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BIBLIOTECA TEATRALE
Diretta da: Ferruccio Marotti
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MEMORIE DI TEATRO / 30
Diretta da: Ferdinando Taviani e Valentina Venturini
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EUGENIO BARBA
LA CONQUISTA
DELLA DIFFERENZA
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BULZONI EDITORE
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ISBN 978-88-7870-624-8
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INDICE
INTRODUZIONE
La conquista della differenza ................................................................................................. » 13
TECNICHE E COSTUMI
DEI PAESI DEL TEATRO
• La deriva degli esercizi .................................................................................................... » 79
• Un amuleto fatto di memoria. Il significato degli esercizi nella
drammaturgia dell’attore ............................................................................................... » 85
• La stanza fantasma .............................................................................................................. » 91
• La danza dell’algebra e del fuoco ........................................................................... » 105
• Drammaturgia: L’ordine profondo che è turbolenza ............................ » 113
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INCONTRI CON GLI SPETTATORI
E CON ME STESSO
• Testo delle origini ................................................................................................................ p. 127
• Quel che è organico per l’attore e quel che è organico per lo
spettatore ..................................................................................................................................... » 129
• Eftermæle. Quello che si dirà dopo ...................................................................... » 131
• La geografia delle illusioni ......................................................................................... » 135
• Angelanimal. Tecniche perdute per lo spettatore ...................................... » 147
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PAESAGGI PRIMA DELLA BATTAGLIA
• Lo spazio paradossale del teatro .............................................................................. p. 229
• I cento violini del guerrigliero ................................................................................... » 233
• Il paradosso del mare ....................................................................................................... » 243
• Dentro le viscere del mostro ....................................................................................... » 253
• Elogio dell’incendio .......................................................................................................... » 265
EPILOGO
L’epilogo è una domanda ......................................................................................................... » 273
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PRESENTAZIONE
di Ferdinando Taviani
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Questo libro l’ho visto nascere. Permettetemi di presentarlo. La prima
volta, quando l’ho letto in una sua forma ancora primitiva, mi è parso una gran
bella testa su di un corpo ancora gracilino. Il titolo faceva intravedere un pen-
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siero inatteso, che però era seguito da una compilazione di scritti già tutti
pubblicati, alcuni di diversi anni fa, impilati come in un manuale. Nell’in-
sieme, mi faceva pensare all’impronta d’un passo interrotto.
Anche ad Eugenio Barba quel primitivo ordinamento dei materiali non
faceva una buona impressione. Sarebbe stato bastantemente interessante se
quel titolo non fosse stato lì a far pensare qualcosa di più. Dato che non c’è
niente, almeno fra i libri, che faccia un così cattivo effetto come una promessa
non mantenuta, la soluzione ovvia era sfumare la promessa – il titolo – adat-
tandolo alle più modeste fattezze della raccolta.
Barba ha fatto esattamente il contrario: ha distrutto l’ordinata compila-
zione degli scritti e ha costretto l’insieme ad inseguire il titolo. Con i pezzi
staccati ha composto un mosaico. Ne è venuto fuori uno dei suoi libri più belli
ed enigmatici.
All’incirca nello stesso tempo, in condizioni per più versi proibitive,
Barba lavorava alla concezione ed alla regia d’un nuovo spettacolo. Anche in
quel caso, il titolo ha rischiato a lungo di pesare troppo. Ed anche allora il la-
voro è partito zigzagando, ma guidato dalla necessità d’inseguire il suo strano
titolo. Alla fine, La vita cronica è uscito come uno degli spettacoli più intensi
e misteriosi di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret.
Questo modo di procedere contromano, lungo strade che di regola sareb-
bero “sbagliatissime”, ma che sono come quelle che imbroccano certi bambini
perduti nelle favole, contrassegna la produzione dei “racconti d’inverno” (così
fra me e me li chiamo) di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret (75 anni l’uno, 50
l’altro). Una strada fatta apposta per disorientare la perizia accumulata con gli
anni, in modo che il saperci fare non smarrisca gli stupori del debutto.
La conquista della differenza e La vita cronica sono arrivati a compimento
più o meno insieme, verso la fine del 2011. Non proprio gemelli, si trovano
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IV Ferdinando Taviani
però gemellati dalla cronologia. Sicché nel presentare il libro non potrò evitare
qualche riferimento anche allo spettacolo.
Che inizia con una figura un po’ sacra un po’ buffa ed un poco selvaggia:
una Madonna nera che sembra appena scesa dagli altari, madre misericordiosa
e feroce con la spada nel cuore. Entra nello spazio vuoto, scavalca un cadavere
rimasto sul terreno, getta in aria delle carte da gioco come una fattucchiera.
S’accuccia, borbotta un suo latinaccio gutturale che confina con i mugolii di
chi è troppo vecchio per parlare e con i ciangottii infantili. Qualcuno canta in
falsetto: entra una persona alta, elegantemente vestita di nero, una collana di
perle al collo, e un cammeo. Porta una scodella, posate e tovagliolo. L’atten-
zione si sposta al centro, dove c’è una tovaglia bianca apparecchiata per la
minestra. La tovaglia diventa un lenzuolo. Il lenzuolo un sudario. Inizia una
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storia che riguarda un padre militare che muore, un orfano e una vedova. La
Madonna nera, in fondo, al limitare del buio, quasi inosservata, si accoccola
sul pavimento – e poi, come se niente fosse, invece di rialzarsi mette le gambe
per aria, fa la verticale con i piedi al posto della testa. Qualcuno, fra gli spetta-
tori, guarda da quella parte e vede una Madonna a rovescio che mostra le
gambe.
Registica ironia: dice figurando di non dire. Perché questo, lo si voglia o
no, è il segnale che da qui in poi tutto lo spettacolo si rovescia. Il tempo potrà
camminare all’incontrario, e la storia traboccherà dal futuro prossimo al pas-
sato remoto, abolendo ogni ragionevole intreccio col presente.
Con mezzi ed astuzie diverse ma equivalenti, anche il variegato mosaico
di questo libro squaderna un mondo alla rovescia, una geografia che sulle carte
non c’è. Un teatro-mondo descritto per la prima volta minutamente nella sua
verità e vastità da uno dei suoi più coscienti abitanti. Cosciente, pedagogico e
meticoloso. Assai diverso da come ce lo lasciano immaginare le sue opere
sceniche.
La vastità di questo teatro-mondo è verticale, simile a quella di certi pic-
coli laghi vulcanici. Crateri navigabili, alcuni pescosi, altri solfurei; alcuni
esposti al turismo altri solitari e dediti al ghiaccio. Molto circoscritti, sono non
di rado sterminati perché in contatto con un remoto sottosuolo. Possono essere
arcigni o ridenti. Tutti, per una ragione o per l’altra, sono pericolosi.
Il titolo rovescia la nozione di differenza, che in genere è pensata come
una condizione di partenza e qui indica invece un traguardo. Così come “diffe-
renza” nasconde non solo il senso della solitudine ma anche quello della libe-
razione, in “conquista” si nasconde anche il dolore.
Il montaggio trasforma le pagine che l’autore ha pescate nella sua vasta
produzione letteraria in un patchwork cucito per il dritto e per il rovescio: dà
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Presentazione V
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VI Ferdinando Taviani
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Presentazione VII
***
Fra gli artisti che hanno profondamente segnato il teatro del secondo No-
vecento e d’inizio Duemila, Eugenio Barba è il solo ad aver tenacemente lavo-
rato in tutti i campi della cultura teatrale. Ha mostrato come possa essere uni-
ficata, sia in teoria che in pratica. Il che concretamente vuol dire che ha saputo
riunire, come in un comune villaggio, persone che aderiscono al teatro ma che
di per sé vivrebbero separate dalla diversità delle provenienze, dei linguaggi,
degli stili, delle tradizioni, specialità e mansioni. Non solo con i suoi libri e i
suoi saggi, tradotti in molte lingue, ma anche con l’azione. Ha infatti inventato
periodi di comune lavoro teorico-pratico soprattutto nell’ISTA, l’International
school of Theatre Anthropology; e poi in atelier, seminari, spettacoli, con-
vegni, feste e iniziative culturali.
Ha contribuito a trasformare il modo di pensare e raccontare la storia del
teatro. Ha posto le fondamenta d’una scienza del teatro capace di comparare le
diverse pratiche e le più lontane tradizioni. Ha curato i ponti fra la ricerca tea-
trale contemporanea e la Grande Riforma d’inizio Novecento. Ha eliminato le
distanze fra i teatri classici asiatici e i teatri indipendenti europei; fra questi ed
i teatri dell’America Latina. Ha inoltre individuato e messo in pratica le stra-
tegie per le quali la presenza del teatro può trasformarsi in strumento per riat-
tivare le relazioni fra gruppi, etnie e culture diverse, vincendo le inerzie della
pacifica indifferenza reciproca e sfuggendo all’egida di preordinate ideologie
organizzatrici.
Il giusto prezzo pagato per quest’opera di unificazione teorica e pratica è
stato la rinuncia al consolidamento istituzionale. La salvaguardia, cioè, della
propria dissidenza.
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VIII Ferdinando Taviani
notiziari delle novità e dei festival. Entravano, intanto, nei libri di storia e fra le
voci delle enciclopedie. Sempre più spesso, accanto alle cerimonie per le
lauree honoris causa ad Eugenio Barba, nelle più diverse e prestigiose univer-
sità, fiorivano liberi incontri delle differenze teatrali.
Fedeltà e dissidenza non sono virtù, ma investimenti che mirano a so-
pravvincere il mutare delle circostanze. Comportano un costo: non capitaliz-
zare il successo che si raccoglie nelle “curve degli applausi”.
L’Odin, benché a volte sembri accantonato o dimenticato, in realtà non ha
mai perso il suo pubblico. Piccole folle, sparse qua e là per il mondo, tornano
a gremire i suoi spettacoli, a vederli e rivederli, anno dopo anno – e in essi, nel
loro succedersi e scandirsi, leggono alcuni segni su se stessi e sui tempi. A
volte si passano naturalmente la voce: sono figli e figlie che corrono a vedere
quel teatro della cui importanza i loro genitori hanno parlato. Importanza, il
più delle volte, per la loro vita, non solo per la storia astratta dell’arte.
L’Odin è certamente un teatro di successo. Ma il suo è soprattutto un suc-
cesso differente.
Abbiamo parlato della riunificazione della cultura teatrale operata da Eu-
genio Barba. Va detto sùbito che i suoi spettacoli non la rappresentano. Di essa
sono forse il controcanto o i contrafforti. Non celebrano appartenenze o comu-
nanza di idee. Di esse lacerano semmai l’illusione.
Molto teatro serve per sottoporre al giudizio del consenso o dei fischi i
manufatti di un’arte avvalorata dal comune cultural sentire. Altri teatri servono
a “star bene assieme” (sia pure solo ogni tanto e per poco). O per tentare di star
bene con se stessi (ammesso che quest’espressione indichi qualcosa di sen-
sato). A volte celebrano valori comuni. Altre volte, nei casi migliori, provo-
cano condivisi o condivisibili giudizi politici o morali. Gli spettacoli inventati
da Eugenio Barba, no. Dividono. Spesso lo spettatore si scopre scosso fuori
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Presentazione IX
dai suoi consolidati pensieri, dalla sua usuale abitudine a far camminare di
pari passo comprensione, giudizio ed emozione. Quasi sempre in pratica ti
viene negato il piacere, tanto forte quando si fa parte del “pubblico” d’uno
stesso spettacolo, di sentire il tuo pensiero marciare di pari passo col pensiero
degli altri. Il piacere per cui puoi presumere che il tuo vicino veda le stesse
cose che tu stesso stai vedendo, la stessa storia, la stessa trama: la potente e
bella illusione di sentire capire e vedere allo stesso modo degli altri.
L’epilogo della Vita cronica regala la strana esperienza di sedere spalla a
spalla con un tuo simile da cui sei nello stesso tempo distantissimo. È forse la
sensazione che vivono gli strumenti d’una stessa orchestra (non i suonatori,
ma gli strumenti, nei limiti in cui anch’essi vivono e a modo loro pensano)
quando suonano assieme temi in contrasto o indipendenti.
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C’è un morto che non è morto, un giovane che riemerge dal feretro dove
l’hanno infilato, o a cui s’è rassegnato in cerca di pace. Fuoriesce, smette di
cercare e soffrire – finalmente sorride. Gli compare accanto un gemello cieco.
Quest’ultimo suona il violino in maniera tanto giusta che tutti noi non pos-
siamo fare a meno d’esserne commossi, dopo esser stati mossi da canti e fan-
fare piene di vitalità. Commossi – ma ciascuno sulla sua via divergente. I ge-
melli a lungo reclusi ed isolati trovano ora porte aperte. Ridono come bambini
che scendono di casa per giocare. Si portano dietro una pistola. Che ha un
proiettile in canna. Escono. Lo spazio scenico, rimasto solo, comincia allora a
gocciolare, come quando fra le assi d’una baracca ghiacciata la neve si disgela
e imita la pioggia trapelando. O come quando un edificio s’abbandona con
tutte le sue vene e le sue tubature al proprio naturale desiderio di crollare.
È così, tanto per fare un esempio, che il lieto fine sfugge alla dittatura che
lo nutre?
***
Consiglierei al lettore di introdursi in questo libro anche partendo dalle
ultime pagine, dall’Epilogo. È bene sapere fin dall’inizio che qui vi sono due
geografie: quella dei 39 paesaggi e una geografia del cuore che resta dissimu-
lata. Forse non soltanto per il lettore.
L’autore sembra a volte che lotti con se stesso anche per interposta per-
sona, lottando con coloro a cui piace, che lo amano ed amano le sue opere.
Quasi che l’Angelo Custode fosse un avversario. E viceversa.
Forse è per questo che l’autore evita la scrittura che mima l’introspezione.
Nel pezzo intitolato Eftermæle, si riconosce in un botta-e-risposta brech-
tiano: “I giovani vi aspettano, signor Brecht! Voi siete un mito per noi in Ger-
mania!”. “Troverò un rimedio a tutto questo”.
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X Ferdinando Taviani
Per molta gente amante delle arti e del teatro, Eugenio Barba è poco più
d’un nome oscuro o intrasentito. Ma per molti altri è invece da tempo un per-
sonaggio leggendario. Il che, per la persona chiamata ad essere un tale perso-
naggio non è mai salutare né facile da sopportare. Saldamente al comando del
suo teatro che naviga ormai dal tempo d’una vita, bersagliato dalla venera-
zione, esposto persino ai veleni d’un certo culto della personalità, spinto dalla
fama e dall’età verso il recinto dell’autobiografia, Barba in questo libro si
smarca: apre il ventaglio dei suoi 39 paesaggi, e prende il vento.
Da quando lo conosco e collaboro con lui, ho spesso dovuto combattere
con uno spettro professionale: perché non pensare a scrivere una sua biografia?
Ma come si fa? Come si sentirebbe uno che si costringesse a pensare come
scrivere la vita di qualcuno con cui scambia le idee e le burle, le paure e la
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Eugenio Barba
La conquista
della differenza
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A Franco, Mirella, Nando e Nicola
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INTRODUZIONE
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LA CONQUISTA DELLA DIFFERENZA*
Cara Mirella,
mi chiedevi recentemente cosa si senta stabilendo un record di longevità.
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* Lettera alla studiosa di teatro Mirella Schino sull’indeterminatezza della memoria auto-
biografica. Pubblicato la prima volta in “Teatro e Storia” n. 25, Roma 2005.
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14 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 15
Le parole, però, non sono mai nuove. Quel che cambia è la luce che le il-
lumina e le ombre che le accompagnano. Luci ed ombre complementari ora
battagliano in maniera inconsueta intorno ad un termine logoro: differenza.
La differenza può essere sperimentata come una circostanza data, che
genera sofferenza, oppure orgoglio. Ma credo che la differenza possa essere
anche un punto d’arrivo, una difficile conquista. Quando si è giovani, ci si
sente come un punto nero in un mondo cui non si appartiene. Invecchiando, è
questa non-appartenenza che, a volte, ci consente di vivere nel mondo. Ab-
biamo imparato quanto vale una differenza che incuta rispetto.
La propria terra
Quando ero adolescente, nel profondo Sud dell’Italia, bastava che mi
spostassi di pochi chilometri verso Nord per sentirmi straniero ed essere “di-
verso”. A Gallipoli, dove crescevo come figlio d’una famiglia borghese,
ignoravo completamente le manifestazioni della cultura “popolare”. Molti
anni dopo, ho appreso con stupore dai libri di Ernesto De Martino, che avevo
vissuto nella culla del tarantismo: trance, musica e danze strutturate in una
cerimonia terapeutica e performativa della cui esistenza non avevo avuto il
minimo sospetto.
Per tre anni, ho studiato in una scuola militare. A diciott’anni, disgustato
dalla disciplina, sono fuggito il più lontano possibile. In Norvegia, come emi-
grante, ho dovuto far fronte al problema vitale di integrarmi in un contesto
dove i costumi, la mentalità, le relazioni fra i sessi e le gerarchie di lavoro di-
ventavano per me veri e propri traumi culturali. Ho dovuto riadattare il mio
modo di comportarmi, a partire dalle radici. Persino la mia coscienza storica
veniva profondamente rimodellata. Mi avevano insegnato che nel 1936 l’Italia
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16 Eugenio Barba
duano preconcetti ricorrenti in situazioni lontane. In Italia, gli emigrati che dal
Sud si recavano a lavorare al Nord erano detti “terroni”. Ma io, anche se fossi
andato da Gallipoli a lavorare a Milano o Torino, pur essendo un “terrone”, mi
sarei portato dietro i segni della mia provenienza borghese. In Norvegia, in-
vece, l’emigrazione era completa: dal mio paese, dalla mia lingua, dal mio
passato e dalla mia classe sociale. Dovetti imparare a parlare e pensare in nor-
vegese, tendendo sempre l’orecchio per decifrare il sottotesto delle parole e
dei comportamenti attorno a me. La mia condizione esistenziale mi rese “dif-
ferente”, e questa posizione non era mai neutra. Per alcuni norvegesi era un
elemento negativo, per altri rappresentava, invece, una qualità. A quel tempo
non fu certo un atto pieno di consapevolezza, ma ora non posso confondermi:
lasciare l’Italia comportava la scelta di abbandonare le mie più profonde ra-
dici, italiane e borghesi, quelle che mi avrebbero dovuto e potuto proteggermi.
Il mio fortissimo desiderio di fuoriuscire dal background italiano non si
tramutava nella voglia di diventare norvegese. Mi rendevo oscuramente conto
che le “radici culturali” sono sinonimo di confinamento, d’orizzonte ristretto.
Volevo rompere i legami che limitavano la mia libertà mentale e avvicinarmi
alla “alterità” oscura e senza definizioni che era dentro di me, nei cui confronti
la cultura che mi circondava frapponeva ostacoli. Non volevo esser radicato in
una nazione, in una cultura o in una classe.
Lottavo per qualcosa di ben preciso, per affondare le mie radici in cielo,
in un paese dai valori senza frontiere, dove le verità fossero il frutto di un
conflitto e d’una conquista personale.
Sento ancora l’eco, dentro di me, di questa sensazione di illuminazione,
come se io avessi ereditato la terra intera, tutti i suoi paesaggi e le sue culture,
il suo molteplice passato e il suo futuro confuso. Avevo diciott’anni. Ancora
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La conquista della differenza 17
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18 Eugenio Barba
del lavoro. Oppure per il bisogno di allontanarsi ciascuno dalla propria pro-
spettiva originaria, di evadere dalla propria terra e dalle proprie radici, per
creare una nuova Heimat, una casa d’arte, un mondo diverso. Mondo minu-
scolo: microcosmo o microsocietà.
In quest’ultimo caso, insistere sulla dimensione multiculturale crea più
confusione che chiarezza. In fondo non è pertinente. Concentra l’attenzione
sulla veste esterna, non sulla sostanza. Benché il mio teatro indossi un abito
multiculturale.
Tu invece, nei tuoi scritti, ami insistere sull’importanza della separazione.
Dici che nei secoli passati il popolo del teatro era separato dalla società per
discriminazione e sostanziale disprezzo. Sostieni che quando quest’ingiusta
emarginazione venne risarcita, si rischiò di perdere anche ciò che essa produ-
ceva di utile: una mentalità che induceva i professionisti del teatro ad assumere
un modo di pensare separato dal senso comune. Era questa visione parados-
sale che permetteva loro di distaccarsi dalle logiche rettilinee nel-
l’interpretazione dei personaggi e delle storie rappresentate. Ed il susseguente
atteggiamento costituiva la base di interpretazioni complesse basate su logiche
parallele e a volte contrastanti. Ti chiedi quale sia l’equivalente di quell’antica
separazione – capace di allenare ad un modo diverso di pensare – nelle mo-
derne microculture teatrali. Proponi di individuarlo nelle norme che le rego-
lano dall’interno, in certi sogni di creare comunità utopiche ed autonome,
persino in quelle pratiche professionali e personali che chiamiamo training.
Tutto questo, che nel suo aspetto più evidente o di superficie sembra riguar-
dare l’ideale da una parte, e dall’altra la quotidianità dell’artigianato, avrebbe
il compito profondo di permettere una via diversa al pensiero. Questo equiva-
lente dell’antica separazione cambierebbe, oggi, il comportamento mentale e
non solo il fisico di chi fa teatro.
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La conquista della differenza 19
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20 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 21
pratica del teatro asiatico. Con l’eccezione di Claudel che aveva vissuto in Cina
e Giappone, tutti gli altri artisti che ho nominato non avevano visto gli attori
asiatici a casa loro, ma solo in tournée, nel contesto di un teatro e di un pubblico
europeo. Eppure la visione dell’Asia era stata fondamentale, per tutti loro.
In quanto autodidatta, ero ossessionato dal problema della competenza
professionale. Malgrado la mia mancanza d’esperienza, dovevo insegnare
qualcosa a coloro che volevo diventassero i miei attori. Ho cominciato con il
nocciolo degli esercizi che avevo visto fare agli attori di Grotowski nel periodo
in cui ero stato a Opole. Alcuni dei miei giovani aspiranti attori avevano se-
guito corsi di mimo o balletto, così divennero “istruttori” dei compagni. Ma
anche in quei campi non erano maestri. Vi si erano affacciati da principianti.
Più che ad una cultura teatrale mista o sincretica, la nostra assomigliava ad un
bric-à-brac. Come far crescere un genuino sapere dal bric-à-brac?
Facevo ricorso ai libri che potevano fornirmi esempi e consigli concreti.
Stanislavskij, Dullin e Vachtangov erano estremamente utili. Studiavamo le
foto del lavoro pedagogico e degli spettacoli dei Riformatori europei e crea-
vamo degli esercizi in cui cercavamo di ricostruire le posture degli attori. E poi
facemmo un passo successivo: utilizzammo anche immagini del Kabuki e del-
l’Opera di Pechino. Animando la staticità delle immagini, gli attori ed io co-
struivamo una struttura dinamica, un “esercizio” che immettevamo nel nostro
training. Non pensavamo certo che quegli esercizi, che chiamavamo cinesi o
giapponesi, avessero qualcosa a che fare con il modo in cui realmente recita-
vano gli attori giapponesi o cinesi, ma questo procedimento ci stimolava, pro-
duceva conseguenze. E le conseguenze erano nostre.
Lo stesso accadeva quando ci occupavamo delle voci dei differenti artisti
del canto, dall’Opera italiana ad Armstrong, dai canti gregoriani ad Yma
Sumac, dalle improvvisazioni sui raga indiani ai canti di caccia dei pigmei,
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22 Eugenio Barba
dallo joruri – il canto del Bunraku – alla recitazione dei contastorie siciliani.
Ripetavamo le loro intonazioni, le asperità e le modulazioni della voce nello
sforzo di mettere allo scoperto e rivitalizzare le potenzialità e sfumature della
voce umana, che possediamo al momento della nascita, e che poi abbando-
niamo quando selezioniamo quel che serve alla lingua in cui cresciamo.
Per fortuna non eravamo imitatori molto dotati. Così scoprimmo le nostre
voci.
Durante questi primi anni, i diversi teatri asiatici erano ai miei occhi una
sorta di Arcadia teatrale, con eroine piene di forza e guerrieri dotati di grazia,
con fantastici animali ruggenti, vibranti barche all’ancora, mari d’azzurro
smalto, cime silenziose di montagne… e tutto questo incarnato dall’arte d’uno
stesso attore. Il modello che gli autodidatti dell’Odin Teatret volevano emulare
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La conquista della differenza 23
sapere che avrei incontrato ancora una volta Tempo, Katsuko Azuma, Kanichi
Hanayagi, Ragunath. E sopra tutti, Sanjukta. Non riuscirò mai ad accettare
l’ingiustizia della sua morte prematura.
L’India, il Giappone, Bali, le loro culture e le loro tradizioni sono paesi
lontani. Ma le persone divenute con gli anni compagni di lavoro fanno parte
del mio stesso paese. Vi hanno portato le loro conoscenze, ma anche le loro
esigenze. Hanno fatto nascere in me nuove curiosità. Hanno rotto gli schemi
fragili e preziosi che noi dell’Odin ci eravamo costruiti. Ci hanno spinti via più
di una volta, fuori dal nostro ordine.
Mi rendo conto che, osservata dall’esterno, la vicenda dell’Odin Teatret
può sembrare segnata dal progetto di unificare differenti culture teatrali, con-
frontarle, mettere a frutto le loro complementarità. Ma se penso ai miei sogni
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giovanili sul teatro asiatico, se penso ai miei rapporti con Sanjukta o con altri
maestri, mi sembra che l’essenziale fosse altro. Il mondo magico del teatro
asiatico è stato per me come una fune, seguendo la quale potevo arrampicarmi
fuori dalle ovvietà, non solo quelle di un mondo teatrale a cui non volevo
aderire, ma anche quelle delle nostre regole, di ciò che avevamo inventato e
che eravamo troppo poveri o troppo timorosi per abbandonare senza una
spinta. Cominciammo da “differenti” perché eravamo giovani teatralmente
poveri, nati fuori dalle grandi tradizioni occidentali. Poi diventammo “diffe-
renti” per scelta e vocazione.
È per questo che, per me, il teatro non può limitarsi allo spettacolo: perché
deve trovare modi sempre nuovi di nutrire la propria sovversione. Un partico-
lare tipo di sovversione per impedire che non solo le idee, le convinzioni e le
abitudini altrui, ma anche le nostre proprie ricchezze, credenze, piccole como-
dità, la routine e il sapere si sedimentino in una prigione.
Fin dai primissimi giorni della mia attività di regista e di pedagogo, per
esempio, due sono state le questioni che mi hanno ossessionato – e ancora mi
ossessionano. La prima domanda è: perché Stanislavskij o Mejerchol’d hanno
inventato i loro “esercizi” per preparare gli attori? L’esperienza mi dice che un
attore può essere bravissimo negli esercizi senza riuscire a conservare la stessa
qualità durante le prove di uno spettacolo. Non ci sono connessioni tra i risultati
nel training e i risultati creativi. Allora perché fare gli esercizi?
Anche la seconda domanda è arrivata presto, quando per la prima volta
vidi, in India, uno spettacolo di Kathakali. Era il 1963. L’ho già raccontato
tante volte: non sapevo niente di quel tipo di teatro, perché allora non c’erano
libri, né informazioni, sul Kathakali. Non capivo la lingua, e non mi era fami-
liare il codice delle azioni degli attori-danzatori. Conoscevo solo qualcosa
delle storie che si andavano presentando, ed ero confuso dal contesto di queste
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24 Eugenio Barba
Terra di nessuno
Per me ed i miei compagni dell’Odin, costruire il nostro teatro non è stato
diverso dal costruire uno spettacolo. Il nostro primo atto creativo non ha ori-
gine dall’ordine e dal metodo, da ciò che conosciamo, da una immagine di noi
che ci convinca e ci rassicuri, ma da una irregolarità iniziale, perseguita con
testardaggine, continuamente riconfermata. Se guardo al nostro passato, mi
sembra che così abbiamo costruito anche la nostra biografia artistica: attra-
verso strappi dall’ordine, anche dal nostro ordine.
Quando eravamo un gruppo teatrale ancora molto giovane, e passavamo
molto tempo chiusi nella nostra sede, arroccati nel nostro lavoro solitario, ci è
capitato che ci chiedessero: come mai, se vivete sempre così chiusi in voi,
ogni volta che vi si incontra apparite con un volto profondamente diverso?
C’è una fotografia dell’Odin Teatret che amo particolarmente. Mostra un
grande paesaggio aperto e vuoto. In un angolo, c’è un piccolo cerchio di per-
sone. Stanno guardando qualcuno e si sono disposte in una cerchio quasi per-
fetto con al centro un piccolo evento, una quasi invisibile azione spettacolare.
È più che un documento, è un vero ideogramma creato da un giovane danese,
Peter Bysted, che ora è un grafico molto noto. Mostra le difficili circostanze di
un baratto in un villaggio peruviano sulle Ande. Nel villaggio non c’era il tipo
di spazio necessario, così scegliemmo un campo fuori dall’abitato. Il momento
dell’incontro e dello scambio prese il valore di una tregua, di una pausa del
tempo, e lo spazio si trasformò in una terra di nessuno. Questo è quello che
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La conquista della differenza 25
mostra la fotografia: la forma del cerchio fa sì che i locali e gli stranieri siano
indistinguibili gli uni dagli altri. Tutti siamo attori e non attori, partecipanti e
osservatori, allo stesso modo. L’immagine dà un senso di comunione e di inte-
grazione, ma anche di solitudine, una cerimonia spersa nell’immensità della
natura. C’è una figura un po’ solitaria, da una parte, sullo sfondo, e mi fa pen-
sare a me stesso in situazioni simili: sono nel cerchio e ne sono anche fuori.
La foto non mi commuove solo per questo, ma per altre ragioni irrazio-
nali, che si rifiutano di essere tradotte in parole. Parla al dragone che protegge
l’oro dentro di me. Un po’ lo stesso accade per quell’insieme di pratiche, di
strategie, di convenienze e di superstizioni che chiamiamo “baratto”.
Il baratto non è il risultato di una idea, o di una ricerca di originalità da
parte mia o dei miei colleghi. Ho descritto le sue origini del tutto fortuite, in
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circostanze in cui l’Odin non aveva una produzione da mostrare e non era
quindi in grado di presentarsi attraverso un risultato artistico alla popolazione
di un villaggio italiano dove risiedevamo per qualche mese. Non potevamo
dire: presenteremo uno spettacolo. Dicemmo: ci incontreremo. Noi porteremo
qualcosa, e voi, naturalmente, farete altrettanto. Così scoprimmo la via del
“baratto” di teatro.
Dopo, altri hanno ripreso l’idea e l’hanno applicata in modo diverso a se-
conda dei loro bisogni, dei loro contesti o dei loro scopi. È stato riproposto da
gruppi teatrali e di danza, da psicologi e studiosi, dall’antropologa danese
Mette Bovin nel suo lavoro sul campo in Africa. Così è, e dovrebbe essere
sempre, con quelle idee o quelle pratiche il cui valore va al di là del progetto di
chi le ha ideate.
L’Odin Teatret non è il proprietario dell’idea di baratto, anche se il baratto
è certamente una espressione che viene dalla nostra storia e dalla nostra visione
del mondo. Ma non ci sentiamo certo più poveri o esclusi se qualche gruppo in
India o in Bolivia ne fa uso.
Per noi, un baratto non è un momento di spontanea fraternizzazione. Ri-
chiede una preparazione di molti giorni, in certi casi persino di settimane.
Non è affatto un incontro espansivo, il risultato di un impeto di simpatia, ma
una ben ponderata politica di relazioni, di interazione, con finalità ben pre-
cise. I contatti che l’Odin stabilisce con i diversi individui o le associazioni
che vi collaborano sono i motori nascosti dell’evento, ma anche di eventi fu-
turi. Sono la sottopartitura, il suo fine, il suo scopo segreto. I contatti nascono
sempre da un misurabile “interesse”, non solo nostro: i contatti locali devono
sempre percepire chiaramente i vantaggi concreti che possono trarre dal ba-
ratto, come può diventare proficuo per i loro scopi.
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26 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 27
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28 Eugenio Barba
ben concreti intrichi elaborati dalle forze oscure che ci guidano nel nostro
mestiere.
A volte ho la sensazione che scrivo per un mio alter ego, totalmente di-
verso da me, che nascerà fra cento anni e che, attraverso il teatro, si accanirà
ad esacerbare non solo il suo individualismo, ma anche a realizzare il processo
della sua individuazione. Anche questo è oggi per me il teatro: la possibilità di
salvaguardare la mia identità in un contesto sociale, politico ed economico,
cioè un mio individualismo, e allo stesso tempo un processo di crescita perso-
nale, di individuazione, attraverso un lavoro con altri individui che si prolunga
negli anni.
Questa trasformazione dell’esperienza in consapevolezza ed in riflessione
mi sembra che sia iniziato con i grandi riformatori europei del teatro, fino a
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La conquista della differenza 29
una, due o tre generazioni. Io stesso sono stato contagiato da virus che prove-
nivano da un passato distante e incomprensibile, che mi trascinavano lontano
dal mio presente: con smarrimento, uno strato dopo l’altro del mio cervello si
è infiammato, e poi la febbre ha preso l’organismo intero. È così che i morti si
introducono in noi, come microbi invisibili. Provocano allucinazioni, e ci
fanno credere alle possibilità di un ordine diverso, sotto la forma suggestiva di
un “metodo”. Di metodi in continuo movimento e cambiamento. Ci abitano
come fantasmi divoratori, infervorati da una coerenza assoluta e paradossale.
I riformatori del teatro novecentesco, a cui continuamente ritorno, deter-
minarono un big bang del teatro, una esplosione della tradizione, la creazione
delle piccole tradizioni nomadi, con i loro specifici ideali, approcci pedago-
gici, principi di recitazione, scopi sociali ed estetici, con i loro pubblici parti-
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30 Eugenio Barba
che ti conduce a trovare pratiche che modificano il tuo tempo e l’epoca che ti
circonda. È la ricerca dei tuoi antenati, dei morti dai quali si succhia l’essere-
in-vita di un lavoro che è prolungamento organico di una genealogia in cerca
di nipoti non ancora nati.
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La conquista della differenza 31
senso, ma perché non si lascia usurpare da dottrine. Qui chiunque può caval-
care la propria “differenza”, può scoprirla e rafforzarla, senza soffocare quella
degli altri.
Cara Mirella, come storica tutto questo ti è noto, benché sotto altre vesti.
Anche questo è stato per secoli la vita teatrale: un modo ambiguo e periglioso
di preservare e coltivare differenze. Distinzioni, non separazioni o distacchi.
Prima prevaleva l’imposizione. Oggi, la scelta.
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LA CONTRADA DEGLI ANTENATI
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TRADIZIONE E FONDATORI DI TRADIZIONI*
* Pubblicato per la prima volta in inglese e portoghese nel programma della 8a sessione
dell’International School of Theatre Anthropology (ISTA) di Londrina, Brasile, 1994,
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36 Eugenio Barba
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L’ESSENZA DEL TEATRO*
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* Pubblicato per la prima volta in Les chemins de l’acteur, a cura di Josette Feral, Éditions
Québec Amérique, Québec, 2001.
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38 Eugenio Barba
Dopo quattro anni in Polonia di cui trenta mesi di lavoro con Grotowski a
Opole, sono ritornato in Norvegia nel 1964. Ho bussato invano alla porta di
tutti i teatri di Oslo alla ricerca di lavoro. Ho raccolto altri rifiutati, giovani che
non erano stati ammessi alla Scuola Nazionale di teatro. A quell’epoca, la pa-
rola teatro evocava un edificio o un testo. Un gruppo di giovani che decidevano
di essere attori partendo da zero e senza un locale erano considerati alla stregua
di sordi pronti a eseguire una sinfonia di Beethoven senza strumenti. È così
che abbiamo fondato l’Odin Teatret.
Una perdita, una privazione, una mancanza – ecco le ferite che circoscri-
vono l’essenziale. Per l’Odin, l’esclusione dal mondo che doveva iniziarci alla
professione ed aiutarci a consolidare le basi del mestiere, rappresentava un
giudizio senza appello: non possedevamo le qualità per diventare artisti di
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teatro. A quel tempo non esistevano gruppi o culture teatrali alternative alle
quali integrarci o a cui poterci ispirare. Eravamo degli esclusi. Nessuno aveva
bussato alla nostra porta supplicandoci di arricchire l’arte teatrale. Il teatro era
la nostra malaria personale, la nostra necessità endemica. Il mondo non aveva
bisogno di noi come attori. Noi avevamo bisogno del teatro. Era giusto che lo
pagassimo di tasca nostra.
Ogni lavoro teatrale, anche nelle condizioni più favorevoli, è sottoposto a
costrizioni: di tempo, di denaro, di spazio, di quantità o qualità di collabora-
tori. Queste costrizioni fissano le regole del gioco e segnano i limiti del possi-
bile. Anche se possono essere previste, soprattutto quando non sei nessuno e
non hai niente, devi piegarti ad esse per sopravvivere. Oppure puoi sforzarti di
aggirarle, cosa che dà talvolta soluzioni insperate e originali. Puoi anche di-
struggerle con un martello, frantumandole in mille pezzi con i quali costruire
il tuo habitat, il mondo ideale e materiale del lavoro e dei risultati che ne deri-
vano. Così ricordo i nostri inizi in una capitale che sembrava il deserto.
Ecco l’origine dell’Odin Teatret in Norvegia: uno sparuto nucleo di di-
lettanti che sognavano di diventare professionisti, cinque giovani che si pren-
devano terribilmente sul serio: esecuzione perfetta degli esercizi e pulizia as-
soluta del pavimento su cui li eseguivano; successione ininterrotta di grida,
bisbigli, risonanze e vibrazioni sonore durante l’allenamento vocale, e si-
lenzio per proteggere il lavoro. Eravamo un piccolo gruppo che si appoggiava
sulla propria “superstizione” e che immaginava, per mancanza di esperienza,
che il teatro era un artigianato dal viso umano. Soli, in solitudine, fuori dalla
geografia dei teatri riconosciuti e riconoscibili. In un deserto in cui la sola
presenza era quella invisibile dei morti e la distanza di un maestro amato,
Grotowski.
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La conquista della differenza 39
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40 Eugenio Barba
tenzioni che generano un effetto di vita potente ed una risonanza intima nello
spettatore. I vivi sono incapaci di notare tutti i dettagli, ma i non viventi li ac-
cettano e assaporano la temperatura personale con la quale sono stati creati e
posti in strati alternati di luce e oscurità.
gli attori dell’Odin si rivolgono ogni volta che agiscono, a coloro che si scon-
treranno con gli stessi limiti che noi abbiamo vissuto tante volte, beffeggiati
dallo spirito del tempo, soli di fronte all’indifferenza della società e alla fred-
dezza del mestiere.
Possiamo raggiungere coloro che non sono ancora nati attraverso il con-
tagio. Entriamo in contatto con loro attraverso i vivi, attraverso gli spettatori
che ci rendono visita. È lo spettacolo e la sua puntura di scorpione che deci-
dono. Bisogna dare il massimo del massimo agli spettatori che vengono con
un regalo straordinario: offrono due, tre ore della loro vita abbandonandosi
con totale fiducia nelle nostre mani. Dobbiamo ricambiare la loro generosità
con l’eccellenza, ma anche con un obbligo: bisogna metterli al lavoro. Gli
spettatori devono essere messi alla prova, devono affrontare con i loro sensi, il
loro scetticismo, la loro ingenuità e crudeltà una tempesta di reazioni contra-
stanti, di allusioni, di controsensi, di grappoli di significati che si graffiano tra
loro. Devono risolvere in prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge
pronto a divorarli. Lo spettacolo è una carezza che brucia, tocca la loro sensi-
bilità, illumina ferite intime, li spinge verso il panorama muto di quella parte
che vive in esilio in essi stessi. Bisogna aprire gli occhi dello spettatore con la
stessa dolcezza con cui si chiudono quelli di una persona cara che si è appena
spenta.
Lo spettatore deve essere cullato dai mille sotterfugi del divertimento, del
piacere sensoriale, della qualità artistica, dell’immediatezza emozionale, della
raffinatezza estetica. Ma l’essenziale consiste nella trasfigurazione della du-
rata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita che si radica nella sua
carne e l’accompagna lungo gli anni. Lo spettacolo è la puntura di uno scor-
pione che fa danzare. La danza non si arresta all’uscita del teatro. La linfa del
veleno viaggia all’interno, penetra nel metabolismo psichico, mentale, intel-
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La conquista della differenza 41
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42 Eugenio Barba
L’essenziale del teatro non risiede nella sua qualità estetica o nella sua
capacità di rappresentare, criticare e intervenire nella vita. Esso consiste piut-
tosto nell’irradiare materialmente, attraverso il rigore della tecnica scenica,
una forma d’essere individuale e collettiva: una cellula sociale che incarna un
ethos, dei valori che guidano i rifiuti di ogni individuo che la costituisce.
La forma è fondamentale per il teatro. Attraverso la forma, cioè la disci-
plina e la precisione che essa esige, l’attore assorbe ed espone un nucleo di
informazioni che sfuggono alle parole e che contengono lo spirito dell’ethos
del rifiuto. E questo sin dal primo esercizio, dal primo giorno d’apprendistato.
Una forma d’essere nasce dall’azione reale in dissidenza con i luoghi comuni
del pensiero e della pratica professionale, le opinioni evidenti e la facilità delle
scelte. Essa suppone l’invenzione della propria tradizione.
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È così che vedo i miei attori: allo stesso tempo come il campo e come il
contadino che lo lavora. Lo spettatore vede maturare frutti sconcertanti il cui
sapore dovrebbe acuire la sete.
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La conquista della differenza 43
mentre attorno a noi gli altri avanzano a velocità ragionevole verso obiettivi
sensati. Immaginiamo di resistere in una zolla di terra ideale che non è costi-
tuita da una nazione, un’etnia o un’ideologia, ma da pochi esseri umani sparsi
su tutto il pianeta e che incarnano ogni giorno anonimamente il rifiuto che è
anche il nostro.
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44 Eugenio Barba
lo ha descritto, non è più grande di una piccola “o”. Al suo interno intravedo
alcuni esseri che sembrano alberi millenari: tronchi come uomini immobili e
uomini come alberi che si spostano. Da una parte c’è un vecchio e una ragazza.
Di là due uomini camminano un po’ alla cieca, come se si fossero perduti. Li
riconosco, sono Edipo e Antigone, Vladimir ed Estragon. Attorno ad essi, invi-
sibili, i dannati della terra danzano e cantano. Da qualche parte sento il pianto
di un bambino appena nato. So che è arrivato per me il tempo di raccogliere
quello che ho ricevuto e seminato e di consegnarlo all’erede sconosciuto che
resusciterà la tradizione della rivolta e della nascita, la tradizione del signifi-
cato decifrabile e del senso segreto del mio fare teatro.
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La conquista della differenza 45
morale dominante, gli attori erano persone che si esibivano e perfino si vende-
vano per denaro: la corruzione e la prostituzione delle attrici ne era una prova.
Da ciò la mancanza di rispetto e la discriminazione nei loro riguardi da parte
della società.
Con le sue eccezioni e variazioni, tale era l’universo del teatro fino alla
fine del XIX secolo, quando Nietzsche e Ivan Karamazov scoprono che Dio è
morto. Mentre la scienza sembra avere una spiegazione per ogni domanda,
nuovi dubbi sorgono a proposito della condizione umana, dell’organizzazione
della società, del ruolo degli artisti. Alcuni attori si gettano nel vortice che
travolge tutte le arti e che segna l’inizio della modernità: le avanguardie, gli
“ismi”, le rotture con i canoni e i criteri di una tradizione accettata e condivisa.
I modelli riconosciuti e praticati esplodono.
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46 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 47
La mutazione antropologica
Le forze che nel XX secolo fanno esplodere il modello unitario del teatro
e che tracciano una molteplicità di cammini, si nutrono di tensioni contraddit-
torie. C’è il disgusto che una minoranza di attori prova verso la miseria e la
servitù della loro professione. È il caso di Eleonora Duse che inveisce: “per
salvare il teatro, il teatro deve essere distrutto. Gli attori e le attrici devono
morire di peste….Essi rendono impossibile l’arte”. Gordon Craig mette le pa-
role apocalittiche della grande attrice italiana come epigrafe al suo saggio,
L’attore e la Supermarionetta, e propone di chiudere i teatri e di dedicarsi a
preparare una nuova “razza di lavoratori atletici” della scena.
C’è l’ossessione di legittimare il teatro non solo come disciplina artistica
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48 Eugenio Barba
poetica dei testi di Ibsen, Strindberg, Cechov, e farla vivere allo spettatore? A
quale processo dovrebbe sottomettersi l’attore per provocare nello spettatore
quest’esperienza di vita, quest’effetto di organicità?
È in questa prospettiva che bisogna vedere l’introduzione di un allena-
mento basato sugli esercizi, una pratica fino a questo momento assente nel-
l’apprendistato dell’attore europeo.
Una vera mutazione antropologica scuote l’universo degli attori europei
nel corso dei primi trent’anni del XX secolo. Il teatro non è più un continente,
ma diventa un arcipelago composto da isole, ognuna impegnata a costruire o
abbattere una tradizione, a forgiare nuovi costumi e credenze, a scoprire il
proprio dialetto. Non c’è più una storia e una cultura, e numerosi sono i fan-
tasmi che rivelano la molteplicità del passato.
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La conquista della differenza 49
dei rubinetti nei bagni. Una delle insegnanti, anch’essa ballerina, mi ha mo-
strato le proprie dita dei piedi deformate: “è duro danzare sulle punte. È la ca-
pacità di resistere alla sofferenza che decide della carriera di una ballerina”.
L’ascetismo caratterizza sempre l’apprendistato all’eccellenza, artistica o
sportiva, spirituale o agonistica. L’autodisciplina accompagna gli sforzi di
ogni individuo teso ad oltrepassare i propri limiti. L’allenamento di un attore è
l’iniziazione ad una professione in cui la resistenza, nei suoi multipli signifi-
cati, è una condizione fondamentale: controllo fisico e psichico; persistenza
nell’avversità, nell’insuccesso, nei periodi d’inverno senza frutti; rifiuto
all’auto-indulgenza e alle soluzioni ovvie; caparbietà di fronte agli ostacoli;
accanimento a estrarre il difficile dal difficile; tenacità per non adattarsi alle
costrizioni delle circostanze. Ogni vocazione artistica, ogni pulsione a negare
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un destino che si rifiuta, ogni necessità di liberarsi dalle catene di una tradi-
zione spenta o di una routine, sono accompagnate da un ascetismo inteso come
azione rigorosa e approfondimento del sapere artigianale.
L’attività teatrale ha un doppio effetto: sulla persona che la esegue e sulla
persona a cui questo lavoro è rivolto, lo spettatore. L’introduzione degli eser-
cizi ha permesso di definire e di approfondire la zona di “lavoro dell’attore su
se stesso”. Gli esercizi non mirano ad uno sviluppo muscolare, ma ad una
concentrazione – mentale e somatica – su un compito umile ma complicato, a
volte paradossale. L’obbligo alla precisione e alla ripetizione determina una
maniera specificamente personale di pensare con il corpo intero attraverso una
concatenazione ed una simultaneità di tensioni, contrasti e immobilità dina-
miche. È l’apprendimento ad essere come attore, a radicarsi attraverso una
presenza scenica, ma è anche un processo d’individuazione, di crescita perso-
nale. Non è un caso che il termine “esercizio” si ritrovi nei cammini di perfe-
zionamento psichico, mentale o spirituale che utilizzano tutti dei procedimenti
somatici: una maniera particolare di respirare, di fissare lo sguardo, di muo-
versi o danzare, di fermare il flusso dei pensieri.
Si possono allora apprezzare le prospettive sconosciute, indicate da alcuni
riformatori e le nicchie sorprendenti che hanno fatto spuntare al centro stesso
dell’ecosistema del teatro. E riflettere, allo stesso tempo, sul paradosso che
sembra guidare il loro cammino: più s’allontanano dalla rappresentazione, più
si concentrano sulla pratica degli esercizi.
È il caso di Copeau che sceglie la scuola al teatro fuggendo da Parigi, la
città-spettacolo. I suoi studenti recitavano in Borgogna, ma il loro lavoro pog-
giava soprattutto su un processo ininterrotto di apprendimento, sull’aspetto
nascosto del mestiere che distilla l’ethos dell’attore.
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50 Eugenio Barba
Grotowski lascia il teatro nel 1970. Ma dalla metà degli anni 80, fino alla
sua morte nel 1999, nel suo rifugio italiano di Pontedera, applica alla sua “arte
come veicolo” tutta la “gnosi” acquisita attraverso gli esercizi. Definisce Per-
former la persona che lavora con azioni fisiche che non rappresentano, e con
azioni vocali che sottolineano la qualità vibratoria della voce. Questo paziente
e minuzioso processo non è definito in funzione dello spettatore ma del-
l’”attuante”. Il termine è di Grotowski che ormai rifiuta quello di attore. Tal-
volta, eccezionalmente, alcuni testimoni scelti possono assistere.
È alla scuola del Vieux Colombier di Copeau che si è formato Etienne
Decroux. Il suo cammino è costellato dall’invenzione continua di esercizi alla
ricerca di una efficacia scenica dell’attore. La sua modesta casa di un sobborgo
di Parigi, era una vera fortezza di libertà, indipendente dalle tendenze, dalle
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mode e dai mercati, dove ha forgiato generazioni di ribelli, testardi, leali e con
uno spiccato senso dell’humour.
L’esperienza più sorprendente – la prima del genere – è quella del primo
Studio di Stanislavskij, diretto dalla singolare personalità di Suleržickij. I
membri dello Studio, che annovera i giovani Vachtangov, Mikhail Cekhov e
Boleslawski, erano immersi nella creazione ed esecuzione di centinaia di eser-
cizi, senza preoccuparsi della produzione immediata di uno spettacolo. I gio-
vani dello studio lasciarono Mosca per stabilire nel Caucaso un falansterio
teatrale, concentrandosi sugli esercizi, coltivando la terra e organizzando se-
rate per i contadini.
Una motivazione oscura, che non si lascia spiegare solamente in termini
di originalità artistica, spinge queste personalità a prendere posizione di fronte
alla società e al teatro del loro tempo. Forse è stato Artaud a formulare questa
motivazione nel modo più esplicito: il teatro non deve imitare la vita, ma ricre-
arla. Allora il mestiere, questa tecnica attraversata da una necessità intima, di-
viene un fascio d’energie da scoprire, da mettere a nudo per ri-formare l’essere
umano, la sua dimensione sociale e spirituale.
La quantità e la varietà di esercizi inventati dai riformatori sono una “fin-
zione pedagogica”. Non insegnano né spiegano le regole della recitazione
dell’attore. Essi immergono l’allievo in un flusso di ostruzioni e costrizioni
fisiche e mentali per affrancarlo dalle categorie funzionali e utilitariste della
vita quotidiana. un lungo apprendistato consente di incorporare la coerenza di
un ethos professionale e diventare presenza che incarna i valori assorbiti nel
corso di anni di lavoro. Gli esercizi dissimulano un cuore in un lavoro che
sembra auto-annullamento ma che porta all’autonomia.
L’allenamento e gli esercizi sono stati riscoperti e si sono diffusi nella se-
conda metà del XX secolo, soprattutto nel mondo del terzo teatro, delle isole
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La conquista della differenza 51
zioni essenziali in simbiosi con la visione e gli scopi dell’unica forma di teatro
alla quale essi volevano dare vita. I loro attori hanno trasformato e animato il
disegno stereotipato di questi esercizi con un’energia personale, senza lasciarsi
divorare dal loro lato ginnico. Al contrario ne hanno estratto una leggerezza,
una radiazione capace di suscitare, loro malgrado, risonanze e associazioni
negli osservatori.
Quando si ripetono gli esercizi fuori dal contesto nel quale sono sorti, si
rischia di svuotarli del loro cuore nascosto e di riprodurre solamente la conchi-
glia esterna. Senza una guida rigorosa e competente, senza un ambiente consa-
pevole di uno scopo lontano – la luna che brilla e che nasconde un lato oscuro
e inaccessibile – gli esercizi non insegnano che a guardare un dito puntato.
Il cuore segreto aiuta a vedere il dito vicino del maestro, ad essere co-
sciente della luna distante che il dito indica, e a dimenticarli entrambi lungo il
cammino che deve condurre all’incontro con se stessi.
Per me il teatro è esperienza diretta, per gli storici il teatro è una questione
di fatti. Amo percorrere “la storia sotterranea” del teatro dove ogni riformatore
mi viene incontro come un eretico scorticato che urla la sua solitudine e la sua
rivolta, espone la sua ferita e i cui balbettii mi spalancano un abisso di do-
mande. Sono ipnotizzato dalle loro biografie, studio sbalordito i loro spetta-
coli, mi lascio impressionare dalle loro scelte. È insieme ricerca di identità
professionale e viaggio all’interno di me stesso. Scopro la mia cultura, i miei
antenati, l’eredità che mi hanno consegnato: le mie radici e le mie ali. Provo
una sensazione molto forte che chiamo “superstizione”: una presenza che “si
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52 Eugenio Barba
mente le mie azioni danno fuoco alle loro forme e alle loro parole. Ne vedo le
ceneri spazzate dai venti dell’oblio, dalla derisione e dall’indifferenza dell’e-
poca. Nel fumo dell’incendio da me appiccato, intravedo il senso misterioso
che è soltanto mio e che mi spinge attraverso il teatro, come un cavallo cieco
che galoppa sul bordo di un precipizio ghiacciato.
La tradizione non esiste. Io sono la tradizione, la tradizione-in-vita. Essa
materializza e va oltre la mia esperienza e quella degli antenati che ho incene-
rito. Condensa gli incontri, le illuminazioni e i lati scuri, le ferite ed i cammini
invisibili sui quali non smetto di perdermi e ritrovarmi. È una tradizione che
lascia delle tracce come un trickster astuto ed ebbro, i cui tranelli mescolano
strumenti preziosi di orientamento e un ammasso di conoscenze inapplicabili.
Quando sparirò, questa tradizione-in-vita si dissolverà. Un giorno, qualcuno,
spinto da una necessità che appartiene soltanto a lui o a lei, si confronterà con
questa eredità in letargo, la scuoterà, se ne approprierà bruciandola con la
temperatura delle sue azioni. Con un atto che presuppone amore, l’erede invo-
lontario estirperà il segreto della mia eredità confrontandosi al suo senso per-
sonale.
Appropriarsi significa sapersi nutrire, scegliere le fonti della propria co-
noscenza. Il poeta brasiliano Osvaldo De Andrade pretendeva che ogni artista
fosse antropofago. Un antropofago non è un cannibale, diceva. Il cannibale
divora per voracità, mentre l’antropofago si alimenta delle parti scelte del-
l’altro, lembi impregnati di qualità, virtù e doti con cui nutre la sua forza. Bi-
sogna essere antropofago – concludeva De Andrade – non cannibale allorché
ci avviciniamo ad un’altra cultura. Dobbiamo esserlo anche verso il passato,
verso gli antenati.
Sembra un incontro inoffensivo che non presuppone un impegno assoluto.
In realtà è un’operazione rischiosa, piena di incognite poiché in quel preciso
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La conquista della differenza 53
momento ci relazioniamo con le fonti stesse della nostra esistenza, della nostra
essenza. Le relazioni tra gli esseri umani e coloro che li circondano – i vivi,
coloro che li hanno preceduti e coloro che seguiranno – sono cosparse di segni
e messaggi occulti, decifrabili nella misura in cui si va aldilà del transitorio.
Porsi la questione della tradizione, vuol dire riflettere sull’istinto di rivolta che
ha guidato i nostri passi verso un orizzonte che oggi ci rinchiude, capace di
incitarci a marciare man mano che esso si allontana. È domandarsi come sfug-
gire alla voracità del presente che impedisce di abbracciare questa scheggia di
passato di cui solo noi rappresentiamo l’avvenire.
Gli antenati hanno dato l’esempio. Sono andati verso il teatro come si va
nel deserto: per incontrare sé stessi, ma anche per fondare un luogo diverso da
tutti gli altri, una fortezza dalle mura di vento in cui instaurare nuove regole di
vita. Un’isola di libertà. Dietro queste metafore si nasconde la realtà: devi en-
trare ogni giorno nella sala di lavoro, confrontarti con un nucleo di persone,
essere capace di stimolarle al fine di essere stimolato in cambio, procedere a
tentoni sperando che il lavoro mostri la strada. È questa atteggiamento che
permette alla tua isola galleggiante di non sprofondare.
Quando nel 1994 l’Odin Teatret ha festeggiato i trent’anni, mi sono detto
che dovevo prendere una decisione radicale, agitare ancora una volta il mar-
tello e frantumare le sicurezze che erano i miei limiti. Ho pensato di dire ai
miei attori che era tempo di ritirarmi, avevo svolto il mio compito. Ma io non
mi appartengo più. Appartengo ad una piccola tradizione nomade i cui ante-
nati restano in vita attraverso la coerenza e la continuità della mia azione. Una
piccola tradizione che ha dimostrato che il teatro è un ensemble, un gruppo di
individualisti che possono costruire una fortezza, esserne contadini e califfi,
coltivare una terra che, dopo Stanislavskij, è abitata dalla nostalgia di una di-
sciplina artigianale che è isola di libertà, rifugio dallo spirito del tempo e ri-
cerca dell’essenziale.
Nel museo di Antropologia di Città del Messico, nella sala della cultura
Olmeca, sono esposte delle statue gigantesche orribilmente sfregiate, a tal
punto che è impossibile riconoscere se rappresentino un essere umano o un
animale. Furono trovate sepolte sotto diversi metri di terra rossa, circondate di
offerte. Gli archeologi pensano che un cambiamento di mentalità religiosa
spinse gli Olmechi a sfigurare quelle statue e a nasconderle. Si rendevano
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54 Eugenio Barba
conto di commettere un atto rischioso, allora seppellirono anche dei doni per
placare la collera dei vinti.
È come se il teatro abbia perduto la sua effigie, come se l’usura e la fre-
nesia del tempo, o gli stessi esseri umani, gli abbiano mutilato il viso. Non ha
più profilo. Si fanno offerte a questo teatro sfigurato, lo si adorna di teorie e
significati. Ma i soli tratti che possono restituirgli la vita e la sua interezza
provengono da quella parte di noi in cui una voce canta e sanguina: la nostra
vulnerabilità di lupo e bambino.
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NONNI E ORFANI*
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56 Eugenio Barba
Non sono come i maestri che diventano un punto di riferimento unico e asso-
luto. La pluralità dei nonni fa capire che il problema del capostipite è un falso
problema e una fonte di inganni.
Nella famiglia professionale che costituisce la mia storia non ci furono gli
equivalenti dei genitori. Sono un autodidatta. Questo termine necessita però
una chiarificazione. C’è una differenza fra colui che apprende qualcosa senza
l’ausilio d’una scuola regolare, ma impadronendosi d’un sapere preciso, lo
stesso che le scuole impartiscono; e colui che invece è costretto non solo a ri-
tagliarsi un campo del sapere, ma anche a individuare i fondamenti di una
professione alla quale gli è stato rifiutato l’accesso. C’è differenza fra colui
che deve orientarsi da solo in un territorio che lo riconosce e in cui si rico-
nosce; e colui che deve circoscrivere il proprio territorio, scovare i propri si-
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La nascita di un nonno
La scoperta d’uno dei miei due nonni ha coinciso con i miei primi passi in
cerca di teatro intorno al 1960. Era Stanislavskij. Di lui mi parlavano tutti, alla
scuola di Varsavia, che abbandonai. Di lui parlava continuamente, nei primi
anni Sessanta, colui che divenne il mio fratello maggiore, Grotowski. Era uno
di quei nonni che partoriscono leggende.
Mejerchol’d, invece, era un nome sempre avvolto da mantelli di nebbia.
Su di lui ascoltavo storie frammentarie, laconiche ed amare. Anche su di lui
circolavano leggende, ma dichiaratamente tali, ambigue e a volte grottesche.
Era una grande ombra fugace all’orizzonte, un fantasma. Furono i libri a farmi
scoprire, pezzo per pezzo, la storia di cui quell’Ombra era la proiezione ingi-
gantita e sfumata. Innanzi tutto, tre libri dei primi anni Sessanta.
Stalin era morto nel 1953. Tre anni dopo, cominciò la cosiddetta ”destali-
nizzazione” e di Mejerchol’d si cominciò di nuovo a scrivere. Ancora qualche
anno, e vennero le prime importanti traduzioni. In Italia, alla fine del 1962,
Editori Riuniti, la casa editrice legata al Partito Comunista, aveva pubblicato
La Rivoluzione teatrale, una raccolta di scritti di Mejerchol’d. Fra la gente di
teatro cominciò a crearsi un nuovo cliché, aggiungendo un terzo elemento allo
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La conquista della differenza 57
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58 Eugenio Barba
Fevralski nelle prime righe diceva: “L’intima amicizia che legava Mejer-
chol’d alla gioventù dipendeva dal fatto che lo stesso ‘vecchio’ era un eterno
giovane. Giovane di corpo e di spirito, nonostante i capelli grigi, la tubercolosi
e le disfunzioni epatiche. Quando dirigeva gli esercizi di biomeccanica, li
eseguiva con maggior precisione, facilità ed eleganza del più giovane, forte ed
agile dei suoi allievi. Nel corso delle prove capitava di veder ballare Mejer-
chol’d in una parte di donna. E ballava in modo tale da sembrare effettivamente
una giovane donna, invece dell’uomo anziano che in realtà era”.
Ero stregato da questo anziano maestro che si trasformava sotto gli occhi
dei suoi allievi in una ragazza, un padre severo che passava il tempo giocando.
Credevo di comprendere il sottotesto appassionato delle frasi cerimoniali che
concludevano il “Ricordo” di Fevralski: “Per tutti noi, mejercholdiani, egli era
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La conquista della differenza 59
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60 Eugenio Barba
altri modi d’essere del teatro perché c’era un altrove con cui identificarmi e
misurarmi.
Oggi sono grato alla sorte che mi ha immesso nella professione come or-
fano dotato di nonni. Sono potuto crescere in un ambiente verticale, un teatro
che non sta tutto nel presente e che rende la dissidenza – prendere posizione a
parte – un riflesso condizionato altrettanto caro d’una casa ancestrale.
Teatro perspicace
Il teatro della nostra epoca è necessario soprattutto per chi lo fa. All’inizio
degli anni 1960, furono Peter Brook e Jerzy Grotowski a indicare questo mu-
tamento nella ragione sociale e culturale del teatro. Affermarono l’esigenza di
non soffrire il mutamento come una perdita di senso, ma come punto di par-
tenza per individuare un valore. Se il teatro diviene superfluo, nella nostra so-
cietà, la sua forza può derivare solo dalla sua differenza. In altre parole, dalla
capacità di raccogliere attorno a sé quegli spettatori le cui domande trovano
un’eco nei bisogni che spingono alcune persone a fare teatro.
Nell’età dei nonni, di Stanislavskij e Mejerchol’d, il teatro era ancora
considerato un bene necessario. La sua ragione sociale non era messa in que-
stione. Ma Stanislavskij e Mejerchol’d dettero un fondamento anche al valore
del teatro dal punto di vista di chi lo fa. Crearono una vita parallela accanto
alla normale produzione di spettacoli. Si dedicarono ad attività anomale, con-
centrandosi sulla qualità della vita di gruppo, sull’esistenza e sulla difesa
d’una microcultura, sul teatro come laboratorio in continua ricerca, o nucleo
di esperienza spirituale e politica. Usarono la pratica teatrale anche come via
per il lavoro dell’essere umano su di sé, come strumento per esplorare la qua-
lità delle relazioni fra individui, e nutrire la forza d’animo per opporsi.
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La conquista della differenza 61
Stanislavskij sentì con particolare forza le potenzialità del teatro aldilà del
mettere in scena testi. Il lavoro dell’attore su di sé e sul personaggio poteva
diventare un valore autonomo, indipendentemente dalla realizzazione dello
spettacolo. Lui che era considerato un geniale regista-demiurgo cominciò a
privilegiare la fase delle prove, come se lì fosse possibile sperimentare l’es-
senza stessa del fare teatro.
Stanislavskij trasformò un paradosso in scienza. Il paradosso era cercare
la verità o l’autenticità attraverso la finzione scenica. Traeva una conseguenza
inaspettata dal luogo comune secondo cui la vita quotidiana è una recita, e il
mondo intero non è altro che teatro. Se questo è vero, se ne deduce che fare
teatro significa interrompere il nostro continuo recitare. Non è una boutade.
Fu una linea d’azione conseguente, metodica, scientifica.
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La conquista della differenza 63
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64 Eugenio Barba
Il microscopio e la storia
Nella piazza del mio cuore di teatrante orfano c’erano le due statue dei
nonni. Stanislavskij teneva in una mano un microscopio e nell’altra un libro di
poesie; Mejerchol’d con una mano brandiva un manifesto di agitazione e pro-
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paganda e con l’altra sfogliava libri di storia, alla ricerca di punti di riferimento
e termini di confronto.
Ambedue i nonni, infatti, erano scienziati – oltre che artisti e pescatori
d’uomini. Stanislavskij praticava la scienza sperimentale del teatro e del-
l’attore, amava la ricerca in profondità, partiva dall’esperienza per risalire alle
fonti della vita scenica, ai principi di base e condivisibili. Procedeva dal com-
plesso al semplice, dall’organismo alla cellula.
Mejerchol’d, invece, pensava la natura del teatro in termini di lotta. Ricer-
cava nel microcosmo dell’individuo – sia nell’attore che nello spettatore – gli
stessi schemi d’azione che caratterizzano i mutamenti sociali. Conflitti, ten-
sioni, polarità erano per lui sinonimo di “vita”. L’essenziale non era per lui la
ricerca delle fonti della verità o dell’autenticità, ma l’indagine sul modo in cui
la dinamica della storia può irrompere e miniaturizzarsi nello spettacolo ed in
ogni frammento dell’azione dell’attore, nel suo corpo-mente.
Una delle cose che mi faceva sentire vicino a Mejerchol’d era la sua vora-
cità per la storia dei teatri.
Quando sfogliamo i molti volumi che Stanislavskij ci ha lasciato, ci tro-
viamo in un panorama di testimonianze dirette, una folla di attori e attrici che
ha conosciuto, che ha visto sui palcoscenici più diversi e lontani. Anche dei più
mediocri ricorda un gesto o un’inflessione di voce che dopo anni può portare ad
esempio e sviscerare con il suo bisturi di scienza e di poesia. Spazia fra la
Russia e il resto d’Europa, fra il teatro, l’Opera e la danza. Però è raro che Sta-
nislavskij senta il bisogno di cercare nei libri le tracce di un teatro sparito.
Sembra fidarsi soltanto di quel che ha sperimentato con i propri occhi e i propri
sensi.
Mejerchol’d amava viaggiare nel regno dei morti, nella storia. Interrogava
il teatro-che-non-c’è-più per inventare il teatro che-non-c’è-ancora. Tutti i
suoi scritti sono fitti di interpretazioni e casi ispiranti del passato. Alla luce
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La conquista della differenza 65
delle sue esperienze interpreta i documenti antichi, li libera dalla polvere del
tempo, li trasforma in voci con cui dialogare.
Nella piccola famiglia di riformatori e profeti che cambiarono la storia
del teatro novecentesco, Appia, Stanislavskij, Decroux e persino Brecht fu-
rono simili a scienziati puri. La loro ricerca ebbe il rigore di un procedimento
deduttivo. Esplorarono il territorio scenico con la volontà di individuare le
fonti della vita e delle nuove finalità del teatro. Altri – Craig, Copeau, Mejer-
chol’d – preferirono ampie ricognizioni nella storia, raccolsero materiali ed
esempi praticabili, misero in moto nuove ricerche, contribuirono a rinnovare
la storia del teatro. Crearono ambienti in cui gli artisti di teatro dialogavano
con gli storici.
Non sono distinzioni rigide. È evidente che nessuno può fare a meno della
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storia, così come non c’è indagine del passato che non sia nutrita da ricerche
sperimentali. Si tratta d’una differenza di propensioni, non di metodi contrap-
posti. In base a queste propensioni, se dovessi scegliere in quale dei due gruppi
inserire il mio fratello maggiore, Grotowski, lo immaginerei tra gli scienziati
puri, insieme ad Appia e Stanislavskij. Per quanto mi riguarda, mi collocherei
piuttosto nella schiera capeggiata da Craig e Mejerchol’d.
Coloro che entrano nel teatro come “orfani” hanno un particolare bisogno
del passato. La nostra stessa condizione ci spinge a costruirci un passato, ad
inventarci una tradizione. Invenzione della tradizione è diventata un’espres-
sione comune dopo la brillante raccolta di saggi storici di E.J. Hobsbawm a
metà degli anni 1980. Può indicare due prospettive molto diverse: la composi-
zione artificiale, a scopo politico e nazionalistico, d’una origine inesistente, un
mito fabbricato come un’arma (questa è la prospettiva di Hobsbawm). Oppure
può significare un sentiero tracciato nella sfera buia del passato collegando
punti lontani, da usare come sistema di riferimento. Nel primo caso l’inven-
zione della tradizione è un falso storico. Nel secondo, è come una costella-
zione. Nel primo caso nutre il fanatismo. Nel secondo, è un orientamento per
la conquista della propria differenza, cioè della propria identità.
Esiste allora un’obiettiva o inventata tradizione di Mejerchol’d? Non
credo. Vuol dire, allora, che l’essenziale del suo insegnamento è sprofondato
nell’oblio?
Non esistono soltanto le tradizioni, con la loro continuità basata sull’inin-
terrotta tensione fra innovamento e conservazione. Esistono anche tradizioni
sconnesse che si trasmettono attraverso la discontinuità e la contraddizione,
eludendo le vie rette. Passano dall’uno all’altro elemento, diventando irrico-
noscibili, come è irriconoscibile, nella nuvola, l’acqua di un torrente secco.
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66 Eugenio Barba
zioni possono incontrarsi. Su quella casa soffiò, alla fine degli anni 1930, il
vento della storia, seminando distruzione. Persino la memoria rischiò d’essere
cancellata. Ora, la casa del nonno raccoglie e conserva alcuni dei più impor-
tanti documenti della storia dell’“età d’oro” del teatro.
Marija Aleksejevna Valentej, è il nume tutelare della casa del nonno.
Sembra fragile, ma ha combattuto caparbiamente tutta la sua vita contro la
dissipazione della memoria. È carica d’anni e i suoi occhi sono pieni di luce.
Avevo gli occhi appannati, a Mosca, quel mattino del 15 maggio 2001,
nel “salotto giallo” dove Mejerchol’d e sua moglie Zinaida Raikh accoglie-
vano i loro amici intorno al pianoforte dove Shostakovich e Prokofiev suona-
vano e Mejerchol’d immaginava partiture invisibili per i suoi spettacoli.
La casa del nonno, quel crocicchio di cultura voluto e difeso dalla nipote
Marija, è un trionfo di colori. Vi ritrovo i vividi schizzi scenografici che ho
visto infinite volte nel bianco e nero delle foto nei libri. Tra di loro campeggia il
grande ritratto di Mejerchol’d steso sul divano, la pipa in bocca, un cagnolino
accucciato sulla gamba sinistra. Lo sfondo, un grande arazzo floreale, è una
deflagrazione variopinta. Pëtr Konchalovskij ha ritratto Mejerchol’d un po’ alla
maniera di Matisse, comodo, raffinato, pensoso e rilassato. Di lì a poco avrebbe
subìto l’arresto, la tortura, un processo infame, la morte per fucilazione.
Siamo seduti al grande tavolo ovale, beviamo champagne e tè, gustiamo
pasticcini, Béatrice Picon-Vallin traduce con la sua voce trepida il pacato mor-
morio di Marija Aleksejevna. Intorno a questo tavolo si riunivano, discutendo
e sghignazzando, Belyi e Pasternak, Erdman e Olesha, Erenburg, Ejzenštejn e
Majakovskij. Più raramente gli antichi colleghi del Teatro d’Arte, Katjalov e
Olga Knipper. Gli occhi di Marija Aleksejevna si riempiono di lacrime quando
ringrazia Béatrice per quel che ha fatto e continua a fare per diffondere l’opera
di suo nonno. Ringrazia anche tutti noi, che attraverso il nostro lavoro ren-
diamo onore alla sua opera.
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La conquista della differenza 67
Sento una gioia che zampilla dal pessimismo. Non è vero che nulla resiste
alla barbarie della storia. Tutto era stato ben congegnato perché di Mejerchol’d
sparisse ogni memoria. Così sarebbe stato, se il padre e i giovanissimi figli di
Zinaida Raikh, ed Ejzenštejn con loro, non avessero nascosto i suoi documenti
fra le pagine di libri e quaderni innocui, a rischio della libertà e forse della
vita, occultandoli in archivi e luoghi lontani da perquisizioni e razzie. Ben
poco sarebbe rimasto del nonno senza la lunga accanita lotta di sua nipote
Marija Aleksejevna. Grazie a queste persone dalla fedeltà segreta e coraggiosa,
Mejerchol’d non è stato sopraffatto dalla storia.
Accanto alle storie di resistenza, ci sono le storie sotterranee, che raccon-
tano il diffondersi della tradizione sconnessa di Mejerchol’d. Quell’uomo an-
ziano e longilineo, con la sua pipa in bocca, disteso fra colori accesi, è evapo-
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rato. La sua nuvola è arrivata lontano, così lontano che persino Maria
Aleksejevna non ne ha sentito parlare.
Seki Sano discendeva da una casata aristocratica giapponese ed aveva
conosciuto la galera, perché diffondeva le idee della rivoluzione socialista nei
suoi spettacoli. Diceva che l’URSS era “il paradiso del teatro”. Da quel para-
diso venne espulso nel 1937. Vi era approdato nel 1932. Frequentò Stanislav-
skij e divenne un profondo conoscitore del suo “metodo”. Entrò anche nella
cerchia di Mejerchol’d e dal 1936 ne seguì il lavoro. Il teatro era per lui un’arte
politica. Non si lasciava distrarre dalle diatribe puramente estetiche. Sapeva
per esperienza che le scoperte di Stanislavskij e quelle di Mejerchol’d face-
vano parte di un unico bagaglio. Con quel bagaglio arrivò in Messico, nel
1939, dopo essersene dovuto andare anche dagli Stati Uniti a causa delle sue
idee. Intanto, nel «paradiso del teatro», Mejerchol’d veniva fatto sparire.
Seki Sano, il giapponese che aveva avuto il privilegio di abitare per
qualche anno in “paradiso”, formò in Messico un’intera generazione del più
pugnace teatro latinamericano. Tradusse il termine-chiave di Stanislavskij,
perizhivanie, nello spagnolo vivencia. Accanto a lui, maestro di teatro e uomo
libero, si formarono, fra gli altri, Adolfo de Louis, cubano, il nicaraguense
Alfredo Valessi e il messicano Jesus Gómez Obregón, che ebbe tanta impor-
tanza per la vita teatrale del Venezuela.
Di Seki Sano mi parlò a lungo Santiago García, uno dei maestri del teatro
colombiano, fondatore del teatro La Candelaria. Nel 1954, Rojas Pinilla, che
capeggiava la dittatura militare al potere in Colombia dal 1952, decise di fon-
dare una televisione nazionale. Sguinzagliò i suoi uomini alla ricerca del mi-
glior regista per dirigere una scuola che formasse artisti televisivi. Natural-
mente, doveva parlare correntemente lo spagnolo. Gli indicarono un
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La conquista della differenza 69
all’altro inabissarsi con tutta l’isola che li contiene e li sorregge. Ma, allo
stesso tempo, divenire nuvole di una terra che non c’è più.
Una nuvola grande come la vela di un galeone, mutevole pur restando
sempre se stessa, attraversa il “salotto giallo” nella casa di Mejerchol’d.
I nostri nonni, cara Marija Aleksejevna, non spariscono. Evaporano.
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LA CASA DELLE ORIGINI E DEL RITORNO*
miei compagni dell’Odin Teatret e me, di ricordare gli inizi – le prime parole
di un noto testo teatrale:
– Merdre!
Il più conosciuto fra gli incipit del dramma europeo forse andrebbe evi-
tato in questo solenne consesso. Ma non si può, perché questa sorprendente
esclamazione è senza dubbio la più significativa.
La provocazione con cui Jarry aprì Ubu Roi, quando fu scritta e detta la
prima volta, dovette essere deformata (Merdre!) per risultare accettabile.
Oggi, se non fosse deformata e contraffatta, sarebbe talmente banale da pas-
sare inosservata. Questa parola distorta dovrebbe essere scritta sulle bandiere
dei nostri teatri, se i teatri alzassero ancora bandiere in cima ai loro tetti, come
a Londra ai tempi di Shakespeare.
Quella parola sulla bandiera non è un insulto. È un rifiuto. È questo che il
teatro, lo sappia o no, dice al mondo che lo circonda. E, per dirlo con efficacia
e coerenza, deve allontanarsi dal linguaggio quotidiano, rielaborarlo e situarlo
in uno spazio paradossale.
Lo spazio paradossale è l’unica patria del teatro.
Per questa patria Jarry ha creato un’immagine sarcastica e antitetica,
degna di figurare come emblema su una bandiera:
Quant à l’action, qui va commencer, elle ce passe en Pologne, c’est à dire
Nulle Part.
Era il 10 dicembre 1896, quando alla ribalta del Théâtre de L’Oeuvre di
Parigi Jarry pronunciò queste parole, che possono risultare amare, ironiche,
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72 Eugenio Barba
persino disperate – tutto tranne che tristi o provocatorie. Sono allegre e piene
di vitalità, come l’humour noir che ho imparato a conoscere ed ad apprezzare
qui in Polonia. Dovremmo però riflettere su un fatto: quando Jarry mise sulla
carta quelle parole gioiose e nichiliste, Nulle Parte lo scrisse con le iniziali
maiuscole. Non come un’assenza, ma come un’identità.
La Polonia è la mia patria professionale. L’ho sempre pensato, perché qui
ho vissuto gli anni fondamentali del mio apprendistato. Qui assimilai la lingua
di lavoro, l’atteggiamento critico verso la storiografia, le basi del sapere e le
tensioni ideali dell’artigianato teatrale. La Polonia fu l’ambiente che guidò i
miei primi passi verso il mio destino. Oggi, nel momento del ritorno alla casa
delle mie origini, dopo quasi mezzo secolo, mi chiedo se la Polonia non sia
rimasta la mia patria professionale soprattutto per la sua forte vocazione a
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La conquista della differenza 73
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74 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 75
stante, anzi, dove l’atto di rifiutare può essere cesellato come un gioiello, come
una favola attraente, che poi ci sorprende, quando ci sembra che parli di oggi e
proprio a noi.
Oggi io sono commosso, perché sono dentro una favola, e questa favola è
a Varsavia che mi viene raccontata. Quale luogo può rappresentare il castello
delle favole meglio dell’università delle origini del mio percorso professionale
alla quale ritorno come doctor honoris causa nel quinto atto della mia vita?
Eppure, in questo stesso momento, rivedo le ossa che i bulldozer scava-
vano alla luce fra le macerie di Varsavia ancora all’inizio degli anni 1960. Ap-
partengo a quella generazione di giovani affamati di libri, che quando alza-
vamo gli occhi rischiavamo di vedere ossa fra la terra e le macerie portate vie
dai camion che ricostruivano l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Scoprivamo un’altra fame, oltre quella per il sapere e i libri. Come se senza
leggere non si potesse respirare, ma tutti i libri, poi, fossero lì per nascondere
la verità.
Per alcuni di noi che hanno goduto l’eloquenza e la poesia dei libri ac-
canto all’orrido mutismo della ossa degli anonimi assassinati, il teatro è stato
un ponte fra la fame di sapere e la fame di quel che si rivela quando si abban-
dona il sapere. Un ponte che si può costruire con metodo, secondo le migliori
regole dell’architettura, ma che non è fatto perché ci si fermi su di esso, come
se fosse un traguardo.
Sì, il teatro è un’arte. Ma la sua bellezza non basta a rapirci. Quest’arte è
stata a lungo svalutata. Poi finalmente apprezzata e premiata come merita.
Degli apprezzamenti e dei premi, i miei compagni dell’Odin ed io vi ringra-
ziamo, commossi. Ma abbiamo visto le ossa. Non si può pretendere che la
pompa delle cerimonie teatrali e la loro solennità appaghi la nostra fame. I
vasti palazzi delle favole sono fatti per essere visitati e lasciati. Se ci attac-
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76 Eugenio Barba
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TECNICHE E COSTUMI
DEL PAESE DEL TEATRO
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LA DERIVA DEGLI ESERCIZI*
Fra i molti avvenimenti singolari nella storia del teatro del Novecento va
annoverato il fenomeno della deriva degli esercizi teatrali. Una deriva lenta,
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80 Eugenio Barba
guire opere di cui è appassionato, il centro di quel nuovo modo d’essere della
pedagogia teatrale non è l’esecuzione futura di pezzi teatrali in sé conclusi
(spettacoli, o scene di spettacoli), ma l’insegnamento stesso degli esercizi
come esperienza attiva del teatro. È un esempio – sul piano sociologico – della
paradossale tendenza degli esercizi a vivere di vita propria. Questa tendenza
non fu mai affermata in termini teorici, anzi fu spesso osteggiata come una
forma di spreco culturale e di inefficienza professionale.
Un caso sintomatico è costituito dalla vicenda di Etienne Decroux. Il
mimo, che egli definì come arte pura a sé stante, era all’inizio una costella-
zione di esercizi nella scuola del Vieux Colombier di Jacques Copeau. De-
croux ha scorporato gli esercizi dal contesto laboratoriale e, sviluppandoli, ha
dato loro indipendenza come autonomo genere artistico.
In altri casi – il più rilevante storicamente è quello di Mysteries and
Smaller Pieces (1964) del Living Theatre – vi furono, veri e propri spettacoli
ottenuti eccezionalmente attraverso il montaggio di esercizi degli attori. Qual-
cosa di simile fecero – con stili e propositi diversi – anche l’Open Theatre e
l’Odin Teatret.
In queste occasioni d’eccezione che non divennero mai regola, il lavoro
dell’attore sul livello pre-espressivo veniva reso autonomo e trasformato in
uno “spettacolo in cerca d’un genere”: né teatro in senso normale, né danza,
né mimo.
All’inizio della carriera, il training serve a un attore per immetterlo nel-
l’ambiente teatrale che ha scelto. Se l’attore è sufficientemente cocciuto, non
autoindulgente, se continua, se abbandona gli esercizi che già domina e ne
cerca o ne inventa altri, se non si lascia imprigionare dal suo training dive-
nendo un virtuoso, e se d’altra parte non dice “non mi serve più”, con il tempo
il training lo trasporta verso l’indipendenza individuale. La funzione del trai-
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La conquista della differenza 81
1
Intervento sul training di Patrice Pavis al simposio “Tecniche della rappresentazione e
storiografia” all’Università di Bologna, 13-14 luglio 1990, 6a sessione dell’ISTA, International
School of Theatre Anthropology.
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82 Eugenio Barba
2
Per l’azione reale cfr. Franco Ruffini: L’attore che vola, Bulzoni, Roma 2010
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La conquista della differenza 83
l’osservatore, benché la sostanza delle azioni altro non sia che un sillabario di
movimenti? La risposta è: perché si è trasformato in un processo organico.
In queste azioni ogni punto di arrivo coincide con un punto di partenza.
Non ci sono pause, ma solo transizioni; ogni stop è un sats, un impulso di ar-
rivo-partenza. La scansione dei sats, le tensioni dell’equilibrio precario, il
gioco delle opposizioni modellano l’energia. L’energia, il pensiero-azione,
salta, scivola, guizza dall’una all’altra delle sue possibili temperature, fra il
vigoroso Animus e la morbida Anima, impegna l’intero corpo anche quando il
movimento è minuscolo, sfrutta la possibilità di non svilupparsi completa-
mente nello spazio, d’essere trattenuta e assorbita. Il suo ritmo esterno può
essere accordato con il rimo interno in maniera consonante, oppure per sfasa-
ture e contrasti.
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84 Eugenio Barba
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UN AMULETO FATTO DI MEMORIA
IL SIGNIFICATO DEGLI ESERCIZI
NELLA DRAMMATURGIA DELL’ATTORE*
La rivoluzione dell’invisibile
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86 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 87
turgici, alcuni più evidenti degli altri, tutti necessari alla ri-creazione della vita
sulla scena.
Ma che cosa differenzia essenzialmente un esercizio (che prima ho defi-
nito “un paradigma di drammaturgia”) dalla drammaturgia in senso tradizio-
nale, dalle commedie, dalle tragedie o dalle farse? Nell’un caso come negli
altri si tratta di un intreccio ben congegnato di azioni. Ma mentre commedie,
tragedie e farse hanno una forma ed un contenuto, gli esercizi sono pura forma,
intrecci di sviluppi dinamici senza trama, senza storia. Gli esercizi sono pic-
coli labirinti che il corpo-mente dell’attore può percorrere e ripercorrere per
incorporare un paradossale modo di pensare, per distanziarsi dal proprio agire
quotidiano e spostarsi nel campo dell’agire extra-quotidiano della scena.
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Gli esercizi sono simili ad amuleti che l’attore porta con sé, non per esi-
birli, ma per trarne determinate qualità di energia da cui lentamente si sviluppa
un secondo sistema nervoso. Un esercizio è fatto di memoria – memoria del
corpo. Un esercizio diventa memoria che agisce attraverso l’intero corpo.
Quando all’inizio del Novecento Stanislavskij, Mejerchol’d e i loro colla-
boratori inventarono gli “esercizi” per la formazione degli attori, dettero vita a
un paradosso. Quei loro “esercizi” erano qualcosa di molto diverso dalle eser-
citazioni che si facevano nelle scuole di teatro. Tradizionalmente gli attori si
esercitavano nella scherma, nel balletto, nel canto, e soprattutto nella recita-
zione di frammenti esemplari del repertorio teatrale. Gli “esercizi” invece
erano delle elaborate partiture codificate fin nei minimi dettagli, e fine a se
stesse.
È quanto riscontriamo nei più antichi esercizi che ci siano giunti, quelli
che Mejerchol’d ideò chiamandoli “bio-meccanica”, e il cui scopo era inse-
gnare “l’essenza del movimento scenico”.
Interiorità e interpretazione
Sono almeno dieci le caratteristiche di un esercizio e che spiegano la sua
efficacia come drammaturgia riservata all’attività non pubblica degli attori,
cioè al lavoro su se stessi:
• Gli esercizi sono innanzi tutto una finzione pedagogica. L’attore apprende a
non apprendere ad esser attore, cioè a non apprendere a recitare. L’esercizio
insegna a pensare con l’intero corpo- mente.
• Gli esercizi insegnano a compiere un’azione reale (non realistica, ma reale).
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88 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 89
esempio: muoversi come un astronauta sulla luna), i ritmi (seguendo una mu-
sica) o le catene di associazioni mentali.
Dalla partitura dell’esercizio si sviluppa, così, una sottopartitura.
Il valore del visibile e dell’invisibile, della partitura e della sottopartitura
genera la possibilità di farle dialogare, crea uno spazio interiore al disegno dei
movimenti ed alla sua precisione.
Il dialogo fra il visibile e l’invisibile è appunto ciò che l’attore sente come
interiorità e in qualche caso addirittura come meditazione. Ed è ciò che lo
spettatore esperisce come interpretazione.
La complessità dell’emozione
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90 Eugenio Barba
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LA STANZA FANTASMA*
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Un continuo mutare
Da quando sono entrato nella professione teatrale, il training è stato un
punto di riferimento costante. Ne ho parlato e ne ho scritto molte volte. Ho
attraversato campi minati da illusioni, ma non direi mai d’essere un disilluso.
La presenza costante del training, per me, è un continuo mutare. È sempre
stato accanto a me perché non è cresciuto da una dottrina, ma dai miei dubbi
e dalle domande che essi mi ponevano.
Eppure, ogni volta che debbo parlare del training, mi sento a disagio. Mi
rendo conto che farne un dogma del teatro sarebbe irresponsabile. Altrettanto
avventato sarebbe sminuirne l’importanza, considerandolo un miraggio tec-
nico o una pratica di una minoranza con limitate conseguenze.
Come sempre mi accade, quando cerco di spostare il mio punto di vista,
inizio col muovermi a ritroso, ripartendo dai miei primi passi.
Siamo all’inizio degli anni Sessanta del Novecento. Non avevo ancora
trent’anni. Jerzy Grotowski già si comportava da anziano maestro anche se
anagraficamente i trent’anni stava appena per compierli. Nella riflessione e
nella pratica del teatro contemporaneo il training e gli esercizi erano inesi-
stenti. Apparivano nei libri di storia del teatro come pratiche singolari e d’ec-
cezione degli Studi di Stanislavskij e Mejerchol’d o della scuola del Vieux
Colombier di Jacques Copeau.
Nel piccolo Teatro delle 13 file, a Opole, in Polonia, gli attori di Gro-
towski, dal 1962 in poi, oltre a provare e presentare spettacoli, si misero ad
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92 Eugenio Barba
chol’d, Osterwa, Tairov – gli esponenti della Grande Riforma del primo ven-
tennio del Novecento. E anche il contemporaneo re-inventore di un teatro
senza parole, il mimo Marcel Marceau.
La prima volta che ho scritto del training nel 1962 è stato per elencare e
descrivere gli esercizi che si svolgevano nel teatro di Grotowski. Miravo alla
semplicità e l’esattezza: una scrittura simile a quella delle “istruzioni per
l’uso”. Ho faticato per scegliere le parole che consentissero al lettore di prati-
care quegli esercizi che non aveva mai visto e sui quali si poteva abbandonare
a molte fantasie. Negli anni seguenti, mi è capitato di incontrare registi ed at-
tori che, sorridendo, m’hanno confessato gli abbagli che avevano preso cer-
cando di seguire le istruzioni per l’uso che avevano letto nel mio libro su Gro-
towski, Alla ricerca del teatro perduto (1965), riportate tre anni dopo in Per un
teatro povero di Grotowski.
Alcuni di coloro che avevano ammesso gli equivoci indotti dagli esercizi
grotowskiani mi raccontarono anche che s’erano intestarditi e avevano così
inventato, esercizi nuovi: il loro training. Ne trassi questa conclusione: più
importante della forma dell’esercizio è la motivazione di eseguirlo fino ai suoi
limiti estremi, concorrendo così alla sua mutazione.
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La conquista della differenza 93
bili. Ne rimangono alcuni frammenti filmati a cura del loro autore. Basta pro-
vare ad imitarli e ci si rende conto della difficoltà a decidere quali siano i det-
tagli essenziali e quali invece siano modificabili senza danno. Sono forme
fisse, ma non servono a trasmettere una forma, uno stile Mejerchol’d. Tra-
smettono, attraverso un percepibile schema fisso, il pensiero-in-azione del-
l’attore: contrasti, contrappunti, compresenza di diverse variazioni e direzioni
dinamiche in una stessa azione. Sono una sorta di cubismo dell’agire. A tutta
prima, paiono bizzarri e astratti ma, a forza di esaminarli, si rivelano come la
personale scrittura in codice d’un artigiano e scienziato del teatro.
Questi esercizi condensano un vero e proprio straniamento fisico e men-
tale. Decompongono l’agire quotidiano, e lo ricompongono alterato ma altret-
tanto organico, cioè sensorialmente persuasivo per chi osserva. Chi esegue,
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invece, è come un viaggiatore del détour, che torni ai suoi paesaggi familiari
dopo esser passato per gli antipodi. Anche nella più semplice delle azioni:
battere le mani, per esempio. Nel comportamento quotidiano, prima apriamo
le braccia, poi battiamo. Negli esercizi di Mejerchol’d, le mani sono vicine,
battono, poi le braccia si allargano. È uno straniamento elementare, ma da
questo esempio facile si intende la logica che guida la complessa e annodata
partitura di quegli esercizi rigorosamente formalizzati che rompono i riflessi
condizionati.
D’altro tipo sono gli esercizi che servono ad addestrare particolari abilità
degli attori, nell’uso della voce e nell’azione fisica. Allargano il ventaglio
delle sue possibilità, e quindi non lo ancorano ad uno stile, ad un comporta-
mento scenico prestabilito, ad una serie sperimentata di clichés che rischiano
di limitare la sua libertà. Libertà, infatti, significa scelta. E non si può scegliere
se non fra numerose alternative possibili e padroneggiabili.
D’un genere ancora diverso sono gli esercizi basati sulla variazione del
ritmo, sulla costruzione delle interrelazioni fra attori, sulla costruzione del
dialogo e del contatto fisico e vocale. Sono micro-situazioni che ampliano
l’elasticità di adattarsi subito agli stimoli dei colleghi e del contesto, raffor-
zando l’immediatezza dell’azione/reazione.
Vi sono esercizi che paiono giochi di società per mettere in moto la fan-
tasia (scegliersi un personaggio ed essere in grado di rispondere a tutte le do-
mande che i compagni pongono sulla sua vita e il suo modo di pensare). Altri
esercitano la reattività (correre tutti in una sala, bloccarsi ad un segnale nella
posizione in cui ciascuno si trova, trasformandosi in statua, pronti, ad un
nuovo segnale, a riprendere la corsa, mutando direzione). In genere, questi
sono esercizi piacevoli da eseguire. Si è tentati di indugiare a lungo in loro
compagnia, come se fossero già azione teatrale.
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Altri sono invece esercizi difficili da apprendere e capaci di far male. Gli
esercizi acrobatici sono di questo tipo. Sembra che insegnino all’attore le abi-
lità stupefacenti del corpo giovane, per questo sono sempre seducenti. Instil-
lano in chi li pratica il riflesso condizionato della precisione e della decisione
per spingersi oltre i limiti che crede naturali per sé. Dopo esser stati a lungo
padroneggiati, possono essere tranquillamente abbandonati. Precisione e deci-
sione, infatti, dovrebbero caratterizzare anche l’azione più semplice del-
l’attore: come muovere un passo, come alzare una mano, come sedersi e al-
zarsi.
Vi sono esercizi basati su vere e proprie dottrine del corpo, del respiro e
del movimento, gratificanti quando sembrano confinare con la meditazione e
la spiritualità. Altri, appagano invece l’inventiva e la spontaneità, con le mille
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La conquista della differenza 95
compagna i primi anni dell’esperienza teatrale fuori delle scuole e del teatro
legittimo. Poi, se si continua, il training evapora dalla routine professionale.
Crea disillusioni altrettanto forti delle illusioni che l’avevano nutrito.
Non c’è niente di male a coltivarsi delle illusioni. Le illusioni sono vitali,
quando nascono e crescono fino a trasformarsi in qualcosa d’altro. Sono il
solo nutrimento spirituale che ci è dato, i sogni di cui siamo fatti. Le illusioni
diventano distruttive quando le lasciamo cristallizzare in idoli e dogmi.
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96 Eugenio Barba
che in essa occupa il teatro, gli spazi chiusi o aperti, recintati o itineranti degli
spettacoli, le città con il loro pubblico abituale, o i territori “senza teatro” In
questa geografia, uomini e donne di teatro mettono alla prova la loro capacità
di creare rapporti e compiere veri viaggi, rompendo il cerchio dei loro giri,
delle tourné, dei flussi delle mode e del mercato.
L’altro campo d’azione è ristretto. Ha il panorama spoglio d’un viaggio
attorno ad una stanza apparentemente isolata, dove gli attori lavorano su di sé,
fra quattro pareti, senza spettatori. È diverso da quel che accade nelle prove,
dove si può prevedere il momento in cui dall’altra parte ci saranno gli spetta-
tori.
Benché lo spazio sia esiguo, i viaggi possono essere lunghi e combattivi.
Visti dall’esterno, appaiono spesso bizzarri, addirittura insensati. Vissuti
dall’interno, si chiamino esercizi o training, implicano un modo di pensare e
un atteggiamento emotivo che si esprimono in un modo di fare.
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La conquista della differenza 97
della sua indipendenza, della sua crescita individuale e della sua resistenza in
condizioni avverse. Incoraggiava a praticare e difendere la propria dissidenza.
Una piccola sala contiene lo spazio d’una vasta geografia. È una solitu-
dine senza isolamento, una solitudine in compagnia.
All’Odin Teatret, il training è perdurato fino ad oggi – per 43 anni.
All’inizio, era compreso in uno spazio-tempo geloso, senza presenze estranee.
Dopo una decina d’anni divenne una stanza mutante. Alcuni degli attori smi-
sero di entrarci. Altri persistettero trasformando questa stanza in un tappeto
volante, in un giardino tutto per loro o in un’isola di cui erano i Prospero.
Anche quando alcuni dei miei attori smisero di praticare il training, anche
quando io smisi di guidarlo giorno dopo giorno, anche quando la mancanza di
connessione fra la qualità del training d’un attore e la qualità della sua pre-
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senza nello spettacolo divenne per noi tutti una semplice evidenza, il training è
continuato a restare al centro delle mie riflessioni. Alcuni dei miei attori ed io,
ognuno per sue necessità personali, ci siamo comportati come bambini te-
stardi.
Così abbiamo scoperto che perdurare vuol dire trasformarsi. E le trasfor-
mazioni sono così evidenti che, a volte, sono la pura e semplice negazione dei
punti di partenza.
Un punto di partenza era molto chiaro, nel teatro di Grotowski, all’inizio
dei 1960: non si fa spettacolo del training. Era anche tassativo all’Odin: mai
confondere il training con le prove.
Eppure, proprio in quegli anni, nel 1964, il Living Theatre compose uno
dei suoi più rivoluzionari spettacoli – Mysteries and Smaller Pieces – attra-
verso un montaggio dei propri esercizi. Dieci anni dopo, anche l’Odin Teatret,
nel villaggio di Carpignano, nel Sud Italia, compose Il libro delle danze spet-
tacolarizzando il training dei suoi attori. Che cosa era successo, nel frattempo?
Come Mysteries and Smaller Pieces, anche Il libro delle danze nacque
per la stretta delle circostanze: dovevamo presentarci in pubblico, e non ave-
vamo nessuno spettacolo. Imbastimmo uno spettacolo basato sul training, con
musiche, costumi e qualche testo. Restò a lungo in repertorio. Quando smet-
temmo di rappresentarlo, lo sostituimmo con altri spettacoli dello stesso ge-
nere. Lo spettacolo del Living Theatre era divenuto, intanto, uno dei classici
del teatro del secondo Novecento. L’origine di questi spettacoli composti
montando parti del training, e il fatto che siano nati quasi per caso, come pro-
dotti estemporanei, è un aneddoto vero che non spiega, però, le profonde ra-
gioni della loro nascita.
Vi era stata una trasformazione nel training, apparentemente un minu-
scolo fattore che provocò una vera e propria mutazione: gli esercizi vennero
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98 Eugenio Barba
saldati l’uno con l’altro. Fin dai primi anni dell’Odin Teatret ci accorgemmo
che la forza del training si moltiplicava se, invece di eseguire prima un eser-
cizio e poi l’altro, li si legava in un prolungato flusso continuo. In questo
modo, importante non era più l’esercizio in sé, ma la sua fine, che doveva di-
ventare l’inizio dell’esercizio seguente.
Sembra un particolare da niente, ma nella pratica esplose come una vera
rivoluzione. Usavamo il termine “catena” per indicare la serie di esercizi mon-
tati in un flusso unico. Ma non si trattava d’una catena, perché i singoli anelli
non erano fissati. Si cominciava con una decina di esercizi in una sequenza
prestabilita. Il resto era improvvisazione: variazione incessante dell’ordine
degli esercizi, accelerando e rallentando il ritmo, giocando a sorprendere se
stesso e cambiando repentinamente direzione nello spazio. Chi eseguiva la
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catena, quanto più la padroneggiava, tanto più poteva reagire nello stesso
tempo in cui creava gli impulsi. Le sue azioni erano reazioni. Possedevano una
consistenza dinamica di leggerezza e vigore che le apparentava alla danza, e se
la catena era accompagnata da musica, dava l’impressione di un balletto in
costante evoluzione.
La catena di esercizi era un repertorio di un numero limitato di forme de-
finite nei più piccoli dettagli, che però potevano dar vita a sequenze sempre
diverse, così come un numero ben delimitato di carte può dar vita a infinite e
imprevedibili partite. Il training, imboccata questa strada, smise d’essere una
pratica separata dal lavoro creativo. Ma la creatività segue sempre cammini
personali. Dopo alcuni anni, non esisteva più un training dell’Odin, ma ‘i trai-
ning’ elaborati dai singoli attori con esercizi, giustificazioni e terminologie
che sembrano avere ben poco in comune.
All’Odin Teatret il tempo dedicato al training continuò ad essere distinto
da quello destinato alle prove dello spettacolo. Mi resi conto che il mio ap-
porto non poteva più essere quello del maestro che spiega e insegna un metodo
comune. Non erano più le mie parole che potevano stimolare, ma la mia pre-
senza di altro, che non mostra più di sapere a che serva quel che stanno fa-
cendo. E si interroga anche lui, sul senso e la direzione di quelle strade solitarie
lungo le quali ogni attore si incammina, tutte le mattine, nel tempo del trai-
ning.
La parola training si adattava sempre meno a quel che in pratica succe-
deva. Lo chiamammo “vivaio”: ogni attore lavorava per suo conto, ma nello
stesso spazio. Non elaborava la solita catena di esercizi, ma materiali scenici
non fissati, frammenti di scene per spettacoli potenziali, la maggioranza dei
quali non sarebbero mai nati. Un pullulare di immagini allo stato magmatico
riempiva la sala, ciascuna figura con accessori, strumenti musicali, i costumi
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La conquista della differenza 99
più insoliti, modi particolari di usare la voce e di comportarsi. Uno stesso at-
tore poteva passare dall’una all’altra delle figure da lui elaborate e messe in
azione.
In un vivaio nuotano pesci dai molti colori, alcuni effimeri, altri capaci di
crescere e saltare nel mare. Tutti in possesso d’un proprio embrione di vita e
nessuno dotato ancora d’un destino.
La distinzione netta fra il training e lo spettacolo era evidentemente ca-
duta. Oggi è facile per me spiegarlo con poche parole: questa situazione era
sorta proprio perché avevamo continuato ad insistere sulla sua strada, senza
lasciarci bloccare dalla sensazione che essa non fosse più utile. Ma sarei insin-
cero se affermassi che non fu problematico e laborioso percorrere questa
strada per anni ed anni.
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100 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 101
cosa fosse, ma l’avevamo riconosciuta. O meglio: era lì, in attesa d’essere ri-
conosciuta.
Il modo di denominarla e l’idea stessa che di essa potevamo farci sem-
brava avere ben poco a che vedere con il teatro. Proveniva dalle regioni di un
certo tipo di letteratura in cui era una presenza ricorrente. L’incubo della
“stanza fantasma” o della “stanza di nessuno” fornisce il plot di molte storie
fantastiche e dell’orrore. L’hanno evocato scrittori come Howard Phillips Lo-
vecraft e John Dickson Carr, dal quale viene il titolo The Nobody’s Room. Può
sembrare strano pensare a storie di questo genere per parlare di training, anche
perché la stanza di nessuno è in genere quella del crimine. E il training con il
crimine non ha niente a che vedere.
La stanza fantasma dei racconti e dei romanzi è chiamata così perché a
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volte c’è e a volte no. Si sposta. Il protagonista l’ha vista, per esempio, in una
casa di amici o in un castello, e quando ritorna non la trova più. Si domanda se
è lui che ha sognato, o se invece sono gli altri che mentono, nascondendo
qualche mistero, qualche tesoro o misfatto. Coloro che abitano in quel posto
affermano che la stanza che lui cerca non c’è mai stata. Lo prendono per un
pazzo o un visionario.
Nel lavoro teatrale, ti dicono: ci sono i testi da interpretare, le prove, gli
spettacoli. Non c’è posto per altro.
C’è sempre stato dell’altro: una continuità di mestiere e di commercio,
per esempio. Finché fu un vero e proprio commercio, gli attori, per vivere,
dovevano avere molto d’interessante da vendere. Cambiavano spettacoli quasi
tutti i giorni, tenendo fresco un ampio repertorio, sprecando il meno possibile
e componendo in velocità. Attorno ai loro spettacoli si accumulava un magaz-
zino di materiali scenici inutilizzati ma pronti per essere sfruttati e riciclati.
Potevano essere frammenti scenici pronti per l’uso, sempre efficaci, oppure
vecchi, fuori moda, dimenticati, ma adatti ad esser ripescati dal dimenticatoio
per essere rimessi in forma e presentati come una novità.
Era il deposito dei clichés, il ripostiglio delle più viete convenzioni. Era la
fonte delle miserie estetiche della professione – secondo il giudizio dei rifor-
matori teatrali che aspiravano al rinnovamento.
Il deposito dei clichés è sempre stato occultato, nella lunga storia del
teatro europeo. Gli attori non ne parlavano né lo mostravano. Negavano per-
sino che ci fosse. Gli intenditori e i riformatori ne intravedevano la presenza e
proponevano di gettare via tutto lasciando entrare l’aria nuova e fresca del
Novecento.
Il deposito dei clichés serviva sempre meno in un teatro che non era più
un mestiere in cui gli attori preparavano innumerevoli spettacoli alla loro ma-
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102 Eugenio Barba
niera, e divenne l’opera dei nuovi artefici della regia che curavano ogni singola
messinscena come un’opera d’arte a se stante. Il deposito dei clichés era inu-
tile e dannoso, quando il teatro cominciava ad essere accettato come un’arte
da proteggere, e non più come un commercio più o meno dignitoso.
Il deposito dei clichés divenne una stanza vuota, poi sparì: una stanza
fantasma. Allora cominciò a farsi sentire la sua mancanza. Mancava niente,
perché tutto quel che si era perso era proprio quel che si voleva perdere. Ma
non c’era più equilibrio. Perché il deposito dei clichés assolveva ad un com-
pito poco esplicito, non voluto né programmato, ma essenziale: materializzava
la consapevolezza del teatro come paese d’appartenenza – o ethos professio-
nale. Anche se ingombro di residui disistimati, era però uno spazio non mate-
riale eppure concreto. Era la terra di nessuno che si frapponeva fra la vita
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La conquista della differenza 103
Voglio dire, con questo, che quel che chiamiamo training nel teatro, è solo
illusione e fonte di illusioni? Credo esattamente il contrario.
Voglio allora sostenere che nasconde un tesoro oggettivo, o la soluzione
dei nodi tecnici e artistici? Ancora una volta, penso esattamente il contrario.
Molte domande rimangono in sospeso sul training, sulla sua opportunità,
sulla sua qualità, su ciò che in esso vi è di essenziale e ciò che invece è mute-
vole, sulla sua utilità e la sua esagerazione. Ma una domanda in particolare si
distacca e sembra osservare tutto questo dall’esterno, quasi guardandolo dalle
nuvole, senza più l’ansia autodidatta di apprendere e la tensione del riconosci-
mento artistico. È una delle mie domande infantili.
Guardo a me stesso e gli altri che fanno teatro. Osservo il peso che li tiene
in cammino. Apprezzo i loro spettacoli. A volte scuoto la testa, altre volte mi
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commuovo, spalancando gli occhi su quel tremolio dell’aria tra cui sembra
che l’invisibile per un momento faccia capolino. Guardo il gruppo, la difficile
e fraterna compagnia.
E mi domando: quale teatro, ciascuno di loro si porterà dietro, quando
non avrà più attorno il peso del teatro in cui è cresciuto e si è formato?
Il teatro del nostro tempo non ha più nulla di simile a quello dei professio-
nisti d’un tempo. Né noi siamo più i principianti diseredati bisognosi d’inven-
tarsi un mestiere. Ma continuiamo ad aver bisogno d’un teatro portatile le cui
forme e il cui senso segreto appartengano solo a chi lo faccia,. Training o
stanza fantasma sono parole, l’una vale l’altra, a seconda dei casi e delle età.
Possiamo riempire il teatro che ci portiamo dietro, il suo peso, di materiali di
volta in volta diversi. È l’esistenza di quello spazio, di quella stanza che è solo
nostra, ad essere essenziale. Non ciò che la arreda.
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LA DANZA DELL’ALGEBRA E DEL FUOCO*
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106 Eugenio Barba
grande attore inglese, sempre al bivio fra comico e tragico, uomo colto e appa-
rentemente dotato d‘un prodigioso talento naturale, si era incontrato con i filo-
sofi materialisti che studiavano la “macchina” – non l’anima – dell’uomo.
Costruivano la rivoluzionaria architettura dell’Enciclopédie ed erano presi
dalla domanda sulla relazione fra sentimenti e passioni da una parte, e dall’altra
l’ingranaggio dei muscoli, dei nervi, del cuore e delle vene. La relazione, in-
somma, fra l’uomo-macchina e l’uomo-spirito. Alcuni di questi filosofi visita-
vano regolarmente quegli inferni in terra che erano gli ospizi dei pazzi. Cerca-
vano di capire quali fossero e dove si localizzassero i guasti di quelle
“macchine” impazzite. A volte, con pensieri scandalosi e pericolosi, si avven-
turavano a considerare gli elementi in comune fra pazzia, criminalità e santità.
Come se l’estasi e la Grazia appartenessero alla stessa famiglia delle azioni
dei folli e dei criminali incorreggibili.
Nel corso d’una discussione, Garrick aveva asserito d’essere in grado di
percorrere a tutta velocità la gamma delle passioni, senza che né lui né tanto
meno i suoi spettatori fossero in grado di distinguere il “naturale” dall’ “artifi-
ciale” nelle sue azioni. Colse alcune espressioni scettiche fra i suoi interlocu-
tori. Costoro pensavano, giustamente, che l’artificialità d’una azione scenica
era sempre evidente. Garrick uscì dalla stanza, chiuse la porta e la riaprì. Il suo
volto era squassato dal dolore. Chiuse. Istantaneamente ricomparve come un
individuo lubrico nel pieno d’un approccio sessuale. Scomparve. Riapparve
istantaneamente un sant’uomo in preghiera. Poi un volto sconvolto dall’ira.
Poi al culmine della gioia. Della tenerezza. Nel parossismo della gelosia. E
così via.
Ogni volta, i presenti credevano alla verità di quelle passioni e di quei
sentimenti. Non vi era alcuna differenza fra i sintomi che mostrava loro l’at-
tore inglese e i sintomi che avevano osservato sul volto di certi pazienti. Solo
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La conquista della differenza 107
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108 Eugenio Barba
stro repertorio. Erano corpi estranei. Erano piccoli spettacoli appresi ed ese-
guiti con grande precisione, ma pur sempre in pochi mesi. Ed ero convinto che
in così poco tempo non ci si appropria di uno stile classico e non lo si metabo-
lizza.
Ero diviso tra l’ammirazione per il lavoro dei miei compagni e l’impossi-
bilità di utilizzarlo. Escogitai uno stratagemma: qualcosa a metà fra spettacolo
e conferenza, e l’intitolai “Stanze del Museo del teatro”. Due attori, Toni Cots
e Tom Fjordefalk, uno spagnolo, l’altro svedese, mostravano gli elementi di
base della danza balinese e del kathakali indiano, le loro codificazioni e con-
venzioni, il loro lessico fisico. Poi, alla fine della dimostrazione, assumevano
gli abiti e il maquillage di quelle forme classiche di teatro e presentavano due
piccoli spettacoli.
E così, “per disperazione” si tradusse per la prima volta in pratica quel-
l’idea che aveva a lungo covato, di unire dimostrazioni tecniche e brani di
spettacolo, le due facce della luna teatrale, la calda e la fredda.
La prima vera e propria dimostrazione-spettacolo non assomigliò ad una
“stanza del museo”. Fu Luna e buio di Iben Nagel Rasmussen. Era sempre più
scontenta del lavoro pedagogico di breve durata, dei seminari d’una o due set-
timane. Le sembrava di diffondere formule e ricette che trovavano il loro senso
solo nella continuità del lavoro. Allora restrinse i tempi. Per sfuggire il rischio
delle formule trovò una forma. Quando me lo fece vedere per la prima volta,
era il 1980, Luna e buio non si chiamava ancora così ma era già pronto. Mo-
strava i principi elementari del training, eseguiva e spiegava alcuni esercizi, ne
discuteva l’utilità, indicava dove si annidassero le trappole e i rischi di frain-
tendimento. Poi ripercorreva le tappe della propria vita d’attrice e mostrava
come gli elementi tecnici diventavano spettacolo, canto, azione e parola.
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La conquista della differenza 109
Senza volerlo, inventò un genere teatrale che oggi sembra ci sia sempre
stato, nel nostro e in altri teatri: un’opera-ponte fra lo spettacolo e il seminario
pedagogico, fra anatomia, autobiografia e drammaturgia.
Nel 1988, Roberta Carreri condensò in una dimostrazione-spettacolo di
due ore ciò che aveva presentato e detto in tre giornate di lezione in un’univer-
sità (all’Aquila, in Italia), dove aveva ricapitolato la propria autobiografia
professionale. Il risultato fu un’opera scenica strutturata in tutti i dettagli,
senza nulla lasciato al caso, ma che assume l’aspetto e le convenzioni d’una
conferenza intramezzata da esempi: Orme sulla neve. Con i necessari aggior-
namenti, resta, dopo quasi vent’anni, nel repertorio suo e del nostro teatro.
Anche L’eco del silenzio di Julia Varley nacque da alcune giornate di le-
zioni all’università (L’Aquila, 1991), solo che l’attrice rovesciò la dramma-
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110 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 111
Ciò che più m’interessa è vivere e far vivere l’esperienza di due serpenti
che s’accoppiano e si allontanano: “freddo” e “caldo”, meccanicità ed organi-
cità, convenzione e creazione, composizione premeditata e improvvisazione.
Un poeta che aveva perso il dono della vista, o che si era liberato dal suo im-
paccio, come Borges soleva dire, descrisse questo artigianale mistero come
una danza che nessuno, pur sgranando gli occhi, riuscirebbe a vedere: la danza
dell’algebra con il fuoco.
Nell’artigianato teatrale, l’accoppiamento fra elementi fatti per non in-
contrarsi diventa visibile e tangibile, ma non può essere programmato. È ciò
che sfugge alla pedagogia. È sapere tacito che può trasmettersi solo per con-
tagio. È artigianato, mestiere, ma anche mistero.
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DRAMMATURGIA:
L’ORDINE PROFONDO CHE È TURBOLENZA*
Tempesta e meticolosità
Spesso la scelta di fare teatro è la risposta difficile ad una situazione diffi-
cile. È un modo di vivere una libertà che è libera solo se i risultati del proprio
lavoro riescono ad influenzare altre persone ed a trarle dalla nostra parte. È un
modo di inventarsi un’identità, che si rivela a noi attraverso un mestiere meti-
coloso e insieme tempestoso.
Alcuni credono che tempesta e meticolosità appartengano a due diversi
compartimenti stagno, che i problemi tecnici, la professionalità e la precisione
artigianale non abbiano a che vedere con la turbolenza, con gli impulsi alla li-
bertà, alla distruzione, alla rivolta, al rifiuto.
Non è vero.
* Pubblicato per la prima volta in “TDR - The Drama Review” n. 168, New York, 2000.
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114 Eugenio Barba
Scilla e Cariddi
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Ordine e disordine non sono due opzioni contrapposte, ma due poli che
coesistono e si rafforzano a vicenda. La qualità della tensione che riesce a
crearsi fra di loro fornisce la misura della fertilità del processo creativo.
Quando però si cerca di descrivere questa tensione, i discorsi cominciano
a zoppicare. Più aderiscono a ciò che concretamente si è sperimentato nel
corso del lavoro, più risultano fantastici ed esotici a chi li ascolta. E mentre
cercano di trasmettere esperienze, rischiano l’equivoco.
Per sfuggire a questi pericoli, la soluzione più semplice è tacere. Altri-
menti si è costretti a navigare tra Scilla e Cariddi.
Da una parte Scilla: il rischio di rettificare il percorso, trasformando l’in-
trico dei sentieri in una linea che corre dritta nella giusta direzione. Tutto allora
appare chiaro, ma non ha riscontro nella nostra esperienza. Nella realtà del la-
voro, la creatività si manifesta come un cielo tempestoso. Viene vissuta come
disorientamento, dubbio, frustrazione, disagio.
Essere padroni del proprio mestiere significa innanzi tutto saper preparare
la tempesta che ci sgomenterà. Significa sapere come resistere senza fuggire
verso soluzioni facili o previe.
Tempesta significa anche che i problemi non si presentano uno dopo
l’altro – come quando ne parliamo – ma tutti o più d’uno contemporanea-
mente. Quando il mare e le onde sono solo il disegno della rotta, ogni tratto
diventa comprensibile. Tutto risulta vero, ma d’una verità così astratta da
sbeffeggiare l’esperienza.
Dall’altra parte Cariddi: il rischio di parlare solo di tempeste, dimenti-
cando la geometria del compasso, della bussola, del sestante che permettono
la rotta. È il rischio di cadere nella cronaca, nell’aneddotica, nella confessione:
il processo è mostrato come un percorso buio, confuso e casuale, come un
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La conquista della differenza 115
magma che sbocca ad un risultato quasi senza volerlo, non sapendo come e
perché. Anche questo è un aspetto della verità, uno dei suoi profili.
Per guardare in faccia la realtà del processo artistico occorre mettere a
fuoco, alternativamente, ora l’uno ora l’altro profilo.
loghe a quelle che si pongono coloro che indagano la segreta complessità del
bios.
In fondo, è questo che giustifica l’interesse e la curiosità per ciò che ac-
cade nel processo artistico, per i suoi paradossi ed i suoi blocchi. E spiega
l’accanimento di alcuni a parlarne, pur sapendo che le parole saranno opache,
e le domande quasi sempre prive di risposta.
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116 Eugenio Barba
Catastrofe e densità
Che cosa significa, tecnicamente, disorientare il percorso di lavoro? Vuol
dire non tener conto solo di un obiettivo, ed orientarsi contemporaneamente in
due, tre, quattro direzioni diverse. Come un veliero che vuol dirigersi ad Occi-
dente, mentre il vento soffia da Sud e le correnti sottomarine spingono verso
Est. L’equilibrio fra queste tensioni è la rotta creativa. La tensione fra forze
divergenti, contrapposte o semplicemente contigue può anche determinare la
catastrofe. Ma se si riesce a domare queste forze, a scoprire il tipo di relazioni
che esistono fra di loro, se si riesce, cioè, a farle convivere, intrecciarle e com-
porle, invece della catastrofe si raggiunge la densità.
La densità disorienta lo spettatore, lo spinge ad estrarre il difficile dal
difficile, lo scuote fuori dagli schemi di pensiero che gli sono noti e costitui-
scono l’accampamento sicuro delle sue idee.
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La conquista della differenza 117
crescita di una profusione che sembra a lungo oscurare, nel corso del processo,
la chiarezza espositiva e narrativa.
Si crea così un’apparente confusione, un campo magnetico dove le forze
sono diverse per ogni singolo attore e per il regista, ma dove ognuno può tro-
vare appigli, legami, giustificazioni, interessi, ostacoli, sfide e risonanze con il
tema principale o con quel nucleo di domande che costituiscono il punto di
partenza.
È la creazione di un panorama caotico con tanti fiumi sotterranei, lungo i
quali ciascuno è libero di seguire la propria rotta. Questa libertà è già il seme
di una drammaturgia, perché, se ognuno naviga dove vuole, l’esigenza di sce-
gliere la rotta d’insieme obbliga a trovare delle relazioni fra i diversi motivi
personali. Tale ricerca di relazioni coerenti è già ricerca di un intreccio narra-
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Le tre drammaturgie
Il lavoro sulla drammaturgia non è soltanto quello sui testi o sulla storia
che si vuole raccontare o mettere in visione per gli spettatori.
Esistono tre diverse drammaturgie che dovrebbero agire contempora-
neamente, ma che possono essere lavorate ognuna per suo conto:
• la drammaturgia organica o dinamica: la composizione dei ritmi e
dei dinamismi che coinvolgono lo spettatore a livello nervoso, senso-
riale e sensuale;
• la drammaturgia narrativa, che intreccia gli avvenimenti, i perso-
naggi, e orienta gli spettatori sul senso di ciò che stanno vedendo;
• e infine la drammaturgia che ho chiamato drammaturgia dei muta-
menti di stato, quando l’insieme che mostriamo riesce ad evocare
qualcosa di diverso, come quando dal canto o dalla musica si svi-
luppa, tramite gli armonici, un’altra linea sonora.
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118 Eugenio Barba
Turbolenza
La turbolenza sembra infrazione dell’ordine ed è invece ordine in moto. È
il crearsi di vortici che rompono la corrente dell’azione narrativa. In assenza di
questi vortici, la continuità, il ritmo e la narrazione rischiano di cadere nel-
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Coerenza
“Uno scrittore può certamente costruire castelli in aria, ma debbono pog-
giare su fondamenta di granito”. Questa affermazione di Ibsen si riferisce alla
drammaturgia letteraria, ma indica la dialettica di indipendenza e dipendenza,
di anarchia e disciplina, di rivolta da un lato e dall’altro imperio di un principio
unificatore che caratterizza ogni aspetto delle tre drammaturgie.
Occorre che le azioni degli attori abbiano una coerenza indipendente-
mente dal loro contesto e dal loro significato. Occorre che appaiano credibili a
livello sensoriale, che siano presenti a livello pre-espressivo. Le fondamenta
di granito sono il loro carattere di credibilità, la loro capacità di stimolare
l’attenzione dello spettatore, di avere una radice nel corpo-mente dell’attore.
Debbono rispondere ad una loro particolare e indipendente logica.
Esistono e sono esistiti attori ed attrici di portentosa efficacia che non
hanno mai fissato il disegno della loro azione scenica, che non pensavano in
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La conquista della differenza 119
li tengono in vita.
Confusione e con-fusione
Nella fase delle prove in cui gli attori seguono solamente il filo personale
e coerente delle loro partiture, il lavoro sulla drammaturgia dell’insieme può
rimanere a lungo confuso, addirittura caotico.
La confusione, quando è cercata e praticata come fine, è l’arte dell’in-
ganno. Ciò non vuol dire che essa sia di per sé qualcosa di negativo, uno stato
da evitare. Usata come mezzo, la confusione è una delle componenti di un
processo creativo organico. È il momento in cui materiali, progetti, storie con-
tigue e intenzioni diverse si con-fondono, si fondono insieme, amalgamandosi
le une con le altre, divenendo l’una l’altra faccia dell’altra.
Le linee intricate della rotta non vogliono dire che la rotta punti all’in-
trico. La profusione e la confusione dei materiali e degli indirizzi è la sola via
per arrivare all’azione spoglia ed essenziale.
Artigianato e genio
Quando il lavoro è quasi terminato, il pittore si ferma e dice che ora può
davvero cominciarlo. Coloro che lo circondano mostrano stupore e incom-
prensione. Ma lui intanto lentamente sconvolge e distrugge quel che ha fatto
fino a quel momento. Disegna altre scene e figure che si intrecciano o si
sovrappongono alle precedenti e le cancellano. Prende una nuova tela e vi di-
pinge il quadro che ha mentalmente estratto dalle difficoltà in cui si era gettato
nel dipingere la tela precedente.
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120 Eugenio Barba
normale schema delle sue giornate, per un mese Picasso si alzò presto la mat-
tina per recarsi negli studi cinematografici di Nizza. Accettò di sottomettersi
alle esigenze tecniche delle riprese cinematografiche. Lavorò davanti a tanti
“spettatori”, tecnici della luce e del suono, elettricisti, fotografi, addetti alla
produzione, regista, i numerosi componenti di una normale troupe cinemato-
grafica.
Il film, Le mystère Picasso, è oggi un classico nel suo genere. Viene pre-
sentato come il documento che permette di osservare ciò che avviene nella
testa di un genio. Fu indubbiamente un genio. Ma il film rivela soprattutto il
Picasso artigiano.
Procedimenti umili
Negli anni 1970 vennero trovati gli scarti delle pellicole di Charlie Cha-
plin, materiali che avrebbero dovuto essere distrutti e che conservarono per
errore. Con essi Kevin Brownlow e David Gill composero un programma tele-
visivo che divenne famoso, Unknown Chaplin. Vi si vedeva Chaplin improv-
visare, cercare un tema per una delle sue comiche, partire dal nulla, costruire
scene complesse e poi gettarle via, fino a che gli si apriva davanti la strada
giusta. Intanto la cinepresa girava impressionando pellicola, che ora ci rivela
quel che avveniva nella testa di quel genio. Ancora una volta: artigianato.
Se osserviamo Le mystère Picasso o Unknown Chaplin per dedurne qual-
cosa che possa interessarci dal punto di vista professionale, non dobbiamo la-
sciarci abbagliare dagli aspetti straordinari della loro creatività. Le loro doti
eccezionali rendono particolarmente evidenti i procedimenti umili su cui il la-
voro artistico si basa sempre, quale che sia il livello dei risultati.
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La conquista della differenza 121
Spreco
Non c’è lavoro creativo senza spreco. La proporzione fra ciò che viene
prodotto e ciò che alla fine sarà utilizzato deve ispirarsi alla sproporzione fra il
seme che, in natura, viene disperso perché una sola cellula fecondatrice riesca
a generare un individuo del regno animale o vegetale.
Non c’è lavoro creativo senza spreco senza la buona qualità di ciò che si
spreca.
Kipling diceva che non si impara a scrivere se non si impara a tagliare. E
che per tagliare in maniera fruttuosa, occorre che i pezzi eliminati siano d’una
qualità altrettanto buona degli altri. Non servirebbe a niente, cioè, scrivere
pensando che quel che si scrive può anche venir buttato via.
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122 Eugenio Barba
Errori-muri ed errori-porte
Se è vero che è essenziale estrarre l’errore dalla confusione, dobbiamo
chiederci, da un punto di vista tecnico, che cosa sia l’errore.
Ci sono errori sterili, che ciascun artigiano del teatro deve imparare a ri-
conoscere e correggere. Sono errori che bloccano il processo, come muri
ciechi. C’è però tutto un altro tipo di “errori” che sono già un punto di arrivo,
provvisorio ma fecondo. Li chiamerò “errori-porte”.
Se abbiamo saputo lavorare ai diversi livelli di organizzazione dello spet-
tacolo, ciascuno di questi funziona per suo conto. Messi insieme, però, non
realizzano armonia, ma confusione. Ogni livello di organizzazione è erra-
bondo, si limita ad andare per la sua strada, ha una sua tendenza centrifuga, è
geloso della propria autonomia. Ciò che ad un determinato livello di organiz-
zazione ha una sua coerenza efficace – per esempio al livello di organizzazione
del dinamo-ritmo – la perde invece all’altro livello, quello della drammaturgia
narrativa. O viceversa: alcune azioni, un passaggio o un’intera scena essen-
ziale per la storia che stiamo rappresentando, diventano di impaccio e contro-
producente per il ritmo dello spettacolo. Quel che in base ad una delle logiche
di lavoro è giusto, diventa “errore” da un altro punto di vista.
Sono questi gli errori che ci guidano, che ci obbligano ad estrarre una
nuova complessità da quelli che costituivano gli stadi precedenti del lavoro.
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La conquista della differenza 123
La goccia d’acqua
Perché dunque lavorare in un modo che può farci star male, che può met-
tere a disagio o ferire me ed i compagni?
Per creare un’opera-in-vita, che stia di per sé, che mi appartiene e in cui
mi riconosco, ma che non abbia bisogno della mia presenza per continuare ad
esistere nei sensi, nella memoria e nelle azioni degli altri.
Per dare allo spettatore qualcosa che ricordi anche dopo che lo ha dimen-
ticato.
Per la nostalgia dell’azione spoglia ed essenziale: la goccia d’acqua che
fa traboccare il vaso.
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INCONTRI CON GLI SPETTATORI
E CON ME STESSO
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TESTO DELLE ORIGINI*
Un teatro non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua
missione sociale. L’aggettivo “sociale” evoca per noi una presa di posizione
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QUEL CHE È ORGANICO PER L’ATTORE
E QUEL CHE È ORGANICO PER LO SPETTATORE*
vivo e di credibile. Accade però che l’attore viva come organiche delle azioni,
che invece non vengono sentite come tali dal regista e/o dagli spettatori.
D’altra parte, accade anche che il regista e/o gli spettatori percepiscano
come organiche azioni che l’attore vive invece come inorganiche, dure o arti-
ficiali da eseguire.
Questa disparità di giudizio, o di sensazione, va contro l’ingenuità teatrale
e la fede nella sintonia fra attore e spettatore. In realtà non c’è sintonia, ma può
esserci incontro. L’efficacia dell’incontro decide il senso ed il valore del teatro.
L’efficacia dipende dall’effetto di organicità che l’attore ottiene nei con-
fronti dello spettatore. Effetto di organicità vuol dire capacità di far sperimen-
tare allo spettatore un corpo-in-vita. Il compito principale d’un attore non è
essere organico, ma creare la percezione dell’organicità agli occhi e nei sensi
dello spettatore. Questo vuol dire che il suo lavoro sta tutto nell’apparenza e
nella simulazione? Crederlo sarebbe un’ingenuità altrettanto forte dell’otti-
mismo teatrale, che crede ad una relazione immediata e obbligata fra organi-
cità dell’attore ed effetto d’organicità per lo spettatore.
Il problema reale riguarda l’orientamento dell’attore nel corso del suo la-
voro, il modo in cui si sceglie un metodo e si apre una strada verso la costru-
zione della propria presenza efficace. Se l’attore usa come metro di giudizio la
propria sensazione dell’azione organica, se cioè perde il punto di riferimento
costituito dalla percezione di un altro che lo vede dal di fuori, probabilmente
sperimenterà assai presto come illusoria anche per sé stesso la propria organi-
cità. Le vie più brevi, checché ne dicano le nostre illusioni, sono sempre vie
* Pubblicato nel programma della 11a sessione della International School of Teatre An-
thropology (ISTA) a Montemor-o-Novo, Portogallo, 1998, il cui tema era “Effetto di organicità.
Quel che è organico per l’attore e quel che è organico per lo spettatore”.
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130 Eugenio Barba
curve. Sono cammini che per raggiungere la meta debbono procedere comin-
ciando con l’allontanarsi, al solo scopo di raggiungerla efficacemente.
Per l’attore, la ricerca dell’effetto di organicità è spesso accompagnata
dall’esperienza del disagio, da un senso inorganico del proprio corpo e della
propria azione. Solo alla fine di questa lunga tecnica di “allontanamento”, e
solo a volte, è possibile un incontro fra la nuova organicità delle azioni del-
l’attore e la percezione dello spettatore.
La nuova organicità che nasce dal lungo apprendistato è la conseguenza e
la metamorfosi del disagio. È l’esercizio d’una fisica, d’una fisiologia e d’una
logica che rendono paradossale lo spazio-tempo in cui attori e spettatori si in-
contrano. Questo paradossale modo di agire e di pensare, che s’allontana dai
criteri quotidiani, è il presupposto dell’efficacia e delle ragioni del teatro.
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EFTERMÆLE: QUELLO CHE SI DIRÀ DOPO*
Il lavoro è radicato nel presente, attento a quel che accade nelle distese
della storia e nell’arena del teatro. Tenta una risposta ai problemi professionali
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e personali che sorgono giorno per giorno. Cerca di realizzare sogni e desideri,
rispondendo agli obblighi del momento. Ma ciò che veramente conta è quello
che si dirà dopo, quando noi che lavorammo al compito saremo scomparsi.
*
Eftermæle: quello che si dirà dopo. L’uomo di teatro è responsabile anche
di fronte a quegli spettatori che non l’hanno mai veduto. La sua identità pro-
fessionale, così come egli la inventa e la vive, è una parte dell’eredità che tra-
smette al tempo.
Eftermæle: questo termine della cultura norvegese andrebbe tradotto con
la somma di due parole: nomea e onore. Vuol dire: il tempo deciderà il senso e
il valore delle tue azioni. Ma il tempo sono gli altri, coloro che verranno dopo
di noi. Tutto questo è paradossale: il teatro è arte del presente.
*
Onore è una parola che sembra appartenere alle epoche passate. Sembra
indicare arcaiche costrizioni sociali. Ma denota anche l’esistenza di un valore
superiore. Implica un obbligo non verso noi stessi e ciò che ci circonda, ma
verso ciò che ci trascende. Molière – testimoniano i contemporanei – pur es-
sendo gentiluomo di corte, pur essendo considerato uno dei più grandi filosofi
di Francia, trovava il proprio punto d’onore nell’imbrattarsi la faccia ogni sera
e presentarsi al pubblico come uno zanni. È un’immagine esagerata e roman-
tica? Ognuno, allora, trovi la sua.
*
* Pubblicato per la prima volta in “Linea d’ombra” no. 52, Milano, 1990.
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132 Eugenio Barba
eredi.
*
Si può parlare agli eredi sconosciuti solo facendo passare la propria voce
attraverso coloro che oggi ci circondano. Ancora un paradosso: gli eredi si
raggiungono per linee curve, parlando a coloro che eredi non sono. Questo
implica una visione del teatro, la capacità d’inventarsi un’identità e una tec-
nica minuziosa della relazione attore-spettatore.
Come trasmettere il messaggio?
Un’istantanea della vita di Brecht, nell’immediato dopoguerra, quando
aveva appena rimesso piede in Europa:
- I giovani vi aspettano, signor Brecht! Voi siete un mito per noi in Ger-
mania!
- Troverò un rimedio a tutto questo.
*
Alcuni immaginano il messaggio come una verità che la nostra storia, la
nostra tradizione, la nostra esperienza e scienza personale ci ha fatto scoprire e
che per ciò comunichiamo agli altri.
Io lo immagino come un quadro dipinto da un pittore esperto ma cieco.
Attraverso le tecniche che padroneggiamo, le storie che ci attraggono, le ferite
e le illuminazioni intimamente nostre, dobbiamo raggiungere qualcosa che
non è più nostro e non si lascia possedere né da chi lo fa, né da chi lo vede.
Il vero messaggio è il risultato non previsto e non programmato, d’un
viaggio verso una cecità cosciente: l’anonimato.
*
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La conquista della differenza 133
mere una nuova natura: significati non prima pensati, che i suoi stessi autori
osserveranno come enigmi.
Senza tecnica, senza perfezionismo e senza attenzione ai dettagli, tutte
queste restano metafore prive di senso. Ma senza metafore o ossessioni di
questo tipo, la tecnica, il perfezionismo e l’estrema precisione dei dettagli
sono teatro privo di senso.
*
Senso come senso di marcia: la direzione. Il Nord sono gli eredi.
*
Nessuno degli spettacoli dell’Odin è spettacolo-testamento. Ma ogni
volta ho pensato allo spettacolo che i miei compagni e io stavamo elaborando
come al nostro ultimo spettacolo. Non è possibile rimandare. Quel che aspi-
riamo a fare, va fatto adesso.
*
Zeami, Stanislavskij, Appia, Mejerchol’d, Copeau, Craig, Artaud, Brecht,
Ejzenstejn: possiamo considerare i loro scritti come la loro esperienza lascia-
taci in eredità? Accade come quando uno risiede a lungo in un paese straniero,
di cui ignora completamente la lingua. Migliaia di suoni sconosciuti penetrano
nelle sue orecchie e vi si depositano. In poco tempo possiede il grammelot di
quella lingua, potrebbe farne l’imitazione, la riconosce, ma non la intende. È
una confusa massa di suoni punteggiata qua e là qualche parola decifrabile.
Poi riceve una grammatica e un vocabolario. Attraverso i segni scritti rico-
nosce i suoni familiari e confusi. Essi trovano lentamente un ordine, una clas-
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134 Eugenio Barba
sificazione, una ragione. Ora è in grado di imparare da sé, sa come farsi aiutare,
a che cosa deve stare attento per imparare.
I libri dei grandi uomini di teatro del passato, ribelli, riformatori, visio-
nari, possono essere capiti solo se si arriva a loro carichi di esperienze a cui
non abbiamo ancora saputo dare un nome. Le loro parole scuotono il nostro
grammelot opaco e lo portano alla chiarezza d’una conoscenza articolata.
Sono tutti buoni libri, capaci di interessare i lettori. Ma la loro segreta ef-
ficacia sta sotto la superficie letteraria e tecnica, nella rete nascosta capace di
catturare le nostre esperienze che ancora ci sfuggono. L’eredità pesca i suoi
eredi.
*
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“Esiste un’eredità di noi a noi stessi”. Questa frase di Jouvet evoca la coe-
renza del nostro operare nell’alternarsi del tempo. Ma rammenta anche la do-
manda spietata che uno si deve porre dopo anni e anni di lavoro: ho ancora tra
le mie mani l’eredità o l’ho sperperata? È ancora intatto il suo valore? Oppure
è stato intaccato dal commercio con il mondo, dal contatto con la professione?
Ha conservato questa eredità il suo significato personale, intimo e incomuni-
cabile?
Nostro è solo quello che è segreto. Il visibile appartiene agli altri.
*
Mi domando:
– Come mai lavori spesso a spettacoli direttamente legati alla storia del
nostro tempo? Vuoi testimoniare di ciò che hai visto? Dei fantasmi con cui hai
dialogato? I tuoi spettatori ti paiono smemorati?
Mi rispondo:
– No, non siamo smemorati. Bisogna avere il senso della storia, perché lei
non ce l’ha.
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LA GEOGRAFIA DELLE ILLUSIONI*
* Pubblicato per la prima volta in “Dramatic Arts” n.19, Hong Kong, 2006.
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136 Eugenio Barba
anche dopo aver smesso d’esser marinaio. Visitai spesso mio fratello che vi
abitò per molti anni. Avevo cominciato a far teatro e i teatri asiatici mi erano
famigliari, presso di loro mi sentivo a casa più che in molti teatri d’Europa. Ma
nella baia di Aberdeen non misi più piede.
Fino a quando, durante la tournée dell’Odin Teatret a Hong Kong, nel
novembre del 2004, decisi di rivederla. La prima volta m’era apparsa incantata
come nella favola del film. La seconda volta, quasi quarant’anni dopo, il
mondo era cambiato. Anch’io lo ero. Ma la perdita dell’incanto non mi fece
male.
Avevo imparato a spezzare la bacchetta magica che suscita intorno a noi
una geografia di illusioni. Ai luoghi attribuiamo a volte spiriti e respiri che
sono nostri. Ci aiutano a definirci. La bellezza e la forza dei luoghi sono illu-
sioni vitali. Hanno il fascino del centro. Se non siamo pronti ad uscirne, prima
o poi ci disilludono.
Non c’è contesto migliore di Hong Kong per accorgersene. Oggi, nel 2004,
mi aggiro in questa folla di differenze, in questo accattivante e angoscioso labi-
rinto di case e di quartieri, d’autostrade, tunnel e grattacieli, di modernità e so-
pravvivenze, non per cercare di capirla, di coglierne l’indole o l’anima, ma per
rintracciarvi i fili che mi legano a quel pugno di persone che, anche senza vo-
lerlo o in modo anonimo, hanno suggerito il cammino che è mio.
*
Amo essere uno spettatore anonimo nei paesi che visito. Il piccolo Cattle
Depot Theater accoglieva I perform, un progetto del Theatre Training and Re-
search Program, l’originale istituto creato a Singapore da Kuo Pao Kun e T.
Sasitharan. Il TTRP presentava cinque atti unici. Un indiano del Kerala, figlio
di un imam, raccontava la sua doppia paradossale condizione: musulmano tra
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La conquista della differenza 137
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138 Eugenio Barba
destini personali. Ero un italiano del Sud Italia, avevo studiato in Polonia, fa-
cevo teatro in Danimarca, ero venuto in Cina per cercare un sapere professio-
nale che mi aiutasse a individuare il mio cammino. I miei interlocutori di
Taiwan erano indifferenti al mio interesse per il loro teatro classico, esso non
saziava la loro fame, per questo erano partiti per gli Stati Uniti. Alcuni erano
figli di cinesi, immigrati dal continente alla vittoria dei comunisti, altri taiwa-
nesi da diverse generazioni. Come me, avevano attraversato il mare e in un
universo straniero alla loro cultura erano andati in cerca di una conoscenza
tecnica che potesse appagare le domande dell’anima.
Che significa essere taiwanese? E come fare un teatro che esprima questa
essenza? La domanda era identica a quella che avevo sentito ripetere tra la
gente di teatro latino americano negli anni 1970, quando l’Odin Teatret prese a
viaggiare regolarmente nel loro continente. Che significa essere peruviano?
Quali sono le qualità specifiche del teatro colombiano? Come si manifesta
l’identità culturale di un paraguayano? L’ossessione di un centro, un idem,
un’identità culturale simile a un invariabile nocciolo sempre identico che sot-
tolinea la nostra diversità, si sarebbe sparsa anche in Europa una decina di anni
dopo come reazione ai cambi prodotti dall’Unione Europea e all’immigra-
zione di minoranze etniche e religiose.
Quando nel 2002 visitai Taipei con l’Odin Teatret, non esisteva più ne-
anche un teatro di opera tradizionale. Anche lo spettacolo domenicale alla te-
levisione era stato cancellato. I vecchi che l’amavano erano morti o in procinto
di farlo, e ai giovani non interessava.
Gli spettatori reagivano con scoppi di risa alle battute dei giovani artisti
del TTRP di Singapore. Sedevo muto e immobile, apparentemente disinteres-
sato. Eppure lo spettacolo mi aveva scosso e gettato in un labirinto di ricordi e
interrogativi. I labirinti, con i loro muri e le loro complicate geometrie, con la
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La conquista della differenza 139
Nel 1999, il drammaturgo e regista Kuo Pao Kun ci visitò a Holstebro per
due settimane. Voleva seguire il ritmo e le attività dell’Odin Teatret. Aveva in
mente un progetto che gli stava a cuore da anni: una sorta di teatro laboratorio,
il Theatre Training and Research Program, che avrebbe creato l’anno seguente
con T. Sasitharan. Il TTRP avrebbe accolto a Singapore giovani artisti dall’in-
tera Asia, qui si sarebbero scambiati esperienze, imparando le loro reciproche
tecniche tradizionali, venendo in contatto non solo con i metodi occidentali,
ma anche con la varietà di stili del proprio continente. Un paio di anni dopo
aver realizzato il suo sogno, Kuo Pao Kun morì.
All’Odin Teatret, nel corso della giornata, Kuo Pao Kun ed io ci incontra-
vamo, spesso per caso, in biblioteca, in cucina o in un corridoio. Dopo alcune
garbate frasi di convenienza, scambiavamo commenti, riflessioni, informa-
zioni biografiche, perplessità e certezze. Mi colpiva la sua vorace curiosità,
appena velata da una patina di cortesia, e l’attinenza delle domande. Lo intri-
gava il mistero della durata dell’Odin Teatret e della mia collaborazione di
tutta una vita con lo stesso nucleo di attori. La sua vita, così simile a quella di
tanti miei amici latino-americani e europei, ricordava il destino di Bertolt
Brecht, uno dei feticci delle nostre comuni credenze teatrali. Bambino, Kuo
Pao Kun aveva lasciato la sua Hebei natale, in Cina, per stabilirsi con la fami-
glia a Singapore. Aveva studiato in Australia, viaggiato in Asia, arrestato per le
sue idee politiche di sinistra, gli avevano sequestrato il passaporto, lo avevano
spogliato della sua cittadinanza. Non aveva tralasciato di scrivere, di mettere
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140 Eugenio Barba
*
Guardare di lontano e mantenere le distanze consente di generalizzare
proficuamente e di metter ordine nei nostri schemi mentali. Ma l’innocuo
procedimento “obiettivo” che dovrebbe servire a mettere ordine diventa stru-
mento del caos se ci illudiamo che queste generalizzazioni abbiano fonda-
mento nella realtà, se ci chiediamo quale sia la nostra identità d’europeo, o
d’asiatico, o d’africano, come dobbiamo fare per incarnarla e svilupparla o
che cosa rischi di inquinarla.
Queste sono le mie riflessioni mentre mi muovo fra le vie ed i quartieri di
Hong Kong, una città che ignoro profondamente quanto più immagino di co-
noscerla. Riguardano quella speciale geografia che ignora i confini, fatta solo
di movimento e legami. Ciò che nella geografia statica sembra certo – le ap-
partenenze, le nazioni, le etnie e le identità culturali – nella geografia della
mente diventa mobile e passionale. La geografia della mente non è irrazionale,
parla una lingua che solo una fame interiore è in grado di decifrare. I nostri
spettatori, ovunque dispersi, sono una parte tangibile di questa geografia. I
nostri colleghi, la nostra professione, sono il paese in cui affondiamo le radici.
Vedere il modo in cui cambia una città dà una speciale emozione. Mi
dico: “Hong Kong non è più la stessa”. È di me, in realtà, che parlo, del mio
sgomento nel sentirmi mutato col mutare dei giorni. Penso: “questa città aveva
un’anima e l’ha persa”. Non è vero. È della mia “anima” che parlo, qualunque
cosa questa parola significhi. Accenno, volgendo lo sguardo altrove, alla mia
inconfessata paura che il tempo, come la sabbia che cola nella clessidra, tra-
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La conquista della differenza 141
scini via con sé anche quel qualcosa di prezioso che dà un senso a quello che
fra me e me chiamo “l’ essenziale”: il centro della geografia della mia mente.
*
Quante volte ho visitato questa città nel corso di quasi cinquant’anni?
Quindici, venti, forse più. Ma è la prima volta che vi faccio tappa con l’Odin
Teatret.
Da dove sbucano queste centinaia di spettatori che nello smisurato foyer
del Cultural Centre aspettano pazientemente di essere introdotti nel particolare
spazio scenico del nostro spettacolo? Giovani, anziani, uomini e donne soli,
coppie, piccoli gruppi, abbigliati formalmente o un po’ trasandati. Chi sono,
cosa fanno, come sono venuti a conoscenza della nostra presenza qui, cosa
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sanno dell’Odin Teatret, perché vogliono vedere questo gruppo danese? Cos’è
il teatro per loro? Un passatempo? Un tunnel dal quale evadere dalla loro
isola? Una necessità vitale o uno dei tanti interessi, come il golf o la nuova
gastronomia fusion?
Pochissime sono le persone che alla fine dallo spettacolo mi si avvici-
nano. In Europa, in America Latina, in Canada o negli Stati Uniti è diverso.
Gli spettatori mi riconoscono, non come il regista dello spettacolo, ma come la
persona che li ha accolti e accompagnati al loro posto. Uscendo, ritornano
verso di me e spesso ne so prevedere le reazioni. Alcuni sussurrano solo:
grazie per lo spettacolo. Altri si perdono in una marea di parole, immaginano
che le loro frasi sconnesse spieghino il tumulto che lo spettacolo ha innescato
in loro. Pochi, in silenzio, mi stringono la mano e si allontanano furtivi, gli
occhi lucidi.
Qui, ad Hong Kong, il comportamento degli spettatori è diverso. Nessuno
mi si accosta, e le poche persone che ho conosciuto mi fanno un piccolo cenno
di saluto, ma restano schive. Solo la silenziosa figura di Gloria Lam è elo-
quente. Immobile nel suo elegante abbigliamento cinese, un’espressione im-
penetrabile nel volto, i suoi lunghi capelli neri riflettono le luci del soffitto.
Sembra l’immagine dello spettatore più distante dalle inquietudini del mio
teatro. Eppure è la sua immobilità e il suo silenzio di spettatrice che ha assi-
stito ogni sera al nostro spettacolo a toccarmi e a parlarmi, non la sua presenza
di funzionaria del Leisure and Cultural Services Department.
Credo di intuire quello che avviene dentro di lei. Le diversità etniche e
culturali sono vuote e ben tornite conchiglie nelle quali la nostra intima diver-
sità personale fa risuonare le sue voci e i suoi fragori. Uno spettacolo compone
musiche d’echi, affreschi di sensazioni che si comprimono all’interno di
queste conchiglie e si sciolgono nel centro dello spettatore. Alcuni fili, alcune
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142 Eugenio Barba
linee di vita si sono incrociate per un momento e forse annodate. Lì, nella
memoria unica dello spettatore, il teatro scopre uno dei suoi centri.
*
Lo spettacolo dell’Odin Teatret era intitolato Dentro lo scheletro della
balena. A Holstebro, subito dopo averlo composto, mi dissi: è ermetico. In-
vece si è dimostrato particolarmente adatto a viaggiare lontano dal contesto in
cui è nato. Non perché si faccia capire da tutti gli spettatori, ma perché ovunque
sembra non pretendere di farsi capire. Manifesta esplicitamente la sua voca-
zione a conservarsi “straniero”. Non racconta storie e non lancia messaggi. Ha
una sua logica interna, come ogni organismo vivente, che pulsa, agisce e muta
anche quando non pretende di farsi conoscere. Quando questo nostro spetta-
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colo riesce ad essere pienamente vivo, la qualità della sua differenza diventa
così allusiva ed elusiva da spingere gli spettatori a reagire ciascuno con la
propria testa, cioè con il peso e la forza della propria differenza.
Ho scoperto che lo spettacolo è straniero ad Hong Kong non più di quanto
lo sia a Holstebro.
Quando arrivai a Holstebro dalla Norvegia con i miei compagni di allora,
nel 1966, ci introducemmo in una terra straniera. Siamo ancora assieme, noi
che veniamo da una dozzina di paesi diversi, dopo una vita passata in sale di
lavoro e viaggi, profondamente radicati nelle nostre case danesi, ma consape-
voli della semplice verità così facile da dimenticare: si sta in un posto, non si è
di quel posto. Basta aggiungere alla parola “posto” quella di “tempo” e si ma-
terializza il teatro.
Il teatro è per sua natura straniero, che lo voglia o no, che lo sappia o si
rifiuti di saperlo. Questa sua natura diventa evidente nei viaggi. Le tournée che
ho fatto assieme all’Odin Teatret, spesso molto lontano dal nostro paese e dal
nostro continente, mi hanno fatto scoprire che siamo stranieri non perché ve-
niamo da differenti parti del mondo e abbiamo diverse madrelingue, ma perché
siamo in preda alla geografia della mente. I confini delle patrie sbiadiscono.
Prendono il sopravvento i mutevoli intrecci delle relazioni e delle passioni.
Sembrano fantasie, astrazioni, invece sono fatti pratici. Quando uno spet-
tacolo è in tournée, per esempio, i ruoli si invertono. Noi stranieri, nella pic-
cola sala in cui facciamo teatro, diventiamo padroni di casa. Accogliamo gli
spettatori, i quali, per un’ora o poco più, diventano essi gli “stranieri” in visita.
Si trovano di fronte a qualcosa che in maniera più o meno accentuata proviene
da un’altra storia, da un’altra geografia. Entrano, prendono posto, osservano, a
volte come semplici turisti, curiosi, comprensivi, o animati da un arrogante
complesso di superiorità; ammirati, o indifferenti. Questo accade, in misura
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La conquista della differenza 143
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144 Eugenio Barba
Hong Kong, dove adesso lavoro, deve conoscere i vostri spettacoli. Voglio che
siano vostri spettatori.
Per tre anni non ricevemmo nessuna notizia. Poi giunse un invito dal Lei-
sure and Cultural Services Department. David Jiang è il filo che ha guidato il
nostro teatro attraverso un labirinto di difficoltà fino a questo imponente edi-
ficio teatrale di Kowloon che si specchia nel mare e che ospita Dentro lo
scheletro della balena. Pura coincidenza? Questo filo si estende e si molti-
plica. Ricordo un attore cinese di notte, nel nostro teatro silenzioso, decorando
le lettere di saluto da offrire all’alba ai panettieri della nostra cittadina, insieme
a caffè bollente e dolci di diverse culture nel corso di una “visita teatrale”. Era
uno dei quattro attori di Hong Kong che insieme a una trentina di colleghi da
tutto il mondo collaboravano con l’Odin Teatret durante la Festuge, La Setti-
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La conquista della differenza 145
Li Madou si rende conto che non avrebbe potuto parlare con l’Imperatore, ma
almeno l’avrebbe visto, avrebbe potuto farsene un’idea, su di lui si sarebbe
potuto orientare, come i marinai che guardano in cielo la stella polare.
Le azioni e le formule del rituale cominciano ad essere eseguite dagli
astanti. Ecco il turno di Li Madou. Avanza verso il trono, si inginocchia, si
china fino a toccare la terra con la fronte. Alza gli occhi: il trono é ancora
vuoto. È stato sfortunato. L’Imperatore sarebbe apparso di fronte agli inchini
degli altri. Ma nessuna delle dieci, venti, trentamila persone che a gruppi ven-
gono condotte al trono, è più fortunata di lui. In perfetto ordine, tutti vengono
guidati verso l’uscita. La piazza torna ad essere una solitudine d’enormi pro-
porzioni.
Un rituale preciso come una formula matematica. Al centro un trono
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ANGELANIMAL
TECNICHE PERDUTE PER LO SPETTATORE*
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148 Eugenio Barba
tiana, quando il numero dei morti della pestilenza superava venticinque a set-
timana, le autorità chiudevano i teatri per settimane e mesi. Le epidemie,
insieme ai bigotti, erano gli avversari del teatro. Fu la peste, che chiuse il suo
teatro nel 1593, a spingere Shakespeare a guadagnarsi il pane scrivendo poe-
metti su Venus and Adonis e The Rape of Lucrece dedicati al Duca di Sout-
hampton.
Una volta, ho creduto veramente di essere spettatore di uno spettacolo del
Seicento. Ero tra un pubblico che sembrava godersi l’interminabile attesa del-
l’inizio della recita. Chiacchieravano, si lanciavano motti a distanza, andavano
a trovarsi da una parte all’altra della sala. Uomini e donne di tutte le età e pro-
venienze sociali, schiere di giovani e famiglie con bambini e infanti che dor-
mivano o frignavano in braccio alle madri e le sorelle. Frotte di ragazzini offri-
vano a gara gelati, bibite, semi e noccioline, fotografie d’attori e soprattutto
d’attrici. Un’atmosfera di instancabile vociferare. Mentre la musica invadeva
la sala, un mezza dozzina di ragazze bionde, abbigliate in attillati e succinti
costumi sfavillanti di paillette iniziavano una danza provocante. (Vengono
dalle ex repubbliche sovietiche – mi dice l’amica egiziana che mi accompagna
– hanno studiato balletto classico in Russia, Ucraina, Bielorussia, sono intrat-
tenute da chi se lo può permettere). Il balletto, sempre più provocante, era in-
terrotto dall’entrata dei protagonisti. Seguiva una successione di scene farcite
di allusioni ad avvenimenti politici e di cronica, intramezzate regolarmente dal
balletto delle biondine in costumi sempre più titillanti. Erano situazioni di at-
tualità, presentate per accenni, in maniera elusiva: satira e critica indiretta (un
funzionario della polizia corrotto che alla fine veniva punito), una buona dose
di nazionalismo (proveniamo dai Faraoni e ritorneremo alla loro grandezza,
dichiarava un personaggio dalla cima di una piramide), solidarietà con i fra-
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La conquista della differenza 149
telli arabi (un attore sventolava una bandiera palestinese tra il trasporto del
pubblico), gran finale con le ballerine che sgambettavano tra gli eroi.
Gli attori erano interrotti con frequenza dai commenti della sala, uno
spettatore lanciava una battuta, l’attore replicava, il dialogo improvvisato ve-
niva ripreso nello spettacolo tra schiamazzi e risate. Ero in un teatro popolare
del Cairo, ben lontano dagli esperimenti artistici dei gruppi indipendenti tea-
trali egiziani. Sull’intero paese vigilava l’Università islamica di El Azar, la
somma autorità religiosa che, nel mondo musulmano, valuta le minime devia-
zioni dall’ortodossia con giudizi inflessibili. Qui la censura di stato ha un
nome ufficiale – “protezione degli artisti” – per salvaguardarli dai fulmini teo-
logici.
Intravedo in queste situazioni una componente del DNA del teatro del
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150 Eugenio Barba
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154 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 155
ha intagliato.
Per anni mi sono confrontato con storie e figure che mi ponevano do-
mande per me essenziali e per le quali non avevo risposte. Potevo solo adden-
trarmi fra di esse, cercando di aprirmi un sentiero. Da qualche tempo vengo
sospinto verso classici monumenti che ammiro ma che non mi minacciano.
Pongo loro ossessivamente la domanda infantile, per me sostanziale, che
mi ha accompagnato lungo tutta la mia esperienza teatrale: che cosa volete
dirmi? Non vogliono dirmi proprio niente. Solo belle e intelligenti interpreta-
zioni. Null’altro.
Mi chiedo se Hamlet, Don Giovanni e Faust che ritrovo continuamente
sul mio cammino professionale – e tante volte evitati – siano casi-limite,
grandi letterarie rovine del teatro defunto, invulnerabili e incapaci di ferire. O
se non siano invece l’incarnazione della conquista dell’inutile che è il teatro.
La loro monumentale stabilità suggerisce un crollo.
So che debbo costruire architetture, convenzioni e muri intorno a loro. Ed
attendere con pazienza l’irruzione del Disordine, di una forza improvvisa che
con una provvida scossa farà crollare le tre grandi figure, distorcendo le loro
storie così spesso viste e previste, travisando la geografia in cui io e gli spetta-
tori sappiamo orientarci.
Ciò che crolla non pone domande. Siamo noi a porre domande su di noi,
risvegliati alla nostra stupefatta paura.
Angelanimal tace. È in attesa del Disordine.
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LETTERE DALLA MIA TERRA NOMADE
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VOI DATE, NOI DIAMO IN RISPOSTA*
* La prima lettera fu inviata da Eugenio Barba ai tutti i suoi attori, la seconda all’attrice
Iben Nagel Rasmussen. Pubblicate per la prima volta in Il libro dell’Odin da Ferdinando Ta-
viani, Feltrinelli, Milano, 1975.
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160 Eugenio Barba
Quelli di voi che vogliono, che vengano quando possono. Noi lavoriamo
dalle 7 di mattina alle 9 di sera, anche sabato e domenica.
Venite per essere presenti, con tutti voi stessi: così mi alleno io, queste
sono le mie esperienze, è con questo che mi batto adesso. E mostratelo attra-
verso quella che è la vostra lotta quotidiana che noi chiamiamo training. I
nuovi risponderanno allo stesso modo. Forse la loro risposta già adesso vi darà
qualcosa.
Un saluto affettuoso a voi tutti
Eugenio Barba
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L’UOMO DEL VENTO E DEI FULMINI*
Caro Jurek,
tutti i posti possono essere una casa. Ora, la tua casa la immagino come
un muro bianco su cui fissi lo sguardo, rintracciando i segni che alcune per-
sone vi hanno lasciato, quelli che ti furono a lungo vicini e ti offrirono tutta la
loro generosità, la loro capacità di agire e di darsi. Può anche darsi che il tuo
sguardo miope e penetrante non si soffermi più su questi segni e scruti aldilà
del muro bianco, aldilà della tua vita che, come un ruscello gelato, noi cer-
chiamo di fendere con una scure per bere ancora.
Da quando ti conosco non ti ho mai visto in una casa. Sempre in stanzette
grigie come quelle per i commessi viaggiatori, o simili a celle di rivoluzionari
clandestini. Lì ti hanno raggiunto i riconoscimenti. Anche oggi, questo premio
straordinario del Pegaso d’oro. E mentre molti di noi che ti amiamo siamo
chiamati a parlare di te, tu ancora una volta non ci sei. Anche in questo mo-
mento sei solo, nella solitudine che sempre ti ha accompagnato.
Un premio fa soprattutto bene a chi lo dà. È giusto e importante dare un
segno di gratitudine e di ammirazione, Ma non mi illudo: adesso, per te, che
pur apprezzi i riconoscimenti, tutto questo è meno che paglia. I tuoi pensieri e
le tue energie sono dedicati a lasciare la tua casa in ordine, in modo che i tuoi
eredi, quelli rinomati e quelli senza nome, seguano la tua eredità: la strada in-
visibile su cui non smettiamo mai di perderci e di essere condotti.
La tua solitudine è sempre stata attiva, ha saputo scuotere un pugno di
persone, le ha guidate e spinte a incidere il mondo che ti circondava e le circon-
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162 Eugenio Barba
dava. Molte volte, per quasi quarant’anni, da quando ci siamo incontrati ancora
ventenni, mi sono chiesto che cosa tu mi stessi indicando. Spesso le tue orme
diventavano confuse e si perdevano, ma era un perdersi che suggeriva oscura-
mente una direzione. La direzione è sempre stata la mia. Le orme sono tue.
Lo sappiamo bene: hai agito, nel teatro, come quei cavalieri nomadi che
trafiggevano con una sola freccia due cicogne nere. Sei stato l’uomo del vento
e dei fulmini ed hai spalancato altre porte alla nostra professione. Attraver-
sando quelle porte, il mestiere dell’attore veniva risucchiato violentemente in
altre dimensioni, sradicato perfino dalla rappresentazione e dall’arte e proiet-
tato in una nuova provincia di un paese spirituale perduto. Il rigore e la tenacia,
tutto il sapere sottile che serve all’attore per essere efficace ai sensi e allo spi-
rito dello spettatore, tu li hai trasmutati nella solitaria disciplina di lavoro del-
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Eugenio
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INSEGUIRE SE STESSI*
* Lettera al gruppo teatrale Yuyachkani, Lima, Perù, in occasione dei suoi 40 anni.
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164 Eugenio Barba
sato è quel poco che abbiamo davanti e che riusciamo a vedere. Alle nostre
spalle c’è quel che chiamiamo “futuro”, “fortuna” o “destino”: il tempo ignoto
che ognuno chiama “me stesso”.
Inseguire noi stessi vuol dire camminare all’indietro guardando avanti,
tentando d’orientarci interpretando non le strade e i bivi che ci aspettano, ma
la via che abbiamo già percorso. Non possiamo vedere gli inciampi che ci mi-
nacciano, né la meta – quale che sia.
Sembra la descrizione d’una sapiente gag da clown. Ma è la materializza-
zione di quel pozzo senza fondo che si nasconde dietro il misterioso concetto
di coerenza. Ripetiamo spesso questa parola, specialmente nei momenti di
crisi. A volte la sbandieriamo davanti agli occhi nostri e degli altri, con enfasi
da moralisti. Ma non possiamo padroneggiarla.
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Eugenio Barba
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GLI ORECCHINI DI PIRANDELLO*
Sono alcuni versi della poesia di Pirandello La via. L’esergo che Piran-
dello ha messo prima dei suoi versi è: “Provar per ogni via come la nostra vita
a caso sia”. La vita non ha altro scopo che mantenere se stessa e riprodursi. È
compito nostro darle un senso. In questa capacità di dare un valore alla casua-
lità risiede la grandezza dell’essere umano.
Non credo che sia un caso se ora sono qui a ricevere questo premio, in una
regione del Sud Italia, dove ritrovo i colori, gli odori, i sapori e i pregiudizi che
costituiscono la mia identità. Né considero un caso la scelta operata dalla
Commissione, che premia non solo me, ma Else Marie Laukvik, Torgeir
Wethal, Iben Nagel Rasmussen, Tage Larsen, Ulrik Skeel, Roberta Carreri,
Julia Varley, attori ed attrici che hanno fondato l’Odin Teatret assieme a me, e
che vi lavorano da 30, 20 anni.
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166 Eugenio Barba
Immagino che la scelta di dare all’Odin Teatret questo premio abbia ri-
chiesto un certo coraggio alla giuria. Siamo un gruppo di uomini e di donne
che non ha rinunciato alla sua stranezza ed ha realizzato una diversità culturale
attraverso il teatro nella periferica cittadina di Holstebro. Rappresentiamo il
teatro del margine. È a tutti i teatri del margine che avete dato il vostro segno
di riconoscimento nel momento in cui l’avete dato all’Odin.
I teatri del margine non sono teatri marginali. Tentano di difendere un
margine, un vuoto che si lascia riempire da nostalgie e necessità personali.
Lottano affinché le estetiche, le ideologie, le tecniche, le poetiche, le mode
non lo invadano. Vogliono un rituale vuoto, non usurpato dalle dottrine.
Il margine può essere scabroso, ma può anche essere una riserva d’aria
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per chi si sente soffocare; una riserva dove possano vivere valori minacciati e
difficili da condividere; pulsioni di rivolta; animali che nessuna arca ha voluto
salvare: centauri, basilischi, unicorni, dragoni, sirene. O quell’altro animale in
via di estinzione nei nostri cuori, Dio.
I teatri del margine hanno una lunga tradizione, nomi celebri come Stani-
slavskij, Mejerchol’d, Copeau, Brecht, Decroux, Beck e Malina, Grotowski e
alcuni altri. A volte, il senso del margine si riverbera in testi drammatici; in-
nanzi tutto i testi di Pirandello e di Beckett, di Genet, di Cechov, di Ibsen e
Strindberg, e fors’anche dell’antipatico Claudel. Ma questi nomi sono solo la
parte emersa dell’iceberg teatrale. La parte sommersa, il suo corpo più consi-
stente, determina la presenza ed il modo di navigare di quest’isola del teatro
separata dalle regioni centrali e ben riconosciute. La parte sommersa è com-
posta di mille e mille volti anonimi, nelle mille regioni anonime del nostro
pianeta. Sono loro che costituiscono la tradizione profonda dei teatri che ten-
gono in vita il margine.
Ai teatri del margine ed ai teatri anonimi e sommersi, e non solo all’Odin
e me, va questo Pirandello dal volto d’oro. Lo voglio fondere.
Lui, Luigi Pirandello, volle essere cremato, diventare cenere da mischiare
alla terra di Caos, il suo villaggio. Non volle divenire una tomba. Ora, a di-
stanza di sessant’anni, credo che sia appropriato fondere questa piccola e pre-
ziosa opera d’arte che lo pietrifica. Con questo oro farò fare tanti orecchini.
Desidero regalarli a coloro che in Australia, in Africa, in Asia, in Europa e
nelle Americhe, difendono il margine.
Non è un caso: decine e decine di orecchini, affinché Pirandello bisbigli
in nuove orecchie lontane i suggerimenti per perdere e trovare la propria via,
fatta di azioni e di rifiuti.
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QUI NON SI PUÒ FARE NIENTE*
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Cara Nitis,
tu sai quanto forte sia l’influsso dell’America Latina sul mio lavoro,
quanto sia ispirante per definire a me stesso il senso del fare teatro. Quindi non
c’è bisogno che ti dica le ragioni profonde che hanno reso per me cosí impor-
tante l’ISTA di Londrina.
Già nelle precedenti sessioni, da quella iniziale a Bonn, nel 1980, alla
settima di Brecon e Cardiff, in Gran Bretagna, nel 1992, la presenza di artisti e
studiosi dell’America Latina è sempre stata forte. Ora è l’ISTA stessa che at-
traversa il mare.
Sai anche che mi piacciono i contrasti. Immagino e in parte conosco quali
siano state le difficoltà tue e dell’èquipe del Festival che tu guidi per realizzare
un’ospitalità difficile come quella dell’ISTA. Ma quando visitai il luogo in cui
saremmo rimasti a lavorare per una settimana, prima di venire a Londrina per
il Simposio e lo spettacolo Theatrum Mundi, la mia sola obiezione – ricordi?
– fu che il luogo era troppo bello e troppo comodo, la vostra accoglienza quasi
troppo generosa.
Per gli organizzatori che ospitano una sessione dell’ISTA è sempre un’im-
presa ardua trovare i denari necessari a radunare tanta gente, a pagare i viaggi
ed i giusti compensi ai maestri che provengono dalle più lontane parti del
* Lettera a Nitis Jacon, regista del teatro Nucleo e direttrice del FILO, Festival Interna-
zionale di Londrina, Brasile, organizzatrice dell’8a sessione dell’ISTA, International School of
Theatre Anthropology, nel 1994. Pubblicata per la prima volta in “Máscara” n. 19-20, Città del
Messico 1995.
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168 Eugenio Barba
mondo. Alcuni, nei paesi “ricchi” come in quelli considerati “poveri”, ripe-
tono sempre la stessa lamentela: non sarà possibile!”. Tu hai dimostrato che il
problema principale non sta nelle circostanze economiche che permettono o
agevolano la realizzazione di una propria necessità, ma nella motivazione e
nella testardaggine con cui la si vuole, riuscendo a contagiare altri con il pro-
prio sogno o delirio d’azione.
Alcuni dei vecchi collaboratori europei, quelli che erano stati presenti
all’ISTA fin dai primi anni, quando arrivarono alle colline vicino a Aguativa,
dove lavorammo la prima settimana, mi guardarono meravigliati: abituati alla
vita spartana che avevano condotto alle sessioni dell’ISTA di Bonn o di Vol-
terra in Italia, venendo in Brasile si preparavano a chissà quali disagi. Si trova-
vano invece accolti in maniera che definirono “principesca”.
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La conquista della differenza 169
necessario per non capire. Spesso le acquisizioni più importanti per il nostro
mestiere e per il nostro sapere non sono quelle che abbiamo abbracciato con
entusiasmo fin dall’inizio, ma quelle alle quali abbiamo a lungo resistito, che
ci sono sembrate ostiche e oscure.
Così abbiamo organizzato una parte della giornata come una serie di vi-
site alle “case” di alcuni maestri. Ma visite dove non si andava solo per osser-
vare con gli occhi e col cervello, ma per sperimentare con i propri sensi e la
propria fatica, lavorando praticamente. Tutti i partecipanti hanno potuto assag-
giare, nel giro di una settimana, le fondamenta del lavoro di Sanjukta Pani-
grahi, di Swasti Bandem, di Roberta Carreri, di Augusto Omolú, di Kanichi
Hanayagi. Certo non hanno appreso nulla delle loro tecniche. Sarebbe dele-
terio se si illudessero, su basi così esigue, di poterle eseguire e ripetere. Nes-
suno con un bagaglio di lavoro di soli pochi giorni sarebbe così sciocco. Ma
hanno certo sperimentato l’elasticità di altrettanti trampolini, da cui poter
partire per compiere le proprie scelte, sviluppare il proprio autodidattismo.
Si erano inoltre costituiti piccoli gruppi dedicati a ricerche pratiche e di-
scussioni su alcune delle più significative antinomie dell’arte dello spettacolo
(teatro/danza; improvvisazione/ripetizione; canto/parola). A queste esperienze
per gruppi si alternavano momenti del lavoro un cui erano tutti riuniti, impe-
gnati praticamente – come nel lavoro di prima mattina attorno alla voce con
Julia Varley – o impegnati ad osservare la composizione dello spettacolo del
Theatrum Mundi, che poi abbiamo rappresentato l’ultima sera, il 21 agosto,
sul lago di Londrina.
Si viene all’ISTA per scontrarsi con domande, con visioni che lentamente
dovranno poi sedimentarsi e trasformarsi in scelte personali di lavoro. L’alter-
narsi dei lavori, i momenti di pausa, gli apici che richiedono fatica e quelli che
ripagano con la contemplazione di alcune delle meraviglie del teatro del no-
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170 Eugenio Barba
stro pianeta (questo sono i teatri classici asiatici: non solo serbatoi di preziosi
segreti del mestiere), il modo, insomma, in cui è organizzata la giornata non è
un semplice problema di organizzazione. Si tratta di realizzare, con le ore di
un giorno e con i giorni di una settimana, una vera architettura del tempo, che
impregni di domande e di stimoli i corpi-mente dei partecipanti.
Vi sono immagini, suoni e sensazioni che sembrano racchiudere l’essenza
stessa di questa situazione privilegiata che è l’ISTA. Quando penso alla nostra
risento l’emozione condivisa con tutti i partecipanti quando nel grande campo
di calcio vedevamo il sole sorgere da dietro le montagne accompagnato dai
canti indiani di Raghunath o dalle invocazioni di Ory agli Orixá.
I mille e mille ricordi illuminano la mia mente come i fuochi d’artificio
che diventarono la cornice finale dell’indimenticabile Theatrum Mundi che
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La conquista della differenza 171
Eugenio Barba
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CAVALIERI CON SPADE D’ACQUA
No bajèis al jardín! 1
Federico Garcia Lorca
“Se la storia degli altri diventa la tua storia, hai cominciato a comprendere
il mondo”. Questa frase dell’anarchico italiano Enrico Malatesta condensa il
senso del mio debito verso una minuscola schiera di uomini e donne che,
all’inizio del Ventesimo secolo, cambiarono il corpo e l’anima del teatro del
mio continente. I riformatori europei, con le loro parole di fuoco, le loro ferite
e ossessioni, e con i loro spettacoli, diventarono i cavalieri di un’Apocalisse
innovatrice che fece crollare paradigmi culturali ed estetici, modelli tecnici
secolari, tutta la struttura estetica, pratica e culturale di un lavoro artistico che
era tutt’uno con un’attività economica.
Quest’ Apocalisse generò una nuova nascita, una pluralità di visioni, me-
todi, processi pedagogici e obiettivi artistici. Così, mentre la “tradizione” del
teatro europeo finiva, la modernità si insediava con i fondatori di “piccole tra-
dizioni”, intenti a scoprire, attraverso il teatro, le proprie necessità individuali
e sociali.
Un’ossessione comune unisce questi cavalieri tanto individualisti: tra-
scendere il teatro e, negandolo, estrarre dalla propria pratica un valore inesplo-
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174 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 175
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176 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 177
Però, oltre ai contesti sociali e oltre a una biografia personale, tutti gli at-
tori hanno qualcosa in comune: un corpo e una voce animati da processi men-
tali. L’attore disciplina la propria presenza somatica e i propri processi psi-
chici, crea azioni dinamiche e le modella in forme dense di informazioni per
trascinare gli spettatori in un percorso sensoriale e narrativo. L’attore dirige un
flusso di energie che fanno vibrare i nessi che legano ogni spettatore alla pro-
pria comunità, e che evocano ugualmente esperienze individuali, ferite, umi-
liazioni. Lo spettacolo-in-vita irradia la capacità di parlare alla memoria e ai
sensi di ogni spettatore e sussurrargli qualcosa di intimo.
Questa capacità è uno dei compiti dell’attore, da essa dipende l’efficacia
delle sue azioni. Presuppone una competenza tecnica. Come essere efficace
nei confronti degli spettatori è un problema che accomuna tutti gli attori al-
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178 Eugenio Barba
bambino vulnerabile.
Vorrei che Iben Nagel Rasmussen, attrice dell’Odin sin dalle sue origini,
terminasse con una canzone. Proviene da uno spettacolo che lei ha creato as-
sieme a César Brie, un attore argentino che ha lavorato nell’Odin. È una can-
zone sul dolore dell’esilio e il sogno di ritornare in patria. Ma noi sappiamo
che la nostra vera patria ha radici nel cielo e che le uniche stelle a guidarci
nell’oscurità di questo mondo sono i nostri valori.
Il canto di Iben:
* Quando ti vedo trai fiori / con i tuoi campi e le tue montagne / son così grandi le tue
pianure / e così innevate le tue montagne. / Sei un ramo in fiore / che profuma il mio cuore. /
Ascolta la mia voce / ascolta la mia voce / terra mia, perché in sogno vengo a vederti, / perché
nella realtà non posso. /Sei un ramo in fiore / terra mia.
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GRAFFIARE I MURI*
* Lettera al Teatro Koreja di Lecce, Italia, in occasione dei suoi vent’anni di attività.
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180 Eugenio Barba
versi. Si sporcò il mantello ricamato per pulire la parete. Ma dopo tanta fatica
e tanta abnegazione i versi non li ricopiò. Raccontò il caso in una lettera a Po
Chu-i. E il poeta scrisse altri versi per raccontarlo.
Cari amici di Koreja, continuate a darvi da fare, a imbrattare i muri invisi-
bili del teatro con scritte sublimi e goffe e a ripulire quelle semiscomparse.
L’essenziale è che la vostra opera di nettezza e i vostri graffi scaturiscano da
una necessità che è solo vostra.
Graffi?
Quali resteranno? Quali no? Che cosa serve per farli restare? La fortuna?
E di che cosa è fatta, la fortuna?
Da un ubriaco. Da un muro. Dai ricami e dal mantello. Dai versi casual-
mente spariti. E da quelli casualmente sopravissuti. Da un’epoca futura che
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VIVERE CON IMPRUDENZA*
Congratulazioni per le vostre due decadi, Roxana y Joel, cari fratelli del-
l’Estudio Teatral de Santa Clara. Ormai non siete più dei giovani che promet-
tono, ingenui e sognatori. Con orgoglio vedo le vostre ali robuste e quanto alto
sia il vostro volo. Però non dimenticate, come non lo facciamo mai noi del-
l’Odin Teatret, che appena poggiate i piedi a terra le trappole stanno lì ad
aspettarvi.
Mi sento vicino a voi perché ho l’impressione – benché non ne abbiamo
mai parlato – che condividiamo la stessa fede: che il teatro non può fare a
meno di essere politico. Questo non vuol dire parlare di politica, ma avere una
politica, una visione di come sia il mondo e di come, invece, lo vorremmo.
Due mondi. E tra di loro una grande distanza che immagino come un deserto
nel quale fioriscono i teschi e le ossa che la Storia ci ha lasciato.
Più grande è la distanza fra i due diversi mondi, più essa rischia di dege-
nerare, per ciascuno di noi, in un senso d’impotenza che col tempo si esprime
in un’indignazione inerme e finisce col tradire – non i compagni e noi stessi –
ma la nostra giovinezza. Avviene nel momento in cui ci diciamo: “Erano tutte
chimere. Abbiamo diritto a essere stanchi”.
Invece si può cavalcare chimere tutta la vita senza mai vincere, ma senza
essere sconfitti. La posta in gioco, infatti, non è cambiare il mondo, ma vivervi
degnamente. Quel che decide, più ancora delle circostanze, è se siamo in grado
di usare strumenti appropriati.
Il contravveleno per combattere la tendenza ad accontentarsi ha molti
nomi. Oggi userò quello più generico di “poesia”. Può sembrare un termine
patetico e abusato. Ma ho in mente alcune frasi di García Lorca quando spiegò
* Lettera a Roxana Pineda y Joel Saéz in occasione dei vent’anni di attività del loro
Estudio Teatral de Santa Clara, Cuba.
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182 Eugenio Barba
con parole semplici che cosa fosse la poesia di Neruda – o meglio: che cosa
non fosse. Disse che a Pablo Neruda mancavano i due elementi dei quali molti
“falsi poeti” si sono nutriti. Nominò l’odio e l’ironia. Poi rappresentò Neruda
come uno di quegli artisti che sui palcoscenici o nell’angolo d’una piazza ci
incantano con i loro prodigi, e lo ammantò con un simbolo potente. Disse:
“Quando Neruda intende colpire e solleva la spada, si ritrova subito una co-
lomba ferita fra le dita”.
Era l’ottobre del 1934, all’Università di Madrid. Non passeranno due
anni, e García Lorca sarà lui stesso una colomba assassinata.
Fin dal primo giorno, il vostro gruppo ha agito secondo un’economia po-
litica che non si basa sul risparmio e la cautela, ma sull’eccesso di un’attività
che travalica il limiti del teatro come genere estetico. Anche questa credenza
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condividiamo: che il teatro può essere usato come cultura attiva, come moneta
di scambio per dar risalto alla diversità.
Tutti gli impegni che leggo nel vostro programma di lavoro sembrano un
eccesso di delirio visionario e furore operativo, e forse sono imprudenti. Non
posso fare a meno di chiamarli “poesia”.
Quando García Lorca terminò la sua breve presentazione di Pablo Ne-
ruda, si rivolse direttamente ai propri ascoltatori ricordando che c’è una luce
nascosta nei poeti. È importante percepirla per nutrire quel grano di follia che
ognuno porta dentro di sé, e senza il quale è imprudente vivere.
Disse proprio così: imprudente.
Cari Roxana e Joel, vi auguro molti anni di volo, ringraziandovi per ogni
volta che avete generosamente accolto nel vostro Estudio Teatral a me e ai ai
miei compagni dell’Odin Teatret. Insieme, ognuno dalla sua riva, spero che i
nostri gruppi continueranno a bagnarsi nel fiume della Storia, con imprudenza.
Un abbraccio
Eugenio Barba
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SEPARARE IL TEATRO DALLA SUA SEPARATEZZA*
Cara Annet,
sono i problemi da risolvere che ti attraggono, più ancora delle storie da
raccontare. Permettimi di ricordarti un episodio del Libro delle svolte di Ber-
tolt Brecht.
Ai suoi allievi più esperti, un giorno il maestro sottopose un problema
geometrico praticamente insolubile: dovevano calcolare l’area di una super-
ficie dai contorni irregolari, tutti punte, spigoli e insenature. Gli allievi adotta-
rono la strategia giusta: suddivisero la figura irregolare in tante piccole figure
geometriche semplici. Di ognuna di esse – triangoli, rettangoli, trapezi – misu-
rarono l’area, poi sommarono i risultati. Ma il maestro aveva delineato la fi-
gura di partenza in maniera furba: sempre rimaneva un angolino che non si
lasciava ridurre alla regolarità. “Sembra una figura viva, che si ribella sotto le
nostre dita”, dicevano gli allievi affaticati. Effettivamente aveva il disordine e
l’imprevedibilità della vita.
Uno degli allievi, un outsider fra quegli studenti esperti, non si sgomentò.
Invece di regoli, matite e compassi, prese con sé un paio di forbici ed un bilan-
cino da orefice. Ritagliò la figura frastagliata disegnata dal maestro. Su carta
dello stesso tipo tracciò un triangolo regolare. Ritagliò anche quello. Posò sui
due piatti del bilancino i due pezzetti di carta, e ridusse le dimensioni del trian-
golo regolare fino a che questo non pesò quanto la carta della figura di par-
tenza. Allora calcolò l’area del triangolo e trovò la soluzione. I compagni pro-
testarono che aveva barato: pesare pezzettini di carta non è geometria. Ma il
maestro lo elogiò: “Lui solo – disse – ha affrontato il problema come un vero
problema. Voi avete pensato solo alla geometria”.
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184 Eugenio Barba
Tu, Annet, attrice e regista olandese che lavori in Italia, hai incontrato e
scelto vittime di ingiustizie, di diritti umani violati, di paesi in guerra. Hai de-
ciso di farci vedere di che si tratta. Come lo studente outsider che ha pesato le
misure, tu hai separato il teatro dalla sua separatezza. Hai tracciato confini ir-
regolari senza preoccuparti delle proteste dell’arte. Molti non hanno ricono-
sciuto quel che facevi. Hai saputo resistere e continui a farlo per non essere
sopraffatta dall’indifferenza e dall’irriconoscibilità.
L’intelligenza nell’arte del resistere è stata la tua dote principale, più an-
cora della tua tecnica artistica. Per questo ti sono grato. Con un forte abbraccio
Eugenio Barba
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IL GIURAMENTO DI ATAHUALPA
LETTERA A UN FRATELLO PERUVIANO*
Caro Mario,
per molti anni, nei miei pensieri, è risuonata la parola “etica”: etica del-
l’attore, un teatro con una sua etica. Negli ultimi tempi, però, ho difficoltà a
pronunciarla e mi domando cosa si nasconda dietro questa parola. Indica ció
che sognamo di essere o ciò che siamo? È un comodo alibi? Un pretenzioso
complesso di superiorità?
Due fratelli si incontrano in prigione. L’uno, Dmitrij, è accusato di parri-
cidio. L’altro, Aleksej, lo va a visitare il giorno prima del processo. È pome-
riggio avanzato, quasi sera. Il romanzo di Karamazov sta per finire. L’etica.
Cos’è l’etica? – domanda Dmitrij al fratello. Alekseij, resta interdetto. Dmitrij
l’incalza: È una scienza? Alekseij tenta una risposta: Sì, è una scienza... se-
nonché... io, ti confesso, non son capace di spiegarti che scienza sia.
Non siamo capaci di spiegarlo. Eppure è come una scienza. Ma personale,
muta, con principi che per ognuno dovrebbero essere certi come due e due fan
quattro e che ci sono chiari solo nel momento dell’azione, quando si tratta di
prendere posizione nei confronti delle persone e delle circostanze. Principi
che non si coagulano in comandamenti astratti, e che solo l’esempio rende
evidenti. Allora, non sarebbe meglio parlare, invece di etica, di valori perso-
nali, di dignità?
* Lettera aperta a Mario Delgado, regista del gruppo Cuatrotablas di Lima e organizza-
tore di un incontro di teatri di gruppo ogni dieci anni ad Ayacucho, sulle Ande peruviane. Pub-
blicata per la prima volta in “Conjunto” n. 111, L’Avana 1998.
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186 Eugenio Barba
ogni parte del mondo, migliaia di spettatori. Verrebbe voglia di essere allegri e
ottimisti. Eppure questa sarà una lettera sgradevole. Come sono sempre sgra-
devoli e puntigliosi i discorsi che abbandonano i grandi temi e le grandi spe-
ranze per chinarsi sulla inesorabile concretezza dei dettagli.
*
Nulla di più bello che ritornare ad Ayacucho vent’anni dopo, riuniti nello
spirito di Atahualpa del Cioppo, non in nome della nostalgia e delle imprese
passate, ma per osservare che cosa siano divenuti quei semi lanciati in un ter-
reno che pareva roccioso e battuto dalle intemperie della storia. Sono fioriti. Si
sono sviluppati in uomini e donne diversi da ciò che immaginavamo, che non
sembrano appartenerci. Nei quali ci identifichiamo, scoprendo in loro le voci
diverse e contrastanti del nostro futuro.
Quando ci incontrammo per la prima volta, a Caracas, nel 1976, da una
parte noi dell’Odin Teatret, dall’altra te e i tuoi attori del Cuatrotablas, appena
arrivati da Lima, fu l’inizio di una di quelle storie d’amore che caratterizzano
la storia sotterranea dei teatri del nostro secolo. Storie d’amore che si svolgono
a distanza, come è stata quella fra me e Grotowski, alimentate da intensi in-
contri e da indissolubili passioni e interessi. È stato bello averti accanto nelle
grandi battaglie del teatro di gruppo, a Belgrado nel 1976, a Bergamo nel ’77,
quando lo slogan del Terzo Teatro era ancora, per me, un tentativo di ricono-
scermi. Evocava un terzo mondo con tradizioni proprie, reali o sognate, scher-
nito dal lusso mediocre del primo e secondo mondo del teatro, eppure col
segno della dignità e del valore, con la consapevolezza dell’umile sacralità del
lavoro, che caratterizza il destino di ogni artista, indipendentemente dall’ap-
prezzamento circostante. Questo era ed è per me il Terzo Teatro: l’essere po-
vero di mezzi materiali, ma consapevole della ricchezza degli esempi del pas-
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La conquista della differenza 187
sato, teso alla ricerca dei propri valori, libero da quelli imposti dall’esterno.
Soprattutto ammiravo, nel Terzo Teatro, nei gruppi degli anni Settanta, la vita-
litá selvaggia, ostinata e anonima, che vedevo come una fonte di nuove piccole
tradizioni.
Quando nel ’78 tu e i tuoi compagni del Cuatrotablas, letteralmente un
pugno di persone, organizzaste l’incontro di Ayacucho, non so cosa ammirassi
di più, se la vostra temerarietà o la vostra generosità.
Invitaste l’Odin nel 1978, in un tempo in cui in America Latina molti
teatri si alimentavano di contenuti politici che sembravano giustificare la faci-
litá delle soluzioni del mestiere. Con la tua tenacia, ripetesti quest’incontro nel
1988, a Huampaní, dedicandolo a Jerzy Grotowski. I Cuatrotablas non erano
piú soli a dirigere l’impresa, che ora era capitanata da voi e da altri gruppi
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teatrali peruviani. Questi facevano un teatro molto diverso dal tuo; le vostre
visioni estetiche e la vostra concorrenza avrebbero dovuto allontanarvi, eppure
vi uniste in un’alleanza solidale. Rinnovasti la sfida che sembra impraticabile
nel nostro mestiere: creare una transizione che dura, i segni tangibili d’una
coerenza e d’una pratica che non sono solo biografia professionale, ma giá
l’inizio d’una tradizione.
Il Reencuentro Ayacucho ’98 mi ha mostrato le conseguenza di questo tuo
operare, di questa tua visione che hai quotidianamente incarnato nei confronti
delle differenti generazioni dei Cuatrotablas, in una vivace e fertile polemica
complementare con Miguel Rubio e gli Yuyachkani e gli altri gruppi peruviani.
Sei diventanto cosí la dimostrazione – non solo in America Latina, ma anche
per noi europei – di una imprevedibile costanza da contadini, capace di colti-
vare il campo del teatro lasciandoti guidare da valori come l’amicizia e l’onore.
Mai, come durante il Reencuentro Ayacucho ’98, ho provato la sensazione
di dissolvermi nei miei attori dell’Odin, nelle centinaia di altri attori e registi
che si erano radunati nell’Aula Magna dell’Università di San Cristobál de
Huamanga, dove il Rettore Enrique Gonzales Carré mi conferiva una laurea
honoris causa. In realtà la conferiva a noi tutti, alla nostra cieca e incompren-
sibile ostinazione che ci ha spinto o obbligato a persistere, senza fallire, negli
ideali della nostra giovinezza, in un alternarsi di epoche e vicende storiche
caratterizzate da terremoti ideologici e da stragi di innocenti. Era a questa ga-
lassia di teatri di gruppo, di individualisti, di anarchici che non vogliono sotto-
mettersi, di sognatori e di ingenui, segnati da vanità infantili e ferite personali,
che quel diploma dorato di una delle più antiche università latinoamericane
era rivolto. Avrei voluto farlo a pezzi, centinaia di brandelli da distribuire a
tutti i presenti, come una bussola fragile e inconsistente per orientarci negli
anni bui che ci aspettano.
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188 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 189
*
Cosí come t’appartiene il valore di ciò che hai compiuto di importante e
che ha segnato la storia recente del teatro peruviano, così come t’appartiene la
temerarietà, t’appartiene anche il disvalore della disorganizzazione, del disor-
dine che minacciano sempre di sfociare nella mancanza di rispetto per il lavoro
degli altri.
Alcuni dei gruppi invitati, avevano viaggiato 30, 40, 50 ore in bus attra-
verso il continente latinoamericano per raggiungere Ayacucho. Già mentre
eravamo lì ti parlai a lungo: come potevi permetterti di non offrire loro il mas-
simo dell’ospitalità possibile? Non conta la penuria di mezzi. Conta l’impegno
sui minimi dettagli. Si possono accettare le condizioni più scomode e difficili,
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ma solo se si vedrà che chi ti ha invitato si dedica a te, si rende conto dei tuoi
problemi, della tua stanchezza e della tua insicurezza, e mai ti abbandona a te
stesso. Nel mio modo di pensare ti dicevo che bisogna comportarsi da beduini.
L’ospite deve rendersi conto d’essere prezioso. Che proprio per lui o per lei,
individualmente, ci si prodiga per dare il massimo.
Mi interrompi: “L’abbiamo fatto, il massimo! Tu ignori la sproporzione
fra le nostre risorse, il numero delle persone disponibili, le nostre competenze,
e la complessità del compito che ci eravamo assunto. Dimentichi che senza
accettare questa sproporzione non sarebbe mai stato possibile realizzare il
Reencuentro”.
Non lo ignoro. Non lo dimentico. Le mie reazioni non sono ingiuste. Non
si concentrano sui piccoli, episodici difetti di un grande evento. Sottolineano
ciò che ne dissipa la grandezza.
Ad Ayacucho, l’organizzazione caotica, senza punti certi di riferimento,
senza neppure le necessarie informazioni, minacciava la dignità stessa dei
colleghi lì convenuti. E raggiungeva punte di sadismo.
Chi puó aver immaginato, per esempio, un viaggio di ritorno, in aereo, da
Ayacucho a Lima, in cui un gruppo teatrale poteva esser diviso, metà su un
aereo, metà su quello successivo, senza che gli interessati ne fossero informati,
facendoli arrivare all’aeroporto due ore prima della partenza, e senza che poi,
al momento dell’imbarco, venissero caricate le casse dello spettacolo che do-
veva essere rappresentato la sera stessa a Lima?
Eppure tu sai che se di qualcosa ciascuno di noi va fiero è del proprio im-
pegno a dare il massimo nel momento dello spettacolo. Nonostante le condi-
zioni avverse in cui si opera, l’intera giornata è orientata e dedicata all’incontro
con gli spettatori. Mettere in forse la possibilità di quell’impegno, e farlo con
la noncuranza simile a quella dei burocrati disinteressati alla vita che passa
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190 Eugenio Barba
loro fra le mani, non è un semplice disguido organizzativo, è una ferita all’in-
timità più preziosa di un artigiano del teatro.
Quella che ho chiamato noncuranza era una reazione di difesa in una si-
tuazione che ha preso la mano a te ed ai tuoi collaboratori. Come uno che si
copre il capo sotto una pioggia di pietre ed evita di guardarsi intorno. Ma le
vittime delle pietre sono in primo luogo coloro di cui dovresti sentirti respon-
sabile.
Fra le decine e decine di esempi che potrei farti, te ne faccio un altro, che
davvero mi ha scandalizzato.
Mentre i giornalisti affluiti ad Ayacucho per seguire il Reencuentro erano
ospitati nel miglior hotel della città, Victoria Santa Cruz, la grande artista di
piú di settant’anni, era alloggiata in un alberghetto, in una camera doppia, da
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dividere con una delle partecipanti all’incontro. Questo fatto mi ha ferito pro-
fondamente. Se facciamo teatro è anche per lottare contro le minuscole ingiu-
stizie e le gerarchie che lo spirito dei tempi vorrebbe imporci.
Cosí, pieno di sentimenti contrastanti, di rabbia, di sconforto, di profonda
commozione e d’orgoglio per ciò che avevo visto nel corso del Reencuentro
Ayacucho ’98, sono arrivato a Lima, dove l’Odin e gli altri gruppi invitati, do-
vevano dare il loro spettacolo. Due dei miei collaboratori erano restati a Lima
un’intera settimana per risolvere tutti i problemi tecnici. Eppure, le condizioni
che avevano fissato per iscritto, di cui voi ci avevate ripetutamente garantito il
rispetto al momento del nostro arrivo, venivano sistematicamente ignorate.
Non solo non era presente nessuno della tua organizzazione, ma nessuno
sembrava curarsi del fatto che in questo modo diventava impossibile presen-
tare il nostro spettacolo agli spettatori.
Quando vi abbiamo comunicato che avremmo dovuto annullare la prima,
i tuoi collaboratori hanno mostrato nient’altro che indifferenza. Immagina-
vano, forse, che tutto si sarebbe risolto all’ultimo momento, o che noi, per
vecchia amicizia, avremmo accettato di lavorare in condizioni che non rende-
vano giustizia né al nostro spettacolo né agli spettatori peruviani.
Mi sono sentito sfruttato, manipolato da un modo di fare e di pensare
contro il quale sono in lotta dal primo giorno che ho fatto teatro.
Tutti gli altri gruppi che avevano partecipato al Reencuentro e dovevano
dare spettacolo a Lima si sono trovati nelle stesse condizioni.
Ho sentito come un’offesa personale sapere che Santiago García doveva
procurarsi personalmente, cercandole all’università, le sedie e il tavolo che gli
avevate promesso fin dal giorno del suo arrivo. Un tavolino e delle sedie non
sono gran cosa. Proprio per questo la trascuratezza m’impressiona.
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La conquista della differenza 191
Altri gruppi hanno dovuto cambiare locale due o tre volte. Alcuni semi-
nari, previsti da tempo, sono stati annullati per mancanza di iscrizioni. Nes-
suno s’era iscritto per mancanza di informazioni. Così è andato sprecato anche
il seminario di Victoria Santa Cruz, il cui ricavo lei aveva generosamente de-
stinato al gruppo organizzatore del Reencuentro.
Queste situazioni le conosco bene. Fu proprio in una situazione del genere
che ci riconoscemmo fratelli, a Caracas, nel 1976, quando il direttore del Fe-
stival, voleva costringermi a presentare lo spettacolo in condizioni ingiuste per
gli spettatori, e reagì alle proteste dei miei collaboratori con la distaccata indif-
ferenza di un burocrate autoritario. Noi dell’Odin rinunciammo alla prima, oc-
cupammo la sala. Gli spettatori altolocati protestarono, ci chiamarono gringos,
imperialisti culturali. Ma voi dei Cuatrotablas, assieme agli attori della Cande-
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laria, dell’argentino esiliato Libre Teatro Libre e di altri gruppi presenti al Fe-
stival vi uniste a noi nella sala occupata. Era solidarietà per l’Odin, e soprattutto
un modo per sottolineare la dignità e il valore del nostro comune lavoro.
Ora tu, a Lima, hai ricreato una situazione simile a quella contro cui noi,
uniti, protestavamo.
Non serve a niente dire che tu non sei il direttore di un Festival internazio-
nale, che non hai i mezzi né lo staff né la solenne ufficialità. La tua diversità –
tua e del tuo gruppo – non può giustificare la somiglianza dei comportamenti.
Non sono le intenzioni che contano. La cosiddetta buona volontà o la buona
fede non cambiano lo stato delle cose.
Tu e gli allievi della tua scuola lavoravate dalla mattina alle 5 fino a notte
fonda per organizzare il Reencuentro, sia ad Ayacucho che a Lima. La vostra
penuria di mezzi faceva sì che anche le cose più semplici si trasformassero in
un problema, cercare un riflettore, persino comprare dei chiodi. Tutto questo
lo so. Non mi permetterei mai di giudicarvi come giudicherei lo staff che orga-
nizza un festival superfinanziato. Tutti coloro che hanno accettato il vostro in-
vito sapevano quali erano le condizioni materiali che ci attendevano. Ma
quando queste si sono fatte troppo gravi, quando farsi in quattro non bastava
più, quando le vostre mani non potevano più reggere le fila dell’organizzazione,
avete cominciato a promettere quel che sapevate di non poter mantenere. E poi
vi siete dileguati. Così, da poveri, vi siete trasformati in irresponsabili.
A questo punto persino la vostra diversità spariva o veniva dilapidata. Non
eravate diversi da coloro che vivono al polo opposto al vostro, i burocrati ben
pagati e indifferenti che lavorano con il teatro semplicemente per sfruttarlo.
Quando sono arrivato a Lima, ed ho visto come andavano le cose, il mio
primo impulso è stato di riunire tutti i partecipanti per occupare i luoghi in cui
si sarebbero dovuti tenere gli spettacoli. O di andarmi ad incatenare ai cancelli
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192 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 193
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NERA ALLEGREZZA*
Nel 1964, alle radici, eravate un teatro studentesco. Oggi siete un punto di
riferimento nella storia del teatro polacco ed europeo del secondo Novecento.
Per me voi costituite una delle “piccole tradizioni” del teatro del nostro tempo.
Le chiamo “piccole” per distinguerle dalle grandi tradizioni occidentali ed
asiatiche, dal Teatro d’Opera al Kabuki, dal balletto classico al Kathakali.
In maniera paradossale, i nostri piccoli teatri sono vere e proprie “tradi-
zioni”. Benché siano costituiti da poche persone e non siano fatti per trasmet-
tere dall’una all’altra generazione il proprio sapere, le proprie tecniche e il
proprio repertorio, si comportano, però, incarnando un ethos ben riconoscibile
nel mare magnum del teatro. Le “piccole tradizioni” sono segnali di diffe-
renza, per la loro identità sia professionale che etica: le due facce dell’ethos.
L’ethos è qualcosa di molto più radicale della coerenza estetica, dello stile,
delle vesti artistiche che un teatro assume nel passare dall’uno all’altro dei
suoi spettacoli.
Se in poche parole dovessi spiegare l’identità dell’Osmego Dnia ad un
giovane che non ha mai visto un vostro spettacolo, direi: guarda, erano un
teatro dissidente nella Polonia degli anni Sessanta e Settanta, un teatro a cui le
autorità negavano spesso il passaporto per recarsi all’estero. Furono un teatro
perseguitato nella Polonia dopo il colpo di stato del generale Jaruzelski, per-
sero le risorse economiche e il luogo in cui lavorare, ma continuarono, tro-
vando ricovero presso le chiese. Poi furono un teatro espatriato, loro così pro-
fondamente radicati nella cultura del proprio paese, gravati dall’amarezza e
* Lettera al gruppo Osmego Dnia di Poznan, Polonia, in occasione dei suoi 40 anni.
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196 Eugenio Barba
dalla precarietà dell’esilio. Ora, quando sono tornati a casa e l’Europa non ha
più il Muro, loro sono ancora dissidenti. Basta ricordare quest’episodio della
fine del 2002: si rifiutarono di partecipare ai festeggiamenti per San Pietro-
burgo, dove erano stati invitati, perché non volevano accettare il dono e il rico-
noscimento d’un potere politico che massacra i ceceni.
Probabilmente, il giovane che non ha mai visto un vostro spettacolo capi-
rebbe che siete intransigenti. Ma quando vi vedo nella mia mente, non penso
all’intransigenza, ma al coraggio ed alla nera allegrezza.
Il coraggio non è intransigente. Occorre saper transigere, per navigare
contro le onde del proprio tempo senza cedere alla tentazione di rinunciare e
lasciarsi ridurre all’inazione. Il coraggio è la volontà di non divenire vittima.
Per una “piccola tradizione” è duro, spesso doloroso, continuare ad esistere.
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La conquista della differenza 197
un mese. L’idea si chiamava “Isole di libertà” e restò sulla carta per ragioni
economiche e burocratiche.
Era un progetto. Diventi un augurio.
Eugenio Barba
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COME BRUCIA IL TEATRO DI CARTA*
Caro Edgar,
hai organizzato una cerimonia per i dieci anni della tua rivista: hai rac-
colto gli amici, bevete insieme, poi tu prendi alcune copie di “Máscara” e le
bruci. Alcuni vedono il tuo gesto come una provocazione. Altri come un segno
d’abbandono. Altri ancora lo intendono come un eccesso di sicurezza.
Così ti ho visto in una mia fantasia. Mi chiedo che cosa voglia significare
quell’immagine che m’è venuta in mente, come un sogno o come un augurio.
Vuol dire che distruggi la tua rivista? O è un segno di vitalità, di rinnovamento
e continuità?
Il teatro di carta, infatti, è fatto per bruciare.
Con “Máscara” hai creato un grande “teatro di carta”, un teatro fatto di
racconti e di parole, di storie e di indagini, di documenti pescati dal mare del
passato e dai laghi della contemporaneità. Ma questo “teatro di carta” tu non
l’hai creato per metterlo fra altre carte, nelle biblioteche, fra i libri che servono
solo agli studenti delle università. Hai forgiato uno strumento per coloro che il
teatro lo praticano e che spesso non godono dell’eredità d’una tradizione.
È facile dire che la pratica artistica consiste di azioni concrete, materiali,
che è esperienza in prima persona, e che quindi le teorie, le storie, le visioni
astratte e intellettuali servono a poco.
È facile constatare che le parole scritte non possono dar conto della com-
pletezza e della complessità dell’esperienza. E che quando l’esperienza viene
trasferita sulla pagina genera equivoci.
* Lettera a Edgar Ceballos, editore di Escenologia, in occasione dei dieci anni della sua
rivista “Máscara”. Pubblicata per la prima voce in “Máscara”, n. 31-32. Città del Mexico, 2000.
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200 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 201
energia che serve alla vita, un processo di metabolismo. Per questo, Artaud
pose l’immagine di libri che si consumavano ardendo nel preambolo al Teatro
e il suo doppio. Parlava di pagine che si distruggevano mentre le loro parole
essenziali si libravano fuori di loro e al di sopra di loro, nutrendo liberamente
lo spirito.
Penso alle pagine che “Máscara” ha pubblicato in questi dieci anni, al sa-
pere professionale che ha trasmesso, ai maestri dei quali ha riconosciuto
l’esperienza, all’alternarsi di immagini suggestive e meticolose indicazioni
tecniche. La mia mente vola via, dal tuo Messico alla Norvegia dove fondai
l’Odin Teatret 35 anni fa, il tempo d’una vita. La prima cosa che feci, fu creare,
accanto al lavoro pratico, una rivista che fin dal titolo diceva il suo interesse
non per le notizie d’attualità, ma per quella continuità del sapere teatrale,
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anche quello più lontano nel tempo e nello spazio, per “le teorie e le tecniche
del teatro”. Nella tua lingua, quest’unione di teoria e tecnica potrebbe tradursi
con la parola “Escenologia” che sta nel sottotitolo di “Máscara”. Noi, 35 anni
fa, eravamo un gruppetto invisibile e marginale nel contesto dei teatri. Per noi
la Storia, la presenza del passato, il dialogo o il rifiuto d’una tradizione non era
un lusso, ma un’esigenza vitale di cui avevamo bisogno come dell’atmosfera
in cui respirare. Per te e per il contesto nel quale lavori la condizione non è
molto diversa.
Abbiamo scelto una professione che vive d’opere effimere, che mutano
col mutare dei giorni, e presto svaniscono. Per noi è essenziale batterci contro
questa condizione obbligata. È necessario trovare la dimensione della conti-
nuità che leghi in una lunga durata lavori fatti per vivere poco. Senza questa
continuità non c’è cultura, non c’è identità, né ethos né etica.
Esiste la continuità delle grandi tradizioni, che si trasmettono da una ge-
nerazione all’altra attraverso un rapporto pedagogico personalizzato, lungo,
basato sulla scelta reciproca, capace di preservare, nella dialettica di conserva-
zione e mutamento, un patrimonio di forme raffinate attraverso i secoli e i de-
cenni. Ma i nostri teatri, i nostri gruppi, le nostre isole di libertà sono “piccole
tradizioni” che con il tempo possono acquisire una densità e una complessità
equivalente a quella delle grandi tradizioni, anche se appartengono a un pugno
di individui e spariranno con loro. Accanto all’azione che ci definisce, che è
presenza, e che tanto meno ha bisogno di parole quanto più è evidente ed in-
tera, abbiamo bisogno della scrittura, che è solo l’ombra dell’esperienza, un
insieme di orme senza corpo, ma che ci permette di proiettarci nel passato e
verso il futuro.
L’intera civiltà teatrale occidentale ha garantito al teatro una lunga durata,
tramite la scrittura. Tanto che il teatro, la sua storia, si è a lungo identificato
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202 Eugenio Barba
con l’insieme dei testi drammatici. Attraverso il ponte dei testi drammatici
tramandatici dalle biblioteche, il teatro d’oggi poteva spingere all’indietro lo
sguardo fino all’Atene del V secolo, alla Londra di Shakespeare, alla Castiglia
di Lope, alla Parigi di Molière, alla Venezia di Goldoni, di Gozzi e della Com-
media dell’Arte, alla Germania di Faust e di Brecht, alla Scandinavia di Ibsen,
alla Russia di Cechov. Gli scrittori scrivevano per gli attori. Solo quando era
incarnata dagli attori la letteratura dei testi saltava dalla pagina alla vita. Ma
poi erano i testi scritti a sopravvivere ed a saldarsi in una tradizione.
Oggi, ci piaccia o no, la letteratura drammatica non è più la spina dorsale
della pratica teatrale. Questo vuol dire che la vita teatrale non dispone più del
respiro della lunga durata? Vuol dire che la sua memoria è divenuta breve?
Alcuni anni fa, Richard Schechner valutò proprio questo rischio. Parlò della
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nuova civiltà teatrale, dove lo spettacolo si scrive sulla scena e non sulla pa-
gina, come d’una civiltà che rischia la perdita di memoria. Senza un “teatro di
carta”, il teatro vivo è minacciato, non solo perché gli manca la memoria del
passato, ma perché è il senso d’una comunità nel futuro che viene meno.
Il “teatro di carta” non può più essere fatto esclusivamente di drammi,
esso consiste di storie. Queste storie da un lato tramandano un repertorio del
sapere, ma dall’altro hanno una funzione profonda non dissimile da quella dei
drammi che gli autori proponevano agli attori: forniscono modelli, esempi,
semi e nodi per l’invenzione d’una presenza efficace del teatro nella società e
nella vita degli individui. Modelli che diventano vivi solo se qualcuno sa come,
secondo quali tecniche, quando, dove e perché farli bruciare. E “Máscara” ce
lo ricorda.
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NON APPARTENERE AL MONDO IN CUI VIVIAMO*
* Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial
Casa de las Américas, L’Avana 2002.
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204 Eugenio Barba
dine per aver documentato la lotta e il coraggio del teatro latinoamericano che
tanto ha significato nella mia vita e nel destino dell’Odin Teatret. L’ultima
parte della somma va a un individuo che, vera Antigone contemporanea, non
ha seguito la legge dello stato, ma quella della propria coscienza ed è stato
processato per nascondere immigranti illegali che dovevano essere espulsi.
Il teatro è spesso una diaspora. A volte alcune delle nostre opere sono ba-
ciate e accarezzate dalle nuvole, sembrano belle e vengono acclamate. Però
quello che le rende vive e le da valore e senso è la loro capacità di opporsi a
un’epoca di indifferenza e costrizioni, nutrendo il paradosso che ci permette di
non appartenere al mondo in cui viviamo.
Per questo il premio è anche per voi, amici e compagni del teatro di Cuba.
Il vostro lavoro e la vostra presenza dimostrano che il nostro mestiere può es-
sere più che un lusso. Rallegriamoci, festeggiamo insieme e continuiamo. Il
cammino ci aspetta.
Con affetto
Eugenio Barba
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LETTERA DA PORT-BOU*
Caro Fabrizio,
* Lettera a Fabrizio Cruciani, storico del teatro e redattore della rivista “Teatro e
Storia”, Roma. Pubblicato in “Teatro e Storia” n. 18, 1996.
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206 Eugenio Barba
Un caro abbraccio
Eugenio
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LLANEZA Y VAIVÉN*
* Lettera a Santiago García, direttore e regista del Teatro della Candelaria di Bogotà,
per i suoi 70 anni. Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo, a cura di Lluís Masgrau, Fondo
Editorial Casa de las Américas, L’Avana 2002.
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208 Eugenio Barba
giudizio: la voce che grida o che si fa solenne perde la luce della llaneza, della
semplicità.
Ti vedo ad un banchetto in tuo onore, mentre l’oratore parla di te, snoc-
ciola le lodi che ti sei meritato, definisce il tuo ruolo storico nella storia del
teatro, si commuove e diventa enfatico. Tu, allora, lanci da sotto i baffi, a bassa
voce, l’esortazione che Cervantes mette in bocca a maese Pedro, burattinaio
ed ex-galeotto: Llaneza, muchacho: no te encumbres.
Ho spesso immaginato di sentirtela pronunciare, questa frase, anche ora,
quando con commozione, assieme ad altri amici e compaesani del “paese del
teatro”, ti scrivo per celebrare i 35 anni della Candelaria.
Ti ricordi quando, par una simile occasione, ci visitasti a Holstebro,
all’inizio d’ottobre del 1994? L’Odin Teatret festeggiava i suoi trent’anni di
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La conquista della differenza 209
applicato a coloro, fra noi, che sono riusciti a far navigare i loro teatri per
trent’anni e più? Tu affermasti che toglieva solennità al concetto di “tradi-
zione”. Ti sei rivolto a Sanjukta Panigrahi spiegandole quanto fosse confor-
tante, per te che venivi da un paese dove il teatro sembrava “senza tradizioni”,
sentire che lei era stata definita fondatrice della tradizione della danza Odissi,
proprio lei che veniva dall’India, dove tutto sembra spesso muoversi – dicesti
– “non sul terreno, ma sotto il controllo della tradizione”.
L’Odin Teatret aveva invitato a Holstebro le persone incontrate nel corso
degli anni qua le là per il mondo, e che sentivamo nostri “compaesani”. Per-
sone fra loro molto diverse, accomunate dal fatto di annettere al teatro un va-
lore che trascende l’intrattenimento e persino l’estetica. Il miglior modo di
celebrare il compleanno era di offrire agli amici, ai miei compagni ed a me
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stesso la possibilità di riflettere sul valore delle nostre scelte, sul senso della
perseveranza, assieme a maestri come Kazuo Ohno, Judith Malina, Sanjukta
Panigrahi e te. Jerzy Grotowski era presente con il suo giovane collaboratore
Thomas Richards, come rappresentante d’una tradizione coerentemente ca-
pace di saltare dove nessuno se l’aspettava. Dario Fo, che a Holstebro è di
casa, questa volta non era potuto venire ed aveva inviato un messaggio. Ma se
Dario Fo avesse parlato, che cosa avrebbe detto della “tradizione” e della sua
“invenzione”? Probabilmente avrebbe spiegato come a lui non interessino le
tradizioni sotterranee, ma quelle sotterrate dai vincitori che scrivono la storia.
Fra noi, partigiani dell’ostinazione, si sarebbe trovato bene.
Abbiamo molti anni di lavoro e molti disincanti alle spalle, ma ci siamo
mantenuti ostinati, malgrado il mutare dello spirito del tempo. C’è un’ostina-
zione sorda, che si affida alle corazze delle proprie convinzioni, e finisce col
fracassarsi contro i mulini a vento. E c’è l’ostinazione della corsa e del drib-
bling, che si denuda, getta via le parole più care, coltiva dubbi su di sè per
mantenere il contatto con le proprie radici.
L’ostinazione che si nutre del suo contrario è il vero baluardo contro il
fanatismo. Il cinismo, lo scetticismo e la rinuncia a prendere posizione sono
antidoti apparenti. Anche loro finiscono per raggiungere il fanatismo per la via
inversa, circumnavigando la responsabilità e il rischio della libertà.
Mentre parlavi, mi sorprendevo a pensare che avevi quasi settant’anni, e
che l’esperienza, con il suo intreccio di soddisfazioni e delusioni, invece di
stancarti, o di irrigidirti, aveva acuminato la tua capacità di non accontentarti
mai di quel che appare certo. Eppure sei intransigente. Una vocina, nell’angolo
sinistro del mio cervello, continuava a ripetermi: “Così doveva essere Brecht”.
Un Brecht che il karma aveva fatto reincarnare in Colombia e che invece di
utilizzare la maschera del saggio cinese, si era posta quella del contadino co-
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210 Eugenio Barba
bile età. Lui era restato tranquillo, con gli occhi vivaci aveva scrutato la camera
che lo riprendeva, e aveva a lungo taciuto.
Mi chiedo perché insista a ricordare quell’incontro dell’ottobre ’94. Forse
perché anche in quel caso, come ora, si trattava di un compleanno. Oppure
perché fu in quell’occasione che diversi fili si annodarono, come quando in
uno spettacolo la logica drammaturgica comincia a parlare da sé, liberandosi
dalle nostre briglie e dettando lei la strada. Ci siamo incontrati molte volte.
Ogni volta era un filo che si tendeva fra noi. Ma in quel giorno d’ottobre i fili
si annodarono.
Kazuo Ohno ci mostrò alcuni sprazzi della sua danza più famosa, che rie-
voca la danzatrice “Argentina”, un mito per il teatro e la danza novecentesca.
Questo personaggio femminile con il passar degli anni era ringiovanito,
mentre il maestro che l’aveva creata e continuava a danzarla, invecchiava e si
faceva sempre più trasparente. Lei, il personaggio, era cresciuta secondo una
logica paradossale, invertendo il vettore tempo. Da giovane donna si era fatta
adolescente, da adolescente era cresciuta fino a diventare una bambina che
senza neppure guardarsi allo specchio, sogna il suo futuro.
Poi Sanjukta Panigrahi e il vegliardo Kazuo Ohno improvvisarono as-
sieme una danza. Sembrò che l’idea stessa della vecchiaia volasse via dalla
sala, sostituita da qualcosa di simile alla luce o alla resistenza dei cristalli.
Kazuo Ohno aveva allora 88 anni. Oggi si avvicina ai 100. Sanjukta Panigrahi,
quarant’anni più giovane del maestro giapponese, dalla presenza impetuosa e
fulminante, morì poco meno di due anni dopo. Nelle ultime settimane di vita,
aveva perso la sua lunga treccia nera a causa della chemioterapia. Il suo corpo
fu bruciato su un catafalco fra i fiori, in mezzo alla folla, nella città dov’era
considerata principessa e regina. I suoi capelli e le sue ceneri furono dispersi
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La conquista della differenza 211
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212 Eugenio Barba
Tu intanto continuavi a parlare del capitolo 25 della prima parte del Qui-
jote. È il momento in cui il caballero andante spiega al suo scudiero che le
azioni fingidas e contrahechas che s’è deciso a compiere “no son de burla,
sino de vera”, che non sono semplici menzogne. È Quijote che parla. Ma eri
anche tu, Santiago. Avrebbero potuto essere Stanislavskij, Brecht, Mejer-
chol’d, Decroux o Grotowski. Non è questa la quintessenza del sapere teatrale?
E non è ciò che permette alla pratica teatrale d’essere rivolta senza divenire
violenza? Eversione che si nutre del suo contrario.
Il Quijote non è mai stato fra i miei libri-guida. Il mio Cervantes è Witold
Gombrowicz. Ma in quel momento, l’intrecciarsi delle traduzioni, e l’andiri-
vieni dei pensieri mi davano l’illusione che diverse voci, provenienti da tempi
e uomini diversi, parlassero, con parole dissimili, di questioni simili. La tua
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La conquista della differenza 213
nei libri e nelle enciclopedie. Siamo personaggi di cui si legge, e persone del
“teatro andante”. Ancora una volta, mio malgrado, mi trovo accanto l’ombra
di Don Quijote che persisteva ad arrancare su Rocinante mentre la gente leg-
geva le sue avventure trasformate in romanzo. Sono giochi di specchi che ral-
legrano lo scorrere del tempo. È impossibile non provare fierezza, pensando
alla resistenza dei nostri gruppi. Non ci siamo lasciati chiudere nell’età “gio-
vane”. Né ci siamo accontentati del ruolo di utopisti. L’utopia abbiamo dimo-
strato che si poteva realizzare.
“Llaneza, no te encumbres”… Non ti lascerò il tempo di ripeterla, la frase
di Cervantes e del titerero maese Pedro. Non penso affatto alla solennità dei
nomi e delle teorie. Penso proprio al suo contrario. Vorrei raccontare la storia
dei teatri che sono diventati isole viaggianti come una storia anonima, a metà
fra pícaros e caballeros. Mi piacerebbe raccontarla lasciando cadere le parole
che ci hanno definito e caratterizzato, abbandonando le nostre teorie come le
lucertole lasciano la coda fra le unghie del gatto cacciatore. Immagino che
questa storia anonima, finendo nelle mani di giovani che ancora non cono-
sciamo, parlerebbe con la voce profonda dei racconti che sfuggono al controllo
di chi li ha composti. Il che vuol dire che la morale della favola sta lì davanti ai
nostri occhi, ma non la sappiamo decifrare.
La domanda che avevo rivolto a te, è a me stesso che ora si rivolge. Perché
faccio teatro, perché continuo? E soprattutto: che cosa cerco? Non so più di
chi sia la voce, la tua o la mia, che, non rispondendo, risponde.
Quasi settantenne, in quell’inizio d’ottobre del ’94, ben piantato sulle tue
scarpe leggere, con le mani raccolte l’una nell’altra, raccontavi il valore del
teatro, e non ne parlavi. Giravi in tondo, a spirale. Al centro si cominciava ad
intravedere qualcosa di trasparente, di muto e insieme di eloquente. Noi della
Candelaria, dicesti, se facessimo teatro per ragioni politiche, avremmo smesso
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214 Eugenio Barba
quel contadino colombiano di 108 anni di cui ci avevi parlato. Come aveva
fatto a conquistare una tale longevità? Tacque a lungo. Dieci, venti secondi
sono lunghissimi in televisione. Poi rivelò il segreto: “Respirando, respirando,
respirando”.
Parole sue. Parole tue. Parole nostre.
Per i 30 anni della Candelaria, un abbraccio fraterno.
Eugenio Barba
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FABBRICANTI DI OMBRE
* Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo, a cura di Lluís Masgrau, Fondo Edito-
rial Casa de las Américas, L’Avana 2002.
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216 Eugenio Barba
Come è possibile che non tengano una smorfia di sarcasmo sulla bocca?
Sono degli illusi? Per loro la fede è più forte della verità? L’ingenuità più
consistente dell’esperienza? O sanno che in ultima istanza l’illusione più peri-
colosa è la disillusione?
Il coraggio, l’intelligenza, l’allegria imperterrita, la fedeltà alle proprie
idee e ai propri sogni, il senso di giustizia, la volontà di rivolta, il disgusto per
la mediocrità del male e il piacere per i lumi della ragione, l’acutezza analitica
e il fervore della speranza non bastano. Sono doni effímeri.
Quando con gli anni la nostra vita comincia a declinare, anche il mondo
che ci circonda corre il rischio di decadere e di svelarci il suo volto arido.
Atahualpa non si piegò alla tentazione della vecchiaia, non si arrese a quello
che sembra evidente e non perse la fiducia nell’azione.
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*
Nel 1984, Atahualpa Del Cioppo compiva 80 anni. La rivista “Escénica”
dell’Univesidad Nacional Autonoma di Messico, gli dedicò gran parte del suo
numero di luglio. L’articolo di apertura era del noto regista messicano Lluis de
Tavira. Tre punti mi colpirono particolarmente. Mi irritavano e nello stesso
tempo facevano risuonare qualcosa che sentivo appartenere ai miei valori.
Eppure mi parevano eccessivamente ingenui, e risvegliavano il mio lato scet-
tico e irridente, quella parte di me che era divenuta adulta negli anni trascorsi
in Polonia, dove gli ideali e l’ottimismo sul futuro d’un mondo più giusto
erano messi a dura prova.
L’articolo cominciava così: “El viejo de nombre legendario, que nació
con el siglo, nos describe el paciente itinerario del retorno del sueño a la rea-
lidad, por virtud del teatro”. Aggiungeva: “A diferencia de la ruta de Cal-
derón, al revés, el trabajo teatral de Atahualpa nos testimonia el esforzado
arribo entre naufragios de una América de ficción al puerto de la historia”.
Erano davvero facilmente ottimistiche e ingenue le parole di Lluis de Ta-
vira? Oppure la loro semplicità era enigmatica? Sintetizzava un’idea di
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La conquista della differenza 217
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218 Eugenio Barba
“come per un vino vecchio ed una nuova idea”, diceva Brecht tramite Galileo
Galilei. Quella gioia dei sensi e della mente, quella vitalità mai disperata aveva
però una coscienza, e nel fondo di quella coscienza c’era un colpo di pistola,
l’immagine di un uomo giusto che si uccide al centro d’una piazza in tumulto.
Un mito.
Il modo in cui Lluis de Tavira annodava il teatro di Atahualpa alle tragedie
del proprio tempo e del proprio paese lo sentivo vero. Ma poi c’erano quegli
scoppi di ottimismo che non comprendevo, che mi parevano illogici e mi spin-
gevano a prendere le distanze. Ma sembrava anche che volessero dirmi qual-
cosa. Mi resi conto che in realtà parlavano del modo di rendere indelebili le
ombre.
Atahualpa compiva ottant’anni, io ero alla soglia dei cinquanta. In quegli
anni ero spesso visitato dall’immagine di Antigone. Antigone era stata a lungo,
per il mio adulto scetticismo “polacco”, quasi il contrario di un mito: un’apo-
logo sull’inefficacia. Quel suo simbolico pugno di terra sul cadavere del fra-
tello era un inutile modo di opporsi al tiranno. Perché non pugnalarlo, quel ti-
ranno? Era come se Antigone, l’eroina del rifiuto che però non tenta la
rivoluzione, fosse continuamente processata dal primo e dal secondo Bruto,
l’uccisore del re etrusco di Roma e l’uccisore di Giulio Cesare. Opporsi alla
legge ingiusta divrebbe essere un atto di lotta politica. Antigone era invece il
simbolo d’un rifiuto praticato con mezzi volutamente inefficaci: una contrad-
dizione in termini, un’ingenuità, il sentimento al posto della lotta. Antigone
m’appariva come l’emblema dell’eroina sentimentale, solo in parte riscattata
dalla sua cieca testardaggine e, suo malgrado, da una morte feroce. Pensavo
persino di metterla in scena, questa visione sferzante della mitica eroina. Ma a
questo punto sentivo il monito dell’altra voce, che fra me e me chiamo la voce
non-adulta. Questa voce mi diceva di no. Antigone era molto più della sua ap-
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La conquista della differenza 219
parente inefficacia. Cominciai a rendermi conto che lei, con l’insieme delle
sue azioni e delle sue disobbedienze, non aveva lottato, ma aveva fabbricato
un’ombra. Era un’ombra, non un esempio. Ma un’ombra che non passa, che
non svanisce come i fantasmi ogni volta che canta il gallo. Un’ombra che si
proiettava aldilà della cultura che aveva tramandato la sua storia e il suo mito,
e che nessuno riusciva a raschiare via dai muri delle nostre coscienze.
Alla fine dell’articolo, Lluis de Tavira collegava il tradizionale noma-
dismo dei teatri ai viaggi ed all’esilio di Atahualpa, elencava le 18 città latino-
americane in cui aveva seminato lavoro e regie. Gli attori ambulanti, diceva
l’autore, erano “portadores de cultura de un sitio a otro. Inquietantes mensa-
jeros de la diferencia”.
Ho sottolineato mentalmente inquietantes, non diferencia. La differenza,
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in sè, non è un valore. È una condizione. Può essere una condizione di inferio-
rità, o una fase che prelude all’integrazione, oppure una segregazione scelta o
patita. Diventa feconda diventando inquietante. Normalmente, i corpi estranei,
coloro che qualifichiamo come “differenti”, generano indifferenza, vengono
rimossi ai margine della nostra mente e delle nostre società. Oppure vengono
sentiti come minacciosi, generano ostilità. In seguito, quando non fanno più
paura, quando sono non solo stranieri ed estranei, ma vinti, diventano museo e
spettacolo, acquistano il fascino dell’esotico.
Il teatro è fuori da questa logica. Può essere una differenza vezzeggiata,
sovvenzionata, o anche soltanto tollerata. Può essere una differenza che si ac-
contenta di sé. Oppure può divenire la pratica di una dissidenza che riesce in-
sieme ad affascinare, a farsi rispettare, ed a mostrarsi irriducibile. È inquietante
perché non si adegua alle regole della lotta. Lottare con essa sarebbe come
lottare con un’ombra, che più l’afferri più ti sfugge di mano. Anzi: diventa la
tua mano.
La lotta prevede che vi sia un vincitore e un vinto, oppure – come terza
pericolante possibilità – un armistizio, una tregua. Ma alla fin fine la lotta
tende ad eliminare il problema, la contraddizione, tende al trionfo del-
l’omogeneità e dell’integrazione. Completamente diverso è il trasmettersi di
un’ombra indelebile, la scintilla di un punto di domanda che buca la compat-
tezza dello spirito del tempo. In questo caso non si tratta di essere vinti o vin-
citori. Si tratta di preservare una presenza che non si adegua e che non finisce
nelle sabbie mobili dell’indifferenza circostante. La differenza inquietante
vince non quando riesce a prevalere, ma quanto più riesce a preservare la pro-
pria presenza e la capacità di trasmettere al futuro il segno della propria disap-
partenenza. Non è possibile non stare in questo mondo. Ma è possibile non
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220 Eugenio Barba
*
La prima regia per il teatro El Galpón – il gruppo di teatro più longevo del
mondo – Atahualpa la fece compiendo i cinquant’anni a Montevideo, nel
1954. Mise in scena un dramma storico di Fritz Hochwalder, un testo contem-
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La conquista della differenza 221
nismo, l’anno in cui Getulio Vargas a Rio sarà costretto al suicidio dai militari
brasiliani, e in Paraguay un colpo di Stato porterà alla dittatura Alfredo Stroes-
sner. Ognuno di questi colpi rafforzava, dalla parte opposta, la speranza d’un
riscatto, ogni notte faceva pensare ad un’alba più giusta, come se la Storia
avesse una sua moralità.
La domanda fondamentale che si muoveva sullo sfondo di Así en la tierra
como en el cielo avrebbe potuto formularsi in questo modo: un mondo più
giusto è davvero dalla storia che possiamo aspettarcelo?
È la domanda che Atahualpa non smise di porsi lungo tutta la sua vita,
cercando di evitare che le risposte potessero trasformarsi in un veleno depri-
mente per le coscienze. È la domanda che non possiamo non porci noi, che ci
inoltriamo perplessi verso il Duemila.
*
Il prestigio di certi colori e di certe parole è caduto – i colori delle ban-
diere; il rosso; gli slogan; parole come Popolo, Patria, Progresso, Storia. Molti
simboli sono ormai tarlati e nella soffitta del Novecento vi sono alcuni sacchi
di speranze andate a male.
Non accade lo stesso con i miti. I miti sono ombre indelebili. Nutrono i
piccoli mondi. Dal grande mondo sono usciti una volta per tutte.
Viviamo in due mondi. Il Piccolo mondo è l’ambiente in cui stiamo, il
tessuto delle nostre relazioni, il paesaggio che ci appartiene e che noi possiamo
adattare ai nostri bisogni. Ci sono valli, isole, montagne, oasi, nel Grande
mondo, che effettivamente riescono a resistere agli alisei di sopraffazioni e
distruzioni che chiamiamo Storia. I Piccoli mondi possono essere, a volte,
luoghi in cui coltivare l’eccezione, ma la regola del Grande mondo non è mai
stata degna della parola “giustizia”. Alcuni pensarono che il Grande mondo
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222 Eugenio Barba
potesse essere rovesciato e riorganizzato sul modello dei più giusti fra i Piccoli
mondi. Altri pensano, al contrario, che fra il Piccolo mondo e il Grande mondo
ci sia un salto di dimensione, il passaggio da un piano logico ad un altro. Co-
sicché quel che nel Piccolo mondo è fecondo, quel che può vivere e trasmet-
tersi, non appena passa nelle dimensioni del Grande mondo rischia di trasfor-
marsi nel suo contrario, fallimento o violenza.
Nel Grande mondo, è appena finito un millennio. È stato il millennio
delle rivoluzioni. Dal Cristianesimo al Comunismo, il programma di rove-
sciare le regole del Grande mondo ha illuminato la terra e l’ha incendiata,. La
luce è spesso tornata a risplendere, e altrettanto spesso si è trasformata in te-
nebra profonda. Il mondo più giusto è stato spesso intravisto, perché nessuno
l’ha visto realizzato. Esistono, allora, soltanto due vie, l’illusione o il cinismo?
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Che cosa indica l’espressione mondo più giusto, una linea d’orizzonte che si
allontana ad ogni passo che ci avvicina ad essa?
A tutte queste domande non so rispondere. Né so credere alle risposte che
gli altri tentano di darmi. In questo mare ciascuno naviga da solo, con la sua
intelligenza ed il suo cuore – e non esistono bussole. So che certe piccole valli
possono essere difese e che al loro interno si possono creare piccoli mondi in
cui vivere sembri più giusto. So che il teatro ha permesso e permette di abitare,
fortificare e difendere alcune di queste valli. Ma se uno mi chiedesse: “dunque,
a che cosa credi?”, gli risponderei che credo nell’ostinazione. Credo che
l’ostinazione rappresenti il mondo più giusto in noi, non un sogno, ma qual-
cosa di concreto, di corporeo, che appartiene a quel corpo del pensiero che
sono le nostre azioni.
L’ostinazione è il restare in piedi. Il restare contro. È l’ombra che riesce a
restare indelebile, a non annegare fra la penombra del mondo-così-com’è, e la
luce abbacinante delle illusioni. È il sorriso di animale inquieto, volpe e bam-
bino, del vecchio Atahualpa.
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FIGLI DELLO STESSO PARADOSSO*
* Lettera a José Luís Gómez, attore, regista e direttore del Teatro La Abadía a Madrid.
Pubblicata in Nada es cómo es, sino cómo se recuerda. Teatro de la Abadía 1995-2005, Madrid
2004.
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224 Eugenio Barba
venza del nostro lavoro e delle relazioni umane che attraverso di esse intrec-
ciamo. Ma il deserto resta il nostro territorio.
La casa che tu hai creato a Madrid, il Teatro dell’Abadía, la considero uno
dei luoghi che sono miei, che sono stati approntati anche per me. Quando
l’Odin Teatret viaggia, tu lo sai, porta con sé non solo spettacoli e bagagli. È
accompagnato dall’ingombrante e rinfrescante presenza dei suoi fantasmi, dei
suoi morti, dei suoi ideali taciti, difficili da tradurre in parole, impossibili da
dimenticare. Così, se non incontriamo fratelli nel paradosso, diventiamo
spesso ospiti ingombranti.
La tua Abadía ha saputo accogliere la carovana dell’Odin, l’ha sostenuta e
protetta. Quel che ci lega, non sono le parentele dei fantasmi, le concordanze
delle teorie, ma un eguale bisogno di mantenere in vita sogni apparentemente
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Eugenio
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RICORDANDO IL RE FREDERIK V*
* Lettera a Frédéric Mitterand, Ministro della Cultura di Francia: nella primavera 2010
aveva tolto ogni sovvenzione al Théâtre du Lierre di Parigi.
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226 Eugenio Barba
La storia e la cultura della Francia sono motivo di orgoglio per noi gente
di teatro che lottiamo contro i nazionalismi e i pregiudizi del nostro tempo. Un
leader, Monarca, Presidente della Repubblica o semplicemente Ministro, deve
avere la libertà e il coraggio di prendere decisioni dolorose. Tuttavia vale la
pena ricordare l’esempio di quel re danese oggi dimenticato.
Invio a lei e ai collaboratori del Suo Ministero i miei fervidi auguri per il
suo paese i cui artisti sono stati fonte di ispirazione per me e i miei attori.
Sinceri saluti
Eugenio Barba
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PAESAGGI PRIMA DELLA BATTAGLIA
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LO SPAZIO PARADOSSALE DEL TEATRO
NELLE SOCIETÀ MULTICULTURALI*
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230 Eugenio Barba
*
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In una società dalle differenze difficili, il teatro diventa uno spazio para-
dossale.
In senso stretto, un paradosso non è un’opinione bizzarra, ma un pensiero
coerente che parte da principi diversi da quelli su cui si basano l’opinione co-
mune o le teorie prevalenti. Il paradosso, pur non essendo confutabile, non
prevale: non vince, ma non viene sconfitto. Penso a tutto questo, quando parlo
d’uno spazio paradossale del teatro.
I luoghi comuni del teatro, nella cultura europea, sono stati per secoli al
centro delle città. I teatri erano il luogo, il simbolo ed il monumento dell’unità
della cultura nazionale, cittadina o di classe. Nel XIX secolo le loro facciate
assomigliavano a quelle degli altri templi della civiltà borghese, il Museo e la
Borsa. Fuori da questi luoghi comuni riconosciuti e rispettati, sorsero altri
spazi teatrali, divergenti o in opposizione: teatri d’arte, teatri liberi, d’avan-
guardia, studi, piccoli teatri, théâtres de poche, ateliers, workshops, talleres,
laboratori, teatri off e off-off. Il loro dialogo polemico con i luoghi comuni del
teatro fu la fertilità della cultura teatrale del XX secolo.
A1 di fuori di questi due spazi complementari, sorse poi un “terzo teatro”.
Con il mio gruppo, l’Odin Teatret, sono in giro per il mondo otto mesi
all’anno. Solo una piccolissima porzione di questo tempo la passiamo ospiti
di teatri ricchi e rispettati. La maggior parte del tempo viaggiamo negli spazi
del terzo teatro. Dappertutto trovo degli ambienti composti da minoranze mo-
tivate: persone assetate che cercano azione e trascendenza attraverso il teatro.
La parola trascendenza sembra filosofica o religiosa. Per me indica qual-
cosa senza dottrina, che ha a che fare con i valori che guidano l’operato mo-
desto e preciso dell’artigiano. Penso all’apparente solitudine degli artigiani
anarchici che avevano combattuto per la libertà della Catalogna incontrati da
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La conquista della differenza 231
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232 Eugenio Barba
gente di teatro è stato quello fluido e derisorio del viaggio, una dimensione in
cui l’identità culturale non era stabilita né dai confini geografici né da quelli
storici, ma dal valore d’un mestiere.
Per secoli, finché il teatro è stato soggetto alla tirannia del dover piacere,
del successo, della censura e del disprezzo sociale, gli attori e le attrici vissero
una vita esiliata, tagliata fuori dai valori più preziosi e rispettati della società
circostante.
Oggi molti scelgono il teatro per salvaguardare quella parte di ciascuno
di noi che vive in esilio.
Questo esilio non è un’amputazione o un’umiliazione. È la conquista
della nostra differenza. O, con altre parole, è azione politica. Diventa una
presa di posizione non sempre dichiarata o consapevole, ma concreta e attiva,
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I CENTO VIOLINI DEL GUERRIGLIERO*
Il contastorie
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Amo le moschee del grande architetto turco Kozda Mimar Sinan. Quella di
Damasco la si riconosce dai minareti affusolati che caratterizzano il suo stile.
Non è monumentale, piuttosto graziosa e intima, con una serie di cupole sul
tetto. La Siria è oggi una repubblica laica, così la moschea di Sinan è chiusa, e
il giardino adiacente, trasformato in museo militare, sfoggia differenti aerei da
caccia e cannoni di varie epoche tra alberi, arbusti e fiori. Imperturbabile, il
venerdì a mezzogiorno, una piccola folla fa le sue genuflessioni davanti alle
porte sgangherate della moschea di Sinan, mentre i visitatori del museo passano
attraverso i fedeli in preghiera ed ammirano la potenza delle armi.
Non siamo lontani dal bazar dove troneggia la spettacolare moschea del
califfo omayad Walid, la prima nel mondo arabo. Dietro l’angolo si trova il
caffé al Bazir. È l’unico ritrovo oggi a Damasco dove si possa far conoscenza
dell’antichissima arte dei contastorie, un tempo così numerosi e popolari. Al
modesto costo di una tazza di tè si può ascoltare Rashed Al-Hallak, ogni
giorno – ad eccezione del venerdì – dalle sette alle otto di sera.
All’interno, a ridosso del muro di fondo, si nota una poltrona sopraele-
vata, una sedia-trono di legno dalla pittura scolorita, ma ancora imponente.
Rashed Al-Hallak avrà una sessantina di anni, è grassoccio, veste ampi calzoni
alla turca (quelli cuciti in modo speciale per accogliere il Profeta quando alla
sua prossima rinascita sarà un uomo a partorirlo), camicia bianca, un lungo
gilè a strisce rosse e grigie. In testa porta un fez, come il personaggio del teatro
d’ombra Karagöz. Si arrampica sul suo podio, si accomoda sul suo trono, ha in
* Conferenza all’Incontro “Teatro tra macerie e barricate”, organizzato dal Teatro Pro-
skenion nell’ambito dell’Università del Teatro Eurasiano, Caulonia, Italia, 24 giugno 2003.
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234 Eugenio Barba
mano una spada. Da un colpo per terra ed inizia. Durante il racconto, la spada
riposa di traverso sulle sue gambe, la usa raramente e con parsimonia: la punta
in aria per indicare il cielo, addita degli oggetti o dei cadaveri al suolo, la fa
roteare, la prende a metà della lama. A me personalmente, questo modo incon-
gruo di tenerla e di scuoterla delicatamente evoca il volo di un uccello ad ali
spiegate.
È seduto confortevolmente, il braccio destro riposa sul bracciolo del
trono. Di tanto in tanto lo solleva, vi appoggia di più il peso, si piega legger-
mente in avanti, si sporge verso uno spettatore afferrando con la mano il brac-
ciolo per evitare di cadere.
La mano sinistra tiene uno spesso quaderno con le pagine coperte di una
scrittura calligrafata a mano. Rashed Al-Hallak legge una frase per se, in si-
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La conquista della differenza 235
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236 Eugenio Barba
Macerie e barricate
Eppure in Siria si trova il teatro meglio preservato, nel deserto, a Bosra,
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l’ultima capitale dei Nabatei, alla frontiera con la Giordania. I Romani la con-
quistarono nel primo secolo dopo Cristo e vi costruirono un foro, dei bagni e
anche un teatro di 16.000 posti che diventano il doppio facendo sedere gli
spettatori su ogni gradino. È costruito con pietre basaltiche vulcaniche della
regione, le numerose colonne di marmo furono portate da Atene. Al Adil, fra-
tello di Saladino, trasformò il semidistrutto edificio in deposito militare e lo
protesse costruendo intorno delle mura fortificate con 11 torri. Il teatro di-
venne un castello che seppe difendersi dal tempo, dagli avversari e dai misera-
bili della terra che trafugano le macerie dei teatri, le loro pietre e colonne, per
costruire le proprie casupole.
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La conquista della differenza 237
tre anni, poi cedette la direzione al giovanissimo Carlos che ne è stato alla sua
testa per venticinque anni. Per celebrare quest’anniversario, ha anche organiz-
zato una tavola rotonda “Elogio dell’incessanza: l’influenza di Eugenio Barba
in America Latina”. Ha invitato critici ed artisti messicani, argentini, cubani,
peruviani e venezuelani che conoscono l’Odin e l’ISTA. Incontro vecchi
amici: Beto Ramirez, attore di Yuyachkani, ora attivo in Venezuela, Bruno
Bert, argentino della leggendaria Comuna Baires, ora regista e critico a Città
del Messico, la coreografa Hersilia Lopez e Eduardo Gil, pioniere del teatro di
gruppo in Venezuela che aveva partecipato alla prima ISTA di Bonn. Per tre
giorni dibatteranno, disquisiranno, commenteranno. Così mi ritrovo due giorni
tutti per me. Non andrò certo ad imbarazzarli con la mia presenza.
Guanare è tranquilla, avvolta da un’atmosfera polverosa di provincia.
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238 Eugenio Barba
la maggior parte dei suoi compagni erano stati uccisi, presi, torturati o scom-
parsi. Erano rimasti quattro gatti, incalzati dai militari. Era tempo di lasciare il
paese: prima tappa, il Brasile, poi il Venezuela. A Caracas ritornò alla sua
vecchia passione: regista e scrittore di testi teatrali. Fondò il festival di Gua-
nare e si dedicò ad introdurre molti giovani ad un teatro che non fosse solo
spettacolo. Appoggia il presidente Chavez, lo sciopero è opera della borghesia
frustrata, si domanda se il presidente cederà (ma sarà l’opposizione a cedere
dopo quasi due mesi di sciopero che mette a terra l’economia del Venezuela
costretta perfino ad importare petrolio dal Brasile). “Sei diventato pessimista?”
gli chiedo. “Certe illusioni – mi risponde – non te le possono togliere neanche
gli orrori che vedi con i tuoi propri occhi”. Lo dice a voce bassa, come se
stesse confessando una debolezza o una colpa.
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La conquista della differenza 239
vanissimo Daniel con il violino e Pedro con il quatro. Alla fine del seminario,
chiedono di poter realizzare un baratto: vogliono ringraziare Julia e me ese-
guendo un piccolo concerto di musica russa.
Il mio ultimo giorno di lavoro era un’esposizione sui principi del-
l’antropologia teatrale. Li presentavo insieme a Julia Varley, Augusto Omolú e
i suoi tre suonatori di tamburo brasiliani. Pregai Daniel di suonare il violino
Così, mi divertii a sorprendere gli spettatori. Durante un’improvvisazione di
Julia e Augusto accompagnata dal ritmo possente dei tamburi, si elevò il vio-
lino di Daniel che li fece gradualmente ammutolire e trasformò materialmente
la qualità dell’energia e il flusso delle azioni dei due attori.
La sera prima della partenza eravamo un piccolo gruppo di amici a cenare
in un ristorante fuori città. Progettavamo di fondare un’associazione per soste-
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Piombo
Ho l’impressione di parlare solo di quello che sta alle mie spalle, come se,
da vecchio animale umano, fossi solo passato che cammina su due zampe.
Vorrei finire evocando il futuro, un viaggio che, paziente, aspetta di essere
compiuto. Voglio imbarcarmi su un transatlantico comodo e moderno, in una
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240 Eugenio Barba
una troupe di 16 attori, tra cui due bambini. Non erano mai stati fuori del loro
paese, anche se i primi permessi per uscire dal Giappone nel 1866, alla fine
dello shogunato, furono dati proprio ad attori che si recavano in America e in
Inghilterra: ben 29 permessi su 33.
A San Francisco, dopo quattro spettacoli, il loro impresario scompare.
L’albergo dove alloggiano li mette alla porta, mentre i debitori si imposses-
sano dei loro costumi e bagagli. Trovano rifugio, tutti e sedici, nella baracca di
un connazionale, mangiano quello che i compatrioti offrono loro per carità.
Fanno adottare i due bambini da famiglie giapponesi senza figli. Riescono a
dare una settimana di spettacoli e racimolare abbastanza denaro per riscattare
i loro costumi dai creditori. Si imbarcano per Seattle, affittano un teatrino e
danno spettacoli soprattutto per la colonia giapponese. Poi, sempre recitando e
guadagnando di che raggiungere la città o il villaggio seguente, si inoltrano
nell’hinterland americana, allontanandosi da luoghi dove vi sono dei compa-
trioti, loro potenziali spettatori. A volte in treno, più spesso a piedi con i loro
bagagli e i sandali di paglia giapponesi si spostano da città in villaggio dando
spettacoli. Dopo aver attraversato per 89 ore in treno le Montagne Rocciose
arrivano a Chicago, 1.600.000 abitanti, una metropoli dove 13 teatri gigante-
schi presentano spettacoli con più di 300 attori e comparse, cavalli e carrozze,
effetti di luce e di meteorologia con grandinate e piogge scroscianti. Tutti i
teatri sono affittati mesi in avanti, e i 14 giapponesi sono costretti a dormire
nella stanza di una pensioncina, a turno, per non destare l’attenzione del pro-
prietario. Riducono sempre di più la loro porzione di riso, solo una fetta di
pane al giorno. La fame li attanaglia, hanno difficoltà a muoversi, diventano
sempre più fiacchi.
La figlia del direttore del Lyric Theatre, James S. Hutton, è una fanatica
del Giappone, kimono, ninnoli, ceramiche, ventagli e stampe che inondano
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La conquista della differenza 241
l’Europa e Gli Stati Uniti. Davanti a sé si trova dei veri giapponesi in più attori
e obbliga il padre a farglieli vedere, in una matinée domenicale. I giapponesi
hanno appena cinque giorni per inventare lo spettacolo. Indossano i loro vestiti
esotici, si truccano da samurai e geisha, un cartello che annuncia lo spettacolo
e sfilano nel freddo delle strade, tra lo stupore dei passanti. Ma quella dome-
nica, il teatro si riempie. Per la prima volta, da settimane, mangiano a sazietà.
Trovano persino un impresario, Alexander Comstock, che li assume, e li esi-
bisce da città in città. Viaggiano di notte, arrivano all’alba, si precipitano al
teatro, si preparano, danno spettacolo e ripartono.
Dopo alcune settimane di questo programma, all’arrivo a Boston,
all’inizio di dicembre 1899, Kurando Maruyama, il più giovane degli onna-
gata, stramazza per i dolori allo stomaco. All’ospedale i dottori diagnosticano
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uno degli effetti collaterali del lavoro d’onnagata: avvelenamento per piombo,
Per anni aveva coperto il suo viso, collo, schiena, e mani, giorno dopo giorno,
con una pasta bianca ricavata dal piombo. Per mesi aveva eseguito il suo la-
voro senza rivelare le sofferenze, i crampi allo stomaco e la nausea continua.
Usava morfina per lenire il dolore, cicatrici e piaghe coprivano le sue braccia e
l’intero corpo dove aveva iniettato morfina. La troupe debuttò senza di lui.
Una settimana dopo, riuniti intorno al suo capezzale, i suoi compagni lo videro
morire tra le convulsioni. Lo seppellirono sulla cima di una collina fuori della
città, recitando familiari preghiere buddiste e domandandosi, inquieti, dove si
sarebbe aggirata la sua anima in questa terra incomprensibile e sconosciuta.
Neanche un mese dopo, Shigeru Mikami, l’altro onnagata ricevette dalla
moglie la notizia che sarebbe diventato padre. Pazzo di gioia, comprò vestitini,
cappellini, cappottini e scarpette, tutte azzurre, il bambino non poteva essere
che un maschietto. Ma anche Mikami era diventato pallido, aveva capogiri,
perdeva l’equilibrio, soffriva di dolori alla testa e crampi allo stomaco: un’emor-
ragia cerebrale dovuta ad avvelenamento per piombo. Ricoverato in una corsía
d’ospedale, con il letto e il guanciale cosparso di vestitini azzurri, Mikami sus-
surrava: “Chi si prenderà cura di mia madre e del mio fratellino? Voglio vedere
il mio bambino coi vestitini stranieri che gli ho comprato, con questo cappello,
con queste scarpette. Non voglio morire senza vedere il mio bambino”.
Era passata la mezzanotte quando i compagni, alla fine dello spettacolo,
arrivarono all’ospedale e sentirono il suo delirio attenuarsi fino al silenzio. Lo
seppellirono accanto a Murayama, in cima alla collina. La stessa sera, erano
tutti in scena: the show must go on.
Passerà una settimana, due settimane, a Boston io continuerò a cercare la
collinetta. Sicuramente avrò trovato un buon ristorante italiano ed ogni sera mi
consolerò con sapori della mia infanzia. I camerieri americani, loquaci e alla
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242 Eugenio Barba
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IL PARADOSSO DEL MARE*
Così pensava Ludovico Ariosto secondo Luis Borges: per fare un vero
libro servono l’Aurora e l’Occidente, secoli, tradizioni, culture – e il paradosso
del mare, abisso invalicabile e via di comunicazione.
Ma perché, fra loro, le armi?
Tutto questo non vale solo per i grandi libri dei quali Borges, il moderno
Tiresia, parlava. Vale anche per le culture, purché non vengano considerate
come universi chiusi da muri metaforici o reali, come monadi che si accostano
l’una all’altra o cozzano drammaticamente. Dietro il sostantivo cultura si na-
sconde un flusso di azioni, diffusioni, travasi e intrecci che convergono o si
ostacolano. L’unità di una cultura è paradossale: mantiene una propria identità
a patto che viva nelle tensioni e nelle metamorfosi.
Torno a domandarmi, perché le armi?
Quando avevo trenta o quarant’anni, quelle armi che nel verso del mo-
derno Tiresia stanno fra i secoli e il mare mi facevano pensare agli eroi del-
l’Orlando furioso o della Chanson de Roland, o a Baldovino, quarto re di Ge-
rusalemme, crociato e lebbroso. E invece, ora che sto per compiere settant’anni,
quello stesso verso non evoca antiche leggende, ma la cronaca quotidiana dei
tempi in cui vivo, ciò di cui scrivono i giornali e che compare nell’eccitata in-
differenza delle televisioni, fra un talk-show e la cronaca d’una partita.
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244 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 245
renti ceti sociali. Il teatro era straniero nel mondo in cui viveva, fra gli spetta-
tori che gli davano da vivere, innanzi tutto perché contraddiceva i confini e le
gerarchie che mettevano ordine nel mondo circostante. Per questo è stato a
volte una microsocietà separata, discriminata e disprezzata. E per questo è
stato, a volte, un’isola di libertà.
Quando nel Novecento il teatro sembrava destinato a sparire perché ina-
deguato ai tempi ed alle dimensioni della modernità, delle sue metropoli, della
sua nuova economia e dei suoi nuovi spettacoli, la gente del teatro ha praticato
– più per la forza dei fatti che per progetto – una doppia strategia. Da una parte
ha indotto la società circostante a riconoscere la professione scenica come un
bene culturale da proteggere, sganciandola dalle catene del commercio. E
mentre questo avveniva, alcuni hanno fondato arcipelaghi di piccole isole tea-
trali autonome. Ognuna di queste isole vive nel proprio ambiente culturale
come una trascurabile minoranza, in grado però di aprirsi la via in territori
nuovi, uscendo dai recinti tradizionali del teatro.
La marginalizzazione nel proprio ambiente viene risarcita da un allun-
garsi del raggio d’azione. Un equivalente processo di compensazione riguarda
anche le grandi tradizioni teatrali. Quanto più ciascuna tradizione classica, di
matrice europea o asiatica, diventa inattuale nell’orizzonte del proprio con-
testo d’origine e perde localmente vigore, tanto più acquista prestigio al di là
dei propri confini tradizionali superando le barriere culturali ed allargando il
raggio della propria presenza, in un fitto intreccio di scambi e travasi. In altre
parole, trova un nuovo equilibrio in un orizzonte multiculturale.
La professione del teatro non è più separata dalle diverse barriere lingui-
stiche. Malgrado le differenze si salda in maniera sempre più evidente in un
unico grande paese professionale planetario. Diventa possibile parlare di una
cultura teatrale unitaria che comprende esperienze radicate nel lontano pas-
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246 Eugenio Barba
Per un emigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il
teatro è divenuto lo strumento per creare l’incontro e lo scambio, per superare
l’indifferenza reciproca. È una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resi-
stere all’omologazione e costruisce ponti.
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La conquista della differenza 247
I ponti e la semplicità
Ronda è una cittadina sulle montagne dell’Andalusia. È conosciuta per il
ponte costruito al tempo degli arabi, a strapiombo su una gola dove un fiume si
precipita furioso. Durante la guerra civile spagnola, le truppe franchiste lo
usarono come comodo luogo di esecuzione per i prigionieri. Li legavano l’uno
all’altro, in piedi sul parapetto, poi una pallottola alla nuca al primo della fila,
e tutti giù a sfracellarsi sui sassi del fiume, trascinati via dalla corrente impe-
tuosa. In Per chi suona la campana Ernest Hemingway ce ne ha lasciato il ri-
cordo.
Ma è di un altro ponte che voglio parlare. Kozda Mimar Sinan è il Bra-
mante o il Michelangelo dell’impero ottomano. Architetto della moschea di
Edirne e di quella del sultano Suleyman il Magnifico a Istanbul, progettò l’im-
pressionante ponte sul fiume Drina a Visegrad, in Serbia, alla fine del XVI se-
colo. A lui viene attribuito anche uno dei ponti più ammirati d’Europa. Capo-
lavoro architettonico, è stato descritto come l’arco di un arcobaleno che si
innalza al di sopra della via lattea, balzando da una dirupo ad un altro. In realtà
non fu il geniale Sinan l’ideatore e il realizzatore di quest’altro ponte, fu Haru-
djin, uno dei suoi allievi. Su richiesta dei cittadini leali, il sultano Suleyman il
Magnifico ordinò nel 1666 la costruzione del ponte di Mostar.
Per secoli, il ponte di Mostar dette gloria alla sua città e fu l’orgoglio della
sua popolazione di croati cattolici, serbi ortodossi e croati e serbi musulmani.
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248 Eugenio Barba
Anche l’attore Slobodan Praljak, ogni volta che lo attraversava per andare
al suo Teatro della Gioventù, non poteva fare a meno di ammirare i blocchi di
pietra levigati dalla carezza del tempo. Slobodan aveva iniziato la sua carriera
quando il suo paese si chiamava ancora repubblica socialista della Jugoslavia.
Col tempo non si limitava ad esercitare la sua attività artistica come attore, ma
metteva anche in scena testi come Un uomo è un uomo di Bertolt Brecht e Il
drago di Evgenij Schwartz.
Cominciò lo smembramento della federazione jugoslava. Prima si staccò
la Slovenia, poi la Croazia, quindi croati e serbi si scontrarono per annettersi il
più possibile del territorio della Bosnia, la cui maggioranza era musulmana.
L’attore e regista Slobodan Praljak aveva lasciato il teatro e si dedicava a questa
missione di crescita nazionale. In quanto croato, aveva il comando della posta-
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La conquista della differenza 249
nostra tradizione. Accettiamo una società multietnica, purché però non sia
multiculturale.
In parole semplici: loro stiano fra noi, purché si assimilino. Cioè: purché
sottomessi. Purché sfruttati.
Col tempo, lungo un secolo e più, erano stati elaborati compromessi effi-
caci per mitigare la durezza del mercato in cui si compra e si vende lavoro. Ma
questi compromessi possono essere aggirati dalle leggi dell’ immigrazione. Il
nudo sfruttamento ritrova, così, un colore legittimo: legittima difesa in una
guerra fra civiltà. Una bandiera apparentemente più umana e decente copre la
prepotenza di chi sa o si illude d’essere il più forte. Le armi e le leggi fingono
di non difendere il nostro interesse a prevalere, ma il legittimo desiderio di
preservare la nostra integrità.
I secoli, il mare sono grandi e immensi pensieri. O forse minuscoli, come
i sogni ad occhi aperti che crediamo e speriamo capaci di proteggerci.
Nel castello
C’è una luce cristallina qui ad Elsinore, in questo pomeriggio d’agosto. Il
mondo che ci circonda è l’immagine dell’ordine, della pace, del buon gusto.
Sul mare, davanti alla costa della Svezia, si stagliano alcune imbarcazioni
che sembrano navigare in diversi nastri del tempo. Motori rombanti e canotti a
remi; barche a vela adatte alle moderne regate e un veliero dalla foggia antica,
che ancora mostra di poter dominare silenziosamente il mare.
Il palazzo regale, il castello di Elsinore, si protende verso il mare con le
sue grandi vetrate e le sue torri che paiono tutte eguali ed a guardarle bene
sono ciascuna differente dall’altra.
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250 Eugenio Barba
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La conquista della differenza 251
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DENTRO LE VISCERE DEL MOSTRO*
* Discorso in occasione del titolo di Dottore honoris causa conferito dall’ISA, Instituto
Superior de Artes, dell’Avana il 6 febbraio 2002. Pubblicato per la prima volta in “Conjunto” n.
124, L’Avana 2002.
** Alcune considerazioni sono necessarie per chiarire certi echi di questo discorso, evi-
denti solo a un orecchio cubano. L’immagine Dentro le viscere del mostro, riprende una famosa
espressione dell’intellettuale e poeta cubano José Martí, figura capitale nella lotta per l’indipen-
denza di Cuba dalla Spagna, morto in battaglia nel 1896. José Martí diceva di scrivere “dalle
viscere del mostro” quando, durante il suo lungo esilio a New York, inviava articoli ai giornali
dei paesi latino-americani. Utilizzare questa espressione in riferimento ad un contesto diverso
da quello degli Stati Uniti, è – per l’ascoltatore cubano – un forte effetto di straniamento. An-
cora più chiaro l’effetto di straniamento implicito nel termine “dissidenza”. Nel linguaggio uffi-
ciale cubano, i “dissidenti” sono coloro che nella lingua corrente vengono chiamati anche gu-
sános, cioè “vermi”: i cubani che hanno abbandonato Cuba per motivi politici, per conflitti con
il regime o in cerca del benessere economico. (Nota di Lluís Masgrau).
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254 Eugenio Barba
venti del teatro politico soffiavano con vigore in Europa. L’Odin era sotto co-
stante accusa per il suo modo di prendere posizione, per il suo “formalismo”,
per la sua determinazione “elitaria” di limitare il numero degli spettatori.
Anche a Cuba, quando il nome dell’Odin appariva nei dibattiti e nelle pubbli-
cazioni, lo scetticismo e la diffidenza erano più che palesi. La visita di Helmo
Hernandez mi fece ritrovare la curiosità intellettuale e il desiderio di dialogo
professionale dei pochi cubani che avevo incontrato. Così lo invitai alla quarta
sessione dell’ISTA, la International School of Theatre Anthropology, nel
maggio del 1986 a Holstebro. Alcuni mesi dopo, andando in Uruguay per una
tournée dell’Odin, decisi di atterrare all’Avana e visitarlo. Rimasi solo pochi
giorni e nonostante la mia visita non fosse ufficiale, Helmo aveva organizzato
incontri e conferenze. Qui nacquero amicizie profonde con artisti e studiosi:
con Flora Lauten, Marianela Boán, Victor Varela, Magaly Muguercia, Rosa
Ileana Boudet, Vivian Martinez Tabares. Helmo mi portó al Teatro Escambray,
che conoscevo solo attraverso le letture e che ammiravo. Ci accompagnò Vi-
cente Revuelta. Rimane incancellabile nella mia memoria il lago della Hana-
banilla, la sua acqua cobalto e smeraldo, le montagne intorno coperte di palme,
una piccola barca con Helmo ai remi, e Vicente Revuelta ed io che discute-
vamo, come due bambini creduli, di fantasmi e di sirene, di draghi, di orchi e
di angeli, cioè di teatro e di politica.
L’accettazione dell’eretico Odin Teatret ebbe luogo nel 1989. Incorag-
giata dal regista peruviano Miguel Rubio del gruppo Yuayachkani, fu Raquel
Carrió il sagace cavallo di Troia che seppe introdurre ufficialmente l’Odin a
Cuba con Judith, lo spettacolo d’una sola attrice, Roberta Carreri; e con un
mio corso qui, nel vostro ISA. Partecipammo anche alla prima sessione del-
l’EITALC, la scuola latinoamericana appena fondata a Machurrucutu. Qui
ebbe origine il forte legame con il suo direttore, lo scrittore argentino Osvaldo
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La conquista della differenza 255
Dragún, uno degli artisti più puri e impegnati che abbia conosciuto, uno degli
abitanti da me più amati nella mia patria professionale.
Poi già non ricordo più quante volte l’Odin sia venuto a Cuba, a volte io
solo, altre volte solo Julia Varley. La grande tournée di tutto l’Odin Teatret nel
1994, in pieno marasma economico del “periodo speciale”, fu merito di Lecsy
Tejeda ed Eberto Garcia Abreu.
Ed eccomi di nuovo qui, circondato dai miei compagni dell’Odin Teatret,
tra alcune delle persone che danno senso e valore al mio agire teatrale, e la cui
perseveranza e impegno sono per me uno stimolo a non desistere nei momenti
di sconforto. Anche quest’ultima visita di sei settimane in diverse città di pro-
vincia ed all’Avana, ha la sua origine in quello che ai miei occhi è l’essenza
della cubanità: prendere posizione spinti da una motivazione inderogabile.
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256 Eugenio Barba
separata da quella che scorre al centro del fiume. Creano, lungo i suoi margini,
delle cavità e degli habitat imprevisti trasmettendo al futuro le tracce della loro
differenza.
Tutto questo l’ha descritto Voltaire nel suo Candide. Sotto un diluvio di
ironia e d’avventure, crolla l’illusione che il mondo in cui viviamo sia vivibile
o sia il “migliore dei mondi possibili”. Dopo aver a lungo partecipato al gioco
meccanico della lotta tra pessimismo e ottimismo, il protagonista di Voltaire
approda, nell’ultima pagina, alla coscienza che bisogna lavorare senza pensare
al destino del proprio lavoro, impegnandosi a “coltivare il proprio giardino”.
Questo atteggiamento non significa arrendersi, cedere, non è un richiamo
all’egoismo o a una visione ristretta ed egocentrica della vita. È l’affermazione
della necessità di contraddire la Grande Storia con una Piccola Storia che
possa appartenerci. E provare a farle danzare.
Il teatro è il tentativo di stare nell’acqua del fiume senza lasciarsi trasci-
nare dalla corrente.
Questa è la storia del teatro: piccoli giardini, pozze d’acqua riparate, a
volte spazzate via, dall’impeto della corrente.
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La conquista della differenza 257
tangibile che consiste nel superamento dei limiti che tradizionalmente distin-
guono ciò che è teatro da ciò che non lo è, che infrange le frontiere tra il lavoro
sul personaggio e il lavoro dell’individuo su se stesso, tra la pratica artistica e
l’intervento politico e sociale.
L’energia della vita teatrale all’inizio del nuovo millennio scaturisce dalla
tensione fra le luci fisse del firmamento teatrale e la turbolenza dei teatri “vul-
nerabili”, fra le case dei teatri e i teatri che esplorano i deserti, fra la stabilità e
l’irrequietezza. Questa tensione è qualcosa di nuovo.
Per secoli, a partire dal Cinquecento, la fonte di energia per il teatro eu-
ropeo fu la tensione tra tradizione e sperimentalismo. Nel ventesimo secolo,
sede dello sperimentalismo furono i teatri amateurs e, a volte, i teatri di profes-
sione, quando si trattò di inventare nuove formule per salvaguardare la propria
esistenza e la propria dignità. Focolai di sperimentalismo furono gli ambienti
dei futuristi, dadaisti e surrealisti fino alle correnti più recenti delle avan-
guardie artistiche che hanno inciso nella cultura contemporanea. Furono nic-
chie dello sperimentalismo teatrale i “Teatri Liberi” e i “Teatri d’Arte” a co-
minciare da Antoine e da Stanislavskij.
Anche nei teatri asiatici, la tensione che è fonte di energia fu a lungo
quella tra la fedeltà alle forme della tradizione e la pulsione all’innovazione.
Per ragioni culturali e politiche, questa tensione si intrecciò a quella fra in-
flusso straniero e rispetto delle forme autoctone. Da un lato era un impulso ad
appropriarsi delle forme nuove approdate in Asia dai paesi più potenti e colo-
nialisti. Dall’altro era una reazione a rifiutare gli stili stranieri e a riscoprire il
valore del proprio sapere teatrale. È una dialettica di fagocitazione e rifiuto
che in numerose varianti caratterizza la creatività di molti artisti dei teatri
africani e sudamericani.
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258 Eugenio Barba
nosce minoranza.
Il teatro può aiutarci a far rispettare la nostra differenza. Allora si converte
nella pratica di una dissidenza.
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La conquista della differenza 259
cultura o sesso. Il teatro non può essere un incontro filantropico in cui si cerca
di comprendere, spiegare o accettare il differente. Il teatro è una lotta fiorita, è
la nostra necessità di appropriarci dell’altro – gli autori, i colleghi di lavoro,
gli spettatori, i morti – di fondersi con lui, di divorarlo, impegnando tutto il
nostro metabolismo per assorbire l’essenziale ed espellere il superfluo. Il con-
fronto con l’altro è un rito di passaggio che rinnova il riconoscimento di forze
e qualità reciproche ed inspiegabili.
Il teatro ci muove dalla realtà inferiore alla realtà dell’esistenza profonda.
Ci proietta dalla superficie nella corrente opaca delle energie che operano oc-
culte. Basta ricordare Marx, Freud, Niels Bohr, e le fondamenta su cui ci
muoviamo, l’universo subatomico che nega le evidenze della fisica di Newton
e irride le relazioni di causa ed effetto, di tempo e spazio, di passato e futuro.
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260 Eugenio Barba
che allucini lo spettatore e gli faccia esperire la trasparenza. Nel corso dello
spettacolo, le caratteristiche personali e la perizia degli attori, i comportamenti
e i destini dei personaggi, le tensioni e le peripezie del racconto devono per-
dere la loro consistenza per i sensi dello spettatore, devono trasformarsi in un
vuoto, un ponte trasparente che avvicina ogni spettatore alle sue ferite na-
scoste, alle sue cicatrici interiori, alle tracce delle sue lotte e dei suoi compro-
messi. Questo dialogo con se stesso può avvenire solo se l’attore riesce a de-
stare le energie sopite di ogni singolo spettatore provocando risonanze,
sensazioni e memorie che permettono di riflettere in termini di intimità, di
Piccola Storia.
Solo se l’attore riesce a muoversi crea le premesse per muovere lo spetta-
tore, per sedurlo e spiazzarlo provvisoriamente dalla trincea delle sue convin-
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zioni.
Muovere lo spettatore, tecnicamente parlando, presuppone l’assimila-
zione di modi paradossali di pensare e comportarsi sulla scena. Il “se magico”
di Stanislavskij, i procedimenti per straniare il comportamento del perso-
naggio tanto apprezzati da Brecht, i principi pre-espressivi della presenza
scenica evidenziati dall’Antropologia Teatrale, sono alcuni dei cammini che
l’attore può seguire per essere convincente in ogni sua più piccola azione.
L’attore genera una qualità di presenza diversa, provoca un’osmosi con le
energie dello spettatore, realizza un atto sociale che si converte in un processo
di meditazione individuale.
È il trionfo della presenza assoluta nell’istante che fugge, l’impegno to-
tale dell’individuo-attore che compie le sue azioni qui ed ora di fronte agli
spettatori, al centro stesso della sua epoca e della sua società. Ma l’attore crea
la realtà della finzione per poter essere altrove. Il teatro è l’arte dell’ubiquità:
prende posizione di fronte alle circostanze in cui il nostro destino personale e
la Grande Storia ci hanno sbattuto, e nello stesso tempo ci trasporta nell’utopia,
in una quotidianità ideale. Il teatro permette di vivere dentro le viscere del
mostro e allo steso tempo in un’isola di libertà.
Dov’è questo “altrove”? In quale luogo fisico, geografico, affettivo, men-
tale si trova?
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La conquista della differenza 261
Tommaso Campanella, l’autore della Città del sole, un’opera su una società
giusta e utopica. L’aveva scritta in carcere nel 1602, ispirandosi all’Utopia di
Thomas More, l’intellettuale decapitato per aver rifiutato di firmare il docu-
mento che riconosceva Enrico VIII come capo della chiesa d’Inghilterra.
Campanella, di origini contadine, era un frate domenicano, teologo, filo-
sofo, astrologo, aveva delle visioni e faceva profezie. I suoi nemici lo chiama-
vano mago e stregone. Scandalizzato dalla ristrettezza della mentalità eccle-
siastica aveva abbandonato l’ordine monastico – un reato per quel tempo.
Campanella viene incarcerato. Tornato provvisoriamente libero, diventa uno
dei capi di una congiura contro il governo spagnolo che dominava l’Italia del
Sud. La congiura è scoperta e i 140 congiurati, tra cui 14 monaci, vengono in-
catenati e portati a Napoli. Alcuni dei prigionieri sono squartati sotto gli occhi
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262 Eugenio Barba
La differenza inquietante
È importante preservare la testimonianza che la dissidenza sia pratica-
mente possibile. Come si può essere dissidenti in maniera efficace?
Secondo la storia e l’etimologia della parola, “dissidenza” viene dal latino
dissidere, sedere (sedere) separatamente (dis). Fu usata per designare i prote-
stanti polacchi nella Pax Dissidentium firmata a Varsavia nel 1573 quando il re
Henry de Valois si impegnò a rispettare la libertà di culto e di opinione poli-
tica. Il dissidente, quindi, non è lo scismatico, uno che se ne va, che abbandona
o che si separa. È uno che crea una distanza senza distaccarsi per evidenziare
le sue “superstizioni” e la sua differenza.
La differenza, in sé, non è un valore, è una condizione. Può essere una
condizione di inferiorità una fase che prelude all’integrazione, oppure una se-
gregazione scelta o patita. Diventa feconda quando diventa inquietante. Nor-
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La conquista della differenza 263
Un granello di sabbia
Il concetto di utopia è strettamente connesso a quello di isola. L’isola non
è isolata, sta a sé nel mare, che è il mezzo di comunicazione per eccellenza.
L’isola è connessa al mondo circostante, è distante, ma non distaccata.
Ricordiamo i grandi racconti che ci giungono dal passato, i miti dei Giar-
dini. Ogni giardino sereno ha la sua insidia, c’è sempre il veleno di un serpente
che si nasconde nell’erba del Paradiso.
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264 Eugenio Barba
naria con la consuetudine, la ripetitività, gli alibi e la grigia fatica. Il teatro di-
venta semplicemente un lavoro, una dimestichezza con un mestiere che ha
perso la sua magia, il suo ethos, i suoi ideali. All’ora di cena ci sediamo a ta-
vola. All’ora di andare a letto, sbadigliamo. Vediamo un albero, e raccogliamo
la sua frutta. Il teatro sopravvive e ci fa sopravvivere avvolti in un sano fata-
lismo di indifferenza e tiepidezza.
Solo la rivolta ci può proteggere, una rivolta contro noi stessi, contro le
nostre tentazioni, i nostri piccoli cedimenti e compromessi, contro l’impulso
naturale a scegliere le soluzioni conosciute e seguire il cammino meno arduo.
Quel che trasforma il mostro in un’isola di libertà è la via del rifiuto, del lavoro
anonimo e incorruttibile, ogni giorno, per anni, anni e anni.
Non dobbiamo nutrire aspirazioni ambiziose. Dobbiamo essere consape-
voli che dentro le viscere del mostro siamo solo un granello di sabbia.
Dobbiamo essere sabbia, non olio, nella macchina del mondo.
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ELOGIO DELL’INCENDIO*
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My speech is like smoke and my body is the burning: le mie parole sono
come fumo, e a bruciare è il mio corpo. Scelgo questa immagine, anche per
evitare che il titolo del mio discorso – Elogio dell’incendio – sembri un pane-
girico della distruzione. Vuol essere, invece, celebrazione della metamorfosi, e
quindi della resistenza. L’immagine iniziale è il titolo di un’opera di Deb Mar-
golin, attrice e drammaturga americana, un’artista pugnace che recita spesso
da sola. Il suo corpo, allora, è tutto il suo spazio scenico, e bruciare si rivela
sinonimo di essere-in-vita.
Per secoli gli spettatori hanno visto gli attori e le attrici in una luce-in-
vita, mobile, piena d’ombre impreviste e mutevoli, ben diversa dalla nostra
luce elettrica, docile ed addomesticata.
Ognuno di noi ha almeno una volta vissuto l’esperienza di uno spettacolo
che ci ha ustionati riducendo in cenere quello che pensavamo fosse il teatro,
l’arte dell’attore e il nostro ruolo di spettatore.
Ci sono bambini e vecchi, innamorati e dementi che hanno visto indimen-
ticabili e fuggitivi spettacoli nella danza delle fiamme nel camino o del falò in
un campo.
Vi sono le fiaccole che artisti visionari hanno gettato nella pratica e nel-
l’idea stessa del nostro mestiere, creando roghi che hanno alimentato con la
coerenza del loro agire.
Il teatro è “la terra del fuoco”.
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266 Eugenio Barba
Grand Opera House, Tivoli Opera House, Alcazar, Fischer’s & Alcazar, Cali-
fornia, Columbia, Majestic, Central, Orpheum, senza contare le sale minori e
il teatro cinese di Chinatown.
Arsero il Théâtre de la Porte Saint-Martin, lo Châtelet e il Théâtre Lyrique
durante la Comune di Parigi nel 1871, quando i comunardi appiccano fuoco
agli edifici pubblici.
José Posada immortalò l’incendio e la distruzione del teatro di Puebla in
una stampa che andò a ruba in Messico, mentre l’incendio del Bolshoi Teatro
di Mosca nel 1942, causato dalle bombe tedesche, ispirò a Stalin un discorso
che infiammò lo spirito patriottico del suo popolo.
Un’intera generazione teatrale perì tra le fiamme, il 5 settembre del 2005,
nel teatro di Beni Sweif, nella regione meridionale d’Egitto. Il fuoco carbo-
nizzò più di quaranta artisti, registi, critici e studiosi che assistevano a Grab
your Dreams di Mohamed Shawky. Erano il nucleo del movimento teatrale
della generazione tra gli anni ’70 e ’80.
A volte il teatro che brucia sembra spingere i suoi abitanti, gli attori, verso
altre città, esili o nuove avventure, come accadde a Wilhelm Meister nel ro-
manzo di Goethe. O come si immaginò il pittore che rappresentò la maschera
di Jodelet fuggire dall’incendio del Théâtre du Marais a Parigi nel 1634. Però,
se furono catastrofi, come considerarle metafore?
L’intero Padiglione Olandese dell’Esposizione Coloniale del 1931 andò
in cenere, si salvò solo il teatro. Era la sonnolenta estate del 1931 a Parigi, e i
giornali seppero commuovere i loro lettori descrivendo gli attori balinesi in
fuga, stringendo al petto i loro dorati costumi. Molti parigini accorsero a ve-
dere gli spettacoli di questi bizzarri danzatori pronti a rischiare la vita per sal-
vare i loro orpelli. Tra loro, Antonin Artaud.
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La conquista della differenza 267
ziato e quel rogo sono stati immediatamente intesi come un’immagine estrema
ed ideale dell’attore. Julian Beck e Judith Malina ne fecero la pietra angolare
del loro Living Theatre, il teatro vivo.
Antonin Artaud fu forse il più povero, il più sofferente, certo il meno
professionalmente autorevole fra i protagonisti della Grande Riforma del
teatro nella prima metà del secolo scorso. Dal punto di vista del mestiere, ha
ben poco da insegnare. Oggi lo annoveriamo fra i maestri, ma non fu mai un
maestro. Però fu l’allievo della propria anima divisa. Da essa imparò moltis-
simo. Legò indissolubilmente il nocciolo dell’arte teatrale alle sofferenze del-
l’anima malata. Artaud non depose le armi, continuò tutta la vita a soccombere
rialzarsi e combattere. Fino alla notte in cui si sedette sul letto e capì che l’ora
era arrivata. Si levò una scarpa, e tenendosela in mano come un amuleto, iniziò
l’ultimo viaggio.
Artaud indicò a noi, popolo del teatro, non i segreti del mestiere, ma quel
che attraverso il mestiere dobbiamo soffrire e, forse, sperare: l’esilio. È appena
un’infima parte della nostra professione. Ma senza quell’infima parte, arte e
mestiere sono solo un fuoco di paglia.
Sappiamo perché i teatri brucino e siano bruciati: per incuria, per la cru-
deltà del cielo, per speculazione, per malavita, per fascismo, per vendetta e
minaccia, per vecchiaia.
Nel teatro, in questa “terra del fuoco”, appaiono due diverse nature. L’una
è catastrofe, l’altra trasformazione. L’una distrugge, l’altra raffina, rafforza il
ferro e separa l’oro dalla fanghiglia a cui è incorporato. Di questo secondo
fuoco faccio l’elogio. Da questo secondo fuoco la nostra professione trae la
vita e il suo valore. La sua danza.
Danziamo? Sì, danziamo. Oppure no, non danziamo: facciamo teatro. Ma
chi saprebbe dire dove sta la differenza, dove passa il confine?
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268 Eugenio Barba
forma definitiva. Corre per sparire. È un’arte arcaica, non solo perché oggi è
esclusa o si esclude dallo spettacolo principale del nostro tempo, lo spettacolo
dell’immagine riprodotta e riproducibile. Ma soprattutto perché sotto le appa-
renze d’un passatempo può nascondere una ricerca spirituale, qualcosa che
scuote, fortifica e a volte modifica la nostra coscienza e ci immette in una
condizione governata da altri valori.
Dobbiamo rimanere con i piedi ben piantati per terra e gli occhi fissi sulla
cassetta degli incassi. Ma non dobbiamo dimenticare che il teatro è finzione in
transito verso un’altra realtà, verso il rifiuto della realtà che crediamo di cono-
scere. Il teatro è finzione che può cambiare sia coloro che recitano che coloro
che osservano. Niente di altisonante, di minaccioso, di eretico o di folle. Solo
passatempo.
Essere passatempo è il livello elementare della nostra arte, così come il
pane lo è per la cucina mediterranea. Non si mangia senza pane. Ma il solo
pane alla lunga non basta.
A volte il passatempo è un valore in sé. Quando il tempo sembra non
passare mai, per chi è privato della libertà, per chi si tiene in piedi di fronte alla
propria sofferenza, all’amputazione della propria identità, o alla morte, il pas-
satempo può essere la formula della vita, la resistenza all’orrore. Dostojevskij
racconta come il vaudeville recitato con costumi signorili e le catene ai piedi,
nella katorga siberiana, fosse per i condannati un modo per rifarsi una vita.
Fare modestamente teatro, da amateur, negli anni della guerra fra l’esercito e
Sendero Luminoso, ad Ayacucho in Perù, era un’azione vicina all’eroismo,
per un gruppo di giovani che ho conosciuto. Erano attori perché desideravano
anche avere una zattera fuori dall’orrore.
In Europa, nel corso del Rinascimento, uno dei modi di far festa non erano
semplicemente i fuochi artificiali, era l’incendio. Il potente che organizzava i
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La conquista della differenza 269
festeggiamenti comprava una o due case popolari, cacciava via gli abitanti, le
svuotava, le riempiva di fuochi d’artificio e polvere da sparo, poi la faceva in-
cendiare ed esplodere. Lo spettacolo era molto applaudito.
Per chi non vi è direttamente implicato, l’incendio può essere uno spetta-
colo. E per chi lo racconta può essere una metafora della forza dirompente del
teatro nel cuore d’una città, della sua natura di focolaio di infezione morale.
Oppure una immagine della vocazione degli attori ad essere dei “senza casa”,
sempre pronti ad essere sfrattati: dal fuoco, dagli integralisti, dalle autorità,
dallo sfruttamento economico.
Nel paese in cui nel 1981 bruciò il teatro Picadero, forse non dovrei usare
l’incendio come una metafora.
Quando leggo che in Argentina regnava la pace dei cimiteri, che vi furono
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270 Eugenio Barba
Troviamo la notizia del primo incendio nella storia del teatro europeo in
una lettera del nobile inglese Sir Henry Watton, datata 2 luglio 1613 e inviata a
Sir Henry Bacon. Comincia così: “Ed ora lasciamo riposare i discorsi politici
e dello Stato. Mettiamoli a dormire. Ora vi voglio raccontare qualcosa che in
questa settimana è accaduta nella zona del Tamigi”.
Sir Watton riferisce che gli “Attori del Re”, la compagnia di Shakespeare,
hanno messo in scena un suo dramma intitolato All Is True. L’allestimento era
suntuoso, con stuoie e tappeti sul palcoscenico, una festa più ricca e maestosa
delle vere cerimonie di corte. Durante lo spettacolo vennero sparate vere salve
di cannone e alcune scintille, volate fra la paglia del tetto, consumarono l’in-
tero teatro in meno di un’ora. Così spari il Globe: senza morti e senza feriti.
Il teatro, immediatamente riedificato con un tetto di tegole, fu riaperto un
anno più tardi. Nel 1642 i Puritani, nel loro ardore religioso, chiusero tutti i
teatri incluso il Globe che fu dimenticato anche come forma di edificio tea-
trale: gli inglesi, alla riapertura dei teatri adottarono il teatro all’italiana. Pas-
sarono più di tre secoli e il Globe Theatre, uno dei nostri miti, risuscitò. Resti
del suo edificio furono scoperti nel 1989 sulle rive del Tamigi e, su ispirazione
di un attore e regista americano, Sam Wanamaker, un nuovo Globe fu rico-
struito nel 1997 uguale all’antico modello elisabettiano e vicino al luogo in cui
sorgeva l’originale.
Sapeva bene, Sir Watton, che ogni dramma deve chiudersi con il respiro
leggero d’una farsa, e concluse così la sua lettera a Sir Henry Bacon: “Soltanto
uno degli spettatori rischiò la morte. Gli si incendiarono le braghe e sarebbe
forse finito arrostito se un allegrone mezzo ubriaco non l’avesse spento ver-
sandogli addosso una bottiglia di birra”.
Fra tanti incendi, non sarebbe opportuno augurare anche a noi una buona
birra?
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EPILOGO
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L’EPILOGO È UNA DOMANDA
L’Odin Teatret è oggi un teatro quasi cinquantenne. Per noi, “piccola tra-
dizione nomade”, cinquant’anni anni sono un tempo molto lungo. La nave su
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cui abbiamo navigato ha scricchiolato a lungo. Non vogliamo essere dei so-
pravvissuti. E quando leggiamo il nostro nome nei libri di storia, più che
dall’orgoglio ci sentiamo scossi dalla voglia di recalcitrare. All’orizzonte si
profilano le sagome dei nostri spettatori futuri, quelli che non hanno mai assi-
stito alle nostre opere.
Gli spettatori della memoria sono molto più difficili degli spettatori della
presenza. Meno indifferenti, meno ostili, meno entusiasti. Molto più inclini
all’involontario tradimento. La storia rischia di dissiparsi in una dolciastra
leggenda. La spina del coraggio rischia di fiorire in artificiali immagini
d’agiografia teatrale.
La messa in scena della memoria è anch’esso uno dei nostri compiti. Il
più difficile. Altrettanto difficile del nostro primo spettacolo, quando non ave-
vamo un mestiere sicuro, né esperienza. Per quest’ultima messa in scena, che
non vedremo, pur essendone responsabili, torniamo ad essere autodidatti. Le
nostre conoscenze tecniche non servono a nulla. Non serve il sapere. Serve
forse solo la nostra ribellione iniziale contro lo spirito dei tempi e la sua cecità,
fatta di illusioni e ottimismi a buon mercato. Il tempo torna a prenderci a calci
e ci obbliga di nuovo a debuttare.
Come trasmettere una memoria viva, fatta di tensioni e contraddizioni,
non edulcorata e patinata dal passare del tempo? Come lottare contro la ditta-
tura della storia a lieto fine?
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BIBLIOTECA TEATRALE
MEMORIE DI TEATRO
di Mirella Schino).
4. Claudio Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro
italiano.
5. Guido Lopez, Marco Praga e Silvio D’Amico. Lettere e documenti (1919-
1929).
6. Maria Ines Aliverti, Poesia fuggitiva sugli attori nell’età di Voltaire.
7. Mirella Schino, Il crocevia del Ponte d’Era. Storie e voci da una genera-
zione teatrale (1974-1995).
8. Clive Barker, Giochi di Teatro. Strumenti per l’attore (a cura di Paolo
Asso).
9. Tra psicoanalisi e Teatro. Identificazione e creatività (a cura di Elisabetta
Zanzi e Sara Spadoni).
10. La letteratura in scena. Gadda e il teatro (a cura di Alba Andreini e Rober-
to Tessari).
11. Erland Josephson, Memorie di un attore (a cura di Vanda Monaco We-
sterståhl).
12. Franco Ruffini, Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro.
13. Paola Daniela Giovanelli, Sabatino Lopez. Critico di garbo (Prefazione
di Guido Lopez).
14. Vsevolod Emil’eviĆ mejerchol’d, Un ballo in maschera (a cura e con un
saggio di Anna Tellini).
15. Anton Bierl, L’Orestea di Eschilo sulla scena moderna. Concezioni teo-
riche e realizzazioni sceniche (Traduzione di Luca Zenobi, Premessa di
Massimo Fusillo, Postfazione dell’autore alla nuova edizione italiana).
16. Alessandra Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della trage-
dia greca (Premessa di Massimo Fusillo).
17. Iben Nagel Rasmussen, Il cavallo cieco. Dialoghi con Eugenio Barba e
altri scritti (a cura di Mirella Schino e Ferdinando Taviani).
18. Renzo Vescovi, Scritti dal Teatro Tascabile (a cura di Mirella Schino).
19. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano.
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20. Bernadette Majorana, Pupi e attori ovvero l’opera dei Pupi a Catania.
Storia e documenti.
21. Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse.
22. Valentina Venturini, Raffaele Viviani. La Compagnia, Napoli e l’Europa.
23. Goldoni a Bologna (a cura di Paola Daniela Giovanelli).
24. Voci e anime, corpi e scritture (a cura di Maria Ida Biggi e Paolo Puppa).
25. Franco Ruffini, L'attore che vola. Boxe, acrobazia, scienza della scena.
26. Francesca Romana Rietti, Jean-Louis Barrault. Artigianato teatrale.
27. Stefano Geraci, Destini e retrobotteghe. Teatro italiano nel primo Otto-
cento.
28. Carla Arduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia.
29. Zbigniew Osiński, Jerzy Grotowski e il suo laboratorio. Dagli spettacoli a
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