Premessa
A Maurice Gross
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Il convegno di cui presentiamo gli atti si è svolto a Parigi, alla Sorbona, dal
20 al 22 settembre 2001, nell’ambito del congresso annuale della Società di
Linguistica italiana, il terzo ad essere organizzato al di fuori dell’Italia dopo quel-
li di Malta nel 1995 e Budapest nel 1998.
Il progetto, suggerito da Sylviane Lazard all’Assemblea S.L.I. di Padova, nel
1997, è stato preparato dal Comitato organizzatore comprendente Catherine Ca-
mugli-Gallardo e Louis Begioni, quindi presentato da Mathée Marcellesi all’As-
semblea S.L.I. di Napoli, nel 1999, e definitivamente accettato in questa sede.
È per noi un’onore e un piacere ringraziare
– i partecipanti al congresso.
Il Verbo italiano si colloca al centro degli interventi e dei dibattiti, nelle quat-
tro sessioni corrispondenti alle quattro dimensioni, diacronica, sincronica, con-
trastiva, didattica, all’interno delle quali la sessione sincronica si articola in tre
sottosessioni parallele: “Aspetti semantico-sintattici”, “Lessico e grammatica”,
“Lingua, italiani regionali e dialetti”.
X MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI
giuntivo (K. Blücher) e del trapassato remoto (Iørn Korzen). Emanuela Cresti
mostra l’importanza illocutoria della 3a persona, attraverso l’analisi del corpus di
italiano parlato del LABLITA.
Nella sottosessione parallela «Lessico e Grammatica», Daniela Giani, la cui
ricerca verte sul discorso riportato, constata che il verbo dire, quello più usato nell’i-
taliano parlato, può avere funzioni informative espresse tramite il contorno tonale in
cui il verbo si trova iserito (introduttore locativo, inciso, topic, appendice, comment).
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XIV
MATHÉE GIACOMO-MARCELLESI – ALVARO ROCCHETTI
Partecipanti al Congresso
PARTE PRIMA
«STUDI DIACRONICI»
Conferenza Introduttiva
MARTIN MAIDEN
(Oxford College)
tanto difficile è scoprire nell’insieme delle forme singolari del presente più la
terza persona plurale del presente un tratto morfosintattico comune che le distin-
gua dal resto del paradigma. Se dovessi riassumere in poche parole l’essenza di
questo saggio, direi che dobbiamo riconoscere che la stessa incoerenza funziona-
le conferita dal cambiamento fonologico al paradigma flessivo del verbo si può
trasformare in una caratteristica fondamentale della struttura morfologica dell’i-
taloromanzo, non solo ‘passiva’, in quanto dovuta storicamente alla fonologia, ma
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anche attiva, in quanto essa si rivela ripetutamente plasmatrice della forma para-
digmatica verbale.
Le idee che esporrò qui fanno capo al brillante libro di Mark Aronoff Mor-
phology By Itself (1994) e anche all’idea di ‘deep morphology’ proposta negli an-
ni 70 da Yakov Malkiel, alla quale mi ero ispirato in un mio studio del 1992. È
inoltre una corrente di pensiero che ha trovato recentemente appoggio, dall’ottica
della morfologia computazionale, nei lavori di Vito Pirrelli e collaboratori.
Aronoff riesce a dimostrare l’esistenza, in molte lingue, di regolarità strutturali
astratte (‘morphomes’), ricorrenti all’interno del sistema morfologico paradigma-
tico, ed autonomamente morfologiche, in quanto non si lasciano rappresentare né
in termini fonologici né in termini di una funzione grammaticale coerente.
L’ottica prevalentemente sincronica adottata dallo studioso canadese non poteva
però garantire la «realtà psicologica» del morfoma. Può sorgere il dubbio che le
regolarità osservate da lui siano l’effetto di una specie di ‘inerzia’ diacronica per
cui i parlanti imparano, per così dire ‘alla spicciolata’, i paradigmi di singoli les-
semi verbali senza mai rendersi conto di generalizzazioni macroparadigmatiche
più astratte, che eventualmente rispecchiano stati sincronici oramai decaduti. Nel
mio studio del 1992 credo di aver identificato, ‘avant la lettre’, certi criteri dia-
cronici atti a garantire la realtà psicologica del morfoma, criteri elaborati ulterior-
mente in tre studi recenti (Maiden 2000; 2001a,b):
Tabella 1
Tabella 2
1 L’etichetta è volutamente opaca. ‘CPM’ sta per ‘classe di partizione morfomica’. Per il
termine ‘classe di partizione’, vedasi Pirrelli (2000).
6 MARTIN MAIDEN
Tabella 3
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Tabella 4
Si nota che i verbi con [ʎʎ], [], [d] li hanno persi a favore di varianti vela-
ri ([l], [ŋ], []) – e così anche molti altri verbi, come dolgo, ecc., salgo ecc.,
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 7
tengo ecc., rimango ecc., veggo ecc. rispettivamente con [ʎʎ], [], [d] nella
lingua antica, anche se ci sono superstiti del sistema antico, quali voglio ecc.,
soglio, ecc. Verbi come leggere, cogliere, spegnere, piangere, invece, mantengo-
no intatte le alternanze antiche. Nel complesso possiamo dire che c’è stata una
tendenza a far convergere CPM1 su una forma fonologica comune, la quale con-
tiene una consonante velare. È inoltre da osservare che:
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2 È quanto riconoscono, per lo spagnolo, Bybee e Pardo (1981: 958, anche Bybee 1985:
71:74), ma non risulta spiegato niente quando le studiose americane assumono in modo arbitra-
rio che una prima persona singolare dell’indicativo., forma relativamente ‘autonoma’ rispetto al
congiuntivo, serva di base dalla quale sarebbe derivato il congiuntivo. Ciò descrive il rapporto
di mutua dipendenza tra la prima persona del singolare e il congiuntivo, ma non lo spiega – e lo
descrive invocando un processo derivazionale del tutto ipotetico.
8 MARTIN MAIDEN
specie di semplificazione puramente fonologica per cui non solo [n] e [l] ma tutti
i segmenti più sonori (incluse le vocali), verrebbero ad alternarsi con forme ad
inserto velare. Così si potrebbe rendere ragione di casi, comuni in non poche
varietà toscane meridionali ed umbre (cfr. Hirsch 1886:435s.; Rohlfs 1968:260),
come il senese 1sg. corgo – 2sg. corri ecc., o ´mɔro ´mɔre ´mɔrono di
Pietralunga (AIS). E il tratto ‘sonorante’ spiegherebbe, infine, anche traggo – trai,
visto che le vocali comportano il più alto grado di sonorità.
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Alla tesi fonologizzante di Fanciullo si oppongono però non pochi fatti dialet-
tali. Innanzitutto, la consonante palatale può apparire davanti a vocale posteriore.
Oltre a forme italiane quali conosciuto, abbiamo nei dialetti e nel toscano antico
vagliuto, piangiuto, scegliuto, piangiuto, ecc. (v. Rohlfs 1968:370). Nei dialetti si
ha la variante non palatale anche davanti a desinenze in /e/ (p. es. umbro ant. morgo;
(che io) morga, (che tu) morghe, ecc.)3. Per di più, i dialetti umbri e toscani meri-
dionali hanno alternanze come [] – [v] in ´beo 3sg. ´beve 1pl. ba ´veno 3pl.
´beano, (Civitella Benazzone); nel cortonese lo stesso verbo cogliere, insieme
con salire e dolere, ha [] al posto di [l] o [ʎ], producendosi così un’alternanza
tutta nuova tra [l] o [ʎ] e []: p. es., cogga, dogga, saggo. Già negli scritti di
Iacopone da Todi abbiamo il congiuntivo moga ‘muoia’ (3sg.) e il 2sg moghe in
alternanza con mor-, insieme a pago (sia ‘paio’ che ‘paiono’), cong. paga ‘paia’, in
alternanza con par-. In tali casi non è lecito parlare di un ‘inserto’ velare dipenden-
te dal carattere della consonante precedente, perché sembra che sia stato introdotto
analogicamente il [()] tipico di verbi come leggo – leggi...; legga, ecc., in modo
che viene sostituita una consonante con un’altra, ai danni della trasparenza lesse-
matica, ma con rafforzamento e ipercaratterizzazione di CPM1. Anche l’Italia meri-
dionale è ricca di creazioni di alternanze nuove con velare, e per le quali non si può
ricorrere alla nozione di semplificazione fonologica in base alla ‘sonorità’ di una
delle alternanti. Nella zona del Golfo di Napoli (cfr. Capozzoli 1889; Freund 1933;
Radtke 1997:87) si riscontrano alternanze quali (1sg. vs. 3sg.): ´mεkkə ´mεttə,
atikə at´irə, ´parkə ´partə, ´sεŋə ´sεndə, ´pɔrkə ´pɔrtə, ´aʃpεkkə
a´ʃpεttə, ´rakkə ´rattə. Scartata l’ipotesi ‘fonologizzante’ (per una risposta più
dettagliata a Fanciullo, si vedano Pirrelli 2000 e Maiden 2001b), CPM1 emerge
come un ottimo esempio di ‘convergenza’ morfomica.
Tabella 5
Tabella 6
Tabella 7
Tabella 8
Tabella 9
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Tabella 10
Tabella 11
Tabella 12
vità (cfr. nell’italiano moderno tosso o tossisco, mento o mentisco ecc.). L’infisso
diventa, quindi, un elemento semanticamente vuoto. L’aumento *-edj- / *-edz-
risale (cf. Lausberg 1965:§801; Rohlfs 1968:244s.; Väänänen 1974:116;173;
Tekavčić 1980:239s.; Zamboni 1980/81) all’infisso derivazionale -iv-, introdotto-
si nel tardo latino particolarmente attraverso il lessico religioso (p. es., bapti-
vein). Nel romeno, esso caratterizza la stragrande maggioranza dei neologismi e
dei verbi denominali della prima coniugazione, ma ha una distribuzione lessicale
del tutto arbitraria. Per i dialetti della zona Matera – Foggia – Taranto, l’aumento
si presenterebbe (cfr. Lausberg 1939:156) proprio in quei verbi i cui primo secon-
do e terzo singolare e terzo plurale altrimenti avrebbero l’accento sdrucciolo (cfr.
1sg. mattsə ´ki j e màstico). Una distribuzione simile si ha nell’antico venezia-
no, nell’istriano moderno e nel còrso. Esistono, sì, dialetti meridionali in cui l’au-
mento è presente in tutto il paradigma e in cui la sua presenza sembra corrispon-
dere tuttora in certi casi ad una distinzione semantica tra azione e stato (cfr.
Iannace 1983:86; Ledgeway 1995:225; Leone 1980:40), ma prevale dappertutto
una nuova distribuzione, conforme alla CPM2 ed indipendente da considerazioni
semantiche.
Molti (p. es., Rohlfs 1968:242; Bourciez 1956; Meyer-Lübke II:241; Tekavčić
1980: II, 258) hanno cercato di rendere conto della distribuzione dell’aumento da
un’ottica ‘fonologizzante’ e teleologica, facendo richiamo al cosiddetto ‘allinea-
mento dell’accento’. Limitandosi l’aumento alle forme che altrimenti sarebbero
rizotoniche, l’accento diventa postradicale, e quindi arizotonico, in tutto il paradig-
ma. Agli occhi di molti, questa nuova regolarizzazione dell’accento non è solo un
effetto del cambiamento ma ne sarebbe addirittura la motivazione. Questo è un
approccio che oltre ad avere il grosso difetto della circolarità, non riesce nemmeno
a rendere conto in modo soddisfacente della realtà distribuzionale dell’aumento.
Innanzitutto, la teoria dell’allineamento dell’accento non tiene assolutamente conto
del fatto che in tutte le lingue romanze la schiacciante maggioranza dei verbi conti-
nua ad avere l’accento mobile: finisce per creare, cioè, un’apparente irregolarità
accentuale all’insegna della regolarizzazione! Alberto Zamboni (1983) ha proposto
che l’aumento *-isk- / -esk- avrebbe un accento tonico inerente, e che quindi esso
non può apparire insieme a desinenze accentate, ma almeno da un’ottica diacronica
ciò non spiega come mai l’aumento sia venuto ad essere caratterizzato dall’accen-
to. Secondo Zamboni l’aumento -isk- avrebbe conservato una parte del suo signifi-
cato originale derivazionale, ma il fatto che -isk- possa avere mantenuto un valore
derivazionale non spiega nemmeno perché esso avrebbe dovuto portare l’accento.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 13
dire aumenti limitati esclusivamente a quelle forme del paradigma in cui il radi-
cale, appunto, non porta l’accento.
C’è anche chi sostiene una linea che potremmo chiamare ‘semiotica’, propo-
sta ad esempio da Lausberg (1965:§801, 921): la regolarizzazione dell’accento
rende tutti i radicali arizotonici, ciò che ovvierebbe ad eventuali effetti allomorfi-
ci collegati all’accento: si stabilisce così un rapporto di biunivocità tra forma e
significato. Se è vero, come vuole Elwert (1943), che ciò può facilitare l’integra-
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zione dei neologismi nel sistema verbale, il fatto che l’infisso appare anche nei
verbi derivati da sostantivi o aggettivi è sempre contrario al principio di traspa-
renza. Nell’italromanzo l’accento cade quasi sempre ed esclusivamente sul radi-
cale del sostantivo e dell’aggettivo: aggiungendo un suffisso ai verbi derivati, il
radicale diviene però atono e quindi deve subire tutte le alternanze allomorfiche
collegate (come si crede) allo spostamento dell’accento. Vale a dire che la traspa-
renza del rapporto tra sostantivo/aggettivo e verbo viene offuscata. Così nel sopra-
silvano (cfr. Elwert 1943:144) si ha ta´mεi
ʃ ‘setaccio’ ma tame´ea ‘(egli) setac-
cia’, laddove sarebbe stata più ‘trasparente’ una forma verbale **ta´mεia. Visto
che nell’italoromanzo i verbi col radicale in [u], [i] ed [a] dimostrano un grado mini-
mo di allomorfia vocalica, sarebbe inoltre da aspettarsi che la presenza dell’aumen-
to si limitasse tendenzialmente ai verbi a vocale radicale media: ma l’italoromanzo
non sembra dimostrare neppur minimamente una tale tendenza. Aggiungerei che l’i-
potesi di Lausberg presuppone che i parlanti incontrerebbero difficoltà a produrre le
alternanze voacliche dipendenti dall’accento, cosa che sembra poco probabile se
teniamo conto della folla di verbi in cui tali alternanze si manifestano regolarissime.
E nel caso di alternanze lessicalizzate e non più dipendenti da processi fonologici,
perché i parlanti dovrebbero darsi la pena d’introdurre un aumento quando invece
potrebbero ricorrere al livellamento analogico (come infatti succede spessissimo –
si pensi all’estensione del dittongo in chiedere)? Ma l’approccio semiotico ha un
difetto ancora più grave: non spiega l’assenza dell’aumento nel resto del paradigma.
Difatti si raggiungerebbe il più alto grado di regolarità all’interno del paradigma,
sempre mantenendosi la trasparenza del radicale lessicale, se l’aumento si presen-
tasse in tutto il paradigma9. Se la tesi di Lausberg sembra in sostanza difettosa, va
sempre riconosciuto che secondo lo studioso tedesco la distribuzione dell’aumento
sarebbe stata in qualche modo un effetto delle differenziazione vocalica dovuta
all’accento. Ma io vorrei proporre che anziché essere una reazione contro gli effet-
ti antiiconici di questo cambiamento, la distribuzione dell’aumento ne sarebbe in
qualche modo una amplificazione.
Immaginiamoci in quale situazione sconcertante si sarebbero trovati quei par-
lanti nativi dell’antico romanzo davanti ad un elemento ereditato dalla struttura
9 Lo stesso dicasi di quei dialetti italiani meridionali che manifestano l’aumento dove altri-
menti si avrebbe accento proparossitono. Ciò non spiega come mai l’aumento sia diventato
esclusivamente accentato.
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 15
10 Sul possibile ruolo della marcatezza nella struttura paradigmatica dell’italiano, cfr.
Anche Matthews (1981:63).
16 MARTIN MAIDEN
ca11. Per la precisione, [e] ed [o] apparivano in posizione atona e anche, in voca-
le tonica, davanti a vocale metafonizzante, mentre [ε] ed [ɔ] apparivano in tutti gli
altri casi. L’assenza delle alternanze di CPM2 si manifesta persino in un verbo
come andare, forse mutuato all’italiano, in cui o si ha and- in tutto il paradigma,
o si hanno i due allomorfi and- e va(d)-, ma distribuiti secondo criteri esclusiva-
mente morfosintattici: così a Baunei (AIS 959) sg. ´vao vas ´vaðe pl. an´damus
an´dais ´andanta; mentre nel nuorese le fome in ba- si limiterebbero (facoltati-
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Tabella 13
11 Esiste, sì, una tendenza facoltativa (Pittau 1972:118) alla chiusura in /i/ e /u/ delle voca-
li medie protoniche, ma non sembra essere molto antica.
12 Cfr. Wagner (1939:156-6).
13 Sulle possibili origini di quest’alternanza, si veda anche Jones (1993:238).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 17
(p. es. 3sg. ´βeniði < *βenit e ´pεrdiði < pεrdet si alternano a forme atone in
[βen] e [perd] entrambe con vocale chiusa).
Può ancora sorgere il dubbio che CPM2 abbia una motivazione funzionale
‘nascosta’, ma che siamo davanti ad una idiosincrazia strutturale unica delle lin-
gue romanze lo indica anche una mia rassegna preliminare (e certo da approfon-
dirsi) di altre lingue indoeuropee (slavo, celtico, greco, germanico, albanese,
indo-ariano, per non dimenticare il latino stesso) che nonostante la presenza delle
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CONCLUSIONI
14 Così non condividerei del tutto il giudizio piuttosto negativo che, sul ruolo della biuni-
vocità, dà Pirrelli (2000:197):
[...] non sembra che l’associazione diretta tra unità di contenuto morfosintattico e
costituenti formali minimi che convogliano dette unità rappresenti una priorità dal
punto di vista cognitivo, nonostante la sua naturale rispondenza a criteri astratti di
funzionalità semiotica. La coniugazione dell’italiano non sembra essersi evoluta
diacronicamente, né appare strutturata sincronicamente, in modo tale da massimiz-
zare la corrispondenza tra unità minime di forma e contenuto al suo interno. Il ricor-
so a nozioni di corrispondenza biunivoca governata dal contesto morfologico non
cambia la sostanza del problema, ma anzi si espone all’obiezione di essere una stra-
tegia di ripiego puramente descrittiva, priva di qualsiasi valore esplicativo.
15 Siamo assai lontani dall’interpretazione che di fatti simili dà Wurzel (1987), in chiave di
‘Morfologia naturale’ in cui strutture morfologiche ‘dipendenti dal sistema’ starebbero in oppo-
sizione a fatti naturali ed universali come la biunivocità. Sembra infatti che per Wurtzel fatti
‘dipendenti dal sistema’ sarebbero favoriti dalla preponderanza numerica di un dato tipo morfo-
logico. Per una critica a quest’approccio, si veda Maiden (1996;1997).
IL VERBO ITALOROMANZO: VERSO UNA STORIA AUTENTICAMENTE MORFOLOGICA 19
dimostra innanzitutto che gli eventuali valori morfosintattici che possono essere
associati agli alternanti sono secondari rispetto all’unità formale del lessema (cfr.
Pirrelli 2000:197): CPM2 è una specie di ‘modulo’ ossia ‘template’ (per usare il
termine inglese) che riconcilia la coesistenza di forme diverse alla loro integra-
zione in un lessema unico16.
re, nello studio della storia morfologia paradigmatica italoromanza, e più gene-
ralmente romanza, a strutture autonomamente morfologiche in quanto sincroni-
camente indipendenti da condizionamenti sia fonologici che morfosintattici, ma
che si prestano diacronicamente ad una funzione altamente semiotica: quella di
garantire l’integrità formale del segno.
16 È interessante a questo proposito notare come, in alcuni dialetti italiani (d’altronde anche
nel romeno; per il siciliano cfr. Leone 1980: 135) CPM2 si presenti nel verbo lessicale avere,
mentre l’ausiliare corrispondente ha il radicale /a/ in tutto il paradigma. Ci si può chiedere se ciò
non rispecchi il fatto che CPM2 è una caratteristica dei verbi lessicali?
20 MARTIN MAIDEN
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Bybee, J. 1985. ‘Diagrammatic iconicity in stem-inflection relations’, in Iconicity in
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Città di Castello: Dante Alighieri.
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* La presente ricerca si è giovata del fondo ex 60%, relativo al programma “Archivio della
sintassi dell’italiano antico” (coordinatore: Maurizio Dardano, Università Roma Tre).
1 A tal proposito cfr. per il francese antico Ménard (19944: 169-72), per un confronto tra il
francese moderno e l’italiano Arcaini (2000: 249-54, 432); per lo spagnolo cfr. Fernànder
Lagunilla (1999); per un confronto con l’italiano Carrera Díaz (1997).
2 Da alcuni assaggi effettuati con la LIZ 4.0 (2000) in un corpus di testi del ’400 emerge
che il gerundio raggiunge una frequenza media (parole/gerundi) del 13,70‰, contro il 6,57‰
dei due secoli precedenti. La frequenza relativa va da un massimo del 23,04‰ dei Detti piace-
voli del Poliziano a un minimo del 5,52‰ nei Motti e facezie del Piovano Arlotto. Tuttavia, a
parte il caso di quest’ultima opera e dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti (con
24 GIANLUCA FRENGUELLI
Tabella 1
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da costrutti espliciti (Tesi 2001: 143 e 236); l’esigenza di chiarezza perseguìta dalla
prosa umanistica e il confronto con il latino classico provocano una razionalizzazione
dei rapporti tra proposizione principale e subordinata (Dardano 1963 / 1992: 324) che
portano alla rarefazione di forme quali il gerundio e il participio
Nella nostra prima prosa il gerundio si sviluppa seguendo vie in parte diverse:
in Guido Faba, ad esempio, ricorre il gerundio assoluto, espresso nella quasi totalità
dei casi con il verbo essere e spesso posto a fianco di un gerundio con soggetto.
il 6,16‰), in tutti i testi la frequenza del gerundio non è mai inferiore all’11‰. I restanti testi
del corpus, con le relative frequenze sono: Giovanni Gherardi, Il Paradiso degli Alberti
(18,92‰), Lorenzo De’ Medici, Comento de’ miei sonetti (13,07‰), Id., Novelle (17,04‰),
Iacopo Sannazaro, Arcadia (15,33‰), Gerolamo Savonarola, Trattato circa il reggimento e
governo della città di Firenze (11,31‰), Leonardo Da Vinci, Scritti letterari (12,92‰).
3 La percentuale di incidenza del gerundio è ottenuta mettendo in relazione il numero dei
gerundi presenti nel testo con il numero delle parole. Sono consciente del fatto che, data la diver-
sità delle opere considerate, analisi del genere rischiano talvolta di fornire dati poco utili (se non
si tiene conto al tempo stesso dell’estensione dei periodi): tuttavia in questa occasione m’inte-
ressava soltanto avere un’indicazione di riferimento per capire quanto il gerundio sia usato in
una data opera. Si vedano a tal proposito le perplessità espresse da Policarpi/Rombi (1998: 339-
340) su questo tipo di analisi statistiche.
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 25
(3) Ché Dio fece la bestia chinata inver’ la terra, e gli occhi e la bocca
tenendo [= ‘che tiene’] in essa sempre, e solo d’essa conoscere l’a-
maiestrò, mostrando che sopra d’essa no ha che fare; ma l’omo fece
ritto, la testa, la bocca, li occhi, tenendo al Cielo [c.s.], dandoli inten-
dimento che la sua eredità era lassù (Guittone, Lettere, p. 8).
Si noti qui che i due gerundi tenendo hanno la funzione del “participio con-
giunto” latino 4. Tale funzione, non più presente in italiano, si ritrova invece con
qualche differenza nello spagnolo moderno 5. Invece mostrando e dandoli hanno
lo stesso soggetto della principale Dio.
Bisogna inoltre tener conto del fatto che in Guittone il gerundio trova un con-
corrente, seppur limitato (5 occorrenze) nel costrutto “in + infinito”: cfr. nel testo
ora citato: in iscampare e agiare le povere suoie ricchezze (p. 6).
Rispetto a Guittone, Brunetto usa meno frequentemente il gerundio e non con
fini retorici, ma, per così dire, “di servizio”, ovverosia per costruire sequenze
esplicative di semplice fattura:
4 Cfr. Ernout-Thomas (19532, 274-75 e 282-83). Per l’uso del gerundio in funzione parti-
cipiale nell’italiano antico cfr. Skerlj (1926: 35-42).
5 Nello spagnolo il gerundio assume tale valore in più casi: 1) frasi composte in cui il sog-
getto del verbo reggente e quello del gerundio sono diversi: Oigo a Pedro subiendo las escale-
ras ‘sento Pietro che sale le scale’ con verbi di percezione, di ritrovamento (encontrar, coger,
ecc.) e di rappresentazione (pintar, dibujar); 2) frasi in cui, a prescindere dal significato e dalle
caratteristiche del verbo reggente, il g. funziona praticamente come un aggettivo: Ha pasado por
aquí un niño llorando? ‘che piangeva’; 3) gerundio con valore specificativo (non accettato nello
26 GIANLUCA FRENGUELLI
(4) Onde Tulio purgando questi tre gravi articoli procede in questo
modo: che in prima dice che sovente e molto àe pensato che effet-
to proviene d’eloquenzia (Brunetto Rettorica, I XIV, p. 8);
(5) Nella quarta parte sì mette le pruove sopra questi tre articoli che
sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recan-
do a cciò molti argomenti, li quali muovono d’onesto e d’utile e
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(6) Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di
colui che lla mette in opera, l’uno insegnando l’altro dicendo.
(Brunetto Rettorica, I VII, p. 6) 7.
Nel Milione di Marco Polo ricorrono con una certa frequenza i gerundi pre-
dicativi e le perifrasi aspettuali con il gerundio del tipo “andare + gerundio”8, di
cui ritroviamo 27 casi su 136 gerundi totali (8), e il gerundio coordinativo9 (9) che
ricorre in 26 casi:
(8) Alotta lo Signore fece fare carte bollate come li due frategli e ’l suo
barone potessero venire per questo viaggio, e impuosegli l’amba-
scritto) Ley prohibiendo fumar ‘legge che proibisce di fumare’ Carrera Díaz (1997: 538-49).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 27
6 Cfr. anche: «e dicendo “nostro comune” intende Roma» (Brunetto Rettorica, I XV, p. 10);
«Manifestamente abbassa ’l male e difende rettorica, dicendo che…» (Brunetto Rettorica, I XV,
28 GIANLUCA FRENGUELLI
p. 11).
7 Cfr. anche «la difende abassando e menimando la malizia» (Brunetto Rettorica, X, XV, p.14).
8 Serianni (1988: 336) parla di perifrasi formate con verbi fraseologici, ausiliari di tempo o
aspettuali; Brianti (1992 e 2000) fornisce tra l’altro una cronologia del fenomeno. Su questo
argomento cfr. anche Giacalone Ramat (1995). Questo tipo di perifrasi è espresso, in italiano
antico e, in particolare, nel nostro corpus, con un numero limitato di verbi: andare (65,1%),
venire (18,6%) e mandare (11,7%); altri verbi rientrano in esempi occasionali e hanno una fre-
quenza irrilevante (tutti insieme raggiungono il 4,6%).
9 Sul quale cfr. Serianni (1988: 408-9).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 29
Tabella 2
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Di questi tre gerundi soltanto il primo è causale: gli altri due hanno, almeno
apparentemente, valore temporale. In realtà in veggendo si avverte con chiarezza
anche un significato causale, che tuttavia non è prevalente: se il vescovo e ’l mali-
scalco non avessero guardato le donne, non avrebbero certo notato monna Nonna.
Abbiamo qui quella condivisione di valori di cui abbiamo parlato poco fa. Tali valo-
ri sfumati che il gerundio assume, sono comunque funzionali allo sviluppo della
narrazione. Infatti, se in questo passo l’autore avesse voluto mettere in rilievo il rap-
porto di causa-effetto avrebbe fatto ricorso a una proposizione esplicita. Se non l’ha
fatto, vuol dire che era più interessato al ritmo del periodo e allo sviluppo tematico.
Il Boccaccio arriva ad accumulare fino a undici gerundi, come in (11), dove
la lunga serie è composta da quattro gerundi causali (si noti che causale è anche
il participio rimaso), due gerundi modali e, nella seconda parte del periodo (lega-
ta alla prima da un’avversativa), altri due gerundi causali (il secondo dei quali
incassato in una causale esplicita), un gerundio modale, un gerundio concessivo
e, a conclusione, un altro gerundio causale.
re la situazione disperata del mercante, l’autore mette in rilievo una serie di cause,
che insieme alle successive, tutte espresse al gerundio, contribuiscono al progre-
dire dell’azione. Si tratta di una progressione narrativa “globale”: cioè tutte le cau-
sali del periodo spingono la narrazione verso un’unica azione: l’arrivo del prota-
gonista a Castel Guiglielmo. Una serie di circostanze (l’essere rimasto in camicia,
il freddo, la neve, il non saper che fare, la notte che sopravviene) fa sì che Rinaldo
si guardi intorno cercando riparo per la notte. Altre due circostanze, marginali
rispetto alle precedenti (il fatto che non ci sia riparo, a causa della distruzione por-
tata dalla guerra, e il fatto che qualche soccorso si poteva trovare nel castello),
inducono Rinaldo a dirigersi al castello, luogo della risoluzione della novella. Ho
provato a rappresentare la situazione descritta con il seguente schema:
Tabella 3
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 31
Si noti la che le due causali per ciò che v’era ogni cosa arsa e poco davan-
ti essendo stata guerra nella contrada, presentano, nell’ambito della progressio-
ne narrativa, una funzione diversa rispetto alle altre: introducono infatti una cir-
costanza accessoria, secondaria rispetto allo svolgimento. In questo caso si po-
trebbe parlare di una differenza tra valore causale “di primo piano” e valore cau-
sale “di sfondo”. Il primo tipo di causale interessa fatti necessari allo svolgi-
mento dell’azione, il secondo tipo riguarda invece fatti marginali, circostanze
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secondarie.
Abbiamo detto che questo modo di esprimere la causalità ha lo scopo di far
progredire la narrazione, assecondando, al tempo stesso, il ritmo interno del
periodo, un fine ricercato con costanza dal Boccaccio13. La duplice funzione vol-
ta dalla gerundiva di marcare la successione temporale e di segnalare la presen-
za di un’implicazione tra ciò che è espresso dal gerundio e ciò che è espresso
nella sovraordinata appare lo strumento ideale per rendere lo sviluppo della nar-
razione.
La progressione narrativa è ottenuta in tre modi diversi, dal più semplice al
più complesso, abbiamo: 1) progressione lineare con stesso soggetto, 2) progres-
sione lineare con cambio di soggetto, 3) progressione “a catena”.
La progressione lineare con stesso soggetto è la modalità più semplice: una
lunga serie di gerundi con lo stesso soggetto appunto, introduce le circostanze che
promuovono un determinato svolgimento dell’azione. Segue la principale, espres-
sa di solito (e significativamente) con un verbo di moto (13). Anche qui i quattro
gerundi sono “paralleli”: sono tutti posti sullo stesso piano sintattico e nella stes-
sa prospettiva. A rendere lineare il passo contribuisce la presenza del soggetto in
prima posizione:
10 Al quale si aggiungono i più recenti Brambilla Ageno 1978 e, per il gerundio composto,
Menoni 1982.
32 GIANLUCA FRENGUELLI
(14) Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer
Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi
nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in
casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del
Papa trattando, AVVENNE CHE, che se ne fosse cagione, messer
Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mat-
tina davanti a Santa Maria Ughi passavano (Dec, VI II 8, p. 721).
La “progressione a catena” del discorso narrativo consiste nel fatto che cia-
scuna gerundiva contiene al suo interno quello che sarà il soggetto della gerundi-
va seguente come in una catena, nella quale ogni anello è legato al precedente: gli
ambasciadori, oggetto della prima, diventa il soggetto della seconda: messer
Geri, complemento della seconda diventa soggetto della terza. I tre gerundi
(avendo mandati, essendo, trattando) sono al centro di tre eventi successivi e fra
loro connessi: sono tre momenti di un’unica sequenza temporale. Il risultato è un
periodo più ampio rispetto al precedente (13); le tre subordinate gerundiali
appaiono isolate rispetto alla coppia principale-completiva, tanto da richiedere
l’uso di una formula narrativa “marcata” di ripresa: in questo caso avvenne che.
Il gerundio presenta anche un’altra fondamentale funzione narrativa: quella di
introdurre semanticamente le cause e le circostanze che danno il via all’azione.
A tal fine il Boccaccio avvia spesso il periodo con due gerundi. Si tratta di
una formula ricorrente in tutta l’opera. I due verbi presentano nella maggior parte
dei casi valore temporale e causale, come in (15), dove il primo gerundio è tem-
porale, il secondo causale:
Le configurazioni possibili sono diverse: dal punto di vista del tempo e del
modo verbale possiamo avere due gerundi presenti, come nell’esempio appena
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visto; oppure due gerundi, il primo dei quali passato il secondo presente, come
accade per avendo fornite e tornandosi (16).
In questi casi il passato esprime l’avvenimento accaduto nel punto più lonta-
no della linea temporale, mentre il gerundio presente indica che il tempo è simul-
taneo a quello della narrazione:
(17) E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo
disposto, [Marato] alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si
guardava, sconosciutamente se n’andò con alcuni suoi fidatissimi
compagni li quali a quello che fare intendeva richesti aveva, e
nella casa, secondo l’ordine tra lor posto, si nascose (Dec, II VII
34, p. 234).
(18) Alla fine, forse dopo tre o quatro anni appresso la partita fatta da
messer Guasparrino, essendo [Giannotto] bel giovane e grande
della persona divenuto e avendo sentito il padre di lui, il quale
morto credeva che fosse, essere ancora vivo ma in prigione e in cap-
tività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato vaga-
bundo andando, pervenne in Lunigiana (Dec, II VI 33, p. 209).
(19) Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo era, e
conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di
Bernabuccio e fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo
commesso da lui mansuetamente passare; (Dec, V v 37, p. 647)
Tabella 4
Il gerundio è quindi il modo preferito dal Boccaccio per portare avanti la nar-
razione: da un lato la successione dei verbi al gerundio comporta una linearità e
un’omogeneità nel ritmo del discorso, dall’altro, mediante la varia combinazione
dei vari elementi della proposizione gerundiva, usata anche in abbinamento con il
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 35
cursus e la prosa rimata, il nostro autore fa sì che tale ritmo sia sempre diverso a
seconda delle situazioni.
l’uso del gerundio appare ridotto, mentre sono frequenti le causali esplicite. Ciò
vale nella duplice dimensione macrotestuale e microtestuale. Cominciamo dalla
prima. Nella tabella comparativa (15), nella quale abbiamo indicato le percentua-
li delle causali espresse col gerundio rispetto al totale delle causali. Risulta chia-
ramente che il Decameron è l’opera in cui si fa un uso frequente del gerundio cau-
sale e causale-temporale:
Tabella 5
Come si potrà notare, ad eccezione del Milione, tutte le opere narrative si tro-
vano nella parte alta della tabella: presentano infatti le maggiori percentuali di uso
del gerundio causale, rispetto alle più basse frequenze delle opere argomentative
(dal Fiore di rettorica alla Metaura).
Tabella 6
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valore temporale e modale, solo 49 hanno un valore causale. Questi gerundi cau-
sali, presenti quasi esclusivamente in strutture narrative caratterizzate dall’uso di
tempi storici, hanno il valore di “Motivo di Fare”, che ricorre particolarmente
nelle strutture narrative. La sequenza in cui compare il gerudio può essere di tipo
prettamente storico-narrativo, come in (21) e (22); nel secondo passo il gerundio
è ripetuto tre volte:
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11 Tali forme verbali, chiamate anche “converbi” (per una definizione del termine cfr.
Haspelmath 1995: 3), hanno come caratteristica principale proprio l’indefinitezza. A tal propo-
38 GIANLUCA FRENGUELLI
sito König (1995: 58) nota come «the interpretation of a converb in a specific utterance is the
result of an interaction between a basic vague meaning of the converb and a wide variety of syn-
tactic, semantic and contextual factors». Uno dei punti principali del dibattito sui “converbi”
riguarda il quesito se essi esprimano “vaghezza” oppure “polisemia” (König 1995: 59-67).
12 Secondo Rohlfs (1969: 180-181) poi che deriva dal latino tardo post quod, che in origi-
ne aveva il valore di postquam. Sugli usi causali e temporali nel latino cfr. Ernout/Thomas
(19532: 350, 361-62). Originariamente in latino postquam aveva valore comparativo: «Les pro-
positions introduites par antequam, priusquam, postquam […] sont, pour la structure, des com-
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paratives; mais elles ne peuvent pas être séparées des temporelles ou des conditionnelles dont
elles font partie pour le sens» (Ernout/Thomas 19532: 354).
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 39
14 Sulle causali di “Motivo di dire” e “Motivo di fare” cfr. Previtera (1996) e Frenguelli
(2001 e 2002).
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41 GIANLUCA FRENGUELLI
Anche negli altri testi del corpus la situazione è simile. Solo in rari casi il
gerundio introduce progressioni argomentative. In (24), dove l’emittente cerca di
convincere il destinatario del messaggio a prestargli il proprio cavallo, la gerun-
diva introduce l’argomento che dovrebbe spingere l’interlocutore a compiere il
gesto:
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(24) ve faço conto che abesono multo del vostro pallafreno, lo quale
me vogliati prestare e mandare in presenti, saipando ch’el me
convene andare all’emperiale corona in servisio de la nostra terra
(Faba Parlamenti, XXVII, p. 17).
(26) Cum ço sia cosa che ’l bono amigo scia meglio ca lo reo parente,
la vostra amistade voglio tenere cara, cognoscando inutile essere
lo stranio parentado (Faba Gemma, 28, p. 8).
Un’ultima constatazione: si è detto che nel Libro de’ vizî e delle virtudi di
Bono Giamboni il gerundio è usato con una certa frequenza e presenta spesso
fenomeni di cumulo. Analizzando la prima parte dell’opera, si nota che i primi
TRA NARRAZIONE E ARGOMENTAZIONE: IL GERUNDIO NELLA PROSA D’ARTE 42
quattro capitoli, nei quali l’autore esprime la propria triste condizione, sono ric-
chi di gerundi (soprattutto in posizione incipitaria), mentre il quinto capitolo, il
discorso consolatorio (e argomentativo) della Filosofia ne contiene appena due.
4. CONCLUSIONE
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Fare “vicario”, “fare + N”, “fare + V”. Per un’analisi del verbo fare nell’ita-
liano antico*
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Per quel che riguarda l’italiano antico, si può rilevare che il verbo fare trova
attestazioni omogenee sia nella prosa media che in quella d’arte e ricopre presso-
ché tutta l’area semantica che il vocabolo riveste nella lingua moderna. In effetti,
nella grande varietà di testi antichi, di diverso livello stilistico, si nota in varie cir-
costanze una notevole preferenza accordata a fare 3: basti pensare che tale verbo,
unito a un sostantivo, può sostituire un verbo più specifico4. Tra gli instrumenta
indispensabili del lessico e della grammatica, al pari di altre forme verbali “uni-
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versali”, il verbo fare figura in vari ambiti sintattici e, per la sua duttilità d’impie-
go, trova spazio in numerose situazioni pragmatico-retoriche. È significativo il
passo del discorso di Agamennone nei Conti di antichi cavalieri 5:
Voi sapete, signori, che quello ch’ora ha fatto Paris no è facto per noi
ed a noi propriamente, ma è facto e pertene a noi ed a voi ed a ciascu-
no de Grecia comunamente, che ciò che quelli de Troia han fatto noi
l’hanno facto per quello che li antecessori nostri ai loro fecero, unde è
’l grande onore ch’essi a loro e a Gretia acquistaro. Non se perda ora
in voi el facto.
L’artificio del poliptoto è attuato con la ricorrenza dello stesso vocabolo (in que-
sto caso il nostro verbo) con funzioni sintattiche diverse: facto come participio
passato e come sostantivo. Anzi sembra, talvolta, che la scelta lessicale del verbo
generico fare sia saturata dalla particolare spinta retorica dell’enunciato in cui è
collocato, quasi a calibrare stilisticamente la vaghezza semantica del verbo 6.
Indubbiamente, il carattere passe-partout del verbo fare, nell’italiano antico
doveva essere avvertito in maniera preponderante, non solo sul piano semantico
ma anche su quello funzionale 7. Proprio a quest’ultima componente dedicheremo
in particolare la nostra analisi, che si avvarrà di alcuni campioni di prosa media e
d’arte dei secoli XIII e XIV 8. In questa sede non ci occuperemo, se non margi-
3 In Dante, per es., nell’intera sua opera, le occorrenze di fare «assommano a 2061»
(Delcorno 1970: 795).
4 È un aspetto che ha precedenti nel latino tardo quando tale tendenza si rafforza: cfr.
Hofmann (1980: 336) e La Fauci (1979: 37-40).
5 Il brano è indicato da Dardano (1995: 39) per evidenziare la finalità retorica, in alcuni
contesti, della ripetizione a breve distanza di parole.
6 La stessa tensione retorica si riscontra, per es. in un enunciato della confessione-beffa di
ser Ciappelletto, nel Decameron, dove è indicativa la presenza del verbo fare, più volte ripetu-
to: «ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte netta-
mente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca», (Dec I 1 43).
7 Per un primo assaggio su tali aspetti, v. Brambilla Ageno (1964: 236-443; 468-485) e per
quel che riguarda il nostro verbo in Dante, v. Delcorno (1970:794-803).
8 Per l’elenco dei testi presi in esame nel nostro spoglio, rimandiamo alla bibliografia pri-
maria.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 45
nalmente, delle proprietà semantiche e delle accezioni del verbo nella frase 9. Nel
prospettare le funzioni di fare si è cercato, nel contempo, di delineare l’intorno
sintattico-situazionale in cui il verbo è collocato al fine di poter meglio caratte-
rizzare il suo impiego.
Esaminiamo subito una funzione molto frequente sia in poesia che in prosa,
quella del fare vicario.
Il verbo fare, data appunto la sua genericità e universalità, può sostituire o
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9 Per rilevare entrambe è sufficiente consultare, per le varie fasi dell’italiano, dizionari ampi
come il GDLI o come il GRADIT (quest’ultimo ricco in particolare di espressioni della lingua par-
lata). Le locuzioni con il verbo fare, nei dizionari antichi (dalla Crusca al Tommaseo / Bellini),
sono oggetto di analisi in Pietrobono (1986).
10 Per una rapida trattazione di questo particolare ruolo del verbo, nell’italiano contempo-
raneo, v. Salvi (1988: 82) il quale sottolinea che il verbo fare, dato il suo significato, «può sosti-
tuire solo verbi che abbiano un soggetto agentivo», cioè un soggetto che compie attivamente l’a-
zione espressa dal verbo.
11 In realtà, riscontri più approfonditi in spogli ampi e articolati di italiano antico, consen-
tirebbero di evidenziare meglio l’effettivo ruolo semantico-sintattico di fare, al di là di conside-
rarlo, in molti casi, come un semplice mezzo di variazione stilistica. Quest’ultima, nel secondo
esempio infatti, può sembrare quasi imposta, considerata la presenza nell’enunciato della ricor-
renza parziale rigetta…. rigittato.
12 Mussafia (1857/1983: 58-63).
13 Vidossich (1905: 162-164).
14 Brambilla Ageno (1964: 484).
15 Delcorno (1970 alla voce fare).
46 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
re funzione del verbo rispettivamente nell’ambito più generale del “fare fraseolo-
gico” e nell’uso di Dante.
Per il francese antico la situazione è diversa. Il volume di Thierry Ponchon16,
che analizza e studia il verbo faire in testi francesi medievali, dedica un ampio
capitolo al faire “vicaire”17. Lo studioso, nel cercare di mettere in luce la polise-
mia e la plurifunzionalità del verbo fare, costruisce la sua metodologia partendo
dalla nozione di “subduction”. Si tratta di un processo di desemantizzazione di
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Nel fornire altri esempi ci siamo soffermati in particolare sulla prosa del
Decameron. Il nesso comparativo, che occupa un posto preminente nell’architet-
tura sintattica e testuale dell’opera, si serve non raramente del fare vicario, che
raggiunge pertanto una discreta frequenza. Soprattutto nelle comparative di ana-
logia o di conformità, caratterizzate da un andamento binario di proposizioni in
correlazione e da un’attenta collocazione dei componenti nella frase, il predicato
verbale presenta il nostro verbo in più occasioni. Accade così che il generico fare
svolga il suo ruolo vicario, sostituendo verbi che possiedono tratti più specifici23:
È vero che un’esigenza di variatio può essere sottesa alle scelte lessicali.
Infatti, in altre occasioni, Boccaccio nell’attuare una disposizione ordinata dei
vari componenti nella struttura periodale, privilegia alcuni caratteri che presenta-
no simmetria di situazioni e ripetitività di forme. Il ruolo vicario di fare, in effet-
ti, non sembra emergere negli esempi seguenti in cui il verbo ricorre sia nella pro-
posizione sovraordinata che nella reggente; le uniche variationes, per quel che
concerne il predicato verbale, sono affidate al mutamento del tempo24:
Siccome per adietro era stato fatto così fece ella, (Dec V C 2);
sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente, (Dec II
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In 3).
sì come essi hanno fatto così intendo che per lo mio comandamento si
canti una canzone, (Dec IV C 9);
sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese, (Dec VIII 9 62).
Tale verbo, come si vede, anticipa in maniera generica e sostituisce il verbo della
’reggente’ comparativa che segue; il fenomeno appare interessante ai fini del rap-
porto sintattico di correlazione tra le due proposizioni che costituiscono il com-
parato e il comparante. Si tratta, in altre parole, di verificare se la ’subordinata’
comparativa, cioè il secondo membro del periodo comparativo, nell’italiano anti-
co, debba essere considerata prolettica rispetto alla ’reggente ’26.
Si è evidenziato fin qui come la funzione vicaria del verbo fare possa proce-
dere parallelamente all’analisi di strutture sintattiche e come esso si esprima e
24 Uno studio attento sulla determinazione dell’uso dei tempi, soprattutto nella prosa tosca-
na del Duecento, è in Ambrosini (2000).
25 In effetti si può notare, in più occasioni, soprattutto in un membro del costrutto, l’ellissi, o
meglio l’omissione del predicato verbale. Il fenomeno, speculare alla ricorsività, permette in molti
casi di ipotizzare, come facilior, fare vicario sottinteso: per es., «essi di gran lunga sono da molto
meno, sì come quegli che, per viltà d’animo non avendo argomento, come [fanno] gli altri uomini
di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar, come [fa]’l porco» (Dec III 3 3).
26 Per quel che riguarda l’italiano moderno, Serianni (1988: 515) osserva che «quanto alla
posizione, che di massima è libera […] le comparative tendono ad anteporsi alla sovraordinata
quando questa contenga un elemento correlativo». La collocazione della subordinata compara-
tiva rispetto alla reggente, in effetti, è uno dei punti cardine di tale struttura. Da essa dipendono
numerosi fenomeni: da una modalità retorica che lasci intendere un valore ritmico dei membri
del costrutto, a una precisa strategia discorsiva con finalità dimostrativa (con il dovuto risalto per
la prospettiva funzionale della frase e per l’articolazione dell’informazione). Per alcuni di que-
sti aspetti nella prosa di Dante e di Boccaccio, cfr. rispettivamente, Agostini (1978: 402) e Pelo
(1980: 27-51).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 49
trovi una sua configurazione nel nesso comparativo. Tuttavia anche in altre circo-
stanze fare vicario assume un rilievo spiccato. In questo ambito sono da eviden-
ziare infatti, varie modalità d’uso. Particolarmente evidente, anche ai fini prag-
matici e testuali, ci è sembrato il ruolo svolto dal verbo come “incapsulatore co-
testuale” di eventi, circostanze o anche indicazioni che si sono svolti in enunciati
antecedenti: (così) fu fatto o (e) così fece sono espressioni che ricorrono frequen-
temente nei testi antichi e inglobano varie ’azioni’ già espresse27. La fenomeno-
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logia in cui tali espressioni ricorrono è molto varia 28. Qui forniamo soltanto alcu-
ni ragguagli di base. Prendiamo il passo seguente:
ordinò che tornasse a la città di Firenze. E così fece, colla sua gente e
con molti altri Fiorentini e Toscani e Romagnuoli, (NC IX XLIX 2).
È questo un caso in cui l’espressione con il fare vicario, realizza una sorta di lega-
me sintattico-testuale tra l’enunciato precedente e quello seguente; quest’ultimo
possiede una precisazione aggiuntiva (colla sua gente e con molti altri Fiorentini
e Toscani e Romagnuoli).
Analogamente in
27 Anche la forma sintagmatica fare con l’oggetto pronominale neutro lo appare un idoneo
procedimento di sostituzione di un altro sintagma verbale. È sufficiente un solo esempio: «ma
perché li parve aspro cammino a entrare in Toscana, no ’l fece», (Compagni, III XXXIV 28-29).
Per espressioni analoghe in italiano moderno, v. Salvi (1988: 83).
28 Dardano (1999: 186) nell’analizzare un passo del Decameron (V 6 40-42), che presenta
la formula finale e così fu fatto, osserva come talvolta tale formula «frequente nel Novellino e
nella narrativa del secolo precedente» si inserisca a conclusione di una struttura argomentativa
del tipo ’convinzione + effetto’, concretizzando così la soluzione positiva dell’evento.
29 Non è estraneo alla funzione vicaria del verbo, l’impiego di così (non sempre presente
tuttavia nella nostra formula con il fare) come tratto marcato ulteriore a cui affidare un esplici-
to richiamo del contesto precedente.
30 In una direzione diversa è orientata la nostra locuzione che è presente, ancora una volta,
in un passo dell’Itinerario dugentesco per la Terra Santa (v. Dardano 1966/1992: 181): «Mandò
questo giovano che tutta questa giente fosse menata dinanzi da llui. Fu fatto». Si tratta di quei
casi in cui il verbo concentra su se stesso il focus informativo, senza possibilità di progressione
50 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
del corso delle stelle. […] E tutte queste cose fece perché Roboam
regnasse dopo lui, (Nov VII 9-13)31.
Si noti l’aspetto seriale del sintagma (E più fece) e l’aggancio anaforico finale (E
tutte queste cose fece): si tratta di una sorta di ’cerniera’ che introduce un fatto
nuovo e prende le mosse dall’esplicito richiamo agli eventi precedenti; è signifi-
cativo che tale richiamo si avvalga di due forme “generali”: il sostantivo cosa e il
verbo fare.
È indubbio l’influsso che questi particolari costrutti con il verbo fare vicario
esercitano sulla compagine testuale. Ciò accade anche quando in uno o più enun-
ciati l’analogia delle circostanze è espressa da una formula conclusiva che, oltre
ad evidenziare la particolare struttura circolare del testo, ripropone il verbo in que-
stione più volte:
Ora vedesi onne die currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano.
Curro Turchi, lo simile faco, (Cron, XIII 32c-34c).
Interessante ai nostri fini anche la variatio tra la forma nominale analitica del
verbo, cioè «currerie fare» e quella piena «Curro», reiterata32. In particolare la
forma perifrastica (Fare +N) ci consente di prendere in considerazione un’altra
tipica funzione del nostro verbo che, in alcuni casi, trova un riscontro formale
nelle procedure di nominalizzazione 33.
2. Fare infatti rientra anche nella categoria dei cosiddetti verbi supporto
(insieme a avere, dare, essere). Il significato originario è quasi neutro; serve a
del discorso. Non è disgiunta da tale funzione la forma passiva del verbo. Si osserva, inoltre, a
dimostrazione dell’impiego vicario del verbo, che una variante della redazione francese
dell’Itinerario reca: «Fue ubbidita la sua volontà».
31 Il che, posto dopo E più fece, ha funzione di “tematizzatore”: v. Bertuccelli Papi (1995).
32 La forma perifrastica, volutamente marcata dall’autore con la posposizione del verbo
dopo il sostantivo, risponde a esigenze espressive tempo-aspettuali: presenta cioè uno svolgi-
mento ’dinamico’ che non sembra avere quella semplice.
33 Per alcuni riscontri sui processi di nominalizzazione, cfr., almeno per l’italiano moder-
no, Dardano (1978) ma anche da ultimo, Dardano / Frenguelli (1999: 352-354), con aggiornata
bibliografia.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 51
sostenere un nome il quale funge così da complemento 34. In questa sede è stato
possibile approntare soltanto una sintetica tipologia di alcune combinazioni di
fare + N. Rinviamo a un’altra occasione l’analisi dello stretto rapporto delle locu-
zioni con le strutture testuali in cui compaiono, nonché l’esame di numerosi aspet-
ti legati alla configurazione e alle condizioni di uso del costrutto con il nostro
verbo quali per es., l’impiego “coalescente” di fare +N35.
Schematicamente, osserviamo che la locuzione può presentare specifiche
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diosi spagnoli definiscono hacer come verbo lexico-funcional e verbo lexical 39.
Queste ultime denominazioni corrispondono grosso modo alla designazione, che
abbiamo indicato, di verbo “supporto”. La fondamentale nozione approntata da
Harris (1970)40 di “operatore” ha indotto poi gli studiosi, in alcuni casi, a consi-
derare il nostro verbo anche con tale attributo. In questa sede analizzeremo fare
come verbo operatore, quando può indurre ad una trasformazione della frase, in
particolare quando riveste una funzione causativa.
3. Per il suo contenuto semantico fare è anche il verbo base per la creazione
di costruzioni causative, atte ad esprimere un’azione non attuata dal soggetto, ma
fatta compiere da un altro agente. In particolare, prenderemo in considerazione i
costrutti in cui fare compare in perifrasi verbali come fare che, fare sì che, alle
quali fa seguito una proposizione consecutiva esplicita41:
37 Una continuità di intenti del programma francese si ritrova, sia pur con diverso sviluppo,
in indagini descrittive lessico-grammaticali dell’italiano. Si veda in proposito D’Agostino
(1992).
38 Cfr. al riguardo, Ponchon (1994: 47-48) che constata come gli studiosi francesi degli
indirizzi di ricerca a cui abbiamo fatto riferimento «en se penchant sur le mots qui accompagnent
le verbe», siano giunti «à une syntaxe du nom, plutôt qu’a une syntaxe du verbe» e che tali teo-
rie generativo-trasformazionali possano particolarmente applicarsi e valere per la fase scritta e
orale della lingua solo di epoca attuale. In effetti si consideri che molti casi di fare +N dell’ita-
liano antico si adattano male a schemi costruiti per l’italiano moderno. Pensiamo al fare +N che
dà luogo a locuzioni fisse che sono più difficilmente identificabili o deducibili nella lingua anti-
ca. Per gli aspetti metodologici legati a tali costruzioni, cfr. Gross (1996); Casadei (1996); Ruiz
Gurillo (1997).
39 Cfr. Von Polenz (1963) per il tedesco; per lo spagnolo, Solé (1966).
40 Si veda più avanti il § 3.
41 In italiano antico un caso di cancellazione del costrutto causativo appare nel verbo rubel-
lare, che spesso vale far ribellare: «i Ciciliani il disideravano a signore, e prometteano di rubel-
lare l’isola al re Carlo», (NC VIII 59). Cfr. a questo proposito Brambilla Ageno (1964: 34).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 53
Nel datore adunque dee essere la providenzia in far sì che della sua
parte rimagna l’utilitade dell’onestade, che è sopra ogni utilitade, e far
sì che allo ricevitore vada l’utilitade dell’uso della cosa donata, (Conv
I VIII 8).
42 Per uno studio sulle costruzioni causative in generale, v. invece Shibatani (1976).
54 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare […]:
Mossimi prima per magnificare lui, (Conv I X 7)43.
deva una regolare formazione di causativi per mezzo del suffisso *-EY44, di cui si
conservano tracce in greco antico, in verbi iterativo-causativi come fobew (“fac-
cio temere” ~ febomai, “temo”), dokew, sobew, e in latino, in verbi come MONĔO
(“faccio ricordare” ~ MĔMINI “ricordo”), DOCĔO, FOVĔO.
In turco tutti i verbi possono diventare causativi mediante l’inserzione degli affis-
si -dir- o -t-: yaz-mak “scrivere” → yaz-dir-mak “far scrivere”, anla-mak “ascol-
tare” → anla-t-mak “far ascoltare”; analogamente in swahili45 alcuni verbi pos-
sono assumere valore causativo con l’aggiunta di un particolare suffisso46.
Anche i causativi lessicali constano di un verbo singolo invece che di una
perifrasi verbale; in questi casi però l’idea della causatività non viene espressa
attraverso un suffisso, ma è affidata interamente al lessico: ne sono esempi verbi
come avvisare, mandare, mostrare, uccidere, che hanno lo stesso significato e
sostituiscono perifrasi quali far sapere, far andare, far vedere, far morire 47.
Soffermiamoci infine sui causativi espressi da mezzi sintattici. È a questa
categoria che appartengono le costruzioni con fare+che, delle quali ci vogliamo
occupare. Tuttavia, prima di inoltrarci nella descrizione di tali costrutti, riteniamo
opportuno confrontarli con un altro tipo di causativo sintattico, il già citato far
fare qualcosa a qualcuno, in cui fare è seguito da un infinito48. Si tratta di una
43 Nell’esempio citato il termine magnificare viene usato da Dante proprio con il suo pre-
ciso valore etimologico di “rendere grande”. Cfr. Tateo (1971 alla voce magnificare): «Chiarito
dallo stesso Dante nel suo significato etimologico (“magnificare”, cioè “fare grandi”, in Cv. I X
7) […]. La “grandezza” e nobiltà del volgare, consistenti soprattutto nella capacità di esprimere
i concetti della mente […] vengono, secondo D[ante], “attualizzate”, “palesate”: sicché può dirsi
veramente che egli “magnifichi” il volgare, ossia ne realizzi la grandezza».
44 Cfr. Robustelli (1993: 143).
45 Cfr. Comrie (1981) e Giannini (1994 alla voce causativo).
46 Il tedesco è ricco invece di causativi che derivano dai verbi primitivi mediante il cam-
biamento della vocale tematica: si pensi a fallen “cadere” ~ fällen “far cadere”, trinken “bere”~
tränken “far bere”, liegen “giacere” ~ legen “far giacere”. Cfr. Mussafia (1857/ 1983: 14).
47 Per quanto riguarda l’inglese, la non intercambiabilità tra to kill e to cause to die è dimo-
strata da Fodor (1979), il quale constata che in alcuni tipi di frase la sostituzione di to kill alla
forma analitica to cause to die dà luogo a enunciati agrammaticali. Cfr. anche Shibatami (1972).
48 Costruzione molto simile è quella composta da lasciare + infinito. Fare e lasciare hanno
in comune il contenuto causativo, ma non possono essere considerati sinonimi. Se lasciare può
essere sostituito da fare, non sempre invece può avvenire il contrario: lascialo parlare → fallo
parlare, ma: glielo faccio sapere →??glielo lascio sapere. Sul piano semantico, lasciare ha un
suo significato autonomo, vicino a quello di “permettere”, e il significato causativo del costrut-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 55
tipica innovazione romanza (si confrontino il costrutto francese faire faire quel-
que chose à quelqu’un, e in spagnolo e portoghese le costruzioni con hacer e fazer
+ infinito49). In italiano tale complesso verbale ha le stesse modalità di realizza-
zione di un verbo unico. La coesione tra fare e l’infinito è infatti così forte che i
due elementi sintatticamente si comportano come un solo costituente nella frase50:
il nostro verbo, perdendo il suo significato distintivo, diventa un ausiliare51 e
assolve la funzione di modificare in senso causativo il significato dell’infinito. Ci
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to è molto attenuato (Skytte: 1983). Mentre fare rappresenta la forma positiva del causativo (fare
che), lasciare ne rappresenta quella negativa (non fare che). Un’altra differenza risiede nel fatto
che la proposizione retta da lasciare in forma esplicita è una completiva, mentre quella retta da
fare è una consecutiva esplicita: lascialo restare → lascia che resti, fallo restare → fa’ che resti
(Serianni 1988: 465). Alcune perifrasi con lasciare si sono affermate in italiano come espres-
sioni cristallizzate: lasciare stare, lasciar perdere, lasciar correre. Ma, in generale, «i costrutti
con il verbo lasciare vengono considerati dagli italofoni meno grammaticali, più pesanti»
(Vanvolsem 1995).
49 Rispetto alle costruzioni con fare + infinito, i causativi con hacer e fazer presentano una
minore compattezza sintattica (vedi infra): questi due verbi infatti «sembrano aver subito lo
svuotamento sintattico in misura più limitata rispetto al loro omologo italiano» (Cerbasi 1998:
465).
50 Trattandosi di un unico predicato verbale complesso, raramente viene tollerato l’inseri-
mento, tra i due membri, di altri elementi, almeno per quanto riguarda l’italiano moderno (per
l’italiano antico, v. Robustelli 1994); inoltre il soggetto logico dell’infinito diventa un argomen-
to dell’intero complesso verbale; l’infinito, anche quando è intransitivo, nel costrutto può diven-
tare transitivo; i clitici, argomento dell’infinito, non si attaccano a quest’ultimo ma a fare; l’in-
finito non può essere negato.
51 Cfr. per il francese antico Ponchon (1994: 175-250), che dà al faire causativo seguito da
infinito l’etichetta di auxiliaire.
52 Il fenomeno della grammaticalizzazione è stato ampiamente trattato nella letteratura lin-
guistica degli ultimi decenni. A tale proposito, cfr. almeno Hopper-Traugot (1993) e Giacalone
Ramat (1998).
53 In questi casi molto spesso il causatore è rappresentato da un agente inanimato (Cerbasi:
1998). Cfr. inoltre Salvi-Skytte (1991: 500).
56 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
verbo. Una riprova risiede nel fatto che i costrutti analitici puri non rappresenta-
no eventi causativi in senso lato, in cui cioè l’agente causatore esercita un con-
trollo minore sull’azione54: quest’ultimo infatti è sempre dotato di intenzionalità,
perché promuove direttamente il compimento dell’azione. Definiamo per questo
motivo fare come un verbo “operatore”, in quanto il suo soggetto grammaticale
mette in moto l’azione di un altro soggetto. L’etichetta di “operatore” è stata intro-
dotta da Zellig S. Harris (1970) secondo tre modalità: a) verbi che operano sui
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FĂCĬ O, pur essendo meno usato nella lingua letteraria, per la sue maggiori
genericità e duttilità cominciò già nel latino tardo a essere impiegato per espri-
mere eventi causativi, a discapito delle forme concorrenziali (Cerbasi: 1998).
In ciascuno dei casi sopra esposti, la causatività era espressa da strutture
biproposizionali: la proposizione con FĂCĬ O, e la proposizione ad essa seguente.
Non possiamo parlare di un unico complesso verbale neppure per quanto riguar-
da i costrutti con FĂCĬ O seguito da infinitiva: si trattava, anche in questi casi, di
due predicati distinti che richiedevano argomenti separati.
54 Ponchon (1994: 184) osserva inoltre che, per quanto riguarda il francese, l’impiego di
faire+ que «entraîne une idée de résultat visé, idée qui est absente avec faire auxiliaire de verbe
infinitif».
55 Anche Ponchon (1994) si serve dell’etichetta di opérateur, ma per riferirsi al faire con
valore effettivo: «Feites moi chevalier», (Perceval 970), «Orgiuelz fait home maigre et pale»
(Miracles de Nostre Dame 10, 1938).
56 V. Harris (1970) e cfr. La Fauci (1979: 24).
57 Per un’analisi delle proposizioni consecutive nell’italiano antico, v. Dardano / Frenguelli
/ Pelo (1998).
58 In latino i costrutti causativi per eccellenza erano proprio quelli rappresentati da FACIO
/ EFFICIO+ UT e congiuntivo (Robustelli 1993: 143).
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 57
babilmente da Andrea Lancia, prima del 1313 60. Abbiamo confrontato il volga-
rizzamento con l’originale latino, tenendo conto che nei versi ovidiani le scelte
lessicali e la giacitura delle parole possono essere condizionate da esigenze metri-
che, mentre il testo in prosa ubbidisce alle regole della retorica medievale. Fare +
che compare spesso in corrispondenza di FĂCĔRE all’imperativo seguito dal con-
giuntivo, con una traduzione quasi letterale:
Seu pedibus uacuis illi spatiosa teretur/ Porticus, hic socias tu quoque
iunge moras, / et modo praecedas facito, modo terga sequaris, (Ars I
489-491);
O se i-largo portico fia pestato da-llei con iscalzi piedi, tu altresì com-
pagnevole dimoranza farai co-llei; e farai ch’alcuna volta tu vadi
dinanzi, alcuna volta di drieto le sue spalle, (Arte Am I 491-494);
Fac primus rapias illius tacta labellis/ Pocula, quaque bibit parte puel-
la, bibas, (Ars I 573-574);
Fa’ che tu pigli il bic[c]hiere, col quale ella bevendo, toccherae colli suoi
labbretti, e berai da quella parte ch’ella avrae bevuto, (Arte Am I 575-576);
Cede repugnanti; cedendo uictor abiis;/ Fac modo, quas partis illa
iubebit agas, (Ars II 197-198);
Da’ luogo a chi ti ripugna e partira’ti vincitore; fa’ che tu solamente
vadi là ov’ella ti comanderae, (Arte Am II 197-198);
Iussus adesse foro iussa maturius hora/ Fac semper uenias nec nisi
serus abi, (Ars II 223-224);
S’ella ti comanda andare a-llei, fa’ che tu vi sia più tosto che l’ora
comandata e non ti partire se non tardi, (Arte Am II 223-224).
59 La rianalisi sintattica che nei causativi con fare + infinito porta dalla struttura bifrasale lati-
na a una struttura monofrasale romanza non è pertanto in questi casi completa (Cerbasi 1998: 459).
60 Vanna Lippi Bigazzi, che ha curato l’edizione critica del testo, fornisce alcune indica-
zioni per stabilire il termine ante quem del volgarizzamento: «sappiamo da una chiosa dei
Rimedi che il volgarizzatore operava al tempo della discesa in Italia di Arrigo del Lussemburgo;
poiché nel prologo di quella stessa opera si allude all’Arte come già volgarizzata [...], anche
l’Arte non varca il 1313». Per quanto riguarda l’identità del volgarizzatore, la studiosa osserva:
«le affinità più clamorose si rilevano con il volgarizzamento dell’Eneide autorevolmente attri-
58 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
«Effugere hunc non est» quare tibi possit amica / Dicere? non omni
tempore sensus obest, (Ars II 531-532);
Non fare sì che la tua amica possa dire: «Fuggi quinci!». Il senno non
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 59
quello moderno l’ordine “fare che + consecutiva esplicita” è fisso; c’è contiguità
tra fare e il complementatore che. Precisiamo tuttavia che non sono assenti
esempi che presentano vari tipi di inserzioni tra i due membri; nella maggior
parte dei casi, l’elemento che si frappone tra fare e il che è rappresentato da un
avverbio:
Registriamo infine alcune occorrenze in cui tra fare e il che si frappone un’in-
tera proposizione (un’altra reggente coordinata, in endiadi; un’ipotetica; una tem-
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 62
porale):
E però quanto più posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a
fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi
sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole,
(Dec VIII 9 44);
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Facciano gl’iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa
ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me […] adope-
ri, (Dec X 8 41);
Dioneo, questa è quistion da te: e per ciò farai, quando finite fieno le
nostre novelle, che tu sopr’essa dei sentenzia finale, (Dec VI In. 12).
63 ADRIANA PELO – ILDE CONSALES
BIBLIOGRAFIA PRIMARIA
Ars = P. OVIDII NASONIS, Artis amatoriae, a cura di H. Bornecque, Paris, Les Belles Lettres,
1924.
Arte Am. = Libro dell’arte d’amare, a cura di V. Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecente-
schi dell’Ars amandi e dei Remedia amoris, Firenze, Accademia della Crusca, 1987.
Compagni = D. Compagni, Cronica, a cura di G. Luzzatto, Torino, Einaudi, 1968.
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Conv = Dante, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, 3 voll. Firenze, Le Lettere, 1995.
Cron = Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano, Adelphi, 1979.
Dec = G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992 [rist. dell’ed.
1980].
Met = La Metaura d’Aristotile. Volgarizzamento fiorentino anonimo del XIV secolo, a cura
di R. Librandi, 2 voll., Napoli, Liguori, 1995.
NC = G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 3 voll., Parma, Guanda, 1990-1991.
Nov = Il Novellino, a cura di A. Conte, Roma, Salerno 2001.
Simintendi = A. Simintendi, Metamorfosi volgarizzate da ser Arrigo Simintendi da Prato.
In: Corpus testuale del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, allestito presso
l’Opera del Vocabolario Italiano, Firenze.
VN = Dante, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996.
FARE “VICARIO”, “FARE + N”, “FARE + V”. PER UN’ANALISI DEL VERBO FARE 64
BIBLIOGRAFIA SECONDARIA
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Dardano Maurizio, 1978, La formazione delle parole nell’italiano di oggi. Primi materia-
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Dardano Maurizio, 1990, Appunti sulla formazione delle parole nella prosa antica. In: Id.,
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Gross Gaston, 1996, Les expressions figées en français, Paris,Ophrys.
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Reidel.
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Tabella 1
Trascurando in questa sede la questione delle forme con doppio ausiliare del
passivo composto romanzo (per cui si veda La Fauci 2000c; 2000d), i punti criti-
ci del confronto sono riassunti in (2):
* Sono grata a Nunzio La Fauci non solo per l’ispirazione del lavoro ma anche per l’entu-
siasmo con il quale mi ha segnalato i molti problemi che restano da risolvere. Una precedente
versione di questo lavoro ha inoltre beneficiato della lettura del prof. Riccardo Ambrosini: pur
senza offrire qui una soluzione ai quesiti e alle critiche di specifici punti, desidero ringraziarLo
per avermi indicato, con le sue stesse domande, le direzioni in cui orientare la futura elabora-
zione della ricerca.
68 SILVIA PIERONI
Tabella 2
LATINO ITALIANO
• non corrispondenza fra il tempo dell’ausilia- • corrispondenza fra il tempo dell’ausiliare e il
re e il tempo del nucleo predicativo1 passivo tempo del nucleo predicativo passivo (sono
(laudatus sum perfetto) lodato presente)
• distinzione formale, al perfetto, fra la strut- • coincidenza formale della struttura copula +
tura participio + copula e la struttura passiva participio con la struttura passiva (fui felice
(felix vs. laudatus sum) vs. fui lodato)
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• forma sintetica e analitica del passivo • forma soltanto analitica del passivo
2. Il rapporto non biunivoco fra forme e funzioni può essere colto tramite un
procedimento di scomposizione della struttura passiva basato sull’articolazione in
tratti grammaticali, secondo il modello proposto da La Fauci (2000c), che recu-
pera e convoglia indicazioni suggerite anche in lavori di diversa impostazione teo-
rica (quali Dubinsky e Simango 1996).
Innanzitutto, è necessario sottolineare che l’informazione lessicale e quella
morfosintattica non sono distribuite omogeneamente nel nucleo predicativo, il
quale si compone funzionalmente di:
1 Con ‘nucleo predicativo’ si intendono qui le ‘unioni predicative’ (Davies e Rosen 1988;
Rosen 1997) che contengono un solo predicato con portata argomentale, distinte quindi da quel-
le che ne contengono più di uno (ad esempio, le unioni causative).
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 69
strutture sintattiche nel loro complesso possano non essere rimasti funzionalmen-
te identici. Il problema teorico generale è evidentemente quello dell’opposizione
fra costrutti con predicazione verbale e costrutti con predicazione non verbale;
tuttavia, la distinzione fra valore verbale e aggettivale del participio non pare sod-
disfacente per cogliere il modo in cui si correlano la disponibilità della forma par-
tecipiale a più interpretazioni e la sua partecipazione a strutture diverse, che, in
diacronia, comporta la sostituzione delle forme sintetiche e analitiche del passivo
latino con le forme soltanto analitiche del passivo italiano (e romanzo).
L’ambiguità categoriale del participio (che ovviamente non riguarda la sola
struttura passiva, per cui una chiara definizione formale del tratto grammaticale
[± passivo] si rende preliminarmente necessaria) e conseguentemente gli aspetti
innovativi del passivo analitico romanzo possono essere articolati in termini
morfosintattici grazie all’individuazione del tratto grammaticale [± flessivo]. I
due tratti in questione sono definiti in La Fauci (2000c: 83) come segue:
In questo quadro, La Fauci propone che la distinzione fra il passivo italiano con
ausiliare essere e quello con ausiliare venire sia formalizzabile come in (3) e (4)3
2 Eccettuali usi ellittici del tipo Bella, la vita di quel tale che saranno qui trascurati.
3 I diagrammi stratigrafici che accompagnano gli esempi devono essere letti dal basso verso l’al-
to: la prima riga corrisponde infatti alla struttura di superficie. Ciò dovrebbe rendere chiaro che le for-
malizzazioni fornite non sono in alcun modo intese in senso derivazionale, ma piuttosto come rap-
presentazioni concettuali delle strutture. Una maggiore suddivisione di livelli non riflette perciò il cor-
relato di possibili ‘movimenti’, ma semplicemente la maggiore complessità strutturale dal punto di
vista morfosintattico. I termini “Carico” e “Neutro” indicano rispettivamente il settore responsabile
dell’assegnazione degli argomenti e quello devoluto all’integrazione delle funzioni morfosintattiche.
I simboli relativi alla struttura argomentale sono quelli della Grammatica Relazionale.
70 SILVIA PIERONI
Tabella 3
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Tabella 4
tiva’ delle strutture italiane4, semplificabili ai fini di questo lavoro nelle due restri-
zioni che seguono:
Anche senza entrare nel merito della direzione del rapporto causa-effetto fra
la strutturazione morfosintattica e il valore tempo-aspettuale, la concettualizza-
zione formalizzata dei tratti in questione, di per sé non assenti nelle intuizioni
della descrizione vulgata, sembra permetterne l’utilizzo concreto come strumento
per un’analisi strutturale e funzionale che integri adeguatamente l’interpretazione
semantica tradizionale5.
(5) Abs te est Popilia, mater vestra, laudata (Cic. de or. 2,44)
“Da te fu lodata Popilia, vostra madre”
Tabella5
4 Tali parametri sono individuati sulla base di campioni che non riguardano le sole struttu-
re verbali, ma anche quelle copulari: Andrea è stato felice ma Andrea è venuto felice.
5 Si vedano le osservazioni di Ambrosini sulla natura di veri e propri passivi delle struttu-
re con venire, non stative, a differenza di quelle con essere (sui casi del tipo mi viene / è venuto
detto, non passivi, si tornerà nella sezione 3.1).
72 SILVIA PIERONI
3.1. L’esame che soggiace alla formalizzazione in (5) comprende gli elemen-
ti concettuali atti a spiegare il valore temporale perfetto del nucleo predicativo
laudata est, sanando l’aporia della forma presente dell’ausiliare. Infatti, essendo
il participio [+ flessivo], la sua formazione morfosintattica è collocata nel primo
Settore Neutro: l’informazione temporale, caratteristicamente una categoria fles-
siva, può essere collocata senza difficoltà in questo preciso settore. (Si confronti-
no le osservazioni sulla primarietà del valore anteriorizzante del participio in
Kurylowicz 1931 e quelle in Pinkster 1987/ 193-194; benché in quest’ultimo caso
le strutture considerate non siano passive 7). Confrontando la struttura con la sua
corrispondente italiana in (3), si nota che anche in quest’ultima l’informazione
temporale è fornita nel primo Settore Neutro, in questo caso il settore predicativo
del participio dell’ausiliare stato: nella struttura italiana, infatti, il processo di for-
mazione del participio è invisibile alla morfosintassi. La ristrutturazione formale
sarebbe così correlata a equivalenza funzionale, ragione profonda della continuità
fra le due strutture.
L’analisi modulare e la risoluzione tramite essa dell’ambiguità del participio
permettono a questo punto il confronto con le strutture in cui la formazione del
participio non avviene a livello morfosintattico, ma morfolessicale. Di fatto,
anche il latino possiede strutture con participi [– flessivi]: è il caso di strutture
come (6) e (7).
(6) Gallia est omnis divisa in partes tres (Caes. Gall. 1,1,1)
“Nel suo complesso, la Gallia è divisa in tre parti”
Tabella 6
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(7) Omnia quae sunt conclusa nunc artibus, dispersa et dissipata quon-
dam fuerunt (Cic. de or. 1,187)
“Tutti gli elementi che ora sono contenuti nelle arti furono un tem-
po senza ordine e correlazione”
Tabella 7
8 L’esempio (8), come (5) precedente, sono stati scelti per chiarezza anche in quanto impli-
cano un complemento d’agente. Tuttavia, benché il complemento d’agente sembri favorire l’in-
terpretazione +flessiva del participio, non si intende in alcun modo dire che esso sia responsa-
bile della distinzione di funzioni e strutture.
74 SILVIA PIERONI
che preferisce parlare di «passivi non agentivi») come del resto suggerisce l’ordi-
ne lineare, che inserisce omnis fra est e divisa.
Tabella 8
Una conferma della validità della struttura proposta in (6) è il fatto che all’in-
terpretazione temporale presente si associa un oggetto indiretto piuttosto che un
complemento d’agente. Si confrontino (9) e (10):
(9) nulla tamen vox est ab eis audita populi Romani maiestate et supe-
rioribus victoriis indigna (Caes. Gall. 7,17,3)
“Tuttavia, non fu udita da loro alcuna voce indegna della grandez-
za del popolo romano e delle precedenti vittorie”
Tabella 9
Tabella 10
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3.2. Se il caso (7) visto in 3.1. è una struttura inaccusativa, sono tuttavia atte-
state in latino strutture che anticipano il passivo romanzo non solo formalmente, ma
anche funzionalmente.
Un caso non ambiguo è:
La diversità strutturale che intercorre fra le strutture del tipo (7) e quelle del
tipo (13), riconosciuta, come si diceva, nelle grammatiche, non è però in grado da
sola di rendere ragione dei modi del cambiamento intercorso. Lo slittamento
verso il passivo del tipo (13) è tradizionalmente ricondotto alla presenza di un pre-
dicato agentivo (e all’esigenza di marcarne la differenza rispetto a quelli stativi).
Ora, poiché le due strutture costituite da sum + participio (quella inaccusativa
degli esempi 6 e 7 e quella passiva degli esempi 8 e 13) si trovano per tutto l’ar-
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co della latinità con medesimi verbi, come emerge dalla considerazione dei casi
(6)-(12), non è possibile ipotizzare una distribuzione complementare delle strut-
ture riconducibile solo a fatti lessicali. D’altra parte, la coesistenza di due struttu-
re sotto un’apparente equivalenza superficiale (come nei casi latini 6 e 8) non con-
tiene in sé nessuna radice causale per il cambiamento, essendo la biunivocità
forma-funzione una possibilità, favorita dalla facilità e dalla chiarezza, ma non un
critero ineccepibile della lingua. Secondo l’ipotesi qui proposta, in (13) il partici-
pio è il primo elemento predicativo della struttura, esattamente come in (7)
(rispetto al quale la distinzione strutturale riguarda la presenza di un soggetto
diverso da quello finale9). Il perfetto di esse trova così ragione nel fatto che
l’informazione temporale di perfetto non è soddisfatta al livello della formazione
del participio. In questo senso, il processo che da una complesso esse + participio
predicativo porta a una forma perifrasica non è da riportare né solamente alla clas-
se lessicale dei singoli verbi o delle loro singole accezioni, né semplicemente
all’ausiliarizzazione di esse, ma al mutare complesso delle relazioni fra gli ele-
menti (considerando qui principalmente quelli predicativi) della proposizione, che
vedono mutare la scelta dell’ausiliare (da infectum a perfectum) in conseguenza
della diversa interazione funzionale con il participio.
3.3. In 3.1 si è visto che nel passivo analitico latino del tipo (5) l’informa-
zione temporale è collocata nel settore devoluto alla flessione del predicato con
portata argomentale (ossia al livello di formazione del participio); nel passivo
analitico italiano del tipo (3), invece, nel settore predicativo dell’ausiliare (sta-
to). In questo senso, l’equivalenza funzionale dell’ausiliare stato e della flessio-
ne del participio implica che la categoria temporale, al pari di quella diatetica,
sia espressa rispettivamente in modo analitico (in italiano) e in modo sintetico
(in latino). Da ciò risulta che la corrispondenza delle strutture analitiche latine
con quelle romanze è più apparente che reale, in quanto le forme analitiche lati-
ne contengono in ogni caso un grado di flessività e di sinteticità di cui quelle ita-
liane sono prive.
9 In quest’ottica, pur nella diversità delle interazioni funzionali, è ovvia l’analogia con le
coppie costituite da habeo (+ oggetto) + participio predicativo dell’oggetto e le strutture peri-
frastiche anticipatrici del passato prossimo (attivo) romanzo.
FORME DEL PASSIVO LATINO E ITALIANO: IDENTITÀ E DIFFERENZE FUNZIONALI 77
(15) cum id honestum putent, quod a plerisque laudetur (Cic. Tusc. 2,63)
“ritenendo onorevole ciò che è lodato dai più”
10 Si intende, nelle strutture in questione. È infatti noto che si hanno in latino non solo
stutture in cui il participio non ha valore perfettivo (di cui si è in parte detto), ma parimenti
strutture in cui non hanno valore passivo (con iuratus, cenatus, etc.)
78 SILVIA PIERONI
4. Per questa via, parrebbe quindi di poter sostenere che i principi parametrici
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individuati da La Fauci per l’italiano (non meno di un Settore Neutro, ma non più di
due per ogni struttura) siano gli stessi che valgono per il latino. Un’obiezione a que-
sta affermazione potrebbe venire dalla considerazione della possibilità, in latino a dif-
ferenza che in italiano, delle strutture cosiddette ‘nominali’ del tipo in (16) e (17):
13 Lasciando qui da parte i casi dei cosiddetti ‘deponenti transitivi’, che ci porterebbe trop-
po lontano dall’obiettivo prefisso.
80 SILVIA PIERONI
Anche fra le strutture deponenti, non sembrano mancare, d’altra parte, casi
[– flessivi]: così possono essere considerati i noti casi di perfetti con valore di pre-
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sente, individuati nelle grammatiche tradizionali nei participi come usus, com-
plexus, gavisus (Ambrosini 2001: 177):
(22) Quos sibi Caesar oblatos gavisus, illos retineri iussit (Caes. Gall.
4,13,6)
“Cesare, lieto che essi gli fossero stati offerti, ordinò di trattenerli”
D’altra parte, la stessa perdita di capacità sintetica che nel presente passivo
porta alla rideterminazione tramite mezzi analitici (ess. 14 e 15) è forse alla radi-
ce della convergenza del deponente con l’attivo, nell’ambito della quale potrebbe
essere utile riconsiderare le cosiddette ‘intransitivizzazioni’ attestate nell’intero
arco della latinità, ma sempre più frequenti in tardo latino (si veda Flobert 1975:
568-571; Feltenius 1977; Cennamo 2001), quali rappresentate dalla proposizione
con adsiccaverit in (23):
(23) ... donec adsiccetur totus humor ... Quod cum adsiccaverit ...
(Chiron 476)
“finché tutto l’umore non si secchi ... e una volta che sia seccato ...”
(24) quia sciret aquam nigram esset, unde illa (scil. nix) concreta esset
(Cic. ac. 2, 100)
“poiché sapeva che l’acqua, da cui quella (scil. la neve) si era soli-
dificata, era nera”
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Provence, 28-31 mars 1983), Aix-en-Provence, Université de Provence: 227-240.
ALVARO ROCCHETTI
(Université de la Sorbonne Nouvelle – Paris 3)
Essa si basa sul concetto di “tempo operativo”, un tempo che funge da sup-
porto alle operazioni mentali e può essere percepito dalla coscienza del locutore
(come, ad esempio, durante la costruzione della frase che inizia, si svolge e si con-
clude) o non essere percepito (come nell’opposizione tra articolo definito e arti-
colo indefinito). La non percezione non è un criterio valido per rifiutare l’esisten-
za di un tempo operativo come possiamo osservare con il computer che può dare
una risposta immediata ad una pressione su un tasto oppure richiedere un tempo
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più o meno lungo, mentre sappiamo che, in un caso come nell’altro, una serie di
operazioni – più o meno complesse – si sono svolte tra la pressione sul tasto e
l’apparizione del risultato finale sullo schermo. Queste operazioni si susseguono
talvolta così rapidamente che la nostra coscienza non riesce a registrare il tempo
impiegato. Eppure il risultato apparso sullo schermo ci dimostra che, in uno spa-
zio di tempo impercettibile per la nostra coscienza, possono svolgersi centinaia,
migliaia e perfino milioni di operazioni.
Il tempo durante il quale si sono svolte queste operazioni ha una caratteristi-
ca costante: è sempre progressivo, va sempre nella stessa direzione, aggiungendo
nuovi risultati a quelli già acquisiti. Non torna mai indietro e se il programmato-
re vuol cancellare un risultato, deve fare una programmazione “ulteriore” – quin-
di inserirsi nel tempo operativo successivo al risultato, poiché evidentemente non
può cancellare un risultato ancora... “inesistente”. Succede la stessa cosa per le
operazioni mentali: un’operazione può sempre essere sospesa prima che arrivi al
termine, ma quando vi è giunta non può più essere cancellata. Ad esempio, se
accettiamo come normale la successione: “ho visto un uomo entrare nel negozio;
l’uomo si è diretto verso la cassa...” quando si tratta dello stesso uomo e invece
come anormale la successione inversa: “ho visto l’uomo entrare nel negozio; un
uomo si è diretto verso la cassa...”, è perché l’articolo indefinito è concepito in un
primo momento e l’articolo definito in un secondo momento. Si passa infatti nor-
malmente, senza cambiare concetto, sull’asse del tempo operativo, da un’opera-
zione parziale (un uomo) a un’operazione completa (un uomo =>l’uomo), men-
tre il passaggio da un’operazione completa a una parziale implica una rottura, un
cambiamento di oggetto: non si tratta dello stesso concetto di ‘uomo’ (l’uomo ≠>
un uomo).
Gli altri postulati della linguistica operativa sono tutti legati al tempo opera-
tivo. Si tratta dell’orientamento ineluttabilmente progressivo del tempo (“non si
torna mai indietro!”), della possibilità di intercettare ogni movimento, come nel
caso del congiuntivo che è un’intercettazione del movimento che porta all’indica-
tivo, esattamente come una decisione virtualmente presa è l’anticipazione di una
decisione realmente presa. In questa prospettiva, l’opposizione saussuriana della
lingua e della parola diventa, come nella linguistica chomskyana, l’opposizione
tra una competenza (acquisita anteriormente e che viene chiamata “la lingua”) e
una “performance” concepita come un “discorso” (orale o scritto) che sfrutta
momentaneamente questa competenza. Nello stesso modo, l’opposizione tra dia-
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 87
discorso. Non possono dunque esistere contrasti tra diacronia e sincronia, ma solo
continuità. Per questa ragione vedremo, nel caso che c’interessa, che il problema
sincronico dell’uso del condizionale trova la sua spiegazione nell’evoluzione dia-
cronica.
Nell’indo europeo tutto il campo del tempo futuro era coperto dal congiunti-
vo. Mentre il passato, nel latino classico, presenta forme che risalgono all’in-
doeuropeo (come il perfectum) o sono una creazione più recente ma già ben
affermate nel latino preclassico (come l’imperfetto), l’espressione del futuro
rimane ancora legata al modo congiuntivo. Questa situazione sopravvive ancora
nelle lingue romanze poiché i tempi del passato (imperfetto e perfectum) si sono
per lo più conservati mentre i tempi del futuro sono presenti in forme ricostruite.
Visto nella prospettiva delle future lingue romanze, il latino classico presenta
abbozzi di futuro validi solo per alcuni gruppi di verbi (quelli in -are e in -ere:
amabo, monebo) mentre per gli altri usa forme derivate dal congiuntivo: dicam,
faxo, fiam, ecc. Il futuro, nelle lingue romanze, sarà ristrutturato con la creazione
di forme valide per tutti i verbi, composte con l’infinito al quale si aggiunge l’au-
siliare avere al presente: amare+ho = amerò.
È interessante soffermarci un momento su questa tappa dell’evoluzione per
capire qual è il sistema dal quale si esce (quello del latino classico) e qual è il
sistema nel quale si entra (quello delle lingue romanze). Il latino classico ha ten-
tato di generalizzare, al presente dell’indicativo, un sistema a tre livelli con l’in-
coativo -sc- (amasco), il presente (amo) e il perfectum -v- (amavi). Ma l’incoati-
vo ha avuto un’estensione limitata perché il momento iniziale di un processo non
è sempre facile da cogliere né interessante da rappresentare: se “comincio ad
arrabbiarmi” (irasco) o “comincio a finire” (finisco) sono momenti da cogliere,
molti altri inizi non presentano alcun interesse (ad esempio: “cominciare a canta-
re - *cantasco -, cominciare a sentire - *sentisco -, a ricordarsi, a... cominciare,
ecc.). Per questa impossibile generalizzazione, l’opposizione morfologica si è
presto limitata all’infectum e al perfectum, cioè a due livelli.
Possiamo rappresentare il modo indicativo del latino classico con il seguente
schema:
88 ALVARO ROCCHETTI
Figura 1
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Come si può osservare, si tratta di un sistema molto equilibrato nel quale ogni
tempo dell’infectum ha un suo corrispondente al livello del perfectum. Questo secon-
do livello è segnalato con l’infisso –v– che è invece assente al primo livello e verrà
sostituito nelle lingue romanze dalle forme composte con l’ausiliare: avevo amato –
ho amato – avrò amato. Tuttavia, malgrado la sua solida costituzione, questo sistema
ha un difetto che darà lo spunto per l’evoluzione futura. Infatti la forma amavi, da per-
fectum del presente che era all’origine, è scivolata, con il passar del tempo, verso il
passato ed ha acquistato anche il valore di passato più o meno remoto, senza però per-
dere, nel latino classico, il suo valore di perfectum del presente: si può dire “dixi” (=
ho finito di dire, ‘ho detto’), ma anche usare “dixi” come l’italiano “dissi” per un’a-
zione passata da molto tempo, che non ha più nessuna relazione con il presente.
Uno schema più rappresentativo della realtà dovrebbe quindi introdurre nel
passato il perfectum amavi. In questo caso, lo schema diventa:
Figura 2
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 89
Figura 3
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Ci si rende conto così che il sistema che si sta preparando è squilibrato, poiché pos-
siede due tempi nel passato (uno in corso – l’imperfetto –, l’altro visto globalmente –
il passato remoto –), due tempi anche nel presente (uno in corso – il presente –, l’altro
giunto al termine – il perfectum –), ma nel futuro presenta un solo tempo per rappre-
sentare l’azione in corso. Manca la rappresentazione di un’azione futura vista global-
mente, espressa dal passato remoto nel passato e dal perfectum nel presente. Il sistema
che erediteranno le lingue romanze è dunque rappresentabile con lo schema seguente:
Figura 4
90 ALVARO ROCCHETTI
Figura 5
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 91
Figura 6
situata nel futuro: se verrò a casa tua domani, ti porterò un regalo non può tradur-
si in francese con *si je viendrai chez toi demain..., né in spagnolo con *Si iré maña-
na a tu casa... Si devono usare tempi che possano lasciare una parte dell’azione
ancora da compiere, come il presente: “si je viens chez toi demain”/”si voy maña-
na a tu casa”, o l’imperfetto “si je venais chez toi demain” oppure, come fa il por-
toghese, il futuro del congiuntivo. Quando, in queste lingue, il futuro è usato dopo
“se”, non esprime un’ipotesi, ma un’azione già decisa, programmate nel futuro.
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Ecco due esempi in francese contemporaneo di uso del futuro dopo si (Le
Monde, 2 maggio 1998, pag. 3, in un article intitolato Même sans pièces ni billets,
l’euro pour tous en 1999, col. 1-4, di Henri de Bresson e Sophie Faye):
Sempre nel giornale Le Monde del 6 febbraio 1999 (p. 3, col. 6) ma sotto la
penna di un altro giornalista, Michel Bôle-Richard, in un articolo che riguarda
l’Italia: “L’Italie rejette les critiques de Bruxelles sur son insuffisante rigueur
budgétaire”:
In tutti i casi, il verbo che segue la particella ipotetica “si” indica un’azione
ammessa da tutti. Nel terzo esempio, l’avverbio “vraisemblablement” interviene
appunto per evitare che si possa interpretare la proposizione “si la croissance sera
(...) inférieure à ce qui avait été prévu” come una mera ipotesi, mentre per il mini-
stro del tesoro italiano si tratta di ammettere le previsioni del Commissario euro-
peo Yves-Thibault de Silguy. L’insieme della proposizione equivale a: “anche se
(= ammesso che) la crescita sarà (sia) inferiore a quanto previsto, non sarà neces-
sario tuttavia procedere a nuovi tagli”.
anche essersi realizzata prima del momento dell’elocuzione, il che non è mai il
caso per un “perfectum di futuro”. Per questo motivo, l’italiano ha conservato fino
alla metà del seicento l’altra costruzione (quella della Romania occidentale) che
gli ha permesso di compensare alcune insufficienze del suo condizionale “perfec-
tum di futuro”. Finché non ha trovato la soluzione.
Infatti, attorno al 1650, s’impone una nuova struttura: poiché il condizionale
non può agevolmente entrare nel passato, si divide il “futuro nel passato” in due
parti, attribuendo l’espressione del passato alla forma composta del verbo (e non
più alla forma semplice: essere venuto invece di venire) e mantenendo il condi-
zionale solo per l’espressione del futuro. Una volta trovata la costruzione del tipo
mi disse che sarebbe venuto per esprimere il futuro nel passato, in opposizione
alla costruzione ipotetica “mi disse che sarebbe venuto se...” usata dalla maggior
parte delle altre lingue romanze, l’uso del condizionale con la desinenza dell’im-
perfetto poteva sparire. Infatti, a partire da quel momento, sarìa, avrìa, potrìa,
vorrìa, ecc. escono a poco a poco dall’uso e il condizionale composto s’impone
per l’espressione del futuro nel passato, come si era già imposto il condizionale
semplice – basato sull’infinito + il perfectum dell’ausiliare avere – per l’azione
irreale nel presente e nel futuro.
Resta ancora da capire la terza forma presente nell’italiano antico, quella
venuta dal piuccheperfetto indicativo amaveram. Questa forma si spiega abba-
stanza facilmente: dopo la creazione del nuovo piuccheperfetto delle lingue
romanze, con l’ausiliare all’imperfetto + il participio passato – avevo amato –, la
forma latina amaveram ha perso l’infisso -v-, come amavi (> amai) e la maggior
parte delle forme del perfectum (amavissem --> amassem --> amasse --> amas-
si). Si arriva così alla forma del condizionale di Cielo d’Alcamo: amara, canta-
ra, ecc. Ma l’evoluzione del significato – dal piuccheperfetto dell’indicativo al
condizionale – richiede qualche chiarimento. Se infatti partiamo da un significa-
to vicino a “avevo amato” non è facile arrivare al condizionale italiano “amerei”.
Dobbiamo quindi analizzare meglio la sua funzione: il piuccheperfetto era legato
all’imperfetto a cui serviva, come indica il nome, da perfectum, cioè portava “fino
alla perfezione” l’azione dell’imperfetto. Siamo dunque rimandati al significato
dell’imperfetto. Si tratta di un tempo che presenta l’azione in parte realizzata e in
parte da realizzare, in legame con un’altra azione che interviene nel corso della
realizzazione: es. quando uscii, pioveva
IL CONDIZIONALE IN ITALIANO E NELLE LINGUE ROMANZE 95
Quando uscii
|
|<–––––––v. . . . . . . . . . . . . . . . >|
pioveva
dire due cose opposte: o è resa “perfetta” la parte dell’azione già realizzata – e in
questo caso ci si trova con un’azione interamente compiuta – o è resa “perfetta”
la parte ancora da realizzare – e in questo caso ci si trova con un’azione intera-
mente da realizzare –. Questo meccanismo permette di capire perché il piucche-
perfetto latino poteva avere due significati opposti: fuerat = 1) era stato; 2) sareb-
be stato.
Figura 7
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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ROMANA TIMOC-BARDY
(Aix-en-provence)
1.
Nos recherches sur le conditionnel ont été effectuées comme partie d’un tra-
vail plus ample, portant sur l’ensemble du système verbal du roumain (Timoc-
Bardy 1999: 281-542), sur son agencement, sur sa construction, vue de façon
dynamique. Dans la conception qui a présidé à ce travail (la psychosystématique
du langage), il nous importait en premier lieu de bien comprendre la morphologie du
conditionnel, de parvenir à nous expliquer son origine – la périphrase de départ –; en
deuxième lieu, de corroborer cela à la fois avec le système verbal dans son ensem-
ble et avec l’évolution de celui-ci; et, en troisième lieu, sachant que les construc-
tions morphologiques entraînent des conséquences syntaxiques, d’examiner le
plan du fonctionnement syntaxique.
Ce sont ces mêmes points qui nous occuperont ici, bien plus schématique-
ment toutefois – autant que le permettent les dimensions d’une communication –:
morphologie et fonctions du conditionnel, vues à travers la structure générale du
système verbal roumain, ensuite en rapport avec l’expression du futur. Enfin, nous
essaierons de tirer quelques conclusions d’une portée plus théorique et plus géné-
rale, en incluant la comparaison avec d’autres langues romanes, notamment avec
l’italien.
poraine, ont soutenu ce point de vue. Tels sont, par ordre chronologique, Hasdeu
(1887-1893: s.v.), Tiktin (1904: 691-704), Titova (1959: 561-571), Bourciez
(1967: 604), Rosetti (1968: 156), Bugeanu (1970: 543-563), et, plus récemment,
Coteanu (1982: 212) et Avram (1986: 162), pour ne nommer que les principaux.
Les deux derniers, du moins dans les ouvrages cités, ne s’occupent pas de l’ori-
gine des paradigmes, car il s’agit là de grammaires destinées non à des spécialis-
tes, mais à un très large public. Quant aux autres contributions, surtout les plus
anciennes, on peut dire pour l’essentiel, qu’elles abordent beaucoup plus le niveau
de l’évolution phonétique que celui de la fonction. Lorsque le côté fonctionnel est
envisagé, les solutions proposées ne sont pas suffisamment motivées, voire pas du
tout. Ainsi, après avoir constaté les coïncidences de formes sus-mentionnées –
point de départ en fait de la théorie habere –, et étant donné qu’il est impossible
d’expliquer phonétiquement le reste du paradigme à partir du présent du verbe
latin, les adeptes de l’étymologie habere ont été obligés d’inclure dans leur expli-
cation des formes subjonctives. Ainsi, pour aş, dont l’origine est la véritable pier-
re d’achoppement de toutes les théories proposées, Hasdeu suggérait un archaïque
habessim (pour habuissem), peut-être dans l’idée d’expliquer phonétiquement le
résultat par la suite s+i, évolution normale en roumain. Tiktin proposait habuis-
sem pour a, mais le subjonctif imparfait, haberem, ou parfait, habuerim, ou même
habueras, habuerat pour le reste du paradigme. De nos jours, A. Rosetti a accep-
té – avec réserve, il est vrai, et sans référence à la valeur d’emploi – l’étymon
habuissem pour a, considérant que cette évolution comportait des difficultés pho-
nétiques, mais qu’il ne voyait toutefois pas d’autre dérivation possible pour la pre-
mière personne. On constate en fait que les linguistes ne savaient pas trop com-
ment prendre en considération le côté fonctionnel. On peut se demander en effet
sur quoi repose le recours aux paradigmes haberem et habuerim. Sur le fait qu’en
latin ils pouvaient servir à dire l’hypothèse? Comment accepter ce mélange de
formes sans un support théorique qui le motive? De quelle manière peut-on relier
1 Nous prions pour cela le lecteur de bien vouloir se reporter à notre discussion Timoc
Bardy (1999: 312-337).
2 Après avoir indiqué, dans le tome II (§ 114) de sa Grammaire des langues romanes, l’é-
tymon habere, Meyer-Lübke s’est rétracté dans le volume III (§ 323), au profit de la théorie de
Weigand, mais en manifestant sa réserve pour l’origine de la 1ère personne, proposée par ce der-
nier.
102 ROMANA TIMOC-BARDY
des temps” ne se fait pas de la même manière: le passé est toujours du passé et le
futur toujours du futur, que ce soit par rapport au passé ou au futur. Une catégo-
rie “futur dans le passé” n’y existe pas.
3. NOTRE SOLUTION
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Selon nous, l’actuel conditionnel n’est autre que l’ancien futur roman du type
habeo cantare, dans lequel l’auxiliaire n’est pas devenu flexion. Quoique réduit,
il a gardé son statut de mot. Cette conception est en accord avec la structure géné-
rale du système verbal roumain, qui n’a établi aucun parallélisme entre les temps
du passé et les temps du futur. La conséquence en est que le roumain peut toujours
exprimer le futur par les formes du “temps futur”, qu’il soit dans le passé ou dans
le futur, et n’a pas besoin d’une concordance des temps. On dit dans cette langue
(4) A zis că va veni (en utilisant le futur). “Il a dit qu’il viendra”, au lieu
de “Il a dit qu’il viendrait” du français, ou de “Disse che sarebbe
venuto” de l’italien.
Si on utilisait le conditionnel,
(5) A zis că ar veni. litt. “Il a dit qu’il viendrait”
les formes les plus problématiques, aş et ar, en essayant de montrer qu’il est possi-
ble de les relier également au présent de habere.
Aş peut provenir tout simplement de la première personne du présent de habe-
re. Les linguistes se sont abondamment penchés sur l’origine de am, forme inno-
vée, mais apparemment sans se demander, quelle forme am a remplacé. Les lan-
gues romanes occidentales ont montré que la première personne de leur héritier
de habere rendait nécessaire de postuler l’existence en latin vulgaire de formes
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inattestées, telles que *ajo ou *ao ! Il est logique de penser que des formes popu-
laires autres que le classique habeo ont existé également dans les régions où le
roumain a pris naissance et que c’est leur héritier qui a été remplacé par am. Il
serait même étrange que seul le latin vulgaire dont est issu le roumain n’ait pas
connu une pareille forme ! Nous pensons aussi que l’existence de multiples issues
dialectales italiennes de *ajo étayent notre hypothèse. Il nous semble pouvoir pro-
poser pour aş cet étymon *ajo, dont l’évolution phonétique régulière aboutirait à
až 3. Il y aurait donc pour aş le problème d’une étape supplémentaire, irrégulière,
propre seulement à l’auxiliaire, l’évolution ž > š, également doublée d’un décala-
ge d’époque, car au XVIème siècle, on trouve déjà le mot noté comme [a_]. On
pourrait aussi penser à une perte de sonorité en position finale, l’auxiliaire étant
fréquemment postposé dans la langue ancienne.
En ce qui concerne ar, il est à relier à are, dont il provient. Nous pensons
avoir trouvé des raisons fonctionnelles pour étayer l’origine habuerit ou habue-
rint. Cela présente les avantages suivants. Nous savons avec certitude que l’héri-
tier du subjonctif parfait latin a vécu dans la langue et ce jusqu’au XVIIe siècle.
Cette forme, que la linguistique roumaine appelle “conditionnel synthétique”
(forme en -re), a fonctionné comme conditionnel (potentiel) et comme futur. Elle
est donc en affinité avec l’époque future. Le lien entre subjonctif et futur, propre
déjà à la langue latine, se manifeste en roumain moderne par la situation du sub-
jonctif dans le plan du futur. Le subjonctif parfait habueri(n)t nous paraît donc
convenir, du point de vue fonctionnel, en tant que forme virtuelle liée au futur. Cet
étymon a déjà été proposé, notamment par A. Rosetti, mais sans que ce linguiste
ait motivé son choix ou ait proposé une évolution phonétique.
Dans notre hypothèse, are se serait introduit dans le paradigme du présent,
par le biais de l’auxiliaire du futur, par le présent-futur lors de la réfection du pré-
sent de habere, sans doute à l’époque romane, où commençait la grammaticalisa-
tion des périphrases à l’origine du passé composé et du futur. Selon toute appa-
rence, dans cette fonction, la présence de are était appelée par la nécessité de don-
ner un signe spécial à la partie purement virtuelle du présent, qui allait participer
à l’expression du futur, ne contenant aucune part d’accomplissement ni d’accom-
pli. Or habuerit > are était justement un perfectum d’inaccompli, dont le caractè-
3 Par les étapes *ajo> adžu> až(u) >až. L’issue dž du yod initial de syllabe est régulière en
roumain.
106 ROMANA TIMOC-BARDY
re de virtualité était d’autant plus appuyé qu’il s’agissait d’un subjonctif 4. Dans
sa fonction d’auxiliaire, are s’est progressivement réduit à ar (à travers le stade
ară, attesté au XVIe siècle).
Nous deions, dans le cadre de ce travail, nous restreindre à ces quelques
remarques.
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“Acesta să nevoia să – şi lăţească împărăţia neodihnindu-se ziua şi noap-
tea, gîndind în ce chip ar supune ţările.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Celui-ci s’efforçait d’agrandir son royaume, sans repos, jour et nuit,
pensant à la manière dont il soumettrait les pays.
“Socotind boierii pe cine ar pune domnu să fie de sămînţă domnească,
după obiceiul cel vechi al acestor ţări.” (Călăraşu cit.: 218, Istoria
Domnilor Ţării Rumâneşti, de Radu Popescu)
Les boyards considérant que celui qu’ils mettraient sur le trône devrait
être de souche princière, suivant la vieille coutume de ces pays.
4 Pour l’évolution formelle que nous supposons pour relier habuerit à are nous renvoyons,
comme ci-dessus, à Timoc-Bardy (1999: 361-367). Cette évolution est liée à la réfection des par-
faits et ferait que habuerit serait représenté en ancien roumain par deux formes: are étymolo-
gique, pénétré dans le paradigme du présent, et avure, analogique, continuant à fonctionner
comme subjonctif (“conditionnel synthétique” en linguistique roumaine) dans le système de
l’hypothèse.
DU FUTUR ROMAN AU CONDITIONNEL ROUMAIN 107
“Striga cu toţii să fie Lupu vornicul, însă îi da şi legături, ce va lua den ţară,
ce s-ari lega pentru dări, atuncea, la acel ales”. (Călăraşu cit.: 224).
3.3.
Si aş cânta était initialement un futur, par quelle évolution est-il devenu condi-
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tionnel? Qu’est-ce qui le prédisposait à plus de virtualité que le futur voi cânta?
Dans la mesure où le paradigme voleo cantare remonte également au latin, on
peut se demander d’où vient alors le décalage chronologique que l’on observe
entre la constitution des paradigmes auxiliaires spécifiques des deux futurs, aş
cânta et voi cânta? Pourquoi le paradigme du premier est, déjà au XVIe siècle,
complètement constitué, alors que les formes du second ne sont pas encore bien
séparées de celles du verbe plein?
Pour répondre à cette question, on peut faire remarquer que la situation de ces
deux auxiliaires n’est pas la même. Pour a avea, il y avait un triple problème: la créa-
tion des deux paradigmes auxiliaires pour séparer la partie passée du présent de la
partie future et en même temps la réfection du présent du verbe plein. Il y a tout lieu
de penser que ce problème a dû être réglé très tôt pendant la phase romane, lorsque
s’est institué le nouveau système verbal et qu’ont été créées les positions clés de ce
système: la structure du présent et le nouvel axe passé-présent-futur reposant sur l’u-
tilisation de l’auxiliaire habere, lequel assure la subséquence du verbe aussi bien en
direction du passé qu’en direction du futur. Pour a vrea, le problème était plus sim-
ple. Il s’agissait seulement de redonner un paradigme au verbe plein, puisque le pré-
sent de voleo se spécialisait pour ne dire que la partie future du présent en tant
qu’auxiliaire du futur. L’on peut présumer que le glissement du futur aş cânta à la
valeur de conditionnel (futur modal) a pu se produire à peu près dans les conditions
suivantes: le futur voi cânta, plus récemment grammaticalisé, s’imposait comme futur
qui pose. À mesure que son degré de grammaticalisation avançait, il “poussait” aş
cânta vers un supplément de virtualité. Ce processus a dû être favorisé pour le fait que
le paradigme aş s’était – par la plupart de ses formes – détaché du paradigme pro-
prement dit du présent, ce qui le prédisposait à l’expression du virtuel. La flexion de
a vrea auxiliaire était encore identique à celle du verbe plein, donc repérable en tant
que présent. Le futur voi cânta pouvait donc rester plus facilement ancré dans le réel.
Parallèlement, ce glissement est à mettre en rapport avec un autre fait: la déli-
quescence du subjonctif en -re, anciennement utilisé dans l’expression de l’hypo-
thèse. Faut-il voir entre ces deux réalités une relation de cause à effet? Est-ce la
faiblesse du conditionnel en -re appelant une forme de remplacement qui a déter-
miné le glissement du futur aş cânta, ou est-ce le glissement de ce futur vers la
virtualité – amorcé, de toute manière, bien avant le XVIe siècle – qui a éliminé
l’ancien conditionnel en -re? Ce qui paraît évident, c’est que les deux phénomè-
nes sont complémentaires l’un de l’autre et que, par la disparition de la forme en
-re, un nouvel équilibre s’est installé.
108 ROMANA TIMOC-BARDY
3.4.
BIBLIOGRAPHIE SÉLECTIVE
Avram Mioara, 1986, Gramatica pentru toţi, Bucureşti, Editura Academiei R.S.R.
Bourciez Edouard, 1967, Eléments de linguistique romane, Paris, Klincksieck.
Bugeanu Dan, 1970, Formarea condiţionalului în limba română. “Studii şi cercetări ling-
vistice” 21. 5.: 543-563.
Călăraşu Cristina, 1987, Timp, mod, aspect în limba română în secolele al XVI-lea – al
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PARTE SECONDA
«STUDI SINCRONICI»
Conferenza Introduttiva
1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI1
1 Nel preparare questo lavoro mi sono avvalso dei suggerimenti di Mario Squartini e di
Valentina Bianchi, cui va la mia gratitudine.
Per comodità del lettore, fornisco qui l’elenco delle abbreviazioni usate nel testo: IFC =
Infinito Composto; IFS = Infinito Semplice; ME = momento dell’enunciazione; MR = momen-
to di riferimento. Inoltre, per le valenze azionali: [a] = ‘attività’, [a/c] = ‘attività/conseguimen-
to’ (tipo azionale misto), [c] = ‘conseguimento’, [i] = incrementativo, [r] = ‘realizzazione’, [s]
= stativo, [s’] = ‘stativo [+controllo]’ (del tipo stare/restare/rimanere seduto, che ammette
l’Imperativo pur rifiutando la perifrasi progressiva, con ciò mostrando il mantenimento di un
certo margine di agentività; cf. Bertinetto 1986, § 4.1.2)).
2 Non vanno dimenticati comunque gli studi dedicati alla Concatenazione dei Tempi (in
particolare, Vanelli 1991), che toccano anche questioni attinenti l’uso dell’Infinito. E si veda
anche Berretta (1990), relativamente all’acquisizione dell’Infinito italiano in L2.
114 PIER MARCO BERTINETTO
razioni tra valenze aspettuali ed azionali3. Semmai, si potrà osservare – quale sot-
toprodotto dell’analisi – come le classificazioni su base sintattico-semantica risul-
tino non di rado sfuocate rispetto al comportamento tempo-aspettuale: ad un iden-
tico assetto sintattico possono corrispondere proprietà tempo-aspettuali fortemen-
te diversificate, e viceversa. Tuttavia, data la complessità della materia e la natu-
ra puramente esplorativa di questo saggio, non mi azzarderò a mettere in mutua
relazione i due ambiti. Un siffatto lavoro, e non è certo impresa da poco, resta
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noma capacità di designazione a tale livello (ma questa, come vedremo, è una
caratteristica di tutte le forme non finite del verbo). L’informazione temporale tra-
smessa dall’IFC si riflette nel valore retrospettivo – ossia di anteriorità non deit-
tica – associabile all’aspetto compiuto; quanto all’effettiva collocazione dell’e-
vento sull’asse temporale, in rapporto al ‘momento dell’enunciazione’ (ME), essa
dipenderà da fattori strettamente contestuali, ossia dalla collocazione del MR. Si
veda infatti come, nell’esempio seguente, l’IFC esprima compiutezza – e dunque
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almeno in senso statistico – piuttosto marginale. Tuttavia, con certi verbi reggen-
ti (si veda, in proposito, 3a) si può erroneamente credere che l’IFS possieda un
orientamento retrospettivo, laddove un esame più accurato rivela una situazione
ben diversa. Si tratta di una sorta di ‘illusione ottica’: l’orientamento è in realtà
prospettivo, come si può evincere da (3b), dove il semplice uso del Futuro nella
principale – in accezione, si badi, perfettiva – annulla l’apparente retrospettività
di (3a):
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viduato dal Tempo che regge l’IFS5. Di tutto ciò occorrerà tener conto nell’inter-
pretazione degli esempi che seguiranno, per non cadere nella trappola di scam-
biare per retrospettività tutti i casi di anteriorità rispetto al ME. Ciò che conta, per
definire l’orientamento temporale dell’IFS, non è la collocazione deittica dell’e-
vento espresso da tale forma, bensì la sua collocazione rispetto all’ancoraggio
temporale (che, negli esempi qui considerati, è fornito dal Tempo Verbale della
prima clausola dipendente).
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5 Si badi bene, però: il fatto che il giudizio di sconvenienza si applichi al momento in cui
l’evento si è verificato, non significa che il protagonista dovesse esserne consapevole in quel
medesimo momento. Piero potrebbe infatti essersi accorto solo in seguito che l’atto di uscire alle
5 era sconveniente; e tuttavia, ciò non toglie che tale atto fosse sconveniente già al momento in
cui si è verificato. Qui non conta la prospettiva soggettiva del protagonista, interna all’evento nel
suo compiersi, ma il carattere obiettivo dell’evento stesso.
118 PIER MARCO BERTINETTO
questo punto (ma si veda di nuovo Bertinetto 1986), mi limiterò a fornire una suc-
cinta esemplificazione, attingendo da fatti inerenti all’uso del Gerundio, in cui si
osserva un analogo contrasto tra forma Semplice e forma Composta. Come nota
Solarino (1996) – sull’impianto della cui analisi concordo, al di là di dissensi rela-
tivamente marginali (ma su ciò mi riprometto di tornare in altra sede) – il
Gerundio Semplice dell’italiano può esprimere, a seconda del contesto ed al pari
dell’IFS, retrospettività (cf. 5a), simultaneità (cf. 5b-c) e prospettività (cf. 5d)
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(occorre appena ribadire che le interpretazioni qui suggerite non sono necessaria-
mente le uniche, ma soltanto le più salienti):
cidere con: (i) il ME; (ii) un non meglio precisato momento futuro, ovviamente situa-
to prima di E2. La facoltà di agganciarsi al ME, preclusa al Gerundio Semplice, dipen-
de crucialmente dalla già notata proprietà del Gerundio Composto di proiettare auto-
nomamente un MR, rispetto a cui si instaura uno stato risultante (o di compiutezza).
Quando il contesto non fornisce altre indicazioni, il MR tende ad ancorarsi al ME.
Da quanto sono venuto esponendo fin qui, si possono trarre alcune conclu-
sioni, alla conferma delle quali – limitatamente al comportamento dell’Infinito –
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posizioni infinitivali: finali (cf. 9), relative (cf. 10), interrogative indirette (cf.
11)7, temporali introdotte da prima di (cf. 12).
Prima di esaminare gli esempi, sarà utile fornire qualche indicazione circa la strut-
tura degli enunciati, che verrà prevalentemente mantenuta anche nel seguito. Gli
esempi contrassegnati dalla sigla ‘S’ contengono degli IFS, mentre quelli contrasse-
gnati da ‘C’ contengono degli IFC. Inoltre, ovunque possibile, il verbo reggente è pre-
sentato sia all’Imperfetto (per lo più in accezione continua8), sia al Passato Semplice
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vazione potrebbe forse essere estesa ai verbi atelici in generale, dato che la
sovrapposizione temporale potrebbe verificarsi, nel medesimo enunciato, anche
con il predicato di ‘attività’ disegnare; ma in tal caso si rende probabilmente
necessaria la focalizzazione del verbo reggente, il che fa una differenza. Sul piano
aspettuale, è poi da notare la scarsissima accettabilità dell’aspetto perfettivo nella
principale di (11/S). Per il resto, si può osservare una generalizzata agrammatica-
lità dell’IFC (ma cf. la nota 14)11.
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11 Qui, come in seguito, gli esempi sono introdotti dall’avverbiale quel giorno, allo scopo
di escludere la possibile intrepretazione abituale dell’Imperfetto nella reggente. La ragione di
questa mossa diverrà chiara tra breve, quando discuterò il problema dell’abitualità.
Si tenga presente che la comparsa di un diacritico all’inizio dell’enunciato indica diffusi
problemi di agrammaticalità, mentre i problemi di accettabilità riferibili a singole valenze azio-
nali od aspettuali sono segnalati subito prima della forma incriminata.
12 L’accettabilità degli stativi diventa piena nel caso degli ’stativi [+controllo]’; cf. ad es.
(10/S). Va tuttavia notato – e sia detto qui una volta per tutte – che questi ultimi sono stativi
impropri, come osservato nella nota 1).
122 PIER MARCO BERTINETTO
13 In questo caso non ho usato l’Imperfetto nella principale, perché l’aspetto imperfettivo
presuppone un intervallo aperto, mentre qui l’evento della principale deve necessariamente chiu-
dersi prima dell’inizio della subordinata temporale. Per ragioni tutto sommato analoghe si
incontrano qui forti restrizioni con gli stativi, e con certi verbi di attività, in quanto l’evento della
subordinata deve avere un inizio nettamente individuabile, onde fornire un inequivocabile ter-
mine ante quem, che eviti la sovrapposizione temporale con l’evento della principale; ma que-
sto non è sempre compatibile con gli stativi, che tendono ad avere contorni temporali sfumati.
14 Si noti, del resto, che l’IFC diventa pienamente accettabile coi volitivi retti da un
Condizionale controfattuale:
(i) Quel giorno, Elio avrebbe voluto essere stato scostante / aver dormito a lungo /
aver incontrato Anna / aver mangiato una mela, ma si rendeva conto che le cose
erano andate diversamente da come aveva ipotizzato.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 123
Non c’è dubbio, tuttavia, che la tendenza generale vada verso il rifiuto
dell’IFC; il che non desta sorpresa, considerata la spiccata ipoteca retrospettiva di
tale forma. Da ciò non si può peraltro concludere che all’orientamento prospetti-
vo dell’IFS si accompagni obbligatoriamente l’ostracismo verso l’IFC. Ciò è
dimostrato per es. dai casi di Infinito retto da verbi dichiarativi (dire, affermare,
dichiarare, certificare, giurare, narrare, rimproverare etc.; cf. 15), in cui l’orien-
tamento prospettivo dell’IFS può convivere con quello retrospettivo dell’IFC; si
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Si noti comunque che l’IFS stativo di (15/S) riceve una netta interpretazione
di simultaneità, che può emergere anche con certi verbi di ‘attività’ (cf. disegnare
con gusto). Per contro, gli IFS dei verbi eventivi di (15/S) mantengono un orien-
tamento generalmente prospettivo, benché l’uso di questi predicati subisca restri-
zioni di ordine pragmatico. In effetti, (15/S) migliora qualora si introduca il verbo
volere (cf. dichiarò di voler dormire da sua zia)15.
Occorre a questo punto interrogarsi sul valore aspettuale degli IFS contenu-
ti negli enunciati esaminati in questo paragrafo, ferma restando invece la sconta-
ta interpretazione degli IFC (ove essi siano ammessi). Ovunque emerga una let-
tura chiaramente prospettiva, e dunque con l’esclusione dei pochi casi accessibi-
li alla lettura simultanea (prevalentemente ascrivibili agli stativi), l’IFS assume
valore perfettivo, che costituisce il tratto non marcato per le accezioni prospetti-
ve e futurali. È infatti evidente che nel concepire prospettivamente, a partire da
un momento dato, lo svolgimento di un evento, se ne ‘intravede’ globalmente il
compiersi.
15 Tra i verbi dichiarativi che reggono l’Infinito, merita segnalare il caso di dire, che mani-
festa un comportamento ambivalente (Skytte et al. 1991: 489):
(i) Gianni disse a Giorgioi di PROi uscire
(ii) Giannii dice di partire PROi domani.
Benché l’orientamento sia prospettivo in entrambi i casi, (i) esprime senso iussivo, (ii)
senso intenzionale.
124 PIER MARCO BERTINETTO
(16) Ogni giorno, Marta gli chiedeva l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
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più in fretta.
(17) Ogni giorno, Marta gli chiese l’auto per essere in tempo all’ap-
puntamento / dormire più a lungo / incontrare Lapo / fare la spesa
più in fretta.
Il Tempo della reggente in (17) non possiede autentico valore abituale, dal
momento che l’interpretazione iterativa è un mero effetto contestuale indotto dal-
l’avverbiale (mentre, per converso, la lettura abituale potrebbe mantenersi in (16)
anche senza il sussidio dell’avverbiale iterativo). Il Passato Semplice di (17) con-
serva insomma il proprio consueto valore aoristico, com’è dimostrato dalle anali-
si di Bertinetto (1986: §§ 3.1.4-5; 1997, cap. 9 e Lenci / Bertinetto (2000). Di
conseguenza, allo stesso modo in cui gli IFS di (17) possono soltanto avere valo-
re iterativo anziché abituale – non esistendo alcuna forma verbale in grado di tra-
smettere una siffatta interpretazione – si può ritenere che anche gli IFS di (16) si
limitino ad ereditare il valore puramente iterativo – anziché abituale in senso pro-
prio – indotto dal contesto di abitualità. Si noti infatti che, mentre l’abitualità
implica iteratività, l’inverso non è vero. Mi pare quindi più parsimonioso asserire
che gli IFS di (16), pur inseriti in contesto abituale, abbiano valore aoristico.
Questa conclusione è del resto confortata, a fortiori – dalla ben nota osservazio-
ne, secondo cui i microeventi iterati, compresi entro un macroevento abituale,
sono di per sé perfettivi, a dispetto del valore spiccatamente imperfettivo dell’a-
spetto abituale (per la dimostrazione di questo fatto, cf. Bertinetto 1997, cap. 9;
Lenci / Bertinetto 2000). A riprova, si osservi che in (18) la supposta interpreta-
zione abituale è unicamente dovuta alla presenza dell’avverbio abitualmente,
mentre non sembra facilmente accessibile in sua assenza (a meno di presupposi-
zioni contestuali):
È ben noto, invece, che simili avverbi non sono affatto indispensabili per otte-
nere la lettura abituale con i Tempi imperfettivi.
Un’ipotesi alternativa che si potrebbe avanzare a questo riguardo consiste nel-
l’assumere che, nei contesti di abitualità, l’IFS esprima nonostante tutto valore abi-
tuale, con l’unica differenza – rispetto ai Tempi Semplici dell’Indicativo – che le
diverse valenze aspettuali dell’IFS appaiono soggette ad un forte effetto di neutra-
lizzazione, avendo sempre bisogno di un contesto disambiguante. Questa considera-
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zione poggia sul fatto che persino le accezioni progressiva ed aoristica dell’IFS di
(19a), allo stesso modo della presunta lettura ‘abituale’ di (16-18), sembrano richie-
dere una disambiguazione contestuale per poter emergere con chiarezza (cf. 19b-c):
16 Benché quella qui proposta mi paia l’interpretazione più plausibile, devo ammettere che
questo problema conserva margini di incertezza. Siamo chiaramente in presenza di un effetto di
neutralizzazione, la cui portata è difficilmente valutabile. Comunque sia, nulla di sostanziale
muterebbe nell’impostazione di questo lavoro, qualora si dovesse riconoscere pieno statuto all’a-
spetto abituale anche nel caso dell’IFS.
Un ulteriore invito alla cautela mi viene dall’es. (18), in cui la presenza dell’avverbio abi-
tualmente coll’IFS non stride minimamente, in analogia con quanto accade coll’Imperfetto in (i)
e a differenza di quanto si osserva col Passato Semplice in (ii):
(i) Gigi dormiva abitualmente da sua zia
(ii) ?? Gigi dormì abitualmente da sua zia
126 PIER MARCO BERTINETTO
La stretta simultaneità è osservabile nel caso degli IFS retti da verbi di per-
cezione fisica (vedere, osservare, sentire, ascoltare, udire etc.; cf. 21), nonché in
certi costrutti pseudorelativi con IFS introdotto dalla preposizione a (cf. 22):
(21) S Quel giorno, Ettore #*vedeva / vide Lucio *restare a casa / dor-
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Dunque, benché non vi siano indizi certi per asserire che l’aspetto abituale rientra tra le
possibilità semantiche dell’IFS, è doveroso precisare che questa forma manifesta una flessibilità
assai maggiore rispetto ai Tempi inerentemente perfettivi.
17 Si noti che l’esclusione dell’IFC nei costrutti introdotti da a sembra essere assoluta,
anche indipendentemente dall’interpretazione simultanea. Nell’esempio seguente, infatti, è pos-
sibile avere un’interpretazione potenziale – ossia tendenzialmente prospettiva, e dunque non
strettamente attuale e simultanea – dell’IFS, eppure l’uso dell’IFC resta escluso:
(i) Non c’era nessuno ad avvertirlo (*averlo avvertito).
Secondo Skytte et al. (1991: 530), i costrutti di questo tipo sarebbero caratterizzati dal fatto
di non esprimere “mai un tempo indipendente da quello del verbo reggente”; ciò sarebbe in par-
ticolare dimostrato dal fatto che “l’infinitiva non può contenere un elemento circostanziale con
valore temporale”. Tuttavia, benché questo sia vero in molti casi, mi sembra che vi siano delle
eccezioni:
(ii) * È venuto ieri a vederla oggi
(iii) Ieri era intenzionato a farlo oggi, ma poi ha cambiato idea.
In quest’ultimo esempio, l’interpretazione è chiaramente prospettiva. Non sembra dunque
possibile attribuire un’interpretazione temporale unitaria ai costrutti infinitivali introdotti da a.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 127
18 Si badi, dunque, che ciò non dipende dal fatto che i ‘conseguimenti’ siano di per sé restii
ad esprimere valore progressivo. Il problema è abbastanza delicato, e merita un attimo di rifles-
sione. A giudizio di alcuni (per es., Giorgi / Pianesi (1997)), i ‘conseguimenti’ usati all’Imperfet-
to non avrebbero valore progressivo, in quanto designano eventi completi (in altre parole, impli-
cano chiusura telica), ed anzi il loro uso appare spesso poco felice (cf. (i)). A riprova di ciò, si
cita il fatto che in tali casi si ricorre spesso alla perifrasi progressiva proprio per forzare la let-
tura imperfettiva (annullando la chiusura telica; cf. ii).
(i) ? Quando arrivai, Lapo moriva.
(ii) Quando arrivai, Lapo stava morendo.
Tuttavia, a me pare che le cose non stiano in questi termini. Innanzi tutto, non è sempre
necessariamente vero che l’Imperfetto dei ‘conseguimenti’ comporti una chiusura telica (cf.
(iii)); inoltre, può anche succedere che la chiusura telica permanga pur in presenza della peri-
frasi progressiva (cf. (iv), almeno secondo la lettura più ovvia).
(iii) Quando entrai, Luca usciva; feci appena in tempo a trattenerlo
(iv) Quando puntai il binocolo, vidi che Teo stava proprio in quel momento rag-
giungendo la vetta.
Mi pare dunque che la questione vada impostata altrimenti. L’Imperfetto dei ‘conseguimen-
ti’ – anche senza perifrasi – può esprimere nei contesti appropriati la lettura imperfettiva, indipen-
dentemente dal fatto che vi sia o no chiusura telica dell’evento. Trattandosi di verbi composti di
una fase preparatoria (di durata imprecisabile) e di una brevissima fase culminante (cui è in ultima
analisi imputabile il loro carattere convenzionalmente non durativo), la visione progressiva può
alternativamente, e con pari legittimità (pur con ostacoli pragmatici difficilmente preventivabili; cf.
i), fissarsi sulla fase preparatoria dell’evento (cf. ii-iii) – producendo la tipica lettura imminenzia-
le associabile ai ‘conseguimenti’ in accezione progressiva – ovvero sulla fase culminante (cf.iv).
Da cosa nasce dunque la difficoltà riscontrata coi ‘conseguimenti’ nell’es. (21/S)? Essa è
dovuta al fatto che un verbo durativo all’Imperfetto nella reggente impone severi ostacoli all’in-
staurarsi della visione progressiva, in quanto (a meno che non vi siano avverbi puntuali, come
in (21/S’), non consente di individuare un singolo istante di focalizzazione (cf. v; che potrà sem-
mai essere interpretato in accezione abituale, come una serie di azioni ripetute). Si noti che un’a-
naloga restrizione non grava sui verbi di realizzazione (cf. vi), perché in tali casi è possibile asso-
ciare la lettura continua ad entrambi gli eventi, cosa ovviamente esclusa per i ‘conseguimenti’ a
causa della loro natura non durativa:
(v) ?? Livia vedeva che Teo usciva
(vi) Livia vedeva che Teo mangiava una mela.
A questo si aggiunga che la perifrasi progressiva non può comparire in dipendenza di verbi
di percezione diretta, neppure quando il verbo reggente è al Passato Semplice (cf. vii). Ma ciò è
probabilmente dovuto ad idiosincratiche restrizioni a carico dell’Infinito italiano, piuttosto che
a restrizioni aspettuali, dato che è qui perfettamente possibile dare un’interpretazione progressi-
va dell’lFS:
(vii) Quel giorno, Ettore vide Lucio mangiare / *stare mangiando / che stava man-
giando una mela.
128 PIER MARCO BERTINETTO
le durativo quel giorno viene sostituito dal puntuale in quel momento (perfetta-
mente compatibile con l’interpretazione progressiva), l’attrito si attenua sensibil-
mente. Quando invece il Tempo reggente è di natura perfettiva – e più specifica-
mente aoristica – allora le possibili interpretazioni aspettuali dell’IFS emergono
con chiarezza, con la seguente distribuzione: (i) lettura progressiva, accessibile
agli eventivi durativi (‘attività’ e ‘realizzazioni’); (ii) lettura aoristica, accessibile
nuovamente ai medesimi verbi ed obbligatoria coi ‘conseguimenti’, dato il loro
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Per la definizione degli aspetti progressivo e continuo, cf. Bertinetto ( 1986: §§ 3.1.1-3,
3.1.6-7). Circa invece il problema posto dall’interpretazione dell’Imperfetto coi ‘conseguimen-
ti’, cf. Bertinetto (2001).
19 Le due interpretazioni aspettuali dell’IFS italiano sono esplicitamente disambiguate in
inglese dall’alternanza tra Infinito e Gerundio:
(i) John saw Mary eat the apple /aoristico/.
(ii) John saw Mary eating the apple /progressivo/.
Siller-Runggaldier (1997) discute di analoghe costruzioni gerundivali in rumeno e in talu-
ni dialetti ladini dolomitici.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 129
negligente.
(25) S * Quel giorno, dopo stare assente / dormire nel proprio letto /
incontrare Edo / pulire la cucina, Lucia recuperò il tempo per-
duto.
C Quel giorno, dopo *essere stata assente / aver dormito nel pro-
prio letto / aver incontrato Edo / aver pulito la cucina, Lucia
recuperò il tempo perduto.
(27) Dopo aver avuto mal di denti tutto il santo giorno, mi sono alla
buon’ora deciso a chiamare la guardia medica.
Qui abbiamo infatti a che fare, verosimilmente, con un primo evento com-
piuto, cui ne segue un secondo, della stessa natura ma pur sempre distinto. Si può
dunque concludere che l’apparente comparsa della lettura inclusiva in (27) è un
mero effetto pragmatico, legato alla frequente assenza di netti contorni temporali
negli stativi; i quali, per giunta, si sottraggono al controllo agentivo del soggetto,
e non ammettono quindi la possibilità di un intervento consapevole mirante a por
fine alla situazione. Ma nonappena l’evento stativo viene esattamente delimitato
sul piano temporale, come in (26), l’impressione di inclusività si dissolve.
viene infatti a creare una struttura avversativa (del tipo: ‘invece di A, B’), che favo-
risce una lettura aspettualmente imperfettiva e temporalmente simultanea. Vale anche
la pena di ricordare che i giudizi di grammaticalità possono drasticamente mutare a
seconda dei predicati infinitivali prescelti; si riconsideri, a tal riguardo, la nota 10. In
tutti questi casi, comunque, l’orientamento temporale punta decisamente verso la let-
tura simultanea, sempre nei limiti in cui si crei una situazione di tendenziale accetta-
bilità. In (30), la situazione si presenta in modo simile, anche per quanto riguarda l’o-
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rientamento temporale. Bisogna tuttavia tener conto del fatto che, in questo caso, l’o-
rientamento può essere modificato in senso prospettivo attraverso l’inserimento di un
opportuno avverbio temporale (cf. 30/S’). Nettamente diversa è invece la situazione di
(31); in questo caso, l’IFS dei verbi eventivi acquista un netto valore prospettivo:
sere uscito troppo presto’), oltreché di simultaneità. Ma ritengo che si tratti di una
falsa impressione: in realtà, l’apparente retrospettività è unicamente dovuta al
fatto che il contesto abituale presuppone un precedente accumulo di esperienze
del tipo pertinente. Ossia: ogni giorno, Ezio pensava erroneamente che l’ora del-
l’uscita fosse anticipata rispetto all’orario canonico. Se davvero si trattasse di
orientamento retrospettivo del singolo microevento iterato, avremmo in questi
casi l’IFC (pensava di essere uscito troppo presto). Si noti comunque che, anche
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essere fatto), mentre coi verbi del gruppo [ii] permane la lettura di simultaneità:
20 L’uso di siffatti sintagmi sembra obbligatorio qualora, invece che in forma riflessiva, il
verbo reggente compaia in forma passiva:
(i) Dora era allettata *(dall’idea) di dormire in tenda.
134 PIER MARCO BERTINETTO
vi, e la lettura prospettiva con i verbi telici, mentre le ‘attività’ ammettono entram-
be le letture. Con i verbi del gruppo [iii], infine, l’IFC risulta pienamente accetta-
bile solo se preceduto da il fatto di (cf. 37/C). Dunque, l’orientamento è solo
apparentemente retrospettivo; in realtà, tali costrutti sono molto più probabilmen-
te orientati verso l’onnitemporalità indotta dalla nominalizzazione. Quanto
all’IFS, valgono a grandi linee le osservazioni avanzate per il gruppo [ii], salvo
forse che in certi casi l’accettabilità aumenta sensibilmente inserendo il sintagma
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calità. Data la pervasività del fenomeno, negli esempi che seguono mi limiterò a
sottolinearlo soltanto nelle circostanze in cui mi parrà che la presenza di tali ingre-
dienti sia imposta dall’esigenza di migliorare l’accettabilità dell’enunciato21.
I verbi che introducono queste strutture sembrano appartenere a due tipi azio-
nali (gli indici numerici rinviano all’elenco del precedente capoverso): [i] stativi;
[ii-iii] predicati ibridi, oscillanti tra una lettura di ‘attività’ (durativo-atelica) negli
impieghi imperfettivi, ed una lettura di ‘conseguimento’ negli impieghi perfetti-
vi22. È indispensabile, nella circostanza, considerare l’interazione delle variabili
azionali in entrambi i predicati coinvolti: quello introduttore e quello all’Infinito.
Per facilitare la lettura degli esempi, indicherò le diverse valenze azionali con le
seguenti sigle: [s] per stativo, [a] per ‘attività’, [c] per ‘conseguimento’, [r] per
‘realizzazione’, [i] per incrementativo23, [a/c] per il tipo misto ‘attività/consegui-
mento’.
Il comportamento tipico dell’IFC è mostrato in (40/C, 41/C), in cui viene
segnalata la quasi obbligatorietà dell’inserzione di il fatto di o dell’articolo deter-
minativo. Trattandosi tuttavia (come già segnalato) di un dato praticamente
costante, mi asterrò nei successivi esempi di questa batteria dal produrre ulteriori
enunciati coll’IFC, a meno che non occorra segnalare qualche variazione rispetto
alla tendenza generale (cf. 52/C). Valgono, ovviamente, le considerazioni già fatte
circa l’effettiva interpretazione temporale delle clausole introdotte da siffatti stru-
menti di nominalizzazione, che indirizzano piuttosto verso l’onnitemporalità che
non verso l’autentica retrospettività. Circa invece l’orientamento dell’IFS, la
situazione appare piuttosto articolata, fatta salva l’osservazione che i predicati del
24 Molto simili alle strutture appena discusse sono quelle di carattere equativo, che specifi-
cano il valore o il significato dell’evento infinitivale, anziché indicarne le conseguenze:
(i) Finire il lavoro in tempo equivaleva a / significava potersela spassare.
(ii) Finire il lavoro in tempo appariva estremamente allettante.
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 137
(40) S Quel giorno, aver mal di denti [s] implicava / implicò la rinun-
cia ai suoiprogrammi [s].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) aver avuto mal di denti [s] impli-
cava / implicò la rinuncia ai suoi programmi [s].
(41) S Quel giorno, essere di cattivo umore [s] gli alienava / alienò le
simpatie di tutti [a/c].
C Quel giorno, ?(il fatto di / l’) essere stato di cattivo umore [s]
gli alienava / alienò le simpatie di tutti [a/c].
(42) S Quel giorno, essere alto [s] gli dava / diede degli indubbi van-
taggi [a/c].
(43) S Quel giorno, dipingere dal vero [a] comportava / comportò un
forte impegno [s].
(44) S Quel giorno, osservare i dintorni [a] lo riempiva / riempì di
ricordi [a/c].
(45) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] implicava / implicò gros-
se conseguenze [s].
(46) S Quel giorno, scoprire il colpevole [c] tanto precocemente lo
? riempiva / riempì d’eccitazione [a/c].
(47) S Quel giorno, tagliare le pensioni [c] così inaspettatamente pro-
25 Un altro caso lo abbiamo in verità già trovato nella nota 7, a proposito delle proposizio-
ni interrogative indirette introdotte da perché.
26 Ma non, si badi, in spagnolo. Su ciò ritornerò in § 4.
138 PIER MARCO BERTINETTO
27 Autunno 2001.
140 PIER MARCO BERTINETTO
(58) S Quel giorno, Edo appariva / apparve stanco di essere poco con-
siderato / giocare a pallone / %uscire di casa / scrivere la sua
relazione.
C * Quel giorno, Edo era / fu stanco di essere stato poco consi-
derato / aver giocato a pallone / essere uscito di casa / aver
scritto la sua relazione.
In questi casi, può talvolta sorgere il sospetto che l’orientamento sia retro-
spettivo (cf. Edo era stanco di giocare a pallone). Ritengo tuttavia che questa sia
una conseguenza illusoriamente indotta dal contesto. Benché, nell’esempio dato,
l’insofferenza sia fondata su un certo accumulo di esperienze passate, tale sensa-
zione vale al momento designato dal Tempo della copula, indipendentemente dal
fatto che vi siano stati episodi precedenti. Le considerazioni appena svolte si
applicano, con identica plausibilità, agli IFS retti da abituato a, avvezzo a, solito,
che ovviamente possono solo creare contesti di iteratività28:
tanto prospettivo quanto simultaneo. È il caso, per esempio, di: facile, difficile,
bello, brutto, impensabile, necessario, sufficiente, indispensabile, costretto a,
degno di. Anche in questo caso l’IFC risulta agrammaticale. Per quanto riguar-
da l’IFS, valgono invece le osservazioni seguenti. Se si ha l’Imperfetto nella
proposizione principale, l’orientamento può essere prospettivo ovvero simulta-
neo (benché, in quest’ultimo caso, possano esserci forti vincoli pragmatici coi
‘conseguimenti’). Se invece si ha un Tempo perfettivo nella principale, l’orien-
tamento tende alla simultaneità, almeno in contesto passato, anche se con il
Futuro riemerge – come una delle possibili interpretazioni – la lettura prospet-
tiva (es.: sarà difficile uscire alle 5). Si noti infatti che neppure la presenza di
un opportuno avverbiale temporale consente la lettura prospettiva con un passa-
to perfettivo nella principale (cf. 60/S’). Una siffatta divergenza tra passato e
futuro va debitamente sottolineata, visto che, di solito, il diverso valore tempo-
rale non comporta conseguenze, a parità di valore aspettuale. Quanto a que-
st’ultimo, esso sarà, del tutto prevedibilmente, continuo nella lettura simultanea,
aoristico nella lettura prospettiva:
Da questi usi vanno peraltro tenuti distinti casi come i seguenti, apparente-
mente simili, in cui tuttavia alcuni degli aggettivi sopra elencati compaiono
accompagnati da una preposizione (cf. facile a, brutto a, necessario per, suffi-
ciente per). Ciò altera significativamente la prospettiva temporale, imponendo
anche forti restrizioni lessicali. In (62-3), per esempio, l’IFS deve preferibilmen-
142 PIER MARCO BERTINETTO
Un secondo tipo è invece costituito dagli aggettivi che accolgono senza pro-
blemi l’IFC, e che mantengono coll’IFS una duplice possibilità di orientamento,
prospettivo o simultaneo, sia pure con le eventuali difficoltà pragmatiche ingene-
rate – nel secondo caso – dai ‘conseguimenti’, e con la netta propensione degli
stativi per la lettura simultanea. Si pensi a: felice di, contento di, lieto di, soddi-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 143
sfatto di, compiaciuto di, certo di, sicuro di, convinto di etc.:
(66) S Quel giorno, Isa era / fu lieta di possedere una bici nuova / gio-
care a carte con Tino / uscire di casa / scrivere la sua relazione.
C Quel giorno, Isa era / fu lieta di aver posseduto una bici nuova
/ aver giocato a carte con Tino / essere uscita di casa / aver
scritto la sua relazione.
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(67) S Quel giorno, Aldo era / fu certo di avere ragione / giocare bene
/ ritrovare la serenità / scrivere la relazione in maniera con-
vincente.
C Quel giorno, Aldo era / fu certo di aver avuto ragione / aver
giocato bene / aver ritrovato la serenità / aver scritto la rela-
zione in maniera convincente.
Un caso a parte è costituito da capace di, che ammette l’IFC solo in unione con
Tempi imperfettivi nella principale, e solo – adoperando beninteso un registro sub-
standard – con accezione epistemica (per es., con riferimento a 68/C: ‘è più che mai
possibile che Leo avesse avuto ragione’; a ciò allude il diacritico ≠). Quanto all’IFS,
esso oscilla nuovamente tra simultaneità e prospettività, benché gli stativi tendano
decisamente a prediligere la prima possibilità (con una netta sfumatura epistemica) 29:
aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.
(70) S * Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere presente /
dormire nel suo letto / uscire di casa con l’ombrello / scrivere
la sua relazione per ultimo.
C Quel giorno, Memo era / fu fortunato per essere stato presente
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/ aver dormito nel suo letto / essere uscito di casa con l’om-
brello / aver scritto la sua relazione per ultimo.
dunque, nelle grandi linee, quello offertoci dall’Infinito sotto dipendenza da verbi.
L’IFC conserva il proprio carattere univoco, mentre l’IFS si presta ad esprimere
un’ampia gamma di valori tempo-aspettuali. La cosa non sorprende, se si conside-
ra che i contesti sopra esaminati presentano sempre l’aggettivo in unione con un
ausiliare, cui sono affidate le valenze tempoaspettuali. Dunque, anche in tali circo-
stanze agiscono in pratica i medesimi fattori che abbiamo visto all’opera nella sezio-
ne dedicata all’Infinito introdotto da verbi: semantica lessicale dell’elemento reg-
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(77) Lieto di scrivere / aver scritto, certo di avere / aver avuto ragione
ragione, fortunato a ottenere / aver ottenuto, consapevole di
incontrare / aver incontrato un pregiudicato...
Questi esempi mostrano con assoluta evidenza che l’IFS (a differenza, come
ormai ben sappiamo, dell’IFC) non contribuisce alcunché all’interpretazione tem-
porale, data l’ampia gamma di letture ad esso accessibili. Si noti inoltre, a con-
ferma di quanto osservato nel paragrafo precedente, che neppure in questi casi
l’interpretazione temporale dipende esclusivamente dalla semantica lessicale del-
l’aggettivo, ma risente anche del carattere azionale del verbo. Per es., l’IFS retto
da dimentico di (cf. 76) esibisce un orientamento temporale di simultaneità coi
verbi atelici, mentre risulta agrammaticale coi verbi telici (cf. dimentico di avere
ragione [s] / giocare senza parastinchi [a] / *ritrovare il portofoglio [c] / *scrive-
re la sua relazione [r]...). Questo è dunque, a rigore, un caso di parziale ambiva-
lenza, piuttosto che di orientamento retrospettivo tout court.
Del resto, neanche in queste circostanze viene a mancare il contributo – non
immediatamente evidente, ma non per questo meno essenziale – delle valenze
aspettuali. Non ci si deve lasciare trarre in inganno dal fatto che, negli esempi appe-
na considerati, non compaiano ausiliari debitamente coniugati. In assenza di ulte-
riori specificazioni, prevale qui l’interpretazione generica solitamente associata, nei
contesti appropriati, ai Tempi imperfettivi (tipicamente, Presente e Imperfetto).
Fuori contesto, una locuzione aggettivale che regga un Infinito tende infatti a desi-
gnare una – sia pur temporanea – condizione statica, piuttosto che un’accezione
ingressiva (beninteso, ove quest’ultima sia accessibile). Tuttavia, mi parrebbe erra-
to attribuire un peso eccessivo a questa circostanza; l’orientamento temporale attri-
buibile all’Infinito in queste locuzioni non sembra dipendere in maniera determi-
nante dalla natura aspettuale del Tempo eventualmente associato all’ausiliare (cf.
Leo appare / appariva / apparve / apparirà costretto ad accettare, che mantiene
sempre il proprio carattere prospettivo). Il Tempo dell’ausiliare contribuisce (quan-
to meno in proposizione principale) a specificare la localizzazione deittica dell’e-
vento indicato dal predicato aggettivale – cui si aggancia anaforicamente l’Infinito
34 Si badi che questo dato è tutt’altro che scontato. Nel caso delle infinitive soggettive intro-
dotte da verbi che danno vita a strutture di senso ‘consequenziale’, infatti, la commutazione tra
Tempi perfettivi o imperfettivi influisce anche sull’orientamento temporale dell’Infinito. Si
riconsiderino gli ess. (45-53).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 147
Il fatto che gli aggettivi trasmettano agli Infiniti da essi retti un preciso orien-
tamento temporale può anche non sorprendere, data la natura in parte nominale e
in parte verbale di questa classe grammaticale35. Ci si potrebbe invece aspettare
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35 Com’è noto, la vocazione piuttosto verbale o – a seconda dei casi – nominale degli agget-
tivi costituisce un importante fattore di variazione tipologica. Su questo punto, mi limito a rin-
viare a Bhat (1994).
36 Trascuro qui, per ragioni che mi appaiono ovvie, i predicati complessi che sembrano con-
tenere un sintagma infinitivale con testa nominale (cf. aver l’aria di sentirsi a proprio agio). In
questi casi, infatti, si ha una locuzione predicativa sintagmatica pienamente lessicalizzata (aver
l'aria di), anziché una struttura nominale.
148 PIER MARCO BERTINETTO
locuzioni fuori contesto, anziché di autentici enunciati. Ciò è stato fatto intenzio-
nalmente, per depurare l’interpretazione da ogni effetto contestuale estraneo al
mero rapporto tra la testa nominale e l’Infinito. Non sarà comunque inutile
richiamare una volta ancora all’esercizio della prudenza; l’interpretazione effetti-
va di un dato esempio può infatti dipendere da sottili condizionamenti pragmati-
ci, che andrebbero verificati sulla base di un’illustrazione molto più ampia di
quella che potrò qui esibire:
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(78) PROSPETTIVITÀ
es.: L’obbligo / la decisione / la scelta / l’ordine / la volontà / il
tentativo di + INFINITO; il modo / il mezzo / il sistema / l’e-
spediente / le iniziative / il motivo per + INFINITO; l’autoriz-
zazione / l’esortazione / l’invito / la riluttanza / la spinta / lo
stimolo / la tendenza / l’impulso a + INFINITO.
a. S La decisione di *essere in bolletta [s] / restare alzati fino a
tardi [s’] / dormire vestiti [a] / rientrare tardi [c] / bere una
spremuta a colazione [r]...
C * La decisione di essere stati in bolletta [s] / essere restati
alzati fino a tardi [s’] / aver dormito vestiti [a] / essere rien-
trati tardi [c] / aver bevuto una spremuta a colazione [r]
b. S Il motivo per possedere una Mercedes [s] / restare uniti [s’]
/ giocare in notturna / uscire in anticipo [c] / restaurare la
facciata [r]...
C * Il motivo per aver posseduto una Mercedes [s] / essere resta-
ti uniti [s’] / aver giocato in notturna [a] / essere usciti in
anticipo [c] / aver restaurato la facciata [r]
c. S Il modo per aver ragione [s] / restare a lungo svegli [s] / dor-
mire senza interruzion [a] / trovare l’uscita [c] / bere tutto
d’un fiato [r]...
C * Il modo per aver avuto ragione [s] / essere restati a lungo
svegli [s’] / aver dormito senza interruzioni [a] / e aver tro-
vato l’uscita [c] / aver bevuto tutto d’un fiato [r]...
d. S Le iniziative per ?? possedere una Mercedes [s] / restare
uniti [s’] / giocare in notturna (a) / ottenere il giusto ricono-
scimento [c] / restaurare la facciata [r]...
C * Le iniziative per aver posseduto una Mercedes [s] / essere
restati uniti [s’] / ave giocato in notturna [a] / aver ottenuto il
giusto riconoscimento [c] / aver restaurato, la facciata [r]...
e. S L’autorizzazione a (??)essere in ritardo [s] / restare seduti
[s’] / giocare in notturna [a] / uscire dalla porta di servizio
[c] / scrivere al sindaco [r]...
C * L’autorizzazione a essere stati in ritardo [s] / essere resta-
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 149
37 L’esempio mi è stato suggerito da Patrizia Tabossi. Si noti, per contro, la scarsa accetta-
bilità di (81d/C).
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 151
che le diverse attitudini aspettuali palesate dall’IFS nei costrutti con testa nomi-
nale dipendono dall’interazione tra i medesimi fattori che ne determinano l’inter-
pretazione temporale: semantica lessicale del nome, valenza azionale
dell’Infinito, eventuali condizionamenti pragmatici. Una volta di più dobbiamo
dunque constatare l’ambiguità tempo-aspettuale dell’IFS.
parte mantenendo ed in parte alterando le valenze della base verbale; cf. la nota
30), la morfosintassi dell’italiano mostra chiari indizi circa la gradualità dell’op-
posizione in questione (Simone / Jezek, in stampa). Ciò riconferma che, a saper
usare il microscopio, ogni lingua ricapitola almeno in parte, nelle linee di tenden-
za generali, gli orientamenti osservabili macroscopicamente a livello tipologico.
(83) PROSPETTIVITÀ
es.: A costo, in attesa, al fine, a meno, piuttosto, invece, al posto
di + INFINITO; piuttosto che, anziché + INFINITO.
a. S A costo di ??essere nel torto [s] / restare ultimo [s´] / dormi-
re vestito / entrare dalla porta servizio / scrivere la tesi da
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solo...
C * A costo di essere stato nel torto / essere restato ultimo /
aver dormito vestito / essere entrato dalla porta di servizio /
aver scritto la tesi da solo...
b. S In attesa di *essere nel torto [s] / restare da solo [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la tesi
C * In attesa di essere stato nel torto / essere restato da solo /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi...
c. S Invece di avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dormire
nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scrivere la
tesi da solo...
C * Invece di aver avuto buoni voti / essere restato seduto /
aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
d. S Piuttosto che avere buoni voti [s] / restare seduto [s´] / dor-
mire nel proprio letto / entrare dalla porta principale / scri-
vere la tesi da solo...
C * Piuttosto che aver avuto buoni voti / essere restato seduto
/ aver dormito nel proprio letto / essere entrato dalla porta
principale / aver scritto la tesi da solo...
(84) SIMULTANEITÀ
es.: In atto di, a forza, a furia di + INFINITO.
a. S In atto di *avere ragione [s] / restare deliberatamente sedu-
to [s´] / correre a più non posso / entrare dalla porta princi-
pale / scrivere la tesi...
C * In attesa di avere avuto ragione / essere restato delibera-
tamente seduto / aver corso a più non posso / essere entrato
dalla porta principale / aver scritto la tesi...
b. S A furia di *avere ragione [s] / restare seduto [s´] / agire senza
riguardo / entrare in ritardo / preparare la lezione all’ultimo...
C * A furia di aver avuto ragione / essere restato seduto / aver
agito senza riguardo / essere entrato in ritardo / aver prepa-
rato la lezione all’ultimo...
SULLE PROPRIETÀ TEMPO-ASPETTUALI DELL’INFINITO IN ITALIANO 155
(85) PROSPETTIVITÀ/RETROSPETTIVITÀ
es.: A condizione di + INFINITO.
S A condizione di avere buoni voti [s] / restare ultimo [s´] /
dormire nel proprio letto / entrare dalla porta principale /
scrivere la tesi da solo...
S A condizione di aver avuto buoni voti [s] / essere restato
ultimo [s´] / aver dormito proprio letto / essere entrato dalla
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Si noterà innanzi tutto che, in qualche caso, si hanno restrizioni sugli stativi
puri. Si veda per es. (oltre a 83a-b): *piuttosto di avere buoni voti, da contrastar-
si – pur nel comune orientamento prospettivo – con (83d)38.
Quanto alle locuzioni temporalmente ambivalenti, merita segnalare che in
(85) l’orientamento è complementarmente distribuito sulle due forme, con l’IFS
che implica prospettività e l’IFC che presuppone retrospettività. L’orientamento
temporale è invece prettamente polivalente in (86), dove anche la simultaneità
rientra tra le possibilità designative. Degno di speciale menzione è però il fatto
che la retrospettività possa qui esplicarsi direttamente coll’IFS, oltreché con
l’IFC. A conferma, si consideri la localizzazione temporale dell’IFS in corsivo
nell’esempio seguente, che può – anche se non deve necessariamente – precedere
il momento indicato dal Tempo della principale:
4. OSSERVAZIONI IN MARGINE
Un’ulteriore prova a favore di questa conclusione si ricava dal fatto che l’IFC
appare perfettamente ammissibile anche in taluni contesti in cui l’IFS, per parte
sua, è caratterizzato da un netto orientamento prospettivo. Ciò accade per es. in (15,
85); ma qualcosa del genere si verifica anche nelle circostanze in cui l’IFC convive
– a livello paradigmatico – con un IFS esprimente simultaneità, come in (29, 71),
ovvero simultaneità/prospettività, come in (30-31, 66-67, 82, 86)40. Per converso, si
noti come in non pochi casi le due forme dell’Infinito manifestino un orientamento
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40 Per alcuni degli esempi qui citati, come pure per altri subito sotto ricordati, valgono
ovviamente le precisazioni fatte – al momento della loro prima presentazione – in merito al com-
portamento delle diverse classi azionali o con riferimento all’effetto prodotto dalla natura aspet-
tuale del verbo reggente.
158 PIER MARCO BERTINETTO
strutture causali o nelle temporali introdotte da dopo / después de, in cui l’italia-
no reclama l’IFC, mentre lo spagnolo esige l’IFS:
(88) a. Il giocatore fu espulso per *insultare / aver insultato il
guardalinee.
b. El jugador fue expulsado por insultar / *haber insultado
al juez de linea.
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Questo induce ad ipotizzare che l’IFS spagnolo sia molto più caratterizzato in
senso perfettivo del suo omologo italiano, tanto da dover essere esplicitamente
marcato come imperfettivo in frasi come (91), o da potersi sostituire all’IFC in
frasi come (88-90).
Si noti, infine, come l’IFS nominalizzato dello spagnolo tenda, coi consegui-
menti, ad assumere un’accezione iterativo-generica, a differenza dell’analoga
struttura italiana, che può senza difficoltà esprimere senso semelfattivo-specifico
(come in: quest’anno, il fiorire dei garofani mi ha colto di sorpresa):
di più. Né, d’altra parte, quelle indicate sono le uniche differenze nell’uso
dell’Infinito, visto che anche a livello sintattico il comportamento di italiano e
spagnolo può divergere in maniera piuttosto netta41. Ma l’esame di questi fatti
esula dall’orizzonte del presente lavoro.
Un dato costante, che emerge dall’analisi qui condotta sulle proprietà aspet-
tuali dell’Infinito, è rappresentato dalla netta divisione di lavoro tra IFS e IFC.
Quest’ultimo, come più volte sottolineato, è specificamente deputato ad esprime-
re l’aspetto compiuto; l’IFS, invece, assolve una gamma più ampia di funzioni,
potendo manifestare – a seconda dei casi – l’aspetto aoristico o l’aspetto imper-
fettivo (nelle fattispecie della progressività e della continuità). Ciò propone un
problema teorico non banale, dato che si sarebbe piuttosto portati – e per ragioni
tutt’altro che peregrine – ad associare gli aspetti aoristico e compiuto sotto il
comune vessillo della perfettività. Questo, almeno, è quanto risulta dallo studio
del comportamento delle forme finite del verbo, che dununcia un’evidente affinità
semantica tra aoristicità e compiutezza; affinità manifestata, per esempio, dalla
41 A titolo di breve illustrazione, riporto qui una scelta di enunciati tratti da Pérez Vázquez
(2000/01), che denunciano alcuni punti di divergenza. Per una proposta di analisi formale,
rimando al lavoro citato:
(i) a. Me suspendieron por no contestar / *haber contestado nada.
b. Mi sospesero per non *rispondere / ??aver risposto nulla [semmai: ... per il
fatto di non aver risposto nulla].
(ii) a. Al tener Marta tantos hijos, entiende muy bien a los niños.
b. * Per aver Marta tanti figli, comprende molto bene i bambini.
(iii) a. El irse Juan de Madrid carece de sentido.
b. * L’andarsene Juan da Madrid è privo di senso.
(iv) a. Busco gente que dibujar (el mes próximo).
b. * Cerco gente che disegnare (il mese prossimo).
(v) a. Nada mas llegar el invierno, los osos se retiran a dormir.
b. * Nient'altro che arrivare l'inverno, (e) gli orsi cadono in letargo.
L’es. (i) mostra, in aggiunta alle già notate restrizioni riguardanti l’uso di IFS e IFC nelle strut-
ture causali, come il soggetto dell’Infinito possa in certi casi essere omesso con una certa liberalità.
Per contro, gli ess. (ii-iii) mostrano come proprio il soggetto dell’Infinito possa non di rado compa-
rire esplicitamente in contesti nei quali l’italiano preferirebbe ometterlo (il che darebbe peraltro a (iii)
un senso generico), magari trasferendolo nella principale (una mossa possibile in (ii) , anche se la
frase tenderebbe comunque ad avere un valore concessivo, piuttosto che causale).
Anche gli ess. (iv-v) illustrano costrutti che esigerebbero una diversa struttura. In (iv)
dovremmo infatti usare il Congiuntivo, il che manterrebbe il senso temporalmente generico
ovvero prospettivo (specie in presenza di un avverbiale di futurità) che si osserva nella frase spa-
gnola. In (v), invece, dovremmo cambiare la struttura sintattica della temporale (per es., all 'arri-
vare dell'inverno; ed anche qui, per inciso, il soggetto non potrebbe essere espresso, se non
mediante un sintagma preposizionale).
42 Rimando nuovamente a Bertinetto (1986, cap. 2-3) per la dimostrazione.
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similarità delle reazioni indotte, in queste due categorie aspettuali, dagli avver-
biali temporali sensibili alle valenze aspettuali ed azionali42.
Siamo insomma avvezzi a concepire il dominio aspettuale secondo lo schema
seguente:
Aspetto
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imperfettivo perfettivo
(A)
Dall’analisi delle forme non finite sembra invece emergere una struttura radi-
calmente diversa:
Aspetto
...
(B)
Il problema è costituito dalla scissione osservabile in (B) all’interno dell’a-
spetto perfettivo, le cui sottocategorizzazioni (aoristico e compiuto) si ripartisco-
no sotto snodi diversi.
Prima di tentare una giustificazione di quest’ultima ipotesi interpretativa, è
opportuno valutarne la plausibilità. L’obiezione che si affaccia subito alla mente
riguarda il fatto che anche nel sistema delle forme finite si osservano convergen-
ze, in una stessa forma verbale, di valori aspettuali contrastanti, appartenenti al
comparto perfettivo ed imperfettivo. Il caso più lampante, in italiano, è quello del
Presente Indicativo, che può agevolmente esprimere, oltre alle valenze imperfet-
tive, anche quella aoristica (cf. per esempio, il Presente ‘pro futuro’ o il Presente
‘performativo’). Tuttavia, l’esistenza – almeno nel comparto passato – di una netta
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43 Si consideri, oltre al Presente Indicativo, anche il Futuro Semplice, per il quale si potreb-
bero fare osservazioni molto simili. La differenza sta nel fatto che, mentre il Presente assegna
valore marcato alle valenze perfettive, il Futuro Semplice predilige proprio queste ultime, salvo
accollarsi l'onere di esprimere anche le valenze imperfettive, per supplire all’assenza di un appo-
sito strumento morfologico.
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(ma non così in spagnolo). I dati discussi nei paragrafi precedenti mostrano che,
per guidare la scelta tra accezione simultanea vs. prospettiva – e, corrispondente-
mente, tra valenza aspettuale imperfettiva vs. perfettiva – non appaiono assoluta-
mente disponibili criteri ancorati al relativo grado di marcatezza. Credo dunque che
si debba prendere atto dell’identica disponibilità dell’IFS italiano ad assumere l’una
o l’altra di queste coppie di valori semantici, a seconda del contesto in cui compare.
Ma a parte queste considerazioni, mi pare che le ragioni che militano in favo-
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‘ragazza seduta’.
intervallo temporale ‘chiuso’. Prova ne sia il frequente slittamento del Perfetto (inte-
so come ‘Presente Compiuto’) nel mero Passato Aoristico.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Berretta, Monica, 1990, Il ruolo dell’infinito nel sistema verbale di apprendenti di italiano
come L2. In: Giuliano Bernini / Anna Giacalone Ramat (curr.), La temporalità nel-
l’acquisizione di lingue seconde, Milano, Angeli: 51-80.
Bertinetto, Pier Marco, 1986, Tempo, Aspetto e Azione nel verbo italiano. Il sistema
dell’Indicativo, Firenze, Accademia della Crusca.
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1.
Aspetti semantico-sintattici
KOLBJÖRN BLÜCHER
(Università di Bergen, Norvegia)
dello spagnolo, lingua che ha una sintassi modale molto simile a quella dell’ita-
liano, il quale nel suo libro “Del indicativo al subjuntivo” dice che “(---) en reali-
dad, como veremos, los modos verbales presentan un contenido de modalidad
bastante general y abstracto (---)”2.
Sono dunque del parere che in un’analisi della sintassi modale dell’italiano,
o di un’altra lingua romanza, i criteri di base debbano essere formali/strutturali e
funzionali, mentre i criteri semantici siano da considerarsi nella seconda fase del-
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l’analisi. D’altra parte non si può affrontare la problematica dei modi senza tener
debitamente conto del lato del contenuto del segno linguistico. Un equilibrio
appropriato fra questi criteri è oggi, ci pare, un principio generalmente accettato
nella linguistica.
L’obiettivo che ci si propone nel presente succinto contributo allo studio della
sintassi modale dell’italiano è sostanzialmente di giungere a una definizione più
soddisfacente della “natura” del congiuntivo e delle sue funzioni.
In base al ruolo funzionale che il congiuntivo svolge nella lingua, si distin-
guono tre livelli funzionali3, i quali si possono presentare come una gerarchia:
Esaminiamo ora nei particolari alcune delle funzioni del congiuntivo e così il
ruolo sintattico svolto dalla sua MOD.C Ma+. Come un primo approccio in que-
st’analisi occorre fare una distinzione fra due gruppi di funzioni fondamental-
mente diverse del congiuntivo, i quali si possono definire uno di carattere indi-
pendente e l’altro di tipo dipendente. Nel primo gruppo, in cui è solo l’opposi-
zione binaria all’indicativo a produrre un effetto sintattico e semantico, i tipi fun-
zionali sono ben pochi, e sono tutti limitati alla proposizione principale. Troviamo
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della principale, e la modalità vasta, generica e astratta del lato del contenuto del
grammema che esprime il congiuntivo. A nostro parere, l’interpretazione più logi-
ca e soddisfacente dell’influsso esercitato dal lessema della principale sulla scel-
ta del modo nella completiva, influsso collegato al rapporto sintattico subordina-
zione/dipendenza/incorporazione grammaticale fra le due proposizioni, è vedere
in questo fatto una corrispondenza semantica fra la modalità del lessema in que-
stione e la modalità che caratterizza il modo scelto nella completiva. La modalità
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emessa da un tale lessema “reggente”, la quale può essere di vari tipi, ma sempre
limitata a una determinata sfera modale, cioè semanticamente circoscrivibile e
definibile, richiede un riscontro alla sua modalità nel verbo della subordinata.Nel
caso del congiuntivo tale riscontro lo costituisce la modalità MOD.C Ma+ del
grammema di questo modo, semanticamente vasta, vaga, generica, astratta, ma
dunque modalmente affine alle modalità semanticamente circoscritte, espresse
lessicalmente. Questa corrispondenza fra la modalità di un elemento lessicale e
quella di un elemento grammaticale che è il grammema “congiuntivo” si può in
ultima analisi considerare e definire una concordanza modale. L’effetto della con-
cordanza modale nel contesto è poi quello di sottolineare, mettere in risalto la
modalità particolare, semanticamente definibile, dell’elemento lessicale concor-
dato con il modo congiuntivo, ma il modo non esprime semanticamente questa
modalità come tale. Si può dire che è l’uso combinato del lessema che seleziona
il modo e del modo selezionato a trasmettere nella sua totalità il messaggio inte-
so dal parlante. Lo stesso tipo di concordanza modale obbligatoria avviene in frasi
come È giusto che si riposino dopo tanto lavoro; C’era qualche probabilità che
quel giorno la incontrasse all’università e così via.
In altri tipi di subordinate del livello funzionale I, e cioè non completive, ci
sono elementi diversi da quelli finora discussi, più o meno con caratteristiche
modali proprie, a determinare una simile concordanza modale. Le subordinate
introdotte da congiunzioni o locuzioni congiunzionali quali purché, a meno che,
a condizione che, affinché, benché, come se, senza che, prima che, da pronomi
e proavverbi relativi come chiunque, dovunque, e vari altri tipi di subordinate
hanno regolarmente il congiuntivo.
Sia nelle subordinate completive discusse che in queste ultime il congiuntivo
è così un elemento sintattico formale fisso, caratteristico, o in concordanza con la
modalità di un elemento nella proposizione dalla quale dipende la subordinata,
come nelle completive, o in sintonia con l’elemento introduttore della subordina-
ta stessa, come è il caso degli altri tipi di subordinate citati. In altri termini, il
modo caratterizza la compl