stretto. Tuttavia, va
subito precisato che non si tratta di pura ‘aoristicità’, poiché nei casi appena citati è possibile far
emergere il valore di compiutezza, arricchendo opportunamente il contesto, come in (iii,a), in
modo da fornire un plausibile MR. Per contro, (iii,b) mostra che ciò non può accadere con altret-
tanta naturalezza col Passato Semplice, un Tempo di natura squisitamente aoristica:
(iii) a. Erano le 7. Marco era uscito alle 5. Elina aspettava con impazienza.
b. ?? Erano le 7. Marco uscì alle 5. Elina aspettava con impazienza.
Ora, si noti che, in parziale analogia con (iii,a), possiamo avere:
(iv) Alle 7, Marco prese improvvisamente coscienza di essere uscito alle 5, anziché
alle 4; non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto sbagliare a leggere l’o-
rologio.
Anche in questo caso non abbiamo dunque a che fare con l’aoristicità propriamente detta,
bensì appunto con un’accezione debole dell’aspetto compiuto, in cui la compiutezza (ossia, lo
‘stato risultante’ al MR) viene messa in secondo piano – ma non certo annullata – rispetto alla
localizzazione dell’evento.
Non si confondano comunque questi usi aspettualmente ‘deboli’ con gli usi autenticamen-
te aoristici del Piucheperfetto, assai più rari e stilisticamente marcati, studiati in Bertinetto
(1999).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 115

noma capacità di designazione a tale livello (ma questa, come vedremo, è una
caratteristica di tutte le forme non finite del verbo). L’informazione temporale tra-
smessa dall’IFC si riflette nel valore retrospettivo – ossia di anteriorità non deit-
tica – associabile all’aspetto compiuto; quanto all’effettiva collocazione dell’e-
vento sull’asse temporale, in rapporto al ‘momento dell’enunciazione’ (ME), essa
dipenderà da fattori strettamente contestuali, ossia dalla collocazione del MR. Si
veda infatti come, nell’esempio seguente, l’IFC esprima compiutezza – e dunque
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retrospettività – in rapporto ad un MR situato rispettivamente nel passato (cf. 1a),


nel presente (cf. 1b), nel futuro (cf. 1c):

(1) a. Gianna pensò di aver fatto bene.


b. Gianna pensa di aver fatto bene.
c. Gianna penserà di aver fatto bene.

Sarà bene prevenire un fraintendimento: il MR non viene creato dalle forme


verbali contenute nelle proposizioni reggenti (cf. pensò, pensa, penserà in 1). Esso
viene autonomamente proiettato dall’IFC, come accade con tutte le forme che
esprimono compiutezza. Tuttavia, esso ha bisogno di un ancoraggio contestuale,
non potendosi collocare autonomamente sull’asse temporale. Tale compito è
appunto svolto, negli esempi citati, dal Tempo della principale, che essendo dota-
to di autonoma capacità deittica è in grado di precisare la collocazione del MR.
Questo fa sì che, pur nella comune interpretazione retrospettiva, l’evento indicato
dall’IFC sia situato nel passato in (es. 1a-b), e possieda invece una collocazione
indeterminata in (1c), dove può situarsi tanto prima quanto dopo il ME.
L’Infinito Semplice (IFS) è invece una forma polivalente. Dal punto di vista
temporale, può esprimere simultaneità, prospettività, e perfino (sia pure eccezio-
nalmente, come vedremo) retrospettività. È bene ribadire che neppure l’IFS pos-
siede un’autonoma capacità designativa; al contrario, la deriva dal contesto. Esso
instaura dunque, inevitabilmente, una designazione temporale non deittica, come
mostra la stessa terminologia qui adottata (‘retrospettivo / simultaneo / prospetti-
vo’, invece di ‘passato / presente / futuro’). A riprova, si considerino i seguenti
esempi, da cui si evince che l’orientamento dell’IFS – in simili contesti – resta
sempre prospettivo, indipendentemente dalla collocazione, in rapporto al ME,
dell’evento designato dall’IFS:

(2) a. Gianna pensò di rientrare a casa.


b. Gianna pensa di rientrare a casa.
c. Gianna penserà di rientrare a casa.

È importante, a questo proposito, riflettere sull’interpretazione temporale


dell’IFS dipendente da un Tempo perfettivo passato. Come mostrerò nel seguito,
benché l’interpretazione retrospettiva sia effettivamente accessibile anche a que-
sta forma verbale, si tratta pur sempre di una circostanza molto rara e dunque –
116 PIER MARCO BERTINETTO

almeno in senso statistico – piuttosto marginale. Tuttavia, con certi verbi reggen-
ti (si veda, in proposito, 3a) si può erroneamente credere che l’IFS possieda un
orientamento retrospettivo, laddove un esame più accurato rivela una situazione
ben diversa. Si tratta di una sorta di ‘illusione ottica’: l’orientamento è in realtà
prospettivo, come si può evincere da (3b), dove il semplice uso del Futuro nella
principale – in accezione, si badi, perfettiva – annulla l’apparente retrospettività
di (3a):
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(3) a. Piero dimenticò di spegnere il gas.


b. Piero dimenticherà certamente di spegnere il gas.

Evidentemente, il miraggio di retrospettività in (3a) dipende dal riferimento


temporale passato del Tempo reggente. Poiché l’intero contesto si colloca ante-
riormente al ME, può sorgere la fallace impressione che l’IFS designi uno stadio
temporale anteriore a quello indicato dalla principale. Ad ulteriore conferma di
quanto detto, ed a titolo di opportuna ginnastica mentale in vista di ciò che
seguirà, si considerino i seguenti enunciati:

(4) a. Piero pensa che è sconveniente uscire alle 5.


b. Piero pensa che sia sconveniente uscire alle 5.
c. Piero pensa che era sconveniente uscire alle 5.
d. Piero pensava / pensò che fosse sconveniente uscire alle 5.
e. Piero pensa che sarà sconveniente uscire alle 5.
f. Piero pensa che fu sconveniente uscire alle 5.
g. Piero pensa che sia stato sconveniente uscire alle 5.
h. Piero pensava / pensò che fosse stato sconveniente uscire alle 5.

Si consideri soprattutto l’interazione tra l’IFS ed il Tempo della prima dipen-


dente (in corsivo), da cui l’IFS dipende a sua volta. Laddove tale Tempo è imper-
fettivo ed esprime inoltre simultaneità rispetto al Tempo della principale (cf. a, b,
d), l’interpretazione dell’IFS oscilla tra simultaneità e prospettività, con preferen-
za per quest’ultima. Per es. in (4a) Piero può alternativamente: (i) pensare, nel
momento stesso in cui sta uscendo (ovvero, alle 5), che sia sconveniente farlo
(simultaneità), oppure: (ii) pensare ora che sarà sconveniente uscire all’ora indi-
cata (prospettività). In tutti gli altri casi, l’IFS esprime unicamente simultaneità
rispetto al tempo da cui dipende sintatticamente, ossia quello della prima dipen-
dente. Per esempio, in (4c), il giudizio di sconvenienza emesso da Piero si riferi-
sce al momento in cui l’evento espresso all’IFS si è verificato; pertanto, la clau-
sola infinitivale, pur designando un evento passato (cioè anteriore al ME), non può
indicare un evento autenticamente retrospettivo, ossia anteriore al momento indi-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 117

viduato dal Tempo che regge l’IFS5. Di tutto ciò occorrerà tener conto nell’inter-
pretazione degli esempi che seguiranno, per non cadere nella trappola di scam-
biare per retrospettività tutti i casi di anteriorità rispetto al ME. Ciò che conta, per
definire l’orientamento temporale dell’IFS, non è la collocazione deittica dell’e-
vento espresso da tale forma, bensì la sua collocazione rispetto all’ancoraggio
temporale (che, negli esempi qui considerati, è fornito dal Tempo Verbale della
prima clausola dipendente).
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Quanto alla dimensione aspettuale, l’IFS può esprimere valore perfettivo o


imperfettivo, a seconda del contesto. Dunque, persino la valenza aspettuale, a dif-
ferenza di quella dell’IFC, non è predefinita. Ciò non significa, tuttavia, che essa
sia del tutto neutra. L’IFS è, in pratica, in distribuzione complementare rispetto
all’IFC. Ad esso resta preclusa, tra le accezioni perfettive, la valenza di ‘compiu-
tezza’ (riservata all’IFC), mentre risulta accessibile la valenza ‘aoristica’, che a
giusto titolo potrebbe definirsi come la quintessenza della perfettività, ovvero – se
si preferisce – come “perfettività senza compiutezza” (secondo l’analisi dei fatti
tempo-aspettuali proposta in Bertinetto 1986). Risultano inoltre accessibili, per
quanto attiene al comparto dell’imperfettività, le valenze progressiva e continua
(con l’esclusione, come sotto verrà argomentato, di quella abituale).
Ciò comporta un’immediata conseguenza. Nel caso dell’IFC, l’interpretazio-
ne tempo-aspettuale dipende crucialmente (come già sottolineato) dalla presenza
del MR proiettato da tale forma verbale, nonché dalla collocazione (contestual-
mente determinata) del MR stesso. Nel caso invece dell’IFS, l’interpretazione
tempo-aspettuale dipende da complesse interazioni tra fattori pragmatici e seman-
tici. Questi ultimi vanno identificati, almeno per quanto riguarda le strutture intro-
dotte da verbi: (a) nella semantica lessicale del verbo reggente; (b) nella valenza
aspettuale ad esso attribuita; (c) nel tipo azionale cui appartengono quest’ultimo
e l’Infinito. Il risultato di questa interazione (sempre condizionata, sarà opportu-
no ribadirlo, da imprescindibili fattori pragmatici) è appunto ciò che ci porta a
costruire – anche solo come interpretazione privilegiata – una determinata rap-
presentazione temporale, cui corrisponderà una precisa sequenza di eventi.
Per coloro che non sono sufficientemente addentro alle questioni concernen-
ti l’analisi tempo-aspettuale, la distinzione sopra accennata per quanto riguarda la
struttura dell’IFS e dell’IFC potrà apparire sottile; tuttavia, sul piano teorico ed
empirico le differenze sono cospicue. Non potendo attardarmi eccessivamente su

5 Si badi bene, però: il fatto che il giudizio di sconvenienza si applichi al momento in cui
l’evento si è verificato, non significa che il protagonista dovesse esserne consapevole in quel
medesimo momento. Piero potrebbe infatti essersi accorto solo in seguito che l’atto di uscire alle
5 era sconveniente; e tuttavia, ciò non toglie che tale atto fosse sconveniente già al momento in
cui si è verificato. Qui non conta la prospettiva soggettiva del protagonista, interna all’evento nel
suo compiersi, ma il carattere obiettivo dell’evento stesso.
118 PIER MARCO BERTINETTO

questo punto (ma si veda di nuovo Bertinetto 1986), mi limiterò a fornire una suc-
cinta esemplificazione, attingendo da fatti inerenti all’uso del Gerundio, in cui si
osserva un analogo contrasto tra forma Semplice e forma Composta. Come nota
Solarino (1996) – sull’impianto della cui analisi concordo, al di là di dissensi rela-
tivamente marginali (ma su ciò mi riprometto di tornare in altra sede) – il
Gerundio Semplice dell’italiano può esprimere, a seconda del contesto ed al pari
dell’IFS, retrospettività (cf. 5a), simultaneità (cf. 5b-c) e prospettività (cf. 5d)
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(occorre appena ribadire che le interpretazioni qui suggerite non sono necessaria-
mente le uniche, ma soltanto le più salienti):

(5) a. Studiando con accanimento (E1), Leo ottenne la promozione


(E2) [retrospettività di E1 rispetto a E2].
b. Passeggiando (E1), Leo incontrò Veronica (E2) [inclusione di
E2 in E1].
c. Passeggiando (E1), Leo parlava con Veronica (E2) [contempo-
raneità di E1 ed E2].
d. Il presidente Bush si fece andare di traverso un salatino (E1)
perdendo coscienza (E2), al punto di cadere a terra e battere
violentemente il capo [prospettività di E2 rispetto a E1].

Si noti, innanzi tutto, la natura non deittica di queste designazioni temporali.


Il Gerundio di (5a) designa un evento anteriore al ME (e dunque passato), mentre
quello di (5e) qui sotto indica – secondo la lettura più ovvia – un evento poste-
riore al ME (ossia futuro), pur mantenendo il proprio valore retrospettivo rispetto
all’evento della principale, che funge in entrambi i casi da ancoraggio temporale.
Considerazioni analoghe si possono fare per (5f) in confronto con (5d):

(5) e. Studiando con accanimento, Leo otterrà la promozione.


f. Leo si metterà davanti alla TV (E1), addormentandosi (E2)
come al solito quasi subito.

Ciò conferma quanto sopra affermato circa l’assenza di intrinseche connota-


zioni temporali nelle forme semplici non finite del verbo. Ma, per tornare al pro-
blema dell’aggancio temporale, si noti ora la differenza tra Gerundio Semplice e
Gerundio Composto:

(6) a. Studiando con accanimento (E1), Leo sarà promosso (E2).


b. Avendo studiato con accanimento (E1), Leo sarà promosso (E2).

Benché entrambi gli enunciati esprimano retrospettività, il contrasto è tangibile.


In (6a) si ha mera anteriorità di E1 rispetto a E2 (che funge da ancoraggio temporale),
mentre in (6b) l’anteriorità espressa dal Gerundio Composto può essere interpretata in
due modi diversi, a seconda della collocazione del MR. Quest’ultimo può infatti coin-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 119

cidere con: (i) il ME; (ii) un non meglio precisato momento futuro, ovviamente situa-
to prima di E2. La facoltà di agganciarsi al ME, preclusa al Gerundio Semplice, dipen-
de crucialmente dalla già notata proprietà del Gerundio Composto di proiettare auto-
nomamente un MR, rispetto a cui si instaura uno stato risultante (o di compiutezza).
Quando il contesto non fornisce altre indicazioni, il MR tende ad ancorarsi al ME.
Da quanto sono venuto esponendo fin qui, si possono trarre alcune conclu-
sioni, alla conferma delle quali – limitatamente al comportamento dell’Infinito –
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saranno dedicati i prossimi paragrafi. Le forme non finite composte (Infinito e


Gerundio Composti) – ma anche, aggiungo ora, il Participio Perfetto – sono uni-
vocamente orientate ad esprimere l’aspetto compiuto, benché non di rado in
forma aspettualmente debole (cf. la nota 4). Ciò comporta un obbligato orienta-
mento retrospettivo dal punto di vista temporale. Le forme non finite Semplici
(Infinito e Gerundio Semplici, con l’esclusione del Participio Imperfetto ormai
desueto6) sono invece aperte ad una molteplicità di letture: aspettualmente, pos-
sono indicare valore imperfettivo (progressivo o continuo) e perfettivo-aoristico;
temporalmente, possono ricevere interpretazione di simultaneità, prospettività, e
(specie col Gerundio Semplice, ma in misura marginale anche coll’IFS) retro-
spettività. È dunque evidente che – dal punto di vista tempo-aspettuale – esistono
due soli tratti costanti, comuni a tutte le forme non finite:

(a) l’orientamento temporale non deittico;


(b) l’univocità aspettuale – e derivatamente temporale – delle forme
Composte (e del Participio Perfetto).

Passo ora all’esemplificazione del comportamento dell’Infinito, sofferman-


domi soprattutto sugli usi della forma Semplice, data l’assoluta aproblematicità di
quella Composta. L’univocità di quest’ultima ci fornirà comunque un valido punto
di riferimento per l’analisi.

2. L’INFINITO DIPENDENTE DA VERBI

2.1. Orientamento prospettivo

Poiché un’opinione vulgata, basata su un affrettato confronto coll’IFC, tende


ad assegnare all’IFS il valore prospettivo come interpretazione temporale privile-
giata, prenderò le mosse da tale accezione. Essa si ritrova tipicamente nell’IFS
retto da verbi volitivi (volere, desiderare; cf. 7) e causativi (obbligare, proibire,
ordinare, promettere, supplicare, suggerire etc.; cf. 8), nonché nelle seguenti pro-

6 Circa la natura di relitto del Participio Imperfetto, cf. Luraghi (1999).


120 PIER MARCO BERTINETTO

posizioni infinitivali: finali (cf. 9), relative (cf. 10), interrogative indirette (cf.
11)7, temporali introdotte da prima di (cf. 12).
Prima di esaminare gli esempi, sarà utile fornire qualche indicazione circa la strut-
tura degli enunciati, che verrà prevalentemente mantenuta anche nel seguito. Gli
esempi contrassegnati dalla sigla ‘S’ contengono degli IFS, mentre quelli contrasse-
gnati da ‘C’ contengono degli IFC. Inoltre, ovunque possibile, il verbo reggente è pre-
sentato sia all’Imperfetto (per lo più in accezione continua8), sia al Passato Semplice
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(aspetto aoristico). Infine, i predicati all’Infinito esemplificano le quattro fondamenta-


li accezioni azionali vendleriane (Vendler 1967), nel seguente ordine: ‘stativo’, ‘atti-
vità’, ‘conseguimento’ (= achievement), ‘realizzazione’ (= accomplishment)9.
Non sarà vano richiamare ad un opportuno esercizio di cautela, soprattutto
per quanto riguarda l’ultimo punto: l’accettabilità o meno di una determinata
valenza azionale, in un certo contesto, può dipendere da sottili condizionamenti
pragmatici, che andrebbero verificati sulla base di un’esemplificazione molto più
ampia di quella che potrò esibire10. Occorre insomma rendersi conto che la clas-
sificazione vendleriana, benché utile per una valutazione orientativa dei dati, pre-
senta maglie troppo larghe rispetto al problema qui discusso. Dovremo dunque
accontentarci (ma questo vale in generale, non solo per l’interpretazione dei fatti
azionali) di estrarre delle indicazioni di tendenza, piuttosto che ferree regolarità.
Nella seguente batteria di esempi, l’unica restrizione di natura azionale
riguarda la tendenziale esclusione dei verbi stativi in (8/S, 11/S, 12/S), verosimil-
mente dovuta al tenore complessivamente agentivo di molti di questi contesti. Se
tuttavia (come mi suggerisce Mario Squartini) questo tratto viene in qualche
modo neutralizzato, anche gli stativi possono risultare accettabili, com’è dimo-
strato da (12/S’). Va del resto segnalato che gli stativi sono in alcuni casi compa-
tibili con la lettura simultanea: per es., in (7/S) l’intenzione di essere scostante ed
il relativo comportamento possono largamente sovrapporsi. Quest’ultima osser-

7 L’orientamento prospettivo delle interrogative indirette non è peraltro generalizzato.


Come mi fa notare Valentina Bianchi, esso non vale con le proposizioni introdotte da perché, che
possono anche avere orientamento retrospettivo:
(i) Mi chiedo perché arrabbiarsi in questo modo. Avresti almeno potuto tener
conto delle attenuanti.
8 Per sottolineare tale lettura aspettuale, molti esempi sono introdotti dall’avverbiale a quel
tempo; per segnalare invece la lettura progressiva, si userà – ove necessario – l’avverbiale a quel
punto.
9 Per una discussione approfondita di questa materia, rimando a Bertinetto (1986, cap. 2;
1997, cap. 2)
10 Per dare una sia pur vaga idea del problema, si considerino i seguenti enunciati, in cui
l’IFS è invariabilmente costituito da un ‘conseguimento’. Come si noterà, il grado di accettabi-
lità dei predicati impiegati varia significativamente in ragione della presenza di un modificatore
avverbiale appropriato:
(i) Meo sospettava di *partire / partire troppo presto / ??incontrare Emma / incon-
trare Emma nel posto meno adatto.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 121

vazione potrebbe forse essere estesa ai verbi atelici in generale, dato che la
sovrapposizione temporale potrebbe verificarsi, nel medesimo enunciato, anche
con il predicato di ‘attività’ disegnare; ma in tal caso si rende probabilmente
necessaria la focalizzazione del verbo reggente, il che fa una differenza. Sul piano
aspettuale, è poi da notare la scarsissima accettabilità dell’aspetto perfettivo nella
principale di (11/S). Per il resto, si può osservare una generalizzata agrammatica-
lità dell’IFC (ma cf. la nota 14)11.
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(7) S Quel giorno, Elio voleva / volle essere scostante / disegnare


/ incontrare Anna / mangiare una mela.
C * Quel giorno, Elio voleva / volle essere stato scostante / aver
disegnato / aver incontrato Anna / aver mangiato una mela.
(8) S Quel giorno, Ugo suggeriva / suggerì di ??essere a casa / dor-
mire a lungo / incontrare Anna / mangiare una mela.
C * Quel giorno, Ugo suggeriva / suggerì di essere restato a casa
/ aver dormito a lungo / aver incontrato Anna / aver mangiato
una mela 12.
(9) S Quel giorno, Marta gli chiese l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la
spesa più in fretta.
C * Quel giorno, Marta gli chiese l’auto per essere stata in tempo
all’appuntamento / aver dormito più a lungo / aver incontrato
Lapo / aver fatto la spesa più in fretta.
(10) S Ezio cercava / cercò un luogo dove rimanere per il week-end /
studiare / incontrare la zia / fare colazione.
C * Ezio cercava / cercò un luogo dove essere rimasto per il
week-end / aver studiato / aver incontrato la zia / aver fatto
colazione.
(11) S Quel giorno, Gino ignorava / *ignorò dove ??rimanere per il
week-end / esaminare le sue carte/ incontrare la zia / fare cola-
zione.

11 Qui, come in seguito, gli esempi sono introdotti dall’avverbiale quel giorno, allo scopo
di escludere la possibile intrepretazione abituale dell’Imperfetto nella reggente. La ragione di
questa mossa diverrà chiara tra breve, quando discuterò il problema dell’abitualità.
Si tenga presente che la comparsa di un diacritico all’inizio dell’enunciato indica diffusi
problemi di agrammaticalità, mentre i problemi di accettabilità riferibili a singole valenze azio-
nali od aspettuali sono segnalati subito prima della forma incriminata.
12 L’accettabilità degli stativi diventa piena nel caso degli ’stativi [+controllo]’; cf. ad es.
(10/S). Va tuttavia notato – e sia detto qui una volta per tutte – che questi ultimi sono stativi
impropri, come osservato nella nota 1).
122 PIER MARCO BERTINETTO

C * Quel giorno, Gino ignorava / ignorò dove essere rimasto per


il week-end / aver esaminato le sue carte / aver incontrato la
zia / aver fatto colazione.
(12) S Quel giorno, prima di ??essere scostante / dormire nel proprio
letto / incontrare Edo / dipingere la parete, Claudia verificò
che non ci fossero alternative13.
C * Quel giorno, prima di essere stato scostante / aver dormito
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nel proprio letto / aver incontrato Edo / aver dipinto la parete,


Claudia verificò che non ci fossero alternative.
S’ Quel giorno, prima di essere scostante, Claudia fu anche cafona.

Una variante dell’accezione prospettiva è costituita dal senso imminenziale,


osservabile nelle temporali introdotte da al momento di (13):

(13) S Quel giorno, al momento di restare assente / dormire nel pro-


prio letto / incontrare Edo / dipingere la parete, Gina verificò
che non ci fossero alternative.
C * Quel giorno, al momento di essere restata assente / aver dor-
mito nel proprio letto / aver incontrato Edo / aver dipinto la
parete, Genoveffa verificò che non ci fossero alternative.

In tutti questi esempi, il tratto saliente sembra essere la sostanziale inaccettabilità


dell’IFC. Mi esprimo con una certa cautela, dato che la situazione può subire lievi ma
significative variazioni in ragione di specifiche scelte lessicali, come mostra il seguen-
te esempio di IFC retto da un verbo volitivo diverso da quello di (7/C), in cui mi pare
che l’accettabilità aumenti qualora si ponga un accento enfatico sul verbo reggente, e
più ancora se si assegna valore controfattuale all’Imperfetto14:

(14) ? Quel giorno, Elio DESIDERAVA / DESIDERÒ essere stato al


centro dell’attenzione / aver dormito bene / aver incontrato Amil-
care / aver fatto una sauna.

13 In questo caso non ho usato l’Imperfetto nella principale, perché l’aspetto imperfettivo
presuppone un intervallo aperto, mentre qui l’evento della principale deve necessariamente chiu-
dersi prima dell’inizio della subordinata temporale. Per ragioni tutto sommato analoghe si
incontrano qui forti restrizioni con gli stativi, e con certi verbi di attività, in quanto l’evento della
subordinata deve avere un inizio nettamente individuabile, onde fornire un inequivocabile ter-
mine ante quem, che eviti la sovrapposizione temporale con l’evento della principale; ma que-
sto non è sempre compatibile con gli stativi, che tendono ad avere contorni temporali sfumati.
14 Si noti, del resto, che l’IFC diventa pienamente accettabile coi volitivi retti da un
Condizionale controfattuale:
(i) Quel giorno, Elio avrebbe voluto essere stato scostante / aver dormito a lungo /
aver incontrato Anna / aver mangiato una mela, ma si rendeva conto che le cose
erano andate diversamente da come aveva ipotizzato.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 123

Non c’è dubbio, tuttavia, che la tendenza generale vada verso il rifiuto
dell’IFC; il che non desta sorpresa, considerata la spiccata ipoteca retrospettiva di
tale forma. Da ciò non si può peraltro concludere che all’orientamento prospetti-
vo dell’IFS si accompagni obbligatoriamente l’ostracismo verso l’IFC. Ciò è
dimostrato per es. dai casi di Infinito retto da verbi dichiarativi (dire, affermare,
dichiarare, certificare, giurare, narrare, rimproverare etc.; cf. 15), in cui l’orien-
tamento prospettivo dell’IFS può convivere con quello retrospettivo dell’IFC; si
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vedano, al riguardo, le osservazioni riepilogative esposte in § 4):

(15) S Quel giorno, Ezio dichiarava / dichiarò di essere nel giusto /


dormire da sua zia / incontrare Amilcare alle 5 / scrivere la
relazione entro il giorno seguente.
C Quel giorno, Ezio dichiarava / dichiarò di essere stato nel giu-
sto / aver dormito da sua zia / aver incontrato Amilcare alle 5
/ aver scritto la relazione.

Si noti comunque che l’IFS stativo di (15/S) riceve una netta interpretazione
di simultaneità, che può emergere anche con certi verbi di ‘attività’ (cf. disegnare
con gusto). Per contro, gli IFS dei verbi eventivi di (15/S) mantengono un orien-
tamento generalmente prospettivo, benché l’uso di questi predicati subisca restri-
zioni di ordine pragmatico. In effetti, (15/S) migliora qualora si introduca il verbo
volere (cf. dichiarò di voler dormire da sua zia)15.
Occorre a questo punto interrogarsi sul valore aspettuale degli IFS contenu-
ti negli enunciati esaminati in questo paragrafo, ferma restando invece la sconta-
ta interpretazione degli IFC (ove essi siano ammessi). Ovunque emerga una let-
tura chiaramente prospettiva, e dunque con l’esclusione dei pochi casi accessibi-
li alla lettura simultanea (prevalentemente ascrivibili agli stativi), l’IFS assume
valore perfettivo, che costituisce il tratto non marcato per le accezioni prospetti-
ve e futurali. È infatti evidente che nel concepire prospettivamente, a partire da
un momento dato, lo svolgimento di un evento, se ne ‘intravede’ globalmente il
compiersi.

15 Tra i verbi dichiarativi che reggono l’Infinito, merita segnalare il caso di dire, che mani-
festa un comportamento ambivalente (Skytte et al. 1991: 489):
(i) Gianni disse a Giorgioi di PROi uscire
(ii) Giannii dice di partire PROi domani.
Benché l’orientamento sia prospettivo in entrambi i casi, (i) esprime senso iussivo, (ii)
senso intenzionale.
124 PIER MARCO BERTINETTO

2.2. Excursus sui contesti di abitualità

Sempre in merito all’interpretazione aspettuale, c’è da osservare che l’IFS può


comparire in contesti di abitualità, indotti dal Tempo imperfettivo della principale:

(16) Ogni giorno, Marta gli chiedeva l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
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più in fretta.

Occorre tuttavia interrogarsi sull’effettivo valore aspettuale dell’IFS in questi


casi. Il fatto che il contesto complessivo sia abituale non costituisce di per sé un
argomento dirimente per attribuire questa interpretazione all’Infinito. Si conside-
ri l’esempio seguente, in cui la principale contiene un Tempo aoristico che acqui-
sisce interpretazione iterativa per via dell’avverbiale reiterativo:

(17) Ogni giorno, Marta gli chiese l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
più in fretta.

Il Tempo della reggente in (17) non possiede autentico valore abituale, dal
momento che l’interpretazione iterativa è un mero effetto contestuale indotto dal-
l’avverbiale (mentre, per converso, la lettura abituale potrebbe mantenersi in (16)
anche senza il sussidio dell’avverbiale iterativo). Il Passato Semplice di (17) con-
serva insomma il proprio consueto valore aoristico, com’è dimostrato dalle anali-
si di Bertinetto (1986: §§ 3.1.4-5; 1997, cap. 9 e Lenci / Bertinetto (2000). Di
conseguenza, allo stesso modo in cui gli IFS di (17) possono soltanto avere valo-
re iterativo anziché abituale – non esistendo alcuna forma verbale in grado di tra-
smettere una siffatta interpretazione – si può ritenere che anche gli IFS di (16) si
limitino ad ereditare il valore puramente iterativo – anziché abituale in senso pro-
prio – indotto dal contesto di abitualità. Si noti infatti che, mentre l’abitualità
implica iteratività, l’inverso non è vero. Mi pare quindi più parsimonioso asserire
che gli IFS di (16), pur inseriti in contesto abituale, abbiano valore aoristico.
Questa conclusione è del resto confortata, a fortiori – dalla ben nota osservazio-
ne, secondo cui i microeventi iterati, compresi entro un macroevento abituale,
sono di per sé perfettivi, a dispetto del valore spiccatamente imperfettivo dell’a-
spetto abituale (per la dimostrazione di questo fatto, cf. Bertinetto 1997, cap. 9;
Lenci / Bertinetto 2000). A riprova, si osservi che in (18) la supposta interpreta-
zione abituale è unicamente dovuta alla presenza dell’avverbio abitualmente,
mentre non sembra facilmente accessibile in sua assenza (a meno di presupposi-
zioni contestuali):

(18) Gigi ammise di dormire abitualmente da sua zia / mangiare abi-


tualmente una mela prima di andare a dormire.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 125

È ben noto, invece, che simili avverbi non sono affatto indispensabili per otte-
nere la lettura abituale con i Tempi imperfettivi.
Un’ipotesi alternativa che si potrebbe avanzare a questo riguardo consiste nel-
l’assumere che, nei contesti di abitualità, l’IFS esprima nonostante tutto valore abi-
tuale, con l’unica differenza – rispetto ai Tempi Semplici dell’Indicativo – che le
diverse valenze aspettuali dell’IFS appaiono soggette ad un forte effetto di neutra-
lizzazione, avendo sempre bisogno di un contesto disambiguante. Questa considera-
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zione poggia sul fatto che persino le accezioni progressiva ed aoristica dell’IFS di
(19a), allo stesso modo della presunta lettura ‘abituale’ di (16-18), sembrano richie-
dere una disambiguazione contestuale per poter emergere con chiarezza (cf. 19b-c):

(19) a. Giorgio vide uscire Lucia. /progressivo o aoristico/


b. Alle 5, Giorgio vide Lucia uscire. /progressivo; cf. …mentre
stava uscendo/
c. Giorgio vide Lucia uscire alle 5. /aoristico; cf. *…mentre
stava uscendo alle 5/

Tuttavia, una situazione analoga si osserva anche a proposito dell’Imperfetto


Indicativo, con riferimento alla distinzione tra aspetto progressivo ed abituale,
come si vede in (20a-c). Eppure, ciò non impedisce che l’Imperfetto si distingua
nettamente dal Passato Semplice, data l’incapacità di quest’ultimo si assumere
lettura iterativa se non attraverso esplicite aggiunte lessicali (cf. 20d-e):

(20) a. Giorgio andava al lavoro a piedi. /progressivo o abituale/


b. Alle 5, Giorgio andava al lavoro a piedi. /progressivo/
c. Ogni giorno, Giorgio andava al lavoro a piedi. /abituale/
d. Giorgio andò al lavoro a piedi. /aoristico/
e. Giorgio andò sempre al lavoro a piedi. /aoristico-iterativo/

Mentre dunque il valore abituale sembra appartenere intrinsecamente al cor-


redo aspettuale dei Tempi di natura imperfettiva dell’Indicativo, lo stesso non può
dirsi dell’IFS, che si limita ad ereditare la lettura iterativa della frase reggente, sia
essa autenticamente abituale o meramente aoristico-iterativa16.

16 Benché quella qui proposta mi paia l’interpretazione più plausibile, devo ammettere che
questo problema conserva margini di incertezza. Siamo chiaramente in presenza di un effetto di
neutralizzazione, la cui portata è difficilmente valutabile. Comunque sia, nulla di sostanziale
muterebbe nell’impostazione di questo lavoro, qualora si dovesse riconoscere pieno statuto all’a-
spetto abituale anche nel caso dell’IFS.
Un ulteriore invito alla cautela mi viene dall’es. (18), in cui la presenza dell’avverbio abi-
tualmente coll’IFS non stride minimamente, in analogia con quanto accade coll’Imperfetto in (i)
e a differenza di quanto si osserva col Passato Semplice in (ii):
(i) Gigi dormiva abitualmente da sua zia
(ii) ?? Gigi dormì abitualmente da sua zia
126 PIER MARCO BERTINETTO

2.3. Orientamento simultaneo

La stretta simultaneità è osservabile nel caso degli IFS retti da verbi di per-
cezione fisica (vedere, osservare, sentire, ascoltare, udire etc.; cf. 21), nonché in
certi costrutti pseudorelativi con IFS introdotto dalla preposizione a (cf. 22):

(21) S Quel giorno, Ettore #*vedeva / vide Lucio *restare a casa / dor-
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mire in giardino / #*incontrare Amilcare / mangiare una mela.


C * Quel giorno / quest’oggi / domani, Ettore vedeva / vide Lucio
essere restato a casa / aver dormito in giardino / aver incon-
trato Amilcare / aver mangiato una mela.
S’ ? In quel momento, Ettore vedeva Lucio e Amilcare incontrar-
si in giardino.
(22) a. Rimasero tutti a guardare la TV (*aver guardato)
b. Fu sorpreso a cospirare (*aver cospirato).

Si noti, innanzi tutto, l’agrammaticalità generalizzata dell’IFC; un fatto sot-


tolineato, per le strutture del tipo di (22), anche da Skytte et al. (1991: 530)17. Le
ragioni sono diverse da – ma pur sempre analoghe a – quelle che incidono sull’e-
sclusione di tale forma con le strutture infinitivali orientate prospettivamente, discus-
se nel paragrafo precedente. Per ciò che riguarda i costrutti del tipo di (21), va osser-
vata l’impossibilità di impiegare verbi stativi. Una situazione statica non può essere,
per definizione, direttamente percepita; ciò che si percepisce è sempre un evento.
Inoltre, va sottolineato che l’Imperfetto del verbo reggente appare difficilmen-
te compatibile con l’Infinito dei verbi di ‘conseguimento’, com’è indicato dal-
l’indice ‘#’ associato al diacritico di agrammaticalità. La ragione è la seguente.

Dunque, benché non vi siano indizi certi per asserire che l’aspetto abituale rientra tra le
possibilità semantiche dell’IFS, è doveroso precisare che questa forma manifesta una flessibilità
assai maggiore rispetto ai Tempi inerentemente perfettivi.
17 Si noti che l’esclusione dell’IFC nei costrutti introdotti da a sembra essere assoluta,
anche indipendentemente dall’interpretazione simultanea. Nell’esempio seguente, infatti, è pos-
sibile avere un’interpretazione potenziale – ossia tendenzialmente prospettiva, e dunque non
strettamente attuale e simultanea – dell’IFS, eppure l’uso dell’IFC resta escluso:
(i) Non c’era nessuno ad avvertirlo (*averlo avvertito).
Secondo Skytte et al. (1991: 530), i costrutti di questo tipo sarebbero caratterizzati dal fatto
di non esprimere “mai un tempo indipendente da quello del verbo reggente”; ciò sarebbe in par-
ticolare dimostrato dal fatto che “l’infinitiva non può contenere un elemento circostanziale con
valore temporale”. Tuttavia, benché questo sia vero in molti casi, mi sembra che vi siano delle
eccezioni:
(ii) * È venuto ieri a vederla oggi
(iii) Ieri era intenzionato a farlo oggi, ma poi ha cambiato idea.
In quest’ultimo esempio, l’interpretazione è chiaramente prospettiva. Non sembra dunque
possibile attribuire un’interpretazione temporale unitaria ai costrutti infinitivali introdotti da a.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 127

L’interpretazione aspettuale imperfettiva associabile ad un ‘conseguimento’ può


soltanto essere progressiva o abituale; l’aspetto continuo (imperfettività durativa)
è a priori escluso, data la natura non durativa di questi predicati. Nel contesto qui
in discussione, dunque, l’unica lettura ammissibile sarebbe quella progressiva; ma
dato che il verbo reggente è un durativo coniugato all’Imperfetto, inserito in un
contesto atto a favorire piuttosto l’accezione continua che non quella progressiva,
si produce inevitabilmente un forte attrito18. Se però, come in (21/S’), l’avverbia-
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18 Si badi, dunque, che ciò non dipende dal fatto che i ‘conseguimenti’ siano di per sé restii
ad esprimere valore progressivo. Il problema è abbastanza delicato, e merita un attimo di rifles-
sione. A giudizio di alcuni (per es., Giorgi / Pianesi (1997)), i ‘conseguimenti’ usati all’Imperfet-
to non avrebbero valore progressivo, in quanto designano eventi completi (in altre parole, impli-
cano chiusura telica), ed anzi il loro uso appare spesso poco felice (cf. (i)). A riprova di ciò, si
cita il fatto che in tali casi si ricorre spesso alla perifrasi progressiva proprio per forzare la let-
tura imperfettiva (annullando la chiusura telica; cf. ii).
(i) ? Quando arrivai, Lapo moriva.
(ii) Quando arrivai, Lapo stava morendo.
Tuttavia, a me pare che le cose non stiano in questi termini. Innanzi tutto, non è sempre
necessariamente vero che l’Imperfetto dei ‘conseguimenti’ comporti una chiusura telica (cf.
(iii)); inoltre, può anche succedere che la chiusura telica permanga pur in presenza della peri-
frasi progressiva (cf. (iv), almeno secondo la lettura più ovvia).
(iii) Quando entrai, Luca usciva; feci appena in tempo a trattenerlo
(iv) Quando puntai il binocolo, vidi che Teo stava proprio in quel momento rag-
giungendo la vetta.
Mi pare dunque che la questione vada impostata altrimenti. L’Imperfetto dei ‘conseguimen-
ti’ – anche senza perifrasi – può esprimere nei contesti appropriati la lettura imperfettiva, indipen-
dentemente dal fatto che vi sia o no chiusura telica dell’evento. Trattandosi di verbi composti di
una fase preparatoria (di durata imprecisabile) e di una brevissima fase culminante (cui è in ultima
analisi imputabile il loro carattere convenzionalmente non durativo), la visione progressiva può
alternativamente, e con pari legittimità (pur con ostacoli pragmatici difficilmente preventivabili; cf.
i), fissarsi sulla fase preparatoria dell’evento (cf. ii-iii) – producendo la tipica lettura imminenzia-
le associabile ai ‘conseguimenti’ in accezione progressiva – ovvero sulla fase culminante (cf.iv).
Da cosa nasce dunque la difficoltà riscontrata coi ‘conseguimenti’ nell’es. (21/S)? Essa è
dovuta al fatto che un verbo durativo all’Imperfetto nella reggente impone severi ostacoli all’in-
staurarsi della visione progressiva, in quanto (a meno che non vi siano avverbi puntuali, come
in (21/S’), non consente di individuare un singolo istante di focalizzazione (cf. v; che potrà sem-
mai essere interpretato in accezione abituale, come una serie di azioni ripetute). Si noti che un’a-
naloga restrizione non grava sui verbi di realizzazione (cf. vi), perché in tali casi è possibile asso-
ciare la lettura continua ad entrambi gli eventi, cosa ovviamente esclusa per i ‘conseguimenti’ a
causa della loro natura non durativa:
(v) ?? Livia vedeva che Teo usciva
(vi) Livia vedeva che Teo mangiava una mela.
A questo si aggiunga che la perifrasi progressiva non può comparire in dipendenza di verbi
di percezione diretta, neppure quando il verbo reggente è al Passato Semplice (cf. vii). Ma ciò è
probabilmente dovuto ad idiosincratiche restrizioni a carico dell’Infinito italiano, piuttosto che
a restrizioni aspettuali, dato che è qui perfettamente possibile dare un’interpretazione progressi-
va dell’lFS:
(vii) Quel giorno, Ettore vide Lucio mangiare / *stare mangiando / che stava man-
giando una mela.
128 PIER MARCO BERTINETTO

le durativo quel giorno viene sostituito dal puntuale in quel momento (perfetta-
mente compatibile con l’interpretazione progressiva), l’attrito si attenua sensibil-
mente. Quando invece il Tempo reggente è di natura perfettiva – e più specifica-
mente aoristica – allora le possibili interpretazioni aspettuali dell’IFS emergono
con chiarezza, con la seguente distribuzione: (i) lettura progressiva, accessibile
agli eventivi durativi (‘attività’ e ‘realizzazioni’); (ii) lettura aoristica, accessibile
nuovamente ai medesimi verbi ed obbligatoria coi ‘conseguimenti’, dato il loro
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carattere non durativo. Significativamente, nel primo caso, è possibile parafrasare


l’enunciato mediante la perifrasi progressiva (lo vide che stava dormendo / man-
giando una mela)19.
Oltre a ciò, l’IFS di simultaneità può comparire in contesti di abitualità:

(23) a. Ogni giorno, Ettore vedeva Lucio dormire in giardino.


b. Teresa trovava sempre il passero a beccuzzare le briciole sul
suo balcone.

Considerando tuttavia le avvertenze fornite sopra circa l’effettiva interpretazione


aspettuale di tali IFS (aoristico-iterativa, anziché propriamente abituale), mi asterrò
d’ora in poi dal segnalare questa circostanza. L’accessibilità di questi impieghi è
garantita a priori dalla possibilità di assegnare valore aoristico all’IFS nei contesti
appropriati. L’unica differenza, rispetto al caso di (21), con IFS retto da un Passato
Semplice nella principale, sta nel fatto che in (23), come già in (16), il verbo reggen-
te, coniugato imperfettivamente, esprime abitualità. Ma, come abbiamo visto in § 2.2,
l’abitualità del verbo reggente crea un contesto aspettualmente ‘opaco’, in cui gli
eventi della dipendente possono essere interpretati come microeventi iterati di natura
aoristica. L’abitualità in senso stretto non sembra rientrare, come si è detto, tra i valo-
ri aspettuali dell’Infinito. Tant’è vero che possiamo anche avere enunciati di senso ite-
rativo costruiti su Tempi di natura intrinsecamente aoristica, come in (17).

2.4. Orientamento retrospettivo

L’IFS con valore retrospettivo compare nelle completive infinitivali di tipo

Per la definizione degli aspetti progressivo e continuo, cf. Bertinetto ( 1986: §§ 3.1.1-3,
3.1.6-7). Circa invece il problema posto dall’interpretazione dell’Imperfetto coi ‘conseguimen-
ti’, cf. Bertinetto (2001).
19 Le due interpretazioni aspettuali dell’IFS italiano sono esplicitamente disambiguate in
inglese dall’alternanza tra Infinito e Gerundio:
(i) John saw Mary eat the apple /aoristico/.
(ii) John saw Mary eating the apple /progressivo/.
Siller-Runggaldier (1997) discute di analoghe costruzioni gerundivali in rumeno e in talu-
ni dialetti ladini dolomitici.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 129

causale (cf. 24) o nelle temporali introdotte da dopo (cf. 25):


(24) S * Quel giorno, lo licenziarono per restare a casa / dormire trop-
po / incontrare un pregiudicato / mangiare un panino fuori orario.
C Quel giorno, lo licenziarono per essere rimasto a casa / aver
dormito troppo / aver incontrato un pregiudicato / aver man-
giato un panino fuori orario.
S’ Quel giorno, lo licenziarono a causa del suo essere troppo
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negligente.
(25) S * Quel giorno, dopo stare assente / dormire nel proprio letto /
incontrare Edo / pulire la cucina, Lucia recuperò il tempo per-
duto.
C Quel giorno, dopo *essere stata assente / aver dormito nel pro-
prio letto / aver incontrato Edo / aver pulito la cucina, Lucia
recuperò il tempo perduto.

La situazione che si osserva è, in un certo senso, speculare rispetto a quelle


studiate finora. Qui è l’IFS ad essere escluso, mentre l’IFC trova piena leggitti-
mazione, il che sancisce l’orientamento retrospettivo di questi costrutti. Semmai,
l’IFS può comparire in forma nominalizzata, come si osserva in (24/S’).
Qualche commento si rende necessario circa l’esclusione degli stativi in (25/C).
Si tratta in realtà di una restrizione pragmatica, dovuta al fatto che tali verbi presenta-
no, di norma, contorni temporali indefiniti. Se tuttavia i contorni vengono implicita-
mente o esplicitamente indicati, come in (26), la situazione cambia radicalmente:

(26) a. Dopo aver posseduto un’auto, non ci rassegna più ad andare a


piedi.
b. Dopo aver posseduto un’auto per dieci anni, mi impigrii ad un
punto tale da doverne provare vergogna.
c. Dopo aver avuto mal di pancia per due giorni, mi decisi a
chiamare il medico.
d. Dopo essere stata in vacanza per due settimane, Elisa si
ritrovò con una montagna di arretrati.

Circa l’interpretazione aspettuale di questi IFC, non occorre dilungarsi,


dopo quanto asserito nel § 1. È tuttavia utile sottolineare che, nelle temporali
introdotte da dopo, sembrerebbe di primo acchito accessibile anche la lettura
inclusiva, che sappiamo essere di norma disponibile per l’aspetto compiuto coi
verbi atelici:

(27) Dopo aver avuto mal di denti tutto il santo giorno, mi sono alla
buon’ora deciso a chiamare la guardia medica.

In questo enunciato, in effetti, l’evento indicato dall’IFC non è necessaria-


130 PIER MARCO BERTINETTO

mente concluso – ed anzi, con ogni probabilità non lo è – al MR (coincidente qui


col ME). Ciò sembra appunto suggerire una lettura aspettualmente ibrida, com’è
tipico dell’accezione inclusiva dell’aspetto compiuto (cf. Bertinetto 1986: §
3.3.1). Va tuttavia notato che tale lettura appare accessibile soltanto agli stativi, di
nuovo a causa della natura frequentemente indefinita del loro contorno tempora-
le. Per contro, con i verbi di ‘attività’ questa accezione non sembra facilmente
ottenibile, contrariamente a quanto dovremmo aspettarci, visto che l’accezione
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inclusiva è di per sé disponibile (salvo idiosincratiche restrizioni) per i verbi ate-


lici in generale, ossia per stativi ed ‘attività’:

(28) Dopo aver studiato tutto il pomeriggio, mi rassegnai a fare un


ulteriore sforzo, dato che l’esame era pericolosamente vicino.

Qui abbiamo infatti a che fare, verosimilmente, con un primo evento com-
piuto, cui ne segue un secondo, della stessa natura ma pur sempre distinto. Si può
dunque concludere che l’apparente comparsa della lettura inclusiva in (27) è un
mero effetto pragmatico, legato alla frequente assenza di netti contorni temporali
negli stativi; i quali, per giunta, si sottraggono al controllo agentivo del soggetto,
e non ammettono quindi la possibilità di un intervento consapevole mirante a por
fine alla situazione. Ma nonappena l’evento stativo viene esattamente delimitato
sul piano temporale, come in (26), l’impressione di inclusività si dissolve.

2.5. Orientamento temporale ibrido

A differenza dei casi precedenti, che presentano un orientamento temporale


univoco (con l’eccezione delle completive rette da verbi dichiarativi; cf. 15), i
costrutti che mi accingo ora a discutere sono caratterizzati da un comportamento
ibrido.
Le completive rette da verbi epistemici ([i] sospettare, credere, pensare, ricor-
darsi etc., cf. es. 29-30; [ii] sperare, temere, etc., cf. 31) ammettono l’IFC con il suo
consueto valore di compiutezza e retrospettività. Per quanto riguarda l’IFS, la situa-
zione è invece abbastanza variegata. Cogli stativi emerge una generalizzata lettura
di simultaneità – indipendentemente dal valore aspettuale del verbo reggente –
mentre cogli eventivi possono sorgere problemi di accettabilità. Conviene conside-
rare separatamente gli esempi (29-31). Cominciando da (29/S), appaiono decisa-
mente problematici gli IFS retti da un Tempo aoristico, come mostra l’indice ‘+’
associato ai consueti diacritici indicanti i diversi livelli di grammaticalità. Legger-
mente diversa è la situazione con gli IFS retti dall’Imperfetto, contrassegnato dal-
l’indice ‘°’. È da notare che, nell’uno come nell’altro caso (ma con l’eccezione per-
sistente dei ‘conseguimenti’, e certo a causa del loro carattere non durativo), l’ac-
cettabilità aumenta qualora il verbo reggente sia sostenuto da un qualche grado di
enfasi (cf. 29/S’), ovvero se ne delimiti la durata (cf. 29/S”). Con tali espedienti, si
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 131

viene infatti a creare una struttura avversativa (del tipo: ‘invece di A, B’), che favo-
risce una lettura aspettualmente imperfettiva e temporalmente simultanea. Vale anche
la pena di ricordare che i giudizi di grammaticalità possono drasticamente mutare a
seconda dei predicati infinitivali prescelti; si riconsideri, a tal riguardo, la nota 10. In
tutti questi casi, comunque, l’orientamento temporale punta decisamente verso la let-
tura simultanea, sempre nei limiti in cui si crei una situazione di tendenziale accetta-
bilità. In (30), la situazione si presenta in modo simile, anche per quanto riguarda l’o-
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rientamento temporale. Bisogna tuttavia tener conto del fatto che, in questo caso, l’o-
rientamento può essere modificato in senso prospettivo attraverso l’inserimento di un
opportuno avverbio temporale (cf. 30/S’). Nettamente diversa è invece la situazione di
(31); in questo caso, l’IFS dei verbi eventivi acquista un netto valore prospettivo:

(29) S Quel giorno, Ezio °sospettava / +sospettò di avere ragione /


+?disegnare la cosa sbagliata / °?/+??uscire troppo presto /
°?/+??costruire la casa su terreno franoso.
C Quel giorno, Ezio sospettava / sospettò di aver avuto ragione
/ aver dormito nel letto sbagliato / essere uscito troppo presto
/ aver costruito la casa su terreno franoso.
S’ Quel giorno, Ezio SOSPETTÒ di disegnare la cosa sbagliata,
ma poi si convinse che non era vero.
S” Quel giorno, Ezio sospettò per un po’ di disegnare la cosa sba-
gliata, ma poi si convinse che non era vero.
(30) S Quel giorno, Ezio °credeva / +credette di essere nel giusto /
+??comportarsi da gentiluomo / ?°/+??uscire troppo presto /
?°/+??costruire la casa su terreno franoso.
C Quel giorno, Ezio credeva / credette di essere stato nel giusto
/ essersi comportato da gentiluomo / essere uscito troppo pre-
sto / aver costruito la casa su terreno franoso.
S’ Ezio credeva di incontrare suo zio l’indomani, ma le cose
andarono diversamente
(31) S Quel giorno, Ezio sperava / +sperò di essere nel giusto / farsi
onore / +?uscire in tempo / +?risolvere il problema.
C Quel giorno, Ezio sperava / sperò di essere stato nel giusto /
essersi fatto onore / essere uscito in tempo / aver risolto il pro-
blema.

È degno di nota il fatto che l’accettabilità di questi enunciati può talvolta


aumentare in contesto di abitualità (cf., per contrasto, 29/S):
(32) a. Nei primi giorni di ora legale, Ezio pensava immancabilmen-
te di uscire troppo presto dall’ufficio.
L’orientamento potrebbe qui anche apparire retrospettivo (cf.: ‘pensava di es-
132 PIER MARCO BERTINETTO

sere uscito troppo presto’), oltreché di simultaneità. Ma ritengo che si tratti di una
falsa impressione: in realtà, l’apparente retrospettività è unicamente dovuta al
fatto che il contesto abituale presuppone un precedente accumulo di esperienze
del tipo pertinente. Ossia: ogni giorno, Ezio pensava erroneamente che l’ora del-
l’uscita fosse anticipata rispetto all’orario canonico. Se davvero si trattasse di
orientamento retrospettivo del singolo microevento iterato, avremmo in questi
casi l’IFC (pensava di essere uscito troppo presto). Si noti comunque che, anche
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assegnando correttamente una lettura simultanea all’IFS di (32a), i singoli


microeventi iterati vengono pur sempre visti come interamente realizzati, ossia
perfettivi (cf. la discussione in § 2.2). Ciò spiega forse la non impeccabile accet-
tabilità di (32b), dove l’ampia durata dell’evento designato impedisce la visione
iterativa, obbligando a dare dell’IFS un’interpretazione aspettuale continua (gros-
so modo: ‘Ezio veniva periodicamente colto dal sospetto di andar facendo la cosa
sbagliata’). In ogni caso, al di fuori dei contesti abituali, l’interpretazione aspet-
tuale degli IFS di (29-30) è prettamente imperfettiva (per lo più: continua), come
mostra la seguente parafrasi: ‘Quel giorno, Ezio sospettava / sospettò di andar
facendo la cosa sbagliata’).

(32) b. ? Nei giorni di cattivo umore, Ezio sospettava di costruire la


casa su un terreno cedevole.

Da quanto si è visto, è d’uopo concludere che i verbi epistemici costituiscono


un insieme non del tutto omogeneo dal punto di vista dell’orientamento tempora-
le; cosa, del resto, tutt’altro che sorprendente, visto che la classificazione dei con-
testi infinitivali su cui mi baso non è stata concepita in vista del comportamento
tempo-aspettuale di questi predicati. Comunque sia, ciò che importa soprattutto
mettere in luce qui è l’orientamento temporale ibrido di questi costrutti: i quali,
oltre a tollerare in generale, coll’IFC, l’orientamento retrospettivo, ammettono in
varia misura, coll’IFS, la lettura simultanea (segnatamente cogli stativi), e con talu-
ni verbi reggenti (cf. sperare, ma in parte anche credere) persino la lettura pro-
spettiva, limitatamente ai predicati eventivi. È appena il caso di sottolineare che il
diverso orientamento indotto sull’Infinito dal verbo reggente è un’ulteriore prova
dell’assenza di intrinseco contenuto temporale in questa forma verbale.
Non meno variegato è il comportamento dei costrutti infinitivali retti da verbi
di percezione intellettuale ([i] dimenticare, ricordare etc., cf. 33; [ii] constatare,
percepire, osservare, accorgersi, scoprire etc., cf. 34). Anche qui, l’IFC è gene-
ralmente ammesso, anche se l’Imperfetto nella reggente non appare perfettamen-
te naturale con tutti i tipi di predicato in (34/C). Quanto all’IFS, si verifica una
biforcazione di comportamenti, che non riguarda peraltro gli stativi, i quali gene-
rano sempre la lettura simultanea, senza restrizioni per quanto riguarda il valore
aspettuale del verbo reggente. La biforcazione è lieve nei contesti introdotti da
Tempi imperfettivi: in tal caso, i verbi del gruppo [i] ammettono con difficoltà
l’IFS dei verbi eventivi, mentre coi verbi del gruppo [ii] tale restrizione sembra
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 133

limitarsi ai soli predicati telici (superfluo aggiungere che l’inglobamento entro un


contesto abituale può agevolmente riscattare le difficoltà d’uso dell’Imperfetto
nella principale, come mostra 33/S’). L’interpretazione temporale dell’IFS è, in
questi casi, invariabilmente di simultaneità. La divaricazione aumenta invece nei
contesti introdotti da Tempi perfettivi: in tali circostanze, coi verbi del gruppo [i]
i predicati eventivi danno adito alla lettura prospettiva (non ci si lasci ingannare,
in 33/s, dal senso del verbo dimenticare; ci si dimentica di ciò che deve ancora
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essere fatto), mentre coi verbi del gruppo [ii] permane la lettura di simultaneità:

(33) S Quel giorno, Ugo °dimenticava / dimenticò / dimenticherà di


avere ragione / °*dormire a casa / °*incontrare Alma / °*to-
gliere i vasi dal balcone.
C Quel giorno, Ugo dimenticava / dimenticò / dimenticherà di
aver avuto ragione / aver dormito a casa / aver incontrato
Alma / aver tolto i vasi dal balcone.
S’ Ugo dimenticava sempre di chiudere il gas.
(34) S Quel giorno, Edo °si accorgeva / si accorse di avere ragione /
disegnare bene / °?partire troppo presto / °?fare i compiti con
molta fatica.
C Quel giorno, Edo ?si accorgeva / si accorse di aver avuto ragio-
ne / aver disegnato bene / essere partito troppo presto / aver
fatto i compiti con molta fatica.

Ulteriormente diverso è il comportamento delle infinitive soggettive introdot-


te da verbi implicativi di sensazione psicologica ([i] allettare, rallegrare, spaven-
tare, deprimere, suscitare, risvegliare (per es. sintomi depressivi) etc., cf. 35; [ii]
appassionare, interessare, divertire, infastidire etc., cf. 36; [iii] entusiasmare, ral-
legrare, rattristare, riempire d’orgoglio, sorprendere, stupire etc., cf. 37-39). Si
noti che, in questi contesti, tali verbi tendono a comparire in forma riflessiva. Con
i verbi del gruppo [i], l’orientamento è decisamente prospettivo, come è del resto
suggerito dall’agrammaticalità dell’IFC (cf. 35/C). Coll’IFS, emerge la difficoltà
di utilizzare l’aspetto perfettivo nella reggente, a meno che non si frapponga un
sintagma come l’idea / il fatto di (cf.: mi allettò l’idea di dormire nel mio letto)20.
Viceversa, con l’aspetto imperfettivo nella reggente, emerge la lettura simultanea
cogli stativi, e la lettura prospettiva con i verbi eventivi. I verbi del gruppo [ii]
sono decisamente refrattari all’IFC ‘nudo’ (cf. 36/C). Quanto all’IFS, si osserva la
seguente situazione: l’aspetto perfettivo della reggente induce la lettura simulta-
nea; l’aspetto imperfettivo, per contro, produce la lettura simultanea con gli stati-

20 L’uso di siffatti sintagmi sembra obbligatorio qualora, invece che in forma riflessiva, il
verbo reggente compaia in forma passiva:
(i) Dora era allettata *(dall’idea) di dormire in tenda.
134 PIER MARCO BERTINETTO

vi, e la lettura prospettiva con i verbi telici, mentre le ‘attività’ ammettono entram-
be le letture. Con i verbi del gruppo [iii], infine, l’IFC risulta pienamente accetta-
bile solo se preceduto da il fatto di (cf. 37/C). Dunque, l’orientamento è solo
apparentemente retrospettivo; in realtà, tali costrutti sono molto più probabilmen-
te orientati verso l’onnitemporalità indotta dalla nominalizzazione. Quanto
all’IFS, valgono a grandi linee le osservazioni avanzate per il gruppo [ii], salvo
forse che in certi casi l’accettabilità aumenta sensibilmente inserendo il sintagma
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il fatto di (cf. 38-39/S).

(35) S Quel giorno, mi allettava / +allettò +??essere al centro dell’at-


tenzione / +??dipingere per strada / +??cogliere un frutto proi-
bito / +??mangiare una mela del giardino.
C * Quel giorno, mi allettava / allettò (l’idea di) essere stato al
centro dell’attenzione / aver dipinto per strada / aver colto un
frutto proibito / aver mangiato una mela del giardino.
(36) S Quel giorno, mi appassionava / appassionò essere al centro
dell’attenzione / dipingere per strada / incontrare Edo / man-
giare una mela del giardino.
C * Quel giorno, mi appassionava / appassionò (l’idea di) essere
stato al centro dell’attenzione / aver dipinto per strada / aver
incontrato Edo / aver mangiato una mela del giardino.
(37) S Quel giorno mi entusiasmava / entusiasmò essere al centro del-
l’attenzione / dipingere per strada / incontrare Edo / mangiare
una mela del giardino.
C Quel giorno mi entusiasmava / entusiasmò ??(il fatto di) esse-
re stato al centro dell’attenzione / aver dipinto per strada / aver
incontrato Edo / aver mangiato una mela del giardino.
(38) S Quel giorno, mi °rallegrava / +rallegrò °?/+?essere in disparte
/ dipingere per strada / incontrare Edo / mangiare una mela del
giardino.
C Quel giorno, mi rallegrava / rallegrò ??(il fatto di) essere stato
in disparte / aver dipinto per strada / aver incontrato Edo / aver
mangiato una mela del giardino.
(39) S Quel giorno, mi °stupiva / +stupì alquanto essere al centro del-
l’attenzione / °?/+?correre con tanta scioltezza / °?incontrare
Edo / °??risolvere il problema con tanta facilità.

Ancora più intricata è la situazione delle infinitive soggettive introdotte da


verbi che danno vita a strutture di senso ‘consequenziale’, ossia indicanti la con-
seguenza di un dato evento ([i] comportare, implicare, rischiare etc.; [ii] scatena-
re, migliorare, irritare, aggravare, acuire, rovinare, aumentare, creare, sminuire,
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 135

causare, ritardare, semplificare, rianimare, aiutare, forzare, incitare, indurre,


obbligare, cambiare etc.; [iii] riempire di ricordi, esaurire la pazienza, ingenera-
re, estenuare etc.). Come nel caso precedente, anch’esso costituito da strutture
soggettive, è sempre possibile inserire prima dell’Infinito la locuzione il fatto di
oppure l’articolo determinativo (ovvero ancora, ma solo nei rari casi in cui sia
ammesso il senso prospettivo, l’idea di); anzi, coll’IFC questi espedienti di nomi-
nalizzazione sono praticamente indispensabili al fine di ottenere piena grammati-
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calità. Data la pervasività del fenomeno, negli esempi che seguono mi limiterò a
sottolinearlo soltanto nelle circostanze in cui mi parrà che la presenza di tali ingre-
dienti sia imposta dall’esigenza di migliorare l’accettabilità dell’enunciato21.
I verbi che introducono queste strutture sembrano appartenere a due tipi azio-
nali (gli indici numerici rinviano all’elenco del precedente capoverso): [i] stativi;
[ii-iii] predicati ibridi, oscillanti tra una lettura di ‘attività’ (durativo-atelica) negli
impieghi imperfettivi, ed una lettura di ‘conseguimento’ negli impieghi perfetti-
vi22. È indispensabile, nella circostanza, considerare l’interazione delle variabili
azionali in entrambi i predicati coinvolti: quello introduttore e quello all’Infinito.
Per facilitare la lettura degli esempi, indicherò le diverse valenze azionali con le
seguenti sigle: [s] per stativo, [a] per ‘attività’, [c] per ‘conseguimento’, [r] per
‘realizzazione’, [i] per incrementativo23, [a/c] per il tipo misto ‘attività/consegui-
mento’.
Il comportamento tipico dell’IFC è mostrato in (40/C, 41/C), in cui viene
segnalata la quasi obbligatorietà dell’inserzione di il fatto di o dell’articolo deter-
minativo. Trattandosi tuttavia (come già segnalato) di un dato praticamente
costante, mi asterrò nei successivi esempi di questa batteria dal produrre ulteriori
enunciati coll’IFC, a meno che non occorra segnalare qualche variazione rispetto
alla tendenza generale (cf. 52/C). Valgono, ovviamente, le considerazioni già fatte
circa l’effettiva interpretazione temporale delle clausole introdotte da siffatti stru-
menti di nominalizzazione, che indirizzano piuttosto verso l’onnitemporalità che
non verso l’autentica retrospettività. Circa invece l’orientamento dell’IFS, la
situazione appare piuttosto articolata, fatta salva l’osservazione che i predicati del

21 È appena il caso di sottolineare che la propensione di questi predicati ad accompagnarsi


(specie coll’lFC) alla locuzione il fatto di ne denuncia l’inequivocabile carattere fattivo. Si noti
comunque che la fattività non implica assolutamente perfettività, né orientamento retrospettivo,
potendo essa convivere senza attriti con l’imperfettività (nell’accezione continua) e con altri tipi
di orientamento temporale.
22 Per apprezzare l’ibridismo di tali predicati, si consideri la possibilità di accostarli, alter-
nativamente, ad avverbi temporali che normalmente disambiguano ‘attività’ e ‘conseguimenti’:
(i) Gianni lavorò [a] per un’ora / *praticamente di colpo.
(ii) Gianni partì [c] *per un’ora / praticamente di colpo.
(iii) La presenza dei muratori lo irritò [a/c] per due giorni [= ‘lo tenne irritato’] /
praticamente di colpo [= ’lo fece irritare’].
23 Per una trattazione dei predicati incrementativi, cf. Bertinetto / Squartini (1995).
136 PIER MARCO BERTINETTO

sottogruppo [iii] appaiono inadatti ad orientare prospettivamente l’IFS (essi sono


dunque unicamente capaci di orientarne la lettura in senso simultaneo o retro-
spettivo). Per facilitarne la comprensione del problema, discuterò in due tappe
successive il comportamento delle diverse classi azionali coniugate all’IFS: dap-
prima con verbo introduttore coniugato imperfettivamente (a), in seguito con
verbo introduttore coniugato perfettivamente (b).
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(a) Verbo introduttore coniugato imperfettivamente (es.: implicava).


Cogli stativi, si ottiene la lettura simultanea (cf. 40-1), che perma-
ne ovviamente anche cogli stativi permanenti (cf. 42). Coi verbi di
‘attività’, oltre alla lettura simultanea (cf. 44), può emergere in
aggiunta una lettura pseudoprospettiva di natura ipotetica (cf. 43):
‘se avesse dipinto, ciò avrebbe comportato’). Quest’ultimo fenome-
no, beninteso, può manifestarsi solo con verbi introduttori dei tipi
[i-ii], non certo con introduttori del tipo [iii], che escludono – come
già detto – l’orientamento prospettivo. La situazione muta ulterior-
mente coi ‘conseguimenti’: possiamo infatti avere interpretazione
simultanea (cf. 47), pseudoprospettiva (cf. 45, 47), e perfino pro-
spettiva tout court (cf. 48). Va tuttavia segnalato che, in qualche
caso, la pragmatica ci porta ad escludere – almeno tendenzialmen-
te – le letture simultanea o prospettiva, il che rende di dubbia accet-
tabilità l’Imperfetto coi verbi del tipo [iii], a meno che non si voglia
darne un’interpretazione ‘narrativa’ (cf. 46). Quanto ai verbi di ‘rea-
lizzazione’, essi oscillano tra la lettura simultanea e quella pseudo-
prospettiva (cf. 49-50), tranne con introduttori del tipo [iii], che
escludono la seconda possibilità (cf. 51). Ciò vale anche per gli
‘incrementativi’ (cf. 52-53), salvo il fatto che in queste circostanze
l’IFC risulta del tutto agrammaticale (cf. 52/C)24.
(b) Verbo introduttore coniugato perfettivamente (es.: implicò). Cogli sta-
tivi (cf. 40-2) e con le ‘attività’ (cf. 43-44) viene confermata la lettura
simultanea, cui si affianca – solo per gli stativi – la lettura prospettiva.
Ma le conseguenze più notevoli si osservano coi verbi telici (‘conse-
guimenti’, ‘realizzazioni’, ‘incrementativi’): in tutti questi casi, l’o-
rientamento può essere di simultaneità oppure retrospettivo, in rela-
zione al singolo contesto. La lettura simultanea mi sembra soprattutto
prominente in (51), mentre quella retrospettiva emerge con particola-
re evidenza in (45, 47, 49, 50/S’, 53). Nei casi restanti, mi sembrano

24 Molto simili alle strutture appena discusse sono quelle di carattere equativo, che specifi-
cano il valore o il significato dell’evento infinitivale, anziché indicarne le conseguenze:
(i) Finire il lavoro in tempo equivaleva a / significava potersela spassare.
(ii) Finire il lavoro in tempo appariva estremamente allettante.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 137

ugualmente accessibili entrambe le interpretazioni. Questo è un punto


che va messo nel debito risalto: si tratta infatti, fra i dati finora consi-
derati, di uno dei pochissimi casi di autentica retrospettività docu-
mentabili per l’IFS italiano 25. Tenuto conto della struttura semantica
di questi costrutti (che indicano, come si è detto, la conseguenza di
una certa situazione od evento), questo dato non è in sé e per sé sor-
prendente; lo diventa solo in rapporto all’estrema rarità di questa inter-
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pretazione temporale coll’IFS italiano 26. Particolarmente significativo


mi pare (48): il medesimo avverbiale temporale (alle 8 di sera), che
riceve un’interpretazione prospettiva con verbo introduttore all’Imper-
fetto, riceve invece un’interpretazione nettamente simultanea o retro-
spettiva con verbo introduttore al Passato Semplice. Superfluo dire
che l’opzione tra simultaneità e retrospettività non è sempre libera, ma
dipende dal contesto: si confrontino, a tal proposito, (50/S-S’):

(40) S Quel giorno, aver mal di denti [s] implicava / implicò la rinun-
cia ai suoiprogrammi [s].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) aver avuto mal di denti [s] impli-
cava / implicò la rinuncia ai suoi programmi [s].
(41) S Quel giorno, essere di cattivo umore [s] gli alienava / alienò le
simpatie di tutti [a/c].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) essere stato di cattivo umore [s]
gli alienava / alienò le simpatie di tutti [a/c].
(42) S Quel giorno, essere alto [s] gli dava / diede degli indubbi van-
taggi [a/c].
(43) S Quel giorno, dipingere dal vero [a] comportava / comportò un
forte impegno [s].
(44) S Quel giorno, osservare i dintorni [a] lo riempiva / riempì di
ricordi [a/c].
(45) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] implicava / implicò gros-
se conseguenze [s].
(46) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] tanto precocemente lo
? riempiva / riempì d’eccitazione [a/c].
(47) S Quel giorno, tagliare le pensioni [c] così inaspettatamente pro-

25 Un altro caso lo abbiamo in verità già trovato nella nota 7, a proposito delle proposizio-
ni interrogative indirette introdotte da perché.
26 Ma non, si badi, in spagnolo. Su ciò ritornerò in § 4.
138 PIER MARCO BERTINETTO

vocava / provocò forti proteste [a/c].


(48) S Quel giorno, partire alle 8 di sera [c] lo irritava / irritò profon-
damente [a/c].
(49) S In quel periodo, costruire una staccionata [r] comportava /
comportò un esborso ingente [s].
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(50) S Quel giorno, nuotare fino al molo [r] produceva / produsse in


lui uno stato di eccitazione [a/c].
S’ Quel giorno, nuotare fino al molo [r] subito dopo pranzo pro-
vocò in Aldo un terribile stato di spossatezza, che lo invase a par-
tire dalle 5 costringendolo ad andare a letto prima del solito [a/c].
(51) S Quel giorno, mangiare la pasta scotta [r] esauriva / esaurì la sua
sopportazione [a/c].
(52) S Quel giorno, aumentare a più riprese il livello dell’acqua nel
bacino [i] implicava / implicò una situazione di autentica
emergenza [s].
C Quel giorno, °*/+?(il fatto di) aver aumentato a più riprese il
livello dell’acqua nel bacino [i] °implicava / +implicò una
situazione di autentica emergenza [s].
(53) S Quel giorno, complicare di continuo le procedure [i] creava /
creò molto disagio tra gli impiegati [a/c].
La retrospettività è osservabile anche con il verbo principale al Futuro, come
in (54), dove la localizzazione dell’evento infinitivale è sì futura rispetto al ME,
ma pur sempre anteriore rispetto all’evento della principale. Si noti, peraltro, che
anche in questo caso si tratta di orientamento temporale non deittico, com’è dimo-
strato dal fatto che gli avverbi deittici non sono tollerati (cf. 55a, in contrasto con
54b), a meno che non si creino delle strutture di tipo correlativo, in cui la localiz-
zazione temporale svolge un ruolo di designazione relativa piuttosto che di loca-
lizzazione assoluta (cf. 55c; il che è del resto comprovato dal fatto che gli avver-
bi deittici impiegati non sono qui assunti nel loro senso letterale):

(54) Approvare la legge sulle rogatorie internazionali creerà a lungo


andare effetti devastanti sul piano della repressione dell’illegalità.
(55) a. * Approvare ieri la legge sulle rogatorie internazionali creerà
a lungo andare effetti devastanti sul piano della repressione
dell’illegalità.
b. Aver approvato ieri la legge sulle rogatorie internazionali
creerà a lungo andare effetti devastanti sul piano della repres-
sione dell’illegalità.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 139

c. Approvare ieri la legge sul falso in bilancio, oggi quella sulle


rogatorie internazionali e domani quella sul rientro dei capita-
li illegalmente esportati, creerà a lungo andare effetti deva-
stanti sul piano della repressione dell’illegalità. Di questi
tempi27 c’è da vergognarsi di essere italiani.

Quanto all’interpretazione aspettuale di questa varietà di IFS, essa appare


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chiaramente influenzata – a differenza di quanto normalmente si osserva – dal


valore aspettuale del verbo introduttore. Essa è infatti continua (e dunque imper-
fettiva) in contesto continuo con lettura simultanea; aoristica (e quindi perfettiva)
altrimenti, inclusi i contesti di pseudoprospettività.

3. L’INFINITO INTRODOTTO DA ELEMENTI NON VERBALI

3.1. L’Infinito retto da aggettivi

Se consideriamo il comportamento dell’Infinito dipendente da aggettivi, ritro-


viamo sostanzialmente la stessa gamma di possibilità già individuate per l’Infinito
retto da verbi. Pur senza alcuna pretesa di esaustività, credo si possano additare
quanto meno i fenomeni qui di seguito elencati.

3.1.1. Orientamento prospettivo e simultaneo

Un orientamento nettamente prospettivo è individuabile nel caso dei costrut-


ti infinitivali introdotti da aggettivi come intenzionato a, interessato a, incline a,
deciso a, disposto a, prossimo a, avido di, ansioso di. Significativamente, in tutti
questi casi l’IFC risulta agrammaticale. Per ciò che riguarda l’uso dell’IFS, vanno
fatte le seguenti considerazioni. Innanzi tutto, i verbi stativi ammessi – soprattut-
to con gli aggettivi che reggono la preposizione a – tendono ad essere quelli meno
rappresentativi di tale classe, vale a dire gli ‘stativi [+controllo]’. In secondo
luogo, la scelta della copula non è priva di conseguenze. Mentre in generale non
sembrano esserci problemi con i Tempi imperfettivi, con quelli perfettivi essere
suona non di rado inappropriato (cf. *fu / *è stato intenzionato a dormire in alber-
go). Quanto al valore aspettuale, si tratterà evidentemente del valore aoristico tipi-
camente assegnato agli usi prospettivi:

(56) S Quel giorno, Maria appariva / apparve intenzionata a ??essere

27 Autunno 2001.
140 PIER MARCO BERTINETTO

ultimo [s] / restare [s’] / dormire in albergo / dissotterrare l’a-


scia di guerra / mangiare un pasto vegetariano.
C * Quel giorno, Maria era / fu intenzionata ad essere restata /
aver dormito in albergo / aver dissotterrato l’ascia di guerra
/ aver mangiato un pasto vegetariano.
(57) S Quel giorno, Paco appariva / apparve ansioso di *avere ragio-
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ne [s] / restare solo [s’] / giocare a pallone / uscire di casa /


scrivere la sua relazione.
C * Quel giorno, Paco appariva / apparve ansioso di essere resta-
to solo / aver giocato a pallone / essere uscito di casa / aver
scritto la sua relazione.

Il bando dell’IFC si osserva anche, comprensibilmente, con gli aggettivi che


inducono un orientamento di simultaneità sull’Infinito, come: stufo di, stanco di.
Il valore aspettuale è qui decisamente imperfettivo, e più specificamente continuo,
il che spiega la restrizione sui ‘conseguimenti’; a meno che, beninteso, essi non
siano interpretati iterativamente e dunque, con tale espediente, durativizzati (a ciò
allude il diacritico ‘%’).

(58) S Quel giorno, Edo appariva / apparve stanco di essere poco con-
siderato / giocare a pallone / %uscire di casa / scrivere la sua
relazione.
C * Quel giorno, Edo era / fu stanco di essere stato poco consi-
derato / aver giocato a pallone / essere uscito di casa / aver
scritto la sua relazione.

In questi casi, può talvolta sorgere il sospetto che l’orientamento sia retro-
spettivo (cf. Edo era stanco di giocare a pallone). Ritengo tuttavia che questa sia
una conseguenza illusoriamente indotta dal contesto. Benché, nell’esempio dato,
l’insofferenza sia fondata su un certo accumulo di esperienze passate, tale sensa-
zione vale al momento designato dal Tempo della copula, indipendentemente dal
fatto che vi siano stati episodi precedenti. Le considerazioni appena svolte si
applicano, con identica plausibilità, agli IFS retti da abituato a, avvezzo a, solito,
che ovviamente possono solo creare contesti di iteratività28:

(59) S Giorgio era / ??fu abituato ad aver sempre ragione / correre

28 Benché non necessariamente di abitualità, come dimostra la possibilità – nei contesti


appropriati – di impiegare Tempi perfettivi:
(i) Gianni fu sempre avvezzo, fin da piccolo, ad ottenere quanto desiderava.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 141

ogni giorno mezzora / uscire di casa alle 5 / bere una spremu-


ta d’arancia a colazione.
C * Giorgio era / fu abituato ad aver avuto sempre ragione / aver
corso ogni giorno mezzora / essere uscito di casa alle 5 / aver
bevuto una spremuta d’arancia a colazione.

Esistono inoltre degli aggettivi che possono orientare l’Infinito in senso


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tanto prospettivo quanto simultaneo. È il caso, per esempio, di: facile, difficile,
bello, brutto, impensabile, necessario, sufficiente, indispensabile, costretto a,
degno di. Anche in questo caso l’IFC risulta agrammaticale. Per quanto riguar-
da l’IFS, valgono invece le osservazioni seguenti. Se si ha l’Imperfetto nella
proposizione principale, l’orientamento può essere prospettivo ovvero simulta-
neo (benché, in quest’ultimo caso, possano esserci forti vincoli pragmatici coi
‘conseguimenti’). Se invece si ha un Tempo perfettivo nella principale, l’orien-
tamento tende alla simultaneità, almeno in contesto passato, anche se con il
Futuro riemerge – come una delle possibili interpretazioni – la lettura prospet-
tiva (es.: sarà difficile uscire alle 5). Si noti infatti che neppure la presenza di
un opportuno avverbiale temporale consente la lettura prospettiva con un passa-
to perfettivo nella principale (cf. 60/S’). Una siffatta divergenza tra passato e
futuro va debitamente sottolineata, visto che, di solito, il diverso valore tempo-
rale non comporta conseguenze, a parità di valore aspettuale. Quanto a que-
st’ultimo, esso sarà, del tutto prevedibilmente, continuo nella lettura simultanea,
aoristico nella lettura prospettiva:

(60) S Quel giorno era / fu difficile restare in disparte / dormire tran-


quilli / incontrare Amilcare / dipingere la parete.
C * Quel giorno era / fu difficile essere restati in disparte / aver
dormito tranquilli / aver incontrato Amilcare / aver dipinto la
parete.
S’ Quel giorno fu difficile uscire alle 5.
(61) S Quel giorno, Massimo era / fu costretto a essere presente / gio-
care onestamente / uscire di casa senza stampelle / scrivere la
sua relazione.
C * Quel giorno, Massimo era / fu costretto a essere stato pre-
sente / aver giocato onestamente / essere uscito di casa senza
stampelle / aver scritto la sua relazione.

Da questi usi vanno peraltro tenuti distinti casi come i seguenti, apparente-
mente simili, in cui tuttavia alcuni degli aggettivi sopra elencati compaiono
accompagnati da una preposizione (cf. facile a, brutto a, necessario per, suffi-
ciente per). Ciò altera significativamente la prospettiva temporale, imponendo
anche forti restrizioni lessicali. In (62-3), per esempio, l’IFS deve preferibilmen-
142 PIER MARCO BERTINETTO

te presentarsi in forma di pseudoriflessivo, il che esclude le ‘realizzazioni’ e limi-


ta fortemente anche gli stativi. Quanto alle strutture esemplificate in (64), esse
ricordano quelle, di tipo ‘consequenziale’, viste nel § 2.5 (cf. 40-53). In tutti que-
sti casi, l’orientamento è nettamente prospettivo:

(62) S Sembrava / sembrò facile a dirsi / ottenersi.


C * Sembrava / sembrò facile a essersi detto / essersi ottenuto.
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(63) S Era / fu brutto a vedersi.


C * Era / fu brutto a essersi visto.
(64) S Quel giorno, la riparazione della caldaia era / fu sufficiente per
avviare un netto miglioramento della situazione / placare gli
animi.
C * Quel giorno, la riparazione della caldaia era / fu sufficiente
per aver avviato un netto miglioramento della situazione /
aver placato gli animi.

3.1.2. Orientamento temporalmente ibrido e retrospettivo

Esistono anche aggettivi che inducono sull’Infinito un orientamento tempo-


rale che varia a seconda dell’interazione tra i diversi fattori aspettuali ed azionali
implicati.
Un primo tipo è costituito dagli aggettivi che sembrano accettare anche l’IFC,
sia pure con l’accompagnamento di locuzioni quali il fatto di: cf. sconveniente,
importante, significativo etc. Ma, come sappiamo, questa restrizione suggerisce
che la retrospettività propriamente detta non sia, a rigore, contemplata. Quanto
all’IFS, esso sembra ammettere tanto la lettura simultanea (imperfettiva), quanto
quella prospettiva (aoristica), il che ci riporta alla tipologia studiata nel paragrafo
precedente:

(65) S Quel giorno appariva / apparve sconveniente restare a casa /


dormire a lungo / incontrare Amilcare / mangiare il dessert.
C Quel giorno appariva / apparve sconveniente ?(il fatto di) esse-
re restati a casa / ?(il fatto di) aver dormito a lungo / ?(il fatto
di) aver incontrato Amilcare / ?(il fatto di) aver mangiato il
dessert.

Un secondo tipo è invece costituito dagli aggettivi che accolgono senza pro-
blemi l’IFC, e che mantengono coll’IFS una duplice possibilità di orientamento,
prospettivo o simultaneo, sia pure con le eventuali difficoltà pragmatiche ingene-
rate – nel secondo caso – dai ‘conseguimenti’, e con la netta propensione degli
stativi per la lettura simultanea. Si pensi a: felice di, contento di, lieto di, soddi-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 143

sfatto di, compiaciuto di, certo di, sicuro di, convinto di etc.:

(66) S Quel giorno, Isa era / fu lieta di possedere una bici nuova / gio-
care a carte con Tino / uscire di casa / scrivere la sua relazione.
C Quel giorno, Isa era / fu lieta di aver posseduto una bici nuova
/ aver giocato a carte con Tino / essere uscita di casa / aver
scritto la sua relazione.
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(67) S Quel giorno, Aldo era / fu certo di avere ragione / giocare bene
/ ritrovare la serenità / scrivere la relazione in maniera con-
vincente.
C Quel giorno, Aldo era / fu certo di aver avuto ragione / aver
giocato bene / aver ritrovato la serenità / aver scritto la rela-
zione in maniera convincente.

Un caso a parte è costituito da capace di, che ammette l’IFC solo in unione con
Tempi imperfettivi nella principale, e solo – adoperando beninteso un registro sub-
standard – con accezione epistemica (per es., con riferimento a 68/C: ‘è più che mai
possibile che Leo avesse avuto ragione’; a ciò allude il diacritico ≠). Quanto all’IFS,
esso oscilla nuovamente tra simultaneità e prospettività, benché gli stativi tendano
decisamente a prediligere la prima possibilità (con una netta sfumatura epistemica) 29:

(68) S Quel giorno, Leo era / fu capace di ≠ avere ragione / giocare


bene / uscire di casa senza stampelle / scrivere la sua relazione.
C ≠ Quel giorno, Leo era / *fu capace di aver avuto ragione / aver
giocato bene / essere uscito di casa senza stampelle / aver
scritto la sua relazione.

Si osservi ancora come il cambio di preposizione possa produrre rilevanti conse-


guenze nel comportamento del medesimo aggettivo (cf. nuovamente 62-64). In (69)
emerge, coll’IFS, la lettura simultanea, che appare anzi obbligata con gli stativi, ben-
ché si possa anche avere orientamento prospettivo, specie coi Tempi perfettivi nella
principale. Per contro, lo spiccato senso causale di (70) esclude l’IFS, mentre l’IFC
sembra ammissibile (anche se l’accettabilità aumenterebbe con poteva / poté dirsi for-
tunato per). Abbiamo dunque un orientamento spiccatamente retrospettivo:

(69) S Quel giorno, Memo era / fu fortunato a essere presente / dor-


mire nel suo letto / uscire di casa con l’ombrello / scrivere la
sua relazione per ultimo.
C Quel giorno, Memo era / fu fortunato a essere stato presente /

29 Va detto che lo stativo avere ragione appare difficilmente impiegabile in dipendenza di


un Tempo perfettivo, a meno che non gli si attribuisca un’accezione chiaramente non stativa
(ossia, ‘fu capace di ottenere / farsi dare ragione’). Questo non è certo un caso isolato.
144 PIER MARCO BERTINETTO

aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.
(70) S * Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere presente /
dormire nel suo letto / uscire di casa con l’ombrello / scrivere
la sua relazione per ultimo.
C Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere stato presente
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/ aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.

Con aggettivi come consapevole di o cosciente di, lo spostamento dell’IFS


verso l’interpretazione simultanea, già in parte osservabile in (69), risulta piutto-
sto marcato. Si noti che, con questi aggettivi, l’uso del Passato Semplice della
copula essere appare scarsamente accettabile (ma questo non è certo il primo caso
finora incontrato). Resta, peraltro, la possibilità di impiegare l’IFC, il che garan-
tisce anche la lettura retrospettiva:

(71) S Quel giorno, Maria appariva / apparve consapevole di avere


ragione / agire senza riguardi / incontrare una celebrità / man-
giare una mela bacata.
C Quel giorno, Maria appariva / apparve consapevole di aver
avuto ragione / aver agito senza riguardi / aver incontrato una
celebrità / aver mangiato una mela bacata.

L’orientamento sembra infine decisamente inclinare verso la retrospettività


con dimentico di, che impone severe restrizioni sull’IFS dei verbi telici, mentre
pare semmai accettare – in accezione di simultaneità – gli stativi ed i verbi di ‘atti-
vità’, purché introdotti da un Tempo imperfettivo:

(72) S A quel punto, Aldo appariva / *apparve dimentico di avere


ragione / giocare senza parastinchi / ??ritrovare il portafoglio
/ ??scrivere la sua relazione.
C A quel punto, Aldo appariva / apparve dimentico di aver avuto
ragione / aver giocato senza parastinchi / aver ritrovato il por-
tafoglio / aver scritto la sua relazione.

Un orientamento spiccatamente retrospettivo emerge spesso anche con


(in)consapevole di in presenza di ‘conseguimenti’, come in: Aldo sembrava
inconsapevole di *ritrovare / aver ritrovato il portafoglio.

3.1.3. L’infinito retto da un aggettivo ‘nudo’

Il quadro emerso attraverso l’analisi dell’Infinito retto da aggettivi ricalca


SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 145

dunque, nelle grandi linee, quello offertoci dall’Infinito sotto dipendenza da verbi.
L’IFC conserva il proprio carattere univoco, mentre l’IFS si presta ad esprimere
un’ampia gamma di valori tempo-aspettuali. La cosa non sorprende, se si conside-
ra che i contesti sopra esaminati presentano sempre l’aggettivo in unione con un
ausiliare, cui sono affidate le valenze tempoaspettuali. Dunque, anche in tali circo-
stanze agiscono in pratica i medesimi fattori che abbiamo visto all’opera nella sezio-
ne dedicata all’Infinito introdotto da verbi: semantica lessicale dell’elemento reg-
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gente (l’aggettivo), sua valenza tempo-aspettuale (espressa dall’ausiliare), carattere


azionale dell’Infinito. L’unico fattore che manca parzialmente all’appello è il carat-
tere azionale dell’aggettivo reggente, nel senso che il valore azionale sembra inva-
riabilmente tendere verso la statività. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze,
non saprei dire se ciò dipende da un’intrinseca proprietà degli aggettivi, ovvero dal
fatto che non disponiamo di analisi specificamente dedicate all’argomento, analo-
gamente a quanto è stato fatto per i nomi deverbali30.
Ma che succede se l’ausiliare viene omesso? Dobbiamo forse aspettarci che
le spiccate propensioni tempo-aspettuali sopra descritte vadano disperse?
L’analisi della prossima batteria di esempi dimostra che non è affatto così: da essi
sembra emergere un preciso orientamento temporale, benché non si tratti di enun-
ciati pienamente formulati, bensì soltanto di sintagmi aggettivali che introducono
un Infinito fuori contesto. Nell’ordine: (73-4) contengono locuzioni esprimenti,
rispettivamente, prospettività e simultaneità (e che difatti escludono l’IFC); (75)
contiene locuzioni ambivalenti, oscillanti tra simultaneità e prospettività (e quin-
di parimenti refrattarie all’IFC); (76) esibisce locuzioni esprimenti retrospettività,
e dunque incompatibili con l’IFS; (77), infine, contiene locuzioni polivalenti, che
svariano dalla prospettività alla simultaneità alla retrospettività, e che di conse-
guenza ammettono entrambe le forme dell’Infinito31:

(73) Intenzionato a mangiare / *aver mangiato, ansioso di restare /


*essere restato, costretto a uscire / *essere uscito, sufficiente per
avviare / *aver avviato...
(74) Abituato a correre / *aver corso, facile a dirsi / *essersi detto,
brutto a vedersi / *essersi visto32, capace di uscire / ??essere usci-

30 Cf. Brinton (1995) e, per l’italiano, Gaeta (1997).


31 Come già si poteva osservare nel paragrafo precedente, nelle locuzioni aggettivali non
sembrano esistere esempi in cui l’IFS esprima orientamento retrospettivo. Ciò va tuttavia preso
con riserva, dato il carattere tutt’altro che esauriente dell’esemplificazione prodotta.
32 Con facile a e brutto a, l’evento indicato dall’IFS può anche essere considerato alla stre-
gua di una mera potenzialità (eventualmente corroborata da un accumulo di esperienze prece-
denti, come in abituato a). Ciò non toglie che vi sia simultaneità tra lo stato disposizionale cui
fa riferimento l'aggettivo e un tale evento potenziale.
33 Con capace di è possibile, marginalmente, attribuire all’IFC un’interpretazione episte-
mica (= “è possibile che sia uscito”). Cf. anche l’es. (68).
146 PIER MARCO BERTINETTO

to senza stampelle33, stanco (stufo) di essere / ??essere stato poco


considerato...
(75) Costretto a rispondere / *aver risposto...
(76) Stanco per *viaggiare / aver viaggiato, dimentico di aver avuto
ragione...
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(77) Lieto di scrivere / aver scritto, certo di avere / aver avuto ragione
ragione, fortunato a ottenere / aver ottenuto, consapevole di
incontrare / aver incontrato un pregiudicato...

Questi esempi mostrano con assoluta evidenza che l’IFS (a differenza, come
ormai ben sappiamo, dell’IFC) non contribuisce alcunché all’interpretazione tem-
porale, data l’ampia gamma di letture ad esso accessibili. Si noti inoltre, a con-
ferma di quanto osservato nel paragrafo precedente, che neppure in questi casi
l’interpretazione temporale dipende esclusivamente dalla semantica lessicale del-
l’aggettivo, ma risente anche del carattere azionale del verbo. Per es., l’IFS retto
da dimentico di (cf. 76) esibisce un orientamento temporale di simultaneità coi
verbi atelici, mentre risulta agrammaticale coi verbi telici (cf. dimentico di avere
ragione [s] / giocare senza parastinchi [a] / *ritrovare il portofoglio [c] / *scrive-
re la sua relazione [r]...). Questo è dunque, a rigore, un caso di parziale ambiva-
lenza, piuttosto che di orientamento retrospettivo tout court.
Del resto, neanche in queste circostanze viene a mancare il contributo – non
immediatamente evidente, ma non per questo meno essenziale – delle valenze
aspettuali. Non ci si deve lasciare trarre in inganno dal fatto che, negli esempi appe-
na considerati, non compaiano ausiliari debitamente coniugati. In assenza di ulte-
riori specificazioni, prevale qui l’interpretazione generica solitamente associata, nei
contesti appropriati, ai Tempi imperfettivi (tipicamente, Presente e Imperfetto).
Fuori contesto, una locuzione aggettivale che regga un Infinito tende infatti a desi-
gnare una – sia pur temporanea – condizione statica, piuttosto che un’accezione
ingressiva (beninteso, ove quest’ultima sia accessibile). Tuttavia, mi parrebbe erra-
to attribuire un peso eccessivo a questa circostanza; l’orientamento temporale attri-
buibile all’Infinito in queste locuzioni non sembra dipendere in maniera determi-
nante dalla natura aspettuale del Tempo eventualmente associato all’ausiliare (cf.
Leo appare / appariva / apparve / apparirà costretto ad accettare, che mantiene
sempre il proprio carattere prospettivo). Il Tempo dell’ausiliare contribuisce (quan-
to meno in proposizione principale) a specificare la localizzazione deittica dell’e-
vento indicato dal predicato aggettivale – cui si aggancia anaforicamente l’Infinito

34 Si badi che questo dato è tutt’altro che scontato. Nel caso delle infinitive soggettive intro-
dotte da verbi che danno vita a strutture di senso ‘consequenziale’, infatti, la commutazione tra
Tempi perfettivi o imperfettivi influisce anche sull’orientamento temporale dell’Infinito. Si
riconsiderino gli ess. (45-53).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 147

– nonché la natura dell’interpretazione aspettuale (perfettiva o imperfettiva), ma non


sembra poter influire sull’orientamento temporale dell’Infinito34.
3.2. L’Infinito retto da nomi

Il fatto che gli aggettivi trasmettano agli Infiniti da essi retti un preciso orien-
tamento temporale può anche non sorprendere, data la natura in parte nominale e
in parte verbale di questa classe grammaticale35. Ci si potrebbe invece aspettare
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una totale mancanza di reattività nel caso dell’Infinito dipendente da nomi. Ma le


cose non stanno in questi termini: come vedremo tra breve, l’Infinito manifesta
una notevole flessibilità interpretativa anche in dipendenza da nomi, benché que-
sti godano di minore autonomia sintattica rispetto agli aggettivi. I nomi che reg-
gono un Infinito subiscono infatti forti restrizioni quando danno vita a strutture
predicative. Di ciò è indizio il fatto che la vasta gamma di ausiliari che può
accompagnare gli aggettivi (essere, apparire, risultare, sembrare, trovarsi, rive-
larsi etc.) si restringe in pratica al solo essere 36. Inoltre, le strutture sintattiche in
cui i nomi che reggono un Infinito compaiono con valore predicativo sembrano
poter essere soltanto del tipo equativo; ossia, strutture in cui il sintagma nomina-
le che ingloba l’Infinito può svolgere – con quasi identica plausibilità, sia pure
con conseguente variazione di senso – il ruolo di soggetto o quello di predicato
(cf. La forza di Zorro fu sempre la consapevolezza di aver ragione vs. La consa-
pevolezza di aver ragione fu sempre la forza di Zorro). In sostanza, all’interno di
un sintagma con testa nominale, l’Infinito appare come in una sorta di nicchia pro-
tetta, su cui ben poco possono influire le valenze azionali dell’ausiliare (che è
sempre essere), mentre persino le sue valenze aspettuali non possono pesare più
di tanto, data la relativa fissità delle strutture equative. È lecito dunque aspettarsi
che (quasi) tutto ciò che attiene all’interpretazione dell’Infinito dipenda dall’inte-
razione tra la semantica lessicale della testa nominale e le proprietà azionali
dell’Infinito (lasciando sullo sfondo il problema delle eventuali tracce azionali
annidate nel nome). Per togliere ogni dubbio a questo riguardo, negli esempi che
presenterò saranno esibiti soltanto nomi ‘nudi’, ossia privi di ausiliare.
Poiché la raccolta di dati non può per definizione risultare esauriente (trat-
tandosi di un insieme aperto), l’elenco che segue va inteso come prima approssi-
mazione: non è escluso che ulteriori possibilità emergano ad un esame più atten-
to. Gli esempi sono raggruppati in base all’orientamento temporale indotto
sull’Infinito. Come già nel § 3.1.3, anche in questo caso si tratta, per lo più, di

35 Com’è noto, la vocazione piuttosto verbale o – a seconda dei casi – nominale degli agget-
tivi costituisce un importante fattore di variazione tipologica. Su questo punto, mi limito a rin-
viare a Bhat (1994).
36 Trascuro qui, per ragioni che mi appaiono ovvie, i predicati complessi che sembrano con-
tenere un sintagma infinitivale con testa nominale (cf. aver l’aria di sentirsi a proprio agio). In
questi casi, infatti, si ha una locuzione predicativa sintagmatica pienamente lessicalizzata (aver
l'aria di), anziché una struttura nominale.
148 PIER MARCO BERTINETTO

locuzioni fuori contesto, anziché di autentici enunciati. Ciò è stato fatto intenzio-
nalmente, per depurare l’interpretazione da ogni effetto contestuale estraneo al
mero rapporto tra la testa nominale e l’Infinito. Non sarà comunque inutile
richiamare una volta ancora all’esercizio della prudenza; l’interpretazione effetti-
va di un dato esempio può infatti dipendere da sottili condizionamenti pragmati-
ci, che andrebbero verificati sulla base di un’illustrazione molto più ampia di
quella che potrò qui esibire:
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(78) PROSPETTIVITÀ
es.: L’obbligo / la decisione / la scelta / l’ordine / la volontà / il
tentativo di + INFINITO; il modo / il mezzo / il sistema / l’e-
spediente / le iniziative / il motivo per + INFINITO; l’autoriz-
zazione / l’esortazione / l’invito / la riluttanza / la spinta / lo
stimolo / la tendenza / l’impulso a + INFINITO.
a. S La decisione di *essere in bolletta [s] / restare alzati fino a
tardi [s’] / dormire vestiti [a] / rientrare tardi [c] / bere una
spremuta a colazione [r]...
C * La decisione di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti [a] / essere rien-
trati tardi [c] / aver bevuto una spremuta a colazione [r]
b. S Il motivo per possedere una Mercedes [s] / restare uniti [s’]
/ giocare in notturna / uscire in anticipo [c] / restaurare la
facciata [r]...
C * Il motivo per aver posseduto una Mercedes [s] / essere resta-
ti uniti [s’] / aver giocato in notturna [a] / essere usciti in
anticipo [c] / aver restaurato la facciata [r]
c. S Il modo per aver ragione [s] / restare a lungo svegli [s] / dor-
mire senza interruzion [a] / trovare l’uscita [c] / bere tutto
d’un fiato [r]...
C * Il modo per aver avuto ragione [s] / essere restati a lungo
svegli [s’] / aver dormito senza interruzioni [a] / e aver tro-
vato l’uscita [c] / aver bevuto tutto d’un fiato [r]...
d. S Le iniziative per ?? possedere una Mercedes [s] / restare
uniti [s’] / giocare in notturna (a) / ottenere il giusto ricono-
scimento [c] / restaurare la facciata [r]...
C * Le iniziative per aver posseduto una Mercedes [s] / essere
restati uniti [s’] / ave giocato in notturna [a] / aver ottenuto il
giusto riconoscimento [c] / aver restaurato, la facciata [r]...
e. S L’autorizzazione a (??)essere in ritardo [s] / restare seduti
[s’] / giocare in notturna [a] / uscire dalla porta di servizio
[c] / scrivere al sindaco [r]...
C * L’autorizzazione a essere stati in ritardo [s] / essere resta-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 149

ti seduti [s’] / aver giocato in notturna [a] / essere usciti dalla


porta di servizio [c] / aver scritto al sindaco [r]...
(79) PROSPETTIVITÀ / SIMULTANEITÀ
es.: Il fenomeno / l’istinto / l’abitudine / l’imbarazzo / la vergo-
gna / la persuasione / la convinzione / la fissazione / l’im-
pressione di + INFINITO.
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a. S Il diritto di essere in bolletta [s] / restare alzati fino a tardi


[s’] / giocare di pomeriggio [a] / rientrare tardi [c] / bere un
superalcolico [r]...
C * L’abitudine di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver giocato di pomeriggio [a] / esse-
re rientrati tardi [c] / aver bevuto un superalcolico [r]...
(80) SIMULTANEITÀ
es.: Il fenomeno / l’istinto / l’abitudine / l’imbarazzo / la vergo-
gna / la persuasione / la convinzione / la fissazione / l’im-
pressione di + INFINITO.
a. S L’istinto di aggrapparsi [c] al dito dell’adulto compare pre-
cocemente nel neonato
C * L’istinto di essersi aggrappati [c] al dito dell’adulto com-
pare precocemente nel neonato
b. S L’abitudine di ??essere in bolletta [s] / restare alzati fino a
tardi [s’] / dormire vestiti [a] / rientrare tardi [c] / bere una
spremuta a colazione [r]...
C * L’abitudine di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti [a] / essere rien-
trati tardi [c] / aver bevuto una spremuta a colazione [r]...
c. S La vergogna di essere in bolletta [s] / restare a letto fino a
tardi [s’] / scrivere in maniera illeggibile [a] / rientrare tardi
[c] / bere una coca-cola a colazione [r]
? La vergogna di essere stati in bolletta [s] / essere restati a let-
to fino a tardi [s’] / aver scritto in maniera illeggibile [a] / esse-
re rientrati tardi [c] / aver bevuto una coca-cola a colazione [r]...
(81) RETROSPETTIVITÀ
es.: Il rimorso di + INFINITO; l’irritazione, la vergogna, l’imba-
razzo per + INFINITO
a. S L’irritazione per essere in ritardo [s] / (*)restare in piedi
tutto il tempo [s’] / (*)giocare da solo contro tutti [a] / (*)
entrare dalla porta di servizio (c) / (*) scrivere la tesi senza
assistenza [r] [piuttosto: l’irritazione per il fatto di].
C L’irritazione per essere stati in ritardo [s] / essere restati in
piedi tutto il tempo [s’] / aver giocato da solo contro tutti [a]
150 PIER MARCO BERTINETTO

/ essere entrati dalla porta di servizio [c] / aver scritto la tesi


senza assistenza [r]...
b. S Il rimorso di possedere sostanze mal guadagnate [s] / *resta-
re alzati fino a tardi [s’] / *dormire vestiti [a] / *rientrare
tardi [c] / *bere una coca-cola a colazione [r]...
C Il rimorso di (*) aver posseduto sostanze mal guadagnate [s]
/ essere restati alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti
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[a] / essere rientrati tardi [c] / aver bevuto una coca-cola a


colazione [r]...
c. S La vergogna per essere in bolletta [s] / ??restare a letto fino
a tardi [s’] / ?? scrivere in maniera illeggibile [a] / *rientra-
re tardi [c] / *bere una coca-cola a colazione [r]...
C La vergogna per essere stati in bolletta [s] / essere restati a
letto fino a tardi [s’] / aver scritto in maniera illeggibile [a]
/ essere rientrati tardi [c] / aver bevuto una coca-cola a cola-
zione [r]...
d. S Il dolore di nascere lo accompagnò / accompagnerà per tutta
la vita.
C ?? Il dolore di esser nato lo accompagnò / accompagnerà per
tutta la vita.
(82) PROSPETTIVITÀ/SIMULTANEITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: La persuasione / la convinzione / la fissazione / l’impressio-
ne di + INFINITO.
a. S La persuasione di essere in bolletta [s] / rimanere a lungo
[s’] / giocare bene [a] / rientrare tardi [c] / mangiare cervel-
la di mucca pazza [r]...
C La persuasione di ??essere stati in bolletta [s] / essere rima-
sti a lungo [s’] / aver giocato bene [a] / essere rientrati tardi
[c] / aver mangiato cervella di una mucca pazza [r]...

A differenza di quanto notato a proposito delle strutture rette da aggettivi, qui


l’IFS sembra capace di esprimere autonomamente il senso retrospettivo, almeno
in selezionatissimi contesti (cf. 81d/S)37. Ciò accomuna le locuzioni con testa
nominale alle strutture introdotte da verbi. Quanto invece al fatto che l’ammissi-
bilità dell’IFC sia un chiaro indizio di retrospettività, la cosa apparirà scontata,
alla luce di quanto già visto. Si noti inoltre – ammesso che l’esemplificazione qui
prodotta rispecchi fedelmente l’effettiva distribuzione nel lessico – come le locu-
zioni indicanti prospettività predominino sul piano numerico, e come quelle espri-
menti retrospettività siano di gran lunga le meno frequenti. Meritevole di specia-

37 L’esempio mi è stato suggerito da Patrizia Tabossi. Si noti, per contro, la scarsa accetta-
bilità di (81d/C).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 151

le menzione sono infine le locuzioni dall’interpretazione polivalente (cf. 79, 82),


che orientano verso la prospettività o la simultaneità con l’IFS e verso la retro-
spettività con l’IFC (quando quest’ultimo sia accessibile). Come già in (77), anche
qui l’orientamento prospettivo sembra particolarmente richiesto dai ‘conseguimen-
ti’, mentre la lettura di simultaneità appare ineludibile cogli stativi (cf. 78c).
Ovviamente, l’orientamento temporale dell’Infinito dipende dalla semantica
lessicale del nome reggente. Tuttavia, il comportamento effettivo può riservare
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qualche sorpresa. Benché l’imbarazzo di, la vergogna di e il rimorso di sembrino


appartenere tutti alla medesima sfera semantica, i primi due inducono simulta-
neità (cf. 81c), mentre l’ultimo implica retrospettività, come anche l’imbarazzo
per e la vergogna per (cf. 81b-c).
L’esempio (80a) denuncia la presenza di forti restrizioni pragmatiche nella
scelta dell’Infinito retto dal nome. Presumibilmente, i pochi verbi ammessi sono
tutti di carattere telico. Ma le restrizioni azionali sono attive anche in altre circo-
stanze. Per es., aver l’abitudine di (cf. 80b) esclude gli stativi puri. Tuttavia, ciò
non dipende dallo specifico orientamento temporale: se *la decisione di essere in
bolletta appare decisamente inaccettabile (cf. 78a), non altrettanto si può dire di
?il modo per aver ragione (cf. 78c), benché entrambe le locuzioni orientino
l’Infinito verso la lettura prospettiva. Nel secondo caso, si direbbe peraltro che lo
stativo slitti verso un’accezione telica (equivalente a: ‘per ottenere ragione’).
L’esclusione degli stativi puri dipende comunque da sottili condizionamenti prag-
matici, come dimostra il confronto tra (78b) e (78a, d, e), tutti imperniati su locu-
zioni implicanti prospettività. Diversa sembra invece essere la situazione nei casi
di retrospettività (cf. 81), in cui la restrizione verso l’IFS sembra allentarsi pro-
prio nel caso degli stativi puri. Ma va precisato che, in siffatte circostanze (sia
pure con la citata eccezione di 81d/S), l’orientamento temporale degli IFS stativi
inclina verso la simultaneità; si tratta quindi, a ben vedere, di un caso di parziale
bivalenza, pur fortemente limitato dal fatto che tutti gli altri tipi di predicato sem-
brano refrattari all’IFS.
Veniamo ora all’interpretazione aspettuale. Nei casi di lettura prospettiva e
retrospettiva, l’Infinito appare nettamente orientato verso la perfettività.
Ovviamente, nelle circostanze – e sono la maggioranza – in cui la retrospettività
è affidata alla presenza dell’IFC, il valore aspettuale è (più specificamente) di
compiutezza. Circa invece le locuzioni orientate verso la simultaneità, documen-
tate in (80), mi pare lecito supporre che, per lo più, vi sia neutralizzazione aspet-
tuale. Queste locuzioni sembrano infatti alludere spesso alla dimensione della
mera potenzialità/genericità, piuttosto che a quella dell’effettiva ‘attualità’ (cf.
80a-b). In tali circostanze, l’IFS non esprime valore progressivo o continuo, ma si
colloca nella sfera dell’indeterminatezza tempo-aspettuale tipica degli eventi
generico-abituali. Per es., l’abitudine di restare alzato fino a tardi non vale sol-
tanto nel caso in cui l’evento indicato sia in corso al momento pertinente (desi-
gnato dal Tempo verbale che potremmo trovare in un enunciato completo), bensì
si applica ad una situazione intemporale: colui che agisce in questo modo può
152 PIER MARCO BERTINETTO

farlo in qualsiasi momento pertinente (ossia, ogni sera). Il senso di ‘attualità’


emerge tuttavia – senza peraltro escludere una possibile lettura generica – in
(80c), così come emerge con le interpretazioni di simultaneità dei tipi misti; ossia,
con l’IFS degli stativi nelle locuzioni tendenti verso la retrospettività (cf. 81) e con
l’IFS del tipo polivalente (cf. 82). In tali circostanze, l’interpretazione aspettuale
è di tipo progressivo o continuo.
In definitiva, ferma restando l’univocità aspettuale dell’IFC, va sottolineato
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che le diverse attitudini aspettuali palesate dall’IFS nei costrutti con testa nomi-
nale dipendono dall’interazione tra i medesimi fattori che ne determinano l’inter-
pretazione temporale: semantica lessicale del nome, valenza azionale
dell’Infinito, eventuali condizionamenti pragmatici. Una volta di più dobbiamo
dunque constatare l’ambiguità tempo-aspettuale dell’IFS.

I fatti descritti in questo paragrafo rivestono un notevole interesse dal punto


di vista teorico e tipologico, in quanto denunciano la presenza di tracce
tempo-aspettuali nella semantica dei nomi; i quali – secondo la visione tradizio-
nale – dovrebbero contrapporsi nettamente ai verbi. In realtà, è ormai noto che la
distanza tra queste due categorie è tutt’altro che incolmabile.
A livello tipologico, è stata segnalata, almeno fin dal lavoro sul nootka (lingua
Wakashan meridionale) di Swadesh (1939), l’esistenza di lingue in cui le radici les-
sicali sembrano prestarsi altrettanto bene a svolgere il ruolo di argomento o quello
di predicato, dotandosi caso per caso dell’opportuno corredo morfologico. Secondo
la versione più estrema, ciò starebbe ad indicare che, in alcune lingue, nomi e verbi
sono al più due sottoclassi di una medesima categoria (Schachter 1985). Tuttavia,
un esame approfondito dei dati mostra che, almeno nelle lingue amerindiane che
hanno fornito lo spunto iniziale per questo tipo di riflessione (si pensi anche alle lin-
gue Salish), la distinzione tra nomi e verbi non giunge mai ad obliterarsi del tutto,
dato che certe operazioni morfologiche restano inaccessibili ad alcune classi di radi-
ci lessicali, che sembrano costituire, rispettivamente, il nucleo prototipicamente
nominale e quello prototipicamente verbale (Haag 1998; Mithun 2000).
Pur senza addentrarsi in questa materia, mi limiterò a fare le due seguenti
osservazioni, direttamente pertinenti per la materia qui trattata. Innanzi tutto, va
sottolineato che la discussione relativa alla possibile (ed occasionale) assenza di
confine categoriale tra nomi e verbi suggerisce che la distinzione tra queste due
classi grammaticali può essere tutt’altro che perentoria, fino a sfumare in una ten-
denziale convergenza. Il che mostra, una volta di più, come i fatti linguistici si
dispongano nel senso della transizione graduale tra poli prototipici contrapposti,
piuttosto che divaricarsi lungo il crinale dicotomico di categorie mutuamente
esclusive. In secondo luogo, emerge chiaramente che, fra i tratti suscettibili di rea-
lizzare questa parziale convergenza tra nomi e verbi, rientrano anche quelli
tempo-aspettuali. Pur rappresentando questi ultimi un contrassegno prototipico
della componente verbale del lessico, essi sono ben lungi dal costituirne un cor-
redo esclusivo. Non potrà quindi sorprendere troppo la presenza di consistenti
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 153

indizi tempo-aspettuali nei dati riguardanti la reggenza dell’Infinito da parte dei


nomi in italiano.
Del resto, pur senza scomodare lingue esotiche, il carattere sfumato della
distinzione tra nomi e verbi emerge anche solo ad un esame approfondito del
comportamento dell’italiano; una lingua che sembrerebbe, di primo acchito, esi-
bire un solido steccato tra queste due categorie. Anche a voler trascurare il caso
fin troppo ovvio dei nomi deverbali, che inglobano chiare vestigia azionali (in
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parte mantenendo ed in parte alterando le valenze della base verbale; cf. la nota
30), la morfosintassi dell’italiano mostra chiari indizi circa la gradualità dell’op-
posizione in questione (Simone / Jezek, in stampa). Ciò riconferma che, a saper
usare il microscopio, ogni lingua ricapitola almeno in parte, nelle linee di tenden-
za generali, gli orientamenti osservabili macroscopicamente a livello tipologico.

3.3. L’Infinito retto da locuzioni preposizionali

In questa sezione considererò brevemente la situazione delle locuzioni pre-


posizionali che reggono un Infinito. Anche in questa circostanza emergeranno
precisi orientamenti temporali, che non possono certo essere attribuiti alla seman-
tica intrinseca dell’IFS, passibile di molteplici letture (diverso, come ben sappia-
mo, è il caso dell’IFC). Pertanto, le tendenze osservabili sono interamente da
ascriversi all’interazione tra i valori azionali dell’Infinito e la semantica intrinse-
ca della testa preposizionale, essendo per quest’ultima escluso l’eventuale contri-
buto dell’azionalità. Ci sarebbe forse qui argomento per ulteriori digressioni tipo-
logiche riguardanti lo statuto delle preposizioni, che taluno potrebbe considerare,
comparativamente, più ‘verbali’ dei nomi, e dunque maggiormente disponibili ad
ospitare valenze tempo-aspettuali. Ma, dopo quanto sopra osservato, tali conside-
razioni mi parrebbero oziose. La lezione generale che dobbiamo apprendere, a
mio avviso, riguarda il fatto che le tracce tempo-aspettuali sono ampiamente
distribuite nel lessico, ben al di là di quanto ci si potrebbe aspettare. Il fatto che la
loro presenza sia massima nei verbi denuncia soltanto il valore caratterizzante e
prototipico che tali valenze assumono nella circostanza, ma non riveste carattere
di esclusività.
Scorrendo la batteria di esempi sotto riportata, si noterà che in non poche cir-
costanze abbiamo a che fare con locuzioni preposizionali imperniate su di un
nome. Ciò potrebbe indurre il sospetto che questi casi non siano altro che una sot-
tospecie di quelli considerati nel § 3.2.1. Tuttavia, benché sia giusto riconoscere
che anche la semantica intrinseca dei nomi cristallizzati entro le locuzioni prepo-
sizionali contribuisca alla semantica complessiva, non si può trascurare che molte
locuzioni preposizionali che reggono un Infinito non inglobano alcun nome.
Dunque, le tendenze tempo-aspettuali osservabili andranno ascritte, in ultima ana-
lisi, alla testa preposizionale nel suo complesso.
Si considerino i seguenti esempi, raggruppati a seconda dell’orientamento
154 PIER MARCO BERTINETTO

temporale indotto sull’Infinito:

(83) PROSPETTIVITÀ
es.: A costo, in attesa, al fine, a meno, piuttosto, invece, al posto
di + INFINITO; piuttosto che, anziché + INFINITO.
a. S A costo di ??essere nel torto [s] / restare ultimo [s´] / dormi-
re vestito / entrare dalla porta servizio / scrivere la tesi da
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solo...
C * A costo di essere stato nel torto / essere restato ultimo /
aver dormito vestito / essere entrato dalla porta di servizio /
aver scritto la tesi da solo...
b. S In attesa di *essere nel torto [s] / restare da solo [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la tesi
C * In attesa di essere stato nel torto / essere restato da solo /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi...
c. S Invece di avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la
tesi da solo...
C * Invece di aver avuto buoni voti / essere restato seduto /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
d. S Piuttosto che avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dor-
mire nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scri-
vere la tesi da solo...
C * Piuttosto che aver avuto buoni voti / essere restato seduto
/ aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
(84) SIMULTANEITÀ
es.: In atto di, a forza, a furia di + INFINITO.
a. S In atto di *avere ragione [s] / restare deliberatamente sedu-
to [s´] / correre a più non posso / entrare dalla porta princi-
pale / scrivere la tesi...
C * In attesa di avere avuto ragione / essere restato delibera-
tamente seduto / aver corso a più non posso / essere entrato
dalla porta principale / aver scritto la tesi...
b. S A furia di *avere ragione [s] / restare seduto [s´] / agire senza
riguardo / entrare in ritardo / preparare la lezione all’ultimo...
C * A furia di aver avuto ragione / essere restato seduto / aver
agito senza riguardo / essere entrato in ritardo / aver prepa-
rato la lezione all’ultimo...
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 155

(85) PROSPETTIVITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: A condizione di + INFINITO.
S A condizione di avere buoni voti [s] / restare ultimo [s´] /
dormire nel proprio letto / entrare dalla porta principale /
scrivere la tesi da solo...
S A condizione di aver avuto buoni voti [s] / essere restato
ultimo [s´] / aver dormito proprio letto / essere entrato dalla
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porta principale / aver scritto la tesi da


(86) PROSPETTIVITÀ/SIMULTANEITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: Oltre a + INFINITO.
S Oltre ad avere buoni voti [s] / rimanere ultimo [s´] / dormi-
re nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere
la tesi da solo...
C Oltre ad aver avuto buoni voti [s] / essere rimasto ultimo [s´]
/ aver dormito nel proprio letto, / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...

Si noterà innanzi tutto che, in qualche caso, si hanno restrizioni sugli stativi
puri. Si veda per es. (oltre a 83a-b): *piuttosto di avere buoni voti, da contrastar-
si – pur nel comune orientamento prospettivo – con (83d)38.
Quanto alle locuzioni temporalmente ambivalenti, merita segnalare che in
(85) l’orientamento è complementarmente distribuito sulle due forme, con l’IFS
che implica prospettività e l’IFC che presuppone retrospettività. L’orientamento
temporale è invece prettamente polivalente in (86), dove anche la simultaneità
rientra tra le possibilità designative. Degno di speciale menzione è però il fatto
che la retrospettività possa qui esplicarsi direttamente coll’IFS, oltreché con
l’IFC. A conferma, si consideri la localizzazione temporale dell’IFS in corsivo
nell’esempio seguente, che può – anche se non deve necessariamente – precedere
il momento indicato dal Tempo della principale:

(87) Oltre ad evitare sistematicamente di farsi interrogare dai giudici,


Berlusconi e Previti li hanno per giunta attaccati con accuse che a

38 Le locuzioni di carattere ‘sostitutivo’ (piuttosto, invece, al posto di + INFINITO; piutto-


sto che, anziché + INFINITO) possono facilmente trarre in inganno. Si consideri infatti:
(i) Invece di correre a casa, Mario si attardò a discutere con il giornalaio.
Come già denunciato a proposito degli esempi (3-4), la presenza di un Passato nella prin-
cipale può ingenerare l’impressione che l’evento designato dall’IFS preceda quello della princi-
pale. Ma si tratta di un’illusione prospettica. Qualunque sia il punto individuato sull’asse tem-
porale, queste espressioni designano sempre un evento non ancora realizzato. Difatti, in: Invece
di uscire ha preferito restare, l’evento effettivamente realizzatosi è quello di ‘restare’, mentre
l’evento di ‘uscire’ non si è compiuto e soprattutto (nell’ancoraggio temporale dato) viene assun-
to prospettivamente come di là da venire.
156 PIER MARCO BERTINETTO

molti appaiono artatamente fabbricate.

Ciò costituisce un’ulteriore prova (se mai ancora ne occorressero) circa la


flessibilità designativa dell’IFS, capace di svariare sull’intera gamma delle possi-
bilità tempo-aspettuali, sia pure con la già notata parsimonia per quanto riguarda
l’orientamento retrospettivo, normalmente appannaggio dell’IFC.
Circa il problema dell’interpretazione aspettuale, valgano le poche annota-
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zioni che seguono. Nei casi di prospettività e retrospettività, la lettura è netta-


mente perfettiva (più specificamente, di compiutezza con l’IFC), sia pure con la
possibile eccezione di (83c-d), dove si assiste presumibilmente ad una neutraliz-
zazione aspettuale. Negli esempi esprimenti simultaneità si ha invece interpreta-
zione imperfettiva, con diverse sfumature; dalla pura progressività implicata da in
atto di in (84a), alla continuità – innescata dalla reiterazione dell’evento – sugge-
rita da a furia di in (84b).

4. OSSERVAZIONI IN MARGINE

Nel presente paragrafo toccherò, sommariamente, alcuni problemi emersi in


margine all’analisi dell’Infinito italiano.
Si sarà notato – e ciò non costituisce sul piano generale una sorpresa – che gli
stativi puri mostrano spesso un comportamento autonomo rispetto ai predicati even-
tivi39. Questa circostanza è stata di volta in volta segnalata negli esempi sopra
discussi. Degno di speciale menzione è però il fatto che, non di rado, l’IFS dei verbi
stativi e l’IFC (in generale) si comportino in maniera solidale. Questa convergenza
è documentata da vari esempi tra quelli sopra considerati, come: (21, 56-57, 78a,
78d-e, 81a-b, 83a-b, 84a-b). Ciò suggerisce l’idea che tale solidarietà derivi da una
recondita affinità, per la quale si potrebbero ipotizzare giustificazioni tutt’altro che
peregrine. È infatti noto che le forme esprimenti l’aspetto compiuto includono una
valenza stativa, legata all’idea di ‘stato risultante’. Di ciò sembrano addirittura esi-
stere prove neurolinguistiche, stando ai risultati ottenuti da Finocchiaro / Miceli
(2002). Tuttavia, esistono anche non poche circostanze che smentiscono questa ten-
denza: di ciò fanno fede esempi come: (59, 61, 78b, 83d). Ciò induce quindi a con-
siderare con una certa cautela queste tendenziali convergenze, e più in generale il
tema delle mutue implicazioni semantiche inferibili dai dati qui considerati. Il cor-
redo semantico dell’IFS sembra essere potenzialmente molto ricco, e soprattutto
alquanto duttile nell’adattarsi ai diversi contesti.

39 Si pensi al comportamento degli stativi in inglese, che in dipendenza di un Tempo pas-


sato possono indicare – ed anzi di preferenza indicano – simultaneità, anziché anteriorità:
(i) John said that Mary was ill [simultaneità o anteriorità]
(ii) John said that Mary left [anteriorità].
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 157

Un’ulteriore prova a favore di questa conclusione si ricava dal fatto che l’IFC
appare perfettamente ammissibile anche in taluni contesti in cui l’IFS, per parte
sua, è caratterizzato da un netto orientamento prospettivo. Ciò accade per es. in (15,
85); ma qualcosa del genere si verifica anche nelle circostanze in cui l’IFC convive
– a livello paradigmatico – con un IFS esprimente simultaneità, come in (29, 71),
ovvero simultaneità/prospettività, come in (30-31, 66-67, 82, 86)40. Per converso, si
noti come in non pochi casi le due forme dell’Infinito manifestino un orientamento
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radicalmente divaricato sul piano della grammaticalità. Questo si osserva ad es.:

– in (7-13, 56-57, 62-64, 78, 83), dove alla spiccata prospettività


dell’IFS fa da contrasto l’agrammaticalità dell’IFC (il che dovrebbe
costituire il caso non marcato, visto che questa forma è esclusiva-
mente deputata ad esprimere compiutezza);
– in (21, 58, 80, 84), dove la stretta simultaneità inerente a questi
costrutti esclude, per ragioni non dissimili, l’IFC;
– in (36, 79), dove l’IFS può assumere, a seconda delle circostanze,
valore prospettivo o simultaneo, mentre l’IFC continua ad essere
escluso;
– in (2425, 60-61, 70, 81), dove l’inaccettabilità dell’IFS è pienamen-
te corroborata dalla grammaticalità dell’IFC, il che sancisce lo spic-
cato orientamento retrospettivo in questi costrutti.

Benché, quindi, si possa con buona plausibilità asserire che l’inaccettabilità


dell’IFC sia un buon indizio per sancire l’orientamento prospettivo e/o simultaneo
del contesto infinitivale considerato, e viceversa che l’inaccettabilità dell’IFS, a
fronte della grammaticalità dell’IFC, sia un altrettanto valido indizio circa il carat-
tere retrospettivo del contesto, si deve al contempo ammettere – sulla base dei dati
riportati all’inizio di questo capoverso – che il quadro delle compatibilità è più
articolato di quanto non si sarebbe tentati di credere.
Meritevole di attento approfondimento è il tema delle differenze interlingui-
stiche. A questo problema non potrà essere dedicato qui che un rapido cenno, con
riferimento al confronto tra italiano e spagnolo (i dati sono tratti da Perez Vazquez
2000/01). In effetti, benché queste due lingue siano geneticamente e tipologica-
mente affini, il comportamento dell’Infinito differisce in alcuni tratti fondamenta-
li.
Va innanzi tutto sottolineato il diverso comportamento che si osserva nelle

40 Per alcuni degli esempi qui citati, come pure per altri subito sotto ricordati, valgono
ovviamente le precisazioni fatte – al momento della loro prima presentazione – in merito al com-
portamento delle diverse classi azionali o con riferimento all’effetto prodotto dalla natura aspet-
tuale del verbo reggente.
158 PIER MARCO BERTINETTO

strutture causali o nelle temporali introdotte da dopo / después de, in cui l’italia-
no reclama l’IFC, mentre lo spagnolo esige l’IFS:
(88) a. Il giocatore fu espulso per *insultare / aver insultato il
guardalinee.
b. El jugador fue expulsado por insultar / *haber insultado
al juez de linea.
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(89) a. Dopo *lavorare / aver lavorato alla tesi, si riposò.


b. Después de trabajar / *haber trabajado a la tesis, se
descanzó.

Qualcosa di molto simile accade in strutture aggettivali rette da colpevole /


culpable, dove in italiano l’IFS può al limite comparire solo con valore iterati-
vo-generico, non certo in accezione semelfattivo-specifica:

(90) a. Colpevole di *rubare / aver rubato...


b. Culpable de robar / *haber robado...

Per converso, si osservi come l’italiano prediliga l’IFS in enunciati come il


seguente, laddove in spagnolo si deve ricorrere all’IFS progressivo (una struttura
non impossibile, ma decisamente infrequente in italiano, probabilmente a causa
della sua pesantezza):

(91) a. Credevo di picchiare / ??stare picchiando il ladro, e inve-


ce stavo picchiando mia suocera.
b. Creía *pelear / estar peleando al ladrón, pero estaba
peleando a mi suegra.

Questo induce ad ipotizzare che l’IFS spagnolo sia molto più caratterizzato in
senso perfettivo del suo omologo italiano, tanto da dover essere esplicitamente
marcato come imperfettivo in frasi come (91), o da potersi sostituire all’IFC in
frasi come (88-90).
Si noti, infine, come l’IFS nominalizzato dello spagnolo tenda, coi consegui-
menti, ad assumere un’accezione iterativo-generica, a differenza dell’analoga
struttura italiana, che può senza difficoltà esprimere senso semelfattivo-specifico
(come in: quest’anno, il fiorire dei garofani mi ha colto di sorpresa):

(92) a. Il fiorire dei garofani. (= iterativo-generico o semelfatti-


vo-specifico)
b. El florecer de los claveles. (= iterativo-generico)

Ciò conferma l’esistenza di sottili disparità nel corredo semantico di queste


forme nelle due lingue considerate, sulla cui natura sarebbe interessante saperne
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 159

di più. Né, d’altra parte, quelle indicate sono le uniche differenze nell’uso
dell’Infinito, visto che anche a livello sintattico il comportamento di italiano e
spagnolo può divergere in maniera piuttosto netta41. Ma l’esame di questi fatti
esula dall’orizzonte del presente lavoro.

5. SULL’ASSETTO TEMPO-ASPETTUALE DELLE FORME NON FINITE DEL VERBO


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Un dato costante, che emerge dall’analisi qui condotta sulle proprietà aspet-
tuali dell’Infinito, è rappresentato dalla netta divisione di lavoro tra IFS e IFC.
Quest’ultimo, come più volte sottolineato, è specificamente deputato ad esprime-
re l’aspetto compiuto; l’IFS, invece, assolve una gamma più ampia di funzioni,
potendo manifestare – a seconda dei casi – l’aspetto aoristico o l’aspetto imper-
fettivo (nelle fattispecie della progressività e della continuità). Ciò propone un
problema teorico non banale, dato che si sarebbe piuttosto portati – e per ragioni
tutt’altro che peregrine – ad associare gli aspetti aoristico e compiuto sotto il
comune vessillo della perfettività. Questo, almeno, è quanto risulta dallo studio
del comportamento delle forme finite del verbo, che dununcia un’evidente affinità
semantica tra aoristicità e compiutezza; affinità manifestata, per esempio, dalla

41 A titolo di breve illustrazione, riporto qui una scelta di enunciati tratti da Pérez Vázquez
(2000/01), che denunciano alcuni punti di divergenza. Per una proposta di analisi formale,
rimando al lavoro citato:
(i) a. Me suspendieron por no contestar / *haber contestado nada.
b. Mi sospesero per non *rispondere / ??aver risposto nulla [semmai: ... per il
fatto di non aver risposto nulla].
(ii) a. Al tener Marta tantos hijos, entiende muy bien a los niños.
b. * Per aver Marta tanti figli, comprende molto bene i bambini.
(iii) a. El irse Juan de Madrid carece de sentido.
b. * L’andarsene Juan da Madrid è privo di senso.
(iv) a. Busco gente que dibujar (el mes próximo).
b. * Cerco gente che disegnare (il mese prossimo).
(v) a. Nada mas llegar el invierno, los osos se retiran a dormir.
b. * Nient'altro che arrivare l'inverno, (e) gli orsi cadono in letargo.
L’es. (i) mostra, in aggiunta alle già notate restrizioni riguardanti l’uso di IFS e IFC nelle strut-
ture causali, come il soggetto dell’Infinito possa in certi casi essere omesso con una certa liberalità.
Per contro, gli ess. (ii-iii) mostrano come proprio il soggetto dell’Infinito possa non di rado compa-
rire esplicitamente in contesti nei quali l’italiano preferirebbe ometterlo (il che darebbe peraltro a (iii)
un senso generico), magari trasferendolo nella principale (una mossa possibile in (ii) , anche se la
frase tenderebbe comunque ad avere un valore concessivo, piuttosto che causale).
Anche gli ess. (iv-v) illustrano costrutti che esigerebbero una diversa struttura. In (iv)
dovremmo infatti usare il Congiuntivo, il che manterrebbe il senso temporalmente generico
ovvero prospettivo (specie in presenza di un avverbiale di futurità) che si osserva nella frase spa-
gnola. In (v), invece, dovremmo cambiare la struttura sintattica della temporale (per es., all 'arri-
vare dell'inverno; ed anche qui, per inciso, il soggetto non potrebbe essere espresso, se non
mediante un sintagma preposizionale).
42 Rimando nuovamente a Bertinetto (1986, cap. 2-3) per la dimostrazione.
160 PIER MARCO BERTINETTO

similarità delle reazioni indotte, in queste due categorie aspettuali, dagli avver-
biali temporali sensibili alle valenze aspettuali ed azionali42.
Siamo insomma avvezzi a concepire il dominio aspettuale secondo lo schema
seguente:
Aspetto
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imperfettivo perfettivo

... aoristico compiuto

(A)

Dall’analisi delle forme non finite sembra invece emergere una struttura radi-
calmente diversa:
Aspetto

non compiuto compiuto

non aoristico aoristico


(= imperfetto)

...

(B)
Il problema è costituito dalla scissione osservabile in (B) all’interno dell’a-
spetto perfettivo, le cui sottocategorizzazioni (aoristico e compiuto) si ripartisco-
no sotto snodi diversi.
Prima di tentare una giustificazione di quest’ultima ipotesi interpretativa, è
opportuno valutarne la plausibilità. L’obiezione che si affaccia subito alla mente
riguarda il fatto che anche nel sistema delle forme finite si osservano convergen-
ze, in una stessa forma verbale, di valori aspettuali contrastanti, appartenenti al
comparto perfettivo ed imperfettivo. Il caso più lampante, in italiano, è quello del
Presente Indicativo, che può agevolmente esprimere, oltre alle valenze imperfet-
tive, anche quella aoristica (cf. per esempio, il Presente ‘pro futuro’ o il Presente
‘performativo’). Tuttavia, l’esistenza – almeno nel comparto passato – di una netta
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 161

ripartizione di compiti tra Imperfetto e Passato Semplice conferisce credibilità


allo schema proposto in (A). Di conseguenza, benché tra le forme finite Semplici
si abbiano esempi di caratterizzazione parzialmente ambigua43, l’assetto com-
plessivo del sistema non sembra essere messo in causa. Nel campo delle forme
non finite Semplici, invece, la commistione che si osserva in italiano tra valenze
imperfettive e valenza aoristica appare un dato incontestabile (fatta salva l’ecce-
zione del Participio Perfetto). Inoltre, a differenza di quanto si osserva con le
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forme finite, non è neppure possibile individuare, al di sotto dell’ambigua carat-


terizzazione aspettuale, l’esistenza di un valore non marcato, e pertanto dominan-
te. Tanto nell’IFS quanto nel Gerundio Semplice, le due caratterizzazione aspet-
tuali disponibili (imperfettiva ed aoristica) stanno assolutamente sullo stesso
piano; solo il contesto può selezionare la lettura di volta in volta suggerita, attra-
verso l’interazione tra – da un lato – le proprietà tempo-aspettuali (nonché azio-
nali, quando si tratti di un verbo) dell’elemento introduttore e – dall’altro – le
valenze azionali della forma non finita.
Si potrebbe obiettare che, in fondo, il Presente Indicativo manifesta in italia-
no praticamente lo stesso tipo di neutralizzazioni aspettuali osservabili nelle
forme non finite Semplici, potendo ammettere tutte le valenze aspettuali ad esclu-
sione della compiutezza. Tuttavia, ciò non solo non risolverebbe la questione, ma
addirittura la renderebbe ancora più ingarbugliata, perché ribalterebbe il proble-
ma della scissione dell’aspetto perfettivo sul comparto delle forme finite (o
meglio su un suo sottoinsieme). A me pare invece che sia più coerente coi dati, e
soprattutto più solido dal punto di vista dell’architettura strutturale, ritenere che il
Presente abbia una caratterizzazione aspettuale non marcata di tipo imperfettivo,
con la possibilità aggiuntiva di veicolare l’aspetto aoristico – nei contesti appro-
priati – onde supplire alla mancanza di un Presente perfettivo. Un fenomeno, que-
st’ultimo, che di certo non si verifica in lingue che possiedano una distinzione
aspettuale esplicita nel Presente. Quanto poi al fatto che il Presente non possa
esprimere compiutezza, questo mi sembra il meno, visto che tale funzione è assol-
ta in italiano – nei contesti appropriati – dal Passato Composto. Dunque, a rigore,
qui non si tratta tanto di scissione della perfettività, quanto piuttosto di assorbi-
mento (per neutralizzazione) dell’unica funzione perfettiva accessibile (l’aoristi-
cità), in quanto priva di autonomo strumento espressivo. Per converso, ciò che
caratterizza l’IFS italiano è il fatto che per esso non si possano assolutamente
additare usi primari (non marcati) ed usi secondari (marcati), fatta eccezione per
l’interpretazione temporale retrospettiva che appare decisamente rara in italiano

43 Si consideri, oltre al Presente Indicativo, anche il Futuro Semplice, per il quale si potreb-
bero fare osservazioni molto simili. La differenza sta nel fatto che, mentre il Presente assegna
valore marcato alle valenze perfettive, il Futuro Semplice predilige proprio queste ultime, salvo
accollarsi l'onere di esprimere anche le valenze imperfettive, per supplire all’assenza di un appo-
sito strumento morfologico.
162 PIER MARCO BERTINETTO

(ma non così in spagnolo). I dati discussi nei paragrafi precedenti mostrano che,
per guidare la scelta tra accezione simultanea vs. prospettiva – e, corrispondente-
mente, tra valenza aspettuale imperfettiva vs. perfettiva – non appaiono assoluta-
mente disponibili criteri ancorati al relativo grado di marcatezza. Credo dunque che
si debba prendere atto dell’identica disponibilità dell’IFS italiano ad assumere l’una
o l’altra di queste coppie di valori semantici, a seconda del contesto in cui compare.
Ma a parte queste considerazioni, mi pare che le ragioni che militano in favo-
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re dell’interpretazione qui proposta siano di natura più profonda, ed abbiano a che


vedere con le diverse inclinazioni delle forme finite e non finite. Le prime sono
infatti propriamente verbali, mentre le seconde partecipano, in qualche misura,
della natura delle forme nominali, com’è dimostrato dalla forte propensione
dell’Infinito a subire processi di (più o meno accentuata) nominalizzazione, ovve-
ro dalla netta predisposizione del Participio Perfetto ad assumere valore aggetti-
vale. Ciò comporta una drastica divaricazione. Nel comparto delle forme finite, la
distinzione aspettuale fondamentale riguarda il fatto che l’evento sia visto come
completo (perfettività) o incompleto (imperfettività). Nel comparto delle forme
non finite, invece, la distinzione fondamentale sembra essere quella tra ‘stato’ e
‘dinamismo-eventività’. La prima categoria è necessariamente evocata dalle
forme Composte e dal Participio Perfetto, che – esprimendo l’aspetto compiuto –
implicano l’esistenza di uno ‘stato risultante’ conseguente al compiersi dell’even-
to. La seconda categoria è invece implicata dalle forme Semplici (tranne il
Participio Perfetto), indipendentemente dall’effettivo valore aspettuale.
Il quadro è complicato dal fatto che, tra i verbi coniugati alle forme non finite,
esistono anche gli stativi propriamente detti, per i quali non è mai possibile parlare
di una connotazione dinamico-eventiva, qualunque sia la loro concreta manifesta-
zione aspettuale. Tuttavia, pur consapevole di questa complicazione (sulla quale
peraltro tornerò tra breve), vorrei sottolineare la possibile analogia con la struttura di
fondo di un’altra tipica categoria che partecipa della duplice natura del verbo e del
nome, vale a dire l’aggettivo. Si noti, infatti, che anche gli aggettivi possono essere
orientati – in una qualche misura – sia verso la condizione dinamico-eventiva (cf.
sorridente, convergente, calante, consolante), sia – e questo non sorprende di certo
– verso la condizione statica (cf. aperto, addormentato, forte, rosso). Ora, non mi
pare casuale che nelle lingue indo-arie (tra l’altro, geneticamente imparentate con
l’italiano) le costruzioni aggettivali possano acquisire valore ‘dinamico’ o ‘statico’,
in ragione del morfema aspettuale associato alla radice (rispettivamente, imperfetti-
vo o perfettivo). Si considerino questi esempi di punjabi (Bhat 1999: 127-8):

(93) a. sau-ndi: kuRi:


dormire-IMPERF ragazza
‘ragazza dormiente’ (glossa di Bhat: “in the action of
sleeping”).
b. su-tti: kuRi:
dormire-PERF ragazza
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 163

‘ragazza addormentata’ (glossa di Bhat: “in the state of


sleeping”).
c. bai-ndi: kuRi:
sedere-IMPERF ragazza
‘ragazza che si siede’.
d. bai-Thi: kuRi:
sedere-PERF ragazza
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‘ragazza seduta’.

Ciò sembra suggerire che, in questa lingua, la codificazione aspettuale prima-


ria riguardi appunto lo snodo ‘dinamismo-eventività’ vs. ‘stato’. Ma se questa è la
situazione che si osserva in una lingua a stretta prominenza aspettuale, come sem-
bra essere tipico delle lingue indo-arie attuali (Bhat 1999), non mi parrebbe implau-
sibile sostenere che la peculiare organizzazione del sistema aspettuale delle forme
non finite italiane rechi appunto traccia dell’originaria ‘prominenza aspettuale’ del-
l’indoeuropeo. Gli studi di Di Giovine (1990/96) sul Perfetto indoeuropeo hanno
mostrato la forte connessione tra Perfetto e statività nella struttura morfologica delle
più antiche attestazioni indoeuropee. È dunque possibile che, in una fase arcaica,
l’aspetto compiuto, legato all’idea di uno ‘stato risultante’ e per questa via collega-
to alla categoria dei verbi stativi, possedesse una spiccata caratterizzazione all’in-
terno del sistema verbale. Sta comunque di fatto che, secondo le osservazioni tipo-
logiche di Bhat (1999: 149-155), nelle lingue a ‘prominenza aspettuale’ non solo si
osserva che gli aggettivi tendono a comportarsi in analogia coi verbi piuttosto che
coi nomi, potendosi generalmente flettere secondo una morfologia prettamente
aspettuale, ma soprattutto si nota di solito l’esistenza di una classe morfologica-
mente individuabile di verbi stativi. Se dunque la categoria dello ‘stato’ assume in
tali lingue una simile evidenza, non c’è da sorprendersi del fatto che proprio quella
parte del sistema verbale italiano che manifesta maggiori affinità con le forme nomi-
nali abbia mantenuto – se è giusta l’ipotesi qui avanzata – il tipo di articolazione
aspettuale originaria indicato in (B), fondato sull’opposizione ‘compiuto / non com-
piuto’ (ossia, in ultima analisi, ‘stato (risultante) / evento’).
Resterebbero da comprendere le ragioni della pacifica convivenza, nell’IFS e
nel Gerundio Semplice, di valenze aspettuali tanto contrastanti quanto quella aori-
stica e quella imperfettiva, connesse rispettivamente con l’idea di un evento com-
pleto vs. incompleto. Ma, a ben vedere, entrambe sono accomunate dalla prerogati-
va di insistere soprattutto sul carattere dinamico dell’evento verbale; manifestato in
un caso dal suo esser giunto a compimento, e nell’altro dal suo inconcluso divenire.
Viceversa, la convergenza di aspetto aoristico ed aspetto compiuto sotto un medesi-
mo snodo nella struttura aspettuale delle forme finite (come indicato in A), potreb-
be a sua volta spiegarsi sulla base del fatto che, quando se ne metta in sordina la
componente ‘statica’, l’aspetto compiuto manifesta tratti semantici affini a quelli
dell’aspetto aoristico. Entrambi sono infatti accomunati dalla propria indole perfet-
tiva, esprimibile nel fatto di concepire l’evento come concluso, ossia riferito ad un
164 PIER MARCO BERTINETTO

intervallo temporale ‘chiuso’. Prova ne sia il frequente slittamento del Perfetto (inte-
so come ‘Presente Compiuto’) nel mero Passato Aoristico.
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SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 165

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1.
Aspetti semantico-sintattici
KOLBJÖRN BLÜCHER
(Università di Bergen, Norvegia)

Modalità, modo, “concordanza modale”. Una prospettiva teorica


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Sono numerosi i punti di vista formulati riguardo ai modi e le loro funzioni


in italiano e nelle lingue romanze in generale, di solito imperniati sull’interpreta-
zione del congiuntivo e dei suoi valori. Variano dalle considerazioni fondamen-
talmente semantiche alle interpretazioni puramente strutturali o funzionali, o alle
pure e semplici descrizioni dell’uso concreto nella lingua senza una chiara base
teorica. I punti estremi dei vari pareri sul congiuntivo si può dire che sono da una
parte sostenere che il congiuntivo in linea di massima esprime “incertezza” e dal-
l’altra interpretare questo modo primariamente come un indicatore sintattico di
subordinazione. L’idea che il congiuntivo italiano abbia una semantica più o meno
unitaria o chiaramente definibile è tenace. Un difetto di logica non raro parlando
dei modi è attribuire al congiuntivo significati che in realtà fanno parte del conte-
nuto degli elementi linguistici che determinano tale modo. In un volume sulla lin-
gua italiana odierna pubblicato nel 1991 si parla ancora di “congiuntivo volitivo”,
“dubitativo” e “tematico”1.
A nostro parere è vano cercare di attribuire tutta la gamma di impieghi del
congiuntivo in italiano a un solo denominatore semantico, a una semantica più o
meno unitaria o chiaramente definibile, la quale così sarebbe in opposizione
semanticamente netta e concretamente definibile all’indicativo. Il solo aspetto
unitario incontestabile del congiuntivo è il lato dell’espressione, cioè quello for-
male, morfologico, in opposizione a tale livello all’altro modo principale, l’indi-
cativo (canta ≠ canti). Dal punto di vista funzionale, il congiuntivo è un ele-
mento sintattico che nella lingua svolge una varietà di funzioni diverse a vari livel-
li, sfruttando sempre la sua opposizione formale all’indicativo, ma è un’opposi-
zione che, secondo il tipo di funzione in questione, in ciascun caso riveste un
carattere distinto. Semanticamente il congiuntivo ovviamente fa parte del lato del
contenuto delle strutture diverse e semanticamente distinte in cui si trova, ciò che
di per sé indica che la sua semantica è varia, con caratteristiche distinte, e quindi
non unitaria. I valori semantici del congiuntivo così risultano un effetto, un “pro-
dotto” delle strutture formali e funzionali di cui fa parte. In base a queste premes-
se il grammema “congiuntivo” si può definire un monema funzionale il cui lato
del contenuto considerato come un’unità ha un carattere vasto, vago e generi-
co/astratto. Un parere simile è espresso da José Álvaro Porto Dapena a proposito

1 Wandruszka (1991: 415-481).


170 KOLBJÖRN BLÜCHER

dello spagnolo, lingua che ha una sintassi modale molto simile a quella dell’ita-
liano, il quale nel suo libro “Del indicativo al subjuntivo” dice che “(---) en reali-
dad, como veremos, los modos verbales presentan un contenido de modalidad
bastante general y abstracto (---)”2.
Sono dunque del parere che in un’analisi della sintassi modale dell’italiano,
o di un’altra lingua romanza, i criteri di base debbano essere formali/strutturali e
funzionali, mentre i criteri semantici siano da considerarsi nella seconda fase del-
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l’analisi. D’altra parte non si può affrontare la problematica dei modi senza tener
debitamente conto del lato del contenuto del segno linguistico. Un equilibrio
appropriato fra questi criteri è oggi, ci pare, un principio generalmente accettato
nella linguistica.
L’obiettivo che ci si propone nel presente succinto contributo allo studio della
sintassi modale dell’italiano è sostanzialmente di giungere a una definizione più
soddisfacente della “natura” del congiuntivo e delle sue funzioni.
In base al ruolo funzionale che il congiuntivo svolge nella lingua, si distin-
guono tre livelli funzionali3, i quali si possono presentare come una gerarchia:

(1) Modo abituale/obbligatorio (grosso modo).


(2) a. Alternanza indicativo/congiuntivo – differenziazione semantica.
b. Alternanza indicativo/congiuntivo – modo più o meno facolta-
tivo/scelta stilistica/assenza di differenziazione semantica.

Torniamo a questo punto sull’opposizione dei due modi: (canta ≠ canti), e


cerchiamo di determinare il carattere funzionale complessivo di questa opposi-
zione formale. Siccome è un opposizione di modi, si tratta dunque di forme con
caratteristiche modali distinte, cioè di due modalità distinte del discorso espresse
grammaticalmente, vale a dire espresse per mezzo di grammemi, modalità che si
possono denominare rispettivamente MOD.I e MOD.C. La definizione general-
mente accettata dell’indicativo è che è il modo del puro riferimento e comunica-
zione di un fatto, che di per sé esprime questo e nient’altro. Il congiuntivo, inve-
ce, si può definire il modo che esprime un di più rispetto al semplice riferimento
e comunicazione, un di più che però ha un carattere distinto e particolare secon-
do le strutture di cui questo modo fa parte. In base a queste premesse ci risulta
fondato considerare l’indicativo il membro non marcato estensivo dell’opposizio-
ne, che cioè esprime una modalità MOD.I Ma÷, e il congiuntivo il membro mar-
cato intensivo, che dunque esprime una modalità MOD.C Ma+. È questa moda-
lità MOD.C Ma+ del congiuntivo che ne fa lo strumento sintattico di cui si serve
la lingua, come già detto, in numerose funzioni diverse.

2 Porto Dapena (1991: 21).


3 Ved. Blücher (1979: 16-58).
MODALITÀ, MODO, “CONCORDANZA MODALE”. UNA PROSPETTIVA TEORICA 171

Esaminiamo ora nei particolari alcune delle funzioni del congiuntivo e così il
ruolo sintattico svolto dalla sua MOD.C Ma+. Come un primo approccio in que-
st’analisi occorre fare una distinzione fra due gruppi di funzioni fondamental-
mente diverse del congiuntivo, i quali si possono definire uno di carattere indi-
pendente e l’altro di tipo dipendente. Nel primo gruppo, in cui è solo l’opposi-
zione binaria all’indicativo a produrre un effetto sintattico e semantico, i tipi fun-
zionali sono ben pochi, e sono tutti limitati alla proposizione principale. Troviamo
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qui la funzione di imperativo di cortesia del congiuntivo: dica (≠ dice), e quella


esortativa/desiderativa con o senza l’elemento introduttivo che: Viva il re; Che
Dio ti protegga; Che sia/Sia nominato tenente. Si tratta in tutti questi casi di una
differenziazione semantica in opposizione ai medesimi tipi di frasi con l’indicati-
vo (Vive il re /È nominato tenente, e devono quindi essere classificati come ap-
partenenti al livello funzionale II.A. Lo stesso si dica del tipo Volesse il cielo che
non lo incontrassi più (Voleva il cielo /Il cielo voleva che non lo incontrassi più).
È però, come sappiamo, nelle subordinate che troviamo la stragrande mag-
gioranza delle funzioni del congiuntivo. Esaminiamone prima alcune del livello
funzionale 1, analizzando il ruolo della modalità MOD.C Ma+ del congiuntivo
nella completiva. Un grande numero di elementi, più precisamente i lessemi di
verbi, di sostantivi, di aggettivi, che fanno parte della proposizione alla quale è
subordinata la completiva, richiedono, come si dice comunemente, l’uso del con-
giuntivo in questa. Tali elementi lessicali contengono come parte del loro piano
del contenuto vari tipi di componenti, denominati modalità, Queste modalità les-
sicali sono più o meno circoscritte nel loro significato, in altri termini hanno una
identità semanticamente definibile, definite come per esempio “volitivo”, “sog-
gettivo”, “dubitativo” ecc. Si può dunque affermare che si tratta di un tipo di
modalità semanticamente molto più limitato e definibile rispetto alla modalità
MOD.C Ma+ vasta, generica e astratta che caratterizza il lato del contenuto del
congiuntivo. In una frase come Temevano che il bambino si ammalasse il verbo
della completiva si trova in un “ambiente” sintattico e semantico contrassegnato
dalla modalità inerente al lessema di temevano. Come si può spiegare, analizza-
re, individuare il principio linguistico fondamentale da cui scaturisce l’uso del
congiuntivo in questa e simili completive, quale è il meccanismo linguistico che
determina questa “reggenza”, termine di uso comune a questo proposito? Il primo
passo è tener conto di tutti i fattori sintattici pertinenti, cioè la presenza di una
proposizione principale e di una subordinata, e il rapporto sintattico fra queste, più
precisamente il fatto che la proposizione subordinata, vale a dire la completiva, si
trova in un rapporto di dipendenza rispetto alla parte del periodo alla quale è unita,
segnata dall’elemento introduttore formale che. Ciò che conferisce un carattere
particolare a tale rapporto di subordinazione/dipendenza è che la completiva, con-
siderate le funzioni sintattiche che essa svolge nel periodo, in un certo senso vi
appare grammaticalmente “incorporata”. Poi è la volta dei fattori semantici perti-
nenti, qui particolarmente importanti, e cioè i due tipi di modalità, quella con un’i-
dentità circoscritta, semanticamente definibile del lato del contenuto del lessema
172 KOLBJÖRN BLÜCHER

della principale, e la modalità vasta, generica e astratta del lato del contenuto del
grammema che esprime il congiuntivo. A nostro parere, l’interpretazione più logi-
ca e soddisfacente dell’influsso esercitato dal lessema della principale sulla scel-
ta del modo nella completiva, influsso collegato al rapporto sintattico subordina-
zione/dipendenza/incorporazione grammaticale fra le due proposizioni, è vedere
in questo fatto una corrispondenza semantica fra la modalità del lessema in que-
stione e la modalità che caratterizza il modo scelto nella completiva. La modalità
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emessa da un tale lessema “reggente”, la quale può essere di vari tipi, ma sempre
limitata a una determinata sfera modale, cioè semanticamente circoscrivibile e
definibile, richiede un riscontro alla sua modalità nel verbo della subordinata.Nel
caso del congiuntivo tale riscontro lo costituisce la modalità MOD.C Ma+ del
grammema di questo modo, semanticamente vasta, vaga, generica, astratta, ma
dunque modalmente affine alle modalità semanticamente circoscritte, espresse
lessicalmente. Questa corrispondenza fra la modalità di un elemento lessicale e
quella di un elemento grammaticale che è il grammema “congiuntivo” si può in
ultima analisi considerare e definire una concordanza modale. L’effetto della con-
cordanza modale nel contesto è poi quello di sottolineare, mettere in risalto la
modalità particolare, semanticamente definibile, dell’elemento lessicale concor-
dato con il modo congiuntivo, ma il modo non esprime semanticamente questa
modalità come tale. Si può dire che è l’uso combinato del lessema che seleziona
il modo e del modo selezionato a trasmettere nella sua totalità il messaggio inte-
so dal parlante. Lo stesso tipo di concordanza modale obbligatoria avviene in frasi
come È giusto che si riposino dopo tanto lavoro; C’era qualche probabilità che
quel giorno la incontrasse all’università e così via.
In altri tipi di subordinate del livello funzionale I, e cioè non completive, ci
sono elementi diversi da quelli finora discussi, più o meno con caratteristiche
modali proprie, a determinare una simile concordanza modale. Le subordinate
introdotte da congiunzioni o locuzioni congiunzionali quali purché, a meno che,
a condizione che, affinché, benché, come se, senza che, prima che, da pronomi
e proavverbi relativi come chiunque, dovunque, e vari altri tipi di subordinate
hanno regolarmente il congiuntivo.
Sia nelle subordinate completive discusse che in queste ultime il congiuntivo
è così un elemento sintattico formale fisso, caratteristico, o in concordanza con la
modalità di un elemento nella proposizione dalla quale dipende la subordinata,
come nelle completive, o in sintonia con l’elemento introduttore della subordina-
ta stessa, come è il caso degli altri tipi di subordinate citati. In altri termini, il
modo caratterizza la compl