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MASTER IN PROGETTAZIONE

AVANZATA DELL’INSEGNAMENTO
DELLA LINGUA E CULTURA
ITALIANA A STRANIERI

T03 - Grammatica e lessico


dell’italiano: tra descrizione a
acquisizione
di Paolo E. Balboni

LABORATORI ITALS
DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICI E CULTURALI
COMPARATI

UNIVERSITA’ “CA’ FOSCARI” - VENEZIA

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MASTER 2 LIVELLO “Grammatica e Lessico dell’italiano” Paolo E. Balboni

INDICE

0. Introduzione al modulo

1 I termini ‘grammatica’ e ‘regola’


Scheda: Lingua, linguaggio

2 Prima la grammatica? Prima il lessico?


Scheda: La linguistica funzionale

3 La grammatica dei suoni

4. La grammatica dei grafemi, l’ortografia

5. La grammatica della forma e della combinazione


Scheda: La linguistica acquisizionale

6 Grammatiche di riferimento

7 Il lessico
Scheda: Lessico, parola, termine; dizionario, vocabolario, terminologia
Scheda: Denotazione e connotazione

8 Dizionari monolingui, bilingui, per immagini

Riferimenti bibliografici

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MASTER 2 LIVELLO “Didattica dell’italiano” Paolo E. Balboni

0. Introduzione al modulo
Il tema affrontato è estremamente delicato, perché nell’insegnamento linguistico
spesso si confondono la descrizione della grammatica e del lessico con
l’acquisizione della grammatica e del lessico, ritenendo che la prima sia la via
naturale per la seconda.
Si tratta invece di due processi totalmente differenti: l’acquisizione del linguaggio
avviene in maniera del tutto indipendente dalla descrizione dello stesso, come
dimostra l’acquisizione spontanea dei bambini e degli immigrati non inseriti in
contesti scolastici.
La descrizione può certamente svolgere una funzione di monitor, cioè di controllo
di quanto acquisito, che potrebbe essere scorretto per errori di processing, per
interferenza da altre lingue, ecc., ma non produce acquisizione bensì
apprendimento (si veda la teoria dell’acquisizione della seconda lingua in
Krashen, che dagli anni Settanta ha posto un punto fermo sulla questione).

Come usare questa ‘traccia’ di riflessione sull’italiano pensata per chi deve
insegnare a studenti stranieri?
La cosa più semplice è quella di cercare di completare in gruppo le varie voci che
nel modulo sono trattate per cenni – né poteva essere fatto diversamente dato che
non stiamo costruendo una ‘grammatica italiana’, essendocene molte di ottime in
circolazione: ad esempio, quando si dice che uno dei problemi per gli stranieri è la
complessità del sistema verbale del passato, il gruppo può cercare di produrre uno
schema riassuntivo che comprenda i problemi del passato; quando si accenna al
valore connotativo di molti suffissi, e se ne danno alcuni esempi, il gruppo può
cercare di creare schede complete della maggior parte dei suffissi, e poi
confrontarle con le grammatiche di riferimento.
Un secondo lavoro possibile è, una volta definito il quadro generale del passato o
dei suffissi connotativi, consultare gli indici dei manuali dei grandi editori per
vedere come questi temi sono distribuiti nei vari livelli del Consiglio d’Europa.

Non si trovano quindi nel corso del modulo stimoli che invitano a fare: è compito
del tutor ma soprattutto dei corsisti decidere che taglio dare, se più descrittivo
(completando la descrizione che noi accenniamo) o più ‘investigativo’, per vedere
che cosa fa la manualistica più diffusa.

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1. I termini ‘grammatica’ e ‘regola’


Prima di iniziare è necessario definire i due termini chiave del modulo,
inserendoli all’interno del concetto che li comprende entrambi, e senza il quale
rimangono decontestualizzati: la competenza comunicativa, cioè l’obiettivo
glottodidattico, l’obiettivo di ogni azione di educazione linguistica.
Il modello grafico è questo (e viene spiegato nella video lezione 1, in
www.unive.it/meal)

mente mondo
competenza
linguistica

padronanza
padronanzadelle capacità di
competenze extra- abilità,
delle saper
abilità, agire socialmente
linguistiche ‘fare’ lingua
capacità con la lingua
di ‘fare’ lingua

competenze socio-
pragmatica e
(inter)culturale

La competenza comunicativa è una realtà mentale che si realizza come esecuzione


nel mondo, all’interno di eventi comunicativi che hanno luogo in contesti sociali
dove chi usa la lingua compie un’azione; le due parole chiave rimandano a
competence e performance, la dicotomia chomskyana che contrappone la
dimensione mentale della lingua e la sua realizzazione reale; vediamo meglio
queste due realtà:

a. nella mente ci sono tre nuclei di competenze che costituiscono il sapere la


lingua:
- la competenza linguistica, cioè la capacità di comprendere e produrre
enunciati ben formati dal punto di vista fonologico, morfologico,
sintattico, lessicale, testuale;
- le competenze extralinguistiche, cioè la capacità di comprendere e
produrre espressioni e gesti del corpo (competenza cinesica), di
valutare l’impatto comunicativo della distanza interpersonale
(competenza prossemica), di usare e riconoscere il valore
comunicativo degli oggetti (oggettemica) e del vestiario (vestemica);
- il nucleo delle competenze contestuali relative alla lingua in uso: la
competenza sociolinguistica, quella pragmalinguistica e quella
(inter)culturale;
b. le competenze mentali si traducono in azione comunicativa, nel saper fare
lingua quando esse vengono utilizzate per comprendere, produrre,
manipolare testi: si tratta delle abilità, che non sono solo le quattro di base

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(ascolto, lettura, monologo, scrittura) e quella interattiva, il dialogo, ma


anche abilità manipolative come il riassumere, il tradurre, il parafrasare, il
prendere appunti, lo scrivere sotto dettatura; definiamo padronanza questo
meccanismo di attualizzazione della competenza;
c. i testi orali e scritti prodotti attraverso il meccanismo di padronanza
contribuiscono a eventi comunicativi, governati da regole sociali,
pragmatiche, culturali (una tavola rotonda in un convegno ha regole
diverse da quelle di una conversazione sullo stesso tema e con le stesse
persone ma realizzata al bar): è il saper fare con la lingua.

Rimane da chiarire la complessità dell’uso della parola ‘grammatica’

a. grammatica in senso proprio: è un sistema di regole che governa un codice


o una sua parte: quindi nel nostro caso ci sono
- la grammatica del codice lingua (vedi punto ‘b’),
- la grammatica dei codici extralinguistici: grammatica cinesica, che
governa l’uso comunicativo di gesti, espressioni e posture; grammatica
prossemica, che regola la distanza tra i corpi di coloro che partecipano
a un evento comunicativo; c’è una grammatica oggettemica, che
riguarda l’uso comunicativo degli oggetti, dall’abbigliamento agli
status symbol, dai regali al cibo, all’alcol, ecc. Un approfondimento su
queste grammatiche è in varie videolezioni un www.unive,it/meal, in
particolare in quella numero 7; vedere anche Balboni, Caon 2015;
- una grammatica socio-culturale, voce che racchiude molti complessi di
regole fondamentali per la comunicazione, dalla scelta delle varietà
sociolinguistiche, alla gestione della forza pragmalinguistica delle
varie espressioni, a tutti gli elementi culturali che concorrono alla
comunicazione: basti pensare alla dicotomia formale/informale, che
regola le scelte linguistiche (dal tono, alle scelte lessicali, alla
morfosintassi), quelle gestuali, la prossimità, il vestiario, ecc.
Un’infrazione alle ‘regole’ della competenza linguistica e di quella
extralinguistica può comunque consentire la comunicazione, mentre
errori socio-culturali quasi sempre portano alla chiusura dell’evento
comunicativo, al rifiuto di comunicare (approfondimenti in Balboni,
Caon 2015);

b. la grammatica della lingua, cioè la ‘competenza linguistica’ nello schema


visto sopra; in realtà è composta da un fascio di grammatiche:
- la fonetica governa il modo in cui vengono realizzati i suoni: in questo
ambito, ad esempio, si studia il modo in cui si realizzano la n
alveolare, quella prodotta dalla lingua appoggiata agli alveoli dei denti
e che si trova in non, e la n palatale o velare, realizzata avvicinando il
dorso della lingua al palato, come in banca, cinghia; sul piano fonetico
sono due foni diversi;
- la fonologia riguarda il valore che un dato suono ha in una lingua: in
italiano le due n viste sopra hanno lo stesso valore, sono allofoni, due

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suoni diversi, ma non con lo stesso valore sono fonemi diversi; in


inglese invece le due n sono fonemi differenti, che distinguono
sin/sing, been/being ecc.;
- la grafemica regola la scrittura in una lingua, contiene le regole
ortografiche;
- la morfologia riguarda la forma delle parole;
- la sintassi riguarda i meccanismi di combinazione delle parole in una
frase o in un periodo;
- la testualità include le regole che governano i tipi testuali (che sono
universali: testo argomentativo, narrativo, referenziale, regolativo) e i
vari generi che li realizzano: un testo referenziale può realizzarsi come
relazione tecnica, come lettera, come descrizione, ecc.; una descrizione
a sua volta può essere oggettiva (il narratore è esterno alla scena
descritta) o soggettiva (il narratore è interno, quindi include nella
descrizione solo quel che può vedere, ascoltare, odorare, ma tutto
attraverso i suoi filtri percettivi ed emozionali);
- il lessico, che include le parole singole, le parole composte, le
espressioni fossili (metafore quali “è una volpe” per dire che qualcuno
è intelligente), ecc., e che ha delle regole di alterazione, di co-
occorrenza, di co-locazione (ad esempio in italiano la co-locazione
prevede bianco e nero, in inglese black and white, e le squadre di
calcio sono bianco-nera, rosso-nera, ner’azzurra¸ ecc.

c. la ‘grammatica’ come la intendono gli insegnanti ed i manuali didattici: la


morfosintassi, l’ortografia, alcuni elementi di grammatica lessicale e
testuale; ma c’è una differenza tra il docente di madrelingua e quello di
lingue seconde, straniere e classiche:
- nell’insegnamento della madrelingua, che avviene quando la lingua è
già acquisita ed è solo da perfezionare, ‘grammatica’ vuol dire
essenzialmente ‘descrizione grammaticale’, che viene detta di solito
‘analisi grammaticale’ se riguarda la morfologia, e ‘analisi logica’, se
riguarda la sintassi della frase e quella del periodo; ‘analisi testuale’
viene usata essenzialmente per parlare di testi letterari;
- l’insegnamento delle lingue non native include la fonetica e la
fonologia, che all’insegnante di italiano L1 non interessano: nelle
lingue straniere e seconde (meno in quelle classiche) si cura l’ortoepia,
cioè la pronuncia e l’intonazione corrette, e molta attenzione è data
all’ortografia; ma la parola ‘grammatica’ indica essenzialmente la
morfosintassi, nozione che unifica le due dimensioni che,
nell’insegnamento di LS, L2 e LC conviene tenere unite, essendo
assolutamente interrelate nell’uso (ricordiamo che l’insegnamento
delle lingue non native, almeno fino al livello B2, non mira a
sviluppare la capacità di analizzare la lingua, ma quella di usarla).

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Lingua, linguaggio
Sono due termini su cui anche a livello teorico ci sono
posizioni distinte, ma in linea di massima possiamo dire
che sono linguaggi i sistemi di segni con cui l’uomo
Un’altra parola chiave è regola. comunica, e sono lingue i linguaggi verbali: in questa
accezione dunque lingua è un iponimo di linguaggio.
In italiano è diventata sinonimo di In realtà l’uso è assai più complesso.
norma, e lo stesso è avvenuto in altre Ci sono tre classi di strumenti di significazione: i sintomi, i
lingue, portando Jakobson a parlare di segnali, i segni. I primi sono prodotti dalla natura delle
grammatica ridotta a “giurisprudenza cose: un tuono è sintomo di un temporale, la febbre è
sintomo di infiammazione, il rumore delle ruote sulla
del linguaggio”. strada è sintomo dell’arrivo di un veicolo: temporali,
In realtà le regole sono dei infiammazioni, veicoli non possono né scegliere che tipo
meccanismi di funzionamento, sono di rumore produrre né se produrlo o non: non si tratta di
delle scelte regolari, costanti: un linguaggi; i segni, l’unione di un significato ed un
significante, sono invece legati alla volontarietà della
italofono adulto sceglie regolarmente comunità che ha stabilito una convenzione per cui penna
di usare le forme vado, vai, va, è un oggetto con cui si scrive, la sirena dell’ambulanza
andiamo, andate, vanno quando usa il richiede comportamenti specifici da parte degli altri
presente di andare: il suo automobilisti, il berretto rigido significa che il signore che
gesticola in mezzo alla strada è un vigile, e così via: alcuni
comportamento è costante, regolare, di questi vengono chiamati segni, altri segnali, ma sono
segue la regola di questo verbo (anche tutti linguaggi arbitrari e convenzionali, propri di una
se capisce, soprattutto in bocca a un comunità che può crearli, modificarli, bandirli; sono
bambino, io ando); alcune regolarità segnali quelli prodotti geneticamente, senza possibilità di
scelte alternative, da animali e piante: il gatto segnala
sono molto potenti, totalizzanti: ad irritazione agitando la coda, ma lo stesso segnale indica
esempio, tutte le frasi con il si gioia nel cane (per cui cane a gatto non si capiscono, a
impersonale accettano il verbo solo meno che non siano cresciuti insieme per cui sono
‘bilingui’), le gabbianelle segnalano il momento della
alla terza persona singolare, mentre
fertilità con piume nere sul capo mentre le piante lo fanno
tutte le frasi con il si passivante con i fiori: l’uso di linguaggio in questo caso è abbastanza
possono avere il verbo alla terza diffuso per gli animali (il linguaggio delle api, delle
persona singolare o plurale, a seconda formiche, dei delfini, ecc.) ma non per le piante: il
‘linguaggio dei fiori’ è l’uso significativo che gli uomini
dell’oggetto (che in realtà diventa fanno dei fiori, inviando mazzi di rose rosse in numero
soggetto della frase passiva implicita pari o dispari, ad esempio.
in quella con il si passivante): non Se la lingua è il linguaggio verbale ambiti ristretti della
esistono eccezioni a questa lingua sono spesso chiamati linguaggi: il linguaggio
infantile, quello letterario, scientifico, ecc.
‘regolarità’: Una caratteristica peculiare della lingua rispetto a tutti gli
- in Italia si parla ad alta voce è altri linguaggi è la doppia articolazione, cioè un duplice
impersonale, quindi il verbo è livello di suddivisione in unità più piccole delle parole,
singolare indipendentemente dai l’unità base della significazione: la parola ragazz+o/a/i/e è
articolata in un lessema, la parte che veicola il significato,
milioni di parlanti ad alta voce; e un morfema, in questo caso la parte che indica genere e
- in Italia si parla l’italiano (= numero e combina, seguendo le regole morfosintattiche
l’italiano è parlato in Italia) e in di una lingua, una parola con gli altri elementi dell’unità
Italia si parlano molti dialetti (= base della comunicazione, l’enunciato; la seconda
articolazione è quella in fonemi, che sono in numero
molti dialetti sono parlati in limitato ma permettono una quantità presso che infinita
Italia) di combinazioni (alcune delle quali tuttavia sono vietate
Mentre esistono eccezioni alla nelle singole lingue: pizo potrebbe essere una parola
regolarità dei verbi, dei comparativi, italiana, ma non zpio o pzio perché la combinazione
diretta tra z e p non esiste in italiano).
della formazione del genere e del Da BALBONI P.E., Le sfide di Babele, Torino, Utet Università,
numero, ecc.: sono le forme 2015
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‘irregolari’, che non seguono la


regolarità maggioritaria, ma hanno una
loro regolarità, in quanto tutti, tranne i

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bambini formano i participi aperto e coperto e non le forme ‘regolari’ *aprito e


*coprito.
Quindi: le regole non sono norme, leggi cui obbedire pena la punizione, sono
meccanismi che regolarmente entrano in funzione per creare forme morfologiche,
alterazioni lessicali, frasi, periodi, testi.

Per approfondimenti sull’insegnamento della grammatica, restando solo tra i


volumi e a partire dal 2000, indichiamo:
- per un inquadramento generale Giunchi 2000; Siviero 2007; Lorenzi
2008 che affronta il problema della terminologia, focalizzando la L1
ma con molte riflessioni utili alla L2 e LS; Torresan, Della Valle,
2013; Favilla, Nuzzo, 2015;
- orientati verso l’italiano L2 sono: Andorno et al. 2003; in parte Lo
Duca 2004, anche se prevalentemente si occupa di italiano L1; Grassi
et al. 2008, che presenta il passaggio dagli studi acquisizionali a quelli
didattici; Corrà, Paschetto 2011; Whittle, Nuzzo, 2015.
Quanto alla grammatica nell’insegnamento dell’italiano come lingua straniera, ci
sono vari saggi sparsi nelle riviste, ma non ci risultano studi monografici.

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2 Prima la grammatica? Prima il lessico?


È un falso problema – ma allo stesso tempo non è falso fino in fondo.
È falso se pensiamo di poter scindere la costruzione della competenza
morfosintattica dalla costruzione del vocabolario in uno studente non nativo,
come è il caso dell’italiano LS o L2. È una discussione inutile, anche se molta
linguistica ha discusso e discute tutt’ora se una lingua sia una grammatica
lessicalizzata, in cui la grammatica è il tronco e le parole le foglie, oppure in cui la
grammatica è la struttura in cemento armato e le parole sono i mattoni, oppure un
lessico grammaticalizzato: personalmente credo alla prospettiva del lessico che si
viene grammaticalizzando mano a mano che si cresce, ma sul piano della
domanda nel titoletto la discussione è oziosa.
Meno oziosa è l’osservazione, attribuita a S. D. Krashen, che quando si va in un
paese dove si parla una lingua diversa dalla nostra lingua madre ci si porta un
dizionario e non una grammatica: un insegnamento linguistico che privilegi la
morfosintassi prestando attenzione prima alla costruzione e poi all’arricchimento
del vocabolario è squilibrata.
Il Framework europeo per l’insegnamento linguistico supera la dicotomia ‘prima
il lessico / prima la grammatica’ assumendo invece una prospettiva pragma-
linguistica: la lingua viene intesa come strumento per comunicare, cioè per
compiere atti comunicativi (chiedere, dire l’età, descrivere un oggetto, ecc.) e
agire in un contesto sociale, cercare di raggiungere i propri scopi, di interagire con
l’ambiente sociale in ci si trova. In questa logica ‘funzionale’, discutere sulla
priorità cronologica e di importanza di lessico e grammatica è una perdita di
tempo, e quindi chiudiamo il paragrafo.

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3 La grammatica dei suoni


Mentre la descrizione ortografica dell’italiano non lascia spazio a dibattito (anche
se ci potrebbe essere: in un’Italia dove pochissimi studiano latino, ha ancora senso
la differenziazione etimologica tra sufficiente e soddisfacente?), è chiara ed
assodata, la descrizione fonetica e quella fonologica meritano una riflessione,
nella prospettiva dell’insegnamento della lingua italiana non solo a stranieri ma
anche a parlanti nativi.
L’Italia ha una carta sociolinguistica estremamente complessa (Santipolo 2017)
non solo per la compresenza dell’italiano e dei cosiddetti dialetti (che sono lingue
a tutti gli effetti, sul piano linguistico), ma anche per l’impatto dei suoni dei
dialetti sull’italiano ‘regionale’: in Sicilia le vocali sono foneticamente più aperte
che nel Nord, in Toscana la a è più arretrata (quindi più aperta) che nel resto
d’Italia, e così via; dal punto di vista fonologico, al Sud manca l’opposizione tra s
sorda e sonora, propria dell’italiano; in Sicilia mancano le opposizioni tra e e o
aperte e chiuse, per cui le bòtte all’asino e la bótte del vino sono omofone, hanno
lo stesso suono; al Nord molte opposizioni è/é scompaiono e quindi vénti nomina
sia il numerale sia l’aria in movimento, pésca è sia il frutto sia l’attività del
pescatore – e così via.
Mentre in molti paesi stranieri ci sono delle varietà di prestigio abbastanza
standard cui si rifanno coloro che vogliono parlare le loro lingue ‘senza accento’,
in Italia, dal neorealismo in letteratura e in cinema in poi, gli italiani regionali
hanno avuto una legittimazione, e Camilleri, Malvaldi, Di Giovanni ed altri
letterati attuali, per non parlare del cinema, continuano a utilizzare le varietà
regionali come segno di adesione alla realtà linguistica della ‘gente’.
La televisione usa un italiano (abbastanza) standard solo nelle trasmissioni di
informazione, nei doppiaggi, nei documentari: i talk show, i vari format seguiti
dai ragazzi, come X factor, i reality show portano in scena, con il prestigio dato
dallo schermo, le pronunce regionali, e lo stesso fanno i cantanti nelle loro
canzoni, soprattutto nel rap dove la lingua gioca il ruolo primario, e i politici nei
loro discorsi pubblici.
Il problema della mancanza di una forma di prestigio di riferimento, insieme alla
consapevolezza che un accento molto marcato è un handicap ma un accento lieve
non preclude la comunicazione e non qualifica socialmente, hanno portato a
ignorare l’ortoepia nella formazione scolastica degli ultimi 50 anni, quindi nel
periodo di formazione dei docenti: quanti sanno che, di norma, in italiano la e
tonica è aperta, a meno che in latino non ci fosse una i (per cui da viginta e piscis
derivano le e chiuse di venti e pesce)? E quanti sanno il latino per poter risalire
etimologicamente alla parla d’origine?
Le regole fonetiche e fonologiche non sono conosciute e quindi non vengono
insegnate agli studenti di madrelingua, mentre con gli studenti non nativi che
studiano italiano L2 ci si affida all’imitazione della pronuncia diffusa
nell’ambiente; in italiano LS il modello è fornito dagli audio che fanno parte
integrante dei manuali: di solito è un italiano standard, ma in A2 o in B1, quando
si incominciano ad ascoltare canzoni, pubblicità ed altri testi autentici scaricati da
internet, la sorpresa è inevitabile: l’italiano non è né quello degli audio del

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manuale né quello dell’insegnante di madrelingua (se è di madrelingua, il che non


è frequente), è una cosa fluida, cangiante… e il concetto stesso di regolarità, di
regola, nel senso di cui al paragrafo 2, scompare.

Un problema particolare è dato dagli studenti di alcune lingue, che non conoscono
alcune opposizioni proprie dell’italiano, ad esempio tra s sorda e sonora (assente
in spagnolo), tra r e l nel caso dei cinesi, tra t/d per i tedeschi, f/v e p/b per arabi e
estremo-orientali, tra b/v per sudamericani ispanofoni, ecc. Esistono dei manuali
specifici, che descrivono questi problemi (Luise 2003, nel secondo volume
include saggi sugli studenti di origine slava, cinese, arabi, albanese; D’Annunzio
2009, Rastelli 2010 Rastelli, Bonvino 2011 riguardano i cinesi; Giacalone Ramat
et al. 2001, e Della Puppa 2006, riguardano gli studenti arabofoni; Celentin,
Cognigni 2006 riguarda gli studenti di origine slava), ed esistono delle tecniche
didattiche per far ‘sentire’ queste opposizioni, e da lì per muovere poi a farle
‘produrre’ (si vedano i nostri volumi sulla didattica dell’italiano, del 2014, e sulle
tecniche didattiche, del 2013 per un approfondimento; nel manuale il Balboni-A1
abbiamo inserito degli audio appositi, reperibili gratuitamente in
www.bonaccieditore.it, per la correzione fonetica).

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4. La grammatica dei grafemi, l’ortografia


La tradizione vuole che l’italiano si scriva come si pronuncia.
Chiunque abbia esperienza di insegnamento a stranieri sa bene che non è così:

a. non viene indicato l’accento tonico se non nelle parole tronche, anche se
molte parole omografe si distinguono proprio per l’accento, come
càpitano/capitàno, àncora/ancòra
b. alcune parole monosillabe, che sono per definizioni tronche, hanno cioè
l’accento sull’unica e ultima sillaba, usano l’accento, ma non per indicare
la sillaba tonica, bensì per poterle discernere da altre omografe: sì/si, sé/se,
lì/li, là/la, è/e; si noti che sé è privo di accento se non c’è rischio di
confusione, come in se stesso, se medesimo; di solito gli altri monosillabi
non sono accentati, con l’eccezione di già;
c. pochissimi italiani sanno che alla fine di una parola la è accentata è sempre
acuta (di solito ci pensa il correttore automatico di Word a uniformare),
tranne in è, cioè, tè, caffè, Noè.

La natura dell’accento italiano è dunque diversa da quella di altre lingue: in


francese indica aperto/chiuso sulla e o distingue parole sulla a; in spagnolo è
sempre acuto ed è sempre scritto nelle parole che non sono piane: queste
differenze creano problemi negli apprendenti.
Un’altra gamma di fonemi che si trascrivono in maniera null’affatto parallela tra
pronuncia e scrittura sono c e g (non usiamo la trascrizione fonetica perché nella
trasmissione online spesso si ‘sformatta’, quindi ricorriamo a terminologie e segni
tradizionali, ma non per questo meno chiari) nelle varianti velare o dura e palatale
o dolce:
- la c sorda viene rappresentata come c, cc, cq, q, ch, cch ed è parte di x;
la g velare ha corrispondenze con g, gg, gh, ggh: la ‘semplicità’ della
grafia italiana mostra la corda…;
- la c e la g dolci o palatale sono pronunciate senza problemi di
introduzioni di altre lettere davanti a e ed i, ma richiedono una i muta
(ma che nelle varietà del nord si sente, e che forma sillaba a sé in sci-
are) davanti a a, o, u;
- lo stesso meccanismo si applica al digramma sc, che non richiede la i
in scemo, mentre la richiede in sciancato, sciocco, sciupare; in questi
casi, se non c’è la i non è più un digramma, cioè un gruppo di due
lettere per un unico fonema, ma sono due fonemi/grafemi separati,
come in scacco, scocca, scuro.

Gli italiani madrelingua raggiungono una padronanza di questi meccanismi alla


fine della scuola primaria, ma spesso anche a livello universitario hanno problemi
in alcune variazioni:
- questioni etimologiche regolano in alcuni casi la presenza della i dopo
la c: dal latino scio derivano scienza, che entra in immediato conflitto
con l’affine conoscenza, senza i; altre due parole simili, sufficiente e

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soddisfacente creano ancor più problemi e la differenza è raramente


nota agli italiani, che sbagliano ad ogni livello di istruzione;
- per qualche arbitraria ragione, non giustificata da necessità di uso, i
plurali di parole in ca/ga richiede la i se davanti a c/g c’è una vocale
(camicia → camicie, valigia → valigie) ma non se c’è una consonante
(roccia → rocce, pancia → pance, spiaggia →spiagge): molti italiani,
anche all’università, ignorano la logica vocale + c/g o consonante + c/g
e affidano al correttore automatico, se mai sono consapevoli del
problema, la correzione ortografica; altrimenti considerano questi casi
‘eccezioni’, non si sa a quale ‘regola’.

Un segno che provoca problemi anche a italiani laureati è l’apostrofo in due casi:
- po’ viene sempre più spesso scritto, anche in testi pubblici e in
giornali, come pò; ormai scomparse sono due parole che si
comporterebbero come po’ e cioè mo’ per ‘modo’ e pie’ per ‘piede’;
anche editori molto seri scrivono, nelle loro guide di stile, ‘note a piè
di pagina’;
- un altro, e come questo esempio tanti altri in cui l’articolo
indeterminativo maschile precede una parola che incomincia per
vocale, è spessissimo scritto un’altro, salvo correzione automatica del
computer; d’altra parte per analogia con l’omologo determinativo lo
dovrebbe essere apostrofato davanti a vocale…

Perché abbiamo indugiato in questo florilegio di norme ortografiche?


Semplicemente per sfatare l’idea che l’italiano si scriva come si pronuncia, e che
quindi non sia necessario provvedere alla didattica di questa grammatica,
affidandola all’intuizione – che non aiuta e che porta ad errare anche i
madrelingua scolarizzati italiani.

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Attività 1.
Prova a riflettere sulle tue esperienze di studente/-essa e insegnante di lingua.
Come studente/-essa:
a. Ritieni che i tuoi insegnanti abbiano privilegiato la competenza d’uso,
la competenza sull’uso o abbiano trovato il modo di sviluppare
entrambe in modo armonico?
b. Qual è stato il risultato? Hai raggiunto la competenza comunicativa?
c. Quando ti hanno insegnato le lingue straniere, che ruolo ha svolto
l’apprendimento del lessico?
Come insegnante:
a. Dai la priorità al lessico o alla grammatica?
b. Come affronti gli argomenti di grammatica in classe?
c. Quali tecniche adotti per far imparare il lessico?

Attività 2.
Ne Il Balboni (http://www.bonaccieditore.it/come-e-strutturato-il-manuale.n3701)
si dice che “una regola grammaticale viene prima intuita e poi, con l’aiuto del
manuale e sotto la guida sapiente del docente, solo successivamente
sistematizzata, senza trovare quasi mai la “regola” pronta all’uso: se non si usa
la testa autonomamente, non si acquisisce stabilmente”). Alcuni studi di caso
indicano invece che la supremazia nell’uso della lingua degli studenti che hanno
seguito modalità induttive rispetto a quelli che hanno seguito un insegnamento di
tipo deduttivo non è così evidente.
Qual è la differenza tra “insegnamento della grammatica” e “riflessione
linguistica”? Secondo te che cos’è più utile: insegnare la grammatica o
promuovere la riflessione linguistica? In quali situazioni didattiche è meglio usare
l’una o l’altra? Quali possono essere i vantaggi di una riflessione esplicita e
strutturata sui meccanismi di funzionamento della lingua?
Ti sei mai interrogato/a sul perché sia importante sviluppare insieme alle abilità
d’uso anche le abilità sull’uso?

Attività 3.
La competenza comunicativa e metacomunicativa comprende non solo tutti gli
aspetti di una lingua (fonemico, grafemico, lessicale, morfosintattico e testuale)
ma anche le grammatiche extralinguistiche. Come tenere conto di questi aspetti e
stimolare la riflessione sulle regole che governano l’uso sociale e pragmatico della
lingua? Fate degli esempi concreti.

Attività 4.
Prova a riflettere sulle seguenti questioni a partire dai manuali che hai in adozione
o che conosci.
a. È data la precedenza alla grammatica o al lessico? Oppure grammatica
e lessico sono integrati? Se sì, come? Se no, perché secondo te?
b. Quali tecniche glottodidattiche sono impiegate per soffermarsi su
ortoepia e ortografia? Ti sembrano appropriate? Faresti delle
modifiche e/o integrazioni? Se sì, quali?

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5. La grammatica della forma e della combinazione


La morfosintassi, come abbiamo detto, domina la scena glottodidattica. In realtà è
con il XVII secolo che essa assume un ruolo centrale.
In Francia C. Lancelot compila la Grammaire générale et raisonnée (1660),
fondata su principi razionalisti e logici: è il punto di riferimento per almeno due
secoli; in Inghilterra nello stesso anno 1660 viene fondata la Royal Society, per
iniziativa di John Evelyn, ed è in quella sede che si fanno le prime sintesi
grammaticali ufficiali dell’inglese; in Italia, nel 1612 viene stampato a Venezia il
Vocabolario degli Accademici della Crusca, basato su uno spoglio del corpus
letterario e molto attento anche a questioni morfologiche. L’idea che il lessico
andasse trattato come aveva fatto l’Accademia italiana e la grammatica come
avevano fatto gli studiosi di Port Royal si impone di pari passo con
l’insegnamento del latino come lingua ‘morta’, mentre fino a tutto il XVI secolo
era stata lingua viva, parlata correntemente tra gli intellettuali.
Questa tradizione impatta sulle scuole italiane (gestite soprattutto dai Gesuiti, dai
Barnabiti e dagli Scolopi) con la grammatica del celebre purista napoletano
Basilio Puoti: l’insegnamento mira al purismo, ogni accettazione della lingua
corrente è bandita; Benedetto Croce argina lo tsunami grammaticalistico
contrastando l’idea che le ‘norme’ grammaticali, soprattutto quelle basate su un
purismo statico, siano infondate, prive di una logica sostanziale; nel 1913
Giuseppe Lombardo Radice, con la sua riforma della scuola elementare, rinnova
completamente l’idea di lingua ‘corretta’ e quindi di grammatica; negli anni
Trenta, i pieno regime fascista, Giovanni Gentile convince Mussolini a dare
l’autorizzazione a una serie di volumetti coordinati da Bruno Migliorini, il
massimo linguista del tempo, per il passaggio dai vari dialetti all’italiano: sono
volumetti (oltre 200, nelle previsioni; molti di meno quelli realizzati, anche se non
si ha il numero preciso) di grammatica comparativa tra i dialetti e l’italiano,
finalizzati non più a un purismo classico ma all’efficienza comunicativa nella
lingua del Regno.
Negli anni Settanta, ad opera del GISCEL e delle sue Dieci Tesi per
un’educazione linguistica democratica, il concetto tradizionale di ‘grammatica’,
che nella prassi didattica era restato immutato, ‘esplode’, facendo proprie le
istanze del sociopedagogista britannico Bernstein (famoso per nozioni come
‘deprivazione verbale’, ‘codice elaborato e codice ristretto’), di Don Milani e
della sua Lettera a una professoressa, e il Libro di italiano di Raffaele Simone, e
soprattutto alla sua guida didattica del 1979, che affossano definitivamente l’idea
normativa di grammatica nel mondo della scuola – anche se all’atto pratico la
focalizzazione sull’analisi logica e grammaticale rimane immutata, affiancandosi
però all’analisi sociolinguistica e a quella testuale, su tipi e generi di
comunicazione scritta e orale.

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La logica comparativa (o contrastiva, nelle


La linguistica funzionale
prime versioni degli anni Cinquanta e Le funzioni espletate dalla lingua sono state oggetto
Sessanta) è alla base delle grammatiche dell’attenzione dei linguisti pragmatici e dei logici
pensate per l’insegnamento / per tutto il Novecento, con nomi prestigiosi quali
apprendimento di una lingua non nativa, Cassirer, Bȕhler, Jakobson, Halliday.
In particolare, Roman Jakobson ha una visione
ma a metà degli anni Sessanta il Modern ‘ontogenetica’, che descrive un modello astratto di
Language Project /Projet Langues comunicazione basato su sei elementi e, a seconda
Vivantes del Consiglio d’Europa dell’accentuazione dello scopo su uno di questi,
(fondamento dell’approccio comunicativo individua sei funzioni:
• l’uso focalizzato sull’emittente realizza la
e del Quadro Comune Europeo di funzione personale o espressiva,
Riferimento degli anni Novanta) • la lingua orientata sul destinatario realizza la
abbandona la focalizzazione funzione conativa (in altri modelli si usa
morfosintattica a favore di quella appellativa),
• la focalizzazione sull’argomento è la funzione
pragmalinguistica: J.L.M. Trim, il linguista referenziale,
che cura questo progetto, è un allievo di • l’uso della lingua per mantenere vivo il canale
Austin, autore di How to Do Things with realizza una funzione fàtica,
Words (1962), e quindi il focus si sposta • la lingua usata per parlare di se stessa o, più in
generale, dei codici di comunicazione svolge una
dai meccanismi di funzionamento funzione metalinguistica,
morfosintattici a quelli socio-pragmatici, in • l’uso della lingua focalizzato sulla lingua stessa,
termini di atti comunicativi e funzioni del sulle sue caratteristiche semantiche o formali,
linguaggio. svolge la funzione poetica.
L’australiano Halliday ha una visione ‘filogenetica’,
che descrive lo sviluppo funzionale durante
Quindi, quando si parla di grammatica ci si l’acquisizione della lingua. Riportiamo qui le sue tre
trova di fronte a due prospettive: un macro-funzioni, ciascuna articolata in funzioni di
corsista del Master Itals che proviene dalla rango inferiore che si sviluppano con la crescita
della competenza comunicativa (termine che
laurea in lettere (comunque essa si chiami Halliday non usa):
dopo le riforme Moratti e Gelmini) e che • funzione ideativa o significativa, espletata dalla
ha esperienza di insegnamento di ‘lettere’ lingua nel momento in cui veicola informazioni,
ha comunque un ‘interesse per la • funzione interpersonale, che realizza e gestisce
la relazione tra i locutori,
descrizione linguistica, per l’analisi, che ha • funzione testuale, che governa la struttura del
uno scopo cognitivo più che comunicativo; discorso all’interno delle coordinate contestuali
chi proviene da una laurea in lingue o da e situazionali.
Esiste un’altra accezione di ‘funzione’, che abbiamo
un insegnamento in questo ambito ha
visto parlando del metodo nozionale-funzionale
un’idea completamente diversa di (1.4.5), e cioè le communicative functions minime
‘grammatica’, e un’ulteriore quali ‘salutare’, ‘ringraziare’, ‘chiedere l’ora’ e così
sottodifferenziazione va trovata tra i via: proprio per evitare la confusione tra le accezioni
di funzioni abbiamo chiamato quelle di rango
docenti di inglese (una lingua con una
minore atti comunicativi.
morfosintassi molto ridotta, e dove
l’efficacia comunicativa prevale Da BALBONI P.E., Le sfide di Babele, Torino, Utet
4
fortemente sulla correttezza linguistica e Università, 2015
l’appropriatezza sociolinguistica) e docenti
di lingue romanze e di tedesco e russo, che
sono molto più attenti ai problemi
morfosintattici.

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In questa riflessione sulla morfosintassi finalizzata alla formazione di docenti di


italiano come lingua seconda o straniera, si aggiunge un elemento importante, da
almeno una trentina d’anni: le riflessioni della linguistica acquisizionale.
Prendiamo dal nostro Le sfide di Babele (2015) questa scheda:

La linguistica acquisizionale

La linguistica acquisizionale studia una realtà chiamata ‘interlingua’, cioè la lingua usata
da una persona che sta apprendendo una lingua e che rappresenta una porzione
dell’intero sistema linguistico posseduto da un nativo.
Lo schema che abbiamo dato all’inizio del paragrafo 1 presenta un diagramma
strutturale della competenza comunicativa; è possibile averne anche un diagramma
dinamico, evolutivo, che parte dal punto “zero” di competenza e rende visibile il
progressivo aumento del volume complessivo della competenza:





Livello 0

Livello A1
Livello A2

Livello B1



Il grafico si legge in questo modo:
- le cinque facce della piramide corrispondono ai cinque componenti del modello
strutturale visto sopra:
- due facce sono visibili nel mondo della comunicazione reale, quelle legate alla
padronanza e alla pragmatica,
- le altre tre facce non sono visibili perché costituiscono la dimensione mentale, le
competenze.

Sono poi indicati dei “tagli”, che creano piramidi di volume via via più maggiore:
l’acquisizione allarga via via il volume spostando la base verso destra. Va da sé che se
viene curata una sola faccia, ad esempio l’aspetto grammaticale a scapito di quello
pragmatico, la base non è più perpendicolare all’asse della piramide, e quindi questa
risulta sghemba, squilibrata.
Non è possibile acquisire una sezione centrale della piramide, ma si deve
necessariamente partire dal punto 0, costruendo la propria competenze secondo
sequenze d’acquisizione che vengono studiate dalla linguistica acquisizionale: tali
sequenze sono ‘implicazioniali’: per essere acquisito, cioè inserito nella propria memoria
stabile, ciascun elemento implica la presenza di altri elementi già acquisiti, secondo la

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logica della ‘zona di sviluppo prossimale’ (Vygotsky) o dell’ ‘ordine naturale’ (Krashen): il
nuovo si salda all’input interiorizzato solo se è l’elemento immediatamente successivo
(ordine naturale) o in piena prossimità (sviluppo prossimale) alla competenza già
acquisita.
Ciò significa, ad esempio, che alcuni errori non sono ‘colpa’ dello studente ma sono
propri di alcuni stadi dell’interlingua, e quindi vanno trattati come spie dello stadio di
uno studente piuttosto che come effetti dell’interferenza dalla lingua materna o come
mancanza di ‘applicazione nello studio’, secondo una parola cara agli insegnanti.
La nozione fondamentale, secondo Selinker (il creatore del termine ‘interlingua’), è che
l’interlingua è un sistema a sé, per quanto parziale: non è strutturato a caso, prodotto
dell’input dell’insegnante nella lingua straniera o dell’ambiente nell’acquisizione
spontanea ad esempio da parte di immigrati, è un sistema che ha le sue basi nella
grammatica universale (patrimonio innato, che sottostà a tutte le lingue naturali), oltre
che nella lingua materna (che comunque interferisce) e soprattutto nella lingua che si
sta apprendendo: in italiano, ad esempio, l’interlingua nella sua varietà basica include un
passato generico, con la forma in -to, come ‘andato’, ‘coprito’ (che nulla ha a che fare
con il participio passato) e che poi si articola progressivamente nei passati perfettivi e,
poi, imperfettivi.
L’interlingua quindi non è una competenza ‘sbagliata’, è una competenza ridotta,
parziale, ma con una sua struttura, ha dei suoi meccanismi – soprattutto quello di
generalizzazione, da cui derivano i passati ‘aprito’ e ‘prenduto’ – che rendono comunque
l’interlingua efficiente nel comunicare, per quanto con mezzi ridottissimi che producono
‘errori’. Ma un ‘errore’ prevedibile in quel dato stadio interlinguistico non è più un
‘errore’, è una produzione propria di quello stadio di acquisizione. E un insegnamento
mirato su quell’errore, con spiegazioni ed esercitazioni, non serve che a demotivare lo
studente facendolo sentire incapace: quell’errore si verifica perché la grammatica
mentale di quello studente, a quel dato punto di evoluzione dell’interlingua, non
prevede l’esecuzione corretta che invece arriverà, in modo naturale (e questo aggettivo
è la chiave) in uno stadio successivo.
Come aiutare il progredire di una interlingua in modo che sia sempre più vicina a quella
di un madrelingua?
Per gli studiosi di matrice chomskyana è la grammatica universale innata a guidare il
processo, in maniera quasi automatica, ed i risultati insoddisfacenti derivano o dalla
casualità (alcune forme non sono mai comparse significativamente nell’input ricevuto da
quella persona) o dalla limitatezza della sua memoria: l’acquisizione di una lingua
straniera segue percorsi e meccanismi simili a quelli dell’apprendimento della lingua
materna.
L’esperienza didattica non concorda tanto con questa ipotesi quanto piuttosto con
quella di studiosi cognitivisti, che notano come l’apprendimento della lingua materna sia
spontaneo, mentre quello della lingua straniera coinvolga persone che non solo sanno
già cosa vuol dire sapere una lingua – ne sanno già almeno una, da nativi; e gli studenti
di italiano nel mondo hanno già studiato almeno l’inglese – ma sanno anche che stanno
imparando una lingua, sanno cosa vogliono imparare perché sanno quel che vogliono
dire: hanno strategie, compiono atti, confrontano la lingua che stanno apprendendo con
quella o quelle che sanno già (e questo può produrre errori di interferenza, ma lo
studente può scoprire, anche con l’aiuto dell’insegnante, che si tratta di interferenza e
quindi attivarsi per superarla).

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Ciò non significa che allo studente sia consentito di sbagliare impunemente, ma che ha il
diritto di sbagliare quel che non può ancora essere acquisito: la formula di Krashen è: è
acquisibile il livello i + 1, cioè quanto si trova a un solo passo da quanto è stato
interiorizzato, intaken.
Tuttavia la i della formula, cioè quello che è stato acquisito, non è una variabile
individuale, per cui ciascuno ha dei suoi percorsi e quindi possiede un i differente (al di
là di differenze nelle ultime regole interiorizzate): è legata alla struttura della lingua, cioè
alle sue sequenze di acquisizione che, come abbiamo detto sopra, richiedono la
presenza di elementi precedenti: la ‘zona di sviluppo prossimale’ implica che ci sia una
zona già consolidata, in prossimità della quale altre cose possono essere acquisite.
Derivata dal concetto di ordine naturale di acquisizione, c’è una variabile cognitiva,
studiata dalla teoria della processabilità di Pienemann: la mente è disponibile ad
imparare per prime le cose che richiedono meno sforzo cognitivo, ciò che è più ‘facile’.
‘Facile’ non significa solo più vicino alla lingua materna, o più semplice, o più frequente,
ma piuttosto che è più facile da osservare nell’input, più evidente a quello stadio dello
sviluppo interlinguistico, più utile per poter comunicare efficacemente.
4
Da BALBONI P.E., Le sfide di Babele, Torino, Utet Università, 2015

La morfologia italiana, come quelle di tutte le lingue romanze, è complessa – in


particolare per quanto concerne i pronomi e il verbo; i principali punti di difficoltà
per studenti stranieri sono:

a. i pronomi personali

già lo schema tipico dei pronomi porta problemi

singolare plurale
prima persona io noi
seconda persona tu, lei voi
terza persona egli, lui, esso essi, esse, loro
ella, lei, essa

Anzitutto in molte aree del Sud i pronomi di seconda persona singolare che gli
studenti trovano quando vengono in Italia o vedono film ambientati al Sud o
ascoltano i vecchi emigranti italiani (non solo del Sud) c’è il pronome familiare
tu, c’è il pronome di cortesia e distacco lei e c’è il pronome di rispetto voi, mentre
in Lazio e Toscana spesso il tu è dilagante, come nei giovani di ogni regione,
anche verso sconosciuti; ci sono poi esso/a, egli/ella ed essi/esse che di fatto sono
spariti all’orale, ma sono ancora presenti allo scritto – ma insegnanti di italiano
cresciuti in Italia ed emigrati 50 anni fa continuano ad usarli in molte classi.
Spesso non viene citato l’uso dell’impersonale per la prima persona singolare,
ritenendo che sia proprio del dialetto toscano, mentre è in forte diffusione. E allo
stesso modo non viene citato il soggetto singolare te, originariamente centro-
italiano, oggi in violenta diffusione tra i giovani.

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Il problema per gli stranieri arriva comunque sui pronomi personali complemento:
- c’è una divisione tra forme toniche ed atone che spiazzi chi non viene
da madrelingue neolatine;
- la forma atona di terza persona lo/la/le è uguale ad alcuni articoli e
all’orale è omofona di l’ho, l’ha e questo provoca molti problemi nella
comprensione;
- la terza persona plurale ha una forma riflessiva, sé/si, difficile da far
comprendere;
- nel complemento di termini spesso nell’italiano che gli studenti
ascoltano negli spezzoni autentici trovano gli anche con il femminile, e
al nord trovano ci per entrambi i generi;
- con i modi indefiniti e con l’imperativo, i pronomi atoni si fondono al
verbo in posizione conclusiva (portami, guardandolo) e richiedono il
raddoppiamento nei monosillabi (dimmi, falle, vatti, dacci, ma non gli)

Un altro punto di difficoltà è nei problemi accoppiati

mi ti gli/le si ci vi Gli Si
lo me lo te lo glielo se lo ce lo ve lo Glielo se lo
la me la te la gliela se la ce la ve la Gliela se la
li me li te li glieli se li ce li ve li Glieli se li
le me le te le gliele se le ce le ve le Gliele se le
ne me ne te ne gliene se ne ce ne ve ne Gliene se ne

Dove il cambiamento da i a e nel dativo e la comparsa di una e nella terza persona


si presenta per gli stranieri come un sistema pronominale nuovo, non una
semplice variazione di quanto già hanno acquisito. A questo si aggiunge la
compresenza di e e i nell’accoppiamento con il pronome ci di luogo:

mi ti lo la ci vi li le Si ne
diretti mi ci ti ci ce lo ce la non vi ci ce li ce le ci si ce ne
esiste

b. i pronomi ci e ne

risultano particolarmente complessi per studenti stranieri quando riprendono


un’intera frase:
sei sicuro di poterlo fare? → ci puoi contare, ne sono sicuro
in cui sia ci sia ne stanno per l’intera domanda.

c. Pronomi e aggettivi dimostrativi

C’è una difficoltà immediata in quello:


- Quando è pronome, ha solo quello e quelli come forme maschili;

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- Quando è aggettivo (ma molti studenti stranieri non hanno esperienza


di analisi grammaticale, come vedremo sotto), rimanda all’articolo e
all’aggettivo bello:

SINGOLARE PLURALE
MASCHILE
davanti a consonante Quel quel bambino quei quei bambini
davanti a S + Quello quello studente quegli quegli studenti
consonante, Z, PS,
GN, X
davanti a vocale quell' quell'albero quegli quegli alberi
FEMMINILE
davanti a consonante Quella quella casa quelle quelle case
davanti a vocale quell' quell'ape quelle quelle api

Infine, gli stranieri si stupiscono del fatto che il pronome quello – e non questo –
si usa per evitare la ripetizione di un sostantivo e prima dei pronomi relativi.

d. Pronomi relativi

Godono di fama negativa, ma in realtà non sono molto complessi per gli studenti
stranieri, se si eccettua cui, soprattutto al dativo in cui si può eliminare la
preposizione a e al genitivo in cui, collocato tra articolo e nome, perde la
preposizione di:
- La persona (a) cui hai prestato il libro
- La persona il (di) cui libro mi hai prestato

e. La complessità morfologia dei verbi

I verbi italiani hanno oltre 90 forme, laddove i verbi inglesi (lingua che gli
studenti hanno quasi sempre già studiato quando intraprendono un corso di
italiano, e che quindi serve da parametro, da punto di riferimento su che cosa
significhi imparare una lingua e come lo si debba fare) al massimo ne hanno 5
(speak, speaks, spoke, spoken, speaking). Se si aggiunge che i verbi di largo uso
in italiano sono spesso irregolari, si coglie uno dei grandi punti di difficoltà.
Una sintesi delle irregolarità è la seguente, che può essere molto utile da
presentare agli studenti stranieri:

a. Presente indicativo e congiuntivo: di solito sono irregolari la 1a e la 6a


persona, per cui nella tabella si trova: salire → salgo, 2, 3, 4, 5, salgono,
per indicare che le persone 2, 3, 4, 5 sono regolari; la pronuncia della 6a
persona ha sempre l’accento nella terzultima sillaba: salgono. Le
irregolarità del presente indicativo ritornano nell’imperativo e nel presente
congiuntivo, dove però le persone 1, 2, 3 sono tutte uguali, quindi nella
tabella è scritta solo una volta: salga, salga, salga, saliamo, salite, salgano
diventa salga, 3, 4, salgano.

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b. Imperfetto indicativo e congiuntivo, gerundio: le poche irregolarità si


limitano alla radice, ad esempio bere → bev+… in cui al posto dei puntini
ci vanno le desinenze delle sei persone; sono pochissimi casi, i più comuni
sono dire → dic+… e fare → fac+…
c. Futuro e condizionale: come nell’imperfetto, le poche irregolarità sono
nella radice: andare → andr+…, tenere → terr+…
d. Passato remoto e participio passato: molti verbi, detti ‘verbi forti’, sono
irregolari solo in questi due tempi; nel passato remoto di solito sono
irregolari la 1a, 3a, 6a, mentre le persone 2a (tu), 4a (noi) e 5a (voi) sono
regolari; il participio passato corrisponde abbastanza spesso alla 1a persona
del passato remoto, con la desinenza -o.

Per gli irregolari, una soluzione è quella di individuare famiglie di irregolari, sia
per composizione attraverso prefissi (porre, comporre, scomporre, disporre,
preporre, anteporre) sia per combinazioni particolari di fonemi prima della
desinenza (spendere, accendere, comprendere, prendere e molti altri verbi in -
dere formano gran parte delle loro forme irregolari allo stesso modo): una lista dei
verbi irregolari suddivisi per le venti principali famiglie è disponibile
gratuitamente nelle pagine dedicate a il Balboni in www.bonaccieditore.it.
Le principali famiglie sono queste; il verbo sottolineato è quello usato come
modello per gli altri verbi della stessa famiglia:

1. -cìdere: decidere, coincidere, incidere, uccidere


Passato remoto: incisi, 2, incise, 4, 5, incisero; participio
passato: inciso
2. -correre: correre, discorrere, occorrere, percorrere, rincorrere,
scorrere, soccorrere
Passato remoto: corsi, 2, corse, 4, 5, corsero; participio
passato: corso
3. -durre: condurre, introdurre, produrre, ridurre, sedurre, tradurre
Presente, imperfetto, gerundio: conduc+…; passato remoto:
condussi, conducesti, condusse, conducemmo, conduceste,
condussero; participio passato: condotto
4. -èdere: accedere, concedere, procedere, succedere
Passato remoto: concessi, 2, concesse, 4, 5, concedettero;
participio passato: concesso
5. -èndere: accendere, apprendere, attendere, comprendere, difendere,
dipendere, intendere, offendere, prendere, rendere,
scendere, sorprendere, spendere, tendere
Passato remoto: accendere → accesi, 2, accese, 4, 5,
accesero; participio passato: acceso
6. -gere, -guere: aggiungere, avvolgere, coinvolgere, dipingere, fingere,
giungere, piangere, pungere, raggiungere, spingere,
svolgere, ungere, volgere | estinguere, distinguere
Passato remoto: spingere → spinsi, 2, spinse, 4, 5, spinsero;
participio passato: spinto

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Passato remoto: volgere→ volsi, 2, volse, 4, 5, volsero;


participio passato: volto
Passato remoto: giungere → giunsi, 2, giunse, 4, 5,
giunsero; participio passato: giunto
7. -èggere, -ìgere: correggere, dirigere, erigere, proteggere, reggere
Passato remoto: diressi, 2, diresse, 4, 5, diressero; part.
passato: diretto
8. -mettere: ammettere, commettere, compromettere, emettere, mettere,
promettere, scommettere, smettere, trasmettere
Passato remoto: misi, 2, mise, 4, 5, misero; participio
passato: messo
9. -muovere: commuovere, muovere, promuovere, rimuovere
Passato remoto: mossi, 2, mosse, 4, 5, mossero; participio
passato: mosso
10. -òndere: corrispondere, nascondere, rispondere,
Passato remoto: risposi, 2, rispose, 4, 5, risposero;
participio passato: risposto
11. -òrgere: accorgere, porgere, sorgere
Passato remoto: porsi, 2, porse, 4, 5, porsero; participio
passato: porto
12. -porre: comporre, contrapporre, deporre, disporre, esporre, imporre,
opporre, proporre, porre, sottoporre
Presente: pongo, 2, 3, 4, 5, pongono; Passato remoto: posi,
2, pose, 4, 5, posero; Futuro e Condizionale: porr+…;
Congiuntivo: ponga, poniamo, poniate, pongano; participio
passato: posto
13. -rire: apparire, comparire, scomparire
Presente: appaio, 2, 3, 4, 5, appaiono; Passato remoto:
apparvi, 2, apparve, 4, 5, apparvero; Congiuntivo:
appai+…; participio passato: apparso
I verbi aprire, coprire, offrire hanno il participio passato in
-erto.
14. -dere: accludere, confondere, deludere, diffondere, escludere,
fondere, esplodere, illudere, includere
Passato remoto: acclusi, 2, accluse, 4, 5, acclusero;
participio passato: accluso
15. -ogliere: accogliere, cogliere, raccogliere, sciogliere, togliere
Presente: tolgo, 2, 3, 4, 5, tolgono; Passato remoto: tolsi, 2,
tolse, 4, 5, tolsero; participio passato: tolto
16. -olvere: assolvere, dissolvere, risolvere
Passato remoto: assolsi, 2, assolse, 4, 5, assolsero;
participio passato: assolto
17. tenere: appartenere, contenere, intrattenere, mantenere, ottenere,
ritenere, sostenere, tenere, trattenere
Presente: tengo, 2, 3, 4, 5, tengono; Futuro e condizionale:
terr+…; Passato remoto: tenni, 2, tenne, 4, 5, tenemmo

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18. trarre: attrarre, contrarre, distrarre, sottrarre, trarre


Presente: traggo, trai, trae, traiamo, traete, traggono;
Imperfetto: trae+…; Futuro e condizionale: trarr+…;
Passato remoto: trassi, traesti, trasse, traemmo, traeste,
trassero; Participio passato: tratto
19. -umere: assumere, presumere, riassumere
Passato remoto: assunsi, 2, assunse, 4, 5, assunsero;
participio passato: assunto
20. venire: avvenire, convenire, divenire, intervenire, venire
Presente: vengo, vieni, viene, 4, 5, vengono; Futuro e
Condizionale verr+…; Passato remoto: venni, 2, venne, 4, 5,
vennero

f. Il sistema del passato

La maggiore difficoltà non sta tanto nella complessità dei tempi (al solo
indicativo: imperfetto, passato prossimo, trapassato prossimo, passato remoto,
trapassato remoto, futuro anteriore, futuro nel passato), quando nella disparità tra
italiano orale e italiano scritto, italiano quotidiano e italiano letterario, italiano del
Nord e del Sud.
In linea di massima, il passato remoto sta recedendo dall’uso (ovunque, non solo
al nord, dove non si è mai usato) a favore del passato prossimo, tranne nelle
narrazioni; il trapassato remoto sparisce a sua volta, sostituito dove possibile da
forme implicite (quando fummo partiti, ci rendemmo conto che avevamo preso il
treno sbagliato).
Sopra abbiamo citato un altro punto di estrema difficoltà per gli studenti stranieri:
le forme esplicite, che abbiamo sia con il participio passato, come nella secondaria
temporale che abbiamo esemplificato sopra, sia con il gerundio per le causali:
dovendo partire, ho chiesto un po’ di soldi – sono possibili solo quando il
soggetto implicito della secondaria è lo stesso della principale, ma non se sono
diversi: dopo che fu partito, sentimmo nostalgia di lui oppure visto che doveva
partire, gli ho dato qualche soldo.
Ma tutta la consecutio temporum crea problemi, sia in generale sia in due casi
particolari:
- Il passaggio dal discorso diretto a quello indiretto, riportato;
- Il periodo ipotetico nelle sue tre forme.

g. Congiuntivo e condizionale

Ancora una volta la principale difficoltà è introdotta dall’uso che se ne fa nei


materiali linguistici autentici sempre più usati nell’insegnamento dell’italiano: tra
l’uso del congiuntivo e del condizionale che si ‘prescrive’ o ‘descrive’
nell’italiano formale e quello che si trova nella realtà, spesso anche in interviste
formali a personaggi con alte cariche istituzionali, la differenza è molto marcata.
Oltre alla combinazione dei due modi nel periodo ipotetico, che nell’italiano
popolare è spesso sbagliata (o viene superata con il ricorso all’imperfetto: se lo

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sapevo non venivo), il congiuntivo dopo i verbi di opinione, di necessità, di


timore, ecc., è in progressiva riduzione e appare ancora solido solo quando è retto
da congiunzioni come sebbene, purché, affinché, benché, nonostante, ecc., mentre
il condizionale si qualifica sempre più come il modo delle forme gentili (vorrei, si
potrebbe, mi piacerebbe ecc.) piuttosto che in frasi concessive o condizionali.

h. Scelta dell’ausiliare

In questo ambito la grande difficoltà viene da tre fonti:


- l’italiano usa due ausiliari, cui si aggiungono venire per il passivo,
andare per dovere + passivo, stare come indicatore dell’aspetto
progressivo; molte delle lingue che hanno ausiliari ne hanno uno solo;
- la scelta tra essere e avere dipende dalla transitività e dalla diatesi
verbale, cioè dalla natura transitiva o intransitiva e dalla forma attiva,
passiva, riflessiva: il problema è che molti studenti (e non solo
stranieri) non hanno abitudine all’analisi grammaticale e logica, per cui
mancano degli strumenti di scelta; tra l’altro, una conseguenza dell’uso
di essere o avere sta nella concordanza del participio passato del
tempo composto con il soggetto, concordanza che è richiesta solo nelle
frasi formate con essere, venire, andare;
- c’è una differenza tra nord e centro-sud, ma anche tra italiano standard
e italiano giovanile, nella scelta dell’ausiliare preceduto da potere,
volere, dovere in funzione di verbo modale: l’italiano standard prevede
l’uso dell’ausiliare del verbo principale: sono dovuto andare; nel Nord,
e sempre più spesso in tutti i contesti di italiano popolare, i tre modali
adottano il loro ausiliare, cioè avere, per cui l’esito è ho dovuto
andare.

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6 Grammatiche di riferimento
Ci sono vari tipi di grammatica cui l’insegnante può fare ricorso per avere quadri
generali o per risolvere dubbi:

a. grammatiche descrittive dell’italiano, che focalizzano la lingua anziché


l’utente, come nei casi che seguono. Sono grammatiche che possono
essere tradizionali (le nove parti del discorso, ecc.) o più in linea con la
ricerca linguistica teorica, e servono al docente, ma non allo studente
straniero;
b. grammatiche pedagogiche dell’italiano pensate cioè per studenti italiani:
questi sono madrelingua, e quindi la grammatica serve solo per riflettere
sulla lingua, il codice che padroneggiano meglio, imparando ad analizzare
e classificare: basta pensare all’analisi grammaticale; possono servire al
docente, perché molto spesso sono assai complete (e anche complesse,
basti pensare alle grammatiche valenziali di Francesco Sabatini), ma non
allo studente straniero;
c. grammatiche pedagogiche dell’italiano pensate cioè per studenti stranieri:
quasi tutti gli editori che operano in questo settore propongono
grammatiche di questo tipo, che di solito si articolano secondo le
tradizionali parti del discorso e, quasi sempre, alternano o mettono a fronte
descrizione grammaticale ed esercizi applicativi; sono adatte a studenti
dall’A2 finale in poi;
d. grammatiche da costruire, basate sul principio della pedagogia attivistica
di Dewey, learning by doing: lo studente ha lo ‘scheletro’ della
grammatica e deve compilarla mano a mano che scopre come funziona
l’italiano; per funzionare, deve essere accompagnata da una grammatica di
riferimento che abbia la stessa struttura in modo che lo studente possa
scrivere un’ipotesi a matita nella grammatica fai-da-te e poi confrontarla
con la grammatica di riferimento. Un esempio, limitato al A1+2 e
scaricabile gratuitamente in word è tra i materiali di accompagnamento del
manuale cui abbiamo già rimandato, in www.bonaccieditore.it.
L’insegnante può decidere di modificarla a seconda della lingua materna
dei suoi studenti, visto che si tratta di un file word;
e. grammatiche online, quasi sempre di tipo ‘a’ o ‘c’: ce ne sono di
abbastanza complete e quasi sempre corrette; per una logica puramente
descrittiva, soprattutto in morfologia, ci sono ottime schede – talvolta
troppo dettagliate e non gerarchizzate – in wikipedia, accessibili digitando
il nome dell’aspetto che si vuole verificare.

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Attività 5.
Per insegnare/ riflettere sulla grammatica di una lingua:
a. come far leva sul piacere della scoperta, della sistematizzazione e della
sfida?
b. quali differenze tra bambini, adolescenti e adulti possono influire sulle
metodologie e gli approcci da adottare?

Attività 6.
Come risolvere il dilemma: spiegare tutto di un certo argomento di grammatica,
spiegare tutti gli usi, le eccezioni oppure selezionare? E in questo caso quando
fermarsi? Pensa alla tua prassi didattica: descrivi e valuta il tuo modo di
procedere.

Attività 7.
Se pensi ai tuoi studenti:
a. quale tra gli aspetti grammaticali ricordati da Balboni (pronomi personali,
pronomi relativi, morfologia verbale, tempi del passato, modi congiuntivo
e condizionale, selezione dell’ausiliare) procura maggiori problemi
d’apprendimento? Che cosa fai per aiutarli a superare le difficoltà?
b. dove è inserito o come è distribuito l’aspetto da te individuato all’interno
dei vari livelli del QCER nel manuale che usi? Presenta uno specchietto
riassuntivo ed esprimi la tua opinione sulla progressione seguita.

Attività 8.
Prova a elaborare uno schema riassuntivo dei problemi suscitati dalla selezione
dell’ausiliare che puoi caricare nel forum. Verifica poi nella manualistica che usi
come è affrontato il problema ed esprimi la tua opinione in merito.

Attività 9.
Attraverso quali strumenti si può elicitare la produzione linguistica per verificare
l’acquisizione di un determinato tratto morfosintattico? Quali possono essere gli
strumenti di valutazione che tengano in debita considerazione efficacia
comunicativa, fluenza e correttezza? Vale a dire, come è possibile verificare se
effettivamente i nostri studenti stanno sviluppando una maggiore correttezza
morfosintattica? Quali strumenti o task possono essere utilizzati in classe per
monitorare e valutare il processo di sviluppo della competenza linguistica
(morfosintattica e/o lessicale) da parte degli studenti?
Dopo aver discusso nel forum su questo nucleo tematico, crea uno strumento
adatto ai tuoi studenti (in base a età, livello ecc. da indicare) per l’osservazione e
la raccolta di dati relativi alla correttezza grammaticale e caricalo nel compito
predisposto, descrivendolo brevemente nel forum.

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7 Il lessico
Il lessico è l’insieme delle parole e delle
locuzioni di una lingua e può essere visto nella Per affrontare i punti critici riguardanti la
sua completezza (il lessico dell’italiano da competenza lessicale è necessario
quello degli Indovinelli veronesi di mille anni fa specificare che cosa si intende quando,
a quello d’oggi) oppure per sezioni sincroniche
(l’italiano del Duecento, quello del Ventennio genericamente, si parla di “lessico”,
mussoliniano); nessun parlante possiede perché si tratta di un concetto
l’intero lessico della sua lingua (raccolto nei intuitivamente facile ma tecnicamente
dizionari), ma ne conosce una parte, che
costituisce il suo vocabolario: il vocabolario che assai più difficile da definire: ad esempio,
una persona comprende, detto ricettivo, è di “marca da bollo” è di fatto un vocabolo
solito più vasto di quello che utilizza, cioè del unico, sebbene composto di tre parole, ma
vocabolario attivo, soprattutto nelle lingue non
native. se “bollo” in senso burocratico è una
L’insieme delle parole e delle locuzioni che, parola, “bollo” come prima persona
sulla base del lessico di frequenza (cioè della verbale è solo una derivazione di
rilevazione statistica delle parole più usate), si
ritiene copra il livello soglia della “bollire”… Il lessico comprende almeno
comunicazione in una lingua oggetto di studio è quattro categorie:
detto lessico fondamentale o di base – ma sulla
logica che presiede alla definizione di tali lessici
le scuole di pensiero sono varie e conducono a a. parole singole o complesse: sono
risultati differenti. le parole singole e le locuzioni che
Un lessico fondamentale, comunque, non esistono in quanto unite, come “marca da
include solo le 800 parole (tanto per fare un
esempio) di più alto rango nella lista delle bollo”;
frequenze, ma anche il lessico ad alta
disponibilità o accessibilità, cioè parole che b. co-occorrenze o collocazioni: sono
comunque devono essere incluse in un sillabo,
ad esempio ‘ambulanza’. combinazioni ad alta frequenza; ad
Abbiamo usato finora ‘parola’, ma si tratta di esempio, “indurre in” si lega solo a
una… parola difficile da definire. Intuitivamente “peccato”, “errore” e “tentazione”;
sono parole quelle comprese tra due spazi
bianchi, ma in realtà abbiamo almeno tre
categorie: parole ‘piene’, con un significato c. routine: “buon giorno”, “neanche
intrinseco (‘penna’, ‘tastiera’), parole ‘vuote’, per idea” e così via sono entità fissate
che hanno un significato funzionale (articoli,
pronomi, ecc.), ‘locuzioni’, cioè gruppi di parole nell’uso, hanno un significato unitario e
che veicolano un significato unitario (modi di creano spesso problemi in lingue non
dire come ‘farne di cotte e di crude’, native, dove non sempre ci sono routine
congiunzioni o avverbi come ‘in quanto a’,
‘accanto a’), che sono diverse dalle corrispondenti a quelle italiane;
‘collocazioni’, cioè parole spesso collocate
insieme (‘buon giorno’, ‘indurre in d. modi di dire, metafore fossili,
tentazione/peccato/errore’); alcune collocazioni
sono ordinate diversamente nelle varie lingue: proverbi: sono entità lessicali di base
‘bianco e nero’ corrisponde in inglese a ‘black metaforica (“è furbo come una volpe”) o
and white’, ad esempio. di cultura popolare (“l’abito non fa il
Le parole sono di solito polisemiche, hanno
cioè più significati, spesso vicini (una ‘linea’ può monaco”), che hanno un significato
essere tracciata con una penna, ma può essere unitario – talmente fissato dalla tradizione
data da un manager, o indicare la condotta da che consentono la creazione di varianti
seguire); nelle microlingue le parole sono, per
quanto possibile, monosemiche e vengono comprensibili solo se si conosce il modo
dette termini, raccolti nella terminologia di un di dire originario: parlando
dato ambito scientifico-professionale. dell’importanza sociale della padronanza
linguistica, possiamo dire “l’abito
linguistico fa il monaco” o, variando un

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altro proverbio, “dimmi come parli e ti dirò chi sei”; con lo stesso
meccanismo possiamo creare effetti ironici dicendo “furbo come una volpe
con l’Alzheimer” e così via.

Cosa significa “acquisire lessico”?


In termini psicolinguistici, si tratta anzitutto di percepire una parola o un item
lessicale (cioè un’espressione di più parole con un significato unitario) e poi di
accomodarli nella nostra memoria semantica, per poterli poi recuperare in pochi
millisecondi quando li si trova o li si usa in un testo. Per utilizzare al meglio le
potenzialità della mente occorre ricordare che questa tende a memorizzare per

a. campi semantici: i colori, l’arredamento ecc.; si noti che molti campi


semantici hanno dei corrispondenti morfologici, ad esempio, per fare solo
esempi in italiano, i colori sono tutti maschili anche se terminano in -a
(“rosa” e “viola” sono femminili solo se indicano il fiore), le città sono
tutte maschili anche se terminano in -o (tranne pochissimi casi diversi), le
parti del corpo umano che sono maschili al singolare possono avere un
plurale femminile in -a (membro, braccio, ecc.; ma rimangono
morfologicamente regolari se non riguardano il corpo, come “membri”,
“ossi”, ecc.); facciamo rientrare in questa nozione di “campi semantici”
anche quelli che nelle lingue straniere vengono spesso definiti “campi
nozionali”, ad esempio il complesso delle nozioni di quantità, spazio,
tempo, ecc. La mente memorizza creando degli insiemi semanticamente
omogenei e, come vedremo al punto “b”, completi; Facciamo un esempio:

locomotore prima/seconda classe ruota, manubrio, pedale,


carrozza eurostar, diretto, ecc. catena, fanale, ecc.
testa / coda posto

treno bicicletta

automobile Mezzi di trasporto


moto

nave aereo

b. sistemi completi: “alto/basso”, “grasso/magro”, “bello/brutto”,


“dentro/fuori”, “sopra/sotto”, “prima/dopo” sono sistemi completi, per
quanto ridotti ai due poli essenziali: la mente memorizza “alto” in maniera
stabile solo se trova in qualche modo “basso”, per completare il campo.

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Denotazione e connotazione

Ogni segno, linguistico e non, è Spesso queste coppie sono articolate in maniera
composto da un oggetto fisico (un diversa in altre lingue, ad esempio l’italiano “alto” è
suono, un segno grafico, un gesto, articolato in high e tall in inglese, così come
ecc.) che è il “significante”, e da un “sopra/sotto” si articola in on/under e above/below.
concetto, un’idea, il “significato”.
I significati tuttavia hanno una duplice
natura, legata alle due dimensioni L’aspetto più creativo del lessico – che non è affatto
fondamentali della comunicazione una lista, per quanto ordinata in ambiti lessicali e
umana, cioè sistemi completi – sta nella generazione di lessico, e
cioè nel sistema dei prefissi e dei suffissi.
a. la comunicazione pura e
semplice, diretta, mirata a
Tra i principali suffissi troviamo quelli connotativi,
conseguire un fine pragmatico che cioè aggiungono un tratto emozionale
(ottenere un caffè lungo, indicare (connotazione) alla denominazione semplice della
una persona, chiedere l’ora, parola: è il processo di alterazione, che si realizza nei
ecc.): è la dimensione denotativa nomi, negli aggettivi e in molti avverbi con suffissi
della lingua;
b. la comunicazione che esprime
molto carichi di connotazione e che, a seconda del
uno stato d’animo, un giudizio, tono di voce, possono talvolta essere sia
una considerazione particolare su vezzeggiativi sia peggiorativi:
ciò che viene denominato:
“Adesso mi faccio un - -ino/a, -etto, -otto, -ella, -uccio, per i
caffettino!” ha un significato
affettivo, una connotazione, che
diminutivi, come in gattino, libretto, orsacchiotto,
aggiunge un dato rispetto a finestrella; talvolta si sommano come in librettino,
“Adesso prendo un caffè”. giacchettina, caffettino. Quando la parola finisce per
-one o -on si aggiunge una -c: torroncino,
Il modo più semplice e camioncino; se però si dice che è un ragazzo bellino
grammaticalizzato di esprimere
connotazioni è dato dalle alterazioni,
o che si è mangiato benino si tratta di diminuzioni di
anche se ci sono quasi più eccezioni bello e bene, che spesso sono solo eufemismi per dire
che regolarità: una “cagnetta” è bella e brutti/bruttino e male; il suffisso -ell- si usa anche
cara, ma una “donnetta” è per alterare alcuni verbi: canterellare, salterellare;
disprezzabile; un “cagnaccio” fa
paura, ma un “ragazzaccio”, a seconda
del tono, può essere ancor più pauroso
- -one/a per gli accrescitivi, anche se spesso c’è
o un ragazzo apparentemente violento una connotazione positiva: il mio gattone;
ma in realtà amabile, così come il
“ragazzone” e il “ragazzino” non - -accio/a, -astro, -igno sono peggiorativi: il
riguardano solo le dimensiono o l’età. primo qualifica negativamente (ma è possibile un uso
Un altro forte problema di
connotazione è costituito dall’ordine
vezzeggiativo: il mio gattaccio può essere
delle parole, in una lingua come affettuoso), il secondo indica un’imprecisione, una
l’italiano che lascia una certa libertà: mancanza di completezza vissuta come negativa:
“uomo grande” vs. “grande uomo”, rossastro, giallastro; un problema connotativo alto si
“donna buona” vs. “buona donna”, e ha con figliastro, fratellastro, sorellastra; sempre
così via.
Saper gestire la denotazione (è
negativo è -igno/a: si usa molto meno, e
fondamentale, ma saper gestire la essenzialmente con patrigno e matrigna, che sono
connotazione lo è forse ancor di più complementari a figliastro, e con maligno;
per le lingue che si padroneggiano a
livelli alti dove, per certi versi, è - -iciattolo, -u(n)colo, -upola hanno un uso
proprio la padronanza dei sistemi
limitato e tendenzialmente peggiorativo, come in
connotativi a fare la differenza.
mostriciattolo, omuncolo, donnucola, casupola.

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L’ipotesi che chiaramente sottostà alla nostra riflessione è che, come si vede da
questo esempio con i soli suffissi di alterazione, il vero problema dell’analisi
lessicale sia quello della connotazione, che diventa difficilissima per apprendenti
stranieri perché estremamente variabile e, spesso, legata all’intonazione.

C’è un secondo problema, che è quello legato alla scelta dei suffissi per
trasformare la funzione linguistica di una parola o per generare parole derivate.
Nel primo caso l’italiano (come le altre lingue europee) offre un esempio di
anarchia totale:

a. per trasformare un nome in aggettivo i principali sono fat+ale, odor+oso,


torin+ese, fiduci+ario;
b. per trasformare un aggettivo in nome gli aggettivi la derivazione usa
soprattutto felic+ità, bell+ezza, intellig+enza;
c. per trasformare un verbo in nome si usano ad esempio descri+zione,
conces+sione, mangi+ata
d. per indicare chi compie un’azione abbiamo suffissi come cant+ante,
mangia+tore

ma in molti la scelta del suffisso è arbitraria; inoltre, alcuni suffissi determinano il


genere (ad esempio i suffissi indicati in ‘b’ e ‘c’ generano nomi femminili; invece
-tore comporta problemi con la formazione del femminile in -trice/-essa).
Per capire invece il problema legato all’arbitrarietà dei suffissi italiani basta
prendere l’universo dei mestieri, parole generate a partire da un nome: barb+iere,
elettric+ista, informat+ico, fior+aio, frutti+vendolo, ecc.

Un ulteriore problema legato alla natura del lessico è quello della polisemia, ad
esempio

Suona piano
Vivo al Lei suona il
primo piano piano

Foto in Vai piano


piano
primo piano

Piano
Dal monte al militare
piano Scorre su un
piano inclinato

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Per uno studente straniero si tratta di elementi di straordinaria difficoltà


ermeneutica, quando leggono o ascoltano.

Infine, c’è il problema dei verbi che cambiano significato a seconda della
preposizione che li completa – ma è un problema comune a tutte le lingue
europee, su cui regna incontrastato esempio di pluralità il verbo inglese to get.

Per approfondimenti:
- in generale sul lessico nelle lingue non native sono Cardona 2004, Corda,
Marello 2004, Porcelli 2004; Gilardoni 2014; Bernini et al. 2008 offre un
quadro di riferimento acquisizionalista;
- quanto all’italiano, si vedano Barni et al. 2008, Lo Duca, Fratter 2008,
Jafrancesco 2001; il numero 19 (2015) della rivista Italiano a stranieri ha
alcuni contributi specifici sul lessico nell’insegnamento dell’italiano a
stranieri;
- Maggio 2009 e Gallina 2015 offrono un quadro del lessico degli stranieri
in Italia.

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8 Dizionari monolingui, bilingui, per immagini


Il thesaurus lessicale è il dizionario, una banca dati necessaria almeno a partire dal
B2; fino al B1 possono bastare i glossari allegati ai manuali oppure i dizionarietti
bilingui tascabili o comunque ridotti; superato il livello soglia, cioè il B1, serve
invece il dizionario vero e proprio.
La dicotomia è dizionario monolingue vs bilingue, mentre è solo apparente quella
tra dizionario cartaceo e dizionario online: quasi tutti i grandi dizionari oggi hanno
anche una versione online e tutti hanno una versione su CD, caricabile sul proprio
computer in modo da facilitare la ricerca e la consultazione.
Nel mondo dell’insegnamento linguistico esiste una verità politicamente corretta e
una verità di fatto: la prima indica come indispensabile il dizionario monolingue,
la seconda prende atto del fatto che anche i traduttori professionisti usano il
dizionario bilingue e solo in caso di sottili incertezze, quasi sempre di carattere
connotativo e non denotativo, consultano il dizionario monolingue. In altre parole:

a. chi studia una lingua e quindi sta cercando di portare la propria interlingua
sempre più verso livelli vicini al madrelingua, quindi al C2, ha bisogno di
un dizionario bilingue, che gli fornisce dati di primo livello: “come si dice
… in italiano?”
b. chi sa già l’italiano a livello alto (in parte C1, senz’altro C2) può trarre
vantaggio dall’uso di un dizionario monolingue dove cercare informazioni
di secondo livello: “che differenza c’è tra tristezza, mestizia, malinconia,
nostalgia?”

Il problema è pragmatico, non lessicografico: la scelta non dipende dalla


costruzione e spiegazione del lessico, ma dall’uso per il quale si sceglie di
consultare un tipo di dizionario.
Ma c’è un ulteriore problema: la maggior parte degli studenti non ha la
competenza necessaria per consultare un dizionario, inclusi molti madrelingua
italiani anche laureati in materie non linguistiche, per i quali le distinzioni tra agg.
e avv. o tra v. trans. e v. intr. sono spesso perse tra i ricordi di scuola. Al di là
della dimestichezza con lo strumento dizionario, monolingue o bilingue che sia, in
quello monolingue c’è il problema dell’accessibilità alla spiegazione delle parole;
sopra abbiamo richiamato alcuni ‘sinonimi’ – consapevoli che i sinonimi non
esistono – dell’ambito tristezza. Basta consultare alcuni dizionari per capire che la
spiegazione è più complessa delle parole da spiegare:

Sabatini-Coletti

Malinconia [ma-lin-co-nì-a] lett. Melanconia s.f.


1. Stato d'animo intonato a una vaga tristezza: essere in preda alla m.; anche,
carattere di ciò che suscita tale sentimento: la m. di un paesaggio
2. (spec. pl.) Cosa o pensiero che suscita tristezza: lasciare da parte le m. sec.
XIII

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“intonato a” è un verbo che richiama l’analogia con l’accordarsi degli strumenti


per mettersi sullo stesso tono: è improbabile che anche uno studente C1 lo
capisca; anche l’aggettivo “vaga”, che è la chiave della connotazione, rappresenta
una difficoltà; il verbo “suscitare” non è certo frequente.

Hoepli

malinconia
[ma-lin-co-nì-a] lett. melanconia; ant. malanconia, maninconia, melancolia
s.f. (pl. -nìe)
1 Stato dell'animo che per naturale temperamento o per causa particolare è
pervaso da una vaga, calma e talvolta dolce mestizia: soffre di m.; essere preso da
m.; occhi pieni di m.
2 Pensiero triste che è causa di preoccupazione, di tristezza: non lasciarti
prendere dalle malinconie
3 PSICOL Alterazione psichica tipica delle sindromi depressive, caratterizzata da
senso di sfiducia, tristezza, pessimismo immotivati
4 ST Nell'antica medicina ippocratica, uno dei quattro umori fondamentali
dell'organismo umano, di colore nero, secreto dalla bile, che causava tristezza ǁ
pegg. malinconiàccia

Nel significato 1 la causale introdotta da per è difficilmente comprensibile per uno


straniero (e per molti madrelingua) – ma è l’intera descrizione che risulta molto
complessa; la descrizione 4 presuppone che si sappia che Ippocrate era greco, che
aveva una teoria degli umori (parola che per uno straniero e molti madrelingua ha
a che fare con lo stato d’animo, non con le sostanze ‘umide’ che circolavano con
il sangue), e che l’umore nero era, in greco, melas, e bile si diceva choli, da cui
melancolia…

Olivetti

malinconìa pronuncia: /malinkoˈnia/, sostantivo femminile


1 stato d'animo dolente ma calmo, e non senza una certa dolcezza
2 malattia mentale caratterizzata da inappetenza, mutismo e fissazione in pensieri
tristi
Locuzioni, modi di dire, esempi: mettere allegria, forza, malinconia, paura,
ribrezzo, tristezza ecc. = infondere, incutere allegria, forza, malinconia, paura,
ribrezzo, tristezza ecc.

È in assoluto la descrizione più semplice, ancorché condotta attraverso parole che


hanno un rango di frequenze infimo come dolente e inappetenza.

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Treccani

malinconìa (o melanconìa; ant. maninconìa, melancolìa) s. f. [lat. tardo


melancholĭa, gr. µελαγχολία, comp. di µέλας «nero» e χολή «bile», propr. «bile
nera»; cfr. atrabile].
1. a. ant. Nella medicina ippocratica, uno dei quattro umori (umor nero) che
costituiscono la natura del corpo umano e ne determinano l’equilibrio organico
(dottrina accolta da tutta la medicina antica e trasmessa fino al Rinascimento):
quando quello omore che si chiama melanconia sovrastà agli altri, il quale è
freddo e secco come la terra, allora si sognano cose paurose e triste (Passavanti).
b. Stato d’animo tetro, depresso e accidioso e insieme meditativo e contemplativo,
occasionale o abituale, che era attribuito al prevalere di quell’umore rispetto agli
altri nella struttura organica dell’individuo (anche dopo abbandonata la teoria
fisiologica dei quattro umori il termine ha conservato il suo sign. originario):
lasciarsi prendere dalla m.; cupa, nera m.; anche, intimo e profondo dispiacere
per desiderio inappagato: o per m. che il falcone aver non potea o per la ’nfermità
... di questa vita passò (Boccaccio). c. In epoca più recente, spec. per influsso
romantico, mestizia vaga e rassegnata, dolore raccolto e intimo: dolce, soave m.;
M., ninfa gentile (Pindemonte); La mia Vita si gonfia di m. (Penna); la contenuta
m. della poesia leopardiana. d. Noia, fastidio, uggia: che m. questa pioggia!; era
proprio una m. starlo a sentire.
2. Pensiero, avvenimento, ricordo che rende tristi, depressi e sim.: via queste
malinconie!; talvolta mi passano per il capo certe malinconie ...
3. Nel linguaggio medico, è forma meno com. di melancolia o melanconia, come
malattia psichica.

Il vocabolario Treccani ha altra natura rispetto a quelli visti sopra, ed è


chiaramente riservato allo straniero che di professione faccia il traduttore
letterario o l’accademico.

C’è infine una tipologia specifica di dizionari dedicati a apprendenti stranieri


(anche se nei dizionari italiani se ne trovano esempi quando si mostrano, ad
esempio, le varie parti di un’automobile, di un organismo, i diversi colori, ecc.): i
dizionari visivi, per immagini. Il meccanismo è semplice: si prende un universo (i
trasporti, gli elettrodomestici, i colori) e se ne forniscono le immagini
accompagnate dalla parola.
Sono molto utili per creare campi semantici che aiutano la memorizzazione. Un
dizionario per immagine in progress e gratuito è nel sito www.bonaccieditore.it
cui abbiamo rinviato più volte per materiale privo di costi per l’insegnante o lo
studente.
Sull’uso dei vocabolari nell’apprendimento linguistico si veda Gilardoni 2012.

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Attività 10.
Sempre più spesso le case editrici offrono materiali per “grammatiche da
costruire”? Ne conosci? Hai mai utilizzato grammatiche di questo tipo con i tuoi
studenti? Se sì, che esperienze hai fatto? Se no, cosa pensi dell’idea?

Attività 11.
a. Quali tecniche glottodidattiche trovano maggiormente impiego nella
manualistica corrente per facilitare l’apprendimento del lessico? Quali ti
sembrano più efficaci e perché?
b. Impieghi in classe o consigli l’uso di dizionari (anche online)? Se sì, quali
(monolingue, bilingue, per immagini)? Motiva la tua preferenza.

Attività 12.
Crea una scheda il più completa possibile dei suffissi nominali con valore
connotativo dell’italiano e, consultando il manuale che hai in adozione, cerca di
verificare come i suffissi connotativi sono distribuiti all’interno dei vari livelli del
QCER e come sono presentati.

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MASTER 2 LIVELLO “Didattica dell’italiano” Paolo E. Balboni

Riferimenti bibliografici

Qui indichiamo solo gli studi cui abbiamo fatto un rimando diretto:

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