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BIBLIOTECA TEATRALE
Diretta da: Ferruccio Marotti
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MEMORIE DI TEATRO / 30
Diretta da: Ferdinando Taviani e Valentina Venturini

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EUGENIO BARBA

LA CONQUISTA
DELLA DIFFERENZA
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Trentanove paesaggi teatrali

Presentazione di Ferdinando Taviani

BULZONI EDITORE

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI


È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica,
la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-624-8

© 2012 by Eugenio Barba


© 2012 by Bulzoni Editore
00185 Roma, via dei Liburni, 14
http://www.bulzoni.it
e-mail: bulzoni@bulzoni.it

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INDICE

Presentazione di Ferdinando Taviani .............................................................................. p. I


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INTRODUZIONE
La conquista della differenza ................................................................................................. » 13

LA CONTRADA DEGLI ANTENATI


• Tradizione e fondatori di tradizioni ...................................................................... » 35
• L’essenza del teatro ............................................................................................................ » 37
• Nonni e orfani ......................................................................................................................... » 55
• La casa delle origini e del ritorno ........................................................................... » 71

TECNICHE E COSTUMI
DEI PAESI DEL TEATRO
• La deriva degli esercizi .................................................................................................... » 79
• Un amuleto fatto di memoria. Il significato degli esercizi nella
drammaturgia dell’attore ............................................................................................... » 85
• La stanza fantasma .............................................................................................................. » 91
• La danza dell’algebra e del fuoco ........................................................................... » 105
• Drammaturgia: L’ordine profondo che è turbolenza ............................ » 113

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INCONTRI CON GLI SPETTATORI
E CON ME STESSO
• Testo delle origini ................................................................................................................ p. 127
• Quel che è organico per l’attore e quel che è organico per lo
spettatore ..................................................................................................................................... » 129
• Eftermæle. Quello che si dirà dopo ...................................................................... » 131
• La geografia delle illusioni ......................................................................................... » 135
• Angelanimal. Tecniche perdute per lo spettatore ...................................... » 147
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LETTERE DALLA MIA TERRA NOMADE


1. Voi date, noi diamo in risposta .................................................................................. » 159
2. L’uomo del vento e dei fulmini ................................................................................ » 161
3. Inseguire se stessi ............................................................................................................... » 163
4. Gli orecchini di Pirandello .......................................................................................... » 165
5. Qui non si può fare niente ............................................................................................ » 167
6. Cavalieri con spade d’acqua ...................................................................................... » 173
7. Graffiare i muri ....................................................................................................................... » 179
8. Vivere con imprudenza .................................................................................................... » 181
9. Separare il teatro dalla sua separatezza ............................................................. » 183
10. Il giuramento di Atahualpa ......................................................................................... » 185
11. Nera allegrezza ..................................................................................................................... » 195
12. Come brucia il teatro di carta .................................................................................... » 199
13. Non appartenere al mondo in cui viviamo ..................................................... » 203
14. Lettera da Port-Bou ............................................................................................................ » 205
15. Llaneza y vaivén .................................................................................................................. » 207
16. Fabbricanti di ombre ........................................................................................................ » 215
17. Figli dello stesso paradosso ......................................................................................... » 223
18. Ricordando il re Frederik V ......................................................................................... » 225

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PAESAGGI PRIMA DELLA BATTAGLIA
• Lo spazio paradossale del teatro .............................................................................. p. 229
• I cento violini del guerrigliero ................................................................................... » 233
• Il paradosso del mare ....................................................................................................... » 243
• Dentro le viscere del mostro ....................................................................................... » 253
• Elogio dell’incendio .......................................................................................................... » 265

EPILOGO
L’epilogo è una domanda ......................................................................................................... » 273
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PRESENTAZIONE
di Ferdinando Taviani
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Questo libro l’ho visto nascere. Permettetemi di presentarlo. La prima
volta, quando l’ho letto in una sua forma ancora primitiva, mi è parso una gran
bella testa su di un corpo ancora gracilino. Il titolo faceva intravedere un pen-
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siero inatteso, che però era seguito da una compilazione di scritti già tutti
pubblicati, alcuni di diversi anni fa, impilati come in un manuale. Nell’in-
sieme, mi faceva pensare all’impronta d’un passo interrotto.
Anche ad Eugenio Barba quel primitivo ordinamento dei materiali non
faceva una buona impressione. Sarebbe stato bastantemente interessante se
quel titolo non fosse stato lì a far pensare qualcosa di più. Dato che non c’è
niente, almeno fra i libri, che faccia un così cattivo effetto come una promessa
non mantenuta, la soluzione ovvia era sfumare la promessa – il titolo – adat-
tandolo alle più modeste fattezze della raccolta.
Barba ha fatto esattamente il contrario: ha distrutto l’ordinata compila-
zione degli scritti e ha costretto l’insieme ad inseguire il titolo. Con i pezzi
staccati ha composto un mosaico. Ne è venuto fuori uno dei suoi libri più belli
ed enigmatici.
All’incirca nello stesso tempo, in condizioni per più versi proibitive,
Barba lavorava alla concezione ed alla regia d’un nuovo spettacolo. Anche in
quel caso, il titolo ha rischiato a lungo di pesare troppo. Ed anche allora il la-
voro è partito zigzagando, ma guidato dalla necessità d’inseguire il suo strano
titolo. Alla fine, La vita cronica è uscito come uno degli spettacoli più intensi
e misteriosi di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret.
Questo modo di procedere contromano, lungo strade che di regola sareb-
bero “sbagliatissime”, ma che sono come quelle che imbroccano certi bambini
perduti nelle favole, contrassegna la produzione dei “racconti d’inverno” (così
fra me e me li chiamo) di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret (75 anni l’uno, 50
l’altro). Una strada fatta apposta per disorientare la perizia accumulata con gli
anni, in modo che il saperci fare non smarrisca gli stupori del debutto.
La conquista della differenza e La vita cronica sono arrivati a compimento
più o meno insieme, verso la fine del 2011. Non proprio gemelli, si trovano

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IV Ferdinando Taviani

però gemellati dalla cronologia. Sicché nel presentare il libro non potrò evitare
qualche riferimento anche allo spettacolo.
Che inizia con una figura un po’ sacra un po’ buffa ed un poco selvaggia:
una Madonna nera che sembra appena scesa dagli altari, madre misericordiosa
e feroce con la spada nel cuore. Entra nello spazio vuoto, scavalca un cadavere
rimasto sul terreno, getta in aria delle carte da gioco come una fattucchiera.
S’accuccia, borbotta un suo latinaccio gutturale che confina con i mugolii di
chi è troppo vecchio per parlare e con i ciangottii infantili. Qualcuno canta in
falsetto: entra una persona alta, elegantemente vestita di nero, una collana di
perle al collo, e un cammeo. Porta una scodella, posate e tovagliolo. L’atten-
zione si sposta al centro, dove c’è una tovaglia bianca apparecchiata per la
minestra. La tovaglia diventa un lenzuolo. Il lenzuolo un sudario. Inizia una
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storia che riguarda un padre militare che muore, un orfano e una vedova. La
Madonna nera, in fondo, al limitare del buio, quasi inosservata, si accoccola
sul pavimento – e poi, come se niente fosse, invece di rialzarsi mette le gambe
per aria, fa la verticale con i piedi al posto della testa. Qualcuno, fra gli spetta-
tori, guarda da quella parte e vede una Madonna a rovescio che mostra le
gambe.
Registica ironia: dice figurando di non dire. Perché questo, lo si voglia o
no, è il segnale che da qui in poi tutto lo spettacolo si rovescia. Il tempo potrà
camminare all’incontrario, e la storia traboccherà dal futuro prossimo al pas-
sato remoto, abolendo ogni ragionevole intreccio col presente.
Con mezzi ed astuzie diverse ma equivalenti, anche il variegato mosaico
di questo libro squaderna un mondo alla rovescia, una geografia che sulle carte
non c’è. Un teatro-mondo descritto per la prima volta minutamente nella sua
verità e vastità da uno dei suoi più coscienti abitanti. Cosciente, pedagogico e
meticoloso. Assai diverso da come ce lo lasciano immaginare le sue opere
sceniche.
La vastità di questo teatro-mondo è verticale, simile a quella di certi pic-
coli laghi vulcanici. Crateri navigabili, alcuni pescosi, altri solfurei; alcuni
esposti al turismo altri solitari e dediti al ghiaccio. Molto circoscritti, sono non
di rado sterminati perché in contatto con un remoto sottosuolo. Possono essere
arcigni o ridenti. Tutti, per una ragione o per l’altra, sono pericolosi.
Il titolo rovescia la nozione di differenza, che in genere è pensata come
una condizione di partenza e qui indica invece un traguardo. Così come “diffe-
renza” nasconde non solo il senso della solitudine ma anche quello della libe-
razione, in “conquista” si nasconde anche il dolore.
Il montaggio trasforma le pagine che l’autore ha pescate nella sua vasta
produzione letteraria in un patchwork cucito per il dritto e per il rovescio: dà

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Presentazione V

l’impressione d’una carta geografica, d’un microcosmo senza territorio, misto


d’avvenire e passato. Una storia-geografia che potrebbe essere immaginaria se
l’autore non ce ne presentasse le cronache.
L’autore è lo scrittore più prolifico, fra gli artisti e capitani teatrali con-
temporanei. Qui scrive tramite la rinuncia a scrivere cose nuove. Depone l’a-
bito del riconosciuto Maestro, e si comporta da maestro elementare: racconta,
scorpora, ricapitola, ripete le cose che ripetute giovano, indica alcune scorcia-
toie per sfuggire ai trabocchetti. Attento ai dettagli, preferisce l’eccesso di in-
formazioni alle parole scorciate delle parabole. Cura l’apparente disordine del
mosaico e l’architettura che gli dà un ordine apparente.
L’architettura si sviluppa come un ampio ventaglio istoriato retto agli
estremi da due domande in funzione di pilastri, diviso in cinque sezioni che
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ordinano i 39 paesaggi teatrali che il sottotitolo promette.


Le cinque sezioni sono altrettante regioni o scomparti della storia-e-geo-
grafia del microcosmo teatrale che il libro ricostruisce.
La prima sezione: qui vediamo la “contrada degli antenati”, le loro solitu-
dini che attirano e sviano i seguaci, abbacinati da un’immaginaria promessa
d’eredità. Vediamo anche alcuni di coloro che si ingegnano a rendere vive le
parole dei “maestri folli”, che parlano solo per il silenzio sul quale riposano –
come il vuoto che suona nel tamburo quand’è nascosto dalla ben tesa pelle
dell’asino..
La seconda sezione presenta colpi d’occhio nelle stanze in cui gli artigiani
e i poeti del teatro preparano le proprie armi o i propri ami – che in realtà sono
strumenti adatti non a ferire, ma a legare sorprendere scuotere e spaesare gli
spettatori. Strumenti che servono a contagiarli con filtri d’amore e di repul-
sione, d’indignazione e chiaroveggenza.
Terza sezione: ci aggiriamo fra le immaginazioni a specchio; il buon uso
dei fraintendimenti che legano attori e spettatori. Anche chi agisce nello spetta-
colo è suo spettatore. Ed anche chi è lì solo per guardare, nella propria immobi-
lità agisce a tutto spiano. Pencola a volte fra monotonia e sorpresa, indifferenza
e commozione, passività e spasso. Uno forse sonnecchia fra riconoscibili ov-
vietà (o verità), e magari, per un istante, quel che vede gli apre gli occhi.
La quarta sezione è la più strana. Esibisce un fascio di lettere, auguri con-
sigli gratitudini ed esortazioni, ognuna con un piccolo ritratto dei destinatari.
Segna l’intrico d’una rete di relazioni che lega esigue minoranze, sparse nei
punti più lontani del pianeta. Persone lontane che si parlano, a volte senza
neppure conoscersi, come si parlano i compaesani. Può darsi che per i gusti di
qualcuno questa sezione grondi un po’ troppo affetto, un po’ troppa amichevo-
lezza e solidarietà. Vi abbondano però i ritratti e i panorami. Possiamo inoltre

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VI Ferdinando Taviani

osservare la quantità e l’eterogeneità dei destinatari, le microstorie che rive-


lano; oppure valutare la totale assenza di quelle sottintese gerarchie che altrove
distinguono le persone sulla base della fama, del successo e delle bravure, di-
storcendo le reali fattezze del teatro-mondo. A volte, quasi per ristoro, c’è
anche del peperoncino. Quasi sempre, sotto la coltre della benevolenza, lo
sguardo è spietato: sguardo che il mittente indirizza di rimbalzo a se stesso
parlando ad altri. Alla fine, c’è come uno sberleffo, la letterina che chiude la
sezione, indirizzata ad un’alta autorità francese parigina e ministeriale – un
Ministro per la Cultura. L’autore lo redarguisce in poche righe, trattandolo
dall’alto in basso col sorriso che un ufficiale potrebbe rivolgere ad una recluta
sventata.
Lo redarguisce del tutto inutilmente: quella gente lì non è neppure in
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grado di ascoltarle le parole non intonate al bon ton del potere.


Mi fermerò un momento davanti a questa letterina. A tutta prima m’è
parsa di dubbio gusto. “Che dici, la lascio?”, m’ha chiesto Eugenio Barba. “Sì,
lasciala, lasciala”, gli ho sùbito consigliato, perché mi dava allegria: come una
ben assestata pernacchia. Poi mi sono reso conto che additava un microsco-
pico esempio del mondo come potremmo vederlo se non fossimo divorati
dalle apparenze. È un serio rimprovero per una trascurabile omissione di ca-
rattere burocratico ai danni d’un piccolo gruppo teatrale – che per trascurabili
disattenzioni del genere rischia come teatro di sparire. Il buon senso fa spesso
ridere per il semplice allontanarsi dal senso comune, soprattutto nei casi del
tipo “re nudo”. Sarebbe fantastico riuscire a vedere come normale il caso d’un
artista, un aristocratico scalzo, che fa un’educata lavata di capo ad un gallonato
servitore (dello Stato). Alla fin fine, è di noi che ridiamo, addestrati al rispetto
di fronte alla volgarità con parlantina raffinata, benissimo vestita, ben pagata e
con solenni distintivi all’occhiello.
Quinta sezione: chiusa la galleria delle lettere e spenta l’eco della pernac-
chia, sbocchiamo in uno di quei giardini mostruosi o contorti che piacevano
tanto a certi aristocratici di qualche secolo fa, che tentavano di materializzare
il sonno della Ragione (erano i giardini di fronte ai quali Goethe irreparabil-
mente si conturbava fin quasi a venir meno). “Paesaggi prima della battaglia”
li chiama l’autore. Ma perché dice “battaglia”?, e perché dice “prima”? Non
sarà mica un semplice gioco di parole a partire dal titolo del film di Andrzej
Wajda Paesaggio dopo la battaglia, basato sui racconti di Tadeusz Borowski?
Con queste cose Eugenio Barba non gioca (non giocherebbe mai con Bo-
rowski). La “battaglia” a cui si intitola questa sezione ha probabilmente a che
vedere con la seconda delle due domande cui abbiamo accennato.

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Presentazione VII

Le due domande agli estremi del ventaglio non contribuiscono certo a


dare stabilità a tutta l’architettura. Sono, come in certi emblemi d’un tempo, le
ali che il pittore metteva ai due lati d’una chiesa d’un palazzo o d’un panorama
per significare che potevano volare nella memoria. Qui al posto delle ali, ai
due estremi del libro ci sono due punti interrogativi. La prima domanda, nella
pagina d’inizio, viene posta all’autore e riguarda il senso della longevità del
suo teatro, longevità proverbiale (l’abbiamo già detto: l’Odin Teatret sta per
compiere cinquant’anni d’attività). L’altra, nell’ultima riga dell’ultima pagina,
è l’autore stesso a porsela: “Come lottare contro la dittatura della storia a lieto
fine?”. Il libro si chiude così. La domanda resta sospesa. Che significa esatta-
mente “lieto fine”, in questo contesto? E soprattutto: da dove esce, all’improv-
viso, quella parola: “dittatura”?
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***

Fra gli artisti che hanno profondamente segnato il teatro del secondo No-
vecento e d’inizio Duemila, Eugenio Barba è il solo ad aver tenacemente lavo-
rato in tutti i campi della cultura teatrale. Ha mostrato come possa essere uni-
ficata, sia in teoria che in pratica. Il che concretamente vuol dire che ha saputo
riunire, come in un comune villaggio, persone che aderiscono al teatro ma che
di per sé vivrebbero separate dalla diversità delle provenienze, dei linguaggi,
degli stili, delle tradizioni, specialità e mansioni. Non solo con i suoi libri e i
suoi saggi, tradotti in molte lingue, ma anche con l’azione. Ha infatti inventato
periodi di comune lavoro teorico-pratico soprattutto nell’ISTA, l’International
school of Theatre Anthropology; e poi in atelier, seminari, spettacoli, con-
vegni, feste e iniziative culturali.
Ha contribuito a trasformare il modo di pensare e raccontare la storia del
teatro. Ha posto le fondamenta d’una scienza del teatro capace di comparare le
diverse pratiche e le più lontane tradizioni. Ha curato i ponti fra la ricerca tea-
trale contemporanea e la Grande Riforma d’inizio Novecento. Ha eliminato le
distanze fra i teatri classici asiatici e i teatri indipendenti europei; fra questi ed
i teatri dell’America Latina. Ha inoltre individuato e messo in pratica le stra-
tegie per le quali la presenza del teatro può trasformarsi in strumento per riat-
tivare le relazioni fra gruppi, etnie e culture diverse, vincendo le inerzie della
pacifica indifferenza reciproca e sfuggendo all’egida di preordinate ideologie
organizzatrici.
Il giusto prezzo pagato per quest’opera di unificazione teorica e pratica è
stato la rinuncia al consolidamento istituzionale. La salvaguardia, cioè, della
propria dissidenza.

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VIII Ferdinando Taviani

Nel lontano 1964, Eugenio Barba ha cominciato andandosi semplice-


mente e letteralmente a sedere fuori dal cerchio teatrale riconosciuto. Non
c’era altro posto. Lì è rimasto anche quando lui e il suo ensemble sono stati
apprezzati, ammirati, e son diventati famosi. A questo punto non ha cambiato
strada. Mentre il raggio della sua azione si allargava, l’Odin Teatret è sempre
rimasto un piccolo gruppo d’una decina d’attori che svolgono tutti i còmpiti
inerenti la vita e l’organizzazione del teatro, senza alcuna divisione del lavoro.
L’Odin Teatret, cioè, è sostanzialmente rimasto così com’era all’inizio, quando
con spettacoli come Ferai, Min Fars Hus e Ceneri di Brecht, fra il 1964 e l’82,
scalarono le vette della celebrità internazionale.
Attraversata la “curva degli applausi”, Eugenio Barba e l’Odin Teatret
hanno proseguito per le loro strade torte, a volte scomparendo addirittura dai
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notiziari delle novità e dei festival. Entravano, intanto, nei libri di storia e fra le
voci delle enciclopedie. Sempre più spesso, accanto alle cerimonie per le
lauree honoris causa ad Eugenio Barba, nelle più diverse e prestigiose univer-
sità, fiorivano liberi incontri delle differenze teatrali.
Fedeltà e dissidenza non sono virtù, ma investimenti che mirano a so-
pravvincere il mutare delle circostanze. Comportano un costo: non capitaliz-
zare il successo che si raccoglie nelle “curve degli applausi”.
L’Odin, benché a volte sembri accantonato o dimenticato, in realtà non ha
mai perso il suo pubblico. Piccole folle, sparse qua e là per il mondo, tornano
a gremire i suoi spettacoli, a vederli e rivederli, anno dopo anno – e in essi, nel
loro succedersi e scandirsi, leggono alcuni segni su se stessi e sui tempi. A
volte si passano naturalmente la voce: sono figli e figlie che corrono a vedere
quel teatro della cui importanza i loro genitori hanno parlato. Importanza, il
più delle volte, per la loro vita, non solo per la storia astratta dell’arte.
L’Odin è certamente un teatro di successo. Ma il suo è soprattutto un suc-
cesso differente.
Abbiamo parlato della riunificazione della cultura teatrale operata da Eu-
genio Barba. Va detto sùbito che i suoi spettacoli non la rappresentano. Di essa
sono forse il controcanto o i contrafforti. Non celebrano appartenenze o comu-
nanza di idee. Di esse lacerano semmai l’illusione.
Molto teatro serve per sottoporre al giudizio del consenso o dei fischi i
manufatti di un’arte avvalorata dal comune cultural sentire. Altri teatri servono
a “star bene assieme” (sia pure solo ogni tanto e per poco). O per tentare di star
bene con se stessi (ammesso che quest’espressione indichi qualcosa di sen-
sato). A volte celebrano valori comuni. Altre volte, nei casi migliori, provo-
cano condivisi o condivisibili giudizi politici o morali. Gli spettacoli inventati
da Eugenio Barba, no. Dividono. Spesso lo spettatore si scopre scosso fuori

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Presentazione IX

dai suoi consolidati pensieri, dalla sua usuale abitudine a far camminare di
pari passo comprensione, giudizio ed emozione. Quasi sempre in pratica ti
viene negato il piacere, tanto forte quando si fa parte del “pubblico” d’uno
stesso spettacolo, di sentire il tuo pensiero marciare di pari passo col pensiero
degli altri. Il piacere per cui puoi presumere che il tuo vicino veda le stesse
cose che tu stesso stai vedendo, la stessa storia, la stessa trama: la potente e
bella illusione di sentire capire e vedere allo stesso modo degli altri.
L’epilogo della Vita cronica regala la strana esperienza di sedere spalla a
spalla con un tuo simile da cui sei nello stesso tempo distantissimo. È forse la
sensazione che vivono gli strumenti d’una stessa orchestra (non i suonatori,
ma gli strumenti, nei limiti in cui anch’essi vivono e a modo loro pensano)
quando suonano assieme temi in contrasto o indipendenti.
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C’è un morto che non è morto, un giovane che riemerge dal feretro dove
l’hanno infilato, o a cui s’è rassegnato in cerca di pace. Fuoriesce, smette di
cercare e soffrire – finalmente sorride. Gli compare accanto un gemello cieco.
Quest’ultimo suona il violino in maniera tanto giusta che tutti noi non pos-
siamo fare a meno d’esserne commossi, dopo esser stati mossi da canti e fan-
fare piene di vitalità. Commossi – ma ciascuno sulla sua via divergente. I ge-
melli a lungo reclusi ed isolati trovano ora porte aperte. Ridono come bambini
che scendono di casa per giocare. Si portano dietro una pistola. Che ha un
proiettile in canna. Escono. Lo spazio scenico, rimasto solo, comincia allora a
gocciolare, come quando fra le assi d’una baracca ghiacciata la neve si disgela
e imita la pioggia trapelando. O come quando un edificio s’abbandona con
tutte le sue vene e le sue tubature al proprio naturale desiderio di crollare.
È così, tanto per fare un esempio, che il lieto fine sfugge alla dittatura che
lo nutre?
***
Consiglierei al lettore di introdursi in questo libro anche partendo dalle
ultime pagine, dall’Epilogo. È bene sapere fin dall’inizio che qui vi sono due
geografie: quella dei 39 paesaggi e una geografia del cuore che resta dissimu-
lata. Forse non soltanto per il lettore.
L’autore sembra a volte che lotti con se stesso anche per interposta per-
sona, lottando con coloro a cui piace, che lo amano ed amano le sue opere.
Quasi che l’Angelo Custode fosse un avversario. E viceversa.
Forse è per questo che l’autore evita la scrittura che mima l’introspezione.
Nel pezzo intitolato Eftermæle, si riconosce in un botta-e-risposta brech-
tiano: “I giovani vi aspettano, signor Brecht! Voi siete un mito per noi in Ger-
mania!”. “Troverò un rimedio a tutto questo”.

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X Ferdinando Taviani

Per molta gente amante delle arti e del teatro, Eugenio Barba è poco più
d’un nome oscuro o intrasentito. Ma per molti altri è invece da tempo un per-
sonaggio leggendario. Il che, per la persona chiamata ad essere un tale perso-
naggio non è mai salutare né facile da sopportare. Saldamente al comando del
suo teatro che naviga ormai dal tempo d’una vita, bersagliato dalla venera-
zione, esposto persino ai veleni d’un certo culto della personalità, spinto dalla
fama e dall’età verso il recinto dell’autobiografia, Barba in questo libro si
smarca: apre il ventaglio dei suoi 39 paesaggi, e prende il vento.
Da quando lo conosco e collaboro con lui, ho spesso dovuto combattere
con uno spettro professionale: perché non pensare a scrivere una sua biografia?
Ma come si fa? Come si sentirebbe uno che si costringesse a pensare come
scrivere la vita di qualcuno con cui scambia le idee e le burle, le paure e la
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corsa? Un fastidio profondo mi ha condotto a scoprire la profonda menzogna


che fa il bello e il brutto delle biografie non completamente inventate. E che
nelle autobiografie non inventate può sfociare in qualcosa di letterariamente
affascinante, ma che comunque non può non essere un’ingiuria alla vita.
Detto ciò, questo libro può anche essere visto come l’impronta di un’au-
tobiografia scampata.
La voce che sale da queste pagine è più unica che rara nella cultura con-
temporanea. È stato detto che Eugenio Barba è fra i condottieri di teatro “il
meno segreto – e il più misterioso”. Mezza riga, per niente altisonante, sem-
plice, elegante, stringata e – se possibile – perfetta. Sarebbe bastata a presen-
tare La conquista della differenza. L’ha scritta il mio amico e collega Jean-
Marie Pradier. Non l’ho scritta io. E me ne dispiace.

Vànvera, 29 ottobre 2011

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Eugenio Barba

La conquista
della differenza
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A Franco, Mirella, Nando e Nicola
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LA CONQUISTA DELLA DIFFERENZA*

Cara Mirella,
mi chiedevi recentemente cosa si senta stabilendo un record di longevità.
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Nell’ottobre del 2004, l’Odin Teatret ha compito quaranta anni. È tentante


fermarsi un momento e guardare in quale contrada ci hanno portato tanti anni
di teatro. E riflettere sulla propria storia.
Ma le riflessioni condotte sulla propria pelle seguono sempre linee con-
torte, e procedono per divagazioni e sovrapposizioni, ripercorrendo vecchie
idee e storie conosciute. Possono eludere la determinatezza, ovvero la tenta-
zione di un assennato bilancio, solo sotto forma di reazione istintiva alle do-
mande di qualcun altro. Anche le considerazioni personali – come i sentimenti
di cui parlava Stanislavskij quando metteva in guardia gli attori dal rappresen-
tarli direttamente – sboccano in pensieri addomesticati, se ci illudiamo che la
nostra memoria possa dar loro forma. Le riflessioni che ci raccontano sono
reazioni. Dipendono dall’azione di un partner reale o immaginario che ci de-
cida a reagire.

Una reazione e molte domande


Un partner, in questo caso, l’ho avuto, ed era reale. Una serie di domande
circostanziate e stringenti da parte di un amico mi ha obbligato ad osservare la
vicenda mia e dell’Odin Teatret in una luce straniata. L’amico, Ian Watson, mi
intervistava un paio di anni fa per un suo libro su multiculturalismo e teatro.
Secondo lui, la storia dell’Odin avrebbe potuto sintetizzarsi nella formula del-
l’esperienza e della pratica multiculturale. Lo dimostrava elencando una serie
di elementi concreti.

* Lettera alla studiosa di teatro Mirella Schino sull’indeterminatezza della memoria auto-
biografica. Pubblicato la prima volta in “Teatro e Storia” n. 25, Roma 2005.

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14 Eugenio Barba

Diceva: “Siete un teatro fatto di persone provenienti da differenti paesi,


lingue e continenti. La vostra storia è il risultato di una serie di emigrazioni.
Per lunghi periodi vi radicate in paesi lontani dalla Danimarca. I vostri spetta-
coli sono spesso poliglotti. Oltre al normale commercio di opere e progetti
teatrali, praticate anche il baratto, scambiate cioè i vostri spettacoli con i pro-
dotti culturali dei gruppi che vi ospitano, feste, danze, musiche, canti, attività
artistiche e performative, in villaggi lontani o scuole, ospedali, carceri, asso-
ciazioni di quartiere. Avete coniato il termine bizzarro transformances per in-
dicare quei progetti che non si limitano alle performances, ma mirano a tra-
sformare, per un breve periodo, il volto di una città, fanno affiorare e rendono
visibili, in forma di rappresentazioni, le sue diverse componenti, le differenti
culture che la abitano, intrecciandole e mettendole in relazione”.
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Aggiungeva la prova del nove di questa nostra vocazione al multicultura-


lismo: il fatto che accanto all’Odin fosse sorta l’ISTA, l’International School
of Theatre Anthropology, che dal 1979 raduna nelle sue sessioni attori, registi,
maestri di teatro e studiosi dei diversi continenti, e teatri d’Oriente e d’Occi-
dente.
Quando Ian Watson sosteneva che la definizione di “teatro multiculturale”
sarebbe stata calzante non potevo dargli torto. Eppure, non riuscivo a dargli
ragione.
Qual è il senso della longevità del nostro teatro? Che sia fatto da persone
e per persone di origini differenti, o persino di svariate tradizioni culturali e
teatrali, non mi sembra rilevante. Mi interessa altro: la possibilità che il con-
tatto con mondi diversi diventi una via per prendere le distanze da se stessi,
dalle proprie origini e dal proprio mondo di appartenenza per dare origine a
qualcosa d’altro.
A me, della storia dell’Odin Teatret, delle persone che abbiamo incon-
trato, delle relazioni che abbiamo instaurato, delle nostre strategie di sopravvi-
venza, interessa soprattutto l’aspetto del rifiuto e dell’evasione. Un modo
lungo e testardo di perseguire una nostra differenza. Differenza da chi? E da
che cosa?
L’amico Ian Watson era più sorpreso che deluso dalla mia riluttanza. Co-
minciò a chiedersi come mai io fossi così renitente ad impostare la questione
da un punto di vista generale e tendessi continuamente a rispondere alla luce
della mia autobiografia. È vero, l’atteggiamento autobiografico è spesso un
modo per disimpegnarsi. Sfuggivo alle esigenze del lavoro intellettuale? Mi
rifiutavo di allargare l’angolo della mia visuale? Mi sentivo forse assediato
dalle esigenze di tracciare un bilancio oggettivo? Oppure miravo ad un altro
bersaglio?

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La conquista della differenza 15

Se guardo la storia dell’Odin Teatret, specie ora, quando essa è in gran


parte alle nostre spalle, vedo qualcosa di completamente diverso da un in-
treccio e dialogo di culture. Vedo il teatro come luogo paradossale, in cui la
creazione di un’opera comune presuppone non solo personalità diverse, ma
ferocemente ed egoisticamente distanti tra loro, non solo con culture diffe-
renti, ma persino con fini, ideologie e sensibilità contrastanti.
Le domande di Ian Watson mi costringevano a chiedermi: se le mie scelte
non erano il desiderio ed il tentativo di allargare i confini del mio territorio
culturale, da cosa derivavano? Cosa ho cercato per tanti anni, con tanta ostina-
zione? Così, mi sono ritrovato e ripercorrere mentalmente vicende che co-
nosco bene cercandone i perché, e trovandomi di nuovo disorientato. Mi servi-
vano modi inusuali per orientarmi, nuove parole.
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Le parole, però, non sono mai nuove. Quel che cambia è la luce che le il-
lumina e le ombre che le accompagnano. Luci ed ombre complementari ora
battagliano in maniera inconsueta intorno ad un termine logoro: differenza.
La differenza può essere sperimentata come una circostanza data, che
genera sofferenza, oppure orgoglio. Ma credo che la differenza possa essere
anche un punto d’arrivo, una difficile conquista. Quando si è giovani, ci si
sente come un punto nero in un mondo cui non si appartiene. Invecchiando, è
questa non-appartenenza che, a volte, ci consente di vivere nel mondo. Ab-
biamo imparato quanto vale una differenza che incuta rispetto.

La propria terra
Quando ero adolescente, nel profondo Sud dell’Italia, bastava che mi
spostassi di pochi chilometri verso Nord per sentirmi straniero ed essere “di-
verso”. A Gallipoli, dove crescevo come figlio d’una famiglia borghese,
ignoravo completamente le manifestazioni della cultura “popolare”. Molti
anni dopo, ho appreso con stupore dai libri di Ernesto De Martino, che avevo
vissuto nella culla del tarantismo: trance, musica e danze strutturate in una
cerimonia terapeutica e performativa della cui esistenza non avevo avuto il
minimo sospetto.
Per tre anni, ho studiato in una scuola militare. A diciott’anni, disgustato
dalla disciplina, sono fuggito il più lontano possibile. In Norvegia, come emi-
grante, ho dovuto far fronte al problema vitale di integrarmi in un contesto
dove i costumi, la mentalità, le relazioni fra i sessi e le gerarchie di lavoro di-
ventavano per me veri e propri traumi culturali. Ho dovuto riadattare il mio
modo di comportarmi, a partire dalle radici. Persino la mia coscienza storica
veniva profondamente rimodellata. Mi avevano insegnato che nel 1936 l’Italia

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16 Eugenio Barba

aveva occupato l’Etiopia per portare la civiltà a una popolazione barbarica.


Quante volte mia madre m’aveva ripetuto che, quand’io nascevo, mio padre
era un coraggioso capo militare in quelle terre. Ed ora, i norvegesi e i loro libri
mi parlavano d’una guerra di sterminio. Lo choc culturale colpiva la mia stessa
identità familiare. Vi furono molti altri choc.
Abbandonai il mio ambiente borghese e la calda, cattolica Italia meridio-
nale, perché non riuscivo ad identificarmi nella storia, nelle nostalgie e negli
ideali del mio paese e del mio ambiente. Assunsi l’identità sociale d’un emi-
grante, un lavoratore meridionale in un universo completamente opposto: la
fredda, luterana Norvegia. In questo mondo proletario, scoprii la lotta di
classe, l’efficacia dello sciopero e della solidarietà, ma anche la xenofobia ed
il razzismo. Ero un dago, un wop. Sono termini intraducibili, perché indivi-
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duano preconcetti ricorrenti in situazioni lontane. In Italia, gli emigrati che dal
Sud si recavano a lavorare al Nord erano detti “terroni”. Ma io, anche se fossi
andato da Gallipoli a lavorare a Milano o Torino, pur essendo un “terrone”, mi
sarei portato dietro i segni della mia provenienza borghese. In Norvegia, in-
vece, l’emigrazione era completa: dal mio paese, dalla mia lingua, dal mio
passato e dalla mia classe sociale. Dovetti imparare a parlare e pensare in nor-
vegese, tendendo sempre l’orecchio per decifrare il sottotesto delle parole e
dei comportamenti attorno a me. La mia condizione esistenziale mi rese “dif-
ferente”, e questa posizione non era mai neutra. Per alcuni norvegesi era un
elemento negativo, per altri rappresentava, invece, una qualità. A quel tempo
non fu certo un atto pieno di consapevolezza, ma ora non posso confondermi:
lasciare l’Italia comportava la scelta di abbandonare le mie più profonde ra-
dici, italiane e borghesi, quelle che mi avrebbero dovuto e potuto proteggermi.
Il mio fortissimo desiderio di fuoriuscire dal background italiano non si
tramutava nella voglia di diventare norvegese. Mi rendevo oscuramente conto
che le “radici culturali” sono sinonimo di confinamento, d’orizzonte ristretto.
Volevo rompere i legami che limitavano la mia libertà mentale e avvicinarmi
alla “alterità” oscura e senza definizioni che era dentro di me, nei cui confronti
la cultura che mi circondava frapponeva ostacoli. Non volevo esser radicato in
una nazione, in una cultura o in una classe.
Lottavo per qualcosa di ben preciso, per affondare le mie radici in cielo,
in un paese dai valori senza frontiere, dove le verità fossero il frutto di un
conflitto e d’una conquista personale.
Sento ancora l’eco, dentro di me, di questa sensazione di illuminazione,
come se io avessi ereditato la terra intera, tutti i suoi paesaggi e le sue culture,
il suo molteplice passato e il suo futuro confuso. Avevo diciott’anni. Ancora

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La conquista della differenza 17

non sapevo che ricevere un’eredità significa sottoporla ad una metamorfosi,


che l’erede è sempre un infedele.
L’età m’ha fatto capire che se il teatro è una scoperta, questa è basata sulla
resurrezione del passato grazie alla irripetibile temperatura personale di cia-
scuno di noi. Ma questo passato non era incrostato d’una sola cultura e d’una
sola nazione. Era la simultanea e contigua presenza di tutti i passati.
Non era il crocevia delle culture ad affascinarmi. Non ho mai desiderato
coscientemente di situarmi ad un tale crocevia. Volevo essere un “viaggiatore
della velocità”. Ci sono persone che vivono in una nazione ed in una cultura. E
ci sono persone per le quali il territorio in cui vivere è il proprio corpo. Sono i
viaggiatori che attraversano il Paese della Velocità, uno spazio e un tempo che
non ha nulla a che vedere con il paesaggio e le stagioni del luogo che si trovano
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ad attraversare. Ho accennato a tutto questo nel mio libro Teatro. Solitudine,


mestiere, rivolta.
Si può restare fermi nello stesso posto per mesi ed anni ed essere un
“viaggiatore della Velocità”, che va lontano migliaia di anni e di chilometri,
all’unisono con i pensieri e le reazioni di uomini e donne distanti da lui per il
colore della loro pelle e della loro storia.
Scrivendo La canoa di carta, Trattato di Antropologia Teatrale ero co-
sciente che l’analisi pre-espressiva di tecniche d’attore non-europee avrebbe
comportato facilmente un’interpretazione “interculturale” meccanica e duali-
stica, secondo lo schema Oriente-Occidente, con tutti i suoi ricorrenti cliché
politici. In quel libro mi identificavo nella “cultura della transizione”. Credo
che i Riformatori europei – i ribelli e gli eretici come Stanislavskij, Mejer-
chol’d, Craig, Copeau, Artaud e Brecht – siano stati i creatori di un teatro della
transizione. Le loro vite e le loro opere hanno demolito i modi di vedere e di
fare spettacolo, stabilito nuove relazioni con lo spettatore, stimolato una nuova
consapevolezza della loro arte come agente politico, etico o spirituale. Hanno
iniettato un valore e significato nel guscio d’intrattenimento del nostro me-
stiere.
È un atteggiamento che ha le sue radici in uno stato di transizione, nel ri-
fiuto dello spirito del tempo. Non può esser passivamente trasmesso alla gene-
razione futura. Bisogna scegliere d’essere i loro eredi e conquistarsi la loro
eredità con uno sforzo solitario che la trasformi e personalizzi.
Lentamente, rispondendo a Ian Watson, cominciavo ad intravedere non
solo la mia scelta della differenza, ma anche altro. Quanto sia faticoso sce-
gliere di essere sempre diversi. Nomadi con radici, ma con radici in cielo.
I protagonisti della Grande Riforma delle scene, nel Novecento, i morti
che restano sempre giovani, hanno frantumato il secolare modello di teatro

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18 Eugenio Barba

esistente in Europa, dando forma ad un ecosistema teatrale con varie nicchie e


“piccole tradizioni nomadi”. Queste “piccole tradizioni nomadi”, dalle tec-
niche fuggevoli, ma dalle motivazioni individuali forti, hanno vita breve. Ep-
pure viaggiano e si evolvono quando i loro specifici valori vengono incorporati
da altri artisti indipendentemente dal luogo e dal contesto originario. L’eredità
conquistata è sempre incorporata e presuppone uno strappo rispetto alle pro-
prie origini.
Non è di per sé rilevante il fatto che persone di differenti tradizioni e pro-
venienze si riuniscano. Interessante è chiedersi perché questo avvenga. Mi
sembra che i motivi possano essere due, e completamente opposti: o perché le
loro differenti identità culturali si combinano in una sorta di complementarità,
sotto forma di varie specializzazioni, in una sorta di divisione e organizzazione
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del lavoro. Oppure per il bisogno di allontanarsi ciascuno dalla propria pro-
spettiva originaria, di evadere dalla propria terra e dalle proprie radici, per
creare una nuova Heimat, una casa d’arte, un mondo diverso. Mondo minu-
scolo: microcosmo o microsocietà.
In quest’ultimo caso, insistere sulla dimensione multiculturale crea più
confusione che chiarezza. In fondo non è pertinente. Concentra l’attenzione
sulla veste esterna, non sulla sostanza. Benché il mio teatro indossi un abito
multiculturale.
Tu invece, nei tuoi scritti, ami insistere sull’importanza della separazione.
Dici che nei secoli passati il popolo del teatro era separato dalla società per
discriminazione e sostanziale disprezzo. Sostieni che quando quest’ingiusta
emarginazione venne risarcita, si rischiò di perdere anche ciò che essa produ-
ceva di utile: una mentalità che induceva i professionisti del teatro ad assumere
un modo di pensare separato dal senso comune. Era questa visione parados-
sale che permetteva loro di distaccarsi dalle logiche rettilinee nel-
l’interpretazione dei personaggi e delle storie rappresentate. Ed il susseguente
atteggiamento costituiva la base di interpretazioni complesse basate su logiche
parallele e a volte contrastanti. Ti chiedi quale sia l’equivalente di quell’antica
separazione – capace di allenare ad un modo diverso di pensare – nelle mo-
derne microculture teatrali. Proponi di individuarlo nelle norme che le rego-
lano dall’interno, in certi sogni di creare comunità utopiche ed autonome,
persino in quelle pratiche professionali e personali che chiamiamo training.
Tutto questo, che nel suo aspetto più evidente o di superficie sembra riguar-
dare l’ideale da una parte, e dall’altra la quotidianità dell’artigianato, avrebbe
il compito profondo di permettere una via diversa al pensiero. Questo equiva-
lente dell’antica separazione cambierebbe, oggi, il comportamento mentale e
non solo il fisico di chi fa teatro.

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La conquista della differenza 19

Da qui dipende la longevità d’una microcultura come la nostra dell’Odin?


D’accordo. Tu però ti servi sempre di espressioni come separarsi, distac-
carsi. A me questi termini non paiono esatti. Credo che la parola appropriata
sia distinguersi, cioè marcare un confine, una linea di diversità, ma senza per-
dere affatto il contatto con il mondo circostante.
È il fatto d’esser distinti, ma non separati, a far nascere l’illusione che la
chiave adeguata per la comprensione sia quella sociologica e antropologica
della multiculturalità. Per questo la via più veloce, per rispondere alle tue do-
mande, m’è parsa rispondere alle domande non tue, ma di Ian.

Viaggi verso la differenza


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È sempre possibile utilizzare la prospettiva multiculturale per osservare i


fenomeni teatrali, ma la pertinenza d’una tale prospettiva deve essere prima
dimostrata.
Niente impedisce di dire che l’Odin Teatret è multiculturale. È stato
creato in Norvegia da sedicenti attori il cui regista d’origine italiana aveva ri-
cevuto la sua iniziazione professionale in Polonia.
Oggi, il nostro teatro, a Holstebro, è un caravanserraglio con persone
d’ogni parte del mondo: scandinavi, italiani, francesi, inglesi, spagnoli, tede-
schi, nordamericani e sudamericani, persone venute dal Giappone o dallo Sri
Lanka. Viaggiamo e soggiorniamo per lunghi periodi in molti paesi ed ab-
biamo stabilito una stretta rete di iniziative e di collaborazioni con attori e
studiosi di differenti nazionalità. Ma tutte queste persone, culture, tradizioni,
tutte le immagini che abbiamo visto, gli spettacoli e le storie che abbiamo in-
contrato non le abbiamo cercate per arricchirci, ma per altro: perché ci aiutas-
sero ad evadere. Da dove? Dalla nostra cultura d’origine, dalle tradizioni del
teatro in mezzo al quale eravamo nati. Dalle piccole tradizioni e sicurezze che
noi stessi avevamo fondato.
Se si osserva da vicino il nostro lavoro e le piccole abitudini, i valori verso
cui sentiamo di dover essere fedeli, i morti vivi nella nostra memoria, allora si
può scoprire una affinità indefinibile, una mentalità, che riguarda solo il la-
voro, e che fa di noi una microcultura, un piccolo mondo differente. Tutto
questo, però, è stata una lenta conquista, e non deriva certo dalla mescolanza e
dall’integrazione di culture e tradizioni.
Avere radici in cielo può sembrare una bella immagine, utile per la reto-
rica. Ma nasconde la realtà di una vita turbolenta, la scelta d’un continuo mu-
tare che non è fine a se stesso, ma tenta di contrastare la nostra tendenza al ra-
dicamento. Nasconde una scelta, mai facile, di instabilità. Forse tutte le nostre

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20 Eugenio Barba

relazioni o incontri o decisioni più importanti possono essere ri-raccontate alla


luce di questo spirito di avventura senza requie.
Spesso, quando si guarda al proprio passato, si tende a dimenticare gli
innumerevoli zig-zag del caso, le lunghe deviazioni, gli innumerevoli détours
senza senso a cui le circostanze ci hanno costretto. Non erano “ricerche” di
qualcosa, solo sintomi di irrequietezza, di desiderio di avventura, l’impres-
sione che la fortuna ci attendeva da qualche parte. Molte delle mie più improv-
vise e azzardate decisioni sono state frutto del caso: l’incontro con una donna,
l’antipatia o la simpatia per un uomo. Ora lo so: non si trattava del semplice
desiderio di imparare né dell’amore del rischio. Un filo rosso mi ha guidato
alla mia condizione di emigrante, di straniero perenne, e mi ha spinto in questo
labirinto di incontri-confronti e di aspirazioni: il bisogno di difendere la mia
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dignità e la mia non-appartenenza. Se guardo indietro lo vedo con chiarezza:


mi ha guidato a scoprire il teatro come isola di dissidenza. Incomprensibile.
Non sempre giustificabile. Essenziale.
Anche il teatro asiatico ha avuto in primo luogo, per me, la forza potente
di un miraggio da rincorrere, di un filo da seguire per uscire dai miei confini.
All’inizio era un modo per scavalcare l’orizzonte della mia cultura italiana. Mi
immersi nei libri sull’induismo e sul buddismo. Divenni marinaio per poter
andare a toccare i luoghi in cui aveva vissuto Ramakrishna. La mia “Asia”
erano nomi di luoghi abitati da eremiti e da filosofi. Era una regione del Paese
della Velocità.
Quando cominciai a lavorare nel teatro, quest’Asia sognata mi è stata una
guida fondamentale. Un esempio metà riscoperto, metà reinventato: una’idea
dinamica che mi aiutò ad uscire dalle pastoie dell’autodidattismo.
I primi anni come autodidatti, la necessità di giustificare la scelta del me-
stiere teatrale e la ricerca delle fonti per apprenderlo in un ambiente che era
indifferente nei nostri confronti sono stati, secondo me, i fattori determinanti
della storia dell’Odin Teatret. Più delle idee e delle teorie, sono state le costri-
zioni e la necessità di evadere a condurci verso soluzioni inaspettate.
Una di queste costrizioni – fondamentale per l’identità tecnica ed emozio-
nale dell’Odin – è stata l’emigrazione dalla Norvegia alla Danimarca. I nostri
attori norvegesi avevano difficoltà a farsi intendere dagli spettatori danesi
nella nuova sede di Holstebro. Era per noi una questione di sopravvivenza riu-
scire a creare degli spettacoli la cui drammaturgia non fosse tutta basata
sull’interpretazione di un testo e sulla comprensione delle parole, ma sulla
prossimità e l’intimità, su azioni o “attrazioni” – come le avrebbe chiamate
Ejzenštejn – capaci di irretire la percezione dello spettatore a livello sensuale,
sensoriale, vocale e dinamico.

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La conquista della differenza 21

Nessuno si serviva del termine “multiculturalismo”, alla fine degli anni


Cinquanta, quando cominciai ad interessarmi al teatro. Nessuno si occupava
dell’importanza di un incontro tra la cultura teatrale europea e quella asiatica.
Non vi era una conoscenza di prima mano degli spettacoli di altri continenti.
Quello che creava fermento in Europa, allora, erano gli impressionanti spetta-
coli del Berliner Ensemble di Bertolt Brecht; il mimo di Marcel Marceau che
riusciva ad affascinare un grande pubblico senza usare testi, solo con mezzi
fisici; i testi d’avanguardia di scrittori come Ionesco, Beckett, Adamov e
Mrozek.
Ma i libri registravano anche altro. Per esempio l’interesse di Mejerchol’d,
di Ejzenštejn, di Dullin, Artaud, Claudel o Brecht per le forme classiche dello
spettacolo asiatico. Era una indicazione. Neppure loro avevano un’esperienza
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pratica del teatro asiatico. Con l’eccezione di Claudel che aveva vissuto in Cina
e Giappone, tutti gli altri artisti che ho nominato non avevano visto gli attori
asiatici a casa loro, ma solo in tournée, nel contesto di un teatro e di un pubblico
europeo. Eppure la visione dell’Asia era stata fondamentale, per tutti loro.
In quanto autodidatta, ero ossessionato dal problema della competenza
professionale. Malgrado la mia mancanza d’esperienza, dovevo insegnare
qualcosa a coloro che volevo diventassero i miei attori. Ho cominciato con il
nocciolo degli esercizi che avevo visto fare agli attori di Grotowski nel periodo
in cui ero stato a Opole. Alcuni dei miei giovani aspiranti attori avevano se-
guito corsi di mimo o balletto, così divennero “istruttori” dei compagni. Ma
anche in quei campi non erano maestri. Vi si erano affacciati da principianti.
Più che ad una cultura teatrale mista o sincretica, la nostra assomigliava ad un
bric-à-brac. Come far crescere un genuino sapere dal bric-à-brac?
Facevo ricorso ai libri che potevano fornirmi esempi e consigli concreti.
Stanislavskij, Dullin e Vachtangov erano estremamente utili. Studiavamo le
foto del lavoro pedagogico e degli spettacoli dei Riformatori europei e crea-
vamo degli esercizi in cui cercavamo di ricostruire le posture degli attori. E poi
facemmo un passo successivo: utilizzammo anche immagini del Kabuki e del-
l’Opera di Pechino. Animando la staticità delle immagini, gli attori ed io co-
struivamo una struttura dinamica, un “esercizio” che immettevamo nel nostro
training. Non pensavamo certo che quegli esercizi, che chiamavamo cinesi o
giapponesi, avessero qualcosa a che fare con il modo in cui realmente recita-
vano gli attori giapponesi o cinesi, ma questo procedimento ci stimolava, pro-
duceva conseguenze. E le conseguenze erano nostre.
Lo stesso accadeva quando ci occupavamo delle voci dei differenti artisti
del canto, dall’Opera italiana ad Armstrong, dai canti gregoriani ad Yma
Sumac, dalle improvvisazioni sui raga indiani ai canti di caccia dei pigmei,

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22 Eugenio Barba

dallo joruri – il canto del Bunraku – alla recitazione dei contastorie siciliani.
Ripetavamo le loro intonazioni, le asperità e le modulazioni della voce nello
sforzo di mettere allo scoperto e rivitalizzare le potenzialità e sfumature della
voce umana, che possediamo al momento della nascita, e che poi abbando-
niamo quando selezioniamo quel che serve alla lingua in cui cresciamo.
Per fortuna non eravamo imitatori molto dotati. Così scoprimmo le nostre
voci.
Durante questi primi anni, i diversi teatri asiatici erano ai miei occhi una
sorta di Arcadia teatrale, con eroine piene di forza e guerrieri dotati di grazia,
con fantastici animali ruggenti, vibranti barche all’ancora, mari d’azzurro
smalto, cime silenziose di montagne… e tutto questo incarnato dall’arte d’uno
stesso attore. Il modello che gli autodidatti dell’Odin Teatret volevano emulare
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era l’eccellenza professionale. Non cercavamo l’“autenticità” di un Oriente


mitico, con le sue filosofie, le sue tecniche codificate, i suoi suggestivi co-
stumi. Il teatro per noi era impegno nei confronti della polis, la possibilità di
prendere posizione e seguire la via del rifiuto. In questa prospettiva, i teatri
asiatici non erano certo modelli particolarmente significativi.
Solo nel 1973, una decina d’anni dopo il consolidamento dell’Odin Tea-
tret, facemmo esperienza del teatro giapponese, oltre i suoi diversi stili e spet-
tacoli, anche ciò che stava loro dietro. Vedemmo le dimostrazioni di lavoro di
artisti come Sawamura Sojuro, Hisao e Hideo Kanze. L’aiuto prezioso di
Frank Hoff ci permise di organizzare un seminario ad Holstebro che a quei
tempi sembrava impossibile, riunendo sotto lo stesso tetto il Kabuki, il Nô e
gli attori del teatro contemporaneo di Shuji Terayama.
Due anni dopo, l’Odin Teatret organizzò un seminario sul teatro e la danza
di Giava e di Bali. Così incontrai I Made Pasek Tempo, il maestro balinese che
nel 1980 fu tra i cofondatori dell’ISTA e collaborò con me fino all’anno della
sua morte, nel 1991. E ancora, nel 1977, durante un altro seminario dell’Odin
sulla danza e il teatro indiano, ho incontrato una giovane danzatrice Odissi,
Sanjukta Panigrahi e suo marito Ragunath. Fu l’incontro con una sorella: in-
telligente, bella, forte, sensibile, coraggiosa e generosa. L’ho ammirata ed
amata profondamente. Mi tornano in mente le molte domande che ci facevamo
a vicenda, le nostre lunghe conversazioni, la notte, quando già tutti gli altri
erano andati a dormire, le sue dettagliate eppure suggestive dimostrazioni e le
sue personalissime spiegazioni. Sanjukta non è stata soltanto fra i fondatori
dell’ISTA, è stata indiscutibilmente la sua regina.
Raccogliere i fondi per una sessione dell’ISTA implica uno sforzo
enorme, scrivere e riscrivere infinite richieste, fare e rifare preventivi, stringere
i denti, imprecare e non darsi per vinto. Fatica e pena erano compensate dal

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La conquista della differenza 23

sapere che avrei incontrato ancora una volta Tempo, Katsuko Azuma, Kanichi
Hanayagi, Ragunath. E sopra tutti, Sanjukta. Non riuscirò mai ad accettare
l’ingiustizia della sua morte prematura.
L’India, il Giappone, Bali, le loro culture e le loro tradizioni sono paesi
lontani. Ma le persone divenute con gli anni compagni di lavoro fanno parte
del mio stesso paese. Vi hanno portato le loro conoscenze, ma anche le loro
esigenze. Hanno fatto nascere in me nuove curiosità. Hanno rotto gli schemi
fragili e preziosi che noi dell’Odin ci eravamo costruiti. Ci hanno spinti via più
di una volta, fuori dal nostro ordine.
Mi rendo conto che, osservata dall’esterno, la vicenda dell’Odin Teatret
può sembrare segnata dal progetto di unificare differenti culture teatrali, con-
frontarle, mettere a frutto le loro complementarità. Ma se penso ai miei sogni
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giovanili sul teatro asiatico, se penso ai miei rapporti con Sanjukta o con altri
maestri, mi sembra che l’essenziale fosse altro. Il mondo magico del teatro
asiatico è stato per me come una fune, seguendo la quale potevo arrampicarmi
fuori dalle ovvietà, non solo quelle di un mondo teatrale a cui non volevo
aderire, ma anche quelle delle nostre regole, di ciò che avevamo inventato e
che eravamo troppo poveri o troppo timorosi per abbandonare senza una
spinta. Cominciammo da “differenti” perché eravamo giovani teatralmente
poveri, nati fuori dalle grandi tradizioni occidentali. Poi diventammo “diffe-
renti” per scelta e vocazione.
È per questo che, per me, il teatro non può limitarsi allo spettacolo: perché
deve trovare modi sempre nuovi di nutrire la propria sovversione. Un partico-
lare tipo di sovversione per impedire che non solo le idee, le convinzioni e le
abitudini altrui, ma anche le nostre proprie ricchezze, credenze, piccole como-
dità, la routine e il sapere si sedimentino in una prigione.
Fin dai primissimi giorni della mia attività di regista e di pedagogo, per
esempio, due sono state le questioni che mi hanno ossessionato – e ancora mi
ossessionano. La prima domanda è: perché Stanislavskij o Mejerchol’d hanno
inventato i loro “esercizi” per preparare gli attori? L’esperienza mi dice che un
attore può essere bravissimo negli esercizi senza riuscire a conservare la stessa
qualità durante le prove di uno spettacolo. Non ci sono connessioni tra i risultati
nel training e i risultati creativi. Allora perché fare gli esercizi?
Anche la seconda domanda è arrivata presto, quando per la prima volta
vidi, in India, uno spettacolo di Kathakali. Era il 1963. L’ho già raccontato
tante volte: non sapevo niente di quel tipo di teatro, perché allora non c’erano
libri, né informazioni, sul Kathakali. Non capivo la lingua, e non mi era fami-
liare il codice delle azioni degli attori-danzatori. Conoscevo solo qualcosa
delle storie che si andavano presentando, ed ero confuso dal contesto di queste

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24 Eugenio Barba

rappresentazioni, rumoroso e popolare. Eppure, in certi momenti, un attore era


capace di catturare la mia attenzione, di sollecitare i miei sensi, di incatenarmi
alle sue azioni, una per una. Come ci riusciva, come poteva accadere? Quali
erano le forze attive nella nostra interazione? Era una questione solo di talento,
di grazia, di temperatura individuale? Oppure aveva qualcosa a che fare anche
con la tecnica? E se sì, in che modo?
Queste due domande, questi due irrisolvibili enigmi, divennero osses-
sioni, e ancora adesso mi perseguitano. Hanno determinato i due poli princi-
pali di interesse della mia vita professionale: quello per i processi di apprendi-
mento, e quello per l’Antropologia Teatrale (i fondamenti pre-espressivi
dell’efficacia e della forza di un attore e di un danzatore). Hanno determinato,
quindi, anche gran parte delle mie scelte pratiche e dei miei cambiamenti suc-
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cessivi. Per esempio, hanno determinato la nascita dell’ISTA, dell’International


School of Theatre Anthropology. La scelta delle persone di cui mi circondo.
Le ricerche che hanno condizionato il mio lavoro.

Terra di nessuno
Per me ed i miei compagni dell’Odin, costruire il nostro teatro non è stato
diverso dal costruire uno spettacolo. Il nostro primo atto creativo non ha ori-
gine dall’ordine e dal metodo, da ciò che conosciamo, da una immagine di noi
che ci convinca e ci rassicuri, ma da una irregolarità iniziale, perseguita con
testardaggine, continuamente riconfermata. Se guardo al nostro passato, mi
sembra che così abbiamo costruito anche la nostra biografia artistica: attra-
verso strappi dall’ordine, anche dal nostro ordine.
Quando eravamo un gruppo teatrale ancora molto giovane, e passavamo
molto tempo chiusi nella nostra sede, arroccati nel nostro lavoro solitario, ci è
capitato che ci chiedessero: come mai, se vivete sempre così chiusi in voi,
ogni volta che vi si incontra apparite con un volto profondamente diverso?
C’è una fotografia dell’Odin Teatret che amo particolarmente. Mostra un
grande paesaggio aperto e vuoto. In un angolo, c’è un piccolo cerchio di per-
sone. Stanno guardando qualcuno e si sono disposte in una cerchio quasi per-
fetto con al centro un piccolo evento, una quasi invisibile azione spettacolare.
È più che un documento, è un vero ideogramma creato da un giovane danese,
Peter Bysted, che ora è un grafico molto noto. Mostra le difficili circostanze di
un baratto in un villaggio peruviano sulle Ande. Nel villaggio non c’era il tipo
di spazio necessario, così scegliemmo un campo fuori dall’abitato. Il momento
dell’incontro e dello scambio prese il valore di una tregua, di una pausa del
tempo, e lo spazio si trasformò in una terra di nessuno. Questo è quello che

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La conquista della differenza 25

mostra la fotografia: la forma del cerchio fa sì che i locali e gli stranieri siano
indistinguibili gli uni dagli altri. Tutti siamo attori e non attori, partecipanti e
osservatori, allo stesso modo. L’immagine dà un senso di comunione e di inte-
grazione, ma anche di solitudine, una cerimonia spersa nell’immensità della
natura. C’è una figura un po’ solitaria, da una parte, sullo sfondo, e mi fa pen-
sare a me stesso in situazioni simili: sono nel cerchio e ne sono anche fuori.
La foto non mi commuove solo per questo, ma per altre ragioni irrazio-
nali, che si rifiutano di essere tradotte in parole. Parla al dragone che protegge
l’oro dentro di me. Un po’ lo stesso accade per quell’insieme di pratiche, di
strategie, di convenienze e di superstizioni che chiamiamo “baratto”.
Il baratto non è il risultato di una idea, o di una ricerca di originalità da
parte mia o dei miei colleghi. Ho descritto le sue origini del tutto fortuite, in
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circostanze in cui l’Odin non aveva una produzione da mostrare e non era
quindi in grado di presentarsi attraverso un risultato artistico alla popolazione
di un villaggio italiano dove risiedevamo per qualche mese. Non potevamo
dire: presenteremo uno spettacolo. Dicemmo: ci incontreremo. Noi porteremo
qualcosa, e voi, naturalmente, farete altrettanto. Così scoprimmo la via del
“baratto” di teatro.
Dopo, altri hanno ripreso l’idea e l’hanno applicata in modo diverso a se-
conda dei loro bisogni, dei loro contesti o dei loro scopi. È stato riproposto da
gruppi teatrali e di danza, da psicologi e studiosi, dall’antropologa danese
Mette Bovin nel suo lavoro sul campo in Africa. Così è, e dovrebbe essere
sempre, con quelle idee o quelle pratiche il cui valore va al di là del progetto di
chi le ha ideate.
L’Odin Teatret non è il proprietario dell’idea di baratto, anche se il baratto
è certamente una espressione che viene dalla nostra storia e dalla nostra visione
del mondo. Ma non ci sentiamo certo più poveri o esclusi se qualche gruppo in
India o in Bolivia ne fa uso.
Per noi, un baratto non è un momento di spontanea fraternizzazione. Ri-
chiede una preparazione di molti giorni, in certi casi persino di settimane.
Non è affatto un incontro espansivo, il risultato di un impeto di simpatia, ma
una ben ponderata politica di relazioni, di interazione, con finalità ben pre-
cise. I contatti che l’Odin stabilisce con i diversi individui o le associazioni
che vi collaborano sono i motori nascosti dell’evento, ma anche di eventi fu-
turi. Sono la sottopartitura, il suo fine, il suo scopo segreto. I contatti nascono
sempre da un misurabile “interesse”, non solo nostro: i contatti locali devono
sempre percepire chiaramente i vantaggi concreti che possono trarre dal ba-
ratto, come può diventare proficuo per i loro scopi.

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26 Eugenio Barba

Queste situazioni possono rivitalizzare le relazioni esistenti, stabilirne di


nuove, creare dinamiche impreviste, portare alla luce potenzialità, incremen-
tare possibilità, aiutare i locali a coagulare una momentanea identità rispetto
agli stranieri. E mostrare come questi stranieri, attraverso l’efficacia del loro
intrattenimento, possano momentaneamente far sospendere i pregiudizi dei
loro ospiti.
C’è dunque il piacere di creare un momento fuori dal tempo, una festa, un
tempo diverso. E c’è il tornaconto personale degli organizzatori, la loro voglia
di mettere in moto qualcosa nel loro territorio. C’è il nostro bisogno di dar vita
a nuove soluzioni e relazioni, per non stagnare. C’è il piacere, in fondo comune
anche alle settimane in cui si svolgono le sessioni dell’ISTA, di creare una co-
stosa festa utopica, un banchetto-potlach a cui partecipano, come ospiti, maestri
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di tradizioni antichissime e i più giovani e i più anonimi tra i gruppi di Terzo


Teatro, studiosi pieni di curiosità e vecchi amici che amo.
Una sessione dell’ISTA è un villaggio teatrale che dura almeno quattor-
dici giorni, la metà dei quali in rigoroso isolamento. Mi piace soprattutto per
questo, perché è uno spazio ed un incontro paradossale.
Poi c’è qualcosa d’altro, di più sottile, di non traducibile a parole. Potrei
raccontarlo così: tu metti in moto gruppi ospiti che ti interessano, che devono
farti da guide nelle diverse situazioni, che devono trovare le grosse cifre neces-
sarie a sovvenzionare una sessione dell’ISTA, oppure devono portarti in con-
tatto con realtà marginali, che ci tocchino o ci colpiscano. Raccogli intorno a
te ancora una volta i tuoi attori, i grandi maestri, coloro per cui l’Odin è un
punto di riferimento e coloro che amano vedere l’Odin al lavoro. Ma anche
coloro che devi, almeno momentaneamente, indurre ad accettarti, e magari
non sono molto propensi a farlo. Raduni in uno spazio neutro, in una terra di
nessuno, gli amici, gli scettici e gli avversari, coloro da cui devi apprendere e
coloro che si aspettano di portar via qualcosa per sé. E poi aspetti. Prima o poi,
da qualche parte, dall’interno o dall’esterno, dai tuoi attori, dai tuoi amici, da
un passante sconosciuto, dal più estraneo dei giovani, dal più ostile dei vecchi,
verrà un commento, un gesto, una reazione. È il segnale che annuncia il mo-
mento in cui stiamo abbandonando le piccole convinzioni e le sicurezze in cui
cerchiamo di accomodarci.

Per una storia ermafrodita del teatro


Nel mio lavoro con gli attori reagisco, come molti altri registi, a ciò che
“funziona”, che mi sembra “vivo”, “organico”, che contiene vibrazioni che mi
appaiono ambivalenti, ermafrodite. Raddoppiamenti che intuisco possano

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La conquista della differenza 27

espandere i possibili significati di una sequenza di azioni o di una scena. Il


particolare processo di lavoro che unisce attore e regista non è basato su teorie,
ma su molti fattori, e tra gli altri sulle doti di suggestione del regista, sul suo
pragmatismo, sulla sua inventiva, sulla sua capacità di reagire a stimoli mate-
riali, alle azioni degli attori, anche ai loro errori, alle incomprensioni, agli
eventi fortuiti, al caso.
All’inizio la maggior parte della mia conoscenza, del mio sapere teatrale,
proveniva dai libri. Hanno avuto un’importanza grandissima, perché mi hanno
aiutato ad intuire come coltivare l’ambivalenza. Non me lo hanno raccontato:
ma, leggendoli, talvolta vedevo balenare qualcosa che mi apparteneva.
Vi erano le biografie, affascinantissime, di alcuni artisti che sono diventati
la mia stella polare. Ma i libri erano anche utili strumenti di lavoro con le loro
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descrizioni tecniche che, una volta metabolizzate, si sono personalizzate in


capacità di azione. La lettura mi permetteva di assorbire quel sapere che si la-
scia formulare a livello verbale e concettuale, e che è complementare a quel
sapere attivo che si incorpora attraverso la pratica.
Potrei dividere i libri in due categorie: alcuni che contengono delle infor-
mazioni addirittura schematiche, scarne nel loro stile, ma che colpiscono in
maniera profonda. È il caso di molte pagine di Mejerchol’d, che hanno avuto
su di me un effetto duraturo. Altri invece sono dei libri costruiti secondo una
raffinata e consapevole drammaturgia scenica e, attraverso le parole, fanno
esperire “la realtà della realtà”, la simultaneità e sensorialità che caratterizza
uno spettacolo. Questo valeva anche per alcuni libri di storia del teatro. Il
trucco e l’anima di Angelo Ripellino, per esempio: la sua forza evocativa tra-
scina come “poesia nello spazio” e ti schiude le porte dell’esperienza.
Anche il mio stretto legame con alcuni studiosi di teatro è una reazione
contro quell’ambiente accademico o giornalistico che si sofferma solo
sull’epidermide del nostro artigianato, e ne trascura la sostanza: il sudore, il
sangue mestruale, lo sperma di individui concreti, immersi in circostanze neb-
biose, ilari, sconsolate. La visione accademica ha una tendenza all’astrazione,
riduce tutto a correnti, a idee, a influenze, a cause ed effetti limpidi e commen-
surabili, e trascura la storia sotterranea, torbida e materiale, del teatro.
Quanto a me, all’inizio non sentivo il bisogno di scrivere. Ho cominciato
presto, ma solo perché volevo oppormi a un’ingiustizia: il silenzio, le accuse o
la disinformazione riguardo al lavoro di Grotowski. La scrittura era una ma-
niera di lottare contro i padroni dell’informazione, quelli che compongono la
cronaca del tempo o documentano la storia del teatro. Con il passare degli
anni, la scrittura è diventata un modo di lasciare tracce che scompiglino gli
schemi ordinati della storia. Lo sento come un obbligo: ritrarre i tortuosi ma

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28 Eugenio Barba

ben concreti intrichi elaborati dalle forze oscure che ci guidano nel nostro
mestiere.
A volte ho la sensazione che scrivo per un mio alter ego, totalmente di-
verso da me, che nascerà fra cento anni e che, attraverso il teatro, si accanirà
ad esacerbare non solo il suo individualismo, ma anche a realizzare il processo
della sua individuazione. Anche questo è oggi per me il teatro: la possibilità di
salvaguardare la mia identità in un contesto sociale, politico ed economico,
cioè un mio individualismo, e allo stesso tempo un processo di crescita perso-
nale, di individuazione, attraverso un lavoro con altri individui che si prolunga
negli anni.
Questa trasformazione dell’esperienza in consapevolezza ed in riflessione
mi sembra che sia iniziato con i grandi riformatori europei del teatro, fino a
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Grotowski. Era qualcosa di più di una semplice trasformazione di pratiche in


teoria. Era una trasmissione tacita di qualcosa di essenziale.
Molti dei protagonisti della grande mutazione dell’inizio del Novecento
non venivano dal professionismo, erano outsider o dilettanti, come Antoine e
Stanislavskij; o venivano da un ambiente musicale, come Appia o Jaques-
Dalcroze. O erano poeti come Mallarmé, Paul Fort, Strindberg. Non erano
condizionati dalle norme e consuetudini, dalle regole e modi di vivere, dagli
schemi mentali e dalle consolidate routine del mondo teatrale. Crearono le
loro proprie piccole tradizioni nomadi: nuovi modi di pensare e di procedere,
con tecniche ed obiettivi mai immaginati in precedenza. Modi di pensare non
condivisi dalla maggioranza, ed in continuo mutamento. Modi di pensare che
non potevano essere trasmessi, eppure bisognava trovare dei canali perché
continuassero a contagiare. Anche per questo i grandi registi dell’inizio del
Novecento hanno “inventato” la scrittura teatrale.
Gli artisti muoiono senza figli. È impossibile trasmettere quel codice
muto ed intimo che aiuta a decifrare e a ricostruire le ragioni e le modalità di
una eccellenza artistica. Ma ognuno di noi registi lo sa bene quel che deve a
Stanislavskij e a Mejerchol’d, a Brecht o ad Artaud. Sa quanto incarniamo
nostro malgrado la loro eredità, condizionando la nostra stessa vita, la nostra
fragilità, le nostre passioni e i nostri ciechi timori col seguire o rifiutare questi
cammini di vento e di nuvole che chiamiamo i loro “metodi”. Sono diventati
parte di noi perché le loro vite sono esempi di coerenza, di resistenza, di per-
petuo ricominciare. Sono un ideale da emulare.
Qualche volta mi succede di parlare in termini di “eredità”. Ma quel che
ho in mente sono piuttosto forme di contaminazione, di contagio di malattie e
dubbi. Una disseminazione di virus. Come tenere in vita virus che, sotto forma
di leggende, di libri, di immagini e di scelte, possano propagarsi a un altro tra

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La conquista della differenza 29

una, due o tre generazioni. Io stesso sono stato contagiato da virus che prove-
nivano da un passato distante e incomprensibile, che mi trascinavano lontano
dal mio presente: con smarrimento, uno strato dopo l’altro del mio cervello si
è infiammato, e poi la febbre ha preso l’organismo intero. È così che i morti si
introducono in noi, come microbi invisibili. Provocano allucinazioni, e ci
fanno credere alle possibilità di un ordine diverso, sotto la forma suggestiva di
un “metodo”. Di metodi in continuo movimento e cambiamento. Ci abitano
come fantasmi divoratori, infervorati da una coerenza assoluta e paradossale.
I riformatori del teatro novecentesco, a cui continuamente ritorno, deter-
minarono un big bang del teatro, una esplosione della tradizione, la creazione
delle piccole tradizioni nomadi, con i loro specifici ideali, approcci pedago-
gici, principi di recitazione, scopi sociali ed estetici, con i loro pubblici parti-
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colari. Il teatro, dopo di loro, non fu più un continente, ma un arcipelago. I loro


sforzi convergevano verso uno scopo che andava al di là della presenza fisica
dei loro spettacoli: una dimensione artistica, didattica, interiore, politica, etica,
rivoluzionaria, nichilista, spirituale.
Ma avvenne qualcosa di ancora più importante: in una società piena di
differenze il teatro divenne uno spazio paradossale.
Un paradosso non è una opinione bizzarra. È un pensiero coerente origi-
nato da principi differenti rispetto a quelli su cui si basano le opinioni diffuse e
le teorie prevalenti. Il paradosso, anche quando non lo si può semplicemente
rifiutare, non prevale: non conquista, ma non è conquistato.
A questo penso quando parlo del teatro come di uno spazio paradossale
situato nel cuore della propria epoca, ma che non le appartiene. È uno spazio
“sacro” nel senso di “distinto”, al centro di lacerazioni e tensioni prive di solu-
zione, una microcultura di individualisti ostinati dal bisogno di creare una co-
erenza tra il proprio vulcano interiore, la vita privata ed il comportamento
scenico. Questo bisogno spinge continuamente a fare e a disfare, nell’illusione
consapevole di un ininterrotto apprendimento che sia una iniziazione a quel
rituale vuoto – lo spettacolo – che aspetta di essere saturato dalle disuguali
motivazioni di ciascuno di coloro che lo vedono e che lo eseguiscono. È uno
spazio che esiste solo fino a quando la necessità di resistere continua a bruciare
dentro di noi.
Resistere a cosa? Non viviamo in tempi di dittatura.
Resistere vuol dire opporre resistenza a quella voce seducente che dal
fondo di ciascuno di noi sussurra : questa è la tua terra. Qui ti puoi fermare.
Penso alle biografie dei grandi maestri del teatro e vedo una luminosa
meteora che esplode – un turbinoso fuoco d’artificio. Una delle sconcertanti
mistificazioni della storia del teatro è di presentarsi come esposizione di

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30 Eugenio Barba

un’unica tradizione quando in realtà si confronta a un sistema solare con pia-


neti e satelliti dalle distinte rivoluzioni e rotazioni, temperature, faune, flore e
metafisiche. Per ciò diventa importantissimo individuarsi, scegliere a quale
tradizione si appartenga. Una tradizione che tu hai creato in prima persona,
distillandola dalla pletora degli stimoli circostanti. Una “piccola tradizione-in-
vita” che è solo tua, costituita da incontri, biografie, libri, avvenimenti, aned-
doti, dettagli che acquistano un valore emblematico, o piuttosto, un senso alla
volta evidente ed ermetico, per te e il tuo agire.
Questa tradizione te la devi costruire con i tuoi propri rifiuti, è la mappa di
un territorio ideale verso il quale vuoi rimanere fedele, affondare le tue radici
professionali, portarne alla luce i multipli strati geologici. È la tua strada,
quella che ti porterà in luoghi senza la costrizione di portare tutto a visibilità,
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che ti conduce a trovare pratiche che modificano il tuo tempo e l’epoca che ti
circonda. È la ricerca dei tuoi antenati, dei morti dai quali si succhia l’essere-
in-vita di un lavoro che è prolungamento organico di una genealogia in cerca
di nipoti non ancora nati.

Lo spazio paradossale del teatro


Insieme al mio gruppo, l’Odin Teatret, viaggio per il mondo per metà del-
l’anno. Solo per una minima frazione di questo tempo siamo ospiti dei teatri
ricchi e rispettati. La maggior parte del tempo la passiamo negli spazi del Terzo
Teatro. Dovunque io vada, trovo ambienti formati da minoranze motivate, per-
sone alla ricerca di una trascendenza attraverso il teatro. Oggi vi è una pluralità
di forme spettacolari, e molte di esse vivono in quelle regioni in cui le ferite so-
ciali sono profonde e le forme di emarginazione una realtà quotidiana.
Sono particolarmente attratto da questo spazio opaco del teatro, lontano
dalle luci e dall’attenzione degli esperti e di coloro che fanno opinione. Questa
contraddizione nutre la mia riflessione: i teatri negletti, marginali e maldestri
sono quelli che cercano valori e significati nuovi per una pratica che è un re-
litto glorioso di un modello di società in rapida sparizione.
Ho sperimentato il teatro come emigrazione. Mi ha permesso di muo-
vermi all’interno delle molte classi e culture di società diverse. E all’interno
delle molte classi e culture che abitano nel mio interno. Il valore del teatro sta
nella qualità delle relazioni che crea tra gli individui e tra le differenti voci
all’interno di un singolo individuo. Non credo in una comprensione reciproca.
Credo nell’insuperabile incomunicabilità di coloro che agiscono insieme. Il
frutto della loro azione, quello sì, può essere comune e unitario. Credo nel
teatro come in un rituale vuoto, non nel senso di qualcosa di futile e di privo di

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La conquista della differenza 31

senso, ma perché non si lascia usurpare da dottrine. Qui chiunque può caval-
care la propria “differenza”, può scoprirla e rafforzarla, senza soffocare quella
degli altri.
Cara Mirella, come storica tutto questo ti è noto, benché sotto altre vesti.
Anche questo è stato per secoli la vita teatrale: un modo ambiguo e periglioso
di preservare e coltivare differenze. Distinzioni, non separazioni o distacchi.
Prima prevaleva l’imposizione. Oggi, la scelta.
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LA CONTRADA DEGLI ANTENATI
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TRADIZIONE E FONDATORI DI TRADIZIONI*

Le tradizioni preservano e tramandano una forma, non il senso che la


anima. Il senso ciascuno deve definirlo e reinventarlo per sé. Questa reinven-
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zione realizza l’identità personale culturale e professionale.


Le tradizioni stratificano e raffinano nelle loro forme il sapere di succes-
sive generazioni di fondatori e permettono ad ogni nuovo artista di cominciare
senza essere costretto a ricominciare da capo. Le tradizioni sono eredità pre-
ziosa, nutrimento spirituale, radici.
Sono anche costrizioni. Non vi è identità senza lotta contro la costrizione
delle forme ereditate della tradizione. Se manca questa lotta, la vita artistica
collassa. La scintilla della vita, nell’arte, è la tensione fra il rigore della forma
e il dettaglio ribelle che dall’interno la scuote e le fa assumere un valore nuovo,
un aspetto irriconoscibile.
L’attore che non appartiene ad una tradizione scenica codificata spesso
rischia di sentirsi diseredato, d’essere privo di radici, senza punti di riferimento
concreti a cui disobbedire. Chi non ha una tradizione spesso la idealizza e si
rivolge ad essa con atteggiamento superstizio come se essa potesse dar senso.
La nostalgia della forma ha percorso il teatro del nostro secolo, da Stani-
slavskij a Grotowski, da Mejerchol’d a Brecht, da Artaud al grande miscono-
sciuto Decroux, da Gordon Craig a Isadora Duncan, Jacques Copeau, Martha
Graham, Kazuo Ohno. Una genealogia di fondatori di tradizione si snoda at-
traverso le regioni artificialmente separate del teatro, del mimo e della danza.
Ognuno di noi è figlio del lavoro di qualcuno. Ogni fondatore di tradizioni
possiede un passato che si è scelto. Dobbiamo noi decidere, professional-
mente, a quale storia apparteniamo, chi sono i nostri antenati nei cui valori ci
riconosciamo. Possono essere epoche e culture lontane, ma il senso del loro
lavoro ci è vicino.

* Pubblicato per la prima volta in inglese e portoghese nel programma della 8a sessione
dell’International School of Theatre Anthropology (ISTA) di Londrina, Brasile, 1994,

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36 Eugenio Barba

Ad uno sguardo frettoloso, la distinzione fra tradizioni e fondatori di tra-


dizione equivale a quella fra scuole classiche e innovatori, fra ortodossi e ri-
belli, fra l’attore-danzatore classico asiatico nascosto nel suo costume d’oro e
la ricerca inquieta ed eclettica d’un artista di teatro contemporaneo. Non è
cosí. Anche la tradizione più rigida non vive che attraverso reinvenzioni dei
suoi interpreti, tanto più profonde quanto più sembrano sottili e impercettibili
in superficie.
Nella pratica del lavoro, tradizione equivale a conoscenza, ovvero a tec-
nica, una parola molto più umile ed efficace. Non è la tecnica a definirci, ma
essa è lo strumento necessario per superare le frontiere in cui siamo racchiusi.
Il sapere tecnico ci permette di incontrare altre forme e ci introduce alla tradi-
zione delle tradizioni, a quei principi che ricorrono costanti sotto le differenze
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degli stili, delle culture, delle diverse personalità.


La meta da raggiungere non è identificarsi in una tradizione, ma costruirsi
un nucleo di valori, un’identità personale, ribelle o leale verso le proprie radici
biografiche. La strada per raggiungerla è sempre una pratica minuziosa che
manifesta la nostra identità professionale.

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L’ESSENZA DEL TEATRO*
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“Cosa resta di un ebreo se non è religioso, sionista e neppure conosce la


lingua della Torah, del libro sacro?” Agli inizi del XX secolo Sigmund Freud
si è posto questa domanda ed ha risposto: “Probabilmente l’essenziale”. Guar-
dandosi bene dal definirlo.
Cosa resta del teatro se non è religioso, nazionalista, se non crede ai libri,
alle teorie e alle ideologie che vogliono seminare certezze nel mondo?
L’interrogativo di Freud contiene in sé i germi del malessere che nello
stesso periodo spingeva i riformatori del teatro a far implodere in Europa una
cultura teatrale centenaria e a generare nuove identità e orientamenti inaspet-
tati per la loro arte. Questi visionari avevano scelto di confrontarsi con i quattro
problemi basilari del teatro: non solo come essere un attore efficace, ma anche
perché esserlo, dove esserlo e per chi. I riformatori sono i nostri antenati, co-
loro che hanno fondato la tradizione del XX secolo.
La parola tradizione è ambigua. Fa pensare a qualcosa che ci è dato, che
abbiamo ricevuto in modo inerte dal passato. Ma la tradizione è l’esercizio del
rifiuto, è il nostro sguardo retrospettivo sugli esseri umani, sulla professione,
su tutta la Storia che ci ha preceduto e dalla quale noi scegliamo di allontanarci
attraverso la continuità del nostro lavoro.

L’invenzione di una tradizione


Sono solamente un epigono che abita la vecchia casa degli antenati. Ma
ho fatto un lungo viaggio per arrivarci.

* Pubblicato per la prima volta in Les chemins de l’acteur, a cura di Josette Feral, Éditions
Québec Amérique, Québec, 2001.

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38 Eugenio Barba

Dopo quattro anni in Polonia di cui trenta mesi di lavoro con Grotowski a
Opole, sono ritornato in Norvegia nel 1964. Ho bussato invano alla porta di
tutti i teatri di Oslo alla ricerca di lavoro. Ho raccolto altri rifiutati, giovani che
non erano stati ammessi alla Scuola Nazionale di teatro. A quell’epoca, la pa-
rola teatro evocava un edificio o un testo. Un gruppo di giovani che decidevano
di essere attori partendo da zero e senza un locale erano considerati alla stregua
di sordi pronti a eseguire una sinfonia di Beethoven senza strumenti. È così
che abbiamo fondato l’Odin Teatret.
Una perdita, una privazione, una mancanza – ecco le ferite che circoscri-
vono l’essenziale. Per l’Odin, l’esclusione dal mondo che doveva iniziarci alla
professione ed aiutarci a consolidare le basi del mestiere, rappresentava un
giudizio senza appello: non possedevamo le qualità per diventare artisti di
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teatro. A quel tempo non esistevano gruppi o culture teatrali alternative alle
quali integrarci o a cui poterci ispirare. Eravamo degli esclusi. Nessuno aveva
bussato alla nostra porta supplicandoci di arricchire l’arte teatrale. Il teatro era
la nostra malaria personale, la nostra necessità endemica. Il mondo non aveva
bisogno di noi come attori. Noi avevamo bisogno del teatro. Era giusto che lo
pagassimo di tasca nostra.
Ogni lavoro teatrale, anche nelle condizioni più favorevoli, è sottoposto a
costrizioni: di tempo, di denaro, di spazio, di quantità o qualità di collabora-
tori. Queste costrizioni fissano le regole del gioco e segnano i limiti del possi-
bile. Anche se possono essere previste, soprattutto quando non sei nessuno e
non hai niente, devi piegarti ad esse per sopravvivere. Oppure puoi sforzarti di
aggirarle, cosa che dà talvolta soluzioni insperate e originali. Puoi anche di-
struggerle con un martello, frantumandole in mille pezzi con i quali costruire
il tuo habitat, il mondo ideale e materiale del lavoro e dei risultati che ne deri-
vano. Così ricordo i nostri inizi in una capitale che sembrava il deserto.
Ecco l’origine dell’Odin Teatret in Norvegia: uno sparuto nucleo di di-
lettanti che sognavano di diventare professionisti, cinque giovani che si pren-
devano terribilmente sul serio: esecuzione perfetta degli esercizi e pulizia as-
soluta del pavimento su cui li eseguivano; successione ininterrotta di grida,
bisbigli, risonanze e vibrazioni sonore durante l’allenamento vocale, e si-
lenzio per proteggere il lavoro. Eravamo un piccolo gruppo che si appoggiava
sulla propria “superstizione” e che immaginava, per mancanza di esperienza,
che il teatro era un artigianato dal viso umano. Soli, in solitudine, fuori dalla
geografia dei teatri riconosciuti e riconoscibili. In un deserto in cui la sola
presenza era quella invisibile dei morti e la distanza di un maestro amato,
Grotowski.

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La conquista della differenza 39

Bisogna cavalcare le circostanze. È così che si determina il corso degli


avvenimenti, che si costruisce il martello che infrange le costrizioni. Nel
1966, l’Odin Teatret abbandonava le esili certezze con le quali giustificava la
sua esistenza precaria e si spostava in una piccola città di 16 mila abitanti,
nello Jutland occidentale, la regione sottosviluppata e pietista della Dani-
marca. Là il teatro non era né un divertimento né una tradizione. Non c’erano
spettatori interessati e comunque l’Odin non avrebbe potuto condividere con
essi la lingua, il mezzo di comunicazione essenziale nel teatro di quell’epoca.
I danesi avevano difficoltà a comprendere gli attori norvegesi dell’Odin ai
quali ben presto si unirono giovani di altri paesi e continenti. Alle costrizioni
esistenti, avevamo scelto di aggiungerne un’altra: l’esilio della lingua, la
balbuzie.
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Ogni forma di esilio è un veleno: se non ti uccide, ti rende più forte. È


impossibile comprendere la storia dell’Odin Teatret, la nostra maniera di
pensare e di comportarci nel corso di più di trentasette anni, se non si pren-
dono in considerazione queste due esclusioni: il rigetto del mondo teatrale e
la mutilazione della lingua. Questa situazione di inferiorità e quest’amputa-
zione, queste costrizioni, noi le abbiamo frantumate e abbiamo fatto crescere
dalla loro polvere un atteggiamento di orgoglio e di rifiuto: le nostre sorgenti
di forza.
La storia del teatro era la mia consolazione, il mio tappeto volante, il mio
Eldorado. Scoprivo l’essenziale: la solitudine di Stanislavskij e l’isolamento
di Artaud, l’esilio e la perdita della lingua di Mikhael Chekhov, Reinhardt,
Piscator, Helene Weigel; l’importanza dei teatri amatoriali per Vaktangov,
Brecht, Lorca; la testarda ricerca della “vita” dell’attore ad opera di Stanislav-
skij e Mejerchol’d, il laboratorio di vita in comune di Suleržickij e il primo
Studio del Teatro d’Arte. La storia del teatro era il mio Talmud, la mia Bibbia,
il mio Corano, bisognava solo leggere con cautela e decifrare aneddoti, episodi
e dettagli trascurati dagli storici. Un Atlantide d’informazioni emergeva, chia-
riva le mie esitazioni e i miei dubbi, rivelava gli esempi disperati e le soluzioni
astute di coloro che mi avevano preceduto, il modo in cui avevano brandito il
martello. Non eravamo soli.
Il teatro divenne il luogo in cui i vivi incontrano i non viventi, i morti, gli
antenati riformatori che avevano attraversato il deserto. Le loro vite, i loro
spettacoli e i loro libri hanno illuminato il cammino dell’Odin guidandoci
verso un sapere tecnico che è il nostro modo di respirare. Essi hanno ispirato la
nostra conoscenza tacita assimilata nel corso di tanti anni e hanno protetto
l’essenziale nei nostri spettacoli: i mille dettagli della partitura dell’attore,
quella flora d’impulsi e di micro-azioni, quella struttura di tensioni, sats e in-

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40 Eugenio Barba

tenzioni che generano un effetto di vita potente ed una risonanza intima nello
spettatore. I vivi sono incapaci di notare tutti i dettagli, ma i non viventi li ac-
cettano e assaporano la temperatura personale con la quale sono stati creati e
posti in strati alternati di luce e oscurità.

Gli spettatori non viventi


Mai, per me, la parola “spettatore” ha evocato unicamente coloro che si
sono riuniti attorno allo spettacolo. I miei veri spettatori sono stati delle as-
senze fortemente presenti, la maggior parte non viventi. I non viventi non sono
solo i morti, ma anche coloro che non sono ancora nati. Era ed è a costoro che
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gli attori dell’Odin si rivolgono ogni volta che agiscono, a coloro che si scon-
treranno con gli stessi limiti che noi abbiamo vissuto tante volte, beffeggiati
dallo spirito del tempo, soli di fronte all’indifferenza della società e alla fred-
dezza del mestiere.
Possiamo raggiungere coloro che non sono ancora nati attraverso il con-
tagio. Entriamo in contatto con loro attraverso i vivi, attraverso gli spettatori
che ci rendono visita. È lo spettacolo e la sua puntura di scorpione che deci-
dono. Bisogna dare il massimo del massimo agli spettatori che vengono con
un regalo straordinario: offrono due, tre ore della loro vita abbandonandosi
con totale fiducia nelle nostre mani. Dobbiamo ricambiare la loro generosità
con l’eccellenza, ma anche con un obbligo: bisogna metterli al lavoro. Gli
spettatori devono essere messi alla prova, devono affrontare con i loro sensi, il
loro scetticismo, la loro ingenuità e crudeltà una tempesta di reazioni contra-
stanti, di allusioni, di controsensi, di grappoli di significati che si graffiano tra
loro. Devono risolvere in prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge
pronto a divorarli. Lo spettacolo è una carezza che brucia, tocca la loro sensi-
bilità, illumina ferite intime, li spinge verso il panorama muto di quella parte
che vive in esilio in essi stessi. Bisogna aprire gli occhi dello spettatore con la
stessa dolcezza con cui si chiudono quelli di una persona cara che si è appena
spenta.
Lo spettatore deve essere cullato dai mille sotterfugi del divertimento, del
piacere sensoriale, della qualità artistica, dell’immediatezza emozionale, della
raffinatezza estetica. Ma l’essenziale consiste nella trasfigurazione della du-
rata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita che si radica nella sua
carne e l’accompagna lungo gli anni. Lo spettacolo è la puntura di uno scor-
pione che fa danzare. La danza non si arresta all’uscita del teatro. La linfa del
veleno viaggia all’interno, penetra nel metabolismo psichico, mentale, intel-

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La conquista della differenza 41

lettuale, si trasforma in memoria. Questa memoria è il messaggio inimmagi-


nabile e improgrammabile che si trasmette a coloro che non sono ancora nati.
È un’operazione che può riuscire solo se si costruisce la propria auto-
nomia che, a sua volta, è possibile solo a due condizioni: se si riesce a creare
un gruppo la cui “superstizione” impregna il comportamento di ogni membro
del gruppo come una seconda natura. E se i nostri spettacoli diventano scor-
pioni che stregano un gruppo ristretto di spettatori disposti a lasciarsi pungere
da essi.
L’Odin è rimasto in vita ben quattro decenni anche perché viviamo come
beduini. Fin dalla nostra origine, siamo stati abituati a non avere che un pugno
di datteri ed una tenda. Un po’ come i primi califfi nomadi d’Arabia che hanno
conquistato Damasco, Bagdad e Basra, ma sono ritornati nel deserto senza
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fermarsi nei palazzi di marmo o lasciarsi addomesticare dalle città-sirena, con


i loro templi e bazar. Holstebro è la nostra tenda, là c’è l’essenziale: l’anoni-
mato di un lavoro quotidiano il cui compito è estrarre il difficile dal difficile.
Ma il gruppo non basta, esso è soltanto la sistole del cuore che lo tiene in
vita nel precario processo d’autonomia sempre minacciato. La diastole è lo
spettatore che ha bisogno di noi. Dopo 37 anni riempiono appena il centinaio
di posti di ognuno dei nostri spettacoli. È il nostro limite e la nostra forza.
Sono là ad aspettarci ovunque noi portiamo uno spettacolo, a New York o in un
paesino delle Ande, in una capitale europea o in una cittadina della Patagonia.
A Roma, recentemente, abbiamo dato spettacoli per cinque settimane. Cento
spettatori a sera, tremila cinquecento persone in 35 giorni. Tra esse, forse, la
puntura dello scorpione ne farà danzare una che incontrerà il nostro vero spet-
tatore non ancora nato.

La via del rifiuto


Quando visito gli edifici di teatro, ho la sensazione di salire su immobili
vascelli di pietra che si sforzano di rappresentare il movimento. A volte al loro
interno ho vissuto la sconfinata avventura del viaggio, in fondo alla notte o al
centro di me stesso. Paragono i vascelli di pietra alle isole galleggianti, a ciò
che Stanislavskij chiamava ensemble, a ciò che io chiamo gruppo di teatro: un
pugno di uomini e donne che, grazie alla disciplina di un artigianato artistico,
oltrepassano il loro individualismo e si inseriscono nella storia. Attraverso un
processo d’osmosi creativa, essi trasformano le loro ferite e necessità perso-
nali in azione politica, in presa di posizione riguardo alle norme e circostanze
della loro polis, della loro comunità.

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42 Eugenio Barba

L’essenziale del teatro non risiede nella sua qualità estetica o nella sua
capacità di rappresentare, criticare e intervenire nella vita. Esso consiste piut-
tosto nell’irradiare materialmente, attraverso il rigore della tecnica scenica,
una forma d’essere individuale e collettiva: una cellula sociale che incarna un
ethos, dei valori che guidano i rifiuti di ogni individuo che la costituisce.
La forma è fondamentale per il teatro. Attraverso la forma, cioè la disci-
plina e la precisione che essa esige, l’attore assorbe ed espone un nucleo di
informazioni che sfuggono alle parole e che contengono lo spirito dell’ethos
del rifiuto. E questo sin dal primo esercizio, dal primo giorno d’apprendistato.
Una forma d’essere nasce dall’azione reale in dissidenza con i luoghi comuni
del pensiero e della pratica professionale, le opinioni evidenti e la facilità delle
scelte. Essa suppone l’invenzione della propria tradizione.
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È così che vedo i miei attori: allo stesso tempo come il campo e come il
contadino che lo lavora. Lo spettatore vede maturare frutti sconcertanti il cui
sapore dovrebbe acuire la sete.

Teatro come trascendenza


Tutti i fondatori di tradizione del XX secolo hanno seguito la via del ri-
fiuto. Questo manipolo di antenati che hanno segnato la nostra tradizione per-
sonale e ne sono divenuti punto cardinale, si sono opposti al loro tempo e
hanno forgiato l’idea di un teatro che non si limita allo spettacolo, non si ri-
volge semplicemente ad un pubblico e non si preoccupa solamente di riempire
le sale. Per essi, si ergeva un altro imperativo: oltrepassare lo spettacolo come
manifestazione fisica ed effimera e raggiungere una dimensione metafisica:
politica, sociale, didattica, terapeutica, etica, spirituale.
Il teatro è insopportabile se si limita solo allo spettacolo. Il rigore del
mestiere o l’ebbrezza dell’invenzione non bastano, non più che la coscienza
del piacere o della conoscenza che possiamo indurre nello spettatore. Il nostro
lavoro deve nutrirsi di una sovversione che ci proietta aldilà della nostra iden-
tità professionale divenuta muro che ci protegge e che, allo stesso tempo, rap-
presenta una prigione. Lo spettacolo pianta un seme che cresce nella memoria
d’ogni spettatore ed ogni spettatore cresce con questo seme.
Quando ho cominciato a fare teatro, avevo quattro attori con me. Eravamo
cinque. Tre di noi sono ancora oggi all’Odin Teatret. Trentasette anni sono
molti e noi conosciamo tutte le crisi, la stanchezza, la routine e il disorienta-
mento. Perché allora continuiamo? Siamo forse interessati al presente? Credo
che ci sostengano due tensioni: il ricordo del passato e una nostalgia del fu-
turo. Da un lato, il desiderio di rimanere fedeli ai sogni della nostra giovinezza,

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La conquista della differenza 43

dall’altro, la responsabilità verso generazioni anonime che non sono ancora


nate. Sono parole altisonanti. Eppure sono la voce di quella parte di noi che
vive in esilio, quel nucleo segreto e così vulnerabile che, molto spesso in
questa professione, non siamo in grado di salvaguardare. Così finiamo col
perderci.
Tutti i teatri sono arcaici. Ma dentro quest’arte nobile e vetusta, la pas-
sione più anacronistica è la ricerca di una permanenza che vada oltre la durata
dello spettacolo. Una sete ci obbliga a tenderci aldilà del muro della profes-
sione, a restare sulla punta dei piedi, tesi verso l’alto, verso l’oltre. Non è
questione di trascendenza orizzontale o verticale, ma di un modo di proteg-
gerci, per non essere vittime o complici muti in questa marea efferata che è la
Storia. Restare sulla punta dei piedi per affondare le nostre radici nel cielo,
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mentre attorno a noi gli altri avanzano a velocità ragionevole verso obiettivi
sensati. Immaginiamo di resistere in una zolla di terra ideale che non è costi-
tuita da una nazione, un’etnia o un’ideologia, ma da pochi esseri umani sparsi
su tutto il pianeta e che incarnano ogni giorno anonimamente il rifiuto che è
anche il nostro.

L’essenziale non può che essere muto


Allora cosa resta del teatro? L’essenziale non può che essere muto. È
azione, ma non il suo senso profondo non si può comunicare. Il gruppo di
teatro è l’organizzazione di questa incomunicabilità e di questa rete di neces-
sità personali – o d’egoismi – in organismo sociale.
Lavorare con i propri fantasmi, con le proprie ossessioni e chimere, signi-
fica prestare orecchio a voci senza corpo che ci dirigono. È ascoltare un fra-
stuono. La tradizione personale è un’eco che viene da lontano. A volte siamo
capaci di distinguere una voce e ci diciamo che un antenato ci sta aiutando a
trovare la nostra strada. A volte l’eco è diffusa, confusa: non si sa da dove
venga, chi sia a parlarci. Eppure dobbiamo lo stesso decifrare la direzione che
ci indica.
L’Odin Teatret è un gruppo di emigranti, di persone che per necessità in-
dividuale o a causa delle contingenze hanno lasciato il loro luogo d’origine
per finire nella cittadina danese di Holstebro. Fa parte del mestiere del-
l’emigrante la fatica di inventare ogni giorno la terra sulla quale poggia i piedi.
Questa terra non è una regione geografica, un popolo o una fede. Essa è la no-
stra ragion d’essere, la nostra giustificazione verso noi stessi, l’asse che ride-
finisce costantemente il nostro equilibrio, la nostra presenza in relazione agli
altri. Questa condizione comune di sradicati contribuisce a tenere assieme

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44 Eugenio Barba

l’Odin, anche se siamo profondamente diversi e se le nostre aspirazioni a volte


divergono.
Spesso, l’origine di un cammino creatore è una ferita. Segna la separa-
zione da qualcosa che era vitale per noi e marca una parte di noi che rimane in
esilio nel più profondo di noi stessi. Il tempo, a volte, trasforma la nostra ferita
in una cicatrice che non fa più male. Nell’esercizio del nostro mestiere ritor-
niamo continuamente verso questa lesione intima, per rifiutarla o restarle fe-
deli. Tutto ciò non ha niente a che vedere con l’estetica, le teorie né con il bi-
sogno di comunicare con l’altro. Si tratta piuttosto del desiderio di ritrovare
una sensazione di interezza, di incontrare se stessi e di misurarsi con l’altro,
l’altro in noi stessi o l’altro al di fuori di noi.
Procedo all’interno di un paesaggio più antico di me. Come Shakespeare
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lo ha descritto, non è più grande di una piccola “o”. Al suo interno intravedo
alcuni esseri che sembrano alberi millenari: tronchi come uomini immobili e
uomini come alberi che si spostano. Da una parte c’è un vecchio e una ragazza.
Di là due uomini camminano un po’ alla cieca, come se si fossero perduti. Li
riconosco, sono Edipo e Antigone, Vladimir ed Estragon. Attorno ad essi, invi-
sibili, i dannati della terra danzano e cantano. Da qualche parte sento il pianto
di un bambino appena nato. So che è arrivato per me il tempo di raccogliere
quello che ho ricevuto e seminato e di consegnarlo all’erede sconosciuto che
resusciterà la tradizione della rivolta e della nascita, la tradizione del signifi-
cato decifrabile e del senso segreto del mio fare teatro.

La tradizione europea e il big bang


Non è dal rituale greco che è nato il teatro europeo, ma nei mercati, at-
torno al 1545, in Italia, quando fu firmato il primo contratto da persone inten-
zionate a vivere del mestiere dello spettacolo. Gli attori erano degli esclusi,
gente avida d’avventura o che sfuggiva la propria condizione sociale: vaga-
bondi, prostitute, soldati disertori, libertini – i liberi pensatori dell’epoca –,
contadini in fuga dalla miseria, cadetti aristocratici la cui fortuna e blasone
familiare erano destinati ai primogeniti.
Il teatro professionale era un’impresa economica che produceva spetta-
coli. La possibilità di guadagnare il pane quotidiano dipendeva dalla capacità
di riempire la sala, di abbreviare le prove e di moltiplicare le offerte di spetta-
coli adattandoli rapidamente da un posto all’altro. Gli attori non immagina-
vano di creare cultura né si autodefinivano artisti. Le compagnie teatrali erano
caratterizzate dalle leggi del commercio, dall’esigenza di intrattenere e diver-
tire, e dall’erotismo. Agli occhi di coloro che vivevano secondo le norme della

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La conquista della differenza 45

morale dominante, gli attori erano persone che si esibivano e perfino si vende-
vano per denaro: la corruzione e la prostituzione delle attrici ne era una prova.
Da ciò la mancanza di rispetto e la discriminazione nei loro riguardi da parte
della società.
Con le sue eccezioni e variazioni, tale era l’universo del teatro fino alla
fine del XIX secolo, quando Nietzsche e Ivan Karamazov scoprono che Dio è
morto. Mentre la scienza sembra avere una spiegazione per ogni domanda,
nuovi dubbi sorgono a proposito della condizione umana, dell’organizzazione
della società, del ruolo degli artisti. Alcuni attori si gettano nel vortice che
travolge tutte le arti e che segna l’inizio della modernità: le avanguardie, gli
“ismi”, le rotture con i canoni e i criteri di una tradizione accettata e condivisa.
I modelli riconosciuti e praticati esplodono.
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È il big bang, la liberazione di energie e intenzioni varie e divergenti, la


creazione di nuovi paradigmi, lo sbocciare di un’ecologia teatrale mai vista, o
semplicemente l’inebriante presa di coscienza che questo mestiere disprezzato
può essere un’arte, con una dignità, uno scopo ed una identità specifica. Il
teatro si teatralizza, si emancipa dalla letteratura, vuole diventare una pratica
tesa verso una ragion d’essere che si realizza oltrepassando la finzione della
scena.
Come può la recitazione di un attore trasformarsi in azione reale, in espe-
rienza autentica, in strumento di presa di coscienza sociale, in processo di
formazione di un “uomo nuovo”, in operazione magica che ricrei la realtà che
è il doppio della vita? Mai, nel corso della storia, gli attori si erano posti do-
mande simili.

Piccole tradizioni nomadi


Non a caso fu un outsider il primo a porsi questo tipo di domande. Stani-
slavskij era un dilettante, figlio di un ricco proprietario di una fabbrica di tes-
suti, che disponeva di un edificio teatrale costruito appositamente per lui dove
preparava a suo agio uno spettacolo durante mesi. Anche se altri lo hanno
preceduto su questa strada, è con lui che sboccia una cultura teatrale originale
che rompe con i modelli del passato. Il big bang del teatro del XX secolo è
segnato dalla sua opera instancabile di regista innovativo, d’attore straordi-
nario che si interroga senza sosta, d’inventore di una pedagogia, di stimolatore
di ribelli, di fondatore di laboratori, di protettore di altri riformatori – Gordon
Craig, a cui egli dà la possibilità di realizzare Amleto, o Mejerchol’d che acco-
glie nel suo Studio d’opera. Non è solo. Altri attori e registi adeguano la loro
arte alle loro visioni personali e ad un’epoca scossa dall’industrializzazione,

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46 Eugenio Barba

dai cambiamenti tecnologici, dalla prima guerra mondiale e dalle devastazioni


dell’ideologia fascista e dell’utopia sociale comunista.
Non esiste più una sola tradizione teatrale, un modello centrale sul quale
orientarsi. Il big bang genera piccole tradizioni nomadi la cui genesi è l’opera
di un totem, di un artista riformatore che incarna una coerenza e coniuga una
visione densa di significati con soluzioni tecniche che la realizzino. Le piccole
tradizioni non sono radicate in una cultura o un genere spettacolare specifico,
ma sono metodi di lavoro e valori incorporati da artisti che si spostano creando
nuovi contesti. Tutti i riformatori hanno rivitalizzato il loro mestiere dopo aver
presentito che il teatro era un “rituale vuoto” alla ricerca di un senso perduto.
Questa cerimonia in letargo o divertimento formalizzato doveva essere sve-
gliato, assumere rischi e responsabilità, mettere a repentaglio la sua condi-
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zione ambigua in una società lacerata.


Di fronte ad altri generi spettacolari che nascono – sport agonistici o ci-
nema – il teatro si scopre anacronistico, rispondente ai bisogni di altre epoche,
in dissonanza con il flusso stesso della civilizzazione e delle sue forme di co-
municazione. L’obiettivo di questa civilizzazione “moderna” è quello di rag-
giungere il maggior numero di persone, il più velocemente possibile e nel
modo più economico. Il teatro opera esattamente al contrario: esige una spesa
ingente, uno spreco di risorse umane e materiali, oltre che di tempo, per prepa-
rare uno spettacolo che sarà visto da un numero limitato di spettatori.
Se studiamo i riformatori teatrali in modo spassionato, scopriamo che le
radici della loro forza erano extra-teatrali. Hanno attraversato il teatro come
un paese ideale, guidati da una nostalgia personale e diversa per ciascuno di
essi: etica, religione, tempo dell’“uomo nuovo”, rivoluzione, rivolta indivi-
duale, disciplina iniziatica. Tutti avevano dei bisogni che andavano contro lo
spirito del loro tempo. Tutti abbandonarono o furono obbligati ad abbandonare
le garanzie e i criteri che rendevano comprensibile e accettabile l’atto teatrale.
Si avventurarono su un terreno sconosciuto, solitari e vulnerabili, lasciando le
pratiche correnti prima di sostituirle con nuove pratiche. A volte il valore dei
loro tentativi è stato riconosciuto solo dopo la loro morte. E anche se sono stati
accettati dai contemporanei, la loro opera è stata accompagnata dal sarcasmo
evidente o nascosto dei critici, l’indifferenza degli altri artisti di teatro, la di-
serzione degli spettatori. Basta pensare a Brecht, anche quando era presentato
come una gloria nazionale a Berlino est; o a Stanislavskij, le cui convinzioni
circa il proprio “sistema” erano giudicate bizzarre, perfino morbose, a tal
punto che i suoi attori e il suo compagno Nemirovitch Dantchenko finirono
col voltargli le spalle.

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La conquista della differenza 47

La mutazione antropologica
Le forze che nel XX secolo fanno esplodere il modello unitario del teatro
e che tracciano una molteplicità di cammini, si nutrono di tensioni contraddit-
torie. C’è il disgusto che una minoranza di attori prova verso la miseria e la
servitù della loro professione. È il caso di Eleonora Duse che inveisce: “per
salvare il teatro, il teatro deve essere distrutto. Gli attori e le attrici devono
morire di peste….Essi rendono impossibile l’arte”. Gordon Craig mette le pa-
role apocalittiche della grande attrice italiana come epigrafe al suo saggio,
L’attore e la Supermarionetta, e propone di chiudere i teatri e di dedicarsi a
preparare una nuova “razza di lavoratori atletici” della scena.
C’è l’ossessione di legittimare il teatro non solo come disciplina artistica
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ma anche attraverso una finalità che oltrepassi il dominio estetico, di dargli


una funzione sociale, una vocazione educativa, di massa o politica.
Più forte di tutto è l’urgenza di lottare contro una sensazione di perdita di
esistenza. La parola “esistenza” deve essere compresa letteralmente: una ca-
pacità d’essere, di sentirsi in vita e di trasmettere questa qualità essenziale agli
spettatori. Come se il teatro fosse stato attaccato da una forma di AIDS, un
declino di vigore. Da lì l’accanimento a cercare rimedi contro la sua perdita di
presenza artistica e sociale, a elaborare dei metodi che sviluppino un sistema
immunitario, una condizione vitale che si manifesti a tutti i livelli, a partire da
quello ontologico di base – l’arte dell’attore. “Bisogna ridare vita al teatro”
esclama Artaud nel suo primo articolo dopo aver lasciato il suo maestro
Charles Dullin. Parla di “vita” tout court. Stanislavskij, prima di lui, aveva
parlato di organicità, Meyerhold di biomeccanica.
Il rinnovamento dei riformatori manifesta il desiderio di distruggere
quelle abilità che li definivano come attori agli occhi degli altri. Essi vogliono
annientare in sé stessi ciò che possiedono, una tradizione secolare, un sapere.
Come i cavalieri dell’apocalisse essi cavalcano un’idea estrema: la creatività
assoluta. Ogni nuovo spettacolo deve cominciare da zero, deve essere generato
a partire dal nulla, una cosmogonia simile a quella del Dio dei cristiani che
crea ex nihilo, contrariamente ai demiurghi delle altre religioni che modellano
qualcosa di preesistente.
Si ponevano domande corrosive. Come dare vita a un attore che non si
lasci condizionare da conoscenze prestabilite, ma scopra ogni volta un nuovo
cammino in profondità? Come far scaturire dalle proprie fonti individuali
un’improvvisazione – intesa fino allora come intreccio e variazione di ele-
menti conosciuti – e trasformarla in invenzione originale? Come liberare
un’autenticità, una dinamis, una forza personale che materializzi l’essenza

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48 Eugenio Barba

poetica dei testi di Ibsen, Strindberg, Cechov, e farla vivere allo spettatore? A
quale processo dovrebbe sottomettersi l’attore per provocare nello spettatore
quest’esperienza di vita, quest’effetto di organicità?
È in questa prospettiva che bisogna vedere l’introduzione di un allena-
mento basato sugli esercizi, una pratica fino a questo momento assente nel-
l’apprendistato dell’attore europeo.
Una vera mutazione antropologica scuote l’universo degli attori europei
nel corso dei primi trent’anni del XX secolo. Il teatro non è più un continente,
ma diventa un arcipelago composto da isole, ognuna impegnata a costruire o
abbattere una tradizione, a forgiare nuovi costumi e credenze, a scoprire il
proprio dialetto. Non c’è più una storia e una cultura, e numerosi sono i fan-
tasmi che rivelano la molteplicità del passato.
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L’interesse vorace nei riguardi di tradizioni trascurate (la commedia del-


l’arte, il circo, il cabaret, le forme popolari di spettacolo) da un lato e, dall’altro,
nei confronti di tradizioni più lontane (gli spettacoli classici d’Asia, le danze
africane, le cerimonie e i rituali di altre culture), si mescola a un’effervescenza
di sperimentazione temeraria, un fervore di spezzare le catene, le consuetu-
dini, le strutture irrigidite. Da qui l’importanza di fondare scuole teatrali in cui
potesse fiorire il talento individuale e svilupparsi la coscienza di una dignità
artistica.
Alcuni attori diventano registi e aprono degli Studi, luoghi privilegiati di
un apprendimento incessante. È l’utopia dell’“eterno inizio”. Ecco l’origine
dei laboratori di Stanislavskij e di Mejerchol’d dove la pratica degli esercizi fu
inventata e applicata.

Esercizi per dimenticare la luna e il dito


Askeo, in greco, significa esercitarsi. L’asceta è colui che fa esercizi e
l’ascetismo, la maniera in cui si eseguono. Di solito si associa questo termine
a rigore, sottomissione, sacrificio, penitenza, perfino dolore, e si pensa ai santi
nei deserti e ai mistici perduti nel loro dialogo con il Sé. Io penso immediata-
mente a giovani ballerine.
Alla ricerca dei principi dell’Antropologia Teatrale, ho seguito durante un
periodo l’insegnamento della scuola di balletto del Teatro Reale di Copena-
ghen. Le allieve vi iniziano a danzare all’età di sette, otto anni, e ciò che col-
pisce di più è lo stereotipo fisico: ragazzine graziose, magre, slanciate, bionde,
con il sorriso incollato alle labbra durante le lezioni. Nella pausa, tolgono le
delicate scarpette rosa e, con una smorfia, mettono i piedi sotto l’acqua fredda

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La conquista della differenza 49

dei rubinetti nei bagni. Una delle insegnanti, anch’essa ballerina, mi ha mo-
strato le proprie dita dei piedi deformate: “è duro danzare sulle punte. È la ca-
pacità di resistere alla sofferenza che decide della carriera di una ballerina”.
L’ascetismo caratterizza sempre l’apprendistato all’eccellenza, artistica o
sportiva, spirituale o agonistica. L’autodisciplina accompagna gli sforzi di
ogni individuo teso ad oltrepassare i propri limiti. L’allenamento di un attore è
l’iniziazione ad una professione in cui la resistenza, nei suoi multipli signifi-
cati, è una condizione fondamentale: controllo fisico e psichico; persistenza
nell’avversità, nell’insuccesso, nei periodi d’inverno senza frutti; rifiuto
all’auto-indulgenza e alle soluzioni ovvie; caparbietà di fronte agli ostacoli;
accanimento a estrarre il difficile dal difficile; tenacità per non adattarsi alle
costrizioni delle circostanze. Ogni vocazione artistica, ogni pulsione a negare
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un destino che si rifiuta, ogni necessità di liberarsi dalle catene di una tradi-
zione spenta o di una routine, sono accompagnate da un ascetismo inteso come
azione rigorosa e approfondimento del sapere artigianale.
L’attività teatrale ha un doppio effetto: sulla persona che la esegue e sulla
persona a cui questo lavoro è rivolto, lo spettatore. L’introduzione degli eser-
cizi ha permesso di definire e di approfondire la zona di “lavoro dell’attore su
se stesso”. Gli esercizi non mirano ad uno sviluppo muscolare, ma ad una
concentrazione – mentale e somatica – su un compito umile ma complicato, a
volte paradossale. L’obbligo alla precisione e alla ripetizione determina una
maniera specificamente personale di pensare con il corpo intero attraverso una
concatenazione ed una simultaneità di tensioni, contrasti e immobilità dina-
miche. È l’apprendimento ad essere come attore, a radicarsi attraverso una
presenza scenica, ma è anche un processo d’individuazione, di crescita perso-
nale. Non è un caso che il termine “esercizio” si ritrovi nei cammini di perfe-
zionamento psichico, mentale o spirituale che utilizzano tutti dei procedimenti
somatici: una maniera particolare di respirare, di fissare lo sguardo, di muo-
versi o danzare, di fermare il flusso dei pensieri.
Si possono allora apprezzare le prospettive sconosciute, indicate da alcuni
riformatori e le nicchie sorprendenti che hanno fatto spuntare al centro stesso
dell’ecosistema del teatro. E riflettere, allo stesso tempo, sul paradosso che
sembra guidare il loro cammino: più s’allontanano dalla rappresentazione, più
si concentrano sulla pratica degli esercizi.
È il caso di Copeau che sceglie la scuola al teatro fuggendo da Parigi, la
città-spettacolo. I suoi studenti recitavano in Borgogna, ma il loro lavoro pog-
giava soprattutto su un processo ininterrotto di apprendimento, sull’aspetto
nascosto del mestiere che distilla l’ethos dell’attore.

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50 Eugenio Barba

Grotowski lascia il teatro nel 1970. Ma dalla metà degli anni 80, fino alla
sua morte nel 1999, nel suo rifugio italiano di Pontedera, applica alla sua “arte
come veicolo” tutta la “gnosi” acquisita attraverso gli esercizi. Definisce Per-
former la persona che lavora con azioni fisiche che non rappresentano, e con
azioni vocali che sottolineano la qualità vibratoria della voce. Questo paziente
e minuzioso processo non è definito in funzione dello spettatore ma del-
l’”attuante”. Il termine è di Grotowski che ormai rifiuta quello di attore. Tal-
volta, eccezionalmente, alcuni testimoni scelti possono assistere.
È alla scuola del Vieux Colombier di Copeau che si è formato Etienne
Decroux. Il suo cammino è costellato dall’invenzione continua di esercizi alla
ricerca di una efficacia scenica dell’attore. La sua modesta casa di un sobborgo
di Parigi, era una vera fortezza di libertà, indipendente dalle tendenze, dalle
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mode e dai mercati, dove ha forgiato generazioni di ribelli, testardi, leali e con
uno spiccato senso dell’humour.
L’esperienza più sorprendente – la prima del genere – è quella del primo
Studio di Stanislavskij, diretto dalla singolare personalità di Suleržickij. I
membri dello Studio, che annovera i giovani Vachtangov, Mikhail Cekhov e
Boleslawski, erano immersi nella creazione ed esecuzione di centinaia di eser-
cizi, senza preoccuparsi della produzione immediata di uno spettacolo. I gio-
vani dello studio lasciarono Mosca per stabilire nel Caucaso un falansterio
teatrale, concentrandosi sugli esercizi, coltivando la terra e organizzando se-
rate per i contadini.
Una motivazione oscura, che non si lascia spiegare solamente in termini
di originalità artistica, spinge queste personalità a prendere posizione di fronte
alla società e al teatro del loro tempo. Forse è stato Artaud a formulare questa
motivazione nel modo più esplicito: il teatro non deve imitare la vita, ma ricre-
arla. Allora il mestiere, questa tecnica attraversata da una necessità intima, di-
viene un fascio d’energie da scoprire, da mettere a nudo per ri-formare l’essere
umano, la sua dimensione sociale e spirituale.
La quantità e la varietà di esercizi inventati dai riformatori sono una “fin-
zione pedagogica”. Non insegnano né spiegano le regole della recitazione
dell’attore. Essi immergono l’allievo in un flusso di ostruzioni e costrizioni
fisiche e mentali per affrancarlo dalle categorie funzionali e utilitariste della
vita quotidiana. un lungo apprendistato consente di incorporare la coerenza di
un ethos professionale e diventare presenza che incarna i valori assorbiti nel
corso di anni di lavoro. Gli esercizi dissimulano un cuore in un lavoro che
sembra auto-annullamento ma che porta all’autonomia.
L’allenamento e gli esercizi sono stati riscoperti e si sono diffusi nella se-
conda metà del XX secolo, soprattutto nel mondo del terzo teatro, delle isole

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La conquista della differenza 51

galleggianti, dei gruppi autodidatti, degli esclusi dall’eredità della Grande


Tradizione del Teatro. Però racchiudono un’ambiguità per ciò che riguarda la
loro utilità. Quest’ambiguità può essere riassunta nella storia del maestro che
indica la luna, e dell’allievo che fissa lo sguardo sul dito che indica, cieco nei
confronti dell’astro lontano. Gli esercizi colpiscono per la loro suggestività,
per la gratificazione che danno a chi li esegue, per le impressionanti capacità
corporee che sviluppano, per la sensazione di oltrepassare i limiti, per il valore
che si attribuisce alla persona che li insegna, perché sono stati inventati e pra-
ticati da maestri i cui spettacoli ispirano. Tutto ciò non è nocivo ma assomiglia
all’atteggiamento che spinge a ingurgitare pillole credendo al loro effetto di-
magrante.
Gli esercizi elaborati dai riformatori contenevano un nucleo di informa-
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zioni essenziali in simbiosi con la visione e gli scopi dell’unica forma di teatro
alla quale essi volevano dare vita. I loro attori hanno trasformato e animato il
disegno stereotipato di questi esercizi con un’energia personale, senza lasciarsi
divorare dal loro lato ginnico. Al contrario ne hanno estratto una leggerezza,
una radiazione capace di suscitare, loro malgrado, risonanze e associazioni
negli osservatori.
Quando si ripetono gli esercizi fuori dal contesto nel quale sono sorti, si
rischia di svuotarli del loro cuore nascosto e di riprodurre solamente la conchi-
glia esterna. Senza una guida rigorosa e competente, senza un ambiente consa-
pevole di uno scopo lontano – la luna che brilla e che nasconde un lato oscuro
e inaccessibile – gli esercizi non insegnano che a guardare un dito puntato.
Il cuore segreto aiuta a vedere il dito vicino del maestro, ad essere co-
sciente della luna distante che il dito indica, e a dimenticarli entrambi lungo il
cammino che deve condurre all’incontro con se stessi.

La tradizione non esiste

Per me il teatro è esperienza diretta, per gli storici il teatro è una questione
di fatti. Amo percorrere “la storia sotterranea” del teatro dove ogni riformatore
mi viene incontro come un eretico scorticato che urla la sua solitudine e la sua
rivolta, espone la sua ferita e i cui balbettii mi spalancano un abisso di do-
mande. Sono ipnotizzato dalle loro biografie, studio sbalordito i loro spetta-
coli, mi lascio impressionare dalle loro scelte. È insieme ricerca di identità
professionale e viaggio all’interno di me stesso. Scopro la mia cultura, i miei
antenati, l’eredità che mi hanno consegnato: le mie radici e le mie ali. Provo
una sensazione molto forte che chiamo “superstizione”: una presenza che “si

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52 Eugenio Barba

trova al di sopra” di me, forse accanto a me. È un viso vulnerabile e pensoso


che non riesco a riconoscere, depositario di un plusvalore che va aldilà di tutti
i valori, i significati, gli alibi e le nostalgie che proietto sulla mia professione.
La “superstizione” è il contrario del feticismo, della credenza nei sistemi tec-
nici, nelle giustificazioni politiche, nelle categorie estetiche.
Mi invento una tradizione per scoprire la mia eredità e confrontarmi con
essa, per battermi e appropriarmi di qualcosa che è una parte della mia inte-
grità, a cui appartengo e che mi appartiene. Sento l’obbligo di darle corpo, di
tenerla in vita, di decidere come e dove investirla, perché e a chi trasmetterla.
Gli antenati – i loro destini, la loro coerenza e le loro illusioni, le parole e le
forme che mi fanno pervenire dal passato – sussurrano un segreto a me perso-
nalmente. Attraverso l’azione decifro questo segreto. Più o meno cosciente-
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mente le mie azioni danno fuoco alle loro forme e alle loro parole. Ne vedo le
ceneri spazzate dai venti dell’oblio, dalla derisione e dall’indifferenza dell’e-
poca. Nel fumo dell’incendio da me appiccato, intravedo il senso misterioso
che è soltanto mio e che mi spinge attraverso il teatro, come un cavallo cieco
che galoppa sul bordo di un precipizio ghiacciato.
La tradizione non esiste. Io sono la tradizione, la tradizione-in-vita. Essa
materializza e va oltre la mia esperienza e quella degli antenati che ho incene-
rito. Condensa gli incontri, le illuminazioni e i lati scuri, le ferite ed i cammini
invisibili sui quali non smetto di perdermi e ritrovarmi. È una tradizione che
lascia delle tracce come un trickster astuto ed ebbro, i cui tranelli mescolano
strumenti preziosi di orientamento e un ammasso di conoscenze inapplicabili.
Quando sparirò, questa tradizione-in-vita si dissolverà. Un giorno, qualcuno,
spinto da una necessità che appartiene soltanto a lui o a lei, si confronterà con
questa eredità in letargo, la scuoterà, se ne approprierà bruciandola con la
temperatura delle sue azioni. Con un atto che presuppone amore, l’erede invo-
lontario estirperà il segreto della mia eredità confrontandosi al suo senso per-
sonale.
Appropriarsi significa sapersi nutrire, scegliere le fonti della propria co-
noscenza. Il poeta brasiliano Osvaldo De Andrade pretendeva che ogni artista
fosse antropofago. Un antropofago non è un cannibale, diceva. Il cannibale
divora per voracità, mentre l’antropofago si alimenta delle parti scelte del-
l’altro, lembi impregnati di qualità, virtù e doti con cui nutre la sua forza. Bi-
sogna essere antropofago – concludeva De Andrade – non cannibale allorché
ci avviciniamo ad un’altra cultura. Dobbiamo esserlo anche verso il passato,
verso gli antenati.
Sembra un incontro inoffensivo che non presuppone un impegno assoluto.
In realtà è un’operazione rischiosa, piena di incognite poiché in quel preciso

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La conquista della differenza 53

momento ci relazioniamo con le fonti stesse della nostra esistenza, della nostra
essenza. Le relazioni tra gli esseri umani e coloro che li circondano – i vivi,
coloro che li hanno preceduti e coloro che seguiranno – sono cosparse di segni
e messaggi occulti, decifrabili nella misura in cui si va aldilà del transitorio.
Porsi la questione della tradizione, vuol dire riflettere sull’istinto di rivolta che
ha guidato i nostri passi verso un orizzonte che oggi ci rinchiude, capace di
incitarci a marciare man mano che esso si allontana. È domandarsi come sfug-
gire alla voracità del presente che impedisce di abbracciare questa scheggia di
passato di cui solo noi rappresentiamo l’avvenire.

La fortezza dalle mura di vento


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Gli antenati hanno dato l’esempio. Sono andati verso il teatro come si va
nel deserto: per incontrare sé stessi, ma anche per fondare un luogo diverso da
tutti gli altri, una fortezza dalle mura di vento in cui instaurare nuove regole di
vita. Un’isola di libertà. Dietro queste metafore si nasconde la realtà: devi en-
trare ogni giorno nella sala di lavoro, confrontarti con un nucleo di persone,
essere capace di stimolarle al fine di essere stimolato in cambio, procedere a
tentoni sperando che il lavoro mostri la strada. È questa atteggiamento che
permette alla tua isola galleggiante di non sprofondare.
Quando nel 1994 l’Odin Teatret ha festeggiato i trent’anni, mi sono detto
che dovevo prendere una decisione radicale, agitare ancora una volta il mar-
tello e frantumare le sicurezze che erano i miei limiti. Ho pensato di dire ai
miei attori che era tempo di ritirarmi, avevo svolto il mio compito. Ma io non
mi appartengo più. Appartengo ad una piccola tradizione nomade i cui ante-
nati restano in vita attraverso la coerenza e la continuità della mia azione. Una
piccola tradizione che ha dimostrato che il teatro è un ensemble, un gruppo di
individualisti che possono costruire una fortezza, esserne contadini e califfi,
coltivare una terra che, dopo Stanislavskij, è abitata dalla nostalgia di una di-
sciplina artigianale che è isola di libertà, rifugio dallo spirito del tempo e ri-
cerca dell’essenziale.
Nel museo di Antropologia di Città del Messico, nella sala della cultura
Olmeca, sono esposte delle statue gigantesche orribilmente sfregiate, a tal
punto che è impossibile riconoscere se rappresentino un essere umano o un
animale. Furono trovate sepolte sotto diversi metri di terra rossa, circondate di
offerte. Gli archeologi pensano che un cambiamento di mentalità religiosa
spinse gli Olmechi a sfigurare quelle statue e a nasconderle. Si rendevano

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54 Eugenio Barba

conto di commettere un atto rischioso, allora seppellirono anche dei doni per
placare la collera dei vinti.
È come se il teatro abbia perduto la sua effigie, come se l’usura e la fre-
nesia del tempo, o gli stessi esseri umani, gli abbiano mutilato il viso. Non ha
più profilo. Si fanno offerte a questo teatro sfigurato, lo si adorna di teorie e
significati. Ma i soli tratti che possono restituirgli la vita e la sua interezza
provengono da quella parte di noi in cui una voce canta e sanguina: la nostra
vulnerabilità di lupo e bambino.
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NONNI E ORFANI*

Una saga di famiglia


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Vsevolod Mejerchol’d era mio nonno. Potrà apparire bizzarro, ma è un


fatto oggettivamente appropriato, perché rispetta le proporzioni storiche.
Le grandi trasformazioni del teatro europeo del secolo Ventesimo, viste
dall’alto, assomigliano ad una saga familiare. Una piccola tribù di qualche
centinaia di persone che vive rivoluzioni, vittorie, sconfitte, rischi e tragedie,
che difende, dissipa o recupera l’identità del proprio ethos. Ha anch’essa i suoi
traditori, i suoi eroi e i suoi giganti. È all’interno di questa ”famiglia” – vasta
se paragonata alle cerchie d’una vita individuale, minuscola se paragonata ai
paesaggi della storia circostante – che mi sento in diritto di parlare di Vsevolod
Mejerchol’d come d’un nonno.
Conosciamo la famiglia naturale dal di dentro, senza neppure accorger-
cene. La famiglia dell’ethos, della nostra identità professionale, la conqui-
stiamo attraverso scoperte successive, prese di coscienza ed improvvise illu-
minazioni.
Nella mia famiglia dell’ethos professionale, non ci sono genitori. C’è un
fratello maggiore, Jurek – Jerzy Grotowski. Molti zii e parenti: Vachtangov e
Copeau, Brecht e Decroux, Suleržickij e Artaud. E sopra a tutti i due nonni:
Stanislavskij e Mejerchol’d. Il legame affettivo che ci lega ai nonni, mano a
mano che gli anni passano, si intreccia con la consapevolezza della distanza e
insieme dei segreti artigianali che da loro si possono dedurre. Diventa cono-
scenza e tenerezza.
Impariamo, così, che i nonni sono molto diversi dai maestri. Sono due e
rappresentano due rami della tradizione o due diverse “piccole tradizioni”.

* Pubblicato per la prima volta in “Conjunto” n. 129, La Avana 2003.

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56 Eugenio Barba

Non sono come i maestri che diventano un punto di riferimento unico e asso-
luto. La pluralità dei nonni fa capire che il problema del capostipite è un falso
problema e una fonte di inganni.
Nella famiglia professionale che costituisce la mia storia non ci furono gli
equivalenti dei genitori. Sono un autodidatta. Questo termine necessita però
una chiarificazione. C’è una differenza fra colui che apprende qualcosa senza
l’ausilio d’una scuola regolare, ma impadronendosi d’un sapere preciso, lo
stesso che le scuole impartiscono; e colui che invece è costretto non solo a ri-
tagliarsi un campo del sapere, ma anche a individuare i fondamenti di una
professione alla quale gli è stato rifiutato l’accesso. C’è differenza fra colui
che deve orientarsi da solo in un territorio che lo riconosce e in cui si rico-
nosce; e colui che deve circoscrivere il proprio territorio, scovare i propri si-
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stemi di orientamento, scoprire un’appartenenza. Quest’ultima è la condizione


di coloro che professionalmente sono orfani.
Un’intera regione del teatro del Novecento, soprattutto nella seconda
metà del secolo, è abitata da orfani, persone che hanno costruito il loro teatro
da diseredati, non riconosciuti dal teatro “legittimo”. Provengo da questa re-
gione del teatro.
Gli orfani non possono inventarsi dei genitori. Ma dei nonni, sì.

La nascita di un nonno
La scoperta d’uno dei miei due nonni ha coinciso con i miei primi passi in
cerca di teatro intorno al 1960. Era Stanislavskij. Di lui mi parlavano tutti, alla
scuola di Varsavia, che abbandonai. Di lui parlava continuamente, nei primi
anni Sessanta, colui che divenne il mio fratello maggiore, Grotowski. Era uno
di quei nonni che partoriscono leggende.
Mejerchol’d, invece, era un nome sempre avvolto da mantelli di nebbia.
Su di lui ascoltavo storie frammentarie, laconiche ed amare. Anche su di lui
circolavano leggende, ma dichiaratamente tali, ambigue e a volte grottesche.
Era una grande ombra fugace all’orizzonte, un fantasma. Furono i libri a farmi
scoprire, pezzo per pezzo, la storia di cui quell’Ombra era la proiezione ingi-
gantita e sfumata. Innanzi tutto, tre libri dei primi anni Sessanta.
Stalin era morto nel 1953. Tre anni dopo, cominciò la cosiddetta ”destali-
nizzazione” e di Mejerchol’d si cominciò di nuovo a scrivere. Ancora qualche
anno, e vennero le prime importanti traduzioni. In Italia, alla fine del 1962,
Editori Riuniti, la casa editrice legata al Partito Comunista, aveva pubblicato
La Rivoluzione teatrale, una raccolta di scritti di Mejerchol’d. Fra la gente di
teatro cominciò a crearsi un nuovo cliché, aggiungendo un terzo elemento allo

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La conquista della differenza 57

schematismo corrente che opponeva Stanislavskij a Brecht. Si diceva: “Stani-


slavskij è il teatro borghese, Mejerchol’d è il rivoluzionario”. Ogni volta che i
testimoni parlavano, quei cliché si sbriciolavano alla pari di quelli basati
sull’opposizione Stanislavskij-Brecht. Sia dal punto di vista dell’artigianato
che dell’ethos, una “rivoluzione” teatrale implica delle pratiche che non si ri-
specchiano sempre nelle prese di posizione politiche. Eppure possono essere
altrettanto radicali, rischiose e intransigenti dell’intransigenza politica.
In Francia, all’inizio del 1963, l’editore Gallimard pubblicò un’altra rac-
colta degli scritti di Mejerchol’d, Le théâtre théâtral curata da Nina Gourfinkel.
Non era molto diverso dal libro italiano. Ma l’aria che vi si respirava mi parve
di tutt’altra qualità. I due libri erano usciti contemporaneamente, a distanza di
poche settimane l’uno dall’altro. Mentre il primo metteva l’accento sulla pa-
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rola “rivoluzione”, il secondo sottolineava il concetto della “teatralizzazione


del teatro”. Visti assieme, i due titoli suggerivano l’idea che “rivoluzione” e
“teatralizzazione” fossero concetti interdipendenti. “Teatralizzazione” indi-
cava l’aspetto convenzionale del teatro, la ricerca sulla “forma”.
Ambedue i libri derivavano da una prima scelta dei materiali di Mejer-
chol’d pubblicata in Urss. La maggior parte degli scritti raccolti coincidevano.
Sia l’uno che l’altro si chiudevano rievocando l’immediatezza del dialogo
personale, le lettere a Cechov e i colloqui con gli allievi, trasmessi da Gladkov:
Mejerchol’d parla. Che cosa era, allora, a rendere tanto diversa l’atmosfera
che sembrava distinguere quelle due edizioni degli stessi testi?
Nel libro italiano prevaleva l’esigenza di documentare correttamente il
passato, rivolgendosi a coloro che studiavano il teatro. Il libro francese aveva
il sapore di un racconto fatto per le persone che invece il teatro lo facevano.
Conservava il senso dell’avventura, della scoperta, delle peripezie di un artista
perennemente inquieto, battagliero, un temperamento mercuriale col destino
d’un martire. Questa differenza derivava da minuscoli dettagli, era appena un
sapore. Forse ero io a mettercelo, mentre nelle intenzioni di chi aveva com-
posto il libro non c’era.
L’edizione italiana, per esempio, si chiudeva con un saggio di Aleksandr
Fevralski, che veniva presentato come “uno dei maggiori studiosi del teatro
sovietico degli anni Venti”. Fevralski stesso, nel suo scritto, si introduceva
come uno di quei giovani entusiasti di Mejerchol’d, che nel suo lavoro e nel
suo insegnamento avevano scoperto una ragione di vita. Il suo “Ricordo” resti-
tuiva Mejerchol’d visto attraverso uno sguardo innamorato. Ma di quello
sguardo innamorato chi aveva curato il libro sembrava non accorgersene. Era
come se fosse un sovrappiù. Era proprio quel sovrappiù o quell’eccesso che
per me dava senso alla storia di Mejerchol’d.

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58 Eugenio Barba

Fevralski nelle prime righe diceva: “L’intima amicizia che legava Mejer-
chol’d alla gioventù dipendeva dal fatto che lo stesso ‘vecchio’ era un eterno
giovane. Giovane di corpo e di spirito, nonostante i capelli grigi, la tubercolosi
e le disfunzioni epatiche. Quando dirigeva gli esercizi di biomeccanica, li
eseguiva con maggior precisione, facilità ed eleganza del più giovane, forte ed
agile dei suoi allievi. Nel corso delle prove capitava di veder ballare Mejer-
chol’d in una parte di donna. E ballava in modo tale da sembrare effettivamente
una giovane donna, invece dell’uomo anziano che in realtà era”.
Ero stregato da questo anziano maestro che si trasformava sotto gli occhi
dei suoi allievi in una ragazza, un padre severo che passava il tempo giocando.
Credevo di comprendere il sottotesto appassionato delle frasi cerimoniali che
concludevano il “Ricordo” di Fevralski: “Per tutti noi, mejercholdiani, egli era
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un secondo padre, esigente, ma pronto a impartirci nell’arte le grandi lezioni


che sono divenute la base dell’attività di quanti l’hanno seguito. Noi tutti sa-
remo grati per sempre al nostro maestro”. Assomigliavano alle frasi di circo-
stanza che si leggono a proposito degli uomini straordinari. Eppure, dietro
l’enfasi convenzionale, sentivo tremare quel particolare sentimento che lega il
discepolo al maestro e che fa della vera pedagogia non un metodo, ma una
storia d’amore.
In quel testo di Fevralski trovai negata per la prima volta, per iscritto, lo
schematica contrapposizione fra Mejerchol’d e Stanislavskij. Fevralski rac-
contava d’aver assistito, nel 1938, alla comparsa di Mejerchol’d nel corso di
una delle prove che si tenevano a casa di Stanislavskij, gravemente cardiopa-
tico. Parlava della tenerezza, del rispetto e della stima che Stanislavskij dimo-
strava per il suo più giovane collega, bersagliato dai portavoce del regime.
Quell’aria di famiglia, con le sue tensioni e i suoi litigi, ma impregnata del
senso di un’appartenenza e di un’idealità comune, era più importante, per me,
orfano in cerca d’un sistema di orientamento, dei discorsi sulle differenze dei
metodi e delle estetiche.
Il nonno nebuloso cominciava ad avere un profilo preciso. Dal fantasma
nasceva la persona. Prendeva forma un tratto per volta, in maniera non sistema-
tica ed imprevedibile, così come lui diceva che nasceva il personaggio per l’at-
tore: a volte compare prima una scarpa, o un cappello, o un modo di inclinare la
testa mentre si ascolta. Poi, lentamente dal primo germe emerge la figura.

La doppia vita del teatro


Ancora libri. Ora leggevo i testi degli antenati come se fossero scritti ap-
posta per me, per l’erede orfano che abitava l’oscura provincia del teatro e non

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La conquista della differenza 59

sapeva nulla. Era un’illusione infantile e megalomane. La nutrivo segreta-


mente, perché mi rendevo conto che era un’illusione vitale. Ritrovai, qualche
anno dopo, in tutt’altro contesto, la stessa miscela di megalomania e modestia.
Nel 1965 comparve in Italia Il trucco e l’anima di Angelo Maria Ripel-
lino. Il libro era il racconto dell’avventura artistica dei principali registi russi
nei primi trent’anni del Novecento. L’autore parlava di ciò che non aveva visto
come se ne fosse stato testimone diretto. Preciso nell’uso dei documenti, fa-
ceva ciò che uno storico dovrebbe saper fare: cercare e ritrovare il tempo per-
duto con la tecnica del poeta. Al centro dei suoi interessi, e della sua fascina-
zione, c’era Mejerchol’d.
Ripellino era un prestigioso studioso di letteratura slava, ma anche un
noto e apprezzato poeta. Incideva sulla pagina la silhouette suggestiva dei
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protagonisti con parole decise e necessarie. Fu lui a rivelarmi che il teatro ha


una doppia vita: nel presente degli spettacoli e nel passato che torna tramite i
libri.
Questa doppia vita non era un’astrazione. Per me si manifestava concreta-
mente e quotidianamente. In quanto orfano innamorato dei fantasmi dei nonni,
cercavo di decifrare, nel lavoro pratico con i miei attori inesperti, ciò che i loro
scritti mi trasmettevano in maniera difficile. Nell’enigmatica chiarezza delle
loro parole riconoscevo a posteriori le soluzioni che avevo indovinato nel la-
voro pratico. Cominciò un fitto dialogo che comprendeva i miei giovani com-
pagni e le vecchie sempre-giovani ombre che mi parlavano dal passato.
La doppia vita si manifestava a tutti i livelli. Sia nella mia esperienza
pratica che in quella trasmessa dagli scritti, si trattava di distinguere la formu-
lazione dalla sostanza operativa formulata. In molti casi avrei potuto sostituire
la terminologia di Stanislavskij o di Mejerchol’d alle parole-chiave che gli at-
tori ed io usavamo fra di noi nel corso del lavoro per indicare dei procedimenti
tecnici di cui avevamo tutti una precisa esperienza. Mi resi conto che qualcosa
di simile succedeva anche con la terminologia dei nonni. Quelle che sembra-
vano estetiche e teorie divergenti erano, a volte, solo differenti metafore. Mi
apparve chiaro, per esempio, che dietro le tre parole-emblema con cui Mejer-
chol’d aveva indicato, in tre diverse tappe del lavoro, la propria visione del-
l’attore – grottesco, danza, biomeccanica – si celava sempre uno stesso prin-
cipio. O meglio, un ricerca coerente e accanita sempre nella stessa direzione.
Personalmente, la conseguenza di tutto ciò non fu l’ovvia consapevolezza
della relatività delle diverse formulazioni, ma lo stimolo a decifrare le singole
lingue di lavoro così personalizzate e sempre varianti. Questo gergo pragma-
tico non si preoccupa degli equivoci che le metafore usate possono determi-
nare in coloro che non condividono la stessa esperienza. Una raffinata trappola

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60 Eugenio Barba

scatta per il lettore: determinate parole sembrano descrivere processi ripetibili


che conducono a risultati certi, creando così l’illusione che i termini usati, in-
vece di essere un semplice cartello indicatore, siano una definizione, una ri-
cetta o addirittura un’utopia.
Il fitto dialogo con il lavoro, con le parole che venivano dal passato e con
coloro che scrivevano la storia mi trasse fuori dalla mia condizione di orfano.
Mi aiutò a trovare la mia famiglia teatrale e a non appartenere completamente
al panorama del teatro del presente. Era la scoperta di una “tradizione fami-
liare” molto particolare, un ambiente verticale, piantato in parte nell’attualità e
in larga parte affondato nelle generazioni precedenti. Le storture, gli entu-
siasmi e le mode del teatro che mi circondava perdevano molto del loro assil-
lante peso e soprattutto non erano la sola realtà inevitabile. Erano possibili
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altri modi d’essere del teatro perché c’era un altrove con cui identificarmi e
misurarmi.
Oggi sono grato alla sorte che mi ha immesso nella professione come or-
fano dotato di nonni. Sono potuto crescere in un ambiente verticale, un teatro
che non sta tutto nel presente e che rende la dissidenza – prendere posizione a
parte – un riflesso condizionato altrettanto caro d’una casa ancestrale.

Teatro perspicace
Il teatro della nostra epoca è necessario soprattutto per chi lo fa. All’inizio
degli anni 1960, furono Peter Brook e Jerzy Grotowski a indicare questo mu-
tamento nella ragione sociale e culturale del teatro. Affermarono l’esigenza di
non soffrire il mutamento come una perdita di senso, ma come punto di par-
tenza per individuare un valore. Se il teatro diviene superfluo, nella nostra so-
cietà, la sua forza può derivare solo dalla sua differenza. In altre parole, dalla
capacità di raccogliere attorno a sé quegli spettatori le cui domande trovano
un’eco nei bisogni che spingono alcune persone a fare teatro.
Nell’età dei nonni, di Stanislavskij e Mejerchol’d, il teatro era ancora
considerato un bene necessario. La sua ragione sociale non era messa in que-
stione. Ma Stanislavskij e Mejerchol’d dettero un fondamento anche al valore
del teatro dal punto di vista di chi lo fa. Crearono una vita parallela accanto
alla normale produzione di spettacoli. Si dedicarono ad attività anomale, con-
centrandosi sulla qualità della vita di gruppo, sull’esistenza e sulla difesa
d’una microcultura, sul teatro come laboratorio in continua ricerca, o nucleo
di esperienza spirituale e politica. Usarono la pratica teatrale anche come via
per il lavoro dell’essere umano su di sé, come strumento per esplorare la qua-
lità delle relazioni fra individui, e nutrire la forza d’animo per opporsi.

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La conquista della differenza 61

Stanislavskij sentì con particolare forza le potenzialità del teatro aldilà del
mettere in scena testi. Il lavoro dell’attore su di sé e sul personaggio poteva
diventare un valore autonomo, indipendentemente dalla realizzazione dello
spettacolo. Lui che era considerato un geniale regista-demiurgo cominciò a
privilegiare la fase delle prove, come se lì fosse possibile sperimentare l’es-
senza stessa del fare teatro.
Stanislavskij trasformò un paradosso in scienza. Il paradosso era cercare
la verità o l’autenticità attraverso la finzione scenica. Traeva una conseguenza
inaspettata dal luogo comune secondo cui la vita quotidiana è una recita, e il
mondo intero non è altro che teatro. Se questo è vero, se ne deduce che fare
teatro significa interrompere il nostro continuo recitare. Non è una boutade.
Fu una linea d’azione conseguente, metodica, scientifica.
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Fu Mejerchol’d, però, ad individuare praticamente, la via per creare una


sorta di fissione della pratica teatrale, sprigionandone le energie potenziali, sia
per chi il teatro lo fa, sia per chi lo vede. Il primo passo ebbe il carattere di
un’umile invenzione artigianale. Mejerchol’d spiegò come e perché l’“azione
plastica” dell’attore potesse non armonizzarsi con le parole del personaggio.
Indicò nella vita quotidiana le radici di questa complementarità o indipen-
denza fra il piano delle parole e quello dei gesti. Le parole rappresentano le
intenzioni esplicite nelle relazioni fra gli individui, sincere, convenzionali o
menzognere. I gesti, gli atteggiamenti, le distanze, gli sguardi ed i silenzi
spesso non accompagnano le parole, non si limitano a sottolineare le relazioni
che queste enunciano, ma rivelano quali siano in realtà tali relazioni, sia dal
punto di vista emotivo che sociale. Mostrò come l’attore potesse modellare
coscientemente questi due livelli di comportamento, disegnando i propri mo-
vimenti secondo una logica che intesseva nuovi rapporti con le parole, senza
limitarsi ad illustrarle.
Era un procedimento tecnico i cui effetti mettevano lo spettatore in grado
di non fermarsi alla superficie, e di guardare contemporaneamente le molte-
plici dinamiche che operano nelle diverse realtà dell’individuo e dei suoi rap-
porti con la società. La sfasatura fra i due livelli della recitazione – quello del
comportamento fisico e quello del testo – dava profondità alla visione dello
spettatore, rendendolo perspicace.
La ricerca della perspicacia riguarda sia lo spettatore che l’attore. Il che
non vuol dire che sia l’uno che l’altro vedano e intendano allo stesso modo.
Non vuol dire che sia l’attore che lo spettatore percepiscano la stessa espe-
rienza di un’esperienza assistendo all’azione teatrale o compiendola. Un at-
tore può compiere una propria esplorazione e cercare un senso, nel e col mi-
crocosmo del suo corpo-mente, che rimane indipendente rispetto al senso ed

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62 Eugenio Barba

all’esplorazione che compie lo spettatore assistendo allo spettacolo. Uno


stesso spettacolo può divenire una vera e propria spedizione antropologica sia
per l’attore che per lo spettatore, ma non è necessario che per l’uno e per l’altro
sia proprio la stessa spedizione.
Non so se su quest’ultimo punto Mejerchol’d la pensasse veramente così.
Certamente è questo quel che da lui ho imparato.
Molte volte, in Europa come in Asia, ho assistito a spettacoli di cui non
comprendevo le parole e di cui ignoravo la trama e che hanno inciso profonda-
mente la mia memoria. Mejerchol’d m’ha aiutato a spiegarmi le ragioni di
questa mia constatazione. Per lo spettatore, l’efficacia dell’attore non dipende
soltanto dalla comprensione intellettuale ma soprattutto dalla sua destrezza a
creare un “effetto di organicità”, a incarnare le leggi del movimento della vita,
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cioè della biomeccanica. Questa qualità di comprensione passa attraverso i


sensi e le reazioni cinestetiche dello spettatore, mette in moto – non meno
delle parole – i suoi pensieri e li rende perspicaci. Lo spettatore diventa, allora,
una persona che sa vedere come se vedesse per la prima volta. Lo spettacolo
acquista la consistenza non solo di un’interpretazione di un testo o di un nodo
di avvenimenti, non si risolve soltanto in un coinvolgimento emotivo, ma di-
venta esperienza di un’esperienza.
La fissione operata da Mejerchol’d nel nucleo della pratica teatrale è la
premessa per affrontare la drammaturgia in termini di complessità. Uno spet-
tacolo è un organismo composto di differenti livelli di organizzazione dram-
maturgici, ognuno dei quali deve vivere di per sé, interagendo con gli altri,
come le linee dei diversi strumenti in una composizione musicale.
Vi è il livello d’organizzazione narrativo, con i suoi intrecci e le sue peri-
pezie – quello che la tradizione teatrale ha meglio indagato.
Vi è il livello d’organizzazione della drammaturgia organica, che com-
pone la dinamica delle azioni e il flusso degli impulsi che si dirigono ai sensi
dello spettatore. Questa natura di “teatro che danza” dà alle azioni una coe-
renza che non dipende dal significato, ma dalla capacità di convincere, tenere
desti e stimolare i sensi dello spettatore. La drammaturgia organica agisce
come una musica che non si rivolge all’udito, ma al sistema nervoso dell’attore
e dello spettatore.
Vi è, infine, quella che in mancanza di un’espressione migliore chiamo la
drammaturgia dei mutamenti di stato. Potrei definirla come l’insieme dei nodi
o dei cortocircuiti drammaturgici che alterano radicalmente il senso della nar-
razione e fanno precipitare i sensi degli spettatori in un vuoto imprevisto,
condensando o disorientando le loro attese. Mejerchol’d ha continuamente
sottolineato l’importanza di questo terzo livello d’organizzazione drammatur-

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La conquista della differenza 63

gica, utilizzando e commentando il concetto di grottesco. Il suo allievo


Ejzenštejn, ne applicò i principi al montaggio cinematografico. Parlò del-
l’estasi intesa in senso letterale, come ex-stasis, un saltar fuori dalla dimen-
sione ordinaria della realtà.
La densità che risulta dall’intreccio dei tre livelli di organizzazione dram-
maturgica non ha come solo obiettivo l’impatto sulla percezione dello spetta-
tore. Serve anche all’attore nel suo lavoro su se stesso. In questo caso, la
drammaturgia non genera uno spettacolo, ma una partitura chiamata “eser-
cizio”. Gli esercizi di biomeccanica ideati da Mejerchol’d sono organismi
teatrali composti per chi il teatro lo fa, non per chi lo vede. Non sono solo ad-
destramento fisico, ma forme incorporate di un modo di pensare.
La storia ha salvato uno spezzone di film che presenta alcuni esercizi
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biomeccanici composti da Mejerchol’d, eseguiti dai suoi attori. Questo docu-


mento ci trasmette, in un linguaggio cifrato, il pensiero-in-azione di Mejer-
chol’d. È come se lo si vedesse vivo, faccia a faccia. Mejerchol’d affermava
che l’attore deve saper “vivere nella precisione d’un disegno”. Il documento ci
permette, a distanza di tempo, di constatarlo con i nostri occhi. Si vede chiara-
mente come gli attori vivano, e non si limitino ad eseguire, gli esercizi. Tutto
accade come se il disegno fosse un codice che prende vita e fiorisce nel-
l’organicità di un determinato individuo.
L’organicità è dell’attore. Ma il disegno è di Mejerchol’d. È la traccia di
un pensiero che vive di contrimpulsi e poggia sui contrasti; che dilata alcuni
dettagli e li monta in simultaneità con altri appartenenti, normalmente, a fasi
successive dell’azione; che inventa la peripezia come una serie di scarti ri-
spetto alla linea di condotta prevedibile. La peripezia non riguarda soltanto lo
sviluppo di una storia, diventa comportamento fisico, disegno dinamico, danza
dell’equilibrio e delle tensioni contrastanti. Ogni esercizio dura pochi secondi,
sufficienti però a condensare la visione e la realizzazione del teatro come sco-
perta e messa a nudo dell’ossatura nascosta sotto le apparenze del visibile.
Gli esercizi di biomeccanica non sono modelli per esercitarsi, ma meta-
fore sensoriali che mostrano come si muova il pensiero. Esercitano il pensiero.
Sono azioni che distillano il modo in cui si manifesta ciò che chiamiamo
“vita” ai diversi livelli d’organizzazione, da quello della presenza pre-espres-
siva e del bios scenico, a quello espressivo e drammaturgico, sociale e politico.
Mostrano Mejerchol’d come visionario creatore di un teatro storico. Non ri-
produce i colori dei luoghi e delle epoche, non si dedica all’interpretazione di
avvenimenti storici, ma affonda lo sguardo nelle remote radici del divenire.
Il disegno degli esercizi ci restituisce Mejerchol’d più d’ogni fotografia o
d’ogni ritratto.

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64 Eugenio Barba

A lungo ho pensato agli esercizi, alle loro partiture di movimenti, come


ad uno strumento per la formazione degli attori. Poi mi sono reso conto che il
loro valore più profondo consiste nell’essere canali di un’eredità che non si
può affidare alle parole. È un modo di pensare e un ethos che il maestro incide
nel corpo-mente dei suoi attori e che da loro può disseminarsi.

Il microscopio e la storia
Nella piazza del mio cuore di teatrante orfano c’erano le due statue dei
nonni. Stanislavskij teneva in una mano un microscopio e nell’altra un libro di
poesie; Mejerchol’d con una mano brandiva un manifesto di agitazione e pro-
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paganda e con l’altra sfogliava libri di storia, alla ricerca di punti di riferimento
e termini di confronto.
Ambedue i nonni, infatti, erano scienziati – oltre che artisti e pescatori
d’uomini. Stanislavskij praticava la scienza sperimentale del teatro e del-
l’attore, amava la ricerca in profondità, partiva dall’esperienza per risalire alle
fonti della vita scenica, ai principi di base e condivisibili. Procedeva dal com-
plesso al semplice, dall’organismo alla cellula.
Mejerchol’d, invece, pensava la natura del teatro in termini di lotta. Ricer-
cava nel microcosmo dell’individuo – sia nell’attore che nello spettatore – gli
stessi schemi d’azione che caratterizzano i mutamenti sociali. Conflitti, ten-
sioni, polarità erano per lui sinonimo di “vita”. L’essenziale non era per lui la
ricerca delle fonti della verità o dell’autenticità, ma l’indagine sul modo in cui
la dinamica della storia può irrompere e miniaturizzarsi nello spettacolo ed in
ogni frammento dell’azione dell’attore, nel suo corpo-mente.
Una delle cose che mi faceva sentire vicino a Mejerchol’d era la sua vora-
cità per la storia dei teatri.
Quando sfogliamo i molti volumi che Stanislavskij ci ha lasciato, ci tro-
viamo in un panorama di testimonianze dirette, una folla di attori e attrici che
ha conosciuto, che ha visto sui palcoscenici più diversi e lontani. Anche dei più
mediocri ricorda un gesto o un’inflessione di voce che dopo anni può portare ad
esempio e sviscerare con il suo bisturi di scienza e di poesia. Spazia fra la
Russia e il resto d’Europa, fra il teatro, l’Opera e la danza. Però è raro che Sta-
nislavskij senta il bisogno di cercare nei libri le tracce di un teatro sparito.
Sembra fidarsi soltanto di quel che ha sperimentato con i propri occhi e i propri
sensi.
Mejerchol’d amava viaggiare nel regno dei morti, nella storia. Interrogava
il teatro-che-non-c’è-più per inventare il teatro che-non-c’è-ancora. Tutti i
suoi scritti sono fitti di interpretazioni e casi ispiranti del passato. Alla luce

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La conquista della differenza 65

delle sue esperienze interpreta i documenti antichi, li libera dalla polvere del
tempo, li trasforma in voci con cui dialogare.
Nella piccola famiglia di riformatori e profeti che cambiarono la storia
del teatro novecentesco, Appia, Stanislavskij, Decroux e persino Brecht fu-
rono simili a scienziati puri. La loro ricerca ebbe il rigore di un procedimento
deduttivo. Esplorarono il territorio scenico con la volontà di individuare le
fonti della vita e delle nuove finalità del teatro. Altri – Craig, Copeau, Mejer-
chol’d – preferirono ampie ricognizioni nella storia, raccolsero materiali ed
esempi praticabili, misero in moto nuove ricerche, contribuirono a rinnovare
la storia del teatro. Crearono ambienti in cui gli artisti di teatro dialogavano
con gli storici.
Non sono distinzioni rigide. È evidente che nessuno può fare a meno della
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storia, così come non c’è indagine del passato che non sia nutrita da ricerche
sperimentali. Si tratta d’una differenza di propensioni, non di metodi contrap-
posti. In base a queste propensioni, se dovessi scegliere in quale dei due gruppi
inserire il mio fratello maggiore, Grotowski, lo immaginerei tra gli scienziati
puri, insieme ad Appia e Stanislavskij. Per quanto mi riguarda, mi collocherei
piuttosto nella schiera capeggiata da Craig e Mejerchol’d.
Coloro che entrano nel teatro come “orfani” hanno un particolare bisogno
del passato. La nostra stessa condizione ci spinge a costruirci un passato, ad
inventarci una tradizione. Invenzione della tradizione è diventata un’espres-
sione comune dopo la brillante raccolta di saggi storici di E.J. Hobsbawm a
metà degli anni 1980. Può indicare due prospettive molto diverse: la composi-
zione artificiale, a scopo politico e nazionalistico, d’una origine inesistente, un
mito fabbricato come un’arma (questa è la prospettiva di Hobsbawm). Oppure
può significare un sentiero tracciato nella sfera buia del passato collegando
punti lontani, da usare come sistema di riferimento. Nel primo caso l’inven-
zione della tradizione è un falso storico. Nel secondo, è come una costella-
zione. Nel primo caso nutre il fanatismo. Nel secondo, è un orientamento per
la conquista della propria differenza, cioè della propria identità.
Esiste allora un’obiettiva o inventata tradizione di Mejerchol’d? Non
credo. Vuol dire, allora, che l’essenziale del suo insegnamento è sprofondato
nell’oblio?
Non esistono soltanto le tradizioni, con la loro continuità basata sull’inin-
terrotta tensione fra innovamento e conservazione. Esistono anche tradizioni
sconnesse che si trasmettono attraverso la discontinuità e la contraddizione,
eludendo le vie rette. Passano dall’uno all’altro elemento, diventando irrico-
noscibili, come è irriconoscibile, nella nuvola, l’acqua di un torrente secco.

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66 Eugenio Barba

L’insegnamento dei maestri – e dei nonni – non si estingue né si trasmette.


Evapora. E va a piovere dove meno ce lo aspettiamo. Di questa ironia della
storia, mi sono reso conto quasi fisicamente quando nella mia vecchiaia ho
visitato la casa del nonno.

La casa del nonno


A Mosca, nel maggio del 2001, ho incontrato la nipote di Vsevolod Me-
jerchol’d, nella casa che fu di suo nonno. Lei è riuscita a ricostruirla nei suoi
più minuti dettagli salvaguardandola, ufficialmente, come museo e istituzione
culturale. Ne ha fatto un piccolo porto dove artisti e storici di diverse genera-
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zioni possono incontrarsi. Su quella casa soffiò, alla fine degli anni 1930, il
vento della storia, seminando distruzione. Persino la memoria rischiò d’essere
cancellata. Ora, la casa del nonno raccoglie e conserva alcuni dei più impor-
tanti documenti della storia dell’“età d’oro” del teatro.
Marija Aleksejevna Valentej, è il nume tutelare della casa del nonno.
Sembra fragile, ma ha combattuto caparbiamente tutta la sua vita contro la
dissipazione della memoria. È carica d’anni e i suoi occhi sono pieni di luce.
Avevo gli occhi appannati, a Mosca, quel mattino del 15 maggio 2001,
nel “salotto giallo” dove Mejerchol’d e sua moglie Zinaida Raikh accoglie-
vano i loro amici intorno al pianoforte dove Shostakovich e Prokofiev suona-
vano e Mejerchol’d immaginava partiture invisibili per i suoi spettacoli.
La casa del nonno, quel crocicchio di cultura voluto e difeso dalla nipote
Marija, è un trionfo di colori. Vi ritrovo i vividi schizzi scenografici che ho
visto infinite volte nel bianco e nero delle foto nei libri. Tra di loro campeggia il
grande ritratto di Mejerchol’d steso sul divano, la pipa in bocca, un cagnolino
accucciato sulla gamba sinistra. Lo sfondo, un grande arazzo floreale, è una
deflagrazione variopinta. Pëtr Konchalovskij ha ritratto Mejerchol’d un po’ alla
maniera di Matisse, comodo, raffinato, pensoso e rilassato. Di lì a poco avrebbe
subìto l’arresto, la tortura, un processo infame, la morte per fucilazione.
Siamo seduti al grande tavolo ovale, beviamo champagne e tè, gustiamo
pasticcini, Béatrice Picon-Vallin traduce con la sua voce trepida il pacato mor-
morio di Marija Aleksejevna. Intorno a questo tavolo si riunivano, discutendo
e sghignazzando, Belyi e Pasternak, Erdman e Olesha, Erenburg, Ejzenštejn e
Majakovskij. Più raramente gli antichi colleghi del Teatro d’Arte, Katjalov e
Olga Knipper. Gli occhi di Marija Aleksejevna si riempiono di lacrime quando
ringrazia Béatrice per quel che ha fatto e continua a fare per diffondere l’opera
di suo nonno. Ringrazia anche tutti noi, che attraverso il nostro lavoro ren-
diamo onore alla sua opera.

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La conquista della differenza 67

Sento una gioia che zampilla dal pessimismo. Non è vero che nulla resiste
alla barbarie della storia. Tutto era stato ben congegnato perché di Mejerchol’d
sparisse ogni memoria. Così sarebbe stato, se il padre e i giovanissimi figli di
Zinaida Raikh, ed Ejzenštejn con loro, non avessero nascosto i suoi documenti
fra le pagine di libri e quaderni innocui, a rischio della libertà e forse della
vita, occultandoli in archivi e luoghi lontani da perquisizioni e razzie. Ben
poco sarebbe rimasto del nonno senza la lunga accanita lotta di sua nipote
Marija Aleksejevna. Grazie a queste persone dalla fedeltà segreta e coraggiosa,
Mejerchol’d non è stato sopraffatto dalla storia.
Accanto alle storie di resistenza, ci sono le storie sotterranee, che raccon-
tano il diffondersi della tradizione sconnessa di Mejerchol’d. Quell’uomo an-
ziano e longilineo, con la sua pipa in bocca, disteso fra colori accesi, è evapo-
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rato. La sua nuvola è arrivata lontano, così lontano che persino Maria
Aleksejevna non ne ha sentito parlare.
Seki Sano discendeva da una casata aristocratica giapponese ed aveva
conosciuto la galera, perché diffondeva le idee della rivoluzione socialista nei
suoi spettacoli. Diceva che l’URSS era “il paradiso del teatro”. Da quel para-
diso venne espulso nel 1937. Vi era approdato nel 1932. Frequentò Stanislav-
skij e divenne un profondo conoscitore del suo “metodo”. Entrò anche nella
cerchia di Mejerchol’d e dal 1936 ne seguì il lavoro. Il teatro era per lui un’arte
politica. Non si lasciava distrarre dalle diatribe puramente estetiche. Sapeva
per esperienza che le scoperte di Stanislavskij e quelle di Mejerchol’d face-
vano parte di un unico bagaglio. Con quel bagaglio arrivò in Messico, nel
1939, dopo essersene dovuto andare anche dagli Stati Uniti a causa delle sue
idee. Intanto, nel «paradiso del teatro», Mejerchol’d veniva fatto sparire.
Seki Sano, il giapponese che aveva avuto il privilegio di abitare per
qualche anno in “paradiso”, formò in Messico un’intera generazione del più
pugnace teatro latinamericano. Tradusse il termine-chiave di Stanislavskij,
perizhivanie, nello spagnolo vivencia. Accanto a lui, maestro di teatro e uomo
libero, si formarono, fra gli altri, Adolfo de Louis, cubano, il nicaraguense
Alfredo Valessi e il messicano Jesus Gómez Obregón, che ebbe tanta impor-
tanza per la vita teatrale del Venezuela.
Di Seki Sano mi parlò a lungo Santiago García, uno dei maestri del teatro
colombiano, fondatore del teatro La Candelaria. Nel 1954, Rojas Pinilla, che
capeggiava la dittatura militare al potere in Colombia dal 1952, decise di fon-
dare una televisione nazionale. Sguinzagliò i suoi uomini alla ricerca del mi-
glior regista per dirigere una scuola che formasse artisti televisivi. Natural-
mente, doveva parlare correntemente lo spagnolo. Gli indicarono un

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68 Eugenio Barba

giapponese. Era il migliore, famoso in Messico e parlava spagnolo. Seki Sano


aprì una scuola per attori a Bogotà nel 1956.
Santiago García era un giovane architetto che sognava di dedicarsi all’arte
della pittura. Si era formato in Europa e negli Stati Uniti. Aveva un buon la-
voro, ma se ne sentiva prigioniero. Incuriosito da un annuncio su un giornale,
si presentò da Seki Sano. Questi, dopo un lungo colloquio, lo accettò fra i suoi
allievi. Gli fece conoscere un modo d’essere del teatro, una sua dimensione
individuale e collettiva che sorprese il giovane architetto scontento e gli
cambiò la vita. Abbandonò il suo lavoro per divenire attore e regista. Oggi
Santiago García è una figura centrale per la storia del teatro latinoamericano.
Ben presto il dittatore venne a sapere la “spaventosa notizia” che quel re-
gista giapponese che aveva formato tanti nuovi talenti era un comunista. Tanto
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pericoloso che quand’era entrato in Messico, sedici anni prima, un giornale


aveva dovuto avvertire: “Es directór teatral, no dinamitero”, è un regista non
un dinamitardo.
Quanti modi indiretti e non-violenti ci sono d’esser dinamitardi? E quanti
ne permette il teatro? Seki Sano, espulso dalla Colombia, tornò in Messico,
dove continuò ad essere attivo fino alla sua morte, nel 1966.
Era stato il terremoto del Kanto, in Giappone, nel 1923, a decidere della
vocazione politica ed artistica di Seki Sano. Era uno studente, destinato ad
appartenere all’élite del suo paese. Il terremoto gli fece scoprire che sotto una
vita ben ordinata covavano violenza e ingiustizia. Approfittando della situa-
zione di emergenza, molti di coloro che amministravano il potere del moderno
stato giapponese eliminarono i propri nemici, perseguitando i lavoratori co-
reani immigrati e i comunisti, angariando la casta discriminata dei burakumin,
malmenando e minacciando alcuni leaders politici progressisti. La propaganda
governativa seminò il fanatismo fra la popolazione. Il terremoto insegnò a
Seki Sano che la terra su cui poggiava i piedi è stabile solo in apparenza. Una
catastrofe naturale gli rivelò le violente dinamiche della storia sotto la ma-
schera d’una società civile.
Questa, per sommi capi, è un frammento di tradizione sconnessa, la storia
del giapponese che portò Mejerchol’d in Messico e in Colombia, e che attra-
verso il rigore del mestiere trasmise il senso di un teatro che vive nella disap-
partenenza e nel sentimento della rivolta.
Ho parlato di orfani. Forse avrei dovuto parlare di “figli dei terremoti”, di
coloro che fanno teatro sapendo che la terra può sempre cominciare a tremare
e sconvolgersi sotto i loro passi. Sappiamo che i nostri spettacoli, arte effimera
curata come se volesse prolungarsi nell’eternità, possono da un momento

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La conquista della differenza 69

all’altro inabissarsi con tutta l’isola che li contiene e li sorregge. Ma, allo
stesso tempo, divenire nuvole di una terra che non c’è più.
Una nuvola grande come la vela di un galeone, mutevole pur restando
sempre se stessa, attraversa il “salotto giallo” nella casa di Mejerchol’d.
I nostri nonni, cara Marija Aleksejevna, non spariscono. Evaporano.
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LA CASA DELLE ORIGINI E DEL RITORNO*

Rettore Magnifico, professori, autorità, studenti, signore e signori,


permettetemi, come segno di gratitudine, in questa cerimonia che onora i
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miei compagni dell’Odin Teatret e me, di ricordare gli inizi – le prime parole
di un noto testo teatrale:
– Merdre!
Il più conosciuto fra gli incipit del dramma europeo forse andrebbe evi-
tato in questo solenne consesso. Ma non si può, perché questa sorprendente
esclamazione è senza dubbio la più significativa.
La provocazione con cui Jarry aprì Ubu Roi, quando fu scritta e detta la
prima volta, dovette essere deformata (Merdre!) per risultare accettabile.
Oggi, se non fosse deformata e contraffatta, sarebbe talmente banale da pas-
sare inosservata. Questa parola distorta dovrebbe essere scritta sulle bandiere
dei nostri teatri, se i teatri alzassero ancora bandiere in cima ai loro tetti, come
a Londra ai tempi di Shakespeare.
Quella parola sulla bandiera non è un insulto. È un rifiuto. È questo che il
teatro, lo sappia o no, dice al mondo che lo circonda. E, per dirlo con efficacia
e coerenza, deve allontanarsi dal linguaggio quotidiano, rielaborarlo e situarlo
in uno spazio paradossale.
Lo spazio paradossale è l’unica patria del teatro.
Per questa patria Jarry ha creato un’immagine sarcastica e antitetica,
degna di figurare come emblema su una bandiera:
Quant à l’action, qui va commencer, elle ce passe en Pologne, c’est à dire
Nulle Part.
Era il 10 dicembre 1896, quando alla ribalta del Théâtre de L’Oeuvre di
Parigi Jarry pronunciò queste parole, che possono risultare amare, ironiche,

* Discorso in occasione del conferimento del Dottorato honoris causa dall’Università di


Varsavia il 28 maggio 2003. Pubblicato per la prima volta in “Culture Teatrali” n. 7/8, Bologna,
2003.

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persino disperate – tutto tranne che tristi o provocatorie. Sono allegre e piene
di vitalità, come l’humour noir che ho imparato a conoscere ed ad apprezzare
qui in Polonia. Dovremmo però riflettere su un fatto: quando Jarry mise sulla
carta quelle parole gioiose e nichiliste, Nulle Parte lo scrisse con le iniziali
maiuscole. Non come un’assenza, ma come un’identità.
La Polonia è la mia patria professionale. L’ho sempre pensato, perché qui
ho vissuto gli anni fondamentali del mio apprendistato. Qui assimilai la lingua
di lavoro, l’atteggiamento critico verso la storiografia, le basi del sapere e le
tensioni ideali dell’artigianato teatrale. La Polonia fu l’ambiente che guidò i
miei primi passi verso il mio destino. Oggi, nel momento del ritorno alla casa
delle mie origini, dopo quasi mezzo secolo, mi chiedo se la Polonia non sia
rimasta la mia patria professionale soprattutto per la sua forte vocazione a
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rappresentare per me il reame di Nulle Part.


Che cosa voleva dire Jarry con quell’espressione, nel lontano 1896? Ac-
cennava soltanto allo smembramento politico della nazione polacca? E a che
cosa accennava scrivendo le parole maiuscole? Il greco l’aveva studiato seria-
mente a scuola. E in greco nulle part diventa oû-tópos, Utopia. Era anche a
questo che alludeva nel suo gaio e vitale humour noir? Noi lo sappiamo fin
troppo bene, attraverso le nostre esperienze e la Storia che ha accompagnato le
nostre vite, quanto l’Utopia abbia a che vedere con l’humour noir.
Parlo di Jarry, pensando alla mia Polonia di più di quarant’anni fa, ed ecco
emergere Witold Gombrowicz e il suo Ferdydurke. Lo sapevamo a memoria. Il
libro di Gombrowicz, come un grande mito beffardo, forniva le parole, i para-
digmi e le tipologie attraverso cui Grotowski ed io ci parlavamo. Ed immedia-
tamente, nel teatro interiore della mia mente, Gombrowicz e Jarry si accostano
ad un artista che ha popolato di immagini indelebili il teatro del secondo No-
vecento, e del quale vorrei evocare la presenza: Tadeusz Kantor.
Di nascita e scuola sono italiano. D’educazione politica, norvegese. Pro-
fessionalmente, polacco. Nel 1963, quando nel teatro-laboratorio 13 Rzedów
di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen dovevo mettere in scena un testo per il
mio saggio di regia, pensai alle mie radici, alla Divina Commedia di Dante
Alighieri. Progettavo uno spazio teatrale doppio, due palcoscenici ai due
estremi della sala, e il viaggio di Dante in mezzo, fra gli spettatori, nello spazio
del Disordine – una parola anche questa da scrivere con la maiuscola, come
Nulle Part. Cercavo uno scenografo e mi rivolsi a Kantor. Ci incontrammo e
parlammo a lungo. Era curioso e gentile. Non mostrò affatto il caratteraccio
che si diceva. A Opole? E in quale teatro, al Ziemi Opolskiej? Gli risposi che
lavoravo con Grotowski. Ricordo il lampo del suo sguardo. Kantor si alzò
senza una parola e mi piantò in asso. Non l’ho più rivisto.

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Questa è aneddotica, non è storia. Le rivalità, le gelosie, le glorie e le


paure sono schiuma effimera e non vanno confuse con le potenti onde del
mare che si accaniscono contro la stabilità della terra ferma.
Se richiamo alla memoria le onde apparentemente scomparse, non faccio
l’appello d’una umarła klasa, di “una classe morta”: Tadeusz Kantor, Heiner
Müller, Julian Beck, Carmelo Bene, Jerzy Grotowski. Queste onde sono di-
ventate correnti profonde, temperano il clima in cui noi agiamo professional-
mente, sono il nostro mondo. Se questo mondo, questo potente reame di Nulle
Part, tentiamo di rinchiuderlo nei confini che chiamiamo “passato”, siamo
noi, in realtà, a morire. Quelle persone apparentemente scomparse non sono i
nostri ricordi. Sono il nostro sangue, sono lo spirito vitale che ci mantiene in
vita.
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Chi mi conosce lo sa: più d’ogni altra esperienza, per me la Polonia fu


Grotowski. Non serve ripetere ciò che ho detto già tante volte. Questa ceri-
monia del 2003 è la scena più recente di un intreccio che cominciò nel 1961,
con l’incontro a Opole d’un italiano di 25 anni, emigrato in Norvegia e che
aveva molto viaggiato, e un regista polacco di 28 anni che aveva girato poco
per il mondo, ma aveva cominciato a esplorare la geografia verticale, cono-
sceva l’arte della politica e della dissidenza e sapeva metterle al servizio della
sola libertà spirituale.
Riconosco in Jerzy Grotowski il mio Maestro. Eppure non mi sento né un
suo allievo, né un suo seguace. Le sue domande sono divenute le mie. Le mie
risposte sono sempre più diverse dalle sue.
Jerzy Grotowski aveva buon senso, per questo era distruttore del senso
comune e delle illusioni. Era l’uomo del paradosso e trasformò il paradosso in
un concreto paese. Conquistò la propria autorevolezza nei territori del teatro.
Era un profeta, nel senso originario della parola, perché non parlava in nome
proprio, ma in nome di un’oggettività poco evidente.
Pose la domanda fondamentale per il teatro del nostro tempo, la più dolo-
rosa e decisiva per il suo avvenire. Il teatro come arte lo interessava solo come
punto di partenza, né si illudeva che dall’estetica e dall’originalità dipendesse
il suo potenziale futuro.
Chiese semplicemente: che cosa vogliamo farne del teatro?
Le domande profetiche non coniano parole nuove. Sovvertono le espres-
sioni comuni. Quante volte l’abbiamo sentita ripetere questa domanda: “A che
serve il teatro?”. Le vere risposte non ci raggiungono attraverso le parole, sono
fatti.
Che cosa vogliamo farne, del teatro? Dobbiamo rassegnarci ad essere cu-
stodi delle sue forme, governati dai turisti, dai funzionari del mecenatismo, dai

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regolamenti del solenne museo dello “spettacolo vivente”? O vogliamo deci-


dere con le nostre azioni perché questo artigianato sia così necessario ad
ognuno di noi, che cosa vada estratto da questo prestigioso reperto d’una so-
cietà che non c’è più, con chi lottare per riconoscere i segreti e le potenzialità
del nostro artigianato, come e dove rifondere ed utilizzare i suoi materiali e le
sue sostanze?
Grotowski ha trasformato un modo di dire, un disagio diffuso e la scon-
tentezza della gente di teatro, in una vera domanda. E ha risposto con l’evi-
denza dei fatti compiuti. Ha preso dalla professione teatrale ciò che serviva per
creare una rigorosa disciplina di libertà sganciata da legami con qualsiasi me-
tafisica o dottrina. Ha circoscritto una regione molto particolare del reame di
Nulle Part: uno yoga senza una mitologia condivisa. Ha tracciato la rotta di un
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viaggio verticale a partire dal teatro.


Alla radice della domanda fondamentale, Grotowski piantò un totem: la
tecnica. Non si riferiva alla manipolazione degli oggetti e delle macchine, ma
all’indagine empirica dell’azione umana, dell’essere umano nella sua inte-
rezza e integrità. La tecnica era la premessa per un’unione difficile, a volte
precaria, di quel che nella vita quotidiana è diviso: il corpo e la mente, la pa-
rola e il pensiero, l’intenzione e l’azione. Il totem era la tecnica dell’attore,
cioè della relazione fra un essere umano e l’altro. “Attore” si dice al singolare,
ma sottintende sempre due persone: senza spettatore non c’è attore – e neppure
Performer, anche se scritto con lettera maiuscola. Qualunque sia poi il modo
in cui la nozione di “spettatore” venga da noi interpretata, definita, incarnata o
immaginata.
Domande identiche – risposte divergenti. Non è l’ortodossia fedele, ma
l’incontro attraverso le differenze che permette al passato di circolare in noi
come in un sistema sanguigno.
Il reame di Nulle Part promette accettazione, ispira senso di isolamento,
esala chimere e, in alcuni rari casi, spinge verso la profondità. È questo che la
tecnica regala, quando si avanza lungo la sua strada: la consapevolezza che la
costrizione diventa strumento di libertà.
Nel reame di Nulle Part, sentieri che partono da luoghi distanti, si incon-
trano e si fondono. Altri, che hanno la stessa origine e sembrano indissolubili,
si biforcano. Possiamo scoprirvi le scale che esplorano, verso l’alto e verso il
basso, la geografia verticale. E possiamo trovare fortezze “dalle mura di
vento” in cui tecnica e tensioni ideali inventano strategie che ci permettono di
vivere nel nostro tempo senza essere del nostro tempo. Nello spazio parados-
sale del teatro si possono costruire storie parallele a quella della Storia che ci

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La conquista della differenza 75

ingloba e ci trascina, e trasformare in solide relazioni umane valori che paiono


solo sogni e ingenuità.
Parlo di fatti compiuti. Basta avere uno sguardo sufficientemente acuto e
sperimentato per distinguere la storia sotterranea del teatro nel mondo mo-
derno.
Cosa farne del teatro? La mia risposta, se debbo tradurla in parole, è:
un’isola galleggiante, un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di
sabbia nel vortice della storia e non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi.
Sperimento il reame di Nulle Part come un regno abbandonato dai suoi re
e della sue regine. La sua vita è regolata da molte discipline e nessuna Legge.
È il luogo in cui si può dire “no” senza sprofondare nella negazione degli ob-
blighi e dei legami. È il luogo del Rifiuto che non si separa dalla realtà circo-
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stante, anzi, dove l’atto di rifiutare può essere cesellato come un gioiello, come
una favola attraente, che poi ci sorprende, quando ci sembra che parli di oggi e
proprio a noi.
Oggi io sono commosso, perché sono dentro una favola, e questa favola è
a Varsavia che mi viene raccontata. Quale luogo può rappresentare il castello
delle favole meglio dell’università delle origini del mio percorso professionale
alla quale ritorno come doctor honoris causa nel quinto atto della mia vita?
Eppure, in questo stesso momento, rivedo le ossa che i bulldozer scava-
vano alla luce fra le macerie di Varsavia ancora all’inizio degli anni 1960. Ap-
partengo a quella generazione di giovani affamati di libri, che quando alza-
vamo gli occhi rischiavamo di vedere ossa fra la terra e le macerie portate vie
dai camion che ricostruivano l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Scoprivamo un’altra fame, oltre quella per il sapere e i libri. Come se senza
leggere non si potesse respirare, ma tutti i libri, poi, fossero lì per nascondere
la verità.
Per alcuni di noi che hanno goduto l’eloquenza e la poesia dei libri ac-
canto all’orrido mutismo della ossa degli anonimi assassinati, il teatro è stato
un ponte fra la fame di sapere e la fame di quel che si rivela quando si abban-
dona il sapere. Un ponte che si può costruire con metodo, secondo le migliori
regole dell’architettura, ma che non è fatto perché ci si fermi su di esso, come
se fosse un traguardo.
Sì, il teatro è un’arte. Ma la sua bellezza non basta a rapirci. Quest’arte è
stata a lungo svalutata. Poi finalmente apprezzata e premiata come merita.
Degli apprezzamenti e dei premi, i miei compagni dell’Odin ed io vi ringra-
ziamo, commossi. Ma abbiamo visto le ossa. Non si può pretendere che la
pompa delle cerimonie teatrali e la loro solennità appaghi la nostra fame. I
vasti palazzi delle favole sono fatti per essere visitati e lasciati. Se ci attac-

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chiamo ad essi, ci trasformiamo in figure illusorie nelle mani delle streghe e


degli orchi che siamo diventati.
Amo il teatro perché mi ripugnano le illusioni. Non credo che lo scontento
– questo spirito di ribellione che mi cavalca – possa alla fine acquietarsi.
Quando sembra ridotto al silenzio, sento l’odore della menzogna salire alle
nari. Se lo scontento si acquietasse, del teatro non saprei più che farmene.
Ripetere, ripetere, ripetere. L’azione, in teatro, è fatta per essere ripetuta,
non per raggiungere uno scopo. Ripetere significa ritrovare lo spirito originale,
resistere, opporre resistenza allo spirito del tempo, alle sue promesse e mi-
nacce. Solo dopo essere stata ripetuta e fissata, una partitura comincia a vivere.
Cadrà ancora molta neve, il gelo tornerà. Dall’interno di questo laborioso
scontento fatto di azioni, applicando questo artigianato della dissidenza che
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chiamo teatro, i miei compagni dell’Odin ed io ci sforziamo di non cedere alle


tentazioni del progresso e all’impeto del tempo. Senza turbamento, con ac-
canto i nostri morti amati e per noi sempre in vita, guardiamo quel che di noi
giorno per giorno se ne va.
Ancora una volta i miei compagni dell’Odin Teatret ed io vi ringraziamo.
A coloro che hanno oggi venti o venticinque anni, da questa cattedra, non ab-
biamo altra lezione da trasmettere a parole.

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TECNICHE E COSTUMI
DEL PAESE DEL TEATRO
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LA DERIVA DEGLI ESERCIZI*

Fra i molti avvenimenti singolari nella storia del teatro del Novecento va
annoverato il fenomeno della deriva degli esercizi teatrali. Una deriva lenta,
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ma in cui è possibile riconoscere la tendenza ad allontanarsi progressivamente


dal continente delle prove e degli spettacoli.
Da Stanislavskij in poi, gli esercizi cominciarono ad essere considerati un
complesso di pratiche che servivano a trasformare il corpo-mente quotidiano
dell’attore in un corpo-mente scenico. Fino a quel momento, si usavano eser-
cizi solo per l’abbiccì della professione o per apprendere scherma, balletto,
acrobazia, prestidigitazione, abilità necessarie ad alcuni personaggi. Da Stani-
slavskij in poi, nuovi esercizi cominciarono a rappresentare, per alcuni attori,
la quintessenza del fare teatro.
Senza volerlo, in alcuni casi gli esercizi si trasformavano da un mezzo in
un fine. Benché questo non fosse mai detto esplicitamente, è quanto possiamo
dedurre osservando i fatti. Gli Studi di Stanislavskij, nati come laboratori di
sperimentazione accanto al Teatro d’Arte di Mosca, divennero un modello che
si diffuse anche fra i giovani, a metà fra professionismo ed autodidattismo.
Suleržickij e lo stesso Stanislavskij cominciarono a dedicarvi sempre più
tempo, quasi che in essi potessero assaporare un senso che nel teatro princi-
pale sembrava loro negato.
Gli Studi erano nati dal bisogno di cercare soluzioni a contingenti pro-
blemi professionali. Per esempio, come recitare i testi dei simbolisti. Ma una
nuova visione di teatro non ancora ben definita, evocata tuttavia da molteplici
domande artistiche e spirituali, cominciava a manifestarsi in forma di “scuola”,
di “studio”, di “laboratorio”, e non soltanto in forma di spettacoli.
La stessa cosa accadde a Jacques Copeau.
Gli esercizi di Stanislavskij, Suleržickij, Michael Cechov, Vachtangov,
Mejerchol’d e Copeau non servivano a preparare il repertorio, ma a formare il

* La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, Il Mulino, Bologna 1993, pp.


164-170.

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corpo-mente scenico. Si comprende allora perché non restarono solo un’intro-


duzione al mestiere, ma divennero, dal punto di vista dell’attore, il cuore
stesso del teatro, una sintesi dei suoi valori.
Questo spiega, nella Russia d’inizio Novecento, il fenomeno della studij-
nost, dei numerosi Studi costituiti da studenti e giovani intellettuali che vede-
vano nel teatro una didattica artistica e spirituale per sviluppare la propria
personalità.
Dopo la seconda metà del Novecento, si sviluppò una rete di “seminari”,
“laboratori”, “stages”, “talleres”, “ateliers”, “workshops”. Per certi aspetti as-
somigliavano all’uso – diffuso presso i ceti colti sia dell’Asia che dei paesi
occidentali – di apprendere a fini non professionali musica, canto o danza. Ma
a differenza di ciò che accade in tali casi, dove il cultore fa esercizi per ese-
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guire opere di cui è appassionato, il centro di quel nuovo modo d’essere della
pedagogia teatrale non è l’esecuzione futura di pezzi teatrali in sé conclusi
(spettacoli, o scene di spettacoli), ma l’insegnamento stesso degli esercizi
come esperienza attiva del teatro. È un esempio – sul piano sociologico – della
paradossale tendenza degli esercizi a vivere di vita propria. Questa tendenza
non fu mai affermata in termini teorici, anzi fu spesso osteggiata come una
forma di spreco culturale e di inefficienza professionale.
Un caso sintomatico è costituito dalla vicenda di Etienne Decroux. Il
mimo, che egli definì come arte pura a sé stante, era all’inizio una costella-
zione di esercizi nella scuola del Vieux Colombier di Jacques Copeau. De-
croux ha scorporato gli esercizi dal contesto laboratoriale e, sviluppandoli, ha
dato loro indipendenza come autonomo genere artistico.
In altri casi – il più rilevante storicamente è quello di Mysteries and
Smaller Pieces (1964) del Living Theatre – vi furono, veri e propri spettacoli
ottenuti eccezionalmente attraverso il montaggio di esercizi degli attori. Qual-
cosa di simile fecero – con stili e propositi diversi – anche l’Open Theatre e
l’Odin Teatret.
In queste occasioni d’eccezione che non divennero mai regola, il lavoro
dell’attore sul livello pre-espressivo veniva reso autonomo e trasformato in
uno “spettacolo in cerca d’un genere”: né teatro in senso normale, né danza,
né mimo.
All’inizio della carriera, il training serve a un attore per immetterlo nel-
l’ambiente teatrale che ha scelto. Se l’attore è sufficientemente cocciuto, non
autoindulgente, se continua, se abbandona gli esercizi che già domina e ne
cerca o ne inventa altri, se non si lascia imprigionare dal suo training dive-
nendo un virtuoso, e se d’altra parte non dice “non mi serve più”, con il tempo
il training lo trasporta verso l’indipendenza individuale. La funzione del trai-

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La conquista della differenza 81

ning si rovescia; all’inizio serviva ad integrare il principiante in un ambiente,


ora serve per salvaguardare la sua indipendenza dallo stesso ambiente, dal re-
gista, dal pubblico. Diventa, come diceva Patrice Pavis, il “diario fisico” del-
l’attore1. Un diario non è un semplice resoconto. Può essere uno scrigno di
ricchezze tecniche, etiche o spirituali a cui ispirarsi e da cui attingere durante
un processo creativo.
Potremmo usare il termine “training” in modo simile a come i balinesi
usano il termine agem: atteggiamento. Parlano di due agem: agem del corpo e
agem della mente. Il maestro I Made Pasek Tempo dice agem mati (agem mor-
to), quando vuole indicare un attore che non è riuscito a mettere insieme, ac-
cordandoli, i due agem. Deriva da agama, legge, religione, la Via, quel che
lega. Agem ha infatti il doppio senso che nelle lingue europee ha l’espressione
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«prendere posizione», sia dal punto di vista morale che fisico.


Brecht usava il termine Haltung (atteggiamento, portamento) quando
esigeva dall’attore un simile intersecarsi di tecnica ed etica, di impegno fisico
e di presa di posizione ideologica. Il training insegna a prendere posizione, sia
come comportamento extra-quotidiano sulla scena, sia nei confronti della
professione, del gruppo in cui si lavora, del contesto sociale in cui si è im-
mersi: nei confronti di ciò che si accetta e di ciò che si rifiuta.
Ecco perché il training può assumere un senso autonomo per l’attore che
lo pratica e può divenire la sua scena, un teatro tutto per sé in cui egli può svi-
luppare i valori della sua professione senza ancora comporre nulla per gli
occhi e la mente dello spettatore.
Il training è, in altre parole, uno dei modi in cui si concretizza la metafora
di Craig: un teatro prima del dramma, un’architettura in movimento.
La deriva degli esercizi; il loro progressivo e mai definitivo distacco dal
continente delle prove e dello spettacolo; il training come partitura di azioni in
sé conclusa e provvisoria, in relazione con un particolare momento della ri-
cerca e dell’esperienza dell’attore; il suo personalizzarsi: tutto questo, e non il
teatro asiatico, costituisce il contesto storico della genesi dell’Antropologia
Teatrale.
Guardiamo cosa accade negli esercizi. Ogni esercizio è un pattern in sé
concluso, un disegno di movimenti. Lo si esegue, poi se ne esegue un altro, e
così via. Ma una volta appresi, gli esercizi vanno ripetuti di seguito, in un flusso
continuo. Ora cosa sta facendo l’attore? Sta danzando? Sta rappresentando

1
Intervento sul training di Patrice Pavis al simposio “Tecniche della rappresentazione e
storiografia” all’Università di Bologna, 13-14 luglio 1990, 6a sessione dell’ISTA, International
School of Theatre Anthropology.

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82 Eugenio Barba

qualcosa? Il suo “diario fisico” si sta trasformando in un “diario intimo”, in una


sorta di confessione personale senza parole? No, sta semplicemente eseguendo
una catena di esercizi. Ma chi l’osserva non può fare a meno di interpretare,
proiettare immagini, storie, scene, sprazzi di supposte rivelazioni interiori in
un’azione che per l’attore è forse solo esercitazione, simile a quella d’un pia-
nista o d’un cantante quando esegue le scale musicali per esercitare le dieci dita
o la voce. Solo che le scale che l’attore sale e scende sono scale viventi. Assu-
mono una forza emotiva, un significato agli occhi di chi le osserva indipenden-
temente dalla volontà di chi le esegue. Ciò accade perché l’azione è reale2.
Ricordo una ventina d’anni fa, nell’aula di un’università italiana: un’at-
trice dell’Odin Teatret stava mostrando per la prima volta il suo training perso-
nale a studenti e professori di teatro. Salì e scese le sue “scale”, senza mai in-
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terrompersi nel passare dall’uno all’altro dei suoi esercizi.


Si trattava dimostrare in che cosa consistesse il lavoro tecnico di un attore
dell’Odin, che cosa fosse il training. Fallimmo. Gli osservatori si trasforma-
rono subito in spettatori. Credettero che l’attrice invece di esercizi stesse mo-
strando scene d’uno spettacolo. Alcuni parlavano di tragicità. Altri d’una sorta
di impudicizia, come se l’attrice avesse rivelato in pubblico qualcosa di in-
timo. Alla fine di quella che voleva essere una lezione universitaria, mentre
l’attrice faceva la doccia, alcuni studenti e professori, divenuti spettatori no-
stro malgrado, riversarono su di me, con discrezione, le loro reazioni. Ascol-
tavo e intanto mi rimuginava in testa la frase di Diderot: “Alla fine dello spet-
tacolo, l’attore è stanco e lo spettatore è commosso”. Non era certo uno
spettacolo che volevamo fare in quell’aula d’università. Riferii all’attrice e ci
guardammo scuotendo la testa: “Sono loro che hanno delle allucinazioni, o
siamo noi che non sappiamo quel che facciamo?”. Non ci eravamo ancora fa-
miliarizzati con gli scherzi del pre-espressivo.
L’attrice aveva mostrato il suo training personale. Ma personale, in questo
caso, non vuol dire intimo. Vuol dire: elaborato autonomamente, non seguendo
il comportamento dettato da una tradizione o da un genere. Ma le cose non
vanno diversamente quando un danzatore classico, o un mimo della scuola di
Decroux o un attore di una delle tradizioni asiatiche, esegue senza interrom-
persi un flusso di esercizi elementari, quel disegno di movimenti che, sorta di
lessico e di frasario fisico, viene insegnato all’allievo nei primi mesi del suo
addestramento. Come mai l’abbicci degli esercizi può trasformarsi sotto i no-
stri occhi in azione reale, in una rete che cattura immagini e riflessioni del-

2
Per l’azione reale cfr. Franco Ruffini: L’attore che vola, Bulzoni, Roma 2010

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La conquista della differenza 83

l’osservatore, benché la sostanza delle azioni altro non sia che un sillabario di
movimenti? La risposta è: perché si è trasformato in un processo organico.
In queste azioni ogni punto di arrivo coincide con un punto di partenza.
Non ci sono pause, ma solo transizioni; ogni stop è un sats, un impulso di ar-
rivo-partenza. La scansione dei sats, le tensioni dell’equilibrio precario, il
gioco delle opposizioni modellano l’energia. L’energia, il pensiero-azione,
salta, scivola, guizza dall’una all’altra delle sue possibili temperature, fra il
vigoroso Animus e la morbida Anima, impegna l’intero corpo anche quando il
movimento è minuscolo, sfrutta la possibilità di non svilupparsi completa-
mente nello spazio, d’essere trattenuta e assorbita. Il suo ritmo esterno può
essere accordato con il rimo interno in maniera consonante, oppure per sfasa-
ture e contrasti.
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Ci troviamo di fronte ad una embrionale partitura in cui è già all’opera il


principio aureo della segmentazione che Stanislavskij formulò esplicitamente:
ogni disegno d’azioni deve essere suddivisibile (per l’attore, non agli occhi
dello spettatore) in sottoinsiemi più piccoli. Questi non debbono essere sem-
plici pezzi (se un’azione è fatta a pezzi essa è letteralmente messa a morte).
Ogni sottoinsieme è anch’esso un disegno di movimenti, con un suo inizio, un
suo culmine ed una sua fine. Gli inizi e le fini debbono essere precisi e fondersi
attraverso salti di energia in una partitura che si sperimenta come uno sviluppo
organico.
Quando un attore comincia a comportarsi in questo modo, a costruire un
ritmo con le sue azioni e lasciarsi trasportare da esso, in genere sperimenta un
significativo mutamento nel modo di percepire e pensare quel che fa. Alcuni
attori dicono che a quel punto alla loro mente cominciano ad arrivare imma-
gini. Altri affermano che quando il lavoro funziona viene abolita la distanza
fra la testa che comanda ed il corpo che esegue. Altri aggiungono: Il corpo
conduce, la mente gli va dietro. Ed altri ancora: È il corpo che pensa: le spalle,
i gomiti, i piedi, la schiena.
Anche nella mente dell’eventuale osservatore si verifica un mutamento
percettivo; non vede più un corpo che si esercita, ma un essere umano che
agisce e interviene nello spazio. Gli osservatori si sentono spinti a decifrare.
La baldanza di alcuni li induce a credere che quel che loro decifrano nella rete
d’azioni dell’attore sia proprio il contenuto di quella rete, qualcosa di obiet-
tivo. Altri restano in bilico: sono io che proietto le mie immagini su ciò che
lattore sta facendo? Oppure è l’attore che le proietta?
Non sono molti gli attori che hanno la faticata fortuna di possedere un
training personale. L’esempio ha quindi il difetto di riferirsi ad una situazione
di lavoro di cui pochi hanno esperienza, anche fra quelli che praticano profes-

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84 Eugenio Barba

sionalmente il teatro. Ma l’utilità dell’esempio deriva dal suo indicare una


zona intermedia, una sorta di limbo o di albore fra il puro esercizio tecnico e la
vita di un’azione reale.
Sia detto per inciso: l’attore può muoversi a lungo in questo territorio
delle potenzialità. Non altrettanto a lungo può restarvi la tensione-attenzione
dello spettatore. Se non appare un’intenzione che permetta all’immaginazione
ed alle domande dello spettatore di incanalarsi in una direzione precisa, voluta
e obiettiva, la relazione osservatore-attore si affloscia e si perde. L’attenzione
si dissocia e subentra la noia.
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UN AMULETO FATTO DI MEMORIA
IL SIGNIFICATO DEGLI ESERCIZI
NELLA DRAMMATURGIA DELL’ATTORE*

La rivoluzione dell’invisibile
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Nel Novecento è avvenuta una rivoluzione dell’invisibile. L’importanza


delle strutture occulte si è imposta nella fisica come nella sociologia, nella
psicologia come nell’arte e nel mito. Anche nel teatro si è verificata una simile
rivoluzione, con la particolarità che in questo caso le strutture invisibili non
erano qualcosa da scoprire per comprendere il funzionamento della realtà, ma
qualcosa da ricreare sulla scena per dare alla finzione del teatro un’efficace
qualità di vita.
L’invisibile che dà vita a ciò che lo spettatore vede è la sottopartitura del-
l’attore. La sottopartitura non va intesa come un’impalcatura nascosta, ma
come una risonanza, un moto, un livello d’organizzazione cellulare, sul quale
si reggono gli ulteriori livelli d’organizzazione (dall’efficacia della presenza
dei singoli attori, all’intreccio delle loro relazioni; dall’organizzazione dello
spazio, alle scelte drammaturgiche). L’organica interazione dei diversi livelli
d’organizzazione provoca il senso che lo spettacolo assume per lo spettatore.
Il sottotesto – come lo chiamava Stanislavskij – è una forma particolare di
sottopartitura. La sottopartitura, infatti, non consiste necessariamente nelle
intenzioni o nei pensieri inespressi d’un personaggio, nell’interpretazione dei
suoi “perché”. La sottopartitura può essere costituita da un ritmo, da un canto,
da un particolare modo di respirare, da un’azione che non va eseguita nelle sue
dimensioni originarie, ma viene assorbita e miniaturizzata dall’attore, il quale
non la mostra, ma dal cui dinamismo si lascia guidare anche nella quasi-im-
mobilità.

* Queste considerazioni provengono dalla 9a sessione dell’ISTA, Umeå, Svezia, maggio


1995, il cui tema era “Forma e informazione: l’apprendistato dell’attore in una dimensione mul-
ticulturale”. Pubblicate per la prima volta in “Teatro siglo XXI”, n. 4, Buenos Aires 1997.

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86 Eugenio Barba

Un’azione fisica: la più piccola azione percettibile


Stanislavskij, che sembrò a molti un maestro di interpretazione psicolo-
gica, analizzava caratteri e motivazioni con la raffinatezza d’un romanziere.
Lo scopo era di dedurre dalla fitta rete del sottotesto una serie di punti d’ap-
poggio per la vita delle “azioni fisiche”. Quando parlava di “azioni fisiche”
intendeva innanzi tutto una successione di atteggiamenti o movimenti dotati di
una loro interiorità.
Se debbo definire a me stesso che cosa sia un’ azione fisica penso ad un
sottile alito di vento su una spiga. La spiga è l’attenzione dello spettatore: non
viene scossa come sotto una raffica di temporale. Ma quell’alito basta per
spostare appena la sua perpendicolarità.
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Se l’azione fisica debbo indicarla ad un attore, allora suggerisco di rico-


noscerla per esclusione, distinguendola del semplice movimento o dal sem-
plice gesto. Gli dico: “un’’azione fisica è la più piccola azione percettibile e si
riconosce dal fatto che anche se compi un movimento microscopico (un legge-
rissimo tendersi d’una mano, per esempio), l’intera tonicità del corpo cambia.
Un’azione reale produce un cambiamento delle tensioni in tutto il tuo corpo, e
di conseguenza, un cambiamento nella percezione dello spettatore. In altre
parole: ha origine nel tronco, nella spina dorsale. Non è il gomito che muove
la mano, non è la spalla che muove il braccio, ma è nel torso che affondano le
radici d’ogni impulso dinamico. È questa una delle condizioni per l’esistenza
d’una azione organica”.
È evidente che l’azione organica non basta. Se alla fine essa non viene
abitata da una dimensione interiore, l’azione resta vuota e l’attore appare pre-
stabilito dalla forma della sua partitura.
Non credo che ci sia un unico metodo per far germogliare l’interiorità.
Credo che il metodo sia in negativo: non impedire che l’interiorità si sviluppi.
Questo lo si può apprendere, purché si agisca come se non si potesse ap-
prenderlo.

L’età degli esercizi


La rivoluzione dell’invisibile segnò, nel teatro, l’età degli esercizi.
Un buon esercizio è un paradigma di drammaturgia, cioè un modello per
l’attore. L’espressione “drammaturgia dell’attore” si riferisce ad uno dei livelli
d’organizzazione dello spettacolo, oppure ad una delle facce della tessitura
drammaturgica. In ogni spettacolo, infatti, vi sono numerosi livelli dramma-

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La conquista della differenza 87

turgici, alcuni più evidenti degli altri, tutti necessari alla ri-creazione della vita
sulla scena.
Ma che cosa differenzia essenzialmente un esercizio (che prima ho defi-
nito “un paradigma di drammaturgia”) dalla drammaturgia in senso tradizio-
nale, dalle commedie, dalle tragedie o dalle farse? Nell’un caso come negli
altri si tratta di un intreccio ben congegnato di azioni. Ma mentre commedie,
tragedie e farse hanno una forma ed un contenuto, gli esercizi sono pura forma,
intrecci di sviluppi dinamici senza trama, senza storia. Gli esercizi sono pic-
coli labirinti che il corpo-mente dell’attore può percorrere e ripercorrere per
incorporare un paradossale modo di pensare, per distanziarsi dal proprio agire
quotidiano e spostarsi nel campo dell’agire extra-quotidiano della scena.
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Gli esercizi sono simili ad amuleti che l’attore porta con sé, non per esi-
birli, ma per trarne determinate qualità di energia da cui lentamente si sviluppa
un secondo sistema nervoso. Un esercizio è fatto di memoria – memoria del
corpo. Un esercizio diventa memoria che agisce attraverso l’intero corpo.
Quando all’inizio del Novecento Stanislavskij, Mejerchol’d e i loro colla-
boratori inventarono gli “esercizi” per la formazione degli attori, dettero vita a
un paradosso. Quei loro “esercizi” erano qualcosa di molto diverso dalle eser-
citazioni che si facevano nelle scuole di teatro. Tradizionalmente gli attori si
esercitavano nella scherma, nel balletto, nel canto, e soprattutto nella recita-
zione di frammenti esemplari del repertorio teatrale. Gli “esercizi” invece
erano delle elaborate partiture codificate fin nei minimi dettagli, e fine a se
stesse.
È quanto riscontriamo nei più antichi esercizi che ci siano giunti, quelli
che Mejerchol’d ideò chiamandoli “bio-meccanica”, e il cui scopo era inse-
gnare “l’essenza del movimento scenico”.

Interiorità e interpretazione
Sono almeno dieci le caratteristiche di un esercizio e che spiegano la sua
efficacia come drammaturgia riservata all’attività non pubblica degli attori,
cioè al lavoro su se stessi:
• Gli esercizi sono innanzi tutto una finzione pedagogica. L’attore apprende a
non apprendere ad esser attore, cioè a non apprendere a recitare. L’esercizio
insegna a pensare con l’intero corpo- mente.
• Gli esercizi insegnano a compiere un’azione reale (non realistica, ma reale).

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88 Eugenio Barba

• Gli esercizi insegnano che la precisione della forma è essenziale in un’azione


reale. L’esercizio ha un inizio e una fine, ed il percorso tra questi due punti
non è lineare ma ricco di peripezie, cambi, salti, svolte e contrasti.
• La forma dinamica di un esercizio è un continuum costituito da una serie di
fasi. Per apprenderlo con precisione va segmentato. Questo processo insegna
a pensare un continuum come una successione di fasi minuscole ben definite
(azioni percettibili). L’esercizio è come un ideogramma e, come ogni ideo-
gramma, è costituito da tratti da eseguire sempre secondo la stessa succes-
sione. Può variare lo spessore, l’intensità, l’impeto del singolo tratto.
• Ogni fase dell’esercizio impegna l’intero corpo. La transizione da una fase
all’altra è un sats.
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• Ogni fase dell’esercizio dilata, raffina o miniaturizza alcuni dinamismi del


comportamento quotidiano. Questi dinamismi vengono così isolati e mon-
tati, sottolineando il gioco delle tensioni, dei contrasti, delle opposizioni, e
cioè gli elementi di una drammaticità di base che trasforma il comporta-
mento quotidiano in quello extra-quotidiano della scena.
• Le diverse fasi dell’esercizio fanno sperimentare il proprio corpo come qual-
cosa che non è unitario, ma che in cambio diventa sede di azioni simultanee.
Quest’esperienza coincide in un primo tempo con un senso di dolorosa
espropriazione della propria spontaneità. Si trasforma in seguito nella dote
basilare dell’attore, nella sua presenza pronta a proiettarsi in divergenti dire-
zioni e capace di calamitare l’attenzione dello spettatore.
• L’esercizio insegna a ripetere. Imparare a ripetere non è difficile finché il
problema è saper eseguire con sempre maggior precisione una partitura. Di-
venta difficile nello stadio successivo: quando la difficoltà consiste nel con-
tinuare a ripetere senza ingrigire, scoprendo e motivando nuovi dettagli,
nuovi punti di partenza all’interno della partitura nota.
• L’esercizio è la via del rifiuto: insegna la rinuncia attraverso l’impegno e la
fatica per un compito umile.
• L’esercizio non è un lavoro sul testo, ma su se stessi. Mette alla prova l’attore
attraverso una serie di ostacoli. Permette all’individuo di conoscersi attra-
verso l’incontro con i propri limiti, non attraverso l’autoanalisi.

L’esercizio insegna a lavorare sul visibile attraverso forme ripetibili.


Queste forme sono vuote. All’inizio le riempie la concentrazione necessaria
ad eseguire bene la successione di ogni singola fase. Quando le si padroneggia,
o muoiono oppure sono riempite dalla capacità d’improvvisazione, cioè di
variare l’esecuzione della stessa successione di fasi variando le immagini (per

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La conquista della differenza 89

esempio: muoversi come un astronauta sulla luna), i ritmi (seguendo una mu-
sica) o le catene di associazioni mentali.
Dalla partitura dell’esercizio si sviluppa, così, una sottopartitura.
Il valore del visibile e dell’invisibile, della partitura e della sottopartitura
genera la possibilità di farle dialogare, crea uno spazio interiore al disegno dei
movimenti ed alla sua precisione.
Il dialogo fra il visibile e l’invisibile è appunto ciò che l’attore sente come
interiorità e in qualche caso addirittura come meditazione. Ed è ciò che lo
spettatore esperisce come interpretazione.

La complessità dell’emozione
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Quando si parla di drammaturgia si deve pensare al montaggio. Lo spetta-


colo è un vero e proprio sistema che integra diversi elementi – i quali obbedi-
scono ciascuno ad una propria logica – in relazione tra di loro e con l’ambiente
esterno.
Drammaturgia dell’attore vuol dire innanzi tutto capacità di costruire
l’equivalente della complessità che caratterizza l’azione nella vita. Questa co-
struzione, che viene percepita come personaggio, deve avere un impatto sen-
soriale e mentale sullo spettatore. L’obiettivo della drammaturgia dell’attore è
la capacità di stimolare reazioni affettive.
Sembrerebbe un paradosso, perché spesso, banalizzando Brecht, alcuni
(specialmente coloro che non hanno visto gli spettacoli da lui messi in scena)
hanno affermato che l’attore non dovrebbe toccare emotivamente lo spetta-
tore, ma stimolarlo alla riflessione distaccata ed al giudizio.
Bisogna intendersi: riflessione, comprensione e giudizio sono anch’esse
reazioni affettive. Sono emozioni. C’è la concezione ingenua secondo cui
l’emozione è una forza che prende e sopraffa una persona. In realtà, un’emo-
zione è un complesso di reazioni ad uno stimolo.
L’intreccio complesso di reazioni che viene racchiuso dal termine “emo-
zione” è caratterizzato dall’attivazione di almeno cinque livelli di organizza-
zione, che a volte si inibiscono gli uni con gli altri, ma che sono sempre tutti
simultaneamente presenti:
• un mutamento soggettivo, quel che comunemente si chiama “sentimento”,
per esempio : paura (un cane mi si avvicina per strada);

• una serie di valutazioni cognitive (considero: il cane sembra ben addomesti-


cato);

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90 Eugenio Barba

• l’affiorare di reazioni autonome non dipendenti dalla mia volontà (l’accele-


razione del battito cardiaco, del respiro, sudore);

• impulso a reagire (accelerare il passo e allontanarsi);

• decisione sul modo di comportarsi (mi sforzo di camminare tranquilla-


mente).

È la complessità dell’emozione, non il risultato come sentimento, che


l’attore deve ricostruire.
Si dovrebbe quindi lavorare su tutti i diversi livelli che abbiamo indivi-
duato come caratterizzanti un’emozione, i quali – pur appartenendo al mondo
dell’invisibile – sono, però, fisicamente concreti. Ciascuno di questi livelli,
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inoltre, è guidato da una sua propria coerenza.


La complessità si raggiunge intrecciando elementi semplici in contrappo-
sizione o in consonanza, ma sempre simultaneamente. Tutto questo offre infi-
nite possibilità, teatralmente parlando. La mia reazione davanti al cane la
posso costruire lavorando separatamente con le diverse parti del corpo: le
gambe, per esempio, si comportano coraggiosamente; il tronco e le braccia,
leggermente introversi, rivelano valutazione e riflessione; la testa mostra la
reazione ad allontanarsi; mentre il ritmo del battito delle ciglia cerca di rico-
struire l’equivalente delle reazioni autonome.
Questa complessità del risultato è raggiunta lavorando su elementi sem-
plici, fra loro separati, montati livello dopo livello, intrecciati, ripetuti, fino a
fondersi in un’unità organica che rivela l’essenza della complessità che carat-
terizza ogni forma vivente.
È questo passaggio dal semplice al “molteplice simultaneo” che l’eser-
cizio insegna: lo sviluppo di minuscole azioni percettibili, non lineari, dispo-
nibili a peripezie, mutamenti, svolte e contrasti attraverso l’interazione di fasi
ben definite.
In una parola: l’esercizio ricostruendo artificialmente la complessità in-
contra la vita del dramma.

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LA STANZA FANTASMA*
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Un continuo mutare
Da quando sono entrato nella professione teatrale, il training è stato un
punto di riferimento costante. Ne ho parlato e ne ho scritto molte volte. Ho
attraversato campi minati da illusioni, ma non direi mai d’essere un disilluso.
La presenza costante del training, per me, è un continuo mutare. È sempre
stato accanto a me perché non è cresciuto da una dottrina, ma dai miei dubbi
e dalle domande che essi mi ponevano.
Eppure, ogni volta che debbo parlare del training, mi sento a disagio. Mi
rendo conto che farne un dogma del teatro sarebbe irresponsabile. Altrettanto
avventato sarebbe sminuirne l’importanza, considerandolo un miraggio tec-
nico o una pratica di una minoranza con limitate conseguenze.
Come sempre mi accade, quando cerco di spostare il mio punto di vista,
inizio col muovermi a ritroso, ripartendo dai miei primi passi.
Siamo all’inizio degli anni Sessanta del Novecento. Non avevo ancora
trent’anni. Jerzy Grotowski già si comportava da anziano maestro anche se
anagraficamente i trent’anni stava appena per compierli. Nella riflessione e
nella pratica del teatro contemporaneo il training e gli esercizi erano inesi-
stenti. Apparivano nei libri di storia del teatro come pratiche singolari e d’ec-
cezione degli Studi di Stanislavskij e Mejerchol’d o della scuola del Vieux
Colombier di Jacques Copeau.
Nel piccolo Teatro delle 13 file, a Opole, in Polonia, gli attori di Gro-
towski, dal 1962 in poi, oltre a provare e presentare spettacoli, si misero ad

* Pubblicato per la prima volta in “Teatro e Storia” n. 28, Roma 2007.

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92 Eugenio Barba

eseguire esercizi. Non erano sperimentazioni, né frammenti da immettere


nello spettacolo. Era un programma quotidiano di lavoro fisso. Originaria-
mente Grotowski aveva selezionato gli esercizi in vista dello spettacolo, per
esempio, delle posizioni di hatha yoga, ma cambiandone il dinamismo. Questi
esercizi continuarono ad essere eseguiti anche quando lo spettacolo andò in
scena. Col tempo si trasformarono in sequenze basiche del training, catene
d’esercizi fisici e plastici.
A quell’epoca, i professionisti del teatro europeo parlavano di dramma-
turghi: Sofocle, Shakespeare, Brecht; Cechov o i nuovissimi: Dürrenmat, Io-
nesco, Beckett. I grandi nomi su cui insistevano i miei maestri della scuola di
teatro di Varsavia, e più tardi Grotowski, erano di tutt’altra razza. Appartene-
vano alla sfera del fare, non dello scrivere: Stanislavskij, Vachtangov, Mejer-
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chol’d, Osterwa, Tairov – gli esponenti della Grande Riforma del primo ven-
tennio del Novecento. E anche il contemporaneo re-inventore di un teatro
senza parole, il mimo Marcel Marceau.
La prima volta che ho scritto del training nel 1962 è stato per elencare e
descrivere gli esercizi che si svolgevano nel teatro di Grotowski. Miravo alla
semplicità e l’esattezza: una scrittura simile a quella delle “istruzioni per
l’uso”. Ho faticato per scegliere le parole che consentissero al lettore di prati-
care quegli esercizi che non aveva mai visto e sui quali si poteva abbandonare
a molte fantasie. Negli anni seguenti, mi è capitato di incontrare registi ed at-
tori che, sorridendo, m’hanno confessato gli abbagli che avevano preso cer-
cando di seguire le istruzioni per l’uso che avevano letto nel mio libro su Gro-
towski, Alla ricerca del teatro perduto (1965), riportate tre anni dopo in Per un
teatro povero di Grotowski.
Alcuni di coloro che avevano ammesso gli equivoci indotti dagli esercizi
grotowskiani mi raccontarono anche che s’erano intestarditi e avevano così
inventato, esercizi nuovi: il loro training. Ne trassi questa conclusione: più
importante della forma dell’esercizio è la motivazione di eseguirlo fino ai suoi
limiti estremi, concorrendo così alla sua mutazione.

Le differenti nature degli esercizi


Nei libri dei riformatori del teatro leggevo di vaste visioni, di messinscene
e, solo raramente, di esercizi. Con la pratica mi sono reso conto che gli esercizi
erano di differenti nature. In alcuni casi, erano amuleti fatti di memoria fisica:
schemi di forme prestabilite, che si potevano ripetere come mantra o preghiere.
Di questo tipo erano gli esercizi di biomeccanica coniati da Mejerchol’d,
gioielli del sapere teatrale, talmente annodati da divenire difficilmente sonda-

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La conquista della differenza 93

bili. Ne rimangono alcuni frammenti filmati a cura del loro autore. Basta pro-
vare ad imitarli e ci si rende conto della difficoltà a decidere quali siano i det-
tagli essenziali e quali invece siano modificabili senza danno. Sono forme
fisse, ma non servono a trasmettere una forma, uno stile Mejerchol’d. Tra-
smettono, attraverso un percepibile schema fisso, il pensiero-in-azione del-
l’attore: contrasti, contrappunti, compresenza di diverse variazioni e direzioni
dinamiche in una stessa azione. Sono una sorta di cubismo dell’agire. A tutta
prima, paiono bizzarri e astratti ma, a forza di esaminarli, si rivelano come la
personale scrittura in codice d’un artigiano e scienziato del teatro.
Questi esercizi condensano un vero e proprio straniamento fisico e men-
tale. Decompongono l’agire quotidiano, e lo ricompongono alterato ma altret-
tanto organico, cioè sensorialmente persuasivo per chi osserva. Chi esegue,
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invece, è come un viaggiatore del détour, che torni ai suoi paesaggi familiari
dopo esser passato per gli antipodi. Anche nella più semplice delle azioni:
battere le mani, per esempio. Nel comportamento quotidiano, prima apriamo
le braccia, poi battiamo. Negli esercizi di Mejerchol’d, le mani sono vicine,
battono, poi le braccia si allargano. È uno straniamento elementare, ma da
questo esempio facile si intende la logica che guida la complessa e annodata
partitura di quegli esercizi rigorosamente formalizzati che rompono i riflessi
condizionati.
D’altro tipo sono gli esercizi che servono ad addestrare particolari abilità
degli attori, nell’uso della voce e nell’azione fisica. Allargano il ventaglio
delle sue possibilità, e quindi non lo ancorano ad uno stile, ad un comporta-
mento scenico prestabilito, ad una serie sperimentata di clichés che rischiano
di limitare la sua libertà. Libertà, infatti, significa scelta. E non si può scegliere
se non fra numerose alternative possibili e padroneggiabili.
D’un genere ancora diverso sono gli esercizi basati sulla variazione del
ritmo, sulla costruzione delle interrelazioni fra attori, sulla costruzione del
dialogo e del contatto fisico e vocale. Sono micro-situazioni che ampliano
l’elasticità di adattarsi subito agli stimoli dei colleghi e del contesto, raffor-
zando l’immediatezza dell’azione/reazione.
Vi sono esercizi che paiono giochi di società per mettere in moto la fan-
tasia (scegliersi un personaggio ed essere in grado di rispondere a tutte le do-
mande che i compagni pongono sulla sua vita e il suo modo di pensare). Altri
esercitano la reattività (correre tutti in una sala, bloccarsi ad un segnale nella
posizione in cui ciascuno si trova, trasformandosi in statua, pronti, ad un
nuovo segnale, a riprendere la corsa, mutando direzione). In genere, questi
sono esercizi piacevoli da eseguire. Si è tentati di indugiare a lungo in loro
compagnia, come se fossero già azione teatrale.

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94 Eugenio Barba

Altri sono invece esercizi difficili da apprendere e capaci di far male. Gli
esercizi acrobatici sono di questo tipo. Sembra che insegnino all’attore le abi-
lità stupefacenti del corpo giovane, per questo sono sempre seducenti. Instil-
lano in chi li pratica il riflesso condizionato della precisione e della decisione
per spingersi oltre i limiti che crede naturali per sé. Dopo esser stati a lungo
padroneggiati, possono essere tranquillamente abbandonati. Precisione e deci-
sione, infatti, dovrebbero caratterizzare anche l’azione più semplice del-
l’attore: come muovere un passo, come alzare una mano, come sedersi e al-
zarsi.
Vi sono esercizi basati su vere e proprie dottrine del corpo, del respiro e
del movimento, gratificanti quando sembrano confinare con la meditazione e
la spiritualità. Altri, appagano invece l’inventiva e la spontaneità, con le mille
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varianti dell’improvvisazione e con il suo paradosso fondamentale: impadro-


nirsi delle regole dell’improvvisare.
Un’enumerazione senza fine di diversi tipi di esercizi.
Si può passare la vita a fare esercizi e training, a improvvisare improvvi-
sazioni, a sperimentare un metodo dopo l’altro, ad esplorare i mezzi come se
fossero un fine, rimandando continuamente il momento dello spettacolo e del-
l’incontro con gli spettatori. È nata, per queste vie, una nuova dimensione
dell’amatorismo teatrale (con tutta la superficialità e la dedizione che lo di-
stinguono) che sostituisce agli spettacoli seminari e corsi. Questi seminari e
corsi istituiscono un tempo e uno spazio virtuale ritagliato all’interno della
vita quotidiana, e consentono di vivere alcuni giorni nel teatro senza la volontà
o la possibilità reale di farlo nel futuro. È un fenomeno che si diffuse fin dai
primi anni del Novecento, sorto dal riverbero delle ricerche condotte dai pro-
tagonisti della Grande Riforma. Per alcuni di loro, il training aveva assunto un
valore così centrale da trasfigurarsi da processo in finalità assoluta. Questa
“deriva degli esercizi” ha creato situazioni di attività che sono isolotti a se
stanti: né teatro professionistico né amatoriale; né prove né spettacolo. Una
delle tante stanze fantasma del teatro.
I rischi non sono minori quando il training non fa dimenticare l’esigenza
dello spettacolo e del confronto con gli spettatori. Può inconsapevolmente
crescere una sorta di piccolo dogma: che il training favorisca la palingenesi
artistica ed etica dell’attore. E quindi – dogma ancor più pernicioso – che il
training la possa garantire.
“A che serve? io non so neppure cosa sia!”, esclama la maggior parte
degli attori se qualcuno chiede loro che cosa pensino del training. È così facile
deridere i “teatri del training” che, per contrasto, nasce con altrettanta facilità
l’enfasi nel difenderlo. Il training diventa una bandiera e un feticcio che ac-

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La conquista della differenza 95

compagna i primi anni dell’esperienza teatrale fuori delle scuole e del teatro
legittimo. Poi, se si continua, il training evapora dalla routine professionale.
Crea disillusioni altrettanto forti delle illusioni che l’avevano nutrito.
Non c’è niente di male a coltivarsi delle illusioni. Le illusioni sono vitali,
quando nascono e crescono fino a trasformarsi in qualcosa d’altro. Sono il
solo nutrimento spirituale che ci è dato, i sogni di cui siamo fatti. Le illusioni
diventano distruttive quando le lasciamo cristallizzare in idoli e dogmi.

Viaggi in una stanza


Ho sentito spesso affermare: “il training dell’attore è una parte del suo
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lavoro, come è l’allenamento per il musicista, per l’alpinista, per il soldato o


l’atleta”. In realtà è d’un genere sostanzialmente diverso. Il termine “training”,
a ben guardare, viene usato in maniera metaforica.
Coincide solo in piccola parte con il periodo di apprendistato, o con le
attività che servono a tenersi in forma. Non addestra a ben precise prestazioni.
Non insegna qualcosa. Prepara, piuttosto, ad allontanarsi dal comportamento
abituale, la cosiddetta spontaneità o la teatralità di convenzione.
Quando i maestri della Grande Riforma novecentesca, da Stanislavskij a
Copeau, da Mejerchol’d a Dullin o Decroux dettero tanta importanza agli
esercizi non intendevano affatto impadronirsi d’una tradizione ma, al con-
trario, rifiutarla. Si trattava d’un paradossale apprendistato, non per un’arte
dalle forme note, ma per un’arte a venire. Da questo punto di vista il training
teatrale assomiglia a ciò che nel linguaggio scientifico distingue la ricerca
pura da quella ‘applicata’.
Era basato su simili motivazioni anche il training nel teatro di Grotowski
o del Living Theatre. Nei loro casi, si trattava di fuoriuscire da un teatro che
veniva sentito come una prigione, inadatto a realizzare le loro aspirazioni ed
esigenze.
Ben diverse le radici del training degli autodidatti, quello che ho speri-
mentato in prima persona con l’Odin Teatret. Dagli anni intorno al 1970 in poi
ha caratterizzato i giovani che si raccolsero in piccoli gruppi indipendenti e
sotterranei, obbligati all’autodidattismo. Eravamo i figli illegittimi del teatro
riconosciuto, non una sua avanguardia. Eravamo incapaci di esservi ammessi
o competere con esso, costretti a lottare per la nostra sopravvivenza fin
dall’apprendistato, fuori dall’autorevolezza delle scuole teatrali, o delle com-
pagnie rispettate in cui fare la gavetta.
Ci identificavamo, come degli orfani che si riconoscono nei nonni, nel-
l’ethos artigianale e nelle parole dei maestri della Grande Riforma, e poi, più

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96 Eugenio Barba

vicine a noi, nelle esperienze del Living Theatre o di Grotowski. Il Living


Theatre e Grotowski potevano apparire marginali o reietti, ma erano degli
“aristocratici”che avevano rifiutato la legittimità della cultura teatrale dalla
quale provenivano e nella quale avevano smesso di credere.
Il nostro rifiuto di autodidatti era diverso: era un rigetto dovuto all’infe-
riorità.
Mi sforzo di distinguere, con il rischio della schematizzazione, anche per
mostrare come sotto l’ombrello della parola “training”si radunino fenomeni
diversi, motivazioni contrastanti, ribellioni e speranze dissimili.
Sia il rifiuto degli aristocratici come quello degli orfani hanno, però,
campi d’azione complementari.
Il primo campo d’azione ha le vaste dimensioni della società, del posto
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che in essa occupa il teatro, gli spazi chiusi o aperti, recintati o itineranti degli
spettacoli, le città con il loro pubblico abituale, o i territori “senza teatro” In
questa geografia, uomini e donne di teatro mettono alla prova la loro capacità
di creare rapporti e compiere veri viaggi, rompendo il cerchio dei loro giri,
delle tourné, dei flussi delle mode e del mercato.
L’altro campo d’azione è ristretto. Ha il panorama spoglio d’un viaggio
attorno ad una stanza apparentemente isolata, dove gli attori lavorano su di sé,
fra quattro pareti, senza spettatori. È diverso da quel che accade nelle prove,
dove si può prevedere il momento in cui dall’altra parte ci saranno gli spetta-
tori.
Benché lo spazio sia esiguo, i viaggi possono essere lunghi e combattivi.
Visti dall’esterno, appaiono spesso bizzarri, addirittura insensati. Vissuti
dall’interno, si chiamino esercizi o training, implicano un modo di pensare e
un atteggiamento emotivo che si esprimono in un modo di fare.

Un’identità professionale altra


Non ero cieco. Ero consapevole che vi erano attori straordinari che non
avevano mai praticato il minimo training. D’altra parte, attori eccellenti nel
training si rivelavano poco interessanti nello spettacolo. Eppure, nei primi
anni, a me queste obiezioni non passavano neanche per la testa nel momento
dell’impegno e della scoperta del valore del teatro che il training dava al la-
voro dei miei attori. Mi giustificavo – e lo credo ancora oggi – la necessità del
training come espressione di un’identità professionale altra. Era la conferma
quotidiana, umile e tangibile, della decisione di dedicarsi al teatro, attraverso
la ricerca di un rigore e di un’autodisciplina. Il training era la conquista perso-
nale di ogni attore del come e del perché facesse teatro. Forgiava gli strumenti

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La conquista della differenza 97

della sua indipendenza, della sua crescita individuale e della sua resistenza in
condizioni avverse. Incoraggiava a praticare e difendere la propria dissidenza.
Una piccola sala contiene lo spazio d’una vasta geografia. È una solitu-
dine senza isolamento, una solitudine in compagnia.
All’Odin Teatret, il training è perdurato fino ad oggi – per 43 anni.
All’inizio, era compreso in uno spazio-tempo geloso, senza presenze estranee.
Dopo una decina d’anni divenne una stanza mutante. Alcuni degli attori smi-
sero di entrarci. Altri persistettero trasformando questa stanza in un tappeto
volante, in un giardino tutto per loro o in un’isola di cui erano i Prospero.
Anche quando alcuni dei miei attori smisero di praticare il training, anche
quando io smisi di guidarlo giorno dopo giorno, anche quando la mancanza di
connessione fra la qualità del training d’un attore e la qualità della sua pre-
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senza nello spettacolo divenne per noi tutti una semplice evidenza, il training è
continuato a restare al centro delle mie riflessioni. Alcuni dei miei attori ed io,
ognuno per sue necessità personali, ci siamo comportati come bambini te-
stardi.
Così abbiamo scoperto che perdurare vuol dire trasformarsi. E le trasfor-
mazioni sono così evidenti che, a volte, sono la pura e semplice negazione dei
punti di partenza.
Un punto di partenza era molto chiaro, nel teatro di Grotowski, all’inizio
dei 1960: non si fa spettacolo del training. Era anche tassativo all’Odin: mai
confondere il training con le prove.
Eppure, proprio in quegli anni, nel 1964, il Living Theatre compose uno
dei suoi più rivoluzionari spettacoli – Mysteries and Smaller Pieces – attra-
verso un montaggio dei propri esercizi. Dieci anni dopo, anche l’Odin Teatret,
nel villaggio di Carpignano, nel Sud Italia, compose Il libro delle danze spet-
tacolarizzando il training dei suoi attori. Che cosa era successo, nel frattempo?
Come Mysteries and Smaller Pieces, anche Il libro delle danze nacque
per la stretta delle circostanze: dovevamo presentarci in pubblico, e non ave-
vamo nessuno spettacolo. Imbastimmo uno spettacolo basato sul training, con
musiche, costumi e qualche testo. Restò a lungo in repertorio. Quando smet-
temmo di rappresentarlo, lo sostituimmo con altri spettacoli dello stesso ge-
nere. Lo spettacolo del Living Theatre era divenuto, intanto, uno dei classici
del teatro del secondo Novecento. L’origine di questi spettacoli composti
montando parti del training, e il fatto che siano nati quasi per caso, come pro-
dotti estemporanei, è un aneddoto vero che non spiega, però, le profonde ra-
gioni della loro nascita.
Vi era stata una trasformazione nel training, apparentemente un minu-
scolo fattore che provocò una vera e propria mutazione: gli esercizi vennero

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98 Eugenio Barba

saldati l’uno con l’altro. Fin dai primi anni dell’Odin Teatret ci accorgemmo
che la forza del training si moltiplicava se, invece di eseguire prima un eser-
cizio e poi l’altro, li si legava in un prolungato flusso continuo. In questo
modo, importante non era più l’esercizio in sé, ma la sua fine, che doveva di-
ventare l’inizio dell’esercizio seguente.
Sembra un particolare da niente, ma nella pratica esplose come una vera
rivoluzione. Usavamo il termine “catena” per indicare la serie di esercizi mon-
tati in un flusso unico. Ma non si trattava d’una catena, perché i singoli anelli
non erano fissati. Si cominciava con una decina di esercizi in una sequenza
prestabilita. Il resto era improvvisazione: variazione incessante dell’ordine
degli esercizi, accelerando e rallentando il ritmo, giocando a sorprendere se
stesso e cambiando repentinamente direzione nello spazio. Chi eseguiva la
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catena, quanto più la padroneggiava, tanto più poteva reagire nello stesso
tempo in cui creava gli impulsi. Le sue azioni erano reazioni. Possedevano una
consistenza dinamica di leggerezza e vigore che le apparentava alla danza, e se
la catena era accompagnata da musica, dava l’impressione di un balletto in
costante evoluzione.
La catena di esercizi era un repertorio di un numero limitato di forme de-
finite nei più piccoli dettagli, che però potevano dar vita a sequenze sempre
diverse, così come un numero ben delimitato di carte può dar vita a infinite e
imprevedibili partite. Il training, imboccata questa strada, smise d’essere una
pratica separata dal lavoro creativo. Ma la creatività segue sempre cammini
personali. Dopo alcuni anni, non esisteva più un training dell’Odin, ma ‘i trai-
ning’ elaborati dai singoli attori con esercizi, giustificazioni e terminologie
che sembrano avere ben poco in comune.
All’Odin Teatret il tempo dedicato al training continuò ad essere distinto
da quello destinato alle prove dello spettacolo. Mi resi conto che il mio ap-
porto non poteva più essere quello del maestro che spiega e insegna un metodo
comune. Non erano più le mie parole che potevano stimolare, ma la mia pre-
senza di altro, che non mostra più di sapere a che serva quel che stanno fa-
cendo. E si interroga anche lui, sul senso e la direzione di quelle strade solitarie
lungo le quali ogni attore si incammina, tutte le mattine, nel tempo del trai-
ning.
La parola training si adattava sempre meno a quel che in pratica succe-
deva. Lo chiamammo “vivaio”: ogni attore lavorava per suo conto, ma nello
stesso spazio. Non elaborava la solita catena di esercizi, ma materiali scenici
non fissati, frammenti di scene per spettacoli potenziali, la maggioranza dei
quali non sarebbero mai nati. Un pullulare di immagini allo stato magmatico
riempiva la sala, ciascuna figura con accessori, strumenti musicali, i costumi

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La conquista della differenza 99

più insoliti, modi particolari di usare la voce e di comportarsi. Uno stesso at-
tore poteva passare dall’una all’altra delle figure da lui elaborate e messe in
azione.
In un vivaio nuotano pesci dai molti colori, alcuni effimeri, altri capaci di
crescere e saltare nel mare. Tutti in possesso d’un proprio embrione di vita e
nessuno dotato ancora d’un destino.
La distinzione netta fra il training e lo spettacolo era evidentemente ca-
duta. Oggi è facile per me spiegarlo con poche parole: questa situazione era
sorta proprio perché avevamo continuato ad insistere sulla sua strada, senza
lasciarci bloccare dalla sensazione che essa non fosse più utile. Ma sarei insin-
cero se affermassi che non fu problematico e laborioso percorrere questa
strada per anni ed anni.
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Parallelamente a questo processo se ne sviluppava un altro, complemen-


tare. Nasceva dall’esigenza della pedagogia: alcuni attori dell’Odin distilla-
rono alcuni principi di base del training. Erano inseriti in esercizi semplici da
apprendere, non fissati in forme elaborate, che funzionavano come terra di
coltura dalla quale ciascun allievo poteva far crescere i propri materiali, lavo-
rando in autonomia.
Anch’io, quando dirigevo un seminario, avevo smesso di insegnare eser-
cizi, e cercavo dei procedimenti che consentissero di individuare e sperimen-
tare i principi e non le forme. Usavo ancora la parola training per quello
spazio-tempo in cui ero libero di seguire tracce che si perdevano nel nulla, at-
tardandomi su equivoci e congetture, questionando infantilmente le verità
ovvie della mia pratica.
Principi ricorrenti in forme diverse: su questo si baserà, a partire dall’ISTA
(International School of Theatre Antropology) la mia ricerca, insieme teorica
e pratica, comparativa e pedagogica, sul comportamento dell’essere umano in
situazione di rappresentazione organizzata. E non è un caso, che in ogni ses-
sione dell’ISTA le prime ore della giornata siano dedicate a quello che un os-
servatore chiamerebbe training ed esercizi.

Una stanza di nessuno?


L’impossibilità di ridurre il training ad una risposta unica, la sua mutevo-
lezza e contraddittorietà, i suoi rischi e il suo fascino – a quale realtà del me-
stiere appartengono?
Le origini storiche del training, le sue ricchezze, l’illusione della sua virtù
palingenetica e dell’illusione speculare di poterne fare a meno – di quale ne-
cessità sono le metamorfosi?

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100 Eugenio Barba

È il training, forse, il caso particolare di un problema più generale? E di


quale?
Dopo quasi cinquant’anni di pratica e di studio del training, queste do-
mande mi si sono presentate imperiose durante la sessione 2005 dell’Università
del Teatro Eurasiano, un’attività periodica dell’ISTA. “Testo e scena”: questo
tema, proprio perché ovvio, era l’argomento di indagine.
Immaginavo che avremmo discusso soprattutto del modo in cui un testo si
trasforma divenendo parte di una rappresentazione. Ma fin dal primo giorno,
uno degli studiosi presenti aprì un altro fronte. Spiegò che, oltre all’interpreta-
zione, alla regia, alla relazione con lo spettatore o allo spazio scenico, esisteva
un problema preliminare: l’esigenza di creare una regione intermedia fra lo
spazio del testo e quello dello spettacolo. Che cosa era quella regione? Non si
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trattava, evidentemente del tempo delle prove.


Franco Ruffini, lo studioso che aveva scompigliato i nostri programmi,
aveva portato l’esempio di Stanislavskij. Sosteneva che tutti gli stratagemmi
che Stanislavskij indicava per vivificare il testo o il personaggio da porre in
scena non erano proposte interpretative. Erano un accumulo di dettagli che si
frapponevano, come un vasto e ipertrofico muro cinese, o come una terra di
nessuno, fra la lettura del testo e la sua messinscena. Questa sequela di parti-
colari appariva ingombrante e fuori misura, ma risultava appropriata non ap-
pena la si pensava come un modo per popolare lo spazio intermedio fra l’una e
l’altra stanza del teatro: quella del testo e quella dello spettacolo. I cospicui
dettagli non servivano a sondare il testo, ma a fuoriuscirne attraversando uno
spazio denso che aveva a che vedere con il testo senza appartenergli.
D’accordo per Stanislavskij. Ma si riscontrava questa situazione anche in
altri casi? Cominciammo a discutere di questa regione intermedia e senza
nome. La sua presenza poteva essere generalizzata? E di che si trattava, con-
cretamente?
Che cosa avviene, in quella stanza, e che posto occupa nell’edificio men-
tale/pratico che chiamiamo teatro? Non sono le prove. Non è neppure l’equi-
valente del tavolino in cui si analizza il testo per fornirne un’interpretazione
adeguata, fedele alle intenzioni dell’autore o a quelle complementari o diver-
genti dei suoi interpreti. Non ha nulla a che vedere con la stanza del training o
degli esercizi. Quest’ultima ci sembrava la constatazione più ovvia. E invece,
nel corso della discussione, proprio questa ovvietà veniva sempre più chiara-
mente messa in dubbio.
Cominciò a materializzarsi, nei nostri discorsi, l’immagine d’una stanza
fantasma. O d’una nobody’s room. Cercammo di definirla. Non sapevamo che

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La conquista della differenza 101

cosa fosse, ma l’avevamo riconosciuta. O meglio: era lì, in attesa d’essere ri-
conosciuta.
Il modo di denominarla e l’idea stessa che di essa potevamo farci sem-
brava avere ben poco a che vedere con il teatro. Proveniva dalle regioni di un
certo tipo di letteratura in cui era una presenza ricorrente. L’incubo della
“stanza fantasma” o della “stanza di nessuno” fornisce il plot di molte storie
fantastiche e dell’orrore. L’hanno evocato scrittori come Howard Phillips Lo-
vecraft e John Dickson Carr, dal quale viene il titolo The Nobody’s Room. Può
sembrare strano pensare a storie di questo genere per parlare di training, anche
perché la stanza di nessuno è in genere quella del crimine. E il training con il
crimine non ha niente a che vedere.
La stanza fantasma dei racconti e dei romanzi è chiamata così perché a
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volte c’è e a volte no. Si sposta. Il protagonista l’ha vista, per esempio, in una
casa di amici o in un castello, e quando ritorna non la trova più. Si domanda se
è lui che ha sognato, o se invece sono gli altri che mentono, nascondendo
qualche mistero, qualche tesoro o misfatto. Coloro che abitano in quel posto
affermano che la stanza che lui cerca non c’è mai stata. Lo prendono per un
pazzo o un visionario.
Nel lavoro teatrale, ti dicono: ci sono i testi da interpretare, le prove, gli
spettacoli. Non c’è posto per altro.
C’è sempre stato dell’altro: una continuità di mestiere e di commercio,
per esempio. Finché fu un vero e proprio commercio, gli attori, per vivere,
dovevano avere molto d’interessante da vendere. Cambiavano spettacoli quasi
tutti i giorni, tenendo fresco un ampio repertorio, sprecando il meno possibile
e componendo in velocità. Attorno ai loro spettacoli si accumulava un magaz-
zino di materiali scenici inutilizzati ma pronti per essere sfruttati e riciclati.
Potevano essere frammenti scenici pronti per l’uso, sempre efficaci, oppure
vecchi, fuori moda, dimenticati, ma adatti ad esser ripescati dal dimenticatoio
per essere rimessi in forma e presentati come una novità.
Era il deposito dei clichés, il ripostiglio delle più viete convenzioni. Era la
fonte delle miserie estetiche della professione – secondo il giudizio dei rifor-
matori teatrali che aspiravano al rinnovamento.
Il deposito dei clichés è sempre stato occultato, nella lunga storia del
teatro europeo. Gli attori non ne parlavano né lo mostravano. Negavano per-
sino che ci fosse. Gli intenditori e i riformatori ne intravedevano la presenza e
proponevano di gettare via tutto lasciando entrare l’aria nuova e fresca del
Novecento.
Il deposito dei clichés serviva sempre meno in un teatro che non era più
un mestiere in cui gli attori preparavano innumerevoli spettacoli alla loro ma-

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102 Eugenio Barba

niera, e divenne l’opera dei nuovi artefici della regia che curavano ogni singola
messinscena come un’opera d’arte a se stante. Il deposito dei clichés era inu-
tile e dannoso, quando il teatro cominciava ad essere accettato come un’arte
da proteggere, e non più come un commercio più o meno dignitoso.
Il deposito dei clichés divenne una stanza vuota, poi sparì: una stanza
fantasma. Allora cominciò a farsi sentire la sua mancanza. Mancava niente,
perché tutto quel che si era perso era proprio quel che si voleva perdere. Ma
non c’era più equilibrio. Perché il deposito dei clichés assolveva ad un com-
pito poco esplicito, non voluto né programmato, ma essenziale: materializzava
la consapevolezza del teatro come paese d’appartenenza – o ethos professio-
nale. Anche se ingombro di residui disistimati, era però uno spazio non mate-
riale eppure concreto. Era la terra di nessuno che si frapponeva fra la vita
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quotidiana e il palcoscenico delle prove e degli spettacoli. Come il giardino o


la cantina che sta fra la strada e la casa. Gli attori vi potevano passeggiare,
aprire i ripostigli dove si conservavano i pezzi delle esperienze d’un tempo.
Per i più ricchi d’esperienza e di talento era come la camera dei giochi che al-
cuni aristocratici conservavano intatta. Per i più poveri, era il ripostiglio da cui
attingere magri guadagni. Per tutti, era il loro teatro-casa, il loro teatro-paese.
Nomadi per le continue tournées, quella stanza fantasma se la portavano dietro
come il loro teatro, simile alla casa in cui abitano le chiocciole e le tartarughe.
Era un peso che, però, consentiva di camminare.
Tutto il lavoro abnorme e “sprecato” che i riformatori del teatro nove-
centesco si inventarono, escogitando accanto alle prove il tempo-spazio degli
esercizi, mirava anche alla ricostruzione di quella stanza separata. La svuota-
rono dei cliché, e la riempirono di novità.
A differenza del vecchio magazzino, questo nuovo era presentabile.
Aveva il crisma della buona cultura e s’ammantava con i valori dell’etica e
della ricerca. Mentre prima correva poteva apparire incolto e volgare, ora cor-
reva il rischio opposto, d’esser troppo colto e troppo raffinato. Prima il magaz-
zino dei clichés era la stanza di cui vergognarsi o di cui parlare ridendo. Ora
era sempre sul punto di trasformarsi nel santuario della palingenesi del teatro.
Cambiano i rischi ed i contenuti, ma la stanza fantasma continua ad esi-
stere. È la stanza di nessuno, e insieme la più personale ed intima. Nel-
l’artigianato teatrale, il training abita lì con le sue forme fisse, le motivazioni
individuali e il suo valore emotivo.
Il training – mi chiedo – è dunque il caso particolare della più generale
esigenza d’una stanza fantasma? Di quel luogo dove già abita la necessità di
teatro prima di farsi prodotto e manufatto teatrale?

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La conquista della differenza 103

Voglio dire, con questo, che quel che chiamiamo training nel teatro, è solo
illusione e fonte di illusioni? Credo esattamente il contrario.
Voglio allora sostenere che nasconde un tesoro oggettivo, o la soluzione
dei nodi tecnici e artistici? Ancora una volta, penso esattamente il contrario.
Molte domande rimangono in sospeso sul training, sulla sua opportunità,
sulla sua qualità, su ciò che in esso vi è di essenziale e ciò che invece è mute-
vole, sulla sua utilità e la sua esagerazione. Ma una domanda in particolare si
distacca e sembra osservare tutto questo dall’esterno, quasi guardandolo dalle
nuvole, senza più l’ansia autodidatta di apprendere e la tensione del riconosci-
mento artistico. È una delle mie domande infantili.
Guardo a me stesso e gli altri che fanno teatro. Osservo il peso che li tiene
in cammino. Apprezzo i loro spettacoli. A volte scuoto la testa, altre volte mi
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commuovo, spalancando gli occhi su quel tremolio dell’aria tra cui sembra
che l’invisibile per un momento faccia capolino. Guardo il gruppo, la difficile
e fraterna compagnia.
E mi domando: quale teatro, ciascuno di loro si porterà dietro, quando
non avrà più attorno il peso del teatro in cui è cresciuto e si è formato?
Il teatro del nostro tempo non ha più nulla di simile a quello dei professio-
nisti d’un tempo. Né noi siamo più i principianti diseredati bisognosi d’inven-
tarsi un mestiere. Ma continuiamo ad aver bisogno d’un teatro portatile le cui
forme e il cui senso segreto appartengano solo a chi lo faccia,. Training o
stanza fantasma sono parole, l’una vale l’altra, a seconda dei casi e delle età.
Possiamo riempire il teatro che ci portiamo dietro, il suo peso, di materiali di
volta in volta diversi. È l’esistenza di quello spazio, di quella stanza che è solo
nostra, ad essere essenziale. Non ciò che la arreda.

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LA DANZA DELL’ALGEBRA E DEL FUOCO*
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Quando penso alle dimostrazioni di lavoro degli attori dell’Odin Teatret,


ricordo innanzi tutto la loro origine casuale, dovuta nel 1978 alla pressione
d’una difficoltà imprevista.
Non bisogna però, confondere la cronologia con la logica degli avveni-
menti. Quando lavoravo presso il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, a
Opole, in Polonia, all’inizio del 1960, mi capitava a volte di dover spiegare a
coloro che non lo conoscevano, il carattere del suo training e dei suoi spetta-
coli. Ogni volta che cercavo di descriverne il calore, mi ritrovavo costretto a
parlare del lavoro di composizione “a freddo”. Ed ogni volta che rispondevo a
domande sulla tecnica di composizione e sul training, finivo col parlare dei
risultati, quando agli occhi degli spettatori la tecnica diventa invisibile e com-
pare il caldo fluire dell’organicità scenica.
“Freddo” e “caldo” potevano essere mentalmente separati, anche se nella
realtà danzavano intrecciati, tanto da apparire invisibili l’uno senza l’altro.
Esattamente come gli opposti concetti di Premeditazione ed Improvvisazione.
Oggi penso che stia qui l’imprinting da cui nacquero le dimostrazioni di
lavoro che costituiscono oggi un aspetto della tradizione dell’Odin Teatret.
Era già presente il desiderio di mettere materialmente insieme le due nature
del lavoro, separarle per indicare la tendenza ad essere inseparabili.
Avevo letto come gli attori e le attrici del passato dessero spesso dei
“Concerti”. A volte erano semplici recital, antologie del loro repertorio. Altre
volte erano una sorta di conferenze in cui gli attori raccontavano le tappe della
loro carriera, la maniera di interpretare l’uno o l’altro personaggio, e poi inter-
calavano la loro esposizioni con esempi. Senza costumi scenici, parrucche e

* Pubblicato per la prima volta in “Culture Teatrali” n. 13, Bologna, 2005.

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106 Eugenio Barba

trucco, facevano affiorare frammenti di spettacoli sommersi. A volte non erano


neppure conferenze, ma semplici conversazioni.
Così aveva fatto Mei-Lanfang, a Mosca, nel 1935, quando improvvisò
una dimostrazione di lavoro nel corso d’un ricevimento nella sede del-
l’Associazione dei Lavoratori dell’Arte. Davanti a un piccolo gruppo di col-
leghi, tra cui Stanislavskij, Ejzenštejn, Taìrov, Piscator, Brecht, Tretjakov, in-
terpretò in frac alcuni ruoli femminili dell’Opera di Pechino. Comparvero
fantasmi di grandi, disperate ed eroiche donne, che però non nascondevano il
piccolo cinese in abiti europei da cui erano emanati. Fu una dimostrazione-
epifania che permise a Brecht di affilare la propria visione dello straniamento.
Un aneddoto simile veniva raccontato, nella storia di poco meno di due
secoli prima, a proposito di David Garrick, durante un suo viaggio a Parigi. Il
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grande attore inglese, sempre al bivio fra comico e tragico, uomo colto e appa-
rentemente dotato d‘un prodigioso talento naturale, si era incontrato con i filo-
sofi materialisti che studiavano la “macchina” – non l’anima – dell’uomo.
Costruivano la rivoluzionaria architettura dell’Enciclopédie ed erano presi
dalla domanda sulla relazione fra sentimenti e passioni da una parte, e dall’altra
l’ingranaggio dei muscoli, dei nervi, del cuore e delle vene. La relazione, in-
somma, fra l’uomo-macchina e l’uomo-spirito. Alcuni di questi filosofi visita-
vano regolarmente quegli inferni in terra che erano gli ospizi dei pazzi. Cerca-
vano di capire quali fossero e dove si localizzassero i guasti di quelle
“macchine” impazzite. A volte, con pensieri scandalosi e pericolosi, si avven-
turavano a considerare gli elementi in comune fra pazzia, criminalità e santità.
Come se l’estasi e la Grazia appartenessero alla stessa famiglia delle azioni
dei folli e dei criminali incorreggibili.
Nel corso d’una discussione, Garrick aveva asserito d’essere in grado di
percorrere a tutta velocità la gamma delle passioni, senza che né lui né tanto
meno i suoi spettatori fossero in grado di distinguere il “naturale” dall’ “artifi-
ciale” nelle sue azioni. Colse alcune espressioni scettiche fra i suoi interlocu-
tori. Costoro pensavano, giustamente, che l’artificialità d’una azione scenica
era sempre evidente. Garrick uscì dalla stanza, chiuse la porta e la riaprì. Il suo
volto era squassato dal dolore. Chiuse. Istantaneamente ricomparve come un
individuo lubrico nel pieno d’un approccio sessuale. Scomparve. Riapparve
istantaneamente un sant’uomo in preghiera. Poi un volto sconvolto dall’ira.
Poi al culmine della gioia. Della tenerezza. Nel parossismo della gelosia. E
così via.
Ogni volta, i presenti credevano alla verità di quelle passioni e di quei
sentimenti. Non vi era alcuna differenza fra i sintomi che mostrava loro l’at-
tore inglese e i sintomi che avevano osservato sul volto di certi pazienti. Solo

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La conquista della differenza 107

la rapidità con cui le diverse espressioni si alternavano dimostrava l’artificia-


lità d’una tecnica fredda sottostante l’incandescente “verità” dei risultati. Di-
derot fece tesoro di quella dimostrazione di lavoro quando spiegò la sua “para-
dossale” opinione secondo cui l’attore sublime non sente affatto le passioni
che rappresenta, ma le muove dal di fuori, a freddo, come un burattinaio col
suo burattino.
Erano episodi che avevo letto nei libri e che combaciavano con i miei
tentativi di spiegare tecnicamente l’incandescenza degli spettacoli di Gro-
towski. Una vaga idea cominciò a crescere in un angolo della mia testa: che
fosse possibile rendere evidente la doppia faccia del lavoro teatrale. La com-
plementarità dell’esercizio “a freddo” e del processo organico “caldo” poteva
forse trovare una sua forma a metà fra pedagogia e spettacolo.
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Rafforzavano tale idea alcuni malintesi.


Nei primi anni di vita dell’Odin Teatret ci era capitato, a volte, di mostrare
in pubblico il nostro training, che in genere era rigorosamente vietato a sguardi
estranei. Nell’aprile del 1967, la televisione danese trasmise un reportage
d’una ventina di minuti sul nostro lavoro. Riprese i nostri esercizi dato che non
avevamo uno spettacolo. La gente di Holstebro vide per la prima volta al la-
voro il teatro ospite nella loro città da poco meno d’un anno. Apparimmo loro
come un gruppo di isterici. Debbo dire che anch’io e i miei compagni abbiamo
una simile impressione quando oggi rivediamo quel filmato, dove il training è
presentato senza la sua faccia complementare: i risultati artistici.
Qualche mese dopo, andai con Torgeir Wethal ed Else Marie Laukvik al
convegno “Per un Nuovo teatro” che si tenne ad Ivrea, in Italia. Vi era l’aristo-
crazia dell’avanguardia italiana, da Carmelo Bene a Dario Fo. Presentammo
anche lì il training. I pochi che assistettero a quella dimostrazione di lavoro
risposero in maniera opposta ma equivalente a quella dei danesi che ci avevano
visto in televisione: ci considerarono un teatro dedito al virtuosismo tecnico.
Potei constatare un malinteso di segno opposto, quando nel 1973 presen-
tammo La casa del padre all’Università di Lecce in Italia. Durante una mia
conferenza, Iben Nagel Rasmussen mostrò il suo training quotidiano. Venne
visto come uno spettacolo drammatico, una rappresentazione di dolore e pas-
sione. Alcuni degli studenti ne furono profondamente colpiti. Eppure era solo
lavoro tecnico.
La pratica del training, in quegli anni cominciava a diffondersi e divenne
spesso una bandiera che definiva la “differenza” di alcuni gruppi teatrali indi-
pendenti. A volte rischiava d’essere una bandiera soffocante. Fare training ri-
schiava in qualche caso d’assorbire tutto il senso del lavoro. Cominciammo a
vedere training che non venivano accompagnati da nessun spettacolo. Lo stru-

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108 Eugenio Barba

mento si trasformava in fine. Gli esercizi rischiavano di diventare un’ennesima


illusione, di segno opposto all’illusione, altrettanto perniciosa, che si potesse
fare a meno della tecnica.
Vi erano insomma molte esperienze, molte domande e riflessioni che co-
vavano negli angoli della testa mia e dei miei attori quando nel 1978 l’Odin
Teatret fu ingombrato da regali di cui non sapevamo che cosa fare.
Tutti gli attori erano stati per tre mesi fuori del teatro, in diverse parti del
mondo, per compiere “viaggi di studio”. Ci saremmo tutti reincontrati ad Hol-
stebro, e ciascuno avrebbe raccontato agli altri i risultati del proprio lavoro
fuori casa. Alcuni mostrarono tecniche per noi del tutto sconosciute e altri ad-
dirittura spettacoli con costumi, maschere e canti appresi da maestri di Bali o
dell’India. Non potevo gettarli via. Ma non potevo neppure immetterli nel no-
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stro repertorio. Erano corpi estranei. Erano piccoli spettacoli appresi ed ese-
guiti con grande precisione, ma pur sempre in pochi mesi. Ed ero convinto che
in così poco tempo non ci si appropria di uno stile classico e non lo si metabo-
lizza.
Ero diviso tra l’ammirazione per il lavoro dei miei compagni e l’impossi-
bilità di utilizzarlo. Escogitai uno stratagemma: qualcosa a metà fra spettacolo
e conferenza, e l’intitolai “Stanze del Museo del teatro”. Due attori, Toni Cots
e Tom Fjordefalk, uno spagnolo, l’altro svedese, mostravano gli elementi di
base della danza balinese e del kathakali indiano, le loro codificazioni e con-
venzioni, il loro lessico fisico. Poi, alla fine della dimostrazione, assumevano
gli abiti e il maquillage di quelle forme classiche di teatro e presentavano due
piccoli spettacoli.
E così, “per disperazione” si tradusse per la prima volta in pratica quel-
l’idea che aveva a lungo covato, di unire dimostrazioni tecniche e brani di
spettacolo, le due facce della luna teatrale, la calda e la fredda.
La prima vera e propria dimostrazione-spettacolo non assomigliò ad una
“stanza del museo”. Fu Luna e buio di Iben Nagel Rasmussen. Era sempre più
scontenta del lavoro pedagogico di breve durata, dei seminari d’una o due set-
timane. Le sembrava di diffondere formule e ricette che trovavano il loro senso
solo nella continuità del lavoro. Allora restrinse i tempi. Per sfuggire il rischio
delle formule trovò una forma. Quando me lo fece vedere per la prima volta,
era il 1980, Luna e buio non si chiamava ancora così ma era già pronto. Mo-
strava i principi elementari del training, eseguiva e spiegava alcuni esercizi, ne
discuteva l’utilità, indicava dove si annidassero le trappole e i rischi di frain-
tendimento. Poi ripercorreva le tappe della propria vita d’attrice e mostrava
come gli elementi tecnici diventavano spettacolo, canto, azione e parola.

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La conquista della differenza 109

Senza volerlo, inventò un genere teatrale che oggi sembra ci sia sempre
stato, nel nostro e in altri teatri: un’opera-ponte fra lo spettacolo e il seminario
pedagogico, fra anatomia, autobiografia e drammaturgia.
Nel 1988, Roberta Carreri condensò in una dimostrazione-spettacolo di
due ore ciò che aveva presentato e detto in tre giornate di lezione in un’univer-
sità (all’Aquila, in Italia), dove aveva ricapitolato la propria autobiografia
professionale. Il risultato fu un’opera scenica strutturata in tutti i dettagli,
senza nulla lasciato al caso, ma che assume l’aspetto e le convenzioni d’una
conferenza intramezzata da esempi: Orme sulla neve. Con i necessari aggior-
namenti, resta, dopo quasi vent’anni, nel repertorio suo e del nostro teatro.
Anche L’eco del silenzio di Julia Varley nacque da alcune giornate di le-
zioni all’università (L’Aquila, 1991), solo che l’attrice rovesciò la dramma-
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turgia delle precedenti dimostrazioni. Invece di partire dai principi tecnici,


partì dagli ostacoli. Presentò la gamma della propria tecnica vocale come ri-
sposta ai problemi posti da una voce di per sé poco dotata, giudicata inadatta
alla scena. Approdava a soluzioni molto lontane da quelle che per anni ave-
vano caratterizzato le scelte stilistiche dell’Odin Teatret. Non le negava, ma ad
esse non si adeguava. Metteva così in primo piano la faccia che in genere resta
nascosta della tecnica: il suo essere una lotta contro una situazione di minorità.
La sorella gemella ed opposta del cosiddetto “talento naturale”.
La tecnica, il lavoro “freddo” è spesso descritto come una scelta di stile. È
in molti casi un rifiuto. La storia di Stanislavskij testimonia come la sua radi-
cale ricerca scientifica sulle basi tecniche dell’attore abbia alle sue radici il
temerario e lucido tentativo di compensare la mancanza d’un talento naturale.
L’Odin Teatret aveva vissuto questo in prima persona: sembravamo affascinati
dal virtuosismo perché eravamo costretti ad essere autodidatti.
I sentieri del pensiero di Torgeir Wethal presentò, nel 1992, una faccia
ancora diversa. Una dimostrazione di lavoro condotta da un attore seduto a ta-
volino sembra una contraddizione in termini. Ancor più lo è se il suo autore e
protagonista è l’attore che ha fondato con me l’Odin Teatret nel 1964, che ha
partecipato a tutti gli spettacoli di cui io sono stato il regista. Siamo considerati
un teatro “del corpo”, della fisicità, un teatro acrobatico nemico della centra-
lità della parola. Torgeir Wethal, si siede e parla. Si alza in piedi solo di tanto
in tanto e non muove più d’uno o due passi. Mostra come la mente e l’immagi-
nazione dell’attore che improvvisa, possano essere esercitate, regolate e va-
riate con dinamiche paragonabili a quelle che sovrintendono al dinamismo fi-
sico. Lo “spettacolo” di questa dimostrazione è una successione di miniature.
Non c’è una tecnica dell’Odin Teatret. Non c’è uno degli attori di cui
sono regista che possa essere considerato interprete ortodosso delle mie vi-

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110 Eugenio Barba

sioni e delle mie teorie. Siamo un’accolita di miscredenti, al nostro interno


prima ancora che nei confronti del mondo che ci circonda. Di questo sono
particolarmente orgoglioso.
Dopo tanti anni di lavoro assieme, dopo tante esperienze condotte nel-
l’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology, fondata da me fra il
1979 e l’80, immaginavo che su un punto, almeno, l’accordo fosse quasi to-
tale: nel considerare la danza come base del bios scenico. Per la sessione del-
l’ISTA che si tenne a Copenaghen nel 1996, dedicata al tema dei rapporti fra
ciò che intendiamo con il termine “danza” e ciò che intendiamo con “teatro”,
chiesi a Roberta Carreri, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley e Torgeir Wethal
di presentare attraverso azioni e parole, le nostre visioni. Proposi che ciascuno
di loro preparasse una mini-dimostrazione di lavoro di circa 20 minuti. Imma-
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ginavo un coro. Mi trovai davanti ad un pamphlet beffardo e generoso: quattro


“numeri” che andavano nelle divergenti direzioni della rosa dei venti. Che si
rispondevano a distanza, che sembravano prendersi in giro proprio nei punti in
cui dicevano cose simili ciascuno con le sue parole.
Come venti anni prima, quando gli attori che se ne erano andati in viaggio
ed erano tornati carichi di regali ingombranti, mi trovai ancora una volta proiet-
tato nel ruolo di spettatore stupito e perplesso, divertito e persino commosso, di
quello che consideravo il “mio” teatro. Quella dimostrazione di lavoro, che
chiamammo I venti che sussurrano nel teatro e nella danza, entrata anch’essa
nel nostro repertorio, venne definita da alcuni degli studiosi nostri compagni
viaggio, come un cabaret sui fondamenti del sapere teatrale. Altri, soprattutto
attori e registi, la videro come un dialogo filosofico fatto alla maniera degli at-
tori. Che cosa realmente sia, non lo so. Ma so che è viva. E mi dice, soprattutto,
che un regista fortunato non è colui che può dar forma al teatro che sogna, ma
colui che malgrado la famigliarità e le esperienze comuni, dopo anni, può an-
cora trovarsi nella condizione di aver voglia di conoscere, con il fuoco dei sogni
e il gelo della scienza, il teatro che gli è cresciuto intorno.
Oggi, le dimostrazioni di lavoro dell’Odin Teatret sono una parte impor-
tante del nostro repertorio. Oltre quelle che ho ricordato, ve ne sono alcune
che riguardano la relazione fra attore e regista (l fratello morto di Julia Varley,
1994), o il confronto con scene e personaggi classici (Casa di bambola, di
Roberta Carreri e Torgeir Wethal, 1997; Testo, azioni, relazioni di Tage Larsen
e Julia Varley, 1998). Costeggiano i nostri spettacoli, li accompagnano come
piccole radiografie colorate.
Possiamo parlare delle dimostrazioni di lavoro, oggi presenti in molti
teatri, come d’un genere o sottogenere teatrale? Non è questa, per me, la do-
manda più interessante.

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La conquista della differenza 111

Ciò che più m’interessa è vivere e far vivere l’esperienza di due serpenti
che s’accoppiano e si allontanano: “freddo” e “caldo”, meccanicità ed organi-
cità, convenzione e creazione, composizione premeditata e improvvisazione.
Un poeta che aveva perso il dono della vista, o che si era liberato dal suo im-
paccio, come Borges soleva dire, descrisse questo artigianale mistero come
una danza che nessuno, pur sgranando gli occhi, riuscirebbe a vedere: la danza
dell’algebra con il fuoco.
Nell’artigianato teatrale, l’accoppiamento fra elementi fatti per non in-
contrarsi diventa visibile e tangibile, ma non può essere programmato. È ciò
che sfugge alla pedagogia. È sapere tacito che può trasmettersi solo per con-
tagio. È artigianato, mestiere, ma anche mistero.
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DRAMMATURGIA:
L’ORDINE PROFONDO CHE È TURBOLENZA*

C’è una rivolta invisibile, apparentemente indolore, che impregna il la-


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voro e nutre la tecnica.


La disciplina artistica è la via del rifiuto. La tecnica teatrale e l’atteggia-
mento che essa presuppone sono un esercizio continuo della rivolta, innanzi
tutto contro di sé, contro le proprie idee, i propri programmi, contro l’agia-
tezza della propria intelligenza, del proprio sapere, della propria sensibilità.
Sono la pratica di un disorientamento volontario e lucido alla scoperta di nuovi
punti di orientamento.
La rivolta, oltre a nutrire il lavoro, ne è anche nutrita. Faccio teatro perché
voglio preservare la mia libertà di rifiutare alcune delle regole e dei valori del
mondo che mi circonda. Ma è vero anche il contrario che, poiché faccio teatro,
sono spinto e aiutato a rifiutarli.

Tempesta e meticolosità
Spesso la scelta di fare teatro è la risposta difficile ad una situazione diffi-
cile. È un modo di vivere una libertà che è libera solo se i risultati del proprio
lavoro riescono ad influenzare altre persone ed a trarle dalla nostra parte. È un
modo di inventarsi un’identità, che si rivela a noi attraverso un mestiere meti-
coloso e insieme tempestoso.
Alcuni credono che tempesta e meticolosità appartengano a due diversi
compartimenti stagno, che i problemi tecnici, la professionalità e la precisione
artigianale non abbiano a che vedere con la turbolenza, con gli impulsi alla li-
bertà, alla distruzione, alla rivolta, al rifiuto.
Non è vero.

* Pubblicato per la prima volta in “TDR - The Drama Review” n. 168, New York, 2000.

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114 Eugenio Barba

Estrarre il difficile dal difficile


Estrarre il difficile dal difficile è l’atteggiamento che definisce la pratica
artistica. Ne dipendono sia l’incisività, la complessità, la densità del risultato,
che i momenti di difficoltà, di pena e illuminazione di disorientamento e di
nuovi orientamenti che caratterizzano il processo.
Tale atteggiamento fa la differenza fra l’organicità dell’arte e l’organizza-
zione delle opere quotidiane, che sono tanto migliori quanto più estraggono il
facile dal difficile.

Scilla e Cariddi
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Ordine e disordine non sono due opzioni contrapposte, ma due poli che
coesistono e si rafforzano a vicenda. La qualità della tensione che riesce a
crearsi fra di loro fornisce la misura della fertilità del processo creativo.
Quando però si cerca di descrivere questa tensione, i discorsi cominciano
a zoppicare. Più aderiscono a ciò che concretamente si è sperimentato nel
corso del lavoro, più risultano fantastici ed esotici a chi li ascolta. E mentre
cercano di trasmettere esperienze, rischiano l’equivoco.
Per sfuggire a questi pericoli, la soluzione più semplice è tacere. Altri-
menti si è costretti a navigare tra Scilla e Cariddi.
Da una parte Scilla: il rischio di rettificare il percorso, trasformando l’in-
trico dei sentieri in una linea che corre dritta nella giusta direzione. Tutto allora
appare chiaro, ma non ha riscontro nella nostra esperienza. Nella realtà del la-
voro, la creatività si manifesta come un cielo tempestoso. Viene vissuta come
disorientamento, dubbio, frustrazione, disagio.
Essere padroni del proprio mestiere significa innanzi tutto saper preparare
la tempesta che ci sgomenterà. Significa sapere come resistere senza fuggire
verso soluzioni facili o previe.
Tempesta significa anche che i problemi non si presentano uno dopo
l’altro – come quando ne parliamo – ma tutti o più d’uno contemporanea-
mente. Quando il mare e le onde sono solo il disegno della rotta, ogni tratto
diventa comprensibile. Tutto risulta vero, ma d’una verità così astratta da
sbeffeggiare l’esperienza.
Dall’altra parte Cariddi: il rischio di parlare solo di tempeste, dimenti-
cando la geometria del compasso, della bussola, del sestante che permettono
la rotta. È il rischio di cadere nella cronaca, nell’aneddotica, nella confessione:
il processo è mostrato come un percorso buio, confuso e casuale, come un

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La conquista della differenza 115

magma che sbocca ad un risultato quasi senza volerlo, non sapendo come e
perché. Anche questo è un aspetto della verità, uno dei suoi profili.
Per guardare in faccia la realtà del processo artistico occorre mettere a
fuoco, alternativamente, ora l’uno ora l’altro profilo.

La segreta complessità del bios


Malgrado la scomoda oscillazione fra Scilla e Cariddi, con tutti gli equi-
voci che comporta, vale la pena di tentare di parlare del modo in cui cresce,
prende forma e si trasforma uno spettacolo. Significa interrogarsi su qualcosa
che ha a che vedere con la vita. Si ha la sensazione che siano domande ana-
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loghe a quelle che si pongono coloro che indagano la segreta complessità del
bios.
In fondo, è questo che giustifica l’interesse e la curiosità per ciò che ac-
cade nel processo artistico, per i suoi paradossi ed i suoi blocchi. E spiega
l’accanimento di alcuni a parlarne, pur sapendo che le parole saranno opache,
e le domande quasi sempre prive di risposta.

Arte e materia vivente


Nel linguaggio artistico la contrapposizione organico-disorganico di-
stingue l’opera che a noi pare viva, credibile e in sé coerente, da quella che
invece pare forzata, meccanica e suscita in noi un moto di rifiuto o di fastidio.
Nelle scienze della natura, invece, la contrapposizione organico-disorganico
serve a distinguere il regno del bios dal regno minerale.
C’è un’importante differenza fra i discorsi sull’arte e quelli sulla natura:
nei primi la differenza fra organico ed inorganico è oggettiva, mentre nei se-
condi ha basi esclusivamente soggettive, e acquista una parvenza di oggettività
solo quando è un giudizio condiviso da molti. Oppure, per dirla in maniera che
piaccia anche agli scettici ed ai relativisti: i discorsi sulla natura hanno la pre-
sunzione d’essere oggettivi, quelli sull’arte presumono che l’oggettività non
esista.
Un’altra differenza è che mentre la complessità dei processi che in natura
determinano la vita appare per lo più come un mirabile ordine, le vie per le
quali si raggiunge la vita dell’opera d’arte appaiono invece come dominate dal
disordine e spesso casuali.

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116 Eugenio Barba

Essere fabbri della propria casualità


Molte delle soluzioni che impressionano lo spettatore e contribuiscono a
determinare il significato dello spettacolo sembrano suggerite dal caso. Ma
ciò che chiamiamo “caso” è in realtà un ordine complesso, dove agiscono si-
multaneamente più forze, un sistema di relazioni che non si lascia esplorare
con un solo colpo d’occhio.
Potremmo dire che nel processo creativo bisogna essere fabbri della pro-
pria casualità, come i latini dicevano che ciascuno era fabbro della sua fortuna.
Senza dimenticare quello che diceva Pasteur: “Il caso favorisce solo le menti
preparate”.
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Catastrofe e densità
Che cosa significa, tecnicamente, disorientare il percorso di lavoro? Vuol
dire non tener conto solo di un obiettivo, ed orientarsi contemporaneamente in
due, tre, quattro direzioni diverse. Come un veliero che vuol dirigersi ad Occi-
dente, mentre il vento soffia da Sud e le correnti sottomarine spingono verso
Est. L’equilibrio fra queste tensioni è la rotta creativa. La tensione fra forze
divergenti, contrapposte o semplicemente contigue può anche determinare la
catastrofe. Ma se si riesce a domare queste forze, a scoprire il tipo di relazioni
che esistono fra di loro, se si riesce, cioè, a farle convivere, intrecciarle e com-
porle, invece della catastrofe si raggiunge la densità.
La densità disorienta lo spettatore, lo spinge ad estrarre il difficile dal
difficile, lo scuote fuori dagli schemi di pensiero che gli sono noti e costitui-
scono l’accampamento sicuro delle sue idee.

Tecnica del disorientamento


Durante le prove, la tecnica del disorientamento consiste nel dar spazio ad
una molteplicità di linee, di storie, di direzioni, senza piegarle fin da subito
sotto il giogo delle nostre scelte e delle nostre intenzioni. Significa seguire
contemporaneamente tracce diverse, temi divergenti, associazioni sconnesse e
permettere che le storie che ogni singolo attore segue ed insegue non corri-
spondano a quelle del regista e degli altri compagni.
È un atteggiamento che stimola e genera una contiguità di materiali e
proposte. È la possibilità di sperimentare un percorso labirintico tra caos e
cosmos, con svolte improvvise, arresti paralizzanti, soluzioni repentine. È la

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La conquista della differenza 117

crescita di una profusione che sembra a lungo oscurare, nel corso del processo,
la chiarezza espositiva e narrativa.
Si crea così un’apparente confusione, un campo magnetico dove le forze
sono diverse per ogni singolo attore e per il regista, ma dove ognuno può tro-
vare appigli, legami, giustificazioni, interessi, ostacoli, sfide e risonanze con il
tema principale o con quel nucleo di domande che costituiscono il punto di
partenza.
È la creazione di un panorama caotico con tanti fiumi sotterranei, lungo i
quali ciascuno è libero di seguire la propria rotta. Questa libertà è già il seme
di una drammaturgia, perché, se ognuno naviga dove vuole, l’esigenza di sce-
gliere la rotta d’insieme obbliga a trovare delle relazioni fra i diversi motivi
personali. Tale ricerca di relazioni coerenti è già ricerca di un intreccio narra-
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tivo, di una drammaturgia coerente.

Le tre drammaturgie
Il lavoro sulla drammaturgia non è soltanto quello sui testi o sulla storia
che si vuole raccontare o mettere in visione per gli spettatori.
Esistono tre diverse drammaturgie che dovrebbero agire contempora-
neamente, ma che possono essere lavorate ognuna per suo conto:
• la drammaturgia organica o dinamica: la composizione dei ritmi e
dei dinamismi che coinvolgono lo spettatore a livello nervoso, senso-
riale e sensuale;
• la drammaturgia narrativa, che intreccia gli avvenimenti, i perso-
naggi, e orienta gli spettatori sul senso di ciò che stanno vedendo;
• e infine la drammaturgia che ho chiamato drammaturgia dei muta-
menti di stato, quando l’insieme che mostriamo riesce ad evocare
qualcosa di diverso, come quando dal canto o dalla musica si svi-
luppa, tramite gli armonici, un’altra linea sonora.

Questa drammaturgia dei mutamenti di stato è quella che distilla o cattura


un significato recondito dello spettacolo, spesso involontario per gli attori e il
regista e diverso da spettatore a spettatore. Dà allo spettacolo, che deve avere
una sua coerenza, anche un suo mistero.
La drammaturgia dei mutamenti di stato è la più elusiva. Non ci sono re-
gole tecniche. Ed è persino difficile spiegare di che si tratta aldilà degli effetti
che si possono constatare: salti da una dimensione ad un’altra. Per lo spetta-

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118 Eugenio Barba

tore, l’attore, e il regista è un salto da uno stato di coscienza all’altro, con


imprevedibili, personalissime conseguenze sensoriali e mentali. Questo slitta-
mento da un contesto all’altro è uno scuotimento, un cambiamento della qua-
lità dell’energia che provoca un doppio effetto: vortice improvviso nella sicu-
rezza della comprensione e illuminazione che si vive come turbolenza.

Turbolenza
La turbolenza sembra infrazione dell’ordine ed è invece ordine in moto. È
il crearsi di vortici che rompono la corrente dell’azione narrativa. In assenza di
questi vortici, la continuità, il ritmo e la narrazione rischiano di cadere nel-
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l’ovvietà e nell’illustrazione. Sarebbe come un susseguirsi di note che creano


una linea melodica ma cantate senza la profusione di armonici che rendono
viva la voce e le permettono di commuovere e di incantare.
La drammaturgia dei mutamenti di stato riguarda lo spettacolo come av-
venimento fisico e sensoriale, come organismo-in-vita. Non ha a che vedere
con la scrittura, con la drammaturgia di parole, così come le qualità vibratorie
del canto non hanno a che vedere con gli spartiti.
Tutto ciò non è possibile senza la disponibilità di molti elementi e molti
semi, senza la volontà di favorire contiguità e di muoversi contemporanea-
mente in più direzioni. Questa profusione di elementi e materiali crea confu-
sione, ma deve tendere alla semplicità e alla coerenza.

Coerenza
“Uno scrittore può certamente costruire castelli in aria, ma debbono pog-
giare su fondamenta di granito”. Questa affermazione di Ibsen si riferisce alla
drammaturgia letteraria, ma indica la dialettica di indipendenza e dipendenza,
di anarchia e disciplina, di rivolta da un lato e dall’altro imperio di un principio
unificatore che caratterizza ogni aspetto delle tre drammaturgie.
Occorre che le azioni degli attori abbiano una coerenza indipendente-
mente dal loro contesto e dal loro significato. Occorre che appaiano credibili a
livello sensoriale, che siano presenti a livello pre-espressivo. Le fondamenta
di granito sono il loro carattere di credibilità, la loro capacità di stimolare
l’attenzione dello spettatore, di avere una radice nel corpo-mente dell’attore.
Debbono rispondere ad una loro particolare e indipendente logica.
Esistono e sono esistiti attori ed attrici di portentosa efficacia che non
hanno mai fissato il disegno della loro azione scenica, che non pensavano in

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La conquista della differenza 119

categorie di partitura, che non hanno mai lavorato coscientemente ad un livello


che potessero chiamare pre-espressivo, che evitavano ogni precisione visibile
e controllabile dall’esterno.
Perché, allora, insisto tanto sul lavoro dell’attore a livello pre-espressivo?
Sull’importanza della precisione nel fissare e saper ripetere il preciso disegno
della sua azione? Sul valore della sua indipendenza dalle intenzioni del regista
e del drammaturgo? Sulla coerenza della sua partitura e sottopartitura?
Insisto non solo perché constato ciò che rende efficace l’attore, ma perché
l’autonoma coerenza dell’azione dell’attore, indipendentemente dal signifi-
cato che essa assume nel contesto dello spettacolo, dà una dote particolare e
preziosa ai materiali che l’attore costruisce: li rende anfibi, capaci di passare
senza morire da un contesto all’altro, abili a mutare senza perdere le radici che
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li tengono in vita.

Confusione e con-fusione
Nella fase delle prove in cui gli attori seguono solamente il filo personale
e coerente delle loro partiture, il lavoro sulla drammaturgia dell’insieme può
rimanere a lungo confuso, addirittura caotico.
La confusione, quando è cercata e praticata come fine, è l’arte dell’in-
ganno. Ciò non vuol dire che essa sia di per sé qualcosa di negativo, uno stato
da evitare. Usata come mezzo, la confusione è una delle componenti di un
processo creativo organico. È il momento in cui materiali, progetti, storie con-
tigue e intenzioni diverse si con-fondono, si fondono insieme, amalgamandosi
le une con le altre, divenendo l’una l’altra faccia dell’altra.
Le linee intricate della rotta non vogliono dire che la rotta punti all’in-
trico. La profusione e la confusione dei materiali e degli indirizzi è la sola via
per arrivare all’azione spoglia ed essenziale.

Artigianato e genio
Quando il lavoro è quasi terminato, il pittore si ferma e dice che ora può
davvero cominciarlo. Coloro che lo circondano mostrano stupore e incom-
prensione. Ma lui intanto lentamente sconvolge e distrugge quel che ha fatto
fino a quel momento. Disegna altre scene e figure che si intrecciano o si
sovrappongono alle precedenti e le cancellano. Prende una nuova tela e vi di-
pinge il quadro che ha mentalmente estratto dalle difficoltà in cui si era gettato
nel dipingere la tela precedente.

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120 Eugenio Barba

Era partito da una divisione dinamica ed asimmetrica del rettangolo


bianco, con linee che indicavano le sei direzioni dello spazio solido. Poi l’aveva
popolato, aveva steso i colori, aveva cancellato, colorato di nuovo, inventato
nuove figure, ne aveva trasformate altre. Aveva dipinto velocemente, s’era fer-
mato a riflettere, aveva ricominciato, aveva intravisto una soluzione e poi s’era
ricreduto. Sulla tela, il sole brillava in un mare azzurro. Poi aveva fatto scendere
la notte e l’intera tela si era oscurata gradualmente. In questo momento si è ac-
corto della strada giusta: “ora posso cominciare. Tutti gli errori commessi fino
a questo punto mi hanno insegnato il quadro che debbo fare”.
Nell’estate del 1955, Pablo Picasso aveva accettato, contro tutte le previ-
sioni, di girare un film. Era stato il regista francese Gorges Clouzot a convin-
cerlo. Il film avrebbe dovuto mostrare il pittore al lavoro. Contraddicendo il
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normale schema delle sue giornate, per un mese Picasso si alzò presto la mat-
tina per recarsi negli studi cinematografici di Nizza. Accettò di sottomettersi
alle esigenze tecniche delle riprese cinematografiche. Lavorò davanti a tanti
“spettatori”, tecnici della luce e del suono, elettricisti, fotografi, addetti alla
produzione, regista, i numerosi componenti di una normale troupe cinemato-
grafica.
Il film, Le mystère Picasso, è oggi un classico nel suo genere. Viene pre-
sentato come il documento che permette di osservare ciò che avviene nella
testa di un genio. Fu indubbiamente un genio. Ma il film rivela soprattutto il
Picasso artigiano.

Procedimenti umili
Negli anni 1970 vennero trovati gli scarti delle pellicole di Charlie Cha-
plin, materiali che avrebbero dovuto essere distrutti e che conservarono per
errore. Con essi Kevin Brownlow e David Gill composero un programma tele-
visivo che divenne famoso, Unknown Chaplin. Vi si vedeva Chaplin improv-
visare, cercare un tema per una delle sue comiche, partire dal nulla, costruire
scene complesse e poi gettarle via, fino a che gli si apriva davanti la strada
giusta. Intanto la cinepresa girava impressionando pellicola, che ora ci rivela
quel che avveniva nella testa di quel genio. Ancora una volta: artigianato.
Se osserviamo Le mystère Picasso o Unknown Chaplin per dedurne qual-
cosa che possa interessarci dal punto di vista professionale, non dobbiamo la-
sciarci abbagliare dagli aspetti straordinari della loro creatività. Le loro doti
eccezionali rendono particolarmente evidenti i procedimenti umili su cui il la-
voro artistico si basa sempre, quale che sia il livello dei risultati.

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La conquista della differenza 121

Spreco
Non c’è lavoro creativo senza spreco. La proporzione fra ciò che viene
prodotto e ciò che alla fine sarà utilizzato deve ispirarsi alla sproporzione fra il
seme che, in natura, viene disperso perché una sola cellula fecondatrice riesca
a generare un individuo del regno animale o vegetale.
Non c’è lavoro creativo senza spreco senza la buona qualità di ciò che si
spreca.
Kipling diceva che non si impara a scrivere se non si impara a tagliare. E
che per tagliare in maniera fruttuosa, occorre che i pezzi eliminati siano d’una
qualità altrettanto buona degli altri. Non servirebbe a niente, cioè, scrivere
pensando che quel che si scrive può anche venir buttato via.
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Estrarre il difficile dal difficile significa questo: creare una complessità il


cui compito non è di conservarsi, ma di guidarci verso scelte ulteriori e rive-
larci strade alle quali non pensavamo.
Se si ragiona secondo i criteri dell’economia e del risparmio, è un modo
di procedere paradossale. Ma è semplice buon senso se i criteri sono quelli dei
mestieri artistici.
Nel teatro, questo paradosso si verifica principalmente a due diversi livelli
di organizzazione: quello dell’attore e quello della drammaturgia narrativa.

Estrarre l’errore dalla confusione


Picasso ad un certo punto del film di Clouzot appare confuso. Non è si-
curo di avere sufficienti forze per dominare le difficoltà che lui stesso ha
creato. Poi la confusione si trasforma ai suoi occhi in una chiara ragnatela di
errori. Allora riprende fiato: può finalmente cominciare.
“La verità affiora più presto dall’errore che dalla confusione”, ha detto
Francis Bacon (non il pittore nostro contemporaneo, ma il filosofo inglese del
XVII secolo). Estrarre l’errore dalla confusione, e poi la nostra verità dall’er-
rore potrebbe essere un modo un po’ filosofico per dire estrarre il difficile dal
difficile.

La costruzione della confusione


La costruzione della confusione è un problema centrale dell’artigianato
teatrale.
A livello drammaturgico significa non accontentarsi di ciò che già sap-
piamo dello spettacolo che vogliamo comporre, della sua storia o non-storia,
del significato che l’autore ha dato al testo o di ciò che noi vorremmo dire e

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122 Eugenio Barba

rappresentare. Significa far di tutto per sfuggire alla tentazione di realizzare


un’interpretazione, un piano, un programma definito preliminarmente.
Se lavoriamo su un testo, è importante sapere come allontanarcene. Ma
questo distacco, vagabondaggio o pellegrinaggio non ha l’obiettivo di usare il
testo come pretesto. Deve essere un percorso che ci porta in direzioni impen-
sate, affinché tutto ciò che abbiamo scoperto esplorando i territori e i temi che
ci portavano lontano o che contraddicevano i punti di partenza, costruisca una
rete di difficoltà al momento di tornare ad affrontare la drammaturgia del-
l’autore, confrontandoci con nuove domande e prospettive inaspettate.
Questa regola di comportamento nei confronti del testo o del tema di
partenza, del significato che essi avevano preliminarmente assunto ai nostri
occhi, corrisponde alla legge del movimento del corpo, per cui l’impulso per
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andare in una direzione è preceduto da un impulso in direzione opposta, un


sats. È una legge del movimento dell’organismo vivente che il livello d’orga-
nizzazione pre-espressivo dell’attore amplifica per trasformarla in uno di
quegli stimoli, scatti di energia o micro-vortici che tengono desta e guidano
l’attenzione dello spettatore a livello sensuale e cinestetico.

Errori-muri ed errori-porte
Se è vero che è essenziale estrarre l’errore dalla confusione, dobbiamo
chiederci, da un punto di vista tecnico, che cosa sia l’errore.
Ci sono errori sterili, che ciascun artigiano del teatro deve imparare a ri-
conoscere e correggere. Sono errori che bloccano il processo, come muri
ciechi. C’è però tutto un altro tipo di “errori” che sono già un punto di arrivo,
provvisorio ma fecondo. Li chiamerò “errori-porte”.
Se abbiamo saputo lavorare ai diversi livelli di organizzazione dello spet-
tacolo, ciascuno di questi funziona per suo conto. Messi insieme, però, non
realizzano armonia, ma confusione. Ogni livello di organizzazione è erra-
bondo, si limita ad andare per la sua strada, ha una sua tendenza centrifuga, è
geloso della propria autonomia. Ciò che ad un determinato livello di organiz-
zazione ha una sua coerenza efficace – per esempio al livello di organizzazione
del dinamo-ritmo – la perde invece all’altro livello, quello della drammaturgia
narrativa. O viceversa: alcune azioni, un passaggio o un’intera scena essen-
ziale per la storia che stiamo rappresentando, diventano di impaccio e contro-
producente per il ritmo dello spettacolo. Quel che in base ad una delle logiche
di lavoro è giusto, diventa “errore” da un altro punto di vista.
Sono questi gli errori che ci guidano, che ci obbligano ad estrarre una
nuova complessità da quelli che costituivano gli stadi precedenti del lavoro.

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La conquista della differenza 123

È cercando di rispondere a queste nuove difficoltà, di sfondare queste “porte”


che possiamo scoprire i salti di percezione in noi o nello spettatore: la dram-
maturgia dei mutamenti di stato.
A questo punto accade un fenomeno che quando se ne parla sembra
strano, ed è invece il segno che il lavoro sta trovando una sua giusta via: è
come se l’opera non fosse più nostra, e cominciasse a parlarci con una voce ed
una lingua autonoma, che noi dobbiamo sforzarci di decifrare.
Qualcosa di simile accade nel lavoro di ciascun attore, quando la sua par-
titura fisica, raffinata dal punto di vista del bios scenico, deve intrecciarsi con
le partiture dei compagni, con le parole del testo, con le esigenze della dram-
maturgia.
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Lavorare stanca e a volte fa male


È facile leggere tempesta e meticolosità, disorientamento e confusione,
turbolenza e non casuale casualità, enunciate come formule per estrarre il dif-
ficile dal difficile. È altrettanto facile immaginare come questo processo sia
vissuto come dubbio, disagio, a volte sofferenza nella realtà del lavoro.
Durante le prove, quando ciò che pareva già un difficile risultato viene
trattato come un nuovo punto di partenza, alcuni attori si perdono d’animo.
Per l’ensemble è sempre un momento critico. A volte l’irritazione di tutti
contro tutti prevale e distrugge. Eppure, anche questo è artigianato. Lavorare
non solo stanca, ma a volte fa male.
Sadismo e masochismo non servono nel processo artistico. Se poi affio-
rano nel sistema di relazioni che costituisce un gruppo, un teatro, ne consegue
una distruzione immediata ed amara.

La goccia d’acqua
Perché dunque lavorare in un modo che può farci star male, che può met-
tere a disagio o ferire me ed i compagni?
Per creare un’opera-in-vita, che stia di per sé, che mi appartiene e in cui
mi riconosco, ma che non abbia bisogno della mia presenza per continuare ad
esistere nei sensi, nella memoria e nelle azioni degli altri.
Per dare allo spettatore qualcosa che ricordi anche dopo che lo ha dimen-
ticato.
Per la nostalgia dell’azione spoglia ed essenziale: la goccia d’acqua che
fa traboccare il vaso.

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INCONTRI CON GLI SPETTATORI
E CON ME STESSO
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TESTO DELLE ORIGINI*

Un teatro non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua
missione sociale. L’aggettivo “sociale” evoca per noi una presa di posizione
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etica ed emotiva nei confronti degli altri. In effetti, il risultato artistico è


sempre influenzato da questa presa di posizione.
Il nome del nostro teatro non è fortuito. Ci sembra naturale che sia quello
della forza che ha lasciato la sua impronta nel nostro secolo: il dio della guerra
Odino, il berserk dalla furia incontrollata. Allo stesso modo in cui i nostri an-
tenati evocavano e combattevano i demoni dando loro libero corso in ceri-
monie collettive, siamo qui riuniti – attori e spettatori – per far emergere e
combattere in piena luce, il lato Odin in agguato nella nostra oscurità.
Questa lotta contro l’altro nascosto in noi diviene lo strumento d’una più
profonda conoscenza delle forze segrete che sorgono inattese e ci investono
quando le circostanze sono loro favorevoli. Il nostro teatro non vuole né diver-
tire, né sostenere tesi. Pone solo domande alle quali ciascuno di noi deve tro-
vare la sua risposta; l’arte impegnata non fornisce buone risposte, s’accontenta
di porre buone domande.
La veemenza della lotta interiore ci guida verso una nuova nascita. Così
Odin, anche sciamano che conquistò il sapere delle rune, ci guida ad estendere
il campo della nostra coscienza.

* Dal programma di Ornitofilene, primo spettacolo dell’Odin Teatret, Oslo, 1965.

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QUEL CHE È ORGANICO PER L’ATTORE
E QUEL CHE È ORGANICO PER LO SPETTATORE*

Nel teatro e nella danza, il termine organico è usato come sinonimo di


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vivo e di credibile. Accade però che l’attore viva come organiche delle azioni,
che invece non vengono sentite come tali dal regista e/o dagli spettatori.
D’altra parte, accade anche che il regista e/o gli spettatori percepiscano
come organiche azioni che l’attore vive invece come inorganiche, dure o arti-
ficiali da eseguire.
Questa disparità di giudizio, o di sensazione, va contro l’ingenuità teatrale
e la fede nella sintonia fra attore e spettatore. In realtà non c’è sintonia, ma può
esserci incontro. L’efficacia dell’incontro decide il senso ed il valore del teatro.
L’efficacia dipende dall’effetto di organicità che l’attore ottiene nei con-
fronti dello spettatore. Effetto di organicità vuol dire capacità di far sperimen-
tare allo spettatore un corpo-in-vita. Il compito principale d’un attore non è
essere organico, ma creare la percezione dell’organicità agli occhi e nei sensi
dello spettatore. Questo vuol dire che il suo lavoro sta tutto nell’apparenza e
nella simulazione? Crederlo sarebbe un’ingenuità altrettanto forte dell’otti-
mismo teatrale, che crede ad una relazione immediata e obbligata fra organi-
cità dell’attore ed effetto d’organicità per lo spettatore.
Il problema reale riguarda l’orientamento dell’attore nel corso del suo la-
voro, il modo in cui si sceglie un metodo e si apre una strada verso la costru-
zione della propria presenza efficace. Se l’attore usa come metro di giudizio la
propria sensazione dell’azione organica, se cioè perde il punto di riferimento
costituito dalla percezione di un altro che lo vede dal di fuori, probabilmente
sperimenterà assai presto come illusoria anche per sé stesso la propria organi-
cità. Le vie più brevi, checché ne dicano le nostre illusioni, sono sempre vie

* Pubblicato nel programma della 11a sessione della International School of Teatre An-
thropology (ISTA) a Montemor-o-Novo, Portogallo, 1998, il cui tema era “Effetto di organicità.
Quel che è organico per l’attore e quel che è organico per lo spettatore”.

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130 Eugenio Barba

curve. Sono cammini che per raggiungere la meta debbono procedere comin-
ciando con l’allontanarsi, al solo scopo di raggiungerla efficacemente.
Per l’attore, la ricerca dell’effetto di organicità è spesso accompagnata
dall’esperienza del disagio, da un senso inorganico del proprio corpo e della
propria azione. Solo alla fine di questa lunga tecnica di “allontanamento”, e
solo a volte, è possibile un incontro fra la nuova organicità delle azioni del-
l’attore e la percezione dello spettatore.
La nuova organicità che nasce dal lungo apprendistato è la conseguenza e
la metamorfosi del disagio. È l’esercizio d’una fisica, d’una fisiologia e d’una
logica che rendono paradossale lo spazio-tempo in cui attori e spettatori si in-
contrano. Questo paradossale modo di agire e di pensare, che s’allontana dai
criteri quotidiani, è il presupposto dell’efficacia e delle ragioni del teatro.
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EFTERMÆLE: QUELLO CHE SI DIRÀ DOPO*

Il lavoro è radicato nel presente, attento a quel che accade nelle distese
della storia e nell’arena del teatro. Tenta una risposta ai problemi professionali
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e personali che sorgono giorno per giorno. Cerca di realizzare sogni e desideri,
rispondendo agli obblighi del momento. Ma ciò che veramente conta è quello
che si dirà dopo, quando noi che lavorammo al compito saremo scomparsi.
*
Eftermæle: quello che si dirà dopo. L’uomo di teatro è responsabile anche
di fronte a quegli spettatori che non l’hanno mai veduto. La sua identità pro-
fessionale, così come egli la inventa e la vive, è una parte dell’eredità che tra-
smette al tempo.
Eftermæle: questo termine della cultura norvegese andrebbe tradotto con
la somma di due parole: nomea e onore. Vuol dire: il tempo deciderà il senso e
il valore delle tue azioni. Ma il tempo sono gli altri, coloro che verranno dopo
di noi. Tutto questo è paradossale: il teatro è arte del presente.
*
Onore è una parola che sembra appartenere alle epoche passate. Sembra
indicare arcaiche costrizioni sociali. Ma denota anche l’esistenza di un valore
superiore. Implica un obbligo non verso noi stessi e ciò che ci circonda, ma
verso ciò che ci trascende. Molière – testimoniano i contemporanei – pur es-
sendo gentiluomo di corte, pur essendo considerato uno dei più grandi filosofi
di Francia, trovava il proprio punto d’onore nell’imbrattarsi la faccia ogni sera
e presentarsi al pubblico come uno zanni. È un’immagine esagerata e roman-
tica? Ognuno, allora, trovi la sua.
*

* Pubblicato per la prima volta in “Linea d’ombra” no. 52, Milano, 1990.

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132 Eugenio Barba

Le costrizioni possono essere trampolini di lancio. Kierkegaard, a propo-


sito d’una grande attrice, parla del peso che la fa volare. “Arte del presente”
vuol dire un’arte chiamata a battersi contro il suo destino e la sua specificità di
creare opere effimere. Nell’età della memoria elettronica, del film, della ripro-
ducibilità, lo spettacolo teatrale si definisce anche attraverso il lavoro a cui
obbliga la memoria viva, che non è museo, ma metamorfosi.
*
Possiamo lasciare in eredità agli altri solo ciò che noi stessi non abbiamo
del tutto consumato. Un testamento non trasmette a tutti. È inutile domandarsi:
chi saranno i miei eredi? Ma è essenziale non dimenticare che ci saranno degli
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eredi.
*
Si può parlare agli eredi sconosciuti solo facendo passare la propria voce
attraverso coloro che oggi ci circondano. Ancora un paradosso: gli eredi si
raggiungono per linee curve, parlando a coloro che eredi non sono. Questo
implica una visione del teatro, la capacità d’inventarsi un’identità e una tec-
nica minuziosa della relazione attore-spettatore.
Come trasmettere il messaggio?
Un’istantanea della vita di Brecht, nell’immediato dopoguerra, quando
aveva appena rimesso piede in Europa:
- I giovani vi aspettano, signor Brecht! Voi siete un mito per noi in Ger-
mania!
- Troverò un rimedio a tutto questo.
*
Alcuni immaginano il messaggio come una verità che la nostra storia, la
nostra tradizione, la nostra esperienza e scienza personale ci ha fatto scoprire e
che per ciò comunichiamo agli altri.
Io lo immagino come un quadro dipinto da un pittore esperto ma cieco.
Attraverso le tecniche che padroneggiamo, le storie che ci attraggono, le ferite
e le illuminazioni intimamente nostre, dobbiamo raggiungere qualcosa che
non è più nostro e non si lascia possedere né da chi lo fa, né da chi lo vede.
Il vero messaggio è il risultato non previsto e non programmato, d’un
viaggio verso una cecità cosciente: l’anonimato.
*

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La conquista della differenza 133

Vi è un anonimato frutto d’acquiescenza allo spirito dei tempi. È l’anoni-


mato del pieno: la nostra voce è soffocata da tutto ciò che in noi è stato versato
dagli altri, dalla cultura, dalla società e dalla tradizione che ci circonda. In
questo caso, si è anonimi perché colmi di idee ricevute. Ma vi è anche un
anonimato del vuoto, ottenuto per il cammino inverso, in prima persona: non
ciò che si sa, ma ciò che io so. È il risultato della rivolta personale, della no-
stalgia, del rifiuto, della voglia di trovare se stessi e di perdersi: scavare così a
fondo, da trovare le caverne sotterranee, coperte dalla roccia e da centinaia di
metri di terra compatta.
C’è una tecnica per realizzare tutte queste intenzioni? Sì: la tecnica del
varo e del naufragio. Bisogna progettare il proprio spettacolo, saperlo costruire
e pilotarlo verso il gorgo, dove esso o si sfascia oppure è obbligato ad assu-
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mere una nuova natura: significati non prima pensati, che i suoi stessi autori
osserveranno come enigmi.
Senza tecnica, senza perfezionismo e senza attenzione ai dettagli, tutte
queste restano metafore prive di senso. Ma senza metafore o ossessioni di
questo tipo, la tecnica, il perfezionismo e l’estrema precisione dei dettagli
sono teatro privo di senso.
*
Senso come senso di marcia: la direzione. Il Nord sono gli eredi.
*
Nessuno degli spettacoli dell’Odin è spettacolo-testamento. Ma ogni
volta ho pensato allo spettacolo che i miei compagni e io stavamo elaborando
come al nostro ultimo spettacolo. Non è possibile rimandare. Quel che aspi-
riamo a fare, va fatto adesso.
*
Zeami, Stanislavskij, Appia, Mejerchol’d, Copeau, Craig, Artaud, Brecht,
Ejzenstejn: possiamo considerare i loro scritti come la loro esperienza lascia-
taci in eredità? Accade come quando uno risiede a lungo in un paese straniero,
di cui ignora completamente la lingua. Migliaia di suoni sconosciuti penetrano
nelle sue orecchie e vi si depositano. In poco tempo possiede il grammelot di
quella lingua, potrebbe farne l’imitazione, la riconosce, ma non la intende. È
una confusa massa di suoni punteggiata qua e là qualche parola decifrabile.
Poi riceve una grammatica e un vocabolario. Attraverso i segni scritti rico-
nosce i suoni familiari e confusi. Essi trovano lentamente un ordine, una clas-

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134 Eugenio Barba

sificazione, una ragione. Ora è in grado di imparare da sé, sa come farsi aiutare,
a che cosa deve stare attento per imparare.
I libri dei grandi uomini di teatro del passato, ribelli, riformatori, visio-
nari, possono essere capiti solo se si arriva a loro carichi di esperienze a cui
non abbiamo ancora saputo dare un nome. Le loro parole scuotono il nostro
grammelot opaco e lo portano alla chiarezza d’una conoscenza articolata.
Sono tutti buoni libri, capaci di interessare i lettori. Ma la loro segreta ef-
ficacia sta sotto la superficie letteraria e tecnica, nella rete nascosta capace di
catturare le nostre esperienze che ancora ci sfuggono. L’eredità pesca i suoi
eredi.
*
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“Esiste un’eredità di noi a noi stessi”. Questa frase di Jouvet evoca la coe-
renza del nostro operare nell’alternarsi del tempo. Ma rammenta anche la do-
manda spietata che uno si deve porre dopo anni e anni di lavoro: ho ancora tra
le mie mani l’eredità o l’ho sperperata? È ancora intatto il suo valore? Oppure
è stato intaccato dal commercio con il mondo, dal contatto con la professione?
Ha conservato questa eredità il suo significato personale, intimo e incomuni-
cabile?
Nostro è solo quello che è segreto. Il visibile appartiene agli altri.
*
Mi domando:
– Come mai lavori spesso a spettacoli direttamente legati alla storia del
nostro tempo? Vuoi testimoniare di ciò che hai visto? Dei fantasmi con cui hai
dialogato? I tuoi spettatori ti paiono smemorati?
Mi rispondo:
– No, non siamo smemorati. Bisogna avere il senso della storia, perché lei
non ce l’ha.

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LA GEOGRAFIA DELLE ILLUSIONI*

Contemplo l’andirivieni delle dozzine di etnie nell’infrenabile Hong


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Kong. Cinese? Asiatica? Cosmopolita? Eurasiana?


In questa metropoli una normale tournée di teatro si trasforma in una ri-
flessione sulla transculturalità, sul sincretismo e sul valore delle tradizioni.
Cosa vuol dire che uno spettacolo teatrale sia “cinese”? Sono molte le lingue,
le culture, le storie che si unificano nel singolare “Cina”.
Quando mi sono messo a scrivere, la prima immagine che mi è lampeg-
giata negli occhi è stato un vecchio film, un melodramma cullato da una can-
zone che ho ancora nelle orecchie. La città reale è qui davanti e intorno a me.
Eppure una favola sentimentale pesa fra i miei pensieri quanto la città concreta
che mi circonda, con i suoi interrogativi e i suoi richiami.
C’era una volta, ad Hong Kong, la giovane e attraente vedova di un gene-
rale cinese. Era eurasiana, figlia di un inglese e di una cinese. Aveva studiato
medicina in Cina e in Europa. Finita da poco la seconda guerra mondiale, la
giovane vedova pensava solo a guarire i suoi malati. Non voleva aver più nulla
a che fare con la passione amorosa.
Si sa cosa succede quando un simile personaggio compare in una nostra
favola, antica o moderna, occidentale o orientale, classica o popolare. La dot-
toressa di Hong Kong incontra un giornalista americano. Al primo appunta-
mento vanno a cenare su una giunca nella baia di Aberdeen, nel plenilunio in
cui finisce l’anno. Traggono auspici guardando le nuvole e il cielo stellato.
Il film va avanti, vediamo l’ospedale della dottoressa su una collina con in
cima un albero solitario in un vasto prato. Lì la dottoressa ed il giornalista si
abbracciano. In camere lussuose d’alberghi convivono e fanno l’amore. È un
amore senza dubbi e senza ombre, tanto felice che non finisce neppure quando
l’amato giornalista parte e giunge notizia della sua morte nella guerra di

* Pubblicato per la prima volta in “Dramatic Arts” n.19, Hong Kong, 2006.

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136 Eugenio Barba

Corea. L’amore della dottoressa somiglia a quell’albero in cima alla collina,


illuminato dalla solitudine e dal dolore. Un buio solare, un lutto luminoso:
a many-splendoured thing. Niente lacrime. Una farfalla dai colori cangianti
vola come i ricordi felici quando si introducono nel nostro dolore.
L’attrice è Jennifer Jones, l’attore William Holden, il film è del 1955. Vidi
Love is a many-splendoured thing in Norvegia, nei miei primi tempi di emi-
grante. Quando alcuni mesi più tardi ebbi la possibilità di imbarcarmi come
marinaio e girare il mondo, volevo andare anch’io a cena su quella giunca
nella baia incantata. Aberdeen era uno dei posti che avevo il desiderio di toc-
care, assieme al tempio indiano di Ramakrishna alla periferia di Calcutta.
“Toccare” vuol dire non illudersi che possa divenire un’abitudine, un ap-
puntamento che si ripeta ad ogni ritorno. I viaggi furono tanti a Hong Kong,
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anche dopo aver smesso d’esser marinaio. Visitai spesso mio fratello che vi
abitò per molti anni. Avevo cominciato a far teatro e i teatri asiatici mi erano
famigliari, presso di loro mi sentivo a casa più che in molti teatri d’Europa. Ma
nella baia di Aberdeen non misi più piede.
Fino a quando, durante la tournée dell’Odin Teatret a Hong Kong, nel
novembre del 2004, decisi di rivederla. La prima volta m’era apparsa incantata
come nella favola del film. La seconda volta, quasi quarant’anni dopo, il
mondo era cambiato. Anch’io lo ero. Ma la perdita dell’incanto non mi fece
male.
Avevo imparato a spezzare la bacchetta magica che suscita intorno a noi
una geografia di illusioni. Ai luoghi attribuiamo a volte spiriti e respiri che
sono nostri. Ci aiutano a definirci. La bellezza e la forza dei luoghi sono illu-
sioni vitali. Hanno il fascino del centro. Se non siamo pronti ad uscirne, prima
o poi ci disilludono.
Non c’è contesto migliore di Hong Kong per accorgersene. Oggi, nel 2004,
mi aggiro in questa folla di differenze, in questo accattivante e angoscioso labi-
rinto di case e di quartieri, d’autostrade, tunnel e grattacieli, di modernità e so-
pravvivenze, non per cercare di capirla, di coglierne l’indole o l’anima, ma per
rintracciarvi i fili che mi legano a quel pugno di persone che, anche senza vo-
lerlo o in modo anonimo, hanno suggerito il cammino che è mio.
*
Amo essere uno spettatore anonimo nei paesi che visito. Il piccolo Cattle
Depot Theater accoglieva I perform, un progetto del Theatre Training and Re-
search Program, l’originale istituto creato a Singapore da Kuo Pao Kun e T.
Sasitharan. Il TTRP presentava cinque atti unici. Un indiano del Kerala, figlio
di un imam, raccontava la sua doppia paradossale condizione: musulmano tra

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La conquista della differenza 137

induisti, e attore in totale rottura con la propria cultura. Un giovane attore di


opera tradizionale cinese di Shangai esponeva in una raffinata e grottesca for-
malizzazione la storia di una madre che, nel periodo della politica di un solo
figlio, cerca di storpiare il feto del primogenito per poterne avere legalmente
un secondo. Gli altri tre atti unici erano scritti e interpretati da attori di Macao,
Hong Kong e Taiwan. Comune a loro tutti era un interrogativo: Qual è il nostro
centro? In altre parole: che vuol dire essere cinese di Hong Kong, di Taiwan o
di Macao dove fino a un paio di anni prima la lingua ufficiale era il portoghese,
la religione cattolica e l’edificio più importante la cattedrale?
Precluso dal seguire i lunghi monologhi per ovvi motivi linguistici, lo
spettacolo mi trascinò indietro nel tempo. Rievocavo le mie esplorazioni, l’al-
lontanamento dai modelli della mia cultura, il mio bisogno di scoprire o creare
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un ambiente in cui riconoscere e cesellare la mia identità professionale. Un


luogo in sui si incontrassero artisti di culture teatrali diverse: esperti attori/
danzatori e giovani alle prime armi, musicisti, gente della pratica e gente del
libro, storici e teorici, neuro-psicologi e biologi. Mi tornavano in mente le
origini dell’ISTA, The International School of Theatre Anthropology.
Anche gli artisti dell’Opera di Pechino dovevano abitare in questo vil-
laggio di attori. Era la fine degli anni 1970. Nella Cina comunista, ancora sotto
i postumi della rivoluzione culturale, le diverse forme di opera tradizionale
erano al bando. Andai a Taiwan.
A Taipei, quattro teatri presentavano regolarmente opere del repertorio
classico, ed ogni domenica la televisione ne trasmetteva una per intero. Le
quattro compagnie erano finanziate dai militari, dall’esercito, la marina e
l’aviazione.
Per alcune settimane, dall’alba, seguii la formazione degli attori alla
scuola di Foo Hsing. La serietà e l’impegno degli allievi – bambini e bambine
di una decina d’anni – e l’atteggiamento gentile e rigoroso dei maestri riporta-
vano alla memoria la scuola di balletto del Teatro Reale di Copenaghen: la
stessa relazione tra maestri e allievi, la stessa dedizione, pazienza e attenzione
ai particolari. Molti delle considerazioni che ispirarono l’Antropologia Tea-
trale – queste riflessioni pragmatiche sui principi basilari della tecnica del-
l’attore – sorsero qui, osservando questi bambini ripetere estenuanti esercizi
fisici e acrobatiche sequenze di azioni. Il lontano obiettivo era catturare l’at-
tenzione degli spettatori senza aiuto di scenografie e testi comprensibili.
Gli insegnanti si sforzavano di rispondere alle mie domande bizzarre:
Perché stringevano una fascia intorno alla vita dei giovani allievi? A che cosa
pensavano quando improvvisamente gelavano i loro movimenti in una posi-
zione di immobilità? Su cosa concentravano lo sguardo o il respiro? Perché

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138 Eugenio Barba

sceglievano sempre un equilibrio difficile? Quali erano i criteri e i termini per


giudicare la prestazione di un attore?
Che significa essere taiwanese? Di quei giorni a Taipei nel 1979 ricordo
soprattutto questa domanda. Non ero io a porla. Sbucava improvvisa e immo-
tivata nelle mie conversazioni con giovani attori e registi che, disinteressati al
loro teatro tradizionale, avevano studiato negli Stati Uniti. Oltre alle abituali
insicurezze e difficoltà del mestiere, loro ne aggiungevano un’altra: come ri-
pristinare il contatto perduto con l’intimità del loro centro, come evidenziare
la loro particolare identità di Taiwan, emancipandosi dai modelli appresi
all’estero.
Rimasticavo tra me e me la loro domanda, filtrandola attraverso le mie
esperienze e costrizioni. Quante illusioni, e che strana la geografia dei nostri
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destini personali. Ero un italiano del Sud Italia, avevo studiato in Polonia, fa-
cevo teatro in Danimarca, ero venuto in Cina per cercare un sapere professio-
nale che mi aiutasse a individuare il mio cammino. I miei interlocutori di
Taiwan erano indifferenti al mio interesse per il loro teatro classico, esso non
saziava la loro fame, per questo erano partiti per gli Stati Uniti. Alcuni erano
figli di cinesi, immigrati dal continente alla vittoria dei comunisti, altri taiwa-
nesi da diverse generazioni. Come me, avevano attraversato il mare e in un
universo straniero alla loro cultura erano andati in cerca di una conoscenza
tecnica che potesse appagare le domande dell’anima.
Che significa essere taiwanese? E come fare un teatro che esprima questa
essenza? La domanda era identica a quella che avevo sentito ripetere tra la
gente di teatro latino americano negli anni 1970, quando l’Odin Teatret prese a
viaggiare regolarmente nel loro continente. Che significa essere peruviano?
Quali sono le qualità specifiche del teatro colombiano? Come si manifesta
l’identità culturale di un paraguayano? L’ossessione di un centro, un idem,
un’identità culturale simile a un invariabile nocciolo sempre identico che sot-
tolinea la nostra diversità, si sarebbe sparsa anche in Europa una decina di anni
dopo come reazione ai cambi prodotti dall’Unione Europea e all’immigra-
zione di minoranze etniche e religiose.
Quando nel 2002 visitai Taipei con l’Odin Teatret, non esisteva più ne-
anche un teatro di opera tradizionale. Anche lo spettacolo domenicale alla te-
levisione era stato cancellato. I vecchi che l’amavano erano morti o in procinto
di farlo, e ai giovani non interessava.
Gli spettatori reagivano con scoppi di risa alle battute dei giovani artisti
del TTRP di Singapore. Sedevo muto e immobile, apparentemente disinteres-
sato. Eppure lo spettacolo mi aveva scosso e gettato in un labirinto di ricordi e
interrogativi. I labirinti, con i loro muri e le loro complicate geometrie, con la

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La conquista della differenza 139

loro apparente intelligenza e malignità, ci insegnano a far attenzione ai nostri


passi, a dipanare fili per orientarci. I fili sono sempre relazioni, esseri umani,
valori trasmessi da una persona cara.
Perché ero attratto dal teatro tradizionale cinese? Senza dubbio a causa di
Mei Lanfang, di quello che avevo letto su di lui, dell’effetto emotivo che la sua
arte, la sua opera di riforma artistica, la coerenza della sua vita producevano su
di me. Mei Lanfang era uno dei totem del clan teatrale al quale sentivo di ap-
partenere. Lo consideravo un antenato nella genealogia che ero riuscito rab-
biosamente a conquistare con tanti sforzi, pellegrinaggi, libri e incontri.
Però anche i giovani che si domandavano “chi siamo?” appartenevano al
mio clan, anche loro avevano lasciato la loro casa, quella fisica e quella delle
loro credenze e tradizioni, e si erano messi in cammino. La terra è rotonda e
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sempre siamo l’Oriente per qualcun altro.


Ancora un filo, ancora un volto e una voce: Kuo Pao Kun.

Nel 1999, il drammaturgo e regista Kuo Pao Kun ci visitò a Holstebro per
due settimane. Voleva seguire il ritmo e le attività dell’Odin Teatret. Aveva in
mente un progetto che gli stava a cuore da anni: una sorta di teatro laboratorio,
il Theatre Training and Research Program, che avrebbe creato l’anno seguente
con T. Sasitharan. Il TTRP avrebbe accolto a Singapore giovani artisti dall’in-
tera Asia, qui si sarebbero scambiati esperienze, imparando le loro reciproche
tecniche tradizionali, venendo in contatto non solo con i metodi occidentali,
ma anche con la varietà di stili del proprio continente. Un paio di anni dopo
aver realizzato il suo sogno, Kuo Pao Kun morì.
All’Odin Teatret, nel corso della giornata, Kuo Pao Kun ed io ci incontra-
vamo, spesso per caso, in biblioteca, in cucina o in un corridoio. Dopo alcune
garbate frasi di convenienza, scambiavamo commenti, riflessioni, informa-
zioni biografiche, perplessità e certezze. Mi colpiva la sua vorace curiosità,
appena velata da una patina di cortesia, e l’attinenza delle domande. Lo intri-
gava il mistero della durata dell’Odin Teatret e della mia collaborazione di
tutta una vita con lo stesso nucleo di attori. La sua vita, così simile a quella di
tanti miei amici latino-americani e europei, ricordava il destino di Bertolt
Brecht, uno dei feticci delle nostre comuni credenze teatrali. Bambino, Kuo
Pao Kun aveva lasciato la sua Hebei natale, in Cina, per stabilirsi con la fami-
glia a Singapore. Aveva studiato in Australia, viaggiato in Asia, arrestato per le
sue idee politiche di sinistra, gli avevano sequestrato il passaporto, lo avevano
spogliato della sua cittadinanza. Non aveva tralasciato di scrivere, di mettere

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140 Eugenio Barba

in scena, di educare una generazione dopo l’altra di attori e registi, scoprendo


luoghi non tradizionali da trasformare in teatro. Così una centrale elettrica
abbandonata diventò Home for the Arts: The Substation. Alla fine della sua
vita premi e riconoscimenti lo sommersero. Gli avversari si piegavano di
fronte alla sua azione duratura e coerente.
Adolescente, il padre l’aveva mandato a Hong Kong per tenerlo lontano
dalla politica. Era il 1957, appena un anno dopo la mia visita a questa città e
alla sua baia incantata. Ci saremmo potuti incrociare, tutti e due così sicuri
delle nostre idee e con la nostra fame di vita e di mutamenti. Adesso, ci ritro-
vavamo abbastanza vecchi per apprezzare le virtù del dubbio e ancora più la
certezza che non sia necessario di sperare per intraprendere. Il teatro può scuo-
tere la coscienza di alcuni individui e le abitudini della professione e della so-
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cietà se non rispettiamo le regole, ma creiamo le nostre proprie regole decisi


ad imporle nel corso di una intera vita.

*
Guardare di lontano e mantenere le distanze consente di generalizzare
proficuamente e di metter ordine nei nostri schemi mentali. Ma l’innocuo
procedimento “obiettivo” che dovrebbe servire a mettere ordine diventa stru-
mento del caos se ci illudiamo che queste generalizzazioni abbiano fonda-
mento nella realtà, se ci chiediamo quale sia la nostra identità d’europeo, o
d’asiatico, o d’africano, come dobbiamo fare per incarnarla e svilupparla o
che cosa rischi di inquinarla.
Queste sono le mie riflessioni mentre mi muovo fra le vie ed i quartieri di
Hong Kong, una città che ignoro profondamente quanto più immagino di co-
noscerla. Riguardano quella speciale geografia che ignora i confini, fatta solo
di movimento e legami. Ciò che nella geografia statica sembra certo – le ap-
partenenze, le nazioni, le etnie e le identità culturali – nella geografia della
mente diventa mobile e passionale. La geografia della mente non è irrazionale,
parla una lingua che solo una fame interiore è in grado di decifrare. I nostri
spettatori, ovunque dispersi, sono una parte tangibile di questa geografia. I
nostri colleghi, la nostra professione, sono il paese in cui affondiamo le radici.
Vedere il modo in cui cambia una città dà una speciale emozione. Mi
dico: “Hong Kong non è più la stessa”. È di me, in realtà, che parlo, del mio
sgomento nel sentirmi mutato col mutare dei giorni. Penso: “questa città aveva
un’anima e l’ha persa”. Non è vero. È della mia “anima” che parlo, qualunque
cosa questa parola significhi. Accenno, volgendo lo sguardo altrove, alla mia
inconfessata paura che il tempo, come la sabbia che cola nella clessidra, tra-

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La conquista della differenza 141

scini via con sé anche quel qualcosa di prezioso che dà un senso a quello che
fra me e me chiamo “l’ essenziale”: il centro della geografia della mia mente.
*
Quante volte ho visitato questa città nel corso di quasi cinquant’anni?
Quindici, venti, forse più. Ma è la prima volta che vi faccio tappa con l’Odin
Teatret.
Da dove sbucano queste centinaia di spettatori che nello smisurato foyer
del Cultural Centre aspettano pazientemente di essere introdotti nel particolare
spazio scenico del nostro spettacolo? Giovani, anziani, uomini e donne soli,
coppie, piccoli gruppi, abbigliati formalmente o un po’ trasandati. Chi sono,
cosa fanno, come sono venuti a conoscenza della nostra presenza qui, cosa
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sanno dell’Odin Teatret, perché vogliono vedere questo gruppo danese? Cos’è
il teatro per loro? Un passatempo? Un tunnel dal quale evadere dalla loro
isola? Una necessità vitale o uno dei tanti interessi, come il golf o la nuova
gastronomia fusion?
Pochissime sono le persone che alla fine dallo spettacolo mi si avvici-
nano. In Europa, in America Latina, in Canada o negli Stati Uniti è diverso.
Gli spettatori mi riconoscono, non come il regista dello spettacolo, ma come la
persona che li ha accolti e accompagnati al loro posto. Uscendo, ritornano
verso di me e spesso ne so prevedere le reazioni. Alcuni sussurrano solo:
grazie per lo spettacolo. Altri si perdono in una marea di parole, immaginano
che le loro frasi sconnesse spieghino il tumulto che lo spettacolo ha innescato
in loro. Pochi, in silenzio, mi stringono la mano e si allontanano furtivi, gli
occhi lucidi.
Qui, ad Hong Kong, il comportamento degli spettatori è diverso. Nessuno
mi si accosta, e le poche persone che ho conosciuto mi fanno un piccolo cenno
di saluto, ma restano schive. Solo la silenziosa figura di Gloria Lam è elo-
quente. Immobile nel suo elegante abbigliamento cinese, un’espressione im-
penetrabile nel volto, i suoi lunghi capelli neri riflettono le luci del soffitto.
Sembra l’immagine dello spettatore più distante dalle inquietudini del mio
teatro. Eppure è la sua immobilità e il suo silenzio di spettatrice che ha assi-
stito ogni sera al nostro spettacolo a toccarmi e a parlarmi, non la sua presenza
di funzionaria del Leisure and Cultural Services Department.
Credo di intuire quello che avviene dentro di lei. Le diversità etniche e
culturali sono vuote e ben tornite conchiglie nelle quali la nostra intima diver-
sità personale fa risuonare le sue voci e i suoi fragori. Uno spettacolo compone
musiche d’echi, affreschi di sensazioni che si comprimono all’interno di
queste conchiglie e si sciolgono nel centro dello spettatore. Alcuni fili, alcune

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142 Eugenio Barba

linee di vita si sono incrociate per un momento e forse annodate. Lì, nella
memoria unica dello spettatore, il teatro scopre uno dei suoi centri.
*
Lo spettacolo dell’Odin Teatret era intitolato Dentro lo scheletro della
balena. A Holstebro, subito dopo averlo composto, mi dissi: è ermetico. In-
vece si è dimostrato particolarmente adatto a viaggiare lontano dal contesto in
cui è nato. Non perché si faccia capire da tutti gli spettatori, ma perché ovunque
sembra non pretendere di farsi capire. Manifesta esplicitamente la sua voca-
zione a conservarsi “straniero”. Non racconta storie e non lancia messaggi. Ha
una sua logica interna, come ogni organismo vivente, che pulsa, agisce e muta
anche quando non pretende di farsi conoscere. Quando questo nostro spetta-
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colo riesce ad essere pienamente vivo, la qualità della sua differenza diventa
così allusiva ed elusiva da spingere gli spettatori a reagire ciascuno con la
propria testa, cioè con il peso e la forza della propria differenza.
Ho scoperto che lo spettacolo è straniero ad Hong Kong non più di quanto
lo sia a Holstebro.
Quando arrivai a Holstebro dalla Norvegia con i miei compagni di allora,
nel 1966, ci introducemmo in una terra straniera. Siamo ancora assieme, noi
che veniamo da una dozzina di paesi diversi, dopo una vita passata in sale di
lavoro e viaggi, profondamente radicati nelle nostre case danesi, ma consape-
voli della semplice verità così facile da dimenticare: si sta in un posto, non si è
di quel posto. Basta aggiungere alla parola “posto” quella di “tempo” e si ma-
terializza il teatro.
Il teatro è per sua natura straniero, che lo voglia o no, che lo sappia o si
rifiuti di saperlo. Questa sua natura diventa evidente nei viaggi. Le tournée che
ho fatto assieme all’Odin Teatret, spesso molto lontano dal nostro paese e dal
nostro continente, mi hanno fatto scoprire che siamo stranieri non perché ve-
niamo da differenti parti del mondo e abbiamo diverse madrelingue, ma perché
siamo in preda alla geografia della mente. I confini delle patrie sbiadiscono.
Prendono il sopravvento i mutevoli intrecci delle relazioni e delle passioni.
Sembrano fantasie, astrazioni, invece sono fatti pratici. Quando uno spet-
tacolo è in tournée, per esempio, i ruoli si invertono. Noi stranieri, nella pic-
cola sala in cui facciamo teatro, diventiamo padroni di casa. Accogliamo gli
spettatori, i quali, per un’ora o poco più, diventano essi gli “stranieri” in visita.
Si trovano di fronte a qualcosa che in maniera più o meno accentuata proviene
da un’altra storia, da un’altra geografia. Entrano, prendono posto, osservano, a
volte come semplici turisti, curiosi, comprensivi, o animati da un arrogante
complesso di superiorità; ammirati, o indifferenti. Questo accade, in misura

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La conquista della differenza 143

più o meno accentuata, anche quando la maggioranza degli spettatori consi-


dera il teatro che li ospita un teatro concittadino. Molto più esplicito e più visi-
bile, è il senso dell’intima distanza quando il teatro proviene da paesi lontani.
Ma è sempre la stessa relazione fra “stranieri” che entra in gioco, qui dissimu-
lata, là svelata.
*
Nell’insieme, fili tenui, illusori, temprati dagli anni o dall’intensità d’un
incontro, costruiscono una rete. Questa rete è un paese. Nessuna carta geogra-
fica può rappresentarlo e descriverlo. Abitiamo una geografia fatta di fili, le-
gami, nodi: persone, incontri, relazioni, passioni.
Alcuni fili sono libri, figure, spettatori, luoghi perduti nel tempo: Cao
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Xueqin e il suo romanzo Il sogno della camera rossa, la scuola di Liyuan, il


mitico Giardino dei Peri, l’esile Mei Lanfang, così come vive nella mia fan-
tasia insieme a Qi Rushan, suo fratello intellettuale morto in esilio. Altri fili
sono collaborazioni più o meno lunghe, circostanze fugaci, incontri folgoranti
o appuntamenti ricorrenti nel tempo: Tsao Chunlin e Lin Chunhui che mi ac-
compagnarono nella fondazione dell’ISTA; Mei Baoju, il figlio di Mei Lan-
fang che riempì il nostro teatro a Holstebro dell’aura di suo padre; l’indimen-
ticabile guerriero di Pei Yanling; i commoventi spettacoli di Ushan Shii di
Peng Yaling; l’impegno solitario di Verena Tay; Ong Ken Sen con la sua rivolta
esistenziale; Taimu Mingder Chung e i suoi studenti che attraversarono il mare
per vedere l’Odin Teatret; Wu Hsing-kuo e Li Hsio-wei con il loro possente
Contemporary Legend Theatre.
Quando incontrai Huang Zuolin in Germania nel 1988, davanti ai miei
occhi si mise a scorrere la vita di questo pioniere, gli inizi da dilettante, gli
studi con Michel Saint-Denis a Londra, la scoperta di Brecht, il ritorno verso il
centro in cui convivevano, rafforzandosi reciprocamente, Shakespeare e le
tradizioni del kunju e huaju. La presenza di Huang Zuolin si materializzava a
Hong Kong dalle pagine di Shashibiya, il libro di Li Ruru sulle vicissitudini
artistiche di Shakespeare in Cina. Soprattutto, in questo libro, era la sensibilità
e le vicissitudini biografiche dell’autrice a colpirmi in un’epoca dolente.
Esiste l’opportunità di vivere l’Odin Teatret come uno spettatore attivo,
osservare o seguirne praticamente il training, vedere tutti i suoi spettacoli, ve-
nire a conoscenza della sua dinamica di gruppo e dell’organizzazione delle
sue attività locali e internazionali. È un’esperienza antropologica e professio-
nale che dura dieci giorni, di studio dall’interno e allo stesso tempo di parteci-
pazione nella nostra enclave teatrale. La chiamiamo, Odin Week. Qualche
anno fa vi partecipò un regista di Shangai. Prima di ripartire disse: la gente di

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144 Eugenio Barba

Hong Kong, dove adesso lavoro, deve conoscere i vostri spettacoli. Voglio che
siano vostri spettatori.
Per tre anni non ricevemmo nessuna notizia. Poi giunse un invito dal Lei-
sure and Cultural Services Department. David Jiang è il filo che ha guidato il
nostro teatro attraverso un labirinto di difficoltà fino a questo imponente edi-
ficio teatrale di Kowloon che si specchia nel mare e che ospita Dentro lo
scheletro della balena. Pura coincidenza? Questo filo si estende e si molti-
plica. Ricordo un attore cinese di notte, nel nostro teatro silenzioso, decorando
le lettere di saluto da offrire all’alba ai panettieri della nostra cittadina, insieme
a caffè bollente e dolci di diverse culture nel corso di una “visita teatrale”. Era
uno dei quattro attori di Hong Kong che insieme a una trentina di colleghi da
tutto il mondo collaboravano con l’Odin Teatret durante la Festuge, La Setti-
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mana di Festa di Holstebro.


L’azione ci appartiene, non il suo frutto. Quello che dobbiamo fare, dob-
biamo farlo, senza porci domande. Fa parte della quest verso il nostro centro.
Anche a questo può servire il teatro che sa d’essere finto, e non finge di sapere.
*
Uno spettatore che amo mi chiede sorridendo: Qual è il centro del tuo
teatro?
Vorrei rispondere mostrandogli il vento. Invece vado indietro, ad una
scena di cui ho letto, e che posso immaginarmi nei dettagli. Dico allo spetta-
tore amato: “Spiega tutto”.
Al centro c’è l’Imperatore.
Siamo nella Città Proibita, una mattina di marzo del 1601. Li Madou s’è
svegliato prima dell’alba. Deve prepararsi all’incontro con colui che sta al
centro del Celeste Impero, aldilà di tutti quei mari che un europeo deve solcare
per raggiungerlo. Una preparazione lunga e meticolosa precede l’udienza im-
periale. Da essa dipenderà l’esito della sua missione. Deve imparare ad inchi-
narsi, a pronunciare le formule di rito. Stamattina il lungo viaggio troverà il
suo senso.
Li Madou equivale in cinese a Ricci Matteo, il gesuita grande matematico
venuto dall’Italia. Il missionario che sognava di convertire l’Imperatore cinese
e tutti i suoi sudditi ha vissuto anni e anni in piccole città di provincia, ne ha
appreso i dialetti, ha studiato il confucianesimo per discutere con mandarini e
gente semplice, sempre in attesa di varcare le porte di Pechino, città totalmente
preclusa agli stranieri. Per quasi vent’anni ha atteso questo momento.
L’immensa piazza antistante il Palazzo dell’Imperatore è gremita di mili-
tari, eunuchi, dignitari. Diecimila persone, forse il doppio, forse tre volte tanto.

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La conquista della differenza 145

Li Madou si rende conto che non avrebbe potuto parlare con l’Imperatore, ma
almeno l’avrebbe visto, avrebbe potuto farsene un’idea, su di lui si sarebbe
potuto orientare, come i marinai che guardano in cielo la stella polare.
Le azioni e le formule del rituale cominciano ad essere eseguite dagli
astanti. Ecco il turno di Li Madou. Avanza verso il trono, si inginocchia, si
china fino a toccare la terra con la fronte. Alza gli occhi: il trono é ancora
vuoto. È stato sfortunato. L’Imperatore sarebbe apparso di fronte agli inchini
degli altri. Ma nessuna delle dieci, venti, trentamila persone che a gruppi ven-
gono condotte al trono, è più fortunata di lui. In perfetto ordine, tutti vengono
guidati verso l’uscita. La piazza torna ad essere una solitudine d’enormi pro-
porzioni.
Un rituale preciso come una formula matematica. Al centro un trono
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vuoto. Per lo spettatore.

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ANGELANIMAL
TECNICHE PERDUTE PER LO SPETTATORE*
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Di quante sensazioni è composta l’angoscia? Per darmi coraggio, la mia


ragione si compiace a individuarle e descriverle mentre il camioncino avanza
con un estenuante inghiozzo di scossoni e frenate. Le strade sono un tappeto di
buche, pozzanghere, un fetore di fogne aperte e soprattutto tenebre. La città
sembra sconfinata, senza illuminazione, senza lampioni, vetrine rischiarate e
insegne sfavillanti. L’ansia mi afferra: insicurezza, voglia di essere altrove, ri-
conoscere qualcosa che mi tranquillizzi. Una fitta nebbia nera: così è Port-au-
Prince, la capitale di Haiti, quando il sole scompare. Fioche luci consentono di
immaginare finestre e caseggiati. Intravedo i passanti come ombre minacciose,
pronte ad aggredirmi. Uno sprazzo luminoso fuoriesce da una baracca, un
gruppo di persone si muove tra candele e consolanti lampadine elettriche.
“Una casa di santi” mi informa l’autista, un luogo di venerazione dei loa del
Voodou.
Di che tipo di dettagli abbiamo bisogno per identificarci con una situa-
zione del passato? L’oscurità di Port au Prince mi lascia immaginare senso-
rialmente cosa fosse un teatro ai tempi della commedia dell’arte. Un eccesso
di luci, come una chiesa o un salone aristocratico in un mondo caliginoso. Lo
spettatore si inoltrava per strade buie, nella polvere, l’acqua stagnante, il
fango, il lezzo degli escrementi e dei rifiuti e la paura dei tagliaborse in ag-
guato. Ed arrivava alla tremolante luminosità di innumerevoli candele che
amalgamava ricchi e poveri in un elementare piacere sensuale, strappandolo al
grigiore e sancendo la rottura delle norme.

* Discorso in occasione del conferimento del Dottorato honoris causa conferito


dall’Hong Kong Academy for Performing Arts, 7 luglio 2006. Pubblicato per la prima volta in
“Teatro e Storia” n. 27, Roma 2006.

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148 Eugenio Barba

Anch’io ho vissuto a volte situazioni del genere come spettatore: una


sensazione di benessere, vitalità, salute. Osservo in silenzio una fotografia che
mi mostra Stan Lai, il regista di Taiwan: la sala stracolma del Teatro Nazionale
di Taipei, più di mille spettatori, tutti con il viso protetto da una mascherina
bianca. Siamo nel 2002, in piena epidemia di SARS, l’intera vita sociale di
Taipei è tarpata, la gente evita di prendere i mezzi pubblici, i cinema sono
chiusi e i ristoranti deserti. Eppure lo spettacolo del suo Performance Work-
shop vince il terrore del contagio e la gente si ammassa per assistervi. Qual è il
fascino o la perentorietà di questo spettacolo che induce lo spettatore a dimen-
ticare l’istinto di conservazione?
È impossibile non pensare alla peste endemica e alle sue vittime quoti-
diane al tempo della nascita del commercio del teatro. Nella Londra elisabet-
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tiana, quando il numero dei morti della pestilenza superava venticinque a set-
timana, le autorità chiudevano i teatri per settimane e mesi. Le epidemie,
insieme ai bigotti, erano gli avversari del teatro. Fu la peste, che chiuse il suo
teatro nel 1593, a spingere Shakespeare a guadagnarsi il pane scrivendo poe-
metti su Venus and Adonis e The Rape of Lucrece dedicati al Duca di Sout-
hampton.
Una volta, ho creduto veramente di essere spettatore di uno spettacolo del
Seicento. Ero tra un pubblico che sembrava godersi l’interminabile attesa del-
l’inizio della recita. Chiacchieravano, si lanciavano motti a distanza, andavano
a trovarsi da una parte all’altra della sala. Uomini e donne di tutte le età e pro-
venienze sociali, schiere di giovani e famiglie con bambini e infanti che dor-
mivano o frignavano in braccio alle madri e le sorelle. Frotte di ragazzini offri-
vano a gara gelati, bibite, semi e noccioline, fotografie d’attori e soprattutto
d’attrici. Un’atmosfera di instancabile vociferare. Mentre la musica invadeva
la sala, un mezza dozzina di ragazze bionde, abbigliate in attillati e succinti
costumi sfavillanti di paillette iniziavano una danza provocante. (Vengono
dalle ex repubbliche sovietiche – mi dice l’amica egiziana che mi accompagna
– hanno studiato balletto classico in Russia, Ucraina, Bielorussia, sono intrat-
tenute da chi se lo può permettere). Il balletto, sempre più provocante, era in-
terrotto dall’entrata dei protagonisti. Seguiva una successione di scene farcite
di allusioni ad avvenimenti politici e di cronica, intramezzate regolarmente dal
balletto delle biondine in costumi sempre più titillanti. Erano situazioni di at-
tualità, presentate per accenni, in maniera elusiva: satira e critica indiretta (un
funzionario della polizia corrotto che alla fine veniva punito), una buona dose
di nazionalismo (proveniamo dai Faraoni e ritorneremo alla loro grandezza,
dichiarava un personaggio dalla cima di una piramide), solidarietà con i fra-

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La conquista della differenza 149

telli arabi (un attore sventolava una bandiera palestinese tra il trasporto del
pubblico), gran finale con le ballerine che sgambettavano tra gli eroi.
Gli attori erano interrotti con frequenza dai commenti della sala, uno
spettatore lanciava una battuta, l’attore replicava, il dialogo improvvisato ve-
niva ripreso nello spettacolo tra schiamazzi e risate. Ero in un teatro popolare
del Cairo, ben lontano dagli esperimenti artistici dei gruppi indipendenti tea-
trali egiziani. Sull’intero paese vigilava l’Università islamica di El Azar, la
somma autorità religiosa che, nel mondo musulmano, valuta le minime devia-
zioni dall’ortodossia con giudizi inflessibili. Qui la censura di stato ha un
nome ufficiale – “protezione degli artisti” – per salvaguardarli dai fulmini teo-
logici.
Intravedo in queste situazioni una componente del DNA del teatro del
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passato, oggi irrimediabilmente perduta. Rarissime volte, quando uno spetta-


colo ci fa cadere il cielo addosso, sembra risorgere. Vorrei evidenziare questa
componente, ricrearla, descriverla obiettivamente senza rifarmi ad aneddoti
personali. So in anticipo che la mia descrizione sembrerà enfatica o roman-
zata. Eppure voglio tentare.
*
All’inizio era la fame e la paura.
Coloro che vendevano spettacoli nei primi cent’anni del teatro moderno
europeo – l’epoca di Shakespeare, Calderón, di Lope de Vega e Marlowe, di
Molière e della Commedia dell’Arte – rischiavano letteralmente di morire di
fame, se i loro prodotti non erano attraenti abbastanza da legare a sé gli spetta-
tori paganti. L’indigenza era in agguato se non suscitavano un attaccamento ed
una dipendenza capace di contrastare il marchio d’infamia che le rigide con-
venzioni dell’epoca, le leggi contro il vagabondaggio e i cleri delle diverse
sette cristiane imprimevano sul commercio delle scene.
Era un epoca di violenza e sospetto, intolleranza e scarsità di risorse. Le
autorità indagavano i cittadini ritenuti immorali, i servi fuggiti dai loro padroni
erano imprigionati, le mogli accusate di infedeltà punite pubblicamente. L’in-
sicurezza materiale, l’incertezza del futuro e la durezza dei rapporti tra genti-
luomini e servi erano impresse nei corpi spesso deformati dalle malattie e in
anime storpiate dai vizi. Nobili e plebei erano decimati dalle pestilenze e dalle
guerre, atterriti dal peccato e dalla minaccia della giustizia celeste. Il peso
della vita li schiacciava a terra come una forza di gravità. Solo i loro sogni ri-
manevano in alto.
Fame e paura, ma anche fede, la ragione che va aldilà della pura sopravvi-
venza. Le fedi davano conforto e incutevano terrore. Erano armate e acco-

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150 Eugenio Barba

glienti, rispondevano all’oltraggio con la tortura che per la vittima rappresen-


tava spesso la gloria del martirio. Le guerre erano ammantate di religione.
Quelle intestine, fra i cristiani e i loro intransigenti estremismi, riproducevano
in Europa lo scontro che nella geografia planetaria si svolgeva fra cristiane-
simo, musulmanesimo e paganesimo. Nell’interiorità dei singoli individui,
guerre equivalenti opponevano la speranza della Salvezza al terrore della Dan-
nazione.
A quel tempo il teatro era la celebrazione del turbamento e dell’eccita-
zione. Gli attori parlavano all’animale e all’angelo negli spettatori, pungola-
vano quella parte del cervello rettiliano in cui si annidano le pulsioni elemen-
tari della fame, della paura, della sessualità e della fede. Chi faceva un teatro
che andava venduto sfruttava il brivido del raccapriccio intrecciato al fremito
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del godimento trasgressivo alternando scene di comicità e orrore, d’esalta-


zione religiosa e amore sregolato, volgarità e onore, tradimento e follia, appa-
rizioni infernali e epifanie dell’Aldilà.
I palcoscenici erano pieni di botole e i loro cieli finti erano dotati di mac-
chine. Dal basso salivano i demoni, i morti, i fantasmi; dall’alto scendevano
angeli e dèi. Sprofondavano i dannati, volavano via i salvati. La dimensione
verticale, che in scena diveniva un’attrazione, era incarnata nell’esperienza
quotidiana: preghiera e blasfemia, la rigida ortodossia della fede e l’accani-
mento dell’eresia. Simulazione e dissimulazione stavano in egual misura nelle
cronache e nei teatri: machiavellismi, amori colpevoli e assassinati, ebrei in
veste di cristiani, eretici nascosti nel conformismo, viziosi pii, eroiche e sante
fedeltà. L’ascesa e la caduta di re e regine infiammavano la fantasia della pic-
cola gente sia nel teatro della storia che nelle storie dei teatri. Erano spettacolo
popolare i roghi delle streghe e le esecuzioni.
Il teatro, nella sua maggior parte, intratteneva le passioni e gli impulsi
istintivi degli spettatori stuzzicando desideri repressi, illusioni, ansie e super-
stizioni.
Da quei tempi e da quei teatri lontani restano incagliate sulle nostre spiagge
alcune imponenti rovine. Tre figure di persone, soprattutto, capaci di viaggiare
nel tempo: il principe Hamlet, l’aristocratico Don Giovanni e il dottor Faust. Ed
Arlecchino, che è soltanto una maschera. Visitiamo queste e altre rovine rispet-
tosi e ammirati. Le rimettiamo in piedi sui nostri palcoscenici. Restituiamo loro
il dono della parola e dell’azione. Storici, artisti e scienziati dedicano loro larga
parte della propria vita e dei propri sogni. Scandagliano queste rovine, le disse-
zionano, le interpretano, le spaesano attualizzandole o si spaesano essi stessi
tentando di penetrare nel loro passato. Ma di fronte a loro, i nervi dell’animale

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La conquista della differenza 151

e il fervore dell’angelo non si tendono più per l’allarme o il piacere. L’anima


dello spettatore non vola né si sgomenta. Angelanimal dorme.
Angelanimal è il nome d’uno spettatore. O meglio: il mio modo di nomi-
nare una sfaccettatura dell’insieme complesso di reazioni intellettuali, emo-
tive, critiche, razionali e istintive che compongono il singolare collettivo
chiamato “spettatore”. È il nome che do all’animale che si nasconde nel fondo
del mio cervello, e all’angelo indissolubile che come un’ombra si libra negli
spazi vuoti sopra o sotto di lui. Gli uomini di scienza gli attribuirebbero forse
una dimora precisa, nel macrocosmo del nostro cranio, fra il cervello rettiliano
e il limbico. Non sono, però, un uomo di scienza, e Angelanimal m’interessa
in quanto artigiano.
Il suo nome potrà apparire strano, ma ci basta poco per riconoscerlo nella
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sua semplicità. Si mette in azione nostro malgrado, per esempio, quando ci


capita d’affacciarci nel vuoto da una postazione sicura, ma da una grande al-
tezza. Qualcosa si annoda nella nostra pancia. Non pensieri, ma nervi. Non
coscienza, ma istinto. Contemporaneamente ali di corvi neri squassano la
testa, sogni-lampo che non riconosciamo nostri, fantasie di suicidio, irragione-
voli ansie e terrificanti impulsi: basterebbe un piccolo salto, una corta intermi-
nabile apnea, e non saremmo più. Sono attimi fuggitivi, in genere non permet-
tiamo loro di affiorare alla coscienza. Ma il nostro Angelanimal, in quegli
attimi, si è svegliato. A teatro, quasi mai.
Li chiamiamo “stati d’animo”. Potremmo anche dire “stati di corpo”. Tali
stati primordiali d’anima-e-corpo sono essenziali per dare al teatro l’espe-
rienza d’una esperienza. Senza di essi, lo spettacolo rimane per me un ricamo
d’intelligenza disincarnata. Questi stati primordiali non costituiscono i più alti
valori del teatro, sono il terreno da cui essi crescono e dal quale si distinguono.
Se Angelanimal non si risveglia, lo spettacolo più sopraffino a me dà l’impres-
sione di essere un bambino bello e intelligente dai piedi di sabbia.
Può anche darsi che gli spettatori, nei loro apprezzamenti e nei loro ri-
cordi, possano trascurare questi stati primordiali d’anima-e-corpo. Ma come
artigiano non voglio ignorarli, quando penso non solo alla densità estetica ed
alla finalità culturale dello spettacolo, ma anche alle fondamenta della sua na-
tura organica.
Riso, erotismo, spavento sono stati per secoli gli ingredienti elementari
degli spettacoli teatrali, dei molti grossolani e beceri, ma anche dei pochi spi-
ritualmente sottili. Oggi sembra che d’ingredienti elementari il teatro possa
fare a meno, come un corpo idealizzato privo delle sue pudende. Come un
corpo censurato dall’intelligenza o dall’intellighentsia. Sembra che il compito
di risvegliare Angelanimal, la nostra ombra alata e la nostra ombra a quattro

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152 Eugenio Barba

zampe, sia stato delegato ad altri spettacoli. Il teatro si è purificato. È diventato


una nicchia disinfettata, intelligente e colta, anche quando mostra corpi nudi e
simulazioni di coito. Mi domando: perché il teatro è ora solo intelligente?
Perché solo colto? Un cervello di solo cortex è ancora un cervello o una pura
mostruosità?
La nostra ombra ha delle ali. Non sono molto presentabili, né decorose:
hanno a che fare con l’animale. Mejerchol’d affermava che l’attore è un uc-
cello che con un’ala sfiora il cielo e con l’altra la terra. A me il compito di ri-
trovare nel mio lavoro quello che voleva dire, e coniare le mie parole per spie-
garmelo.
L’artigianato del regista affonda per me le sue radici nella voglia di dare
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un sistema nervoso e un corpo-in-vita a una realtà impercettibile. Una delle


funzioni di questo artigianato consiste anche nella capacità di individuare le
differenti nature dello spettatore, nel saperle far dialogare, difendendole anche
quando paiono di basso rango, garantendo la loro autonomia e la loro dignità.
È facile reagire contro uno spettacolo che privilegia la volgarità. Più difficile
ammettere che altrettanto inerte è uno spettacolo che vive soltanto per le alte
quote dell’intelligenza e del piacere intellettuale.
Diciamo “spettatore”e pensiamo ad una personalità unitaria. Non è così,
lo spettatore è sempre plurale.
Quando penso a me stesso come spettatore, debbo riconoscere la compre-
senza di molte voci parlanti all’unisono, alcune prevaricanti, altre per lo più
tacitate, perché sepolte sotto i miei preconcetti culturali. Sono le più rozze, ma
hanno anch’esse una loro saggezza.
Uno spettacolo parla alla fantasia e all’intelligenza. Di qui il suo valore. È
vero e non è vero. Dovrebbe parlare anche alla stupidità, allo stupore infantile,
alla sensualità elementare che alletta l’istinto ed all’altrettanto elementare im-
pulso ad affondare un’ala nel cielo, mentre l’altra, con le sue piume, disegna
ignobili graffiti nella terra polverosa.
È come se idealmente vi fossero quattro spettatori per ogni mio spetta-
colo. Devo convincere e sfamare ciascuno di essi. E li ho messi per iscritto
tentando di distinguerli. Sono quattro personificazioni di diverse tendenze dei
sensi e della coscienza:

1. il bambino che vede le azioni dell’attore alla lettera, e non si lascia


sedurre dalle astrazioni, dai significati reconditi, dalle metafore e
dalle innovazioni interpretative.;

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La conquista della differenza 153

2. lo spettatore che capisce di non capire, che non condivide né la nostra


lingua né i nostri codici, ma che a sua insaputa danza, se è contagiato
dall’organicità delle azioni dell’attore, dalla sua presenza scenica,
ovvero dal livello pre-espressivo dello spettacolo. Anche se non sa di
che storia si tratti, si rende conto quando il lavoro “è fatto bene”, cu-
rato nei dettagli, e intuisce che vuol dire qualcosa, anche se lui non
capisce che cosa dica;

3. lo spettatore alter ego del regista-drammaturgo e di ciascuno degli


attori: capace di riconoscere in ogni particolare un frammento di
storia richiamata in vita, e minuziosamente informato di tutti i conte-
nuti dello spettacolo, del significato e delle associazioni suscitate
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dalle parole. Ritornando ogni sera, vede lo stesso spettacolo come se


fosse nuovo, come se le situazioni ben note gli fossero ignote, gravide
di domande impreviste ed enigmi inaspettati;

4. un quarto spettatore, muto, invisibile e onnisciente. Osserva quel che


nessun occhio può vedere. Giudica l’impegno dell’attore nascosto
nelle pieghe dello spettacolo. Ne penetra i segreti, come se ogni corpo
fosse vetro limpido.
Potrei aggiungere altri spettatori: lo spettatore cieco, al quale dovrei far
vedere l’intero spettacolo tramite le orecchie. O lo spettatore sordo che deve
poter udire con gli occhi. O uno dei cosiddetti “selvaggi” della tribù scoperta
una cinquantina d’anni fa nella Nuova Guinea. Se assistesse a un mio spetta-
colo, dovrebbe essere convinto che quel che vede corrisponde alle azioni che
anche lui compie con la sua gente, quando si raccolgono in una di quelle ceri-
monie incastonate in un tempo/spazio extra-quotidiano. Tutti questi spettatori
popolano la mia fantasia artigianale, la guidano e la tengono d’occhio.
Ma Angelanimal è diverso. A lui m’hanno obbligato a pensare le tre figure
antiche e però ancora familiari ai nostri teatri: Hamlet, Faust e Don Giovanni.
Negli ultimi anni, i casi mai casuali della professione m’hanno portato a con-
frontarmi con esse. Le avevo sempre evitate. Ora si vendicano e sorridono. Ma
non mi dicono nulla.
C’è stato un tempo in cui Angelanimal si svegliava davanti alle loro vi-
cende, quando vedeva, fra le vaste ombre delle tombe, un monumento funebre
annuire, parlare e accettar un invito a cena che s’affacciava sul pozzo del-
l’inferno. O quando sugli spalti d’un castello, contro un cielo gelido, immagi-
nava sorgere un fantasma dalle acque del mare, un’anima senza pace, morta

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154 Eugenio Barba

senza il tempo di pentirsi e ricevere l’assoluzione per i suoi peccati. O quando


contemplava il modo in cui un vegliardo sapiente, chiusi i suoi libri sterminati,
si pungeva le vene dei polsi per far sprizzare qualche goccia di sangue in cui
intingere la penna e firmare il contratto per vendere l’anima ad un giovane
diavolo garbato ed untuoso.
L’inferno, la statua che si muove, il demonio e il fantasma, che accompa-
gnano Don Giovanni, Faust e Hamlet, mettono in moto il nostro intelletto e si
prestano a interpretazioni intelligenti e a fantasiose attualizzazioni. La moder-
nità ha lasciato intatta la loro grandezza. L’ha solo castrata. Non fanno più
paura. Parlo della paura primordiale, inintelligente, che sbatte contro un buio
che non si lascia sfondare. Non atterriscono più l’animale che si nasconde nel
fondo del mio cervello, né l’angelo che come un’ombra si libra negli spazi
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vuoti sopra o sotto di lui.


C’è stato un tempo in cui le nozioni di peccato, di giudizio post mortem,
di pene dell’inferno, di anime senza pace risvegliavano Angelanimal, e lascia-
vano che si agitasse nel fondo del cuore e dello stomaco degli spettatori, susci-
tandovi la trepidazione del pericolo, dell’oltraggio e della blasfemia. Oggi a
tutto questo, fisicamente, non crede più nessuno, neppure coloro che spiritual-
mente vi credono. Non è un problema ideologico, filosofico o d’antropologia
culturale. Per me è un dilemma artigianale.
Immagino che Jean Genet pensasse a questi elementi primordiali del-
l’artigianato, quando disse, con parole che riassumo: Cominciate a costruire i
teatri nei vostri cimiteri. Pensate a che cosa sarebbe uscire di notte da una
rappresentazione del Don Giovanni di Mozart, fra i lumini e i silenzi delle
tombe.
C’è stato un tempo in cui Don Giovanni suscitava il riso e la ripugnanza,
eccitava fantasie perverse e incuteva tremore quando un uomo di sasso lo spin-
geva nell’abisso riducendolo a un grumo di lercio dolore, dopo tanta ansia di
gioia. L’Uomo di Sasso, poteva essere una statua grossolana o un attore rico-
perto di biacca, ma in esso il potere giusto e onnisciente dell’intera cupola del
Cielo sembrava implodere. Finto fuoco, finti tuoni, finta disperazione: ma
Angelanimal riconosceva a che cosa accennasse quel cumulo di finzioni.
Qualcosa si raggrinzava nei nervi. Un’ala nera scompigliava la sicurezza dei
pensieri.
Oggi quelle finzioni si sono rovesciate in preziose forme estetiche ed
enunciazioni concettuali.
Non credo al mistero della statua e neppure al diavolo. L’inferno è nel
mondo che conosco, non nell’Aldilà. Non è affatto un mistero, è storia. I fan-
tasmi non mi fanno paura, ne parlo spesso e sono utilissimi attrezzi metaforici.

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La conquista della differenza 155

Mi piace immaginarli e non temo di incontrarli sulla mia strada.Non ci credo


io e so che non ci credono i miei spettatori. Siamo troppo avveduti per lasciarci
spaventare da questi ruderi suntuosi del passato. Il teatro del nostro tempo è
diventato tanto intelligente e colto da impedire ad Angelanimal di risvegliarsi.
Ma se faccio teatro, è per sfamare anche lui, Angelanimal, e lasciare li-
bero passo al Disordine, all’irruzione di un’energia scompigliante nel-
l’ordinato banchetto culturale. Forse, se per qualche breve momento, tutto lo
spettacolo si incrinasse, perdesse l’equilibrio, le staffe e i lumi, allora Angela-
nimal troverebbe lo spazio per alzarsi sulle sue zampe e sgranchirsi le ali.
Non faccio teatro per provocare gli spettatori. Desidero essere io provo-
cato dal mio stesso lavoro, come il falegname Geppetto, il “padre” di Pinoc-
chio, che sente il legno rispondergli e si sente scrutato da occhi che lui stesso
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ha intagliato.
Per anni mi sono confrontato con storie e figure che mi ponevano do-
mande per me essenziali e per le quali non avevo risposte. Potevo solo adden-
trarmi fra di esse, cercando di aprirmi un sentiero. Da qualche tempo vengo
sospinto verso classici monumenti che ammiro ma che non mi minacciano.
Pongo loro ossessivamente la domanda infantile, per me sostanziale, che
mi ha accompagnato lungo tutta la mia esperienza teatrale: che cosa volete
dirmi? Non vogliono dirmi proprio niente. Solo belle e intelligenti interpreta-
zioni. Null’altro.
Mi chiedo se Hamlet, Don Giovanni e Faust che ritrovo continuamente
sul mio cammino professionale – e tante volte evitati – siano casi-limite,
grandi letterarie rovine del teatro defunto, invulnerabili e incapaci di ferire. O
se non siano invece l’incarnazione della conquista dell’inutile che è il teatro.
La loro monumentale stabilità suggerisce un crollo.
So che debbo costruire architetture, convenzioni e muri intorno a loro. Ed
attendere con pazienza l’irruzione del Disordine, di una forza improvvisa che
con una provvida scossa farà crollare le tre grandi figure, distorcendo le loro
storie così spesso viste e previste, travisando la geografia in cui io e gli spetta-
tori sappiamo orientarci.
Ciò che crolla non pone domande. Siamo noi a porre domande su di noi,
risvegliati alla nostra stupefatta paura.
Angelanimal tace. È in attesa del Disordine.

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LETTERE DALLA MIA TERRA NOMADE
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VOI DATE, NOI DIAMO IN RISPOSTA*

Holstebro, 4 febbraio 1973.


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Ai miei compagni attori de La casa del padre in tourné a Copenaghen

In questi ultimi giorni ho pensato spesso a voi. Quando qualcosa di inte-


ressante sorgeva dal lavoro con i nuovi allievi, dicevo a me stesso: ah se voi
foste qui per condividerlo con me. Quando il materiale grezzo rimaneva mate-
riale grezzo, senza che nessun minerale prezioso luccicasse, allora sentivo la
mancanza della vostra presenza – per appoggio e consiglio.
Queste due reazioni non fanno giustizia né ai nuovi né a voi. Uno non
deve rimanere fuori, vedere gli altri lavorare e limitarsi a colonna d’appoggio.
Giustizia: voi date, noi diamo in risposta.
Potreste pensare di venire a Holstebro e dire: questo è il mio lavoro quoti-
diano come attore. Io lo faccio perché… E dirlo come un attore: con tutto il
suo corpo, agendo.
I nuovi allievi che lavorano con me risponderanno: questo abbiamo pen-
sato di fare, perché... e lo realizziamo in questo modo.
Il vostro incontro vi porrebbe sullo stesso piano nel lavoro e attraverso il
lavoro, dove tutti danno e nessuno è al difuori, perché non ci sono veterani e
principianti.
Se nuovo sangue deve scorrere nelle vene del nostro teatro, non deve es-
sere qualcosa di indifferente che ancora non vi riguarda. Già in questo mo-
mento dovete sentirlo come qualcosa che dà nuova vita al nostro futuro e al
lavoro comune.

* La prima lettera fu inviata da Eugenio Barba ai tutti i suoi attori, la seconda all’attrice
Iben Nagel Rasmussen. Pubblicate per la prima volta in Il libro dell’Odin da Ferdinando Ta-
viani, Feltrinelli, Milano, 1975.

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160 Eugenio Barba

Quelli di voi che vogliono, che vengano quando possono. Noi lavoriamo
dalle 7 di mattina alle 9 di sera, anche sabato e domenica.
Venite per essere presenti, con tutti voi stessi: così mi alleno io, queste
sono le mie esperienze, è con questo che mi batto adesso. E mostratelo attra-
verso quella che è la vostra lotta quotidiana che noi chiamiamo training. I
nuovi risponderanno allo stesso modo. Forse la loro risposta già adesso vi darà
qualcosa.
Un saluto affettuoso a voi tutti
Eugenio Barba
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Holstebro, 22 febbraio 1973

Dal regista all’attrice

Ho visto il tuo lavoro e quello di Jens sabato e domenica scorsi. Qualcosa


di caldo è entrato nella sala nera. Il vostro lavoro incarnava qualcosa di vivo.
Ho visto cosa significhi non rinunziare, andare avanti a tentoni senza trarsi
indietro, battersi contro il muro compatto dell’inerzia, contro le obiettive diffi-
coltà di tempo e di spazio durante la tournée, la sensazione di essere soli, la
tentazione di lasciarsi andare alla tranquilla corrente del giorno fino alla ca-
scata prestabilita – lo spettacolo serale – e dopo riprendere a scorrere dolce-
mente.
Negli ultimi mesi ho visto come hai maturato artisticamente nei tuoi bi-
sogni, nelle tue forze e nella tua generosità.
Ascolto quando fai dei commenti, quando pensi ad alta voce il lavoro del
futuro, e sono contento: sei diventata così indipendente che immagino che sia
opera mia.
Eugenio Barba

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L’UOMO DEL VENTO E DEI FULMINI*

Ayacucho, 25 maggio 1998


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Caro Jurek,
tutti i posti possono essere una casa. Ora, la tua casa la immagino come
un muro bianco su cui fissi lo sguardo, rintracciando i segni che alcune per-
sone vi hanno lasciato, quelli che ti furono a lungo vicini e ti offrirono tutta la
loro generosità, la loro capacità di agire e di darsi. Può anche darsi che il tuo
sguardo miope e penetrante non si soffermi più su questi segni e scruti aldilà
del muro bianco, aldilà della tua vita che, come un ruscello gelato, noi cer-
chiamo di fendere con una scure per bere ancora.
Da quando ti conosco non ti ho mai visto in una casa. Sempre in stanzette
grigie come quelle per i commessi viaggiatori, o simili a celle di rivoluzionari
clandestini. Lì ti hanno raggiunto i riconoscimenti. Anche oggi, questo premio
straordinario del Pegaso d’oro. E mentre molti di noi che ti amiamo siamo
chiamati a parlare di te, tu ancora una volta non ci sei. Anche in questo mo-
mento sei solo, nella solitudine che sempre ti ha accompagnato.
Un premio fa soprattutto bene a chi lo dà. È giusto e importante dare un
segno di gratitudine e di ammirazione, Ma non mi illudo: adesso, per te, che
pur apprezzi i riconoscimenti, tutto questo è meno che paglia. I tuoi pensieri e
le tue energie sono dedicati a lasciare la tua casa in ordine, in modo che i tuoi
eredi, quelli rinomati e quelli senza nome, seguano la tua eredità: la strada in-
visibile su cui non smettiamo mai di perderci e di essere condotti.
La tua solitudine è sempre stata attiva, ha saputo scuotere un pugno di
persone, le ha guidate e spinte a incidere il mondo che ti circondava e le circon-

* Lettera a Jerzy Grotowski in occasione del Premio Internazionale “Pegaso d’oro”


conferitogli dalla Regione Toscana il 30 maggio 1998, otto mesi prima del suo decesso.

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162 Eugenio Barba

dava. Molte volte, per quasi quarant’anni, da quando ci siamo incontrati ancora
ventenni, mi sono chiesto che cosa tu mi stessi indicando. Spesso le tue orme
diventavano confuse e si perdevano, ma era un perdersi che suggeriva oscura-
mente una direzione. La direzione è sempre stata la mia. Le orme sono tue.
Lo sappiamo bene: hai agito, nel teatro, come quei cavalieri nomadi che
trafiggevano con una sola freccia due cicogne nere. Sei stato l’uomo del vento
e dei fulmini ed hai spalancato altre porte alla nostra professione. Attraver-
sando quelle porte, il mestiere dell’attore veniva risucchiato violentemente in
altre dimensioni, sradicato perfino dalla rappresentazione e dall’arte e proiet-
tato in una nuova provincia di un paese spirituale perduto. Il rigore e la tenacia,
tutto il sapere sottile che serve all’attore per essere efficace ai sensi e allo spi-
rito dello spettatore, tu li hai trasmutati nella solitaria disciplina di lavoro del-
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l’individuo su di sé, per scalarsi, montagna ed alpinista, vetta e baratro in-


sieme.
Adesso, dalle contrade del teatro che abito, la tua prossimità lontana mi
appare come un airone bianco che vola in una notte di plenilunio.
La superstizione dei numeri ci cattura. Ci sembra che il 2000 sia una so-
glia. Oltre quella soglia, forse, una parte del teatro sarà quel che tu, nella tua
solitudine mai solitaria, ci hai indicato.
Ha forse nome quel che sta oltre il teatro? Lo leggi, quel nome, accanto
agli altri, sul muro bianco che è ora la tua casa? Se anche lo leggi, non l’hai
nominato. Lasci che ne scopriamo il senso e il valore attraverso la necessità e
l’azione che appartengono solo e irrevocabilmente ad ognuno di noi.
E di questo ancora una volta, con amore, ti ringrazio

Eugenio

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INSEGUIRE SE STESSI*

Carpignano 20 luglio 2010


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Cari fratellini Yuyachkani


ormai anche voi avete costatato che il rigore, l’intelligenza e l’elasticità
necessarie a un gruppo di teatro che non vuole morire giovane cambiano im-
percettibilmente il panorama che ci ingloba. Alcuni pensano che “impercetti-
bilmente” voglia dire “insignificante”. Ma la storia indica il contrario: in ma-
niera profonda, imprevedibile e sostanziale – come una radiazione.
Dopo decadi di lavoro a contro corrente e dopo aver superato mille diffi-
coltà e contraddizioni, dobbiamo ammettere che guardiamo la nostra società
non da estranei ma da stranieri, anche quando è la terra in cui siamo nati.
Questo atteggiamento da straniero, questo sguardo distante e impegnato è la
libertà che ci siamo conquistati, la sfida con cui si manifesta il nostro modo
d’essere politici.
Alziamo allora le bandierine dei nostri compleanni e diamo la giusta visi-
bilità al nostro modo di vivere il teatro come lunga elaborazione della Diffe-
renza. L’abbiamo capito, col tempo, ognuno a suo modo: essere differenti,
cioè rifiutare il mondo che ci circonda, le sue norme e abitudini, non può es-
sere solo un’idea. Se resta tale, diventa una routine fra le altre. Elaborare la
propria differenza vuol dire trasformarla in una lunga marcia all’inseguimento
di sé stessi.
Inseguire sé stessi? Questa frase non dice niente. A meno che non la si
prenda sul serio, traducendola nella lingua delle azioni fisiche. Evoca, allora,
una lotta impossibile contro la consistenza delle biografie. Le biografie ci
fanno credere che il nostro passato stia alle nostre spalle. Invece il nostro pas-

* Lettera al gruppo teatrale Yuyachkani, Lima, Perù, in occasione dei suoi 40 anni.

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164 Eugenio Barba

sato è quel poco che abbiamo davanti e che riusciamo a vedere. Alle nostre
spalle c’è quel che chiamiamo “futuro”, “fortuna” o “destino”: il tempo ignoto
che ognuno chiama “me stesso”.
Inseguire noi stessi vuol dire camminare all’indietro guardando avanti,
tentando d’orientarci interpretando non le strade e i bivi che ci aspettano, ma
la via che abbiamo già percorso. Non possiamo vedere gli inciampi che ci mi-
nacciano, né la meta – quale che sia.
Sembra la descrizione d’una sapiente gag da clown. Ma è la materializza-
zione di quel pozzo senza fondo che si nasconde dietro il misterioso concetto
di coerenza. Ripetiamo spesso questa parola, specialmente nei momenti di
crisi. A volte la sbandieriamo davanti agli occhi nostri e degli altri, con enfasi
da moralisti. Ma non possiamo padroneggiarla.
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Speriamo che sia lei a padroneggiarci.


Così, mentre la vita del teatro si misura tradizionalmente per stagioni, noi
misuriamo il nostro teatro per epoche: i primi dieci, venti, trenta, quaranta,
cinquanta anni.
Fermiamoci un momento a considerare la nostra stupefazione. Quando
cominciammo non avremmo mai immaginato di festeggiare i diversi decen-
nali dei nostri gruppi. Ma la nostra ostinazione ha costruito una base per resi-
stere. Non l’abbiamo costruita col ferro e la pietra delle teorie e delle fedi. La
nostra base è stata una passione insensata e la conoscenza conquistata e pro-
tetta da ognuno di noi per poter scavare un’arte effimera. Forse per caso, forse
per amore o per forza.
Dicono che il teatro sia l’arte dell’effimero. Ma il teatro per noi è la pra-
tica del però. Arte che però si oppone all’effimero. Effimero che però si op-
pone all’arte. Senza requie, senza punti fermi: un continuo combattere le illu-
sioni con le armi dell’illusione.
Vi porgo i miei auguri, cari fratellini Yuyachkani, per i vostri quarant’anni.
Attendo i vostri per gli imminenti cinquanta dell’Odin. Con un abbraccio

Eugenio Barba

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GLI ORECCHINI DI PIRANDELLO*

Mi trovo qui per caso, di passaggio.


Vi starò quanto men vi potrò stare.
Non che m’annoi, tutt’altro! Anzi il viaggio
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m’ha divertito. Ma è pur forza andare.

Dove andrò? Non lo so... Ahi, neppure questo!


Ma poco importa: andrò dove che sia.
Quel che più val è decidere presto;
guardarsi attorno, e scegliersi una via.

Facile a dire, scegliersi una via!

Sono alcuni versi della poesia di Pirandello La via. L’esergo che Piran-
dello ha messo prima dei suoi versi è: “Provar per ogni via come la nostra vita
a caso sia”. La vita non ha altro scopo che mantenere se stessa e riprodursi. È
compito nostro darle un senso. In questa capacità di dare un valore alla casua-
lità risiede la grandezza dell’essere umano.
Non credo che sia un caso se ora sono qui a ricevere questo premio, in una
regione del Sud Italia, dove ritrovo i colori, gli odori, i sapori e i pregiudizi che
costituiscono la mia identità. Né considero un caso la scelta operata dalla
Commissione, che premia non solo me, ma Else Marie Laukvik, Torgeir
Wethal, Iben Nagel Rasmussen, Tage Larsen, Ulrik Skeel, Roberta Carreri,
Julia Varley, attori ed attrici che hanno fondato l’Odin Teatret assieme a me, e
che vi lavorano da 30, 20 anni.

* Discorso di ringraziamento per il Premio Internazionale Pirandello, che consisteva in


una statuetta d’oro dello scrittore italiano dal peso di 600 grammi ad opera dello scultore Emilio
Greco. La cerimonia ebbe luogo a Palermo, Italia nel settembre 1997. Pubblicato in “Máscara”,
n.. 23-25, Città del Messico1998.

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166 Eugenio Barba

Immagino che la scelta di dare all’Odin Teatret questo premio abbia ri-
chiesto un certo coraggio alla giuria. Siamo un gruppo di uomini e di donne
che non ha rinunciato alla sua stranezza ed ha realizzato una diversità culturale
attraverso il teatro nella periferica cittadina di Holstebro. Rappresentiamo il
teatro del margine. È a tutti i teatri del margine che avete dato il vostro segno
di riconoscimento nel momento in cui l’avete dato all’Odin.
I teatri del margine non sono teatri marginali. Tentano di difendere un
margine, un vuoto che si lascia riempire da nostalgie e necessità personali.
Lottano affinché le estetiche, le ideologie, le tecniche, le poetiche, le mode
non lo invadano. Vogliono un rituale vuoto, non usurpato dalle dottrine.
Il margine può essere scabroso, ma può anche essere una riserva d’aria
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per chi si sente soffocare; una riserva dove possano vivere valori minacciati e
difficili da condividere; pulsioni di rivolta; animali che nessuna arca ha voluto
salvare: centauri, basilischi, unicorni, dragoni, sirene. O quell’altro animale in
via di estinzione nei nostri cuori, Dio.
I teatri del margine hanno una lunga tradizione, nomi celebri come Stani-
slavskij, Mejerchol’d, Copeau, Brecht, Decroux, Beck e Malina, Grotowski e
alcuni altri. A volte, il senso del margine si riverbera in testi drammatici; in-
nanzi tutto i testi di Pirandello e di Beckett, di Genet, di Cechov, di Ibsen e
Strindberg, e fors’anche dell’antipatico Claudel. Ma questi nomi sono solo la
parte emersa dell’iceberg teatrale. La parte sommersa, il suo corpo più consi-
stente, determina la presenza ed il modo di navigare di quest’isola del teatro
separata dalle regioni centrali e ben riconosciute. La parte sommersa è com-
posta di mille e mille volti anonimi, nelle mille regioni anonime del nostro
pianeta. Sono loro che costituiscono la tradizione profonda dei teatri che ten-
gono in vita il margine.
Ai teatri del margine ed ai teatri anonimi e sommersi, e non solo all’Odin
e me, va questo Pirandello dal volto d’oro. Lo voglio fondere.
Lui, Luigi Pirandello, volle essere cremato, diventare cenere da mischiare
alla terra di Caos, il suo villaggio. Non volle divenire una tomba. Ora, a di-
stanza di sessant’anni, credo che sia appropriato fondere questa piccola e pre-
ziosa opera d’arte che lo pietrifica. Con questo oro farò fare tanti orecchini.
Desidero regalarli a coloro che in Australia, in Africa, in Asia, in Europa e
nelle Americhe, difendono il margine.
Non è un caso: decine e decine di orecchini, affinché Pirandello bisbigli
in nuove orecchie lontane i suggerimenti per perdere e trovare la propria via,
fatta di azioni e di rifiuti.

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QUI NON SI PUÒ FARE NIENTE*
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Holstebro, settembre 1994

Cara Nitis,

tu sai quanto forte sia l’influsso dell’America Latina sul mio lavoro,
quanto sia ispirante per definire a me stesso il senso del fare teatro. Quindi non
c’è bisogno che ti dica le ragioni profonde che hanno reso per me cosí impor-
tante l’ISTA di Londrina.
Già nelle precedenti sessioni, da quella iniziale a Bonn, nel 1980, alla
settima di Brecon e Cardiff, in Gran Bretagna, nel 1992, la presenza di artisti e
studiosi dell’America Latina è sempre stata forte. Ora è l’ISTA stessa che at-
traversa il mare.
Sai anche che mi piacciono i contrasti. Immagino e in parte conosco quali
siano state le difficoltà tue e dell’èquipe del Festival che tu guidi per realizzare
un’ospitalità difficile come quella dell’ISTA. Ma quando visitai il luogo in cui
saremmo rimasti a lavorare per una settimana, prima di venire a Londrina per
il Simposio e lo spettacolo Theatrum Mundi, la mia sola obiezione – ricordi?
– fu che il luogo era troppo bello e troppo comodo, la vostra accoglienza quasi
troppo generosa.
Per gli organizzatori che ospitano una sessione dell’ISTA è sempre un’im-
presa ardua trovare i denari necessari a radunare tanta gente, a pagare i viaggi
ed i giusti compensi ai maestri che provengono dalle più lontane parti del

* Lettera a Nitis Jacon, regista del teatro Nucleo e direttrice del FILO, Festival Interna-
zionale di Londrina, Brasile, organizzatrice dell’8a sessione dell’ISTA, International School of
Theatre Anthropology, nel 1994. Pubblicata per la prima volta in “Máscara” n. 19-20, Città del
Messico 1995.

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168 Eugenio Barba

mondo. Alcuni, nei paesi “ricchi” come in quelli considerati “poveri”, ripe-
tono sempre la stessa lamentela: non sarà possibile!”. Tu hai dimostrato che il
problema principale non sta nelle circostanze economiche che permettono o
agevolano la realizzazione di una propria necessità, ma nella motivazione e
nella testardaggine con cui la si vuole, riuscendo a contagiare altri con il pro-
prio sogno o delirio d’azione.
Alcuni dei vecchi collaboratori europei, quelli che erano stati presenti
all’ISTA fin dai primi anni, quando arrivarono alle colline vicino a Aguativa,
dove lavorammo la prima settimana, mi guardarono meravigliati: abituati alla
vita spartana che avevano condotto alle sessioni dell’ISTA di Bonn o di Vol-
terra in Italia, venendo in Brasile si preparavano a chissà quali disagi. Si trova-
vano invece accolti in maniera che definirono “principesca”.
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Il solo argomento di discussione fra me ed i responsabili dell’ospitalità fu


di sospendere alcune delle comodità del luogo, davvero eccessive per un la-
voro come il nostro, che per nutrirsi ha bisogno di frugalità.
Tu che sei anche regista sai che la frugalità non riguarda il contorno o il
colore, ma l’essenziale. Occorre una regola di vita dura per giustificare il lusso
di far teatro, che è innanzi tutto il lusso d’una forma particolarissima di libertà.
Nelle sue prime sessioni, l’ISTA ha avuto un forte colore pedagogico, at-
tori e registi lavoravano molto sulle tecniche di base insegnate dai diversi ma-
estri di teatro asiatici ed occidentali; componevano “studi”; si esercitavano
praticamente. Col tempo, questo aspetto direttamente pedagogico è entrato in
ombra, sia perché le sessioni dell’ISTA non erano più lunghe come le prime (a
Volterra, nel 1981, restammo due mesi); sia perché le esperienze acquisite at-
tiravano l’interesse soprattutto verso una forma di pedagogia indiretta. Si co-
stituivano le condizioni per una osservazione quasi al microscopio del lavoro
di alcuni maestri, attraverso una sorta di vivisezione dei loro capolavori, e at-
traverso la partecipazione ad un processo creativo collettivo, per rendersi
conto non delle tecniche, ma della “tecnica delle tecniche”. Ci concentrammo
a reperire i criteri del processo creativo, quei principi che ricorrono sostanzial-
mente eguali nelle diverse tradizioni e nelle diverse scelte estetiche, e che stu-
diamo nell’Antropologia Teatrale.
Tu hai partecipato alla sessione dell’ISTA di Bologna, in Italia, nel luglio
del 1990, e ricordi che lavoravamo tutti insieme per fare uno spettacolo collet-
tivo, il Crossing, dedicavamo molto tempo alle analisi del lavoro dei maestri
occidentali ed orientali, ma non vi era un tempo per l’apprendimento pratico,
condiviso fra gente di teatro e gente intellettuale.
L’ISTA di Londrina era l’ottava tappa di una tradizione di quasi 15 anni.
Ed essendo la prima non europea mi costringeva a riflettere su come cambiare

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La conquista della differenza 169

strada. Mi sono detto che occorreva conservare le posizioni raggiunte dall’ISTA,


ma che, nello stesso tempo, sarebbe stato opportuno ricongiungerci con l’inizio,
con l’idea dei primi anni.
È possibile attraversare, in una sola settimana, una significativa espe-
rienza di apprendimento pratico? Abbiamo visto che è possibile, purché si la-
vori nella prospettiva d’una scuola-laboratorio. Per scuola-laboratorio intendo
un tempo/spazio privilegiato dove non si va per imparare, ma per imparare ad
imparare. Dove ognuno è responsabile del modo in cui trasforma nella propria
lingua e nella propria visione personale gli impulsi che riceve, le informazioni
intellettuali e gli stimoli emotivi, la comprensione e soprattutto la sorpresa e la
difficoltà a comprendere.
L’ISTA è un’antiscuola, è soprattutto un contesto in cui c’è tutto il tempo
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necessario per non capire. Spesso le acquisizioni più importanti per il nostro
mestiere e per il nostro sapere non sono quelle che abbiamo abbracciato con
entusiasmo fin dall’inizio, ma quelle alle quali abbiamo a lungo resistito, che
ci sono sembrate ostiche e oscure.
Così abbiamo organizzato una parte della giornata come una serie di vi-
site alle “case” di alcuni maestri. Ma visite dove non si andava solo per osser-
vare con gli occhi e col cervello, ma per sperimentare con i propri sensi e la
propria fatica, lavorando praticamente. Tutti i partecipanti hanno potuto assag-
giare, nel giro di una settimana, le fondamenta del lavoro di Sanjukta Pani-
grahi, di Swasti Bandem, di Roberta Carreri, di Augusto Omolú, di Kanichi
Hanayagi. Certo non hanno appreso nulla delle loro tecniche. Sarebbe dele-
terio se si illudessero, su basi così esigue, di poterle eseguire e ripetere. Nes-
suno con un bagaglio di lavoro di soli pochi giorni sarebbe così sciocco. Ma
hanno certo sperimentato l’elasticità di altrettanti trampolini, da cui poter
partire per compiere le proprie scelte, sviluppare il proprio autodidattismo.
Si erano inoltre costituiti piccoli gruppi dedicati a ricerche pratiche e di-
scussioni su alcune delle più significative antinomie dell’arte dello spettacolo
(teatro/danza; improvvisazione/ripetizione; canto/parola). A queste esperienze
per gruppi si alternavano momenti del lavoro un cui erano tutti riuniti, impe-
gnati praticamente – come nel lavoro di prima mattina attorno alla voce con
Julia Varley – o impegnati ad osservare la composizione dello spettacolo del
Theatrum Mundi, che poi abbiamo rappresentato l’ultima sera, il 21 agosto,
sul lago di Londrina.
Si viene all’ISTA per scontrarsi con domande, con visioni che lentamente
dovranno poi sedimentarsi e trasformarsi in scelte personali di lavoro. L’alter-
narsi dei lavori, i momenti di pausa, gli apici che richiedono fatica e quelli che
ripagano con la contemplazione di alcune delle meraviglie del teatro del no-

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170 Eugenio Barba

stro pianeta (questo sono i teatri classici asiatici: non solo serbatoi di preziosi
segreti del mestiere), il modo, insomma, in cui è organizzata la giornata non è
un semplice problema di organizzazione. Si tratta di realizzare, con le ore di
un giorno e con i giorni di una settimana, una vera architettura del tempo, che
impregni di domande e di stimoli i corpi-mente dei partecipanti.
Vi sono immagini, suoni e sensazioni che sembrano racchiudere l’essenza
stessa di questa situazione privilegiata che è l’ISTA. Quando penso alla nostra
risento l’emozione condivisa con tutti i partecipanti quando nel grande campo
di calcio vedevamo il sole sorgere da dietro le montagne accompagnato dai
canti indiani di Raghunath o dalle invocazioni di Ory agli Orixá.
I mille e mille ricordi illuminano la mia mente come i fuochi d’artificio
che diventarono la cornice finale dell’indimenticabile Theatrum Mundi che
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Fernando Jacon fece possibile sul lago di Londrina.


Tutto questo, Nitis, l’abbiamo realizzato assieme nell’agosto del 1994
con uno sparuto gruppo di collaboratori generosi e nei molti mesi (quasi tre
anni) di preparazione.
Quando ti dico che l’abbiamo realizzato assieme non intendo ripetere uno
di quei brindisi di maniera che si fanno spesso dopo la buona conclusione di
un’iniziativa.
Ci siamo spesso scontrati. Tu difendevi le esigenze del tuo ambiente di la-
voro, quelle che conoscevi come le attese e le necessità degli artisti di teatro
brasiliani e latinamericani. Volevi per esempio che fra le tradizioni a cui l’ISTA
era dedicata fosse presente anche una delle tradizioni performative vive in
Brasile. Io difendevo la tradizione dell’ISTA, le sue esigenze, la sua continuità
piena di svolte, il suo rifiuto di venire a patti con le esigenze esterne.
Collaborare è aver voglia di lottare con lealtà e testardaggine: credo che
questa sia una perifrasi della grave parola “amore”. Trent’anni di teatro me
l’hanno insegnato e l’hanno insegnato ai miei compagni, soprattutto a coloro
che sono con me da molto tempo, alcuni fin dall’inizio.
La tua lealtà e la tua fierezza m’hanno costretto a guardarmi intorno, ed è
così che ho incontrato Augusto Omolú, che con i suoi musicisti Ory Sacra-
mento, Bira Monteiro e Jorge “Funk” Paim, è entrato a far parte della rete in-
ternazionale dell’ISTA, e con il quale spero di poter collaborare a lungo, non
diversamente da come è avvenuto con Sanjukta Panigrahi o con Kanichi Ha-
nayagi.
Quando sono tornato in Europa, dopo Londrina, alcuni a cui raccontavo
quel che avevamo fatto e il modo in cui s’era realizzato, mi dicevano: “Sì,
laggiù è più facile di quanto sia qui da noi. Laggiù ci sono maggiori disponibi-
lità per la cultura!”. Li osservavo ridendo. Non valeva la pena smentirli. In

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La conquista della differenza 171

fondo tu ed io, a Londrina, abbiamo contribuito a sfatare un mito, il mito del


“qui non si può fare niente”, che infetta tutti i paesi, di qua e di là dal mare.
Nell’ascoltare coloro che credono scioccamente che le cose che si sono
realizzate lo siano state perché erano più facili, provavo fierezza e – benché
non sia brasiliano e latinamericano – quasi un sentimento d’orgoglio patriot-
tico, che spesso è una pericolosa sciocchezza, ma che a volte, preso in piccole
dosi, è un vero piacere.
Un abbraccio ed un arrivederci. Ai tuoi compagni del Nucleo e a te auguro
buon lavoro.

Eugenio Barba
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CAVALIERI CON SPADE D’ACQUA

Hay cuatro caballeros


con espadas de agua
y está la noche oscura.
Los cuatros espadas hieren
el mundo de las rosas
y os herirán el corazón.
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No bajèis al jardín! 1
Federico Garcia Lorca

“Se la storia degli altri diventa la tua storia, hai cominciato a comprendere
il mondo”. Questa frase dell’anarchico italiano Enrico Malatesta condensa il
senso del mio debito verso una minuscola schiera di uomini e donne che,
all’inizio del Ventesimo secolo, cambiarono il corpo e l’anima del teatro del
mio continente. I riformatori europei, con le loro parole di fuoco, le loro ferite
e ossessioni, e con i loro spettacoli, diventarono i cavalieri di un’Apocalisse
innovatrice che fece crollare paradigmi culturali ed estetici, modelli tecnici
secolari, tutta la struttura estetica, pratica e culturale di un lavoro artistico che
era tutt’uno con un’attività economica.
Quest’ Apocalisse generò una nuova nascita, una pluralità di visioni, me-
todi, processi pedagogici e obiettivi artistici. Così, mentre la “tradizione” del
teatro europeo finiva, la modernità si insediava con i fondatori di “piccole tra-
dizioni”, intenti a scoprire, attraverso il teatro, le proprie necessità individuali
e sociali.
Un’ossessione comune unisce questi cavalieri tanto individualisti: tra-
scendere il teatro e, negandolo, estrarre dalla propria pratica un valore inesplo-

* Discorso di ringraziamento per il titolo di Dottore honoris causa conferito dall’Univer-


sità Nazionale di San Cristóbal de Huamanga, Ayacucho, (Perù), il 29 maggio 1998. Pubblicato
per la prima volta in Arar el cielo a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial Casa de las Américas,
L’Avana 2002.
1
“Ci sono quattro cavalieri / con le spade d’acqua / e c’è la notte oscura. / Le quattro spade
feriscono / il mondo delle rose / e vi feriranno il cuore. / Non scendete in giardino!” Federico
Garcia Lorca dalla suite Surtidores (Zampilli).

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174 Eugenio Barba

rato e ineludibile. Edward Gordon Craig, Konstantin Sergievič Stanislavskij,


Vsevolod Emilevič Mejerchol’d, Jacques Copeau, Antonin Artaud e Bertolt
Brecht erano cavalieri che brandivano spade d’acqua per ferire i cuori. Dettero
un nuovo valore alla parte sommersa dell’iceberg teatrale, a ciò che nella loro
cultura europea restava nascosto. Integrarono nel loro lavoro la memoria delle
rappresentazioni popolari e delle cerimonie religiose. Questa scoperta non fu
soltanto infraculturale, non fece leva, cioè, unicamente sulla zona dimenticata
della propria cultura. Fu anche interculturale: un atteggiamento di curiosità e
rispetto professionale verso altre tradizioni che fino a quel momento erano
state viste come fenomeni esotici o di interesse etnologico.
Ho ricordato alcune delle ragioni che mi fanno considerare i riformatori
come miei antenati. Voglio mantenere in vita la loro eredità di rivolta, dissi-
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denza e ostinazione solitaria, e sono cosciente che intorno a me altri sono


spinti da simili impulsi, che realizzano in modi differenti nei loro diversi
campi d’azione. Come per i miei antenati, anche per me il contatto con altre
culture è stato fonte di nuove energie. Quando osservo il mio lungo cammino
professionale, devo riconoscere quanto sia stato importante condividere pro-
getti, nostalgie, controversie e vincoli affettivi con uomini e donne dei teatri
dell’America Latina.
Ho visitato per la prima volta l’America Latina nel 1973, in maniera ano-
nima, in un viaggio di due mesi che mi ha condotto dalla Bolivia al Messico.
Negli autobus e nei treni, nelle capitali e nei paesini dimenticati, il mio stato
d’animo oscillava tra lo stupore e la paura, tra lo smarrimento e una forma di
commiserazione di cui mi vergognavo. Le mille facce di una realtà folgorante
di contrasti mi confondevano come un mistero straordinario e affascinante.
Tuttavia avevo la sensazione di seguire orme in parte conosciute. Forse perché
sono cresciuto in un umile e povero paese del Sud Italia, pregno di cattolice-
simo barocco e vestigia della dominazione spagnola. Nelle esperienze di quel
viaggio solitario e insicuro, piantò le sue radici lo spettacolo Vieni! E il giorno
sarà nostro che intreccia l’incertezza e l’intransigenza degli emigranti europei,
indigenti o perseguitati, all’incertezza e all’intransigenza delle popolazioni
indigene del continente americano.
Fu con questo spettacolo che l’Odin Teatret venne per la prima volta in
America Latina, al Festival di Caracas nel 1976. Vissi ancora una volta l’espe-
rienza dello stupore e del disorientamento dinanzi alla varietà e alla profusione
dei gruppi teatrali latino-americani. La mia geografia professionale fu scossa
da un terremoto. Non era una conoscenza astratta, ma il calore e il piacere di
nuove amicizie, voci e temperamenti da me lontani, eppure animati da tensioni
vicine alle mie. Erano i miei primi e leali amici di questo continente, il Libre

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La conquista della differenza 175

Teatro Libre di Córdoba, il Cleta del Messico, la Candelaria di Bogotá, Con-


tradanza di Caracas, il Teatro Libre di Salvador. L’apice di questa sensazione
fraterna lo vissi con Mario Delgado e i suoi attori Lucho Ramírez, Ricardo
Santillana, Malco Oliveros e Carlos Cuevas. Costituivano il teatro Cuatrota-
blas di Lima, un gruppo che ha significato molto nella vita dell’Odin Teatret e
nella mia relazione con l’America Latina.
Passarono pochi mesi, e alcuni dei miei nuovi amici condivisero con me
un incontro che organizzai per conto dell’UNESCO al Festival BITEF di Bel-
grado, nel quale presentai la visione di un Terzo Teatro. Usai questa formula-
zione lasciandomi guidare da precise associazioni di pensiero: il Terzo Stato
della rivoluzione francese; la discriminazione verso il Terzo Sesso – e ovvia-
mente il Terzo Mondo. Ma l’impatto decisivo proveniva dalla conoscenza
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della realtà latino-americana. Là avevo incontrato un teatro agitato da passioni


equivalenti alle mie, e a quelle dei riformatori europei, fondatori solitari di
piccole tradizioni. Mi ero confrontato con un mestiere in cui il senso di re-
sponsibilità sociale era anche ricerca individuale, una pratica artistica che si
allontanava tanto dalla cultura teatrale in auge nella parte ricca del pianeta,
come dalle sue manifestazioni sperimentali. Il Terzo Teatro era la manifesta-
zione concreta, in varie parti del mondo, di una sete di dignità e valori.
I gruppi teatrali continuarono a riunirsi, prima a Bergamo (Italia) nel 1977
e poi a Ayacucho (Perú), nel 1978. Mario Delgado e i suoi compagni del teatro
Cuatrotablas furono gli organizzatori temerari del Primo Incontro del teatro di
gruppo in America Latina. Invitato da loro, l’Odin Teatret arrivò a Ayacucho,
in questa città che col tempo è divenuta parte della nostra patria ideale.
L’incontro fu una pietra miliare, scosso da sorprese, dispute, passioni, ri-
fiuti e amicizie. Si era allora in una fase particolare nella storia del vostro
continente. La politica repressiva, le dittature, la guerriglia erano parte della
vostra vita quotidiana. Esattamente nelle stesse date, in questa università di
Ayacucho, vedeva la luce il Sendero Luminoso, un movimento armato contro
lo Stato. L’orrore della realtà e della storia intorno a noi sbalordirono molta
gente di teatro, facendoli dubitare che l’attore fosse un cavaliere che ferisce i
cuori con una spada di acqua. Pensarono a forgiare queste spade con frasi rivo-
luzionarie e slogan politici, non con la fiamma di una motivazione intima, con
azioni coerenti a un mestiere che è una forma d’arte e di vita, continuità ed
esempio. Una passione che si immerge nella monotonia del lavoro e che, per-
durando negli anni, si trasfigura divenendo tradizione ed eredità.
L’incontro del Terzo Teatro a Ayacucho mi obbligò a riflettere. La lunga
esperienza dell’Odin Teatret, un gruppo di esclusi autodidatti che avevano
conquistato un’autonomia artistica e tecnica fuori dal sistema teatrale europeo,

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176 Eugenio Barba

era bollata da alcuni teatranti latino-americani come “formalismo” o “impe-


rialismo culturale”. Io parlavo di apprendimento, di precisione tecnica, del-
l’ethos dell’attore, e mi rispondevano con discorsi politici rivoluzionari. Tutta
la biografia dell’ Odin veniva allora schiacciata in una categoria a due dimen-
sioni: un’ estetica di “gringos”, di europei ricchi. L’impegno professionale del
nostro gruppo di emigranti senza radici nazionali, la nostra “dissidenza” che
avevamo definito “laboratorio”, era interpretato come il privilegio di chi vive
in una nazione che può permettersi il lusso di finanziare laboratori teatrali.
Ad Ayacucho ho intuito l’esigenza di un’altra lingua che trascendesse il
modo di esprimere la mia esperienza per entrare professionalmente in contatto
con gli altri. Sentii la necessità di un altro linguaggio per avvicinarmi ai gruppi
latino-americani, per dialogare con i loro attori e registi senza insabbiarci nelle
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estetiche personali e negli alibi e pregiudizi che chiamiamo identità culturale.


È qui, tra le montagne storiche che circondano questa vostra città, che le mie
prime riflessioni sull’antropologia teatrale affondarono le loro radici.
Tutti abbiamo bisogno di radici. Soprattutto noi dell’ Odin, che non ab-
biamo una patria comune e visitiamo senza sosta luoghi e situazioni differenti.
È importante non essere schiavi di questo “mestiere del viaggio”, è necessario
negarlo trasformandolo nel paradosso di un transito che pone radici. Ayacucho
è una di queste radici. Perché quando parlo di radici, mi riferisco a persone
ben precise, a relazioni che si prolungano nel tempo e s’intrecciano con nuove
relazioni, a incontri recenti. Alcuni hanno radici in una terra, altri in cielo, in
valori incarnati nella coerenza di individui che ciascuno di noi ha scelto come
i suoi totem, i suoi penati, i suoi fratelli maggiori. Non parlo di categorie
astratte, bensì di esempi concreti. Quello di Jerzy Grotowski, quello di
Atahualpa del Cioppo. La mia biografia e gli eventi della Storia si mescolano
e interagiscono, forgiano una bussola emotiva, un nucleo di valori vitali per
me, le mie radici.
Ogni teatro è radicato in molti contesti, e sono questi a decidere della loro
carica sovversiva, dell’incisività o della frivolezza dei suoi risultati. Il luogo
dove lavora un gruppo assume connotazioni politiche. Il senso è differente se
la sua attività si svilupppa in uno storico teatro di una capitale opure nel ca-
pannone di un paesino isolato. La stessa rappresentazione acquista meriti op-
posti se si presenta qui, nella piazza del quartiere di San Juan Bautista o nel-
l’edificio moderno del Festival di Berlino. Mi ha sempre accompagnato il
ricordo di una rappresentazione di Aspettando Godot nel 1968 in Bolivia, un
anno dopo l’uccisione di Che Guevara. Questo testo “assurdo”, visto sullo
sfondo degli eventi circostanti, ravvivava un’attesa tanto esplosiva che la rap-
presentazione fu subito proibita.

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La conquista della differenza 177

Però, oltre ai contesti sociali e oltre a una biografia personale, tutti gli at-
tori hanno qualcosa in comune: un corpo e una voce animati da processi men-
tali. L’attore disciplina la propria presenza somatica e i propri processi psi-
chici, crea azioni dinamiche e le modella in forme dense di informazioni per
trascinare gli spettatori in un percorso sensoriale e narrativo. L’attore dirige un
flusso di energie che fanno vibrare i nessi che legano ogni spettatore alla pro-
pria comunità, e che evocano ugualmente esperienze individuali, ferite, umi-
liazioni. Lo spettacolo-in-vita irradia la capacità di parlare alla memoria e ai
sensi di ogni spettatore e sussurrargli qualcosa di intimo.
Questa capacità è uno dei compiti dell’attore, da essa dipende l’efficacia
delle sue azioni. Presuppone una competenza tecnica. Come essere efficace
nei confronti degli spettatori è un problema che accomuna tutti gli attori al-
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dilà delle differenze politiche e estetiche o di genere spettacolare. L’antropo-


logia teatrale studia i principi che permettono di sviluppare individualmente
quest’efficacia. Studia il livello primario dell’arte dell’attore, quello della
presenza scenica. È il grado tecnico elementare, che può essere analizzato in
maniera sperimentale e oggettiva. Permette un dialogo stimolante e fecondo a
prescindere dalle diverse inclinazioni personali e dai differenti contesti degli
interlocutori.
Oggi, dopo vent’anni, l’antropologia teatrale ha dimostrato di poter essere
uno strumento utile sia per il principiante che per l’esperto di teatro. Essa è
oggetto di sessioni d’incontro e di indagine attraverso l’ISTA, l’International
School of Theatre Anthropology, ed è una disciplina accettata e applicata nei
teatri e nelle università. Vorrei sottolineare ancora una volta che fu ad Aya-
cucho che cominciò il lungo percorso che mi ha condotto fino ad essa.
Sono orgoglioso del riconoscimento che l’Università Nazionale di San
Cristobal di Huamanga mi conferisce e che, in realtà, premia tutti i membri
dell’Odin Teatret che voi vedete seduti intorno a me. Insieme siamo riusciti a
superare la nostra inferiorità d’autodidatti e d’emigranti. Insieme abbiamo tra-
sformato questa esclusione in un artigianato nutrito dalla caparbietà. Insieme
abbiamo tutelato la nostra piccola tradizione che ha antenati ed eredi ribelli.
Non abbiamo mai nutrito la speranza di cambiare l’intera società. Ma non ci
siamo mai disperati. Siamo stati sempre coscienti del fatto che un buono spetta-
colo non migliora il mondo e che uno cattivo lo peggiora. Il nostro lavoro si di-
rige al popolo innumerevole dei morti che ci guardano con accettazione o con
rifiuto. Sappiamo che i nostri spettatori più preziosi non sono ancora nati.
Ringrazio questa Università soprattutto perché il tributo di oggi ricom-
pensa tutta una cultura teatrale, quella dei teatri di gruppo: la nostra cultura,
cari amici latino-americani qui presenti e che mi avete accompagnato lungo il

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178 Eugenio Barba

mio cammino. Sento una profonda emozione. In occasione di festeggiamenti e


celebrazioni, sembra che non restino più nemici. È bello non avere avversari.
Però ogni giorno, quando mi guardo allo specchio, vedo il mio peggior ne-
mico. Io vorrei che tutti noi pensassimo a Ayacucho quando ci assaliranno lo
sconforto, l’indifferenza e l’uniformità del quotidiano, quando una voce in noi
sussurrerà “non ha più senso”. Che questo momento di prossimità fraterna e
orgoglio delle nostre differenze riviva nei nostri sensi quando i conflitti e le
tensioni logorano l’amicizia, la lealtà, la fiducia e devastano quello che un
gruppo ha costruito con anni di sacrifici. L’Odin conosce bene queste crisi.
Senza dubbio il ricordo di voi ci ha sempre sostenuto, amici latino-americani,
il ricordo della vostra allegria e tenacità nelle dure condizioni nelle quali agite,
il ricordo del vostro impegno che salvaguardate tra le vostre braccia come un
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bambino vulnerabile.
Vorrei che Iben Nagel Rasmussen, attrice dell’Odin sin dalle sue origini,
terminasse con una canzone. Proviene da uno spettacolo che lei ha creato as-
sieme a César Brie, un attore argentino che ha lavorato nell’Odin. È una can-
zone sul dolore dell’esilio e il sogno di ritornare in patria. Ma noi sappiamo
che la nostra vera patria ha radici nel cielo e che le uniche stelle a guidarci
nell’oscurità di questo mondo sono i nostri valori.
Il canto di Iben:

Cuando te veo entre flores


con tus campos y tus montañas
son tan grandes tus llanuras
y tan nevadas tus montañas.
Eres un ramo de flores
que mi corazón perfuma.
Oye mi voz,
oye mi voz
tierra mía,
que en sueños
vengo a verte
porque no puedo de veras.
Eres un ramo de flores,
tierra mia*.

* Quando ti vedo trai fiori / con i tuoi campi e le tue montagne / son così grandi le tue
pianure / e così innevate le tue montagne. / Sei un ramo in fiore / che profuma il mio cuore. /
Ascolta la mia voce / ascolta la mia voce / terra mia, perché in sogno vengo a vederti, / perché
nella realtà non posso. /Sei un ramo in fiore / terra mia.

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GRAFFIARE I MURI*

Holstebro, 20 novembre 2009


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Cari amici di Koreja,


all’ombra di un ulivo, un vecchia signora racconta del valore, della fama e
del futuro: “In riva la mare, un anello e il suo brillante cadono nella sabbia. Più
ci affanniamo a frugare per trovarli, più li perdiamo. Bastano pochi minuti e
spariscono per sempre nella notte dei tempi. Nessuno ne saprà più niente nei
secoli dei secoli”.
Scuote il capo e prosegue: “Invece un foglietto di carta invecchiata e mac-
chiata d’inchiostro o il francobollo da pochi centesimi, rimasto incollato per
anni ad una cartolina dimenticata, col tempo restano unici e soli, diventano
una rarità. Venduti agli amatori, solo perché si sono conservati a lungo, oggi
valgono un tesoro. Chi può predire quel che varrà e quel che no?”.
Ascoltiamo ridacchiando. Predica contro i prezzi, l’insicurezza e la paura
di restar piccini? Oppure vuole spiegare che il valore delle nostre azioni non
appartiene al presente, ma è solo un’incrostazione lasciata dal tempo?
Nessuno di noi, malgrado i giusti sforzi e le savie precauzioni, sa quale
graffio di sé incida l’attualità. Ne resterà un’infima cicatrice nell’Arte e nella
Memoria? Dipende. E neppure da che cosa dipenda sappiamo.
Dalla bellezza? Da ciò che gli artigiani chiamano la “buona qualità”?
Dall’impegno civile? Dal rifiuto dello spirito del tempo?
Po Chu-i scrisse versi bellissimi. Ne scrisse anche di sciatti. Una sua can-
zonaccia venne spesso cantata nelle osterie. Un ubriaco, andandosene la mat-
tina, graffiò gli ideogrammi della canzone sul muro all’entrata d’una locanda,
perché i compagni bevitori prima d’entrare potessero rinfrescarsi la memoria.
Presto nessuno lesse più la goffa canzone. Fu ricoperta dal muschio e dalle
cacche degli uccelli. Finché passò di lì Yuan Che e riconobbe gli indizi dei

* Lettera al Teatro Koreja di Lecce, Italia, in occasione dei suoi vent’anni di attività.

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180 Eugenio Barba

versi. Si sporcò il mantello ricamato per pulire la parete. Ma dopo tanta fatica
e tanta abnegazione i versi non li ricopiò. Raccontò il caso in una lettera a Po
Chu-i. E il poeta scrisse altri versi per raccontarlo.
Cari amici di Koreja, continuate a darvi da fare, a imbrattare i muri invisi-
bili del teatro con scritte sublimi e goffe e a ripulire quelle semiscomparse.
L’essenziale è che la vostra opera di nettezza e i vostri graffi scaturiscano da
una necessità che è solo vostra.
Graffi?
Quali resteranno? Quali no? Che cosa serve per farli restare? La fortuna?
E di che cosa è fatta, la fortuna?
Da un ubriaco. Da un muro. Dai ricami e dal mantello. Dai versi casual-
mente spariti. E da quelli casualmente sopravissuti. Da un’epoca futura che
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non osiamo immaginare.


Con grande affetto
Eugenio Barba

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VIVERE CON IMPRUDENZA*

Holstebro, novembre 2009


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Congratulazioni per le vostre due decadi, Roxana y Joel, cari fratelli del-
l’Estudio Teatral de Santa Clara. Ormai non siete più dei giovani che promet-
tono, ingenui e sognatori. Con orgoglio vedo le vostre ali robuste e quanto alto
sia il vostro volo. Però non dimenticate, come non lo facciamo mai noi del-
l’Odin Teatret, che appena poggiate i piedi a terra le trappole stanno lì ad
aspettarvi.
Mi sento vicino a voi perché ho l’impressione – benché non ne abbiamo
mai parlato – che condividiamo la stessa fede: che il teatro non può fare a
meno di essere politico. Questo non vuol dire parlare di politica, ma avere una
politica, una visione di come sia il mondo e di come, invece, lo vorremmo.
Due mondi. E tra di loro una grande distanza che immagino come un deserto
nel quale fioriscono i teschi e le ossa che la Storia ci ha lasciato.
Più grande è la distanza fra i due diversi mondi, più essa rischia di dege-
nerare, per ciascuno di noi, in un senso d’impotenza che col tempo si esprime
in un’indignazione inerme e finisce col tradire – non i compagni e noi stessi –
ma la nostra giovinezza. Avviene nel momento in cui ci diciamo: “Erano tutte
chimere. Abbiamo diritto a essere stanchi”.
Invece si può cavalcare chimere tutta la vita senza mai vincere, ma senza
essere sconfitti. La posta in gioco, infatti, non è cambiare il mondo, ma vivervi
degnamente. Quel che decide, più ancora delle circostanze, è se siamo in grado
di usare strumenti appropriati.
Il contravveleno per combattere la tendenza ad accontentarsi ha molti
nomi. Oggi userò quello più generico di “poesia”. Può sembrare un termine
patetico e abusato. Ma ho in mente alcune frasi di García Lorca quando spiegò

* Lettera a Roxana Pineda y Joel Saéz in occasione dei vent’anni di attività del loro
Estudio Teatral de Santa Clara, Cuba.

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182 Eugenio Barba

con parole semplici che cosa fosse la poesia di Neruda – o meglio: che cosa
non fosse. Disse che a Pablo Neruda mancavano i due elementi dei quali molti
“falsi poeti” si sono nutriti. Nominò l’odio e l’ironia. Poi rappresentò Neruda
come uno di quegli artisti che sui palcoscenici o nell’angolo d’una piazza ci
incantano con i loro prodigi, e lo ammantò con un simbolo potente. Disse:
“Quando Neruda intende colpire e solleva la spada, si ritrova subito una co-
lomba ferita fra le dita”.
Era l’ottobre del 1934, all’Università di Madrid. Non passeranno due
anni, e García Lorca sarà lui stesso una colomba assassinata.
Fin dal primo giorno, il vostro gruppo ha agito secondo un’economia po-
litica che non si basa sul risparmio e la cautela, ma sull’eccesso di un’attività
che travalica il limiti del teatro come genere estetico. Anche questa credenza
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condividiamo: che il teatro può essere usato come cultura attiva, come moneta
di scambio per dar risalto alla diversità.
Tutti gli impegni che leggo nel vostro programma di lavoro sembrano un
eccesso di delirio visionario e furore operativo, e forse sono imprudenti. Non
posso fare a meno di chiamarli “poesia”.
Quando García Lorca terminò la sua breve presentazione di Pablo Ne-
ruda, si rivolse direttamente ai propri ascoltatori ricordando che c’è una luce
nascosta nei poeti. È importante percepirla per nutrire quel grano di follia che
ognuno porta dentro di sé, e senza il quale è imprudente vivere.
Disse proprio così: imprudente.
Cari Roxana e Joel, vi auguro molti anni di volo, ringraziandovi per ogni
volta che avete generosamente accolto nel vostro Estudio Teatral a me e ai ai
miei compagni dell’Odin Teatret. Insieme, ognuno dalla sua riva, spero che i
nostri gruppi continueranno a bagnarsi nel fiume della Storia, con imprudenza.
Un abbraccio

Eugenio Barba

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SEPARARE IL TEATRO DALLA SUA SEPARATEZZA*

Holstebro, 7 ottobre 2009


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Cara Annet,
sono i problemi da risolvere che ti attraggono, più ancora delle storie da
raccontare. Permettimi di ricordarti un episodio del Libro delle svolte di Ber-
tolt Brecht.
Ai suoi allievi più esperti, un giorno il maestro sottopose un problema
geometrico praticamente insolubile: dovevano calcolare l’area di una super-
ficie dai contorni irregolari, tutti punte, spigoli e insenature. Gli allievi adotta-
rono la strategia giusta: suddivisero la figura irregolare in tante piccole figure
geometriche semplici. Di ognuna di esse – triangoli, rettangoli, trapezi – misu-
rarono l’area, poi sommarono i risultati. Ma il maestro aveva delineato la fi-
gura di partenza in maniera furba: sempre rimaneva un angolino che non si
lasciava ridurre alla regolarità. “Sembra una figura viva, che si ribella sotto le
nostre dita”, dicevano gli allievi affaticati. Effettivamente aveva il disordine e
l’imprevedibilità della vita.
Uno degli allievi, un outsider fra quegli studenti esperti, non si sgomentò.
Invece di regoli, matite e compassi, prese con sé un paio di forbici ed un bilan-
cino da orefice. Ritagliò la figura frastagliata disegnata dal maestro. Su carta
dello stesso tipo tracciò un triangolo regolare. Ritagliò anche quello. Posò sui
due piatti del bilancino i due pezzetti di carta, e ridusse le dimensioni del trian-
golo regolare fino a che questo non pesò quanto la carta della figura di par-
tenza. Allora calcolò l’area del triangolo e trovò la soluzione. I compagni pro-
testarono che aveva barato: pesare pezzettini di carta non è geometria. Ma il
maestro lo elogiò: “Lui solo – disse – ha affrontato il problema come un vero
problema. Voi avete pensato solo alla geometria”.

* Lettera ad Annet Henneman del Teatro di Nascosto, Volterra

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184 Eugenio Barba

Tu, Annet, attrice e regista olandese che lavori in Italia, hai incontrato e
scelto vittime di ingiustizie, di diritti umani violati, di paesi in guerra. Hai de-
ciso di farci vedere di che si tratta. Come lo studente outsider che ha pesato le
misure, tu hai separato il teatro dalla sua separatezza. Hai tracciato confini ir-
regolari senza preoccuparti delle proteste dell’arte. Molti non hanno ricono-
sciuto quel che facevi. Hai saputo resistere e continui a farlo per non essere
sopraffatta dall’indifferenza e dall’irriconoscibilità.
L’intelligenza nell’arte del resistere è stata la tua dote principale, più an-
cora della tua tecnica artistica. Per questo ti sono grato. Con un forte abbraccio

Eugenio Barba
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IL GIURAMENTO DI ATAHUALPA
LETTERA A UN FRATELLO PERUVIANO*

Carpignano, luglio 1998


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Caro Mario,

per molti anni, nei miei pensieri, è risuonata la parola “etica”: etica del-
l’attore, un teatro con una sua etica. Negli ultimi tempi, però, ho difficoltà a
pronunciarla e mi domando cosa si nasconda dietro questa parola. Indica ció
che sognamo di essere o ciò che siamo? È un comodo alibi? Un pretenzioso
complesso di superiorità?
Due fratelli si incontrano in prigione. L’uno, Dmitrij, è accusato di parri-
cidio. L’altro, Aleksej, lo va a visitare il giorno prima del processo. È pome-
riggio avanzato, quasi sera. Il romanzo di Karamazov sta per finire. L’etica.
Cos’è l’etica? – domanda Dmitrij al fratello. Alekseij, resta interdetto. Dmitrij
l’incalza: È una scienza? Alekseij tenta una risposta: Sì, è una scienza... se-
nonché... io, ti confesso, non son capace di spiegarti che scienza sia.
Non siamo capaci di spiegarlo. Eppure è come una scienza. Ma personale,
muta, con principi che per ognuno dovrebbero essere certi come due e due fan
quattro e che ci sono chiari solo nel momento dell’azione, quando si tratta di
prendere posizione nei confronti delle persone e delle circostanze. Principi
che non si coagulano in comandamenti astratti, e che solo l’esempio rende
evidenti. Allora, non sarebbe meglio parlare, invece di etica, di valori perso-
nali, di dignità?

* Lettera aperta a Mario Delgado, regista del gruppo Cuatrotablas di Lima e organizza-
tore di un incontro di teatri di gruppo ogni dieci anni ad Ayacucho, sulle Ande peruviane. Pub-
blicata per la prima volta in “Conjunto” n. 111, L’Avana 1998.

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186 Eugenio Barba

Domande e pensieri simili mi si agitavano in capo quando pensavo di


scriverti dopo il Reencuentro Ayacucho ’98, con l’amaro in bocca e con le un-
ghie e i denti di un ozelòt nella pancia.
Per me e per i miei compagni dell’Odin, Ayacucho è diventato uno dei
pezzi di quella patria spirituale che ci portiamo dietro e che a volte chiamiamo
la nostra storia, ed a volte la nostra identità. Siamo stati per la prima volta ad
Ayacucho nel 1978. Tu ci portasti lassù, su quelle Ande, per il primo incontro
dei teatri di gruppo latinoamericani. Dieci anni dopo, abbiamo celebrato in-
sieme quella data, ma Ayacucho non potette ospitarci. Stava al centro d’una
guerra civile in cui trionfava da ogni parte la ferocia e l’ingiustizia. Sfidando il
rischio, l’Odin vi ritornò da solo per una breve incursione teatrale.
Ora vi siamo ritornati in forze: molti gruppi, molti osservatori affluiti da
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ogni parte del mondo, migliaia di spettatori. Verrebbe voglia di essere allegri e
ottimisti. Eppure questa sarà una lettera sgradevole. Come sono sempre sgra-
devoli e puntigliosi i discorsi che abbandonano i grandi temi e le grandi spe-
ranze per chinarsi sulla inesorabile concretezza dei dettagli.
*
Nulla di più bello che ritornare ad Ayacucho vent’anni dopo, riuniti nello
spirito di Atahualpa del Cioppo, non in nome della nostalgia e delle imprese
passate, ma per osservare che cosa siano divenuti quei semi lanciati in un ter-
reno che pareva roccioso e battuto dalle intemperie della storia. Sono fioriti. Si
sono sviluppati in uomini e donne diversi da ciò che immaginavamo, che non
sembrano appartenerci. Nei quali ci identifichiamo, scoprendo in loro le voci
diverse e contrastanti del nostro futuro.
Quando ci incontrammo per la prima volta, a Caracas, nel 1976, da una
parte noi dell’Odin Teatret, dall’altra te e i tuoi attori del Cuatrotablas, appena
arrivati da Lima, fu l’inizio di una di quelle storie d’amore che caratterizzano
la storia sotterranea dei teatri del nostro secolo. Storie d’amore che si svolgono
a distanza, come è stata quella fra me e Grotowski, alimentate da intensi in-
contri e da indissolubili passioni e interessi. È stato bello averti accanto nelle
grandi battaglie del teatro di gruppo, a Belgrado nel 1976, a Bergamo nel ’77,
quando lo slogan del Terzo Teatro era ancora, per me, un tentativo di ricono-
scermi. Evocava un terzo mondo con tradizioni proprie, reali o sognate, scher-
nito dal lusso mediocre del primo e secondo mondo del teatro, eppure col
segno della dignità e del valore, con la consapevolezza dell’umile sacralità del
lavoro, che caratterizza il destino di ogni artista, indipendentemente dall’ap-
prezzamento circostante. Questo era ed è per me il Terzo Teatro: l’essere po-
vero di mezzi materiali, ma consapevole della ricchezza degli esempi del pas-

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La conquista della differenza 187

sato, teso alla ricerca dei propri valori, libero da quelli imposti dall’esterno.
Soprattutto ammiravo, nel Terzo Teatro, nei gruppi degli anni Settanta, la vita-
litá selvaggia, ostinata e anonima, che vedevo come una fonte di nuove piccole
tradizioni.
Quando nel ’78 tu e i tuoi compagni del Cuatrotablas, letteralmente un
pugno di persone, organizzaste l’incontro di Ayacucho, non so cosa ammirassi
di più, se la vostra temerarietà o la vostra generosità.
Invitaste l’Odin nel 1978, in un tempo in cui in America Latina molti
teatri si alimentavano di contenuti politici che sembravano giustificare la faci-
litá delle soluzioni del mestiere. Con la tua tenacia, ripetesti quest’incontro nel
1988, a Huampaní, dedicandolo a Jerzy Grotowski. I Cuatrotablas non erano
piú soli a dirigere l’impresa, che ora era capitanata da voi e da altri gruppi
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teatrali peruviani. Questi facevano un teatro molto diverso dal tuo; le vostre
visioni estetiche e la vostra concorrenza avrebbero dovuto allontanarvi, eppure
vi uniste in un’alleanza solidale. Rinnovasti la sfida che sembra impraticabile
nel nostro mestiere: creare una transizione che dura, i segni tangibili d’una
coerenza e d’una pratica che non sono solo biografia professionale, ma giá
l’inizio d’una tradizione.
Il Reencuentro Ayacucho ’98 mi ha mostrato le conseguenza di questo tuo
operare, di questa tua visione che hai quotidianamente incarnato nei confronti
delle differenti generazioni dei Cuatrotablas, in una vivace e fertile polemica
complementare con Miguel Rubio e gli Yuyachkani e gli altri gruppi peruviani.
Sei diventanto cosí la dimostrazione – non solo in America Latina, ma anche
per noi europei – di una imprevedibile costanza da contadini, capace di colti-
vare il campo del teatro lasciandoti guidare da valori come l’amicizia e l’onore.
Mai, come durante il Reencuentro Ayacucho ’98, ho provato la sensazione
di dissolvermi nei miei attori dell’Odin, nelle centinaia di altri attori e registi
che si erano radunati nell’Aula Magna dell’Università di San Cristobál de
Huamanga, dove il Rettore Enrique Gonzales Carré mi conferiva una laurea
honoris causa. In realtà la conferiva a noi tutti, alla nostra cieca e incompren-
sibile ostinazione che ci ha spinto o obbligato a persistere, senza fallire, negli
ideali della nostra giovinezza, in un alternarsi di epoche e vicende storiche
caratterizzate da terremoti ideologici e da stragi di innocenti. Era a questa ga-
lassia di teatri di gruppo, di individualisti, di anarchici che non vogliono sotto-
mettersi, di sognatori e di ingenui, segnati da vanità infantili e ferite personali,
che quel diploma dorato di una delle più antiche università latinoamericane
era rivolto. Avrei voluto farlo a pezzi, centinaia di brandelli da distribuire a
tutti i presenti, come una bussola fragile e inconsistente per orientarci negli
anni bui che ci aspettano.

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188 Eugenio Barba

Tutto questo è stato il Reencuentro Ayacucho ’98: l’orgoglio di vedere


quanto fossero cresciute le nuove generazioni del teatro latinoamericano; la
loro autonomia nei nostri confronti, gruppi già in cammino da due o tre de-
cenni; l’eccezionale qualità e il rigore del progetto di teatro negro di Mille-
nium; l’ironia e la crudeltá dello spettacolo di Maria Teresa Zuñiga e César
Escuza; l’indimenticabile ricamo della solitaria voce mapuche di Luisa Cal-
cumil, che nella pampa di Quinhua cantava davanti a 15.000 persone silen-
ziose e commosse; il vigore inesauribile del Teatro Taller di Colombia; la sar-
donica tenerezza di Graciela Ferrari; la radicale scelta del cileno Teatro Luna;
il coraggio di rivelare la propria intimità di Cristina Castrillo; i giovani gruppi
argentini della rete del Septimo, che nel maggio 1999, a Humahuaca, conti-
nueranno la tradizione degli encuentros di teatro di gruppo.
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Tutto questo ti appartiene. Tutto questo è conseguenza del tuo sognare


attivo. Di tutto questo puoi essere fiero.
Tutto questo puoi dissiparlo. Può svanire in pochi momenti dalle tue
mani, diventare un pugno di sabbia.
C’è infatti una dialettica ferrea e ineludibile, ingrata, nel lavorare – come
spesso ci accade – in una situazione caratterizzata dalla povertà di mezzi, dalla
temerarietá, dall’intelligente decisione di agire oltre i propri limiti, di fare –
cioè – il passo piú lungo della gamba.
Fisicamente, se un attore vuole fare passi più lunghi della gamba deve al-
lenarsi, deve controllare la precisione d’ogni suo atto, deve reinventare il pro-
prio equilibrio con impulsi opposti a quelli che lo lanciano in avanti. Lo stesso
vale quando i passi più lunghi della gamba si applicano ad un’azione a vasto
raggio. Occorre un controimpulso, altrimenti si cade nel velleitarismo e nella
sciatteria. La guerriglia culturale esige una meticolosità dell’organizzazione e
un’attenzione ai minuscoli dettagli di gran lunga superiori a quelle che si esi-
gono dalle situazioni privilegiate, abituate a vaste e ben foraggiate strategie
culturali.
Quanta gente sarebbe stata necessaria, ad una grande istituzione, per or-
ganizzare un incontro teatrale come quello di Ayacucho? Vi avrebbero lavorato
forse 30 o 40 persone fra dirigenti e semplice manovalanza. Si sarebbero divisi
i compiti e le responsabilità. Tu invece potevi contare su pochissime persone e
su pochissimi denari. Eri costretto a lavorare improvvisando. Per la dialettica
integrata del nostro mestiere e della nostra condizione avresti perciò dovuto
essere mille volte più attento e perspicace, nell’organizzare, d’un ben pagato
competente funzionario.
È questo che distingue la nostra differenza dalla marginalità.

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La conquista della differenza 189

*
Cosí come t’appartiene il valore di ciò che hai compiuto di importante e
che ha segnato la storia recente del teatro peruviano, così come t’appartiene la
temerarietà, t’appartiene anche il disvalore della disorganizzazione, del disor-
dine che minacciano sempre di sfociare nella mancanza di rispetto per il lavoro
degli altri.
Alcuni dei gruppi invitati, avevano viaggiato 30, 40, 50 ore in bus attra-
verso il continente latinoamericano per raggiungere Ayacucho. Già mentre
eravamo lì ti parlai a lungo: come potevi permetterti di non offrire loro il mas-
simo dell’ospitalità possibile? Non conta la penuria di mezzi. Conta l’impegno
sui minimi dettagli. Si possono accettare le condizioni più scomode e difficili,
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ma solo se si vedrà che chi ti ha invitato si dedica a te, si rende conto dei tuoi
problemi, della tua stanchezza e della tua insicurezza, e mai ti abbandona a te
stesso. Nel mio modo di pensare ti dicevo che bisogna comportarsi da beduini.
L’ospite deve rendersi conto d’essere prezioso. Che proprio per lui o per lei,
individualmente, ci si prodiga per dare il massimo.
Mi interrompi: “L’abbiamo fatto, il massimo! Tu ignori la sproporzione
fra le nostre risorse, il numero delle persone disponibili, le nostre competenze,
e la complessità del compito che ci eravamo assunto. Dimentichi che senza
accettare questa sproporzione non sarebbe mai stato possibile realizzare il
Reencuentro”.
Non lo ignoro. Non lo dimentico. Le mie reazioni non sono ingiuste. Non
si concentrano sui piccoli, episodici difetti di un grande evento. Sottolineano
ciò che ne dissipa la grandezza.
Ad Ayacucho, l’organizzazione caotica, senza punti certi di riferimento,
senza neppure le necessarie informazioni, minacciava la dignità stessa dei
colleghi lì convenuti. E raggiungeva punte di sadismo.
Chi puó aver immaginato, per esempio, un viaggio di ritorno, in aereo, da
Ayacucho a Lima, in cui un gruppo teatrale poteva esser diviso, metà su un
aereo, metà su quello successivo, senza che gli interessati ne fossero informati,
facendoli arrivare all’aeroporto due ore prima della partenza, e senza che poi,
al momento dell’imbarco, venissero caricate le casse dello spettacolo che do-
veva essere rappresentato la sera stessa a Lima?
Eppure tu sai che se di qualcosa ciascuno di noi va fiero è del proprio im-
pegno a dare il massimo nel momento dello spettacolo. Nonostante le condi-
zioni avverse in cui si opera, l’intera giornata è orientata e dedicata all’incontro
con gli spettatori. Mettere in forse la possibilità di quell’impegno, e farlo con
la noncuranza simile a quella dei burocrati disinteressati alla vita che passa

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190 Eugenio Barba

loro fra le mani, non è un semplice disguido organizzativo, è una ferita all’in-
timità più preziosa di un artigiano del teatro.
Quella che ho chiamato noncuranza era una reazione di difesa in una si-
tuazione che ha preso la mano a te ed ai tuoi collaboratori. Come uno che si
copre il capo sotto una pioggia di pietre ed evita di guardarsi intorno. Ma le
vittime delle pietre sono in primo luogo coloro di cui dovresti sentirti respon-
sabile.
Fra le decine e decine di esempi che potrei farti, te ne faccio un altro, che
davvero mi ha scandalizzato.
Mentre i giornalisti affluiti ad Ayacucho per seguire il Reencuentro erano
ospitati nel miglior hotel della città, Victoria Santa Cruz, la grande artista di
piú di settant’anni, era alloggiata in un alberghetto, in una camera doppia, da
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dividere con una delle partecipanti all’incontro. Questo fatto mi ha ferito pro-
fondamente. Se facciamo teatro è anche per lottare contro le minuscole ingiu-
stizie e le gerarchie che lo spirito dei tempi vorrebbe imporci.
Cosí, pieno di sentimenti contrastanti, di rabbia, di sconforto, di profonda
commozione e d’orgoglio per ciò che avevo visto nel corso del Reencuentro
Ayacucho ’98, sono arrivato a Lima, dove l’Odin e gli altri gruppi invitati, do-
vevano dare il loro spettacolo. Due dei miei collaboratori erano restati a Lima
un’intera settimana per risolvere tutti i problemi tecnici. Eppure, le condizioni
che avevano fissato per iscritto, di cui voi ci avevate ripetutamente garantito il
rispetto al momento del nostro arrivo, venivano sistematicamente ignorate.
Non solo non era presente nessuno della tua organizzazione, ma nessuno
sembrava curarsi del fatto che in questo modo diventava impossibile presen-
tare il nostro spettacolo agli spettatori.
Quando vi abbiamo comunicato che avremmo dovuto annullare la prima,
i tuoi collaboratori hanno mostrato nient’altro che indifferenza. Immagina-
vano, forse, che tutto si sarebbe risolto all’ultimo momento, o che noi, per
vecchia amicizia, avremmo accettato di lavorare in condizioni che non rende-
vano giustizia né al nostro spettacolo né agli spettatori peruviani.
Mi sono sentito sfruttato, manipolato da un modo di fare e di pensare
contro il quale sono in lotta dal primo giorno che ho fatto teatro.
Tutti gli altri gruppi che avevano partecipato al Reencuentro e dovevano
dare spettacolo a Lima si sono trovati nelle stesse condizioni.
Ho sentito come un’offesa personale sapere che Santiago García doveva
procurarsi personalmente, cercandole all’università, le sedie e il tavolo che gli
avevate promesso fin dal giorno del suo arrivo. Un tavolino e delle sedie non
sono gran cosa. Proprio per questo la trascuratezza m’impressiona.

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La conquista della differenza 191

Altri gruppi hanno dovuto cambiare locale due o tre volte. Alcuni semi-
nari, previsti da tempo, sono stati annullati per mancanza di iscrizioni. Nes-
suno s’era iscritto per mancanza di informazioni. Così è andato sprecato anche
il seminario di Victoria Santa Cruz, il cui ricavo lei aveva generosamente de-
stinato al gruppo organizzatore del Reencuentro.
Queste situazioni le conosco bene. Fu proprio in una situazione del genere
che ci riconoscemmo fratelli, a Caracas, nel 1976, quando il direttore del Fe-
stival, voleva costringermi a presentare lo spettacolo in condizioni ingiuste per
gli spettatori, e reagì alle proteste dei miei collaboratori con la distaccata indif-
ferenza di un burocrate autoritario. Noi dell’Odin rinunciammo alla prima, oc-
cupammo la sala. Gli spettatori altolocati protestarono, ci chiamarono gringos,
imperialisti culturali. Ma voi dei Cuatrotablas, assieme agli attori della Cande-
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laria, dell’argentino esiliato Libre Teatro Libre e di altri gruppi presenti al Fe-
stival vi uniste a noi nella sala occupata. Era solidarietà per l’Odin, e soprattutto
un modo per sottolineare la dignità e il valore del nostro comune lavoro.
Ora tu, a Lima, hai ricreato una situazione simile a quella contro cui noi,
uniti, protestavamo.
Non serve a niente dire che tu non sei il direttore di un Festival internazio-
nale, che non hai i mezzi né lo staff né la solenne ufficialità. La tua diversità –
tua e del tuo gruppo – non può giustificare la somiglianza dei comportamenti.
Non sono le intenzioni che contano. La cosiddetta buona volontà o la buona
fede non cambiano lo stato delle cose.
Tu e gli allievi della tua scuola lavoravate dalla mattina alle 5 fino a notte
fonda per organizzare il Reencuentro, sia ad Ayacucho che a Lima. La vostra
penuria di mezzi faceva sì che anche le cose più semplici si trasformassero in
un problema, cercare un riflettore, persino comprare dei chiodi. Tutto questo
lo so. Non mi permetterei mai di giudicarvi come giudicherei lo staff che orga-
nizza un festival superfinanziato. Tutti coloro che hanno accettato il vostro in-
vito sapevano quali erano le condizioni materiali che ci attendevano. Ma
quando queste si sono fatte troppo gravi, quando farsi in quattro non bastava
più, quando le vostre mani non potevano più reggere le fila dell’organizzazione,
avete cominciato a promettere quel che sapevate di non poter mantenere. E poi
vi siete dileguati. Così, da poveri, vi siete trasformati in irresponsabili.
A questo punto persino la vostra diversità spariva o veniva dilapidata. Non
eravate diversi da coloro che vivono al polo opposto al vostro, i burocrati ben
pagati e indifferenti che lavorano con il teatro semplicemente per sfruttarlo.
Quando sono arrivato a Lima, ed ho visto come andavano le cose, il mio
primo impulso è stato di riunire tutti i partecipanti per occupare i luoghi in cui
si sarebbero dovuti tenere gli spettacoli. O di andarmi ad incatenare ai cancelli

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192 Eugenio Barba

del Palazzo Presidenziale, per protestare contro la discriminazione congenita,


l’indifferenza e la mancanza di responsabilità che caratterizza certi ambienti
della nostra professione, nel primo, nel secondo, nel terzo, nel quarto e nel
quinto teatro.
Credi che non abbia il senso del ridicolo? Credi che non sappia che la
stragrande maggioranza considererebbe ridicola una protesta tanto magnilo-
quente per alcuni problemi tecnici che ritardano uno spettacolo? Eppure noi
affermiamo che il teatro non è qualcosa di marginale, ci ribelliamo alla noncu-
ranza e all’indifferenza che ci circonda. Andiamo ripetendo che il teatro può
essere un’isola di libertà. Ma poi, quando siamo al dunque, siamo i primi a
trattarci come gli altri ci trattano. Se non siamo noi a difenderla, chi mai difen-
derà la dignità del nostro lavoro?
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Ti voglio bene come a un fratello e non ho mai voluto guerre fratricide.


Per questo ho scelto di non attaccare, di scomparire, di andarmene silenziosa-
mente dal Reencuentro, da Lima e dal Perù, lasciando che i membri dell’Odin
difendessero il senso della nostra amicizia per te e lottassero fino alla fine per
Mythos, lo spettacolo che ci eravamo affrettati a terminare per poterlo presen-
tare da te.
*
Ho lasciato il tuo paese con l’amaro nella bocca e nei sensi. Dolore, tri-
stezza e rabbia si sono trasformati in un piccolo ozelòt che mi rode lo stomaco.
Per farlo uscire ti scrivo, sperando di esorcizzarne zanne e artigli.
Ci vogliono trent’anni per farci credere che esista un’amicizia, una fratel-
lanza. E pochi giorni bastano a farci comprendere che il tuo amico fraterno
può comportarsi come uno struzzo, giusto accanto a te, abbandonando te e il
tuo lavoro. Quel lavoro attraverso il quale si era creato il legame.
Etica? Si tratta di ben altro.
Ci sono medici che lavorano in situazioni disperate, senza strumenti,
senza sangue per le trasfusioni, senza apparecchiature o senza corrente elet-
trica per farle funzionare. Ma questo non giustifica la loro indifferenza per il
malato, per la dignità e il valore della sua vita. Nel peggiore dei casi, quando
proprio non c’è nulla da fare, gli restano accanto. Non l’abbandonano.
È etica tutto questo? No. È l’evidenza del comportamento necessario.
Nei secoli scorsi c’era, per i medici, il “giuramento di Ippocrate”. E i
medici di oggi non l’hanno dimenticato, non foss’altro che per rimpiangerne
la chiarezza e la semplicità di fronte alle ambiguità morali che l’attualità im-
pone alla loro professione.

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La conquista della differenza 193

Il giuramento di Ippocrate era nel nome di Apollo e di Esculapio, ma le


grandi parole finivano presto in quel testo. Il resto erano impegni concreti ri-
guardanti l’atteggiamento del medico, ciò che si impegnava a non fare.
Mi chiedo se coloro che lavorano con il teatro non dovrebbero fare un
giuramento paragonabile a quello di Ippocrate. Nel campo del teatro, più che
in altri mestieri e professioni, è forte il rischio di manipolare le persone con la
giustificazione di un’arte della libertà, della solidarietà e dell’uguaglianza.
Come potremmo inventarlo? Come chiamarlo? Il giuramento di Tespi? Di
Bharata? Di Zeami? Di Stanislavskij?
Quali azioni umili, ma concrete, prescriveremmo?
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NERA ALLEGREZZA*

Holstebro 19 settembre 2004


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Cari amici dell’Osmego Dnia,

Nel 1964, alle radici, eravate un teatro studentesco. Oggi siete un punto di
riferimento nella storia del teatro polacco ed europeo del secondo Novecento.
Per me voi costituite una delle “piccole tradizioni” del teatro del nostro tempo.
Le chiamo “piccole” per distinguerle dalle grandi tradizioni occidentali ed
asiatiche, dal Teatro d’Opera al Kabuki, dal balletto classico al Kathakali.
In maniera paradossale, i nostri piccoli teatri sono vere e proprie “tradi-
zioni”. Benché siano costituiti da poche persone e non siano fatti per trasmet-
tere dall’una all’altra generazione il proprio sapere, le proprie tecniche e il
proprio repertorio, si comportano, però, incarnando un ethos ben riconoscibile
nel mare magnum del teatro. Le “piccole tradizioni” sono segnali di diffe-
renza, per la loro identità sia professionale che etica: le due facce dell’ethos.
L’ethos è qualcosa di molto più radicale della coerenza estetica, dello stile,
delle vesti artistiche che un teatro assume nel passare dall’uno all’altro dei
suoi spettacoli.
Se in poche parole dovessi spiegare l’identità dell’Osmego Dnia ad un
giovane che non ha mai visto un vostro spettacolo, direi: guarda, erano un
teatro dissidente nella Polonia degli anni Sessanta e Settanta, un teatro a cui le
autorità negavano spesso il passaporto per recarsi all’estero. Furono un teatro
perseguitato nella Polonia dopo il colpo di stato del generale Jaruzelski, per-
sero le risorse economiche e il luogo in cui lavorare, ma continuarono, tro-
vando ricovero presso le chiese. Poi furono un teatro espatriato, loro così pro-
fondamente radicati nella cultura del proprio paese, gravati dall’amarezza e

* Lettera al gruppo Osmego Dnia di Poznan, Polonia, in occasione dei suoi 40 anni.

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196 Eugenio Barba

dalla precarietà dell’esilio. Ora, quando sono tornati a casa e l’Europa non ha
più il Muro, loro sono ancora dissidenti. Basta ricordare quest’episodio della
fine del 2002: si rifiutarono di partecipare ai festeggiamenti per San Pietro-
burgo, dove erano stati invitati, perché non volevano accettare il dono e il rico-
noscimento d’un potere politico che massacra i ceceni.
Probabilmente, il giovane che non ha mai visto un vostro spettacolo capi-
rebbe che siete intransigenti. Ma quando vi vedo nella mia mente, non penso
all’intransigenza, ma al coraggio ed alla nera allegrezza.
Il coraggio non è intransigente. Occorre saper transigere, per navigare
contro le onde del proprio tempo senza cedere alla tentazione di rinunciare e
lasciarsi ridurre all’inazione. Il coraggio è la volontà di non divenire vittima.
Per una “piccola tradizione” è duro, spesso doloroso, continuare ad esistere.
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Sembra una virtù o un’arte, in realtà è un artigianato spossante. Bisogna saper


difendere il proprio sogno ad occhi aperti dietro le raffinate ragnatele di un
orefice, inventare le difficili soluzioni per restar fedeli al proprio urlo iniziale,
esplorando entro quali limiti esso può essere modulato come un canto, un’in-
cantazione o una canzonatura. È la rotta che rivela l’intransigenza, non i sin-
goli approdi. A volte gli approdi sono pause, tappe, compromessi, persino er-
rori. Forse il coraggio più difficile è quello di non farsi vittima dei propri errori
e non rinunciare all’allegrezza.
“Nera allegrezza” è la definizione precisa del vostro modo di lavorare.
Ricordo una notte a Jelenia Góra, in Polonia, nel giugno del 1980. Fu un in-
contro quasi clandestino fra piccole tradizioni. Voi mostraste le vostre raffinate
tecniche di improvvisazione. La gioia del teatro scoppiò nella sala: arte del
contrasto, del riso e dell’ironia, squarci d’amarezza e di denuncia. Una visione
pessimista della realtà trasmessa agli spettatori come un dono di festa.
Noi dell’Odin Teatret – non apolidi, ma extraterritoriali, stranieri emi-
granti divenuti scandinavi, e scandinavi divenuti emigranti in patria – noi che
facciamo spettacoli diversissimi dai vostri, riconoscemmo in voi un’aria di
famiglia. Se davvero, dopo il settimo giorno di riposo, nell’ottavo venne creato
il teatro, in questo giorno che in base al senso comune non c’è, sta la nostra
patria comune.
La bizzarra fantasia di Konstanty Ildefons Galczynski sulla creazione del
teatro, la leggenda da cui avete tratto il vostro nome, rivela una verità sem-
plice: la patria del teatro non è uno spazio, ma un tempo con una speciale
qualità, un tempo di confine scandito da un viavai di relazioni.
Ricordate? Avevamo un progetto. Doveva svolgersi a Palermo, in Sicilia,
per un intero anno, nel 2001. Era basato sull’intreccio di meticciato, ritualità e
resistenza, con voci e presenze diverse. Avevate accettato di parteciparvi per

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La conquista della differenza 197

un mese. L’idea si chiamava “Isole di libertà” e restò sulla carta per ragioni
economiche e burocratiche.
Era un progetto. Diventi un augurio.

Eugenio Barba
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COME BRUCIA IL TEATRO DI CARTA*

Holstebro, luglio 1999


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Caro Edgar,
hai organizzato una cerimonia per i dieci anni della tua rivista: hai rac-
colto gli amici, bevete insieme, poi tu prendi alcune copie di “Máscara” e le
bruci. Alcuni vedono il tuo gesto come una provocazione. Altri come un segno
d’abbandono. Altri ancora lo intendono come un eccesso di sicurezza.
Così ti ho visto in una mia fantasia. Mi chiedo che cosa voglia significare
quell’immagine che m’è venuta in mente, come un sogno o come un augurio.
Vuol dire che distruggi la tua rivista? O è un segno di vitalità, di rinnovamento
e continuità?
Il teatro di carta, infatti, è fatto per bruciare.
Con “Máscara” hai creato un grande “teatro di carta”, un teatro fatto di
racconti e di parole, di storie e di indagini, di documenti pescati dal mare del
passato e dai laghi della contemporaneità. Ma questo “teatro di carta” tu non
l’hai creato per metterlo fra altre carte, nelle biblioteche, fra i libri che servono
solo agli studenti delle università. Hai forgiato uno strumento per coloro che il
teatro lo praticano e che spesso non godono dell’eredità d’una tradizione.
È facile dire che la pratica artistica consiste di azioni concrete, materiali,
che è esperienza in prima persona, e che quindi le teorie, le storie, le visioni
astratte e intellettuali servono a poco.
È facile constatare che le parole scritte non possono dar conto della com-
pletezza e della complessità dell’esperienza. E che quando l’esperienza viene
trasferita sulla pagina genera equivoci.

* Lettera a Edgar Ceballos, editore di Escenologia, in occasione dei dieci anni della sua
rivista “Máscara”. Pubblicata per la prima voce in “Máscara”, n. 31-32. Città del Mexico, 2000.

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200 Eugenio Barba

È facile affermare che l’essenziale non si può né insegnare né trasmettere,


e che la qualità artistica non dipende dalle conoscenze, ma da un tempera-
mento personale.
Queste verità troppo vere tu hai cercato di contrastarle. “Máscara” è una
lotta contro le verità facili.
Per chi esercita la professione teatrale esistono due ingiustizie poco appa-
riscenti ma gravi. La prima potremmo chiamarla “amputazione della scelta”.
La seconda, “amputazione della continuità”.
Non tutti hanno realmente la libertà di scegliere. C’è una costrizione più
dura dell’indigenza e della censura – sia la censura sulle idee, che quella eco-
nomica – che alla fine decide cosa è interessante e cosa no, cosa è bello e cosa
è brutto, cosa è teatro e cosa invece non lo è. C’è un’altra costrizione, che è
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intima. Basta un solo verbo a definirla: ignorare.


È vero che quando si tratta di agire, di creare un proprio spettacolo, di
definire il proprio gruppo nella realtà circostante, ciascuno deve trovare la sua
strada e non può seguire le orme degli altri. È vero che ciascuno deve scegliere
da solo. Ma per scegliere deve avere a disposizione un ventaglio di alternative.
Deve poter mentalmente scartare decine e decine di possibilità. Non si può
scegliere, non si può inventare, quando, dal punto di vista professionale, non si
conosce quel che non si vuole fare.
L’invenzione è un’arte del rifiuto nel contesto d’una continuità. Chi ha ri-
cevuto l’eredità d’un sapere, d’una tradizione, ha molte cose da rifiutare, molte
cose sulle quali fare attrito per saltare altrove e trovare il proprio sentiero. Chi
fa teatro partendo da una situazione che lo costringe all’autodidattismo ha da-
vanti a sé un paesaggio ristretto. Non avendo ricevuto quasi nulla, ha ben poco
da rifiutare. In genere è costretto a seguire e ripetere i pochi principi, i pochi
modelli di cui è riuscito ad impadronirsi. Il “teatro di carta” serve a dargli la
percezione della vastità e della varietà d’un mondo, d’una cultura, d’un oriz-
zonte, di una storia ai quali non appartiene ma con i quali può confrontarsi e
dialogare. È il territorio ideale nel quale affondano le radici della propria iden-
tità professionale. Può usare il “teatro di carta” come una bibbia alla quale
obbedire in maniera cieca ed ortodossa. Sarà soltanto un pedante e un imita-
tore. Oppure può trovare il modo di bruciarlo.
Quando pensiamo a libri che bruciano abbiamo un riflesso condizionato
negativo. L’immagine evoca epoche di oscurantismo e di violenza: i roghi di
libri organizzati dagli inquisitori, dai missionari che pretendevano di imporre
a tutti la propria verità, dai nazisti.
Ma i libri possono bruciare anche in altro modo: ardendo. Allora le
fiamme non indicano una distruzione, ma un mutamento, uno scambio di

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La conquista della differenza 201

energia che serve alla vita, un processo di metabolismo. Per questo, Artaud
pose l’immagine di libri che si consumavano ardendo nel preambolo al Teatro
e il suo doppio. Parlava di pagine che si distruggevano mentre le loro parole
essenziali si libravano fuori di loro e al di sopra di loro, nutrendo liberamente
lo spirito.
Penso alle pagine che “Máscara” ha pubblicato in questi dieci anni, al sa-
pere professionale che ha trasmesso, ai maestri dei quali ha riconosciuto
l’esperienza, all’alternarsi di immagini suggestive e meticolose indicazioni
tecniche. La mia mente vola via, dal tuo Messico alla Norvegia dove fondai
l’Odin Teatret 35 anni fa, il tempo d’una vita. La prima cosa che feci, fu creare,
accanto al lavoro pratico, una rivista che fin dal titolo diceva il suo interesse
non per le notizie d’attualità, ma per quella continuità del sapere teatrale,
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anche quello più lontano nel tempo e nello spazio, per “le teorie e le tecniche
del teatro”. Nella tua lingua, quest’unione di teoria e tecnica potrebbe tradursi
con la parola “Escenologia” che sta nel sottotitolo di “Máscara”. Noi, 35 anni
fa, eravamo un gruppetto invisibile e marginale nel contesto dei teatri. Per noi
la Storia, la presenza del passato, il dialogo o il rifiuto d’una tradizione non era
un lusso, ma un’esigenza vitale di cui avevamo bisogno come dell’atmosfera
in cui respirare. Per te e per il contesto nel quale lavori la condizione non è
molto diversa.
Abbiamo scelto una professione che vive d’opere effimere, che mutano
col mutare dei giorni, e presto svaniscono. Per noi è essenziale batterci contro
questa condizione obbligata. È necessario trovare la dimensione della conti-
nuità che leghi in una lunga durata lavori fatti per vivere poco. Senza questa
continuità non c’è cultura, non c’è identità, né ethos né etica.
Esiste la continuità delle grandi tradizioni, che si trasmettono da una ge-
nerazione all’altra attraverso un rapporto pedagogico personalizzato, lungo,
basato sulla scelta reciproca, capace di preservare, nella dialettica di conserva-
zione e mutamento, un patrimonio di forme raffinate attraverso i secoli e i de-
cenni. Ma i nostri teatri, i nostri gruppi, le nostre isole di libertà sono “piccole
tradizioni” che con il tempo possono acquisire una densità e una complessità
equivalente a quella delle grandi tradizioni, anche se appartengono a un pugno
di individui e spariranno con loro. Accanto all’azione che ci definisce, che è
presenza, e che tanto meno ha bisogno di parole quanto più è evidente ed in-
tera, abbiamo bisogno della scrittura, che è solo l’ombra dell’esperienza, un
insieme di orme senza corpo, ma che ci permette di proiettarci nel passato e
verso il futuro.
L’intera civiltà teatrale occidentale ha garantito al teatro una lunga durata,
tramite la scrittura. Tanto che il teatro, la sua storia, si è a lungo identificato

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202 Eugenio Barba

con l’insieme dei testi drammatici. Attraverso il ponte dei testi drammatici
tramandatici dalle biblioteche, il teatro d’oggi poteva spingere all’indietro lo
sguardo fino all’Atene del V secolo, alla Londra di Shakespeare, alla Castiglia
di Lope, alla Parigi di Molière, alla Venezia di Goldoni, di Gozzi e della Com-
media dell’Arte, alla Germania di Faust e di Brecht, alla Scandinavia di Ibsen,
alla Russia di Cechov. Gli scrittori scrivevano per gli attori. Solo quando era
incarnata dagli attori la letteratura dei testi saltava dalla pagina alla vita. Ma
poi erano i testi scritti a sopravvivere ed a saldarsi in una tradizione.
Oggi, ci piaccia o no, la letteratura drammatica non è più la spina dorsale
della pratica teatrale. Questo vuol dire che la vita teatrale non dispone più del
respiro della lunga durata? Vuol dire che la sua memoria è divenuta breve?
Alcuni anni fa, Richard Schechner valutò proprio questo rischio. Parlò della
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nuova civiltà teatrale, dove lo spettacolo si scrive sulla scena e non sulla pa-
gina, come d’una civiltà che rischia la perdita di memoria. Senza un “teatro di
carta”, il teatro vivo è minacciato, non solo perché gli manca la memoria del
passato, ma perché è il senso d’una comunità nel futuro che viene meno.
Il “teatro di carta” non può più essere fatto esclusivamente di drammi,
esso consiste di storie. Queste storie da un lato tramandano un repertorio del
sapere, ma dall’altro hanno una funzione profonda non dissimile da quella dei
drammi che gli autori proponevano agli attori: forniscono modelli, esempi,
semi e nodi per l’invenzione d’una presenza efficace del teatro nella società e
nella vita degli individui. Modelli che diventano vivi solo se qualcuno sa come,
secondo quali tecniche, quando, dove e perché farli bruciare. E “Máscara” ce
lo ricorda.

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NON APPARTENERE AL MONDO IN CUI VIVIAMO*

Holstebro, 19 aprile 2000


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Cari amici della rivista “Conjunto”,


L’ Università di Copenaghen mi ha sorpreso conferendomi il Premio Son-
ning la cui risuonanza in Scandinavia è prestigiosa anche perché è accompa-
gnato da 500.000 corone, circa 70.000 Euro.
Per convenzione e comodità i premi sono ad personam. Ma noi tutti sap-
piamo che dietro ogni nome si cela una rete di relazioni, una storia di vincoli
artistici, culturali e umani che nel suo insieme costituiscono un organismo
unitario e complesso che vive e si definisce a traverso le differenze. Il vero
creatore, a teatro, è la trama delle relazioni. Non esistono azioni che siano
esclusivamente mie. Solo gli errori ci appartengono completamente.
L’Università di Copenaghen assegna il Premio Sonning a una personalità
che ha dato un impulso significativo alla cultura europea. Lo considero un ri-
conoscimento a una carriera i cui risultati sono sorti dal rifiuto, dai sogni, dagli
sforzi, dalla tenacità e disciplina di quel gruppetto di individui di diversi paesi
che sono l’Odin Teatret.
Il Premio Sonning è la conferma del valore del lavoro dell’Odin Teatret e
di tutti quei teatri di gruppo che nella nostra epoca hanno saputo incarnare un
nuovo senso della nostra professione, inventando un sapere tecnico e un’iden-
tità artigianale che è impegno contro ogni limite alla libertà e alla dignità del-
l’essere umano. Questo teatro di gruppo non è composto solo di attori, registi,
scrittori, tecnici, scenografi. Anche gli intellettuali ne sono una parte vitale. Su
loro ricade la responsabilità di descrivere, diffondere e spargere i semi della
conoscenza di un teatro che vuole essere un mestiere di ribellione.

* Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo a cura di Lluís Masgrau, Fondo Editorial
Casa de las Américas, L’Avana 2002.

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204 Eugenio Barba

Anche se il Premio Sonning sembra tener presente solo la cultura europea,


al conferirlo l’Università di Copenaghen ha ricordato un contesto culturale più
vasto. Ha segnalato i ponti che l’Odin Teatret ha costruido verso i teatri asiatici,
e indicato il nostro permanente contatto con l’America Latina. Senza di loro,
l’Odin Teatret non esisterebbe: le sue fonti spirituali si sarebbero esaurite.
L’Odin Teatret ringrazia per il premio che ci da onore e denaro. Però è
nostro desiderio accettare solo l’onore. Desideriamo che le 500.000 corone
vengano divise tra Holstebro, la cittadina dove viviamo, Cuba, un’isola tanto
amata da noi, e il pastore protestante danese Leif Borch Hansen. Un terzo
della somma andrà a un’associazione di cittadini che raccoglie fondi per co-
struire un club per giovani a Tirana in Albania. Un altro terzo l’Odin Teatret si
compiace di offrirlo alla rivista “Conjunto” come segno della nostra gratitu-
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dine per aver documentato la lotta e il coraggio del teatro latinoamericano che
tanto ha significato nella mia vita e nel destino dell’Odin Teatret. L’ultima
parte della somma va a un individuo che, vera Antigone contemporanea, non
ha seguito la legge dello stato, ma quella della propria coscienza ed è stato
processato per nascondere immigranti illegali che dovevano essere espulsi.
Il teatro è spesso una diaspora. A volte alcune delle nostre opere sono ba-
ciate e accarezzate dalle nuvole, sembrano belle e vengono acclamate. Però
quello che le rende vive e le da valore e senso è la loro capacità di opporsi a
un’epoca di indifferenza e costrizioni, nutrendo il paradosso che ci permette di
non appartenere al mondo in cui viviamo.
Per questo il premio è anche per voi, amici e compagni del teatro di Cuba.
Il vostro lavoro e la vostra presenza dimostrano che il nostro mestiere può es-
sere più che un lusso. Rallegriamoci, festeggiamo insieme e continuiamo. Il
cammino ci aspetta.
Con affetto
Eugenio Barba

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LETTERA DA PORT-BOU*

Holstebro, 15 settiembre 1996


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Caro Fabrizio,

Port-Bou è quel paesetto spagnolo alla frontiera con la Francia dove


Walter Benjamin, in fuga dal nazismo, si suicidò. Vi sono passato di recente
per visitare la sua tomba al cimitero. In un lampo, mi sono ricordato che non
poteva essere lì: era ebreo e per di più suicida.
Il cimitero è collocato stupendamente, in alto, su una costa rocciosa che si
sporge su un cielo e su un mare di azzurro. A una cinquantina di metri, degli
spessi e corrosi lastroni di ferro conficcati verticalmente nella terra si ergevano
come entrata di un buco– galleria. Era un tunnel totalmente laminato di lastre
di ferro, quelle che rivestono le corazzate e i carri armati, squamosi di ruggine
per la salsedine e il tempo. Degli scalini, anche essi di ferro, portavano giù fino
al mare.
Ho cominciato a scenderli e la mia immagine mi è venuta incontro. Ve-
devo chiaramente l’acqua verde-blu e insieme vedevo me stesso che si avvici-
nava. I miei sandali risuonavano sui gradini metallici. La sensazione di solen-
nità e mistero rimaneva imperturbata anche se consapevole dell’artifizio che
rimandava il mio riflesso: una parete trasparente tra me e il mare. L’ammira-
zione per il monumento di Dora Keverian al cabalista marxista non interferiva
con la mia emozione. Alla fine, la mia immagine su un vetro leggermente
opaco ha fermato la mia discesa. Sul vetro, in tedesco, spagnolo, francese e
inglese era inciso a caratteri maiuscoli:

* Lettera a Fabrizio Cruciani, storico del teatro e redattore della rivista “Teatro e
Storia”, Roma. Pubblicato in “Teatro e Storia” n. 18, 1996.

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206 Eugenio Barba

È COMPITO BEN PIÙ ARDUO ONORARE LA MEMORIA DELLE PERSONE


SENZA NOME CHE NON DELLE PERSONE CELEBRI. LA COSTRUZIONE
STORICA È CONSACRATA ALLA MEMORIA DI COLORO CHE NON HANNO
NOME. WALTER BENJAMIN

Caro Fabrizio, allora ti ho pensato fortemente e insieme al tuo volto ho


rivisto quello di tutti i tuoi compagni di “Teatro e Storia” e ho ricordato l’alle-
gria e la competenza di voi tutti quanto vi accanite a questo compito. Mi piace-
rebbe che “Teatro e Storia” incidesse, orgogliosamente, la frase di Benjamin
con lettere maiuscole e di fuoco sul suo frontespizio.
Mi piacerebbe anche incontrarvi a Port- Bou. Lì la Morte ha il nostro
volto e ci segnala dal mare mentre noi con ammirazione ed emozione sprofon-
diamo nei meandri metallici del nostro tempo.
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Un caro abbraccio
Eugenio

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LLANEZA Y VAIVÉN*

Holstebro, luglio 2001


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Fu l’amore a farci incontrare, nel 1971, quando arrivasti a Holstebro dal


Festival di Nancy e il tuo gruppo presentò tre diversi spettacoli. A quel tempo
si chiamava Casa del Teatro e ribolliva di fervore politico e ardore grotow-
skiano. Era il primo gruppo latino-americano che l’Odin Teatret accoglieva
grazie all’incontrollabile passione di un giovane critico danese per una delle
tue attrici. Mi telefonò da Nancy e la foga dei suoi argomenti, che io scambiai
per giudizio oggettivo, mi travolse.
Ci rivedemmo nel 1976 al Festival di Caracas, in quella turbolenta situa-
zione quando, per protesta contro l’organizzatore, l’Odin Teatret occupò la
sala senza presentare il suo spettacolo, e voi della Candelaria, insieme ad altri
gruppi latino-americani, vi uniste a noi in segno di solidarietà. Nel 1983 du-
rante i due mesi di soggiorno che il Teatro Taller de Colombia aveva preparato
per noi, accoglieste il nostro Ceneri di Brecht nel vostro teatro nel barrio della
Candelaria. Con gli anni gli incontri si sono fatti più frequenti, le conversa-
zioni più disarmate ed ironiche, i legami più profondi ed emotivi.
Nelle nostre isole di libertà – nei nostri teatri – le azioni aspirano a essere
limpide, ma la storia che vince attorno a noi è triste o tremenda. Allora viene
voglia di gridare. E la voce si fa confusa.
Ci concentriamo sul piccolo pezzo di terra che possiamo coltivare. L’in-
differenza, i malintesi, la banalizzazione circostanti sono talmente forti che a
volte, per reazione, la nostra voce si fa solenne e si alza, se encumbra.
La tua figura, caro Santiago, è un monito vivente contro la solennità e
contro le grida, sia pure giuste e giustificabili. È una questione di gusto e di

* Lettera a Santiago García, direttore e regista del Teatro della Candelaria di Bogotà,
per i suoi 70 anni. Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo, a cura di Lluís Masgrau, Fondo
Editorial Casa de las Américas, L’Avana 2002.

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208 Eugenio Barba

giudizio: la voce che grida o che si fa solenne perde la luce della llaneza, della
semplicità.
Ti vedo ad un banchetto in tuo onore, mentre l’oratore parla di te, snoc-
ciola le lodi che ti sei meritato, definisce il tuo ruolo storico nella storia del
teatro, si commuove e diventa enfatico. Tu, allora, lanci da sotto i baffi, a bassa
voce, l’esortazione che Cervantes mette in bocca a maese Pedro, burattinaio
ed ex-galeotto: Llaneza, muchacho: no te encumbres.
Ho spesso immaginato di sentirtela pronunciare, questa frase, anche ora,
quando con commozione, assieme ad altri amici e compaesani del “paese del
teatro”, ti scrivo per celebrare i 35 anni della Candelaria.
Ti ricordi quando, par una simile occasione, ci visitasti a Holstebro,
all’inizio d’ottobre del 1994? L’Odin Teatret festeggiava i suoi trent’anni di
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lavoro – spettacoli, dimostrazioni tecniche, improvvisazioni e discorsi. Non


c’era solennità, ma una regola: non entrare con le scarpe nella zona del pavi-
mento riservata alle azioni degli attori, un’umile pratica seguita in particolare
dai nostri ospiti asiatici. Assumeva fatalmente anche un valore simbolico, in-
dicando che lì, da quella linea in poi, lo spazio diventava speciale. Tu, entrando
in quello spazio, le scarpe non te le sei tolte. Ti sembrava un gesto eccessivo,
che trasformava il teatro in una moschea? Oppure volevi dare un semplice
esempio di come, nella pratica d’un artista, le regole funzionino sia per il dritto
che per il rovescio?
Julian Beck spesso sottolineava il valore del teatro come pratica di co-
struire rituali che poi si possono distruggere con un gesto leggero. Abbiamo
bisogno di rituali, ma come strumenti. Essi, invece, rischiano di trasformarsi
velocemente in comandamenti che ci fanno servi. Il teatro è un buon antidoto,
sia contro l’assenza di rituali che contro il loro abuso. La razionalità del teatro
consiste proprio in questa pratica dei contrari, nel mostrare una faccia e il suo
rovescio. È una razionalità drammatica. La llaneza è la sua condizione.
Tu non vivi nel mondo del welfare e non hai bisogno di sottolineare la
drammaticità. Sei entrato nello spazio speciale con le tue scarpe leggere e hai
cominciato a parlare. Ti avevo chiesto di rispondere pubblicamente alla do-
manda “Perché faccio teatro?”. Parlasti del modo in cui Don Quijote spiega a
Sancho le ragioni del suo amore per Dulcinea. Indicasti il passo preciso, il ca-
pitolo 25 della prima parte del romanzo. Cominciasti facendoci ridere. Poi hai
tirato la lenza della riflessione.
Precisione, ironia, llaneza. E profondità. Le parole encumbradas sono la
negazione della profondità.
Avevo dato a quell’incontro per i trent’anni dell’Odin Teatret il titolo
“Tradizione e fondatori di tradizioni”. Era, forse, un titolo “encumbrado” se

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La conquista della differenza 209

applicato a coloro, fra noi, che sono riusciti a far navigare i loro teatri per
trent’anni e più? Tu affermasti che toglieva solennità al concetto di “tradi-
zione”. Ti sei rivolto a Sanjukta Panigrahi spiegandole quanto fosse confor-
tante, per te che venivi da un paese dove il teatro sembrava “senza tradizioni”,
sentire che lei era stata definita fondatrice della tradizione della danza Odissi,
proprio lei che veniva dall’India, dove tutto sembra spesso muoversi – dicesti
– “non sul terreno, ma sotto il controllo della tradizione”.
L’Odin Teatret aveva invitato a Holstebro le persone incontrate nel corso
degli anni qua le là per il mondo, e che sentivamo nostri “compaesani”. Per-
sone fra loro molto diverse, accomunate dal fatto di annettere al teatro un va-
lore che trascende l’intrattenimento e persino l’estetica. Il miglior modo di
celebrare il compleanno era di offrire agli amici, ai miei compagni ed a me
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stesso la possibilità di riflettere sul valore delle nostre scelte, sul senso della
perseveranza, assieme a maestri come Kazuo Ohno, Judith Malina, Sanjukta
Panigrahi e te. Jerzy Grotowski era presente con il suo giovane collaboratore
Thomas Richards, come rappresentante d’una tradizione coerentemente ca-
pace di saltare dove nessuno se l’aspettava. Dario Fo, che a Holstebro è di
casa, questa volta non era potuto venire ed aveva inviato un messaggio. Ma se
Dario Fo avesse parlato, che cosa avrebbe detto della “tradizione” e della sua
“invenzione”? Probabilmente avrebbe spiegato come a lui non interessino le
tradizioni sotterranee, ma quelle sotterrate dai vincitori che scrivono la storia.
Fra noi, partigiani dell’ostinazione, si sarebbe trovato bene.
Abbiamo molti anni di lavoro e molti disincanti alle spalle, ma ci siamo
mantenuti ostinati, malgrado il mutare dello spirito del tempo. C’è un’ostina-
zione sorda, che si affida alle corazze delle proprie convinzioni, e finisce col
fracassarsi contro i mulini a vento. E c’è l’ostinazione della corsa e del drib-
bling, che si denuda, getta via le parole più care, coltiva dubbi su di sè per
mantenere il contatto con le proprie radici.
L’ostinazione che si nutre del suo contrario è il vero baluardo contro il
fanatismo. Il cinismo, lo scetticismo e la rinuncia a prendere posizione sono
antidoti apparenti. Anche loro finiscono per raggiungere il fanatismo per la via
inversa, circumnavigando la responsabilità e il rischio della libertà.
Mentre parlavi, mi sorprendevo a pensare che avevi quasi settant’anni, e
che l’esperienza, con il suo intreccio di soddisfazioni e delusioni, invece di
stancarti, o di irrigidirti, aveva acuminato la tua capacità di non accontentarti
mai di quel che appare certo. Eppure sei intransigente. Una vocina, nell’angolo
sinistro del mio cervello, continuava a ripetermi: “Così doveva essere Brecht”.
Un Brecht che il karma aveva fatto reincarnare in Colombia e che invece di
utilizzare la maschera del saggio cinese, si era posta quella del contadino co-

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210 Eugenio Barba

lombiano. Però queste maschere ragionevoli e scettiche servivano per proteg-


gere il fuoco del non conformismo.
Le doti che servono a guidare un teatro ed a conservarlo indipendente,
l’intransigenza, la coerenza e la continuità nel tempo, debbono nutrirsi del
proprio contrario. Lo stesso vale anche per la quarta delle doti necessarie, il
senso di humour. Il tuo gusto per l’ironia e per l’allusione, così lontano dagli
stereotipi attribuiti ai latino-americani, erano segni della tua arte dell’ostina-
zione come dribbling.
Perché continuavi a fare teatro? Non affrontavi la domanda direttamente.
Ci raccontavi di un contadino di 108 anni, che avevi visto alla televisione in
Colombia, poco prima di partire. Gli avevano messo un microfono davanti alla
bocca e gli avevano chiesto qual era il segreto per raggiungere la sua venera-
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bile età. Lui era restato tranquillo, con gli occhi vivaci aveva scrutato la camera
che lo riprendeva, e aveva a lungo taciuto.
Mi chiedo perché insista a ricordare quell’incontro dell’ottobre ’94. Forse
perché anche in quel caso, come ora, si trattava di un compleanno. Oppure
perché fu in quell’occasione che diversi fili si annodarono, come quando in
uno spettacolo la logica drammaturgica comincia a parlare da sé, liberandosi
dalle nostre briglie e dettando lei la strada. Ci siamo incontrati molte volte.
Ogni volta era un filo che si tendeva fra noi. Ma in quel giorno d’ottobre i fili
si annodarono.
Kazuo Ohno ci mostrò alcuni sprazzi della sua danza più famosa, che rie-
voca la danzatrice “Argentina”, un mito per il teatro e la danza novecentesca.
Questo personaggio femminile con il passar degli anni era ringiovanito,
mentre il maestro che l’aveva creata e continuava a danzarla, invecchiava e si
faceva sempre più trasparente. Lei, il personaggio, era cresciuta secondo una
logica paradossale, invertendo il vettore tempo. Da giovane donna si era fatta
adolescente, da adolescente era cresciuta fino a diventare una bambina che
senza neppure guardarsi allo specchio, sogna il suo futuro.
Poi Sanjukta Panigrahi e il vegliardo Kazuo Ohno improvvisarono as-
sieme una danza. Sembrò che l’idea stessa della vecchiaia volasse via dalla
sala, sostituita da qualcosa di simile alla luce o alla resistenza dei cristalli.
Kazuo Ohno aveva allora 88 anni. Oggi si avvicina ai 100. Sanjukta Panigrahi,
quarant’anni più giovane del maestro giapponese, dalla presenza impetuosa e
fulminante, morì poco meno di due anni dopo. Nelle ultime settimane di vita,
aveva perso la sua lunga treccia nera a causa della chemioterapia. Il suo corpo
fu bruciato su un catafalco fra i fiori, in mezzo alla folla, nella città dov’era
considerata principessa e regina. I suoi capelli e le sue ceneri furono dispersi

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La conquista della differenza 211

in mare. Provo dolore, ma non nostalgia, quando penso a Sanjukta. È presente,


è una parte della mia patria.
Mi vedo seduto fra Kazuo Ohno e Sanjukta, mentre ascolto le tue parole,
avvolto nel continuo parlottio dell’interprete che le traduce in giapponese
all’orecchio di Kazuo, traducendole dall’inglese in cui Julia Varley, l’attrice
dell’Odin, traduce il tuo spagnolo. Eppure non è una Torre di Babele. Mi sento
nella mia patria, dove la diversità delle lingue unisce, invece che allontanare.
Le traduzioni si intrecciano, si intersecano, a volte sembrano persino dialo-
gare, formano un andirivieni, un vaivèn di pensieri. Dopo un poco, nessuno si
rende più conto che stiamo parlando lingue diverse. Una Torre di Babele a ro-
vescio: ecco una buona definizione del teatro.
La contrada che il paese del teatro abita e coltiva non è costituito da terra,
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è un andirivieni di relazioni. Una patria che non consiste in nient’altro che in


una costellazione di persone, differenze che si cercano, che spesso si inten-
dono non malgrado, ma tramite l’intendersi a rovescio, specchiandosi l’una
nell’altra. Questa non-terra può svanire in un momento come nebbia al sole,
come un miraggio. Eppure è solida. E soprattutto, nessuno la può calpestare.
La possibilità di creare un’intesa attraverso visioni discordanti o rove-
sciate all’inizio era per me una necessità da emigrante. Con il tempo è divenuta
una scelta che ho cercato di tradurre in tecnica e drammaturgia. Il teatro, che
in gioventù era una professione difficile da conoscere e conquistare, continua
ad affascinarmi come artigianato dei legami paradossali e liberi fra gli attori e
il regista, fra l’ensemble che fa lo spettacolo e gli spettatori che lo osservano.
Intuisco che sta qui, aldilà delle metafore, il seme del teatro come isola di li-
bertà. Questa libertà ci sgomenta e può persino farci paura, perché è anche li-
bertà dalle certezze, come un vuoto d’aria durante il volo. Il vuoto di certezze,
quando si riesce a renderlo evidente ai sensi, ci obbliga a reagire con l’intero
organismo e ci spinge ad una presa di posizione e ad una scelta personale.
Un mio amico, commentando uno dei nostri spettacoli, una volta mi ha
scritto “Tu privi lo spettatore di uno dei piaceri che ciascuno di noi, anche
senza rendersene conto, cerca a teatro. Parlo del piacere di sapere che quel che
lui vede e capisce, coincide con ciò che vede e capisce colui che gli siede ac-
canto”. Credo che avesse ragione. La mancanza di libertà a volte è un piacere.
È un riposo. A cominciare dalle catene invisibili che abbiamo in testa, che ci
vincolano ad una visione e ad un metro di giudizio unilaterale, e opprimono le
azioni col peso del loro acclamato significato.
Amo il teatro che sottrae lo spettatore dal suo riposo, che gli toglie la terra
di sotto i piedi. Il mio teatro è molto diverso dal tuo. Ma non credo che sia
profondamente diverso.

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212 Eugenio Barba

Tu intanto continuavi a parlare del capitolo 25 della prima parte del Qui-
jote. È il momento in cui il caballero andante spiega al suo scudiero che le
azioni fingidas e contrahechas che s’è deciso a compiere “no son de burla,
sino de vera”, che non sono semplici menzogne. È Quijote che parla. Ma eri
anche tu, Santiago. Avrebbero potuto essere Stanislavskij, Brecht, Mejer-
chol’d, Decroux o Grotowski. Non è questa la quintessenza del sapere teatrale?
E non è ciò che permette alla pratica teatrale d’essere rivolta senza divenire
violenza? Eversione che si nutre del suo contrario.
Il Quijote non è mai stato fra i miei libri-guida. Il mio Cervantes è Witold
Gombrowicz. Ma in quel momento, l’intrecciarsi delle traduzioni, e l’andiri-
vieni dei pensieri mi davano l’illusione che diverse voci, provenienti da tempi
e uomini diversi, parlassero, con parole dissimili, di questioni simili. La tua
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voce fisicamente presente, e le presenze dei maestri assenti si mischiavano a


quella di Don Quijote che spiegava a Sancho come l’apparente quotidianità
delle cose e delle azioni umane sia solo una crosta, un maligno incantesimo,
che soffoca la vita che le pervade sotto la certezza del loro significato.
Tutto questo è anche scienza e tecnica. Nella mia lingua di lavoro lo tra-
duco: estrarre il comportamento extra-quotidiano dell’attore dal comporta-
mento quotidiano. È di questo che mi occupo da anni, cercando il bios, il
flusso di vita pre-espressivo al fondo delle azioni degli attori. È a questo che
abbiamo a lungo lavorato, Sanjukta ed io, cercando di liberare questo bios in-
capsulato nelle forme trasmesse dalla tradizione.
Ma cosa cerco attraverso questa scienza e questa tecnica? Forse la libertà
di vivere contemporaneamente in due mondi.
Mi rendo conto che questa lettera rischia di assomigliare ad un soliloquio.
Invece è un dialogo. Perché guardandoci l’un l’altro come in uno specchio,
osservandoci come se fossimo l’uno il rovescio dell’altro, arriviamo a conclu-
sioni che nessuno dei due, forse, avrebbe osato considerare come proprie.
Il mondo comincia ad oscillare negli occhi di chi intuisce scintille di vita
sotto le croste delle cose e delle azioni umane. Vedere il mondo secondo due
visioni differenti e contemporanee, significa vivere in due mondi, come Crazy
Horse, che era un capo visionario e sapeva essere un astuto e freddo stratega, o
come il caballero andante, che però fu una vittima. I valori per i quali ci consu-
miamo sono per la maggioranza che ci circonda parole vuote, sciocchezze.
Fino a che punto dobbiamo spiegare, spiegarci? Dobbiamo tenere gli occhi
ben aperti, per non divenire vittime della nostra differenza. Ma – e questo è il
più difficile – dobbiamo sognare per non essere vittime della nostra chiaroveg-
genza.

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La conquista della differenza 213

Mi guardo attorno, vedo te, il teatro della Candelaria, ma anche i com-


pagni peruviani degli Yuyachkani, l’Osmego Dnia polacco, il Teatro Tascabile
di Bergamo e il Teatro Potlach, il Teatro Nucleo, argentino e italiano, Ariane
Mnouchkine ed il Théâtre du Soleil, tutti quei gruppi che in Europa e in Ame-
rica Latina continuano a fare teatro insieme da 20, 25, 30, 35, 40 anni. Penso
all’Odin Teatret, con il quale sono in questo momento in tourné, otto mesi in
giro, quattro mesi a casa. Ci chiamavano teatro “giovane” quando abbiamo
raggiunto per la prima volta una certa fama. Ora alcuni di noi sono nonni, i più
“giovani” sono quarantenni. Alcuni critici, stanchi, dicono che facciamo un
teatro “già visto”. Ma quel che un tempo videro era già il nostro teatro. Con-
tinua ad essere nostro.
Intanto i nostri nomi e quelli dei nostri teatri, caro Santiago, sono entrati
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nei libri e nelle enciclopedie. Siamo personaggi di cui si legge, e persone del
“teatro andante”. Ancora una volta, mio malgrado, mi trovo accanto l’ombra
di Don Quijote che persisteva ad arrancare su Rocinante mentre la gente leg-
geva le sue avventure trasformate in romanzo. Sono giochi di specchi che ral-
legrano lo scorrere del tempo. È impossibile non provare fierezza, pensando
alla resistenza dei nostri gruppi. Non ci siamo lasciati chiudere nell’età “gio-
vane”. Né ci siamo accontentati del ruolo di utopisti. L’utopia abbiamo dimo-
strato che si poteva realizzare.
“Llaneza, no te encumbres”… Non ti lascerò il tempo di ripeterla, la frase
di Cervantes e del titerero maese Pedro. Non penso affatto alla solennità dei
nomi e delle teorie. Penso proprio al suo contrario. Vorrei raccontare la storia
dei teatri che sono diventati isole viaggianti come una storia anonima, a metà
fra pícaros e caballeros. Mi piacerebbe raccontarla lasciando cadere le parole
che ci hanno definito e caratterizzato, abbandonando le nostre teorie come le
lucertole lasciano la coda fra le unghie del gatto cacciatore. Immagino che
questa storia anonima, finendo nelle mani di giovani che ancora non cono-
sciamo, parlerebbe con la voce profonda dei racconti che sfuggono al controllo
di chi li ha composti. Il che vuol dire che la morale della favola sta lì davanti ai
nostri occhi, ma non la sappiamo decifrare.
La domanda che avevo rivolto a te, è a me stesso che ora si rivolge. Perché
faccio teatro, perché continuo? E soprattutto: che cosa cerco? Non so più di
chi sia la voce, la tua o la mia, che, non rispondendo, risponde.
Quasi settantenne, in quell’inizio d’ottobre del ’94, ben piantato sulle tue
scarpe leggere, con le mani raccolte l’una nell’altra, raccontavi il valore del
teatro, e non ne parlavi. Giravi in tondo, a spirale. Al centro si cominciava ad
intravedere qualcosa di trasparente, di muto e insieme di eloquente. Noi della
Candelaria, dicesti, se facessimo teatro per ragioni politiche, avremmo smesso

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214 Eugenio Barba

di farlo. Se lo facessimo per risolvere i nostri problemi di sussistenza, non lo


faremmo più. Perché dunque lo facciamo? Dicesti: “por la razón de la sin-
razón”. E qui entra in scena il caballero andante. Sa che non ha ragioni per
spiegare perché ami Dulcinea. Sa che non è vero che la ama perché è una
principessa. Lui rovescia il paradigma, e tu spiegasti con la chiarezza d’un
rabbino il meccanismo del rovesciamento. Non è la ragione a spiegare il fatto,
ma il fatto a costituire la ragione: “por lo que yo quiero a Dulcinea del Toboso,
tanto val como la más alta princesa de la tierra”.
Il teatro non “lo faccio perché lo amo”, ma “lo amo perché lo faccio”. E
soprattutto “lo amo per il modo di come lo faccio”.
“Faccio” è un verbo che nel pronunciarlo assomiglia a un respiro. La lla-
neza può divenire limpida e labirintica come un koan. Ci sembrò di vederlo
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quel contadino colombiano di 108 anni di cui ci avevi parlato. Come aveva
fatto a conquistare una tale longevità? Tacque a lungo. Dieci, venti secondi
sono lunghissimi in televisione. Poi rivelò il segreto: “Respirando, respirando,
respirando”.
Parole sue. Parole tue. Parole nostre.
Per i 30 anni della Candelaria, un abbraccio fraterno.

Eugenio Barba

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FABBRICANTI DI OMBRE

CONVERSAZIONE NOTTURNA CON ATAHUALPA DEL CIOPPO*


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Si chiamava Capitain Matamore, era un antico attore talmente magro,


racconta Théophile Gautier, che la sua figura sembrava composta dall’unione
di due profili. Era l’ombra di se stesso. Morì in piedi per il gelo, appoggiato a
un albero. All’alba, sul paesaggio coperto di ghiaccio e di neve, sembrava
un’ombra nera, il monumento a tutti quei fabbricanti d’ombre che sono gli ar-
tigiani del teatro.
Americo Atahualpa del Cioppo era alto, magro, dinoccolato, non faceva
l’attore (“troppo timido, troppo impacciato”, diceva), ma se l’avesse fatto sa-
rebbe stato un perfetto Capitano dell’antica Commedia dell’Arte. Un Quijote
nato in Uruguay? Non credo. Contro i mulini a vento non combatteva. Si op-
pose a nemici molto più pericolosi per lui e per il mondo. Non fu un vincitore.
Non fu neppure uno sconfitto. Non era così esageratamente magro da sem-
brare l’unione di due profili. Ma fu un buon fabbricante di ombre. Anche di se
stesso ha fatto un’ombra.
Parlo di ombre molto particolari: ombre indelebili.
*
Ho incontrato Atahualpa varie volte, e ogni volta ero colpito dalla lumino-
sità del suo viso che da ad alcuni anziani l’aspetto dell’innocenza, di una sorta
di infanzia saggia. Anche Julian Beck era così nei suoi ultimi anni. Mi chiedo
cos’è che determina questa luce sul viso di persone che hanno sperato e lottato
per un mondo più giusto – e che non l’hanno visto.

* Pubblicato per la prima volta in Arar el cielo, a cura di Lluís Masgrau, Fondo Edito-
rial Casa de las Américas, L’Avana 2002.

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216 Eugenio Barba

Come è possibile che non tengano una smorfia di sarcasmo sulla bocca?
Sono degli illusi? Per loro la fede è più forte della verità? L’ingenuità più
consistente dell’esperienza? O sanno che in ultima istanza l’illusione più peri-
colosa è la disillusione?
Il coraggio, l’intelligenza, l’allegria imperterrita, la fedeltà alle proprie
idee e ai propri sogni, il senso di giustizia, la volontà di rivolta, il disgusto per
la mediocrità del male e il piacere per i lumi della ragione, l’acutezza analitica
e il fervore della speranza non bastano. Sono doni effímeri.
Quando con gli anni la nostra vita comincia a declinare, anche il mondo
che ci circonda corre il rischio di decadere e di svelarci il suo volto arido.
Atahualpa non si piegò alla tentazione della vecchiaia, non si arrese a quello
che sembra evidente e non perse la fiducia nell’azione.
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Eludere l’illusione della disillusione sembra un gioco di parole, Invece è


il paradosso dell’azione: il mondo più giusto perisce proprio nel momento in
cui perdiamo l’ostinazione di pensarlo attivamente. In poche parole: è questa
ostinazione.
Ma che cosa vuol dire un mundo più giusto? Non è forse un ossimoro, una
contraddizione in termini altrettanto forte dell’idea di un’ombra indelebile? E
non è forse vero che un mondo più giusto è l’ombra di un mondo che non c’è,
che non c’è mai stato e non ci sarà?

*
Nel 1984, Atahualpa Del Cioppo compiva 80 anni. La rivista “Escénica”
dell’Univesidad Nacional Autonoma di Messico, gli dedicò gran parte del suo
numero di luglio. L’articolo di apertura era del noto regista messicano Lluis de
Tavira. Tre punti mi colpirono particolarmente. Mi irritavano e nello stesso
tempo facevano risuonare qualcosa che sentivo appartenere ai miei valori.
Eppure mi parevano eccessivamente ingenui, e risvegliavano il mio lato scet-
tico e irridente, quella parte di me che era divenuta adulta negli anni trascorsi
in Polonia, dove gli ideali e l’ottimismo sul futuro d’un mondo più giusto
erano messi a dura prova.
L’articolo cominciava così: “El viejo de nombre legendario, que nació
con el siglo, nos describe el paciente itinerario del retorno del sueño a la rea-
lidad, por virtud del teatro”. Aggiungeva: “A diferencia de la ruta de Cal-
derón, al revés, el trabajo teatral de Atahualpa nos testimonia el esforzado
arribo entre naufragios de una América de ficción al puerto de la historia”.
Erano davvero facilmente ottimistiche e ingenue le parole di Lluis de Ta-
vira? Oppure la loro semplicità era enigmatica? Sintetizzava un’idea di

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La conquista della differenza 217

Atahualpa, secondo il quale il teatro poteva materializzare le immagini del-


l’America sognata da Artigas, Bolivar, Morelos e Martí. Ma è davvero questo
il modo di trasportare il sogno alla realtà? Oppure è un sogno ancor più illu-
sorio, perché oggettivato e reso collettivo?
Lluis de Tavira ci faceva ascoltare il suono di un campanello d’allarme, e
subito dopo lasciava che fosse sovrastato dalla musica per la festa di comple-
anno. Quel compleanno ottuagenario, il 1984, era anche l’anno scelto da
George Orwell per ambientare e intitolare uno dei romanzi più chiaroveggenti,
disillusi e profetici del XX secolo: “Hoy, 1984, de funestos presagios orwellia-
nos, el viejo Atahualpa parece más optimista que nunca porque presiente y
siente tener a la historia de su lado”. E su che cosa si fondava questa strana
certezza che i fatti della storia contemporanea, in realtà, contraddicevano?
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Perché mai Atahualpa avrebbe dovuto presentire e sentire di tener a la historia


de su lado? La risposta era oltremodo banale: “Quizá casi por la simple razón
de saberse sobreviviente de tanta persecución, asesinato y masacre”.
Qui – ricordo – mi venne voglia di gettar via quell’articolo e l’intera ri-
vista. Com’era possibile ridurre un tema tanto grande e terribile alla piccola
soddisfazione individuale di raggiungere gli ottant’anni di vita? Com’è possi-
bile mettere su un piatto della bilancia la ferocia del XX secolo e sull’altro
piatto la gioia d’uno che da quella ferocia è scampato indenne? Qual è la pro-
porzione?
È vero che Atahualpa non si piegò alla tentazione della vecchiaia. Avrebbe
per questo dovuto piegarsi all’ottimismo sulla storia, cioè alla più penosa delle
bugie? Avrebbe dovuto spruzzare la sua soddisfazione per una vita coraggiosa
sull’intero panorama circostante, quasi benedicendola con lo champagne dei
suoi ottant’anni? Avrebbe dovuto, cioè, perdere il senso della storia? L’affer-
mazione di Lluis de Tavira mi parve tanto incredibilmente superficiale da in-
stillarmi persino il dubbio che nascondesse qualcosa di profondo.
Nonostante tutto, proseguii la lettura. L’articolo era sintetico e interes-
sante. L’autore metteva in rilievo la connessione fra la piccola storia di
Atahualpa, la sua biografia, ed alcuni punti di svolta tragici e drammatici della
Grande Storia. Mostrava Americo del Cioppo giovinetto a Canelones, il suo
paese natale, a circa 40 km da Montevideo, il giorno in cui assistette al pas-
saggio del treno presidenziale di Baltazar Brun. Nel quadro seguente mostrava
lo stesso Americo all’inizio del 1933, quando aveva già assunto il nome di
Atahualpa, era un ex-campione di calcio, impiegato di banca, ma soprattutto
poeta e intellettuale impegnato nella lotta politica. Siamo nei giorni del colpo
di stato di Gabriel Terra. Baltazar Brun, costretto a dimettersi, scende in

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218 Eugenio Barba

piazza, grida “Viva la República!”, “Viva la Democrazia!” e si spara un colpo


di pistola. Atahualpa dirà: “Ese tiro me lo dieron en la conciencia”.
In poche pagine, Lluis de Tavira creava molti nodi. Poneva il teatro di
Atahualpa a diretto contatto con il mondo. Dal contrasto fioriva una gioia al-
larmata. “Facevamo Brecht prima di conoscerlo”, ha detto una volta Atahualpa
parlando dei suoi primi anni come regista, quando metteva in scena Miller,
Odet, Ibsen, Hochwalder ed Usigli. La somiglianza con Brecht non si fondava
sulle scelte di stile, sull’estetica e neppure sull’ideologia, ma su un atteggia-
mento preliminare, una fratellanza di spirito: la volontà di non lasciarsi oscu-
rare dai tempi bui.
Gli spettacoli di Atahualpa non sono mai stati demoralizzati, erano diver-
tenti, vitali, pieni di denunce e di speranze. Una gioia dei sensi e della mente:
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“come per un vino vecchio ed una nuova idea”, diceva Brecht tramite Galileo
Galilei. Quella gioia dei sensi e della mente, quella vitalità mai disperata aveva
però una coscienza, e nel fondo di quella coscienza c’era un colpo di pistola,
l’immagine di un uomo giusto che si uccide al centro d’una piazza in tumulto.
Un mito.
Il modo in cui Lluis de Tavira annodava il teatro di Atahualpa alle tragedie
del proprio tempo e del proprio paese lo sentivo vero. Ma poi c’erano quegli
scoppi di ottimismo che non comprendevo, che mi parevano illogici e mi spin-
gevano a prendere le distanze. Ma sembrava anche che volessero dirmi qual-
cosa. Mi resi conto che in realtà parlavano del modo di rendere indelebili le
ombre.
Atahualpa compiva ottant’anni, io ero alla soglia dei cinquanta. In quegli
anni ero spesso visitato dall’immagine di Antigone. Antigone era stata a lungo,
per il mio adulto scetticismo “polacco”, quasi il contrario di un mito: un’apo-
logo sull’inefficacia. Quel suo simbolico pugno di terra sul cadavere del fra-
tello era un inutile modo di opporsi al tiranno. Perché non pugnalarlo, quel ti-
ranno? Era come se Antigone, l’eroina del rifiuto che però non tenta la
rivoluzione, fosse continuamente processata dal primo e dal secondo Bruto,
l’uccisore del re etrusco di Roma e l’uccisore di Giulio Cesare. Opporsi alla
legge ingiusta divrebbe essere un atto di lotta politica. Antigone era invece il
simbolo d’un rifiuto praticato con mezzi volutamente inefficaci: una contrad-
dizione in termini, un’ingenuità, il sentimento al posto della lotta. Antigone
m’appariva come l’emblema dell’eroina sentimentale, solo in parte riscattata
dalla sua cieca testardaggine e, suo malgrado, da una morte feroce. Pensavo
persino di metterla in scena, questa visione sferzante della mitica eroina. Ma a
questo punto sentivo il monito dell’altra voce, che fra me e me chiamo la voce
non-adulta. Questa voce mi diceva di no. Antigone era molto più della sua ap-

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La conquista della differenza 219

parente inefficacia. Cominciai a rendermi conto che lei, con l’insieme delle
sue azioni e delle sue disobbedienze, non aveva lottato, ma aveva fabbricato
un’ombra. Era un’ombra, non un esempio. Ma un’ombra che non passa, che
non svanisce come i fantasmi ogni volta che canta il gallo. Un’ombra che si
proiettava aldilà della cultura che aveva tramandato la sua storia e il suo mito,
e che nessuno riusciva a raschiare via dai muri delle nostre coscienze.
Alla fine dell’articolo, Lluis de Tavira collegava il tradizionale noma-
dismo dei teatri ai viaggi ed all’esilio di Atahualpa, elencava le 18 città latino-
americane in cui aveva seminato lavoro e regie. Gli attori ambulanti, diceva
l’autore, erano “portadores de cultura de un sitio a otro. Inquietantes mensa-
jeros de la diferencia”.
Ho sottolineato mentalmente inquietantes, non diferencia. La differenza,
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in sè, non è un valore. È una condizione. Può essere una condizione di inferio-
rità, o una fase che prelude all’integrazione, oppure una segregazione scelta o
patita. Diventa feconda diventando inquietante. Normalmente, i corpi estranei,
coloro che qualifichiamo come “differenti”, generano indifferenza, vengono
rimossi ai margine della nostra mente e delle nostre società. Oppure vengono
sentiti come minacciosi, generano ostilità. In seguito, quando non fanno più
paura, quando sono non solo stranieri ed estranei, ma vinti, diventano museo e
spettacolo, acquistano il fascino dell’esotico.
Il teatro è fuori da questa logica. Può essere una differenza vezzeggiata,
sovvenzionata, o anche soltanto tollerata. Può essere una differenza che si ac-
contenta di sé. Oppure può divenire la pratica di una dissidenza che riesce in-
sieme ad affascinare, a farsi rispettare, ed a mostrarsi irriducibile. È inquietante
perché non si adegua alle regole della lotta. Lottare con essa sarebbe come
lottare con un’ombra, che più l’afferri più ti sfugge di mano. Anzi: diventa la
tua mano.
La lotta prevede che vi sia un vincitore e un vinto, oppure – come terza
pericolante possibilità – un armistizio, una tregua. Ma alla fin fine la lotta
tende ad eliminare il problema, la contraddizione, tende al trionfo del-
l’omogeneità e dell’integrazione. Completamente diverso è il trasmettersi di
un’ombra indelebile, la scintilla di un punto di domanda che buca la compat-
tezza dello spirito del tempo. In questo caso non si tratta di essere vinti o vin-
citori. Si tratta di preservare una presenza che non si adegua e che non finisce
nelle sabbie mobili dell’indifferenza circostante. La differenza inquietante
vince non quando riesce a prevalere, ma quanto più riesce a preservare la pro-
pria presenza e la capacità di trasmettere al futuro il segno della propria disap-
partenenza. Non è possibile non stare in questo mondo. Ma è possibile non

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220 Eugenio Barba

appartenergli. Ed è importante preservare la testimonianza e la trasmissione


che la dissidenza in pratica è possibile ed operosa.
Era questo che in realtà voleva dirmi quella frase tanto apparentemente
ingenua. Sì, poteva davvero essere giusto e sensato che Atahualpa si sentisse
conciliato con il mondo, con il futuro, “casi por la simple razón de saberse
sobreviviente de tanta persecución, asesinato y masacre”.

*
La prima regia per il teatro El Galpón – il gruppo di teatro più longevo del
mondo – Atahualpa la fece compiendo i cinquant’anni a Montevideo, nel
1954. Mise in scena un dramma storico di Fritz Hochwalder, un testo contem-
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poraneo che si ricollegava alla tradizione di Schiller.


Hochwalder era un operaio austriaco educato attraverso i corsi di teatro
popolare, e aveva abbandonato la terra natale quando la Storia vi fece irruzione
e l’Austria divenne nazista. Da quel momento visse in Svizzera. Il titolo spa-
gnolo del dramma – Así en la tierra como en el cielo – attinto da versetto della
più importante preghiera cristiana, riproduceva il titolo francese del dramma
di Hochwälder. Il titolo originale, però, era Das heilige Experiment – l’esperi-
mento santo. Veniva rappresentata la notte che precedette la decisione di porre
fine a quelle missioni, un vero e proprio Stato, che i gesuiti avevano creato in
Paraguay e che portoghesi e spagnoli distrussero a metà del Settecento, con il
permesso del Papa. Uno Stato fondato sull’eguaglianza, sulla difesa contro la
schiavitù e sugli ideali cristiani. O meglio: sulla teocrazia. Non credo, infatti,
che le reducciónes del Paraguay fossero quel mondo giusto che è poi divenuto
leggenda. Certo, però, furono una difesa contro l’orrore circostante. Voltaire
diceva che i gesuiti amministravano un territorio più vasto della Francia con le
regole con cui si organizza un convento. Potremmo chiederci che cosa sarebbe
successo se quel santo esperimento non fosse stato soffocato nel sangue dai
suoi nemici. L’esperienza purtroppo insegna che quando si cerca di realizzare
in terra un regno che incarni un ideale celeste tutto alla fine si rovescia e dalla
libertà cresce la tirannia, dall’indipendenza il fanatismo e dalla ricerca della
felicità l’orrore.
Questi pensieri e queste domande si agitavano nel fondo del dramma di
Hochwalder. Fu rappresentato per la prima volta nel marzo del 1943, nell’oasi
svizzera, mentre tutt’intorno imperversava la guerra, i tedeschi occupavano la
Francia, le città erano bombardate, e a Stalingrado l’invasore era appena stato
fermato. Nel dopoguerra fu un dramma rappresentato in tutto il mondo. Quella
che in seguito è stata chiamata “guerra fredda” non era soltanto l’ostilità fra

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La conquista della differenza 221

due blocchi, ma la contrapposizione fra due diversi modi di sognare il mondo


e il suo futuro. Il primo pensava che il progresso potesse risultare dalla com-
plementarità degli interessi e dei mercati, dall’energia e dalla razionalità del-
l’espansione capitalistica, attraverso la pratica delle democrazie. Il secondo
pensava che fosse possibile materializzare in maniera scientifica l’utopia e che
fosse persino giusto, per prepararne le condizioni, rinunciare pro tempore alla
libertà. Il primo condannava la distruzione e la violenza. In realtà le occultava,
le disseminava in una rete di vasi capillari grande quanto il pianeta, o in atti di
forza che presentava come necessarie rimedi in situazioni estreme. Il secondo
predicava il mito della Rivoluzione.
Atahualpa mise in scena Así en la tierra como en el cielo nell’anno in cui
a Caracas si tiene la Conferenza interamericana contro l’espansione del comu-
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nismo, l’anno in cui Getulio Vargas a Rio sarà costretto al suicidio dai militari
brasiliani, e in Paraguay un colpo di Stato porterà alla dittatura Alfredo Stroes-
sner. Ognuno di questi colpi rafforzava, dalla parte opposta, la speranza d’un
riscatto, ogni notte faceva pensare ad un’alba più giusta, come se la Storia
avesse una sua moralità.
La domanda fondamentale che si muoveva sullo sfondo di Así en la tierra
como en el cielo avrebbe potuto formularsi in questo modo: un mondo più
giusto è davvero dalla storia che possiamo aspettarcelo?
È la domanda che Atahualpa non smise di porsi lungo tutta la sua vita,
cercando di evitare che le risposte potessero trasformarsi in un veleno depri-
mente per le coscienze. È la domanda che non possiamo non porci noi, che ci
inoltriamo perplessi verso il Duemila.
*
Il prestigio di certi colori e di certe parole è caduto – i colori delle ban-
diere; il rosso; gli slogan; parole come Popolo, Patria, Progresso, Storia. Molti
simboli sono ormai tarlati e nella soffitta del Novecento vi sono alcuni sacchi
di speranze andate a male.
Non accade lo stesso con i miti. I miti sono ombre indelebili. Nutrono i
piccoli mondi. Dal grande mondo sono usciti una volta per tutte.
Viviamo in due mondi. Il Piccolo mondo è l’ambiente in cui stiamo, il
tessuto delle nostre relazioni, il paesaggio che ci appartiene e che noi possiamo
adattare ai nostri bisogni. Ci sono valli, isole, montagne, oasi, nel Grande
mondo, che effettivamente riescono a resistere agli alisei di sopraffazioni e
distruzioni che chiamiamo Storia. I Piccoli mondi possono essere, a volte,
luoghi in cui coltivare l’eccezione, ma la regola del Grande mondo non è mai
stata degna della parola “giustizia”. Alcuni pensarono che il Grande mondo

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222 Eugenio Barba

potesse essere rovesciato e riorganizzato sul modello dei più giusti fra i Piccoli
mondi. Altri pensano, al contrario, che fra il Piccolo mondo e il Grande mondo
ci sia un salto di dimensione, il passaggio da un piano logico ad un altro. Co-
sicché quel che nel Piccolo mondo è fecondo, quel che può vivere e trasmet-
tersi, non appena passa nelle dimensioni del Grande mondo rischia di trasfor-
marsi nel suo contrario, fallimento o violenza.
Nel Grande mondo, è appena finito un millennio. È stato il millennio
delle rivoluzioni. Dal Cristianesimo al Comunismo, il programma di rove-
sciare le regole del Grande mondo ha illuminato la terra e l’ha incendiata,. La
luce è spesso tornata a risplendere, e altrettanto spesso si è trasformata in te-
nebra profonda. Il mondo più giusto è stato spesso intravisto, perché nessuno
l’ha visto realizzato. Esistono, allora, soltanto due vie, l’illusione o il cinismo?
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Che cosa indica l’espressione mondo più giusto, una linea d’orizzonte che si
allontana ad ogni passo che ci avvicina ad essa?
A tutte queste domande non so rispondere. Né so credere alle risposte che
gli altri tentano di darmi. In questo mare ciascuno naviga da solo, con la sua
intelligenza ed il suo cuore – e non esistono bussole. So che certe piccole valli
possono essere difese e che al loro interno si possono creare piccoli mondi in
cui vivere sembri più giusto. So che il teatro ha permesso e permette di abitare,
fortificare e difendere alcune di queste valli. Ma se uno mi chiedesse: “dunque,
a che cosa credi?”, gli risponderei che credo nell’ostinazione. Credo che
l’ostinazione rappresenti il mondo più giusto in noi, non un sogno, ma qual-
cosa di concreto, di corporeo, che appartiene a quel corpo del pensiero che
sono le nostre azioni.
L’ostinazione è il restare in piedi. Il restare contro. È l’ombra che riesce a
restare indelebile, a non annegare fra la penombra del mondo-così-com’è, e la
luce abbacinante delle illusioni. È il sorriso di animale inquieto, volpe e bam-
bino, del vecchio Atahualpa.

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FIGLI DELLO STESSO PARADOSSO*

Holstebro, 11 agosto 2004


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Caro José Luis,

certe amicizie sono la scoperta improvvisa di un’affinità preesistente e


oggettiva. Ce ne siamo resi conto a Valladolid quando nel 1995 ci incontrammo
in occasione della tournée di Kaosmos, lo spettacolo dell’Odin Teatret. Si rese
evidente una consanguineità fra le nostre storie, segnate dal bisogno di stac-
carci dalle terre natali e di ritornarvi da stranieri; dall’essere disadattati al
teatro così come esso si configura nello spirito del nostro tempo; dall’incontro
con Grotowski, maestro di paradossi che non erano giochi di idee, ma diventa-
vano sfide personali che trasformavano i nostri destini.
Il paradosso fondamentale di Grotowski potrebbe definirsi così: fare del
teatro un luogo per la ricerca dell’identità, ma passando attraverso la pratica
dello sradicamento. Un luogo e un tempo per l’incontro attraverso l’esercizio
della differenza e della solitudine. Un’esperienza collettiva fondata sulla de-
mistificazione dei miti della collettività, dell’unanimità, dell’unione comune.
Lui lo materializzò a suo modo. Io, facendo rotta verso gli antipodi. Tu, con
una rotta ancora diversa. Ma siamo tutti figli dello stesso paradosso.
Erigiamo case, dedichiamo tempo, intelligenza e denaro per renderle
corrispondenti ai nostri valori, per renderle solide contro gli urti delle circo-
stanze. Ma le erigiamo e le rafforziamo perché in esse non vogliamo rinchiu-
derci. Vogliamo case che ci servano a viaggiare all’incontro degli altri. Che
siano tende di un oasi. Le amiamo. Le consideriamo essenziali per la sopravvi-

* Lettera a José Luís Gómez, attore, regista e direttore del Teatro La Abadía a Madrid.
Pubblicata in Nada es cómo es, sino cómo se recuerda. Teatro de la Abadía 1995-2005, Madrid
2004.

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224 Eugenio Barba

venza del nostro lavoro e delle relazioni umane che attraverso di esse intrec-
ciamo. Ma il deserto resta il nostro territorio.
La casa che tu hai creato a Madrid, il Teatro dell’Abadía, la considero uno
dei luoghi che sono miei, che sono stati approntati anche per me. Quando
l’Odin Teatret viaggia, tu lo sai, porta con sé non solo spettacoli e bagagli. È
accompagnato dall’ingombrante e rinfrescante presenza dei suoi fantasmi, dei
suoi morti, dei suoi ideali taciti, difficili da tradurre in parole, impossibili da
dimenticare. Così, se non incontriamo fratelli nel paradosso, diventiamo
spesso ospiti ingombranti.
La tua Abadía ha saputo accogliere la carovana dell’Odin, l’ha sostenuta e
protetta. Quel che ci lega, non sono le parentele dei fantasmi, le concordanze
delle teorie, ma un eguale bisogno di mantenere in vita sogni apparentemente
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impossibili. Sogni ad occhi aperti, che ci impediscano di addormentarci nel-


l’acquiescenza e il compiacimento.
Fai bene a raccogliere pagine per celebrare i primi 10 anni di vita della tua
Abadía, a coltivarne la storia e la memoria. I libri spesso sonnecchiano nelle
biblioteche, in paziente attesa della polvere e del fuoco. Ma le loro pagine
possono divenire stelle di carta per orientare altri viaggi, itinerari diversi dai
nostri, ma sotto lo stesso cielo.
Così – come facevamo da bambini, quando ci sentivamo prigionieri dei
banchi e della scuola, e qualcuno scriveva una pagina, e poi la piegava e ripie-
gava per farne una piccola freccia di carta con cui fendere la disciplina del-
l’aula verso un amico o ad un’amica lontana – anch’io ora ti mando questa
lettera, assieme ai miei compagni. Non siamo affatto bambini. Siamo viaggia-
tori stanchi. Anche tu, immagino, spesso ti senti stanco. Eppure duriamo. Ciò
che veramente dura non sono le nostre forze. È la testardaggine con cui rifiu-
tiamo a noi stessi il diritto di giustificare la nostra giustificata stanchezza.
Viaggia ancora a lungo con la tua Abadía, caro amico José Luis.

Eugenio

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RICORDANDO IL RE FREDERIK V*

Holstebro, 11 giugno 2010


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Gentile Signor Ministro Frédéric Mitterand,


ci vogliono secoli per costruire una reputazione e pochi giorni per ridurla
in cenere. In tutto il mondo, nell’immaginazione e nella realtà della gente, la
Francia è un paese che ha ispirato innumerevoli artisti, offerto loro asilo e in-
coraggiato le loro visioni, permettendo di scoprire imprevedibili cammini arti-
stici e di tutelare l’essenza delle loro tradizioni.
Da molti anni il Théâtre du Lierre di Parigi, diretto da Farid Paya, è rico-
nosciuto per la sua coerenza artistica e per l’accoglienza ad artisti e compagnie
straniere, dando loro l’opportunità di condividere gli spettacoli con gli spetta-
tori francesi. Il mio Odin Teatret danese è stato uno degli ospiti del Théâtre du
Lierre e ha una conoscenza di prima mano del suo livello artistico e delle sua
efficacia. Per questo, il mio sbalordimento e dispiacere sono grandi venendo a
sapere che il Théâtre du Lierre non è più sovvenzionato dal suo Ministero.
I problemi che il suo paese sta affrontando sono giganteschi e quindi la
mia petizione per il Théâtre du Lierre può apparire ridicola.
Benché io sia un fervente repubblicano come immagino sia anche lei,
vorrei però ricordare il re Frederik VI di Danimarca. Nel 1806 durante il suo
regno, a causa delle guerre napoleoniche la Danimarca ebbe un tracollo finan-
ziario e la popolazione dovette sottomettersi a restrizioni economiche oppres-
sive. Quando il primo ministro chiese al re se lo Stato dovesse sospendere
l’appoggio agli artisti, Frederik VI rispose: “Siamo diventati poveri, ma questo
non vuol dire che dobbiamo diventare stupidi”.

* Lettera a Frédéric Mitterand, Ministro della Cultura di Francia: nella primavera 2010
aveva tolto ogni sovvenzione al Théâtre du Lierre di Parigi.

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226 Eugenio Barba

La storia e la cultura della Francia sono motivo di orgoglio per noi gente
di teatro che lottiamo contro i nazionalismi e i pregiudizi del nostro tempo. Un
leader, Monarca, Presidente della Repubblica o semplicemente Ministro, deve
avere la libertà e il coraggio di prendere decisioni dolorose. Tuttavia vale la
pena ricordare l’esempio di quel re danese oggi dimenticato.
Invio a lei e ai collaboratori del Suo Ministero i miei fervidi auguri per il
suo paese i cui artisti sono stati fonte di ispirazione per me e i miei attori.
Sinceri saluti

Eugenio Barba
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PAESAGGI PRIMA DELLA BATTAGLIA
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LO SPAZIO PARADOSSALE DEL TEATRO
NELLE SOCIETÀ MULTICULTURALI*
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Diciamo che una società è multiculturale e abbiamo l’impressione di non


esprimere un giudizio, ma di sottolineare solo la pluralità delle sue compo-
nenti. In realtà indichiamo una ambivalenza.
La condizione multiculturale non è mai sentita come neutra, ma come una
minaccia o un valore. È una minaccia quand’è imposta da circostanze econo-
miche e sociali che sfuggono al controllo dei singoli individui. È considerata,
al contrario, un valore quando è il risultato d’una scelta. Un gruppo, un fe-
stival, un teatro o un’associazione “multiculturali” o “multietnici” appaiono
positivi già per il modo in cui sono composti, prima ancora di sapere che cosa
producano e come lo producano.
Questo valore fortemente positivo attribuito alla multiculturalità è l’altra
faccia del suo aspetto minaccioso. Dato che la società ci pare divisa e gravida
di lotte intestine, le oasi di pacifica convivenza fra gruppi ed individui di cul-
ture differenti ci paiono isole fortunate ed esemplari.
Il termine multiculturale, oggi, non definisce tanto una società con gruppi
differenti, ma una realtà dove le differenze sono difficili.
Le differenze diventano difficili quando tendono verso due modi speculari
di distruzione: per omogeneizzazione o per reciproco rigetto.
Omogeneizzazione e rigetto non sono due opposte alternative. Riguar-
dano piuttosto due differenti livelli della cultura. Ad un’omogeneizzazione
superficiale (le stesse fogge del vestire, gli stessi divi e dive, gli stessi standard
di informazione, gli stessi spettacoli, gli stessi cibi) corrisponde un profondo
bisogno di scendere verso i fondamenti della propria specificità e della propria
etnia, per non lasciarsi sopraffare dalla confusione multiculturale circostante.

* Pubblicato per la prima volta in “Politiken”, Copenaghen 1996.

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230 Eugenio Barba

Il nostro secolo finisce rassegnato fra squilibri economici che sradicano


multitudini di individui dai loro contesti poveri, spingendoli verso le economie
floride e legalizzando il sopruso. La fine delle rigide contrapposizioni ideolo-
giche è accompagnata da sommovimenti che fino a pochi anni fa avremmo
giudicato arcaici, da guerre etniche e di religione, da catene di massacri.
Il fatto che (quasi) nessuno parli più di socialismo o di ideali comunisti
non vuol dire che sia diminuita la miseria e l’ingiustizia. Vuol dire solo che è
diminuita la speranza.
In questo panorama, si può forse sperare che il teatro continui ad avere un
suo spazio?

*
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In una società dalle differenze difficili, il teatro diventa uno spazio para-
dossale.
In senso stretto, un paradosso non è un’opinione bizzarra, ma un pensiero
coerente che parte da principi diversi da quelli su cui si basano l’opinione co-
mune o le teorie prevalenti. Il paradosso, pur non essendo confutabile, non
prevale: non vince, ma non viene sconfitto. Penso a tutto questo, quando parlo
d’uno spazio paradossale del teatro.
I luoghi comuni del teatro, nella cultura europea, sono stati per secoli al
centro delle città. I teatri erano il luogo, il simbolo ed il monumento dell’unità
della cultura nazionale, cittadina o di classe. Nel XIX secolo le loro facciate
assomigliavano a quelle degli altri templi della civiltà borghese, il Museo e la
Borsa. Fuori da questi luoghi comuni riconosciuti e rispettati, sorsero altri
spazi teatrali, divergenti o in opposizione: teatri d’arte, teatri liberi, d’avan-
guardia, studi, piccoli teatri, théâtres de poche, ateliers, workshops, talleres,
laboratori, teatri off e off-off. Il loro dialogo polemico con i luoghi comuni del
teatro fu la fertilità della cultura teatrale del XX secolo.
A1 di fuori di questi due spazi complementari, sorse poi un “terzo teatro”.
Con il mio gruppo, l’Odin Teatret, sono in giro per il mondo otto mesi
all’anno. Solo una piccolissima porzione di questo tempo la passiamo ospiti
di teatri ricchi e rispettati. La maggior parte del tempo viaggiamo negli spazi
del terzo teatro. Dappertutto trovo degli ambienti composti da minoranze mo-
tivate: persone assetate che cercano azione e trascendenza attraverso il teatro.
La parola trascendenza sembra filosofica o religiosa. Per me indica qual-
cosa senza dottrina, che ha a che fare con i valori che guidano l’operato mo-
desto e preciso dell’artigiano. Penso all’apparente solitudine degli artigiani
anarchici che avevano combattuto per la libertà della Catalogna incontrati da

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La conquista della differenza 231

Hans Magnus Enzeneberger nei paesi dell’esilio, capaci di conservare la di-


gnità e il senso della propria rivolta attraverso anonimi mestieri.
C’è molto teatro trascendente, oggi, nella nostra società multiculturale.
Rispetto ai periodi in cui il teatro rinomato sembrava il solo punto di riferi-
mento, c’è oggi una moltitudinè di teatri attivi nelle regioni dove sono pro-
fonde le ferite sociali: nelle carceri, negli ospedali, nelle comunità degli emi-
granti, tra gli emarginati. Cioè quasi sempre fuori dai territori di quella cultura
particolare frequentata dal pubblico-di-teatro.
È teatro anonimo e trascendente quel che Susan Sontag è andata a fare a
Sarajevo.
È teatro anonimo e trascendente quel che faceva, prima della celebrità,
Mbongeni Ngema nell’apartheid sudafricano.
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È teatro anonimo e trascendente quello fondato dal gesuita americano


Jack Warner in Honduras, dove i Vangeli, Scapino e il Popol Vuh diventano
emblema di resistenza culturale da parte dei sottomessi.
Lo spazio paradossale del teatro è uno spazio di turbolenza lontano dalle
luci e dall’attenzione degli esperti e dei facitori d’opinione.
Bisogna riflettere su questa contraddizione: i teatri marginali e trascurati
tentano di fondare un nuovo senso e un nuovo valore per una pratica che
sembra destinata a permanere come gloriosa reliquia d’un modello di società
in via di sparizione.

Ho vissuto il teatro come emigrazione. Mi ha permesso di spostarmi


all’interno di società multiculturali senza che la difesa della mia identità mi
trasformasse in qualcuno di identificabile. Il valore del teatro è nella qualità
delle relazioni che crea fra gli individui e fra le diverse voci all’interno di uno
stesso individuo.
Non credo alla comprensione reciproca. Credo nell’interesse degli scambi,
nell’immotivata solidarietà fra esseri diversi che non pretendono di capirsi.
Credo nell’insuperabile separatezza di coloro che agiscono insieme. Unitario e
comune può essere, però, il frutto della loro azione.
Credo nel teatro come rituale vuoto, non perché futile e insensato, ma
perché non usurpato da una dottrina. Qui ciascuno può cavalcare la propria
differenza, può scoprirla, rafforzarla, senza soffocare quella degli altri.
I griots di tutti i paesi e delle diverse epoche, gli attori professionali, artisti
del viaggio e della transizione, sono gli emblemi dei teatri alla soglia del
nuovo millennio. Fino all’inizio del nostro secolo, lo spazio naturale della

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232 Eugenio Barba

gente di teatro è stato quello fluido e derisorio del viaggio, una dimensione in
cui l’identità culturale non era stabilita né dai confini geografici né da quelli
storici, ma dal valore d’un mestiere.
Per secoli, finché il teatro è stato soggetto alla tirannia del dover piacere,
del successo, della censura e del disprezzo sociale, gli attori e le attrici vissero
una vita esiliata, tagliata fuori dai valori più preziosi e rispettati della società
circostante.
Oggi molti scelgono il teatro per salvaguardare quella parte di ciascuno
di noi che vive in esilio.
Questo esilio non è un’amputazione o un’umiliazione. È la conquista
della nostra differenza. O, con altre parole, è azione politica. Diventa una
presa di posizione non sempre dichiarata o consapevole, ma concreta e attiva,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

contro una società che ha paura delle sue molte anime.

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I CENTO VIOLINI DEL GUERRIGLIERO*

Il contastorie
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Amo le moschee del grande architetto turco Kozda Mimar Sinan. Quella di
Damasco la si riconosce dai minareti affusolati che caratterizzano il suo stile.
Non è monumentale, piuttosto graziosa e intima, con una serie di cupole sul
tetto. La Siria è oggi una repubblica laica, così la moschea di Sinan è chiusa, e
il giardino adiacente, trasformato in museo militare, sfoggia differenti aerei da
caccia e cannoni di varie epoche tra alberi, arbusti e fiori. Imperturbabile, il
venerdì a mezzogiorno, una piccola folla fa le sue genuflessioni davanti alle
porte sgangherate della moschea di Sinan, mentre i visitatori del museo passano
attraverso i fedeli in preghiera ed ammirano la potenza delle armi.
Non siamo lontani dal bazar dove troneggia la spettacolare moschea del
califfo omayad Walid, la prima nel mondo arabo. Dietro l’angolo si trova il
caffé al Bazir. È l’unico ritrovo oggi a Damasco dove si possa far conoscenza
dell’antichissima arte dei contastorie, un tempo così numerosi e popolari. Al
modesto costo di una tazza di tè si può ascoltare Rashed Al-Hallak, ogni
giorno – ad eccezione del venerdì – dalle sette alle otto di sera.
All’interno, a ridosso del muro di fondo, si nota una poltrona sopraele-
vata, una sedia-trono di legno dalla pittura scolorita, ma ancora imponente.
Rashed Al-Hallak avrà una sessantina di anni, è grassoccio, veste ampi calzoni
alla turca (quelli cuciti in modo speciale per accogliere il Profeta quando alla
sua prossima rinascita sarà un uomo a partorirlo), camicia bianca, un lungo
gilè a strisce rosse e grigie. In testa porta un fez, come il personaggio del teatro
d’ombra Karagöz. Si arrampica sul suo podio, si accomoda sul suo trono, ha in

* Conferenza all’Incontro “Teatro tra macerie e barricate”, organizzato dal Teatro Pro-
skenion nell’ambito dell’Università del Teatro Eurasiano, Caulonia, Italia, 24 giugno 2003.

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234 Eugenio Barba

mano una spada. Da un colpo per terra ed inizia. Durante il racconto, la spada
riposa di traverso sulle sue gambe, la usa raramente e con parsimonia: la punta
in aria per indicare il cielo, addita degli oggetti o dei cadaveri al suolo, la fa
roteare, la prende a metà della lama. A me personalmente, questo modo incon-
gruo di tenerla e di scuoterla delicatamente evoca il volo di un uccello ad ali
spiegate.
È seduto confortevolmente, il braccio destro riposa sul bracciolo del
trono. Di tanto in tanto lo solleva, vi appoggia di più il peso, si piega legger-
mente in avanti, si sporge verso uno spettatore afferrando con la mano il brac-
ciolo per evitare di cadere.
La mano sinistra tiene uno spesso quaderno con le pagine coperte di una
scrittura calligrafata a mano. Rashed Al-Hallak legge una frase per se, in si-
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lenzio. Quindi la ripete ad alta voce interpretandola. A volte dopo la lettura


silenziosa di una frase, fa una piccola pausa, come se non avesse capito o non
sappia come dirla. A volte legge e racconta senza la minima esitazione, come
se sapesse il testo a memoria. Avviene che Rashed Al-Hallak ripeta l’ultima
parola, come se l’assaporasse o fosse in dubbio se sia quella giusta. Il ritmo
dell’eloquio è trattenuto, pacato, non vi sono accelerazioni ostentate, non
eleva o contraffa la voce, gli effetti vocali sono minuti, le variazioni quasi ine-
sistenti, appena una melodiosità che forse appartiene all’intonazione locale
che ignoro. I gesti che accompagnano il testo sono a volte incongrui: un guer-
riero muore e il contastorie fa il gesto di scacciare una mosca. Chi è là, grida, e
la mano punta verso il libro che sta leggendo.
Però il flusso, cioè l’intreccio di diversi ritmi e la loro manipolazione si-
multanea, è raffinatissimo: brevi pause per concentrarsi sul testo, lo sguardo
verso il basso sul quaderno, quindi gli occhi guardano con decisione una parte
precisa del caffè, come se il testo fosse diretto ad uno spettatore specifico. Il
più delle volte espone la prima metà della frase guardando a sinistra e la se-
conda metà guardando a destra. È una cadenza dinamica con una traiettoria
triangolare: da un punto verso il basso (il quaderno), davanti a sé a sinistra e
quindi a destra, per poi ritornare al punto inferiore. In questa traiettoria rego-
lare inserisce minuscole variazioni: lo sguardo si fissa nel vuoto, o su un punto
sopra la sua testa o negli occhi di uno spettatore vicino. Non vi è nulla di esa-
gerato o vivace in questo modo di agire. Sembra un nonno bonario che rac-
conta una favola al nipotino con l’intenzione condivisa di sorprendere e farsi
sorprendere.
Eppure il contastorie seduto esegue una sapiente danza miniaturizzata va-
riando senza cessa l’atteggiamento, la direzione nello spazio, la tensione della
spina dorsale e il tono muscolare del torso. Improvvisamente Rashed Al-Hallak

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La conquista della differenza 235

impugna la spada e dà un colpo vigoroso sul podio. Roberta, seduta accanto a


me, trasale. Rashed Al-Hallak continua imperterrito. Alcuni minuti più tardi,
nel mezzo della corrente moderata e tranquilla del racconto, riafferra repentina-
mente la spada e prende il sats, l’impulso, per fendere un nemico. Roberta,
sulla sua sedia, fa un salto. Rashed Al-Hallak si ferma e ammicca con una
smorfia ironica. Roberta sorride confusa. Gli altri avventori ridono divertiti.
All’inizio sembravano assorti a bere il loro tè, come se il racconto non li
interessasse. Lentamente viene allo scoperto una stretta relazione di compli-
cità. Rashed Al-Hallak fa una pausa davanti all’ultima parola della frase, come
se stesse per svelare un segreto al pubblico. E uno degli avventori grida la pa-
rola trattenuta. Il contastorie lo guarda come a un bambino sfrontato. Spasso
generale. Altre volte un uomo lo interrompe, inizia un dialogo che ben presto
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coinvolge molti altri. In mezzo a una frase Rashed Al-Hallak si ferma e fa un


cenno al cameriere. Lungo silenzio rotto improvvisamente dal ventilatore che
si mette in moto sopra la sua testa. Il racconto riprende. Gli avventori sono
tutti uomini.
Entrano due donne ed un bambino. Si siedono ad un tavolo ed ordinano
del tè. Il contastorie si interrompe e le guarda fissamente. Dice qualcosa e il
bambino gli si avvicina intimorito. Rashed Al-Hallak tira fuori dalla tasca del
suo gilé una caramella e gliela offre. Nessuno mostra la minima reazione, tutti
sembrano immersi nei loro pensieri. La narrazione riprende. Il cameriere ri-
torna con il tè per le due donne, ma continua e fa finta di versarlo nel bicchiere
d’acqua accanto al contastorie. Battibecco scherzoso tra i due.
Il racconto presenta un episodio della vita del re Bihar ricca di battaglie,
duelli all’ultimo sangue, tradimenti ignobili e morti eroiche. Il finale è dedi-
cato alla bellezza di una schiava. Rashed Al-Hallak descrive ogni parte del
corpo della giovane: le fattezze del viso, il colore della carnagione, la forma
degli occhi, l’esilità della vita, la curva dei fianchi, la finezza dei piedi, la
morbidezza della mani. Ad ogni aggettivo che accompagna la parte anatomica
in questione, l’intero caffè fa coro con un’esclamazione di apprezzamento. La
frase finale, che elogia la magnificenza della folta chioma corvina, si spande
in una prolungata coda sonora, un sospiro di bambini golosi davanti a una torta
di cioccolata.
Alla fine, mi avvicino a Rashed Al-Hallak e chiedo se posso fargli quattro
domande. Perché prende la spada per la lama? Qual è il segreto di un conta-
storie? A quanti anni ha cominciato? Chi era il suo maestro?
Aveva iniziato nel 1990, a quasi cinquant’anni, da solo, senza nessun
maestro. Lavora in un supermercato e ogni sera prende libero due ore per ve-
nire in questo caffè e fare il suo spettacolo. Aveva preso alcune lezioni di di-

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zione da un’attrice libanese. Ignora se esista un segreto per un contastorie. Ha


cominciato perché ne aveva voglia e continua perché gli piace. Non sa spie-
garmi bene perché impugna la spada per la lama.
Mi osserva affabilmente, lo ringrazio, lascio scivolare una banconota
nella sua mano. Mi giro per andarmene, mi richiama. “Hai dimenticato la do-
manda più importante: perché non ho un allievo? Perché sono povero e debbo
guadagnarmi la vita. Tutto va in rovina, anche la nostra arte.”

Macerie e barricate
Eppure in Siria si trova il teatro meglio preservato, nel deserto, a Bosra,
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l’ultima capitale dei Nabatei, alla frontiera con la Giordania. I Romani la con-
quistarono nel primo secolo dopo Cristo e vi costruirono un foro, dei bagni e
anche un teatro di 16.000 posti che diventano il doppio facendo sedere gli
spettatori su ogni gradino. È costruito con pietre basaltiche vulcaniche della
regione, le numerose colonne di marmo furono portate da Atene. Al Adil, fra-
tello di Saladino, trasformò il semidistrutto edificio in deposito militare e lo
protesse costruendo intorno delle mura fortificate con 11 torri. Il teatro di-
venne un castello che seppe difendersi dal tempo, dagli avversari e dai misera-
bili della terra che trafugano le macerie dei teatri, le loro pietre e colonne, per
costruire le proprie casupole.

I cento violini del guerrigliero


È il nostro mare verde, dice Carlos Arroyo che è venuto a prenderci all’ae-
roporto e ci porta a Guanare, a più di un’ora di auto. Siamo nello stato di Por-
tuguesa, nel Venezuela occidentale, la zona dei latifondi e dell’allevamento
del bestiame, con i suoi vaqueros e rodei. L’ondeggiante superficie di verzura
spinge l’orizzonte sempre più lontano. Nel mezzo, una striscia brilla al sole:
l’immenso spiazzo e le autostrade di accesso alla cattedrale di Cocotoco, un
laido edificio di cemento a più piani che accoglie centinaia di migliaia di pel-
legrini da ogni angolo del paese. Prima che gli indigeni sparissero del tutto, la
Vergine apparve a una bambina chiedendole una chiesa. Come a Lourdes o a
Loreto, anche qui avvengono miracoli.
Carlos è tracagnotto e riservato. Figlio di un proprietario terriero, si inna-
morò del teatro. Fu contagiato da questa passione da un maestro, Alberto Ra-
vára, un argentino arrivato in Venezuela nel 1978 in fuga dalla dittatura mili-
tare del suo paese. Alberto iniziò un festival di teatro a Guanare, lo guidò per

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La conquista della differenza 237

tre anni, poi cedette la direzione al giovanissimo Carlos che ne è stato alla sua
testa per venticinque anni. Per celebrare quest’anniversario, ha anche organiz-
zato una tavola rotonda “Elogio dell’incessanza: l’influenza di Eugenio Barba
in America Latina”. Ha invitato critici ed artisti messicani, argentini, cubani,
peruviani e venezuelani che conoscono l’Odin e l’ISTA. Incontro vecchi
amici: Beto Ramirez, attore di Yuyachkani, ora attivo in Venezuela, Bruno
Bert, argentino della leggendaria Comuna Baires, ora regista e critico a Città
del Messico, la coreografa Hersilia Lopez e Eduardo Gil, pioniere del teatro di
gruppo in Venezuela che aveva partecipato alla prima ISTA di Bonn. Per tre
giorni dibatteranno, disquisiranno, commenteranno. Così mi ritrovo due giorni
tutti per me. Non andrò certo ad imbarazzarli con la mia presenza.
Guanare è tranquilla, avvolta da un’atmosfera polverosa di provincia.
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Nulla qui ricorda il vasto sciopero generale ad oltranza dichiarato dall’opposi-


zione contro il presidente Hugo Chavez, e già in atto da tre giorni. A Caracas,
durante il nostro scalo, avevamo dovuto lasciare la macchina ed andare a piedi
alla conferenza stampa al ministero della cultura. Il ministro era assente, bloc-
cato dai dimostranti che invadevano le strade. Anche per raggiungere l’aero-
porto e continuare per Guanare, avevamo seguito un percorso labirintico per
evitare cortei e assembramenti. Ma a Guanare il traffico è tranquillo, i negozi
sono tutti aperti, solo alcuni giovani in piazza, dopo il tramonto, agitano car-
telli e gridano slogan contro il presidente Chavez, chiamandolo populista e
antidemocratico.
Mi alzo tardi e mi domando se mi daranno ancora la colazione. Il risto-
rante è vuoto, i partecipanti sono tutti a lavoro, i camerieri guardano la televi-
sione che ripete le stesse immagini: un cameraman viene allontanato da alcuni
poliziotti, un’intervista con una donna che vomita oltraggi contro il presi-
dente, una famiglia intera, padre, madre e una mezza dozzina di bambini,
bandiere venezuelane in pugno, esprime il suo entusiasmo per lo sciopero e
per la democrazia. Queste tre sequenze, come dei leit motiv, ritornano in
continuazione, inframmezzati dai reportage dai diversi quartieri della capitale
e dalle altre città.
Mi guardo intorno, solo un’altra persona è seduta nella penombra e segue
attento quello che avviene sullo schermo. Ci rivolgiamo un sorriso da com-
plici. Ci ritroviamo a parlare. È Alberto Ravára.
Si era gettato nel teatro giovanissimo, alla fine degli anni sessanta. A
Buenos Aires aveva fondato un gruppo e un’organizzazione culturale, natural-
mente di sinistra. Nel 1974, all’inizio della dittatura militare, si era posto una
domanda difficile: a che serve il teatro? Non certo per abbattere la dittatura.
Passò allora all’illegalità unendosi a un gruppetto armato. Quattro anni dopo,

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238 Eugenio Barba

la maggior parte dei suoi compagni erano stati uccisi, presi, torturati o scom-
parsi. Erano rimasti quattro gatti, incalzati dai militari. Era tempo di lasciare il
paese: prima tappa, il Brasile, poi il Venezuela. A Caracas ritornò alla sua
vecchia passione: regista e scrittore di testi teatrali. Fondò il festival di Gua-
nare e si dedicò ad introdurre molti giovani ad un teatro che non fosse solo
spettacolo. Appoggia il presidente Chavez, lo sciopero è opera della borghesia
frustrata, si domanda se il presidente cederà (ma sarà l’opposizione a cedere
dopo quasi due mesi di sciopero che mette a terra l’economia del Venezuela
costretta perfino ad importare petrolio dal Brasile). “Sei diventato pessimista?”
gli chiedo. “Certe illusioni – mi risponde – non te le possono togliere neanche
gli orrori che vedi con i tuoi propri occhi”. Lo dice a voce bassa, come se
stesse confessando una debolezza o una colpa.
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Nel 1987, al ritorno della democrazia in Argentina, aveva ricevuto l’of-


ferta di ritornare e dirigere il teatro Cervantes a Buenos Aires. Non aveva esi-
tato, aveva venduto tutto, liquidato la sua posizione in Venezuela, ed era rien-
trato in autobus attraverso mezzo continente latino-americano. Tre mesi dopo,
al suo arrivo a Buenos Aires, il partito politico che gli aveva offerto la dire-
zione del teatro, non era più al potere. Si era ritrovato senza lavoro, senza am-
biente, senza via di ritorno. Suo padre, costruttore di violini, gli aveva sugge-
rito di restare e di aiutarlo. Alberto aveva obiettato giudiziosamente: “Ho
quarant’anni e non so farlo”. Il padre aveva scosso la testa: “Sai già qualcosa
– che non sai”.
Alberto apprese dal padre un artigianato che gli assicurò la vita per alcuni
anni. Poi ritornò in Venezuela, a Caracas, ed alla vecchia passione del teatro.
Continua a fare violini, per sé, ne ha più di cento a casa, alcuni comprati, ma
molti li ha costruiti con le proprie mani.
Tutto passa, anche i due giorni della tavola rotonda trascorsi a vedere la
Storia che si dimenava alla televisione e che mi parlava attraverso le parole di
Alberto. Anche per me venne il momento di guadagnarmi il pane con un semi-
nario per registi dalla durata di tre giorni. Al momento di iniziarlo, la porta si
apre ed entra un giovane di 16-17 anni. Ha una cassa di violino in mano e mi
chiede il permesso di partecipare. Glielo concedo, non so se per generosità,
pigrizia, indifferenza, o per quel riflesso che involontariamente attira i vecchi
verso la gioventù. Si chiama Daniel, è russo, è venuto a sette anni, nel 1992,
con il padre Pavel che ha chiesto asilo in Venezuela. Il padre insegnava acro-
bazia alla scuola di circo a Mosca, a Caracas cerca di vivere come pedagogo
teatrale, esperto in biomeccanica e azioni fisiche. Non ha molti studenti ed in-
sieme all’amico Pedro, un attore-pedagogo-regista venezuelano che sa suo-
nare il quatro, arrotonda i guadagni nelle strade: Pavel con la balalajka, il gio-

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La conquista della differenza 239

vanissimo Daniel con il violino e Pedro con il quatro. Alla fine del seminario,
chiedono di poter realizzare un baratto: vogliono ringraziare Julia e me ese-
guendo un piccolo concerto di musica russa.
Il mio ultimo giorno di lavoro era un’esposizione sui principi del-
l’antropologia teatrale. Li presentavo insieme a Julia Varley, Augusto Omolú e
i suoi tre suonatori di tamburo brasiliani. Pregai Daniel di suonare il violino
Così, mi divertii a sorprendere gli spettatori. Durante un’improvvisazione di
Julia e Augusto accompagnata dal ritmo possente dei tamburi, si elevò il vio-
lino di Daniel che li fece gradualmente ammutolire e trasformò materialmente
la qualità dell’energia e il flusso delle azioni dei due attori.
La sera prima della partenza eravamo un piccolo gruppo di amici a cenare
in un ristorante fuori città. Progettavamo di fondare un’associazione per soste-
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nere la pubblicazione di testi letterari e teatrali a Cuba. Le demmo il nome di


Osvaldo Dragún, lo scrittore argentino appena deceduto e caro amico di noi
tutti seduti intorno al tavolo. Accanto a me, Alberto Ravára mi raccontò che
aveva assistito alla dimostrazione del giorno prima e che aveva parlato con
Daniel: “Sai, suonava così bene. L’ho invitato a visitarmi a Caracas e vedere i
miei violini. Penso che gliene regalerò uno migliore del suo, un violino cinese
da quattro soldi”.
Cronica invernale, un testo teatrale di Alberto Ravára, racconta di un ex
guerrigliero che vive solitario tra le macerie dei suoi ideali. Vuole restare an-
cora sulla barricata: rapisce una ragazza della ricca borghesia. Non lo fa per
vendicarsi o per chiedere un riscatto in denaro per una causa che non esiste
più, ma solo per risentire l’effetto dell’adrenalina quando agisce nell’illegalità
contro l’ordine costituito. L’ex guerrigliero vizia la ragazza rapita, le prepara
manicaretti prelibati, le compra vestiti alla moda, è rispettoso, gentile, edu-
cato. La ragazza si innamora del suo rapitore, vuole abbracciare la sua causa,
lottare per le sue idee. Ancora una volta l’ex guerrigliero si dà alla fuga. Ad un
certo momento, Alberto fa dire al suo protagonista: “Costruisci un sogno e in-
seguilo in corsa folle fino a raggiungerlo. Ghermiscilo, e sfascialo senza fretta.
Poi disegna un altro sogno e ancora un altro. Può darsi che questo non sia la
vita reale, però è divertente”.

Piombo
Ho l’impressione di parlare solo di quello che sta alle mie spalle, come se,
da vecchio animale umano, fossi solo passato che cammina su due zampe.
Vorrei finire evocando il futuro, un viaggio che, paziente, aspetta di essere
compiuto. Voglio imbarcarmi su un transatlantico comodo e moderno, in una

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240 Eugenio Barba

cabina di prima classe e godermi la traversata dell’oceano fino al Nuovo


Mondo. Sbarcherò in un grande porto, non mi fermerò, prenderò subito il
treno per Boston. Andrò in un albergo di buona categoria, un’ampia stanza,
bagno con vasca, e finestre verso l’interno per evitare il rumore del traffico.
Quindi mi metterò in cerca di una collinetta fuori città. Sarà difficile trovarla,
perché esisteva esattamente 103 anni fa, e da allora Boston è cambiata e quel
pacifico angolo della natura sarà oggi edifici e asfalto. Ricco di tempo, bighel-
lonerò cercando le strade in salita. Lì sotto, dove il cammino dà l’illusione di
avvicinarsi al cielo, sono sepolti due giapponesi.
Kurando Maruyama aveva 22 anni e Shigeru Mikami, 27 anni. Il 30 aprile
1899 erano salpati da Kobe su una nave diretta a San Francisco. Erano due
onnagata, impersonificatori di ruoli femminili del Kabuki, e facevano parte di
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una troupe di 16 attori, tra cui due bambini. Non erano mai stati fuori del loro
paese, anche se i primi permessi per uscire dal Giappone nel 1866, alla fine
dello shogunato, furono dati proprio ad attori che si recavano in America e in
Inghilterra: ben 29 permessi su 33.
A San Francisco, dopo quattro spettacoli, il loro impresario scompare.
L’albergo dove alloggiano li mette alla porta, mentre i debitori si imposses-
sano dei loro costumi e bagagli. Trovano rifugio, tutti e sedici, nella baracca di
un connazionale, mangiano quello che i compatrioti offrono loro per carità.
Fanno adottare i due bambini da famiglie giapponesi senza figli. Riescono a
dare una settimana di spettacoli e racimolare abbastanza denaro per riscattare
i loro costumi dai creditori. Si imbarcano per Seattle, affittano un teatrino e
danno spettacoli soprattutto per la colonia giapponese. Poi, sempre recitando e
guadagnando di che raggiungere la città o il villaggio seguente, si inoltrano
nell’hinterland americana, allontanandosi da luoghi dove vi sono dei compa-
trioti, loro potenziali spettatori. A volte in treno, più spesso a piedi con i loro
bagagli e i sandali di paglia giapponesi si spostano da città in villaggio dando
spettacoli. Dopo aver attraversato per 89 ore in treno le Montagne Rocciose
arrivano a Chicago, 1.600.000 abitanti, una metropoli dove 13 teatri gigante-
schi presentano spettacoli con più di 300 attori e comparse, cavalli e carrozze,
effetti di luce e di meteorologia con grandinate e piogge scroscianti. Tutti i
teatri sono affittati mesi in avanti, e i 14 giapponesi sono costretti a dormire
nella stanza di una pensioncina, a turno, per non destare l’attenzione del pro-
prietario. Riducono sempre di più la loro porzione di riso, solo una fetta di
pane al giorno. La fame li attanaglia, hanno difficoltà a muoversi, diventano
sempre più fiacchi.
La figlia del direttore del Lyric Theatre, James S. Hutton, è una fanatica
del Giappone, kimono, ninnoli, ceramiche, ventagli e stampe che inondano

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La conquista della differenza 241

l’Europa e Gli Stati Uniti. Davanti a sé si trova dei veri giapponesi in più attori
e obbliga il padre a farglieli vedere, in una matinée domenicale. I giapponesi
hanno appena cinque giorni per inventare lo spettacolo. Indossano i loro vestiti
esotici, si truccano da samurai e geisha, un cartello che annuncia lo spettacolo
e sfilano nel freddo delle strade, tra lo stupore dei passanti. Ma quella dome-
nica, il teatro si riempie. Per la prima volta, da settimane, mangiano a sazietà.
Trovano persino un impresario, Alexander Comstock, che li assume, e li esi-
bisce da città in città. Viaggiano di notte, arrivano all’alba, si precipitano al
teatro, si preparano, danno spettacolo e ripartono.
Dopo alcune settimane di questo programma, all’arrivo a Boston,
all’inizio di dicembre 1899, Kurando Maruyama, il più giovane degli onna-
gata, stramazza per i dolori allo stomaco. All’ospedale i dottori diagnosticano
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uno degli effetti collaterali del lavoro d’onnagata: avvelenamento per piombo,
Per anni aveva coperto il suo viso, collo, schiena, e mani, giorno dopo giorno,
con una pasta bianca ricavata dal piombo. Per mesi aveva eseguito il suo la-
voro senza rivelare le sofferenze, i crampi allo stomaco e la nausea continua.
Usava morfina per lenire il dolore, cicatrici e piaghe coprivano le sue braccia e
l’intero corpo dove aveva iniettato morfina. La troupe debuttò senza di lui.
Una settimana dopo, riuniti intorno al suo capezzale, i suoi compagni lo videro
morire tra le convulsioni. Lo seppellirono sulla cima di una collina fuori della
città, recitando familiari preghiere buddiste e domandandosi, inquieti, dove si
sarebbe aggirata la sua anima in questa terra incomprensibile e sconosciuta.
Neanche un mese dopo, Shigeru Mikami, l’altro onnagata ricevette dalla
moglie la notizia che sarebbe diventato padre. Pazzo di gioia, comprò vestitini,
cappellini, cappottini e scarpette, tutte azzurre, il bambino non poteva essere
che un maschietto. Ma anche Mikami era diventato pallido, aveva capogiri,
perdeva l’equilibrio, soffriva di dolori alla testa e crampi allo stomaco: un’emor-
ragia cerebrale dovuta ad avvelenamento per piombo. Ricoverato in una corsía
d’ospedale, con il letto e il guanciale cosparso di vestitini azzurri, Mikami sus-
surrava: “Chi si prenderà cura di mia madre e del mio fratellino? Voglio vedere
il mio bambino coi vestitini stranieri che gli ho comprato, con questo cappello,
con queste scarpette. Non voglio morire senza vedere il mio bambino”.
Era passata la mezzanotte quando i compagni, alla fine dello spettacolo,
arrivarono all’ospedale e sentirono il suo delirio attenuarsi fino al silenzio. Lo
seppellirono accanto a Murayama, in cima alla collina. La stessa sera, erano
tutti in scena: the show must go on.
Passerà una settimana, due settimane, a Boston io continuerò a cercare la
collinetta. Sicuramente avrò trovato un buon ristorante italiano ed ogni sera mi
consolerò con sapori della mia infanzia. I camerieri americani, loquaci e alla

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242 Eugenio Barba

mano, mi chiederanno se sono turista. No, risponderò, cerco barricate e trovo


solo macerie. Non mi capiranno, anche a causa del mio forte accento. Ride-
remo insieme, hanno capito che sono o una persona importante o una nullità,
per questo voglio rimanere anonimo.
A volte, tra le macerie, si aggirano i fantasmi. Ma di queste compagnie
girovaghe e di questa cultura di attori dell’inizio del 1900, oggi non rimane più
niente, neanche le macerie. Una mutazione antropologica ha prodotto altre
razze di attori. Sono razze così diverse che non hanno niente in comune tra di
loro. A Boston, gli esotici giapponesi recitavano in un teatro a venti metri da
quello in cui si presentavano i famosi Henry Irving e Ellen Terry. Oggi le dif-
ferenti razze di attori vivono in habitat distinti: alcune nelle macerie di tradi-
zioni e abbagli, altre, con queste macerie, costruiscono barricate, anche se non
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vi sono nemici che vogliano assaltarle. L’indifferenza, non il piombo, avve-


lena. L’indifferenza degli altri, e l’indifferenza in noi stessi verso quello che
eravamo, verso quello da cui veniamo, verso quello a cui tendevamo. Un
giorno anche noi sentiremo nausea. Che faremo?

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IL PARADOSSO DEL MARE*

Siglos, armas y el mar que une y separa


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Così pensava Ludovico Ariosto secondo Luis Borges: per fare un vero
libro servono l’Aurora e l’Occidente, secoli, tradizioni, culture – e il paradosso
del mare, abisso invalicabile e via di comunicazione.
Ma perché, fra loro, le armi?
Tutto questo non vale solo per i grandi libri dei quali Borges, il moderno
Tiresia, parlava. Vale anche per le culture, purché non vengano considerate
come universi chiusi da muri metaforici o reali, come monadi che si accostano
l’una all’altra o cozzano drammaticamente. Dietro il sostantivo cultura si na-
sconde un flusso di azioni, diffusioni, travasi e intrecci che convergono o si
ostacolano. L’unità di una cultura è paradossale: mantiene una propria identità
a patto che viva nelle tensioni e nelle metamorfosi.
Torno a domandarmi, perché le armi?
Quando avevo trenta o quarant’anni, quelle armi che nel verso del mo-
derno Tiresia stanno fra i secoli e il mare mi facevano pensare agli eroi del-
l’Orlando furioso o della Chanson de Roland, o a Baldovino, quarto re di Ge-
rusalemme, crociato e lebbroso. E invece, ora che sto per compiere settant’anni,
quello stesso verso non evoca antiche leggende, ma la cronaca quotidiana dei
tempi in cui vivo, ciò di cui scrivono i giornali e che compare nell’eccitata in-
differenza delle televisioni, fra un talk-show e la cronaca d’una partita.

* Discorso in occasione del titolo di Dottore honoris causa conferito dall’Università di


Plymouth, Inghilterra, il 27 ottobre 2005. Pubblicato per la prima volta in “International de
l’imaginaire” n. 20, Parigi, 2005.

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244 Eugenio Barba

Un paese chiamato esilio


Questi tempi non li riconosco come miei. Voglio e posso godere il vento
d’un altro modo di vivere il tempo. Forse è un’illusione. Ma il paese in cui
abito mi permette questa illusione.
Spesso mi sono chiesto se il mio paese possa essere raccontato come un
esempio. O se invece sia solo un’eccezione. Eccezione fa pensare a qualcosa
di eccezionale. Ma è una parola amara, perché sappiamo che l’eccezione, alla
fin fine, conferma la regola a cui si oppone.
Per sfuggire alla retorica e all’amarezza, mi dico: il mio paese può essere
definito un volontario esilio. Il paese in cui abito è il teatro. Ma anche intorno
a questa parola bisogna intendersi.
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Vi sono teatri che rimangono in piedi come case, sopravvivono ai loro


abitanti, e mantengono una propria identità passando di mano in mano.
Vi è poi un’altra identità del teatro, che non si cura di pietre e mattoni. È il
teatro la cui architettura consiste solo di relazioni fra le persone che li com-
pongono. Spariranno con quelle persone. Non possono essere né ereditati né
riempiti di nuovi contenuti. Per me, ad esempio, pensare ad un Odin Teatret
che continui dopo di noi che l’abbiamo fondato e che ora continuiamo a farlo
esistere sarebbe un controsenso come pensare alla persistenza di un pugno
mentre si apre la mano. Sono teatri che consistono nell’intreccio dei sentieri
che aprono i suoi abitanti. Quando questi smettono di andare, anche il loro
teatro cessa d’avere un riconoscibile profilo, un perimetro, una casa.
Abito un paese di questo tipo. È piccolissimo. È vasto. Siamo in tanti,
sparsi sui diversi continenti, lontani, profondamente diversi, stretti da legami
solidi, elastici e fragili, come i fili d’una tela di ragno. A volte, siamo in pochi,
tre, quattro, quindici persone. Altre volte spendiamo tempo, lavoro e denaro, e
allora per due giorni, una settimana, un mese ci raduniamo. Poi torniamo a
separarci, e ognuno torna alla non isolata solitudine che lo definisce.
Il mio paese ha uno spazio paradossale. Vivere l’esilio come una patria è
infatti una contraddizione-in-vita.
È un triste segno dei tempi il fatto che questo tipo di esilio possa assomi-
gliare all’utopia. Ma è un segno dei tempi che si ripete spesso. La professione
teatrale, in tutti i paesi e in tutte le epoche, prima ancora di caratterizzarsi per
il mestiere di produrre immagini e spettacoli, si è caratterizzata come profes-
sione in esilio – o professione dell’esilio.

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La conquista della differenza 245

L’atto di nascita multiculturale


Dall’interno di questa contraddizione-in-vita è molto difficile sentire
come un problema, come una possibile minaccia o come un’urgenza alla quale
far fronte ciò che agita oggi il mondo che ci circonda, l’intreccio e lo scontro
fra culture, il loro disputarsi uno stesso territorio, il continuo mutare dei con-
fini. Il multiculturalismo per il paese del teatro non è un’emergenza attuale. È
qualcosa di ovvio. Fa parte del suo atto di nascita.
Una lunga storia basta a dimostrarlo.
Chi praticava il teatro per mestiere, in Europa come in Asia, ha sempre
vissuto in una condizione straniera, come se fosse di passaggio, e le truppe
degli attori erano formate da persone provenienti da diverse regioni e da diffe-
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renti ceti sociali. Il teatro era straniero nel mondo in cui viveva, fra gli spetta-
tori che gli davano da vivere, innanzi tutto perché contraddiceva i confini e le
gerarchie che mettevano ordine nel mondo circostante. Per questo è stato a
volte una microsocietà separata, discriminata e disprezzata. E per questo è
stato, a volte, un’isola di libertà.
Quando nel Novecento il teatro sembrava destinato a sparire perché ina-
deguato ai tempi ed alle dimensioni della modernità, delle sue metropoli, della
sua nuova economia e dei suoi nuovi spettacoli, la gente del teatro ha praticato
– più per la forza dei fatti che per progetto – una doppia strategia. Da una parte
ha indotto la società circostante a riconoscere la professione scenica come un
bene culturale da proteggere, sganciandola dalle catene del commercio. E
mentre questo avveniva, alcuni hanno fondato arcipelaghi di piccole isole tea-
trali autonome. Ognuna di queste isole vive nel proprio ambiente culturale
come una trascurabile minoranza, in grado però di aprirsi la via in territori
nuovi, uscendo dai recinti tradizionali del teatro.
La marginalizzazione nel proprio ambiente viene risarcita da un allun-
garsi del raggio d’azione. Un equivalente processo di compensazione riguarda
anche le grandi tradizioni teatrali. Quanto più ciascuna tradizione classica, di
matrice europea o asiatica, diventa inattuale nell’orizzonte del proprio con-
testo d’origine e perde localmente vigore, tanto più acquista prestigio al di là
dei propri confini tradizionali superando le barriere culturali ed allargando il
raggio della propria presenza, in un fitto intreccio di scambi e travasi. In altre
parole, trova un nuovo equilibrio in un orizzonte multiculturale.
La professione del teatro non è più separata dalle diverse barriere lingui-
stiche. Malgrado le differenze si salda in maniera sempre più evidente in un
unico grande paese professionale planetario. Diventa possibile parlare di una
cultura teatrale unitaria che comprende esperienze radicate nel lontano pas-

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246 Eugenio Barba

sato, in tradizioni classiche, un tempo rispettate o perseguitate, in piccole isole


autonome che vivono esperienze di frontiera.
La diversità è la materia base del teatro. Il fatto che oggi sia vissuta come
una drammatica condizione storica, che il suo tema inquieti i governi e i sin-
goli individui, non deve farci dimenticare che essa è ciò su cui il teatro ha
sempre lavorato. Chi fa del teatro la propria professione deve saper lavorare
sulla propria diversità. La deve esplorare, tesserla, trasformando la cortina che
ci divide dagli altri in un velo ricamato, seducente, attraverso il quale gli altri
possono guardare, e ciascuno possa scoprire le proprie visioni. Quali sono le
mie visioni? Non le conosco fino a che un velo o una ragnatela d’oro non le
cattura. Fino a che qualcosa di strano smette d’essere estraneo e comincia a
parlarmi con una voce che non è mia e non è non-mia.
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Per un emigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il
teatro è divenuto lo strumento per creare l’incontro e lo scambio, per superare
l’indifferenza reciproca. È una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resi-
stere all’omologazione e costruisce ponti.

La tecnica dei ponti


È interessante osservare quali siano le nervature interne di questi ponti.
Nei rapporti con gli spettatori, derivano da una capacità di presenza che per-
mette di cementare un rapporto di attenzione indipendentemente dalle parole.
Come accade all’attore che sa dare forma al suo corpo-in-vita; come accade al
cantante che sa farsi ascoltare anche quando il suo idioma è sconosciuto.
Nei rapporti fra gli attori di diverse tradizioni e culture, i ponti consistono
nel paradosso delle tecniche, simile al paradosso del mare che unisce e separa.
Le tecniche sono doppiamente paradossali, perché si cerca di impadronir-
sene al solo scopo di gettarle via, di farne a meno. E perché, a seconda del
modo in cui si decide di considerarle, sono ciò che più separa chi pratica una
stessa professione e ciò che più è in grado di unire. Possiamo decidere di guar-
dare le tecniche come ciò in cui si distilla il contesto, l’ideologia, la religione o
il sogno che sta alla base di una tradizione o di un gruppo teatrale. Così, nel
momento stesso in cui le magnifichiamo le rendiamo inservibili, le trasfor-
miamo in un muro o le imbalsamiamo in un museo.
Oppure possiamo decidere di guardarle come terreno di incontro, luogo
delle traduzioni fisiche, corporee, che accomuna e permette a professionisti di
provenienza lontana di dialogare fra loro.
Siamo noi a decidere se le tecniche debbono servire a separarci o a unirci.
Di per sé non sono nulla. Nelle loro origini non si nasconde il loro significato.

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La conquista della differenza 247

Ci dicono qualcosa di importante nel momento in cui cominciamo a scoprire


come usarle. Ciascuna cultura, ciascuna tradizione ha messo in forma la pro-
pria eloquenza spettacolare, i propri stili. Per farlo, ha dovuto creare un teatro
sotterraneo, delle fondamenta, delle tecniche di base. Lavorando alla super-
ficie degli stili ci si può ammirare a vicenda, si possono anche creare sincre-
tismi a volte molto efficaci ed a volte inclinati al degrado, più confusi che
complessi.
Lo spazio sotterraneo delle fondamenta, invece, diventa, per la sua stessa
natura, il territorio degli scambi, dove il paese del teatro sperimenta la sua
multiculturale unità, la sua complessità organica.
Le fondamenta non sono cantine né catacombe. Sono paradossali ponti
sotterranei, che permettono il passaggio da una parte all’altra del paese del
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teatro, unito benché materialmente disperso in luoghi geograficamente lontani.


A differenza del teatro, nella vita di ogni giorno non sempre i ponti met-
tono in comunicazione una regione con l’altra, l’una e l’altra sponda, due tribù,
le acque e il cielo.

I ponti e la semplicità
Ronda è una cittadina sulle montagne dell’Andalusia. È conosciuta per il
ponte costruito al tempo degli arabi, a strapiombo su una gola dove un fiume si
precipita furioso. Durante la guerra civile spagnola, le truppe franchiste lo
usarono come comodo luogo di esecuzione per i prigionieri. Li legavano l’uno
all’altro, in piedi sul parapetto, poi una pallottola alla nuca al primo della fila,
e tutti giù a sfracellarsi sui sassi del fiume, trascinati via dalla corrente impe-
tuosa. In Per chi suona la campana Ernest Hemingway ce ne ha lasciato il ri-
cordo.
Ma è di un altro ponte che voglio parlare. Kozda Mimar Sinan è il Bra-
mante o il Michelangelo dell’impero ottomano. Architetto della moschea di
Edirne e di quella del sultano Suleyman il Magnifico a Istanbul, progettò l’im-
pressionante ponte sul fiume Drina a Visegrad, in Serbia, alla fine del XVI se-
colo. A lui viene attribuito anche uno dei ponti più ammirati d’Europa. Capo-
lavoro architettonico, è stato descritto come l’arco di un arcobaleno che si
innalza al di sopra della via lattea, balzando da una dirupo ad un altro. In realtà
non fu il geniale Sinan l’ideatore e il realizzatore di quest’altro ponte, fu Haru-
djin, uno dei suoi allievi. Su richiesta dei cittadini leali, il sultano Suleyman il
Magnifico ordinò nel 1666 la costruzione del ponte di Mostar.
Per secoli, il ponte di Mostar dette gloria alla sua città e fu l’orgoglio della
sua popolazione di croati cattolici, serbi ortodossi e croati e serbi musulmani.

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248 Eugenio Barba

Anche l’attore Slobodan Praljak, ogni volta che lo attraversava per andare
al suo Teatro della Gioventù, non poteva fare a meno di ammirare i blocchi di
pietra levigati dalla carezza del tempo. Slobodan aveva iniziato la sua carriera
quando il suo paese si chiamava ancora repubblica socialista della Jugoslavia.
Col tempo non si limitava ad esercitare la sua attività artistica come attore, ma
metteva anche in scena testi come Un uomo è un uomo di Bertolt Brecht e Il
drago di Evgenij Schwartz.
Cominciò lo smembramento della federazione jugoslava. Prima si staccò
la Slovenia, poi la Croazia, quindi croati e serbi si scontrarono per annettersi il
più possibile del territorio della Bosnia, la cui maggioranza era musulmana.
L’attore e regista Slobodan Praljak aveva lasciato il teatro e si dedicava a questa
missione di crescita nazionale. In quanto croato, aveva il comando della posta-
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zione militare che dalle colline circostanti, martoriava regolarmente la città


musulmana. I suoi chetnik erano abili e ingegnosi. Ferivano alla gamba un
passante che si spostava tra le barricate, aspettavano quindi che accorressero
dei soccorritori, e liquidavano con precisione sia il ferito che i suoi soccoritori.
Fu Slobodan Praljak, attore e regista apprezzato nell’ambiente di Mostar, a dare
ordine ai cannoni della sua postazione di bombardare il ponte di Harudjin che
aveva sfidato i secoli. Come un arco d’arcobaleno, il ponte si volatilizzò in una
pioggia di frantumi variopinti e si congiunse all’acqua del fiume.
Il giorno dopo, all’alba, a chi lanciavano il loro saluto i galli allegri, osti-
nati, lontani? Contro chi abbaiavano i cani?
Siglos, armas y el mar que une y separa. Le guerre ci sono sempre state.
Le violenze per intolleranza, anche. Razzismo e xenofobia ci sono sempre stati.
Ma oggi vediamo che xenofobia, razzismo, violenze e guerra non sbandierano
interessi contrapposti, o contrapposte idee sul futuro del mondo. Sbandierano
radici, l’urto fra “civiltà”. Culture e civiltà sembrano opporsi come un tempo le
contrapposte ideologie. Questo, nel XXI secolo, non l’avremmo mai immagi-
nato. È una situazione che sembra appartenere alle storie leggendarie, le leg-
gende di Roncisvalle o del sacro sepolcro vuoto per cui la Cristianità attraversò
il mare e portò le armi a Gerusalemme. Persino il razzismo che infestò la storia
del XX secolo sembra meno arcaico e primitivo.
I secoli distillano e individualizzano le culture. Il mare le unisce e insieme
le separa. I processi organici che le caratterizzano e le tengono in moto sono
lunghi, sottili e complessi, a volte incomprensibili. Ma quando le armi entrano
in azione, tutto diventa semplice.
Quando la storia parla in termini semplici, le arti e la cultura cadono nella
desolazione. I mondi che prospettano paiono iridescenti bolle di sapone che al
primo fiato scoppiano per tornare al nulla di cui sono piene.

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La conquista della differenza 249

Noi ci riuniamo per parlare dell’incontro fra culture diverse. Cerchiamo


di riflettere sull’arte di marcare i confini per meglio bucarli e attraversarli. Ci
interroghiamo sui rischi del sincretismo. Diciamo che la “diversità” non è solo
una condizione di partenza, ma un traguardo da raggiungere. E mentre dispu-
tiamo sulla complessità, il mondo quotidiano che ci circonda si semplifica.
La semplicità è spietata.
Dice: “O noi, o loro”.
Ma noi – replica il buon senso pratico – abbiamo bisogno di loro: del loro
lavoro.
Così, anche la Legge torna a mostrare il suo aspetto semplice e armato.
Qualcuno dichiara: d’accordo, si deve convivere, ma non fino ad accettare che
sia messa in discussione l’assolutezza dei valori della nostra civiltà e della
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nostra tradizione. Accettiamo una società multietnica, purché però non sia
multiculturale.
In parole semplici: loro stiano fra noi, purché si assimilino. Cioè: purché
sottomessi. Purché sfruttati.
Col tempo, lungo un secolo e più, erano stati elaborati compromessi effi-
caci per mitigare la durezza del mercato in cui si compra e si vende lavoro. Ma
questi compromessi possono essere aggirati dalle leggi dell’ immigrazione. Il
nudo sfruttamento ritrova, così, un colore legittimo: legittima difesa in una
guerra fra civiltà. Una bandiera apparentemente più umana e decente copre la
prepotenza di chi sa o si illude d’essere il più forte. Le armi e le leggi fingono
di non difendere il nostro interesse a prevalere, ma il legittimo desiderio di
preservare la nostra integrità.
I secoli, il mare sono grandi e immensi pensieri. O forse minuscoli, come
i sogni ad occhi aperti che crediamo e speriamo capaci di proteggerci.

Nel castello
C’è una luce cristallina qui ad Elsinore, in questo pomeriggio d’agosto. Il
mondo che ci circonda è l’immagine dell’ordine, della pace, del buon gusto.
Sul mare, davanti alla costa della Svezia, si stagliano alcune imbarcazioni
che sembrano navigare in diversi nastri del tempo. Motori rombanti e canotti a
remi; barche a vela adatte alle moderne regate e un veliero dalla foggia antica,
che ancora mostra di poter dominare silenziosamente il mare.
Il palazzo regale, il castello di Elsinore, si protende verso il mare con le
sue grandi vetrate e le sue torri che paiono tutte eguali ed a guardarle bene
sono ciascuna differente dall’altra.

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250 Eugenio Barba

Attorno al castello, il commercio turistico non è mai sfacciato. Dalle parti


del porto, la birra danese viene servita da gentili camerieri emigrati dal Ma-
rocco.
Siamo nel cuore stesso della civiltà. Sediamo comodamente sulle nostre
speranze.
– Lo faresti, qui, uno spettacolo?
– Nel castello?
– Nelle sale interne, oppure – meglio ancora – nel cortile.
– Mi piacerebbe fare lo spettacolo come una festa di corte, con i suoi lussi
e i suoi veleni. Mentre fuori dalle mura ci sono i venditori ambulanti, il popolo
curioso, i saltimbanchi, i fuochi d’artificio e i cannoni che sparano a salve.
– E lo spettacolo, dentro, sarà…
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– … sarà Amleto, certo.


Il mio amico Trevor Davis mi propone di creare uno spettacolo per il ca-
stello di Elsinore, dove di spettri veri e propri non ne compaiono più da secoli,
e vi sono solo spettri teatrali. Appena si entra, tutta l’architettura del castello
conduce lo sguardo verso l’alto. Penso di popolare i tetti e l’aria che sta in
mezzo fra i quattro lati del castello. Penso ad Ofelia che si annega lassù in alto,
in un torrente che scorre fra le nuvole. Penso ad un Vescovo antico che esce
dalla porta della chiesa che affaccia nel cortile del castello, e comincia una
predica moderna, invece dell’ “essere…”. Penso soprattutto ad Amleto, un fi-
glio braccato da un Padre-Fantasma.
Il cuore della nostra civiltà: del grande teatro e della piccola Danimarca.
Poi sento i cani abbaiare.
Sono tanti. Paiono feroci. L’incantesimo del mare su cui si affaccia il ca-
stello sparisce, lampi bui solcano la luce cristallina d’agosto. Basta un banale
abbaiare di cani, bastano dei latrati incarogniti per farmi cambiare idea?
Sì. L’attualità della storia ha molte voci.
Niente saltimbanchi attorno alle mura del castello. E niente festa aristo-
cratica all’interno. Niente Shakespeare. Ma le nude lotte di potere così come
le raccontò il medioevale Saxo, nel suo elegante latino che pochissimi erano in
grado di comprendere.
Immagino l’illusoria sicurezza della gente che popola il castello, la per-
fidia del fratello che ha ucciso il fratello, l’odio represso di Amleto e la sua
scaltra trama di vendetta. Immagino le loro leggi sfrondate dalla retorica della
giustizia, ridotte al puro rapporto di forza, come quella che Machiavelli detterà
al suo Principe, talmente semplici e prive di alibi morali, che il loro autore
parve ai suoi contemporanei un emissario dell’inferno.

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La conquista della differenza 251

Non è Fortinbras a minacciare il castello, ma topi e stranieri. La gente del


posto dà la caccia ai topi, per paura della peste. E dà la caccia agli stranieri con
spietata freddezza. Vede in quei miseri bisognosi di un ricovero dei futuri ne-
mici interni, pericolosi nell’assedio che si sente venire.
Lì immagino che si aggiri Saxo, fra la legge delle Armi e le armi della
Legge, solitario come un cieco. Lui che un tempo descrisse il suo paese come
un ricamo di acque, mari e fiumi, fra i quali emergono, incastonate come
gioielli, le terre danesi. Ora, in Elsinore, contempla e descrive, sarcastico e
inutile, il risorgere di arcaiche barbarie nel cuore stesso d’uno degli storici ca-
stelli della nostra cultura.
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DENTRO LE VISCERE DEL MOSTRO*

Cari amici dell’ISA**,


nel ringraziarvi con affetto, voi già sapete che questo riconoscimento non
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è concesso solo a me, ma all’intero Odin Teatret, ai suoi attori e collaboratori


di 38 anni di lavoro, e a tutti i componenti della cultura di teatro di gruppo,
dovunque nel mondo – questo Terzo Teatro di cui l’Odin si sente orgoglioso di
appartenere.
Confesso di essere un po’ emozionato e molto soddisfatto. Qui culmina
un legame con la vostra isola. Cominciò nel 1946 a Buenos Aires, nel caffè
Rex dove lo scrittore polacco Witold Gombrowicz soleva riunirsi con i suoi
amici e tradurre con loro Ferdydurke, un romanzo che tanto ha significato
nella mia vita. Nelle sue memorie Gombrowicz ricorda soprattutto due di
questi amici, la loro fantasia ed empatia creativa nel riportare allo spagnolo le
eccentricità e i paradossi linguistici del suo libro. Erano cubani e si chiama-
vano Virgilio Piñera e Humberto Rodriguez Torneu. Così Cuba entrò nella mia
vita, attraverso la solidarietà di artisti in esilio.

* Discorso in occasione del titolo di Dottore honoris causa conferito dall’ISA, Instituto
Superior de Artes, dell’Avana il 6 febbraio 2002. Pubblicato per la prima volta in “Conjunto” n.
124, L’Avana 2002.
** Alcune considerazioni sono necessarie per chiarire certi echi di questo discorso, evi-
denti solo a un orecchio cubano. L’immagine Dentro le viscere del mostro, riprende una famosa
espressione dell’intellettuale e poeta cubano José Martí, figura capitale nella lotta per l’indipen-
denza di Cuba dalla Spagna, morto in battaglia nel 1896. José Martí diceva di scrivere “dalle
viscere del mostro” quando, durante il suo lungo esilio a New York, inviava articoli ai giornali
dei paesi latino-americani. Utilizzare questa espressione in riferimento ad un contesto diverso
da quello degli Stati Uniti, è – per l’ascoltatore cubano – un forte effetto di straniamento. An-
cora più chiaro l’effetto di straniamento implicito nel termine “dissidenza”. Nel linguaggio uffi-
ciale cubano, i “dissidenti” sono coloro che nella lingua corrente vengono chiamati anche gu-
sános, cioè “vermi”: i cubani che hanno abbandonato Cuba per motivi politici, per conflitti con
il regime o in cerca del benessere economico. (Nota di Lluís Masgrau).

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254 Eugenio Barba

Fu nel 1963 che incontrai il mio primo cubano. Lo ascoltai, in un con-


gresso a Varsavia, esprimere la sua emozione per uno spettacolo, Akropolis di
Grotowski, a quel tempo ostracizzato dal regime socialista. Ricordo ancora lo
scompiglio che il trascinante intervento di Eduardo Manet, giovanissimo di-
rettore del Teatro Nazionale di una Cuba socialista, tropicale e spavalda, creò
nell’ambiente ortodosso del partito e del teatro polacco. Il suo discorso con-
tribuì a legittimare il lavoro di Grotowski permettendogli di estendersi anche
fuori dalla Polonia in una provocazione e uno stimolo incessanti per noi tutti.
Più di vent’anni dopo, nella piccola cittadina di Holstebro, bussò alle
porte dell’Odin Teatret un attore svedese di un gruppo di teatro politico. Ac-
compagnava un giovane cubano, che aveva voluto visitarci. Era Helmo Her-
nandez, ancora oggi molto attivo nella vostra vita culturale. A quel tempo i
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venti del teatro politico soffiavano con vigore in Europa. L’Odin era sotto co-
stante accusa per il suo modo di prendere posizione, per il suo “formalismo”,
per la sua determinazione “elitaria” di limitare il numero degli spettatori.
Anche a Cuba, quando il nome dell’Odin appariva nei dibattiti e nelle pubbli-
cazioni, lo scetticismo e la diffidenza erano più che palesi. La visita di Helmo
Hernandez mi fece ritrovare la curiosità intellettuale e il desiderio di dialogo
professionale dei pochi cubani che avevo incontrato. Così lo invitai alla quarta
sessione dell’ISTA, la International School of Theatre Anthropology, nel
maggio del 1986 a Holstebro. Alcuni mesi dopo, andando in Uruguay per una
tournée dell’Odin, decisi di atterrare all’Avana e visitarlo. Rimasi solo pochi
giorni e nonostante la mia visita non fosse ufficiale, Helmo aveva organizzato
incontri e conferenze. Qui nacquero amicizie profonde con artisti e studiosi:
con Flora Lauten, Marianela Boán, Victor Varela, Magaly Muguercia, Rosa
Ileana Boudet, Vivian Martinez Tabares. Helmo mi portó al Teatro Escambray,
che conoscevo solo attraverso le letture e che ammiravo. Ci accompagnò Vi-
cente Revuelta. Rimane incancellabile nella mia memoria il lago della Hana-
banilla, la sua acqua cobalto e smeraldo, le montagne intorno coperte di palme,
una piccola barca con Helmo ai remi, e Vicente Revuelta ed io che discute-
vamo, come due bambini creduli, di fantasmi e di sirene, di draghi, di orchi e
di angeli, cioè di teatro e di politica.
L’accettazione dell’eretico Odin Teatret ebbe luogo nel 1989. Incorag-
giata dal regista peruviano Miguel Rubio del gruppo Yuayachkani, fu Raquel
Carrió il sagace cavallo di Troia che seppe introdurre ufficialmente l’Odin a
Cuba con Judith, lo spettacolo d’una sola attrice, Roberta Carreri; e con un
mio corso qui, nel vostro ISA. Partecipammo anche alla prima sessione del-
l’EITALC, la scuola latinoamericana appena fondata a Machurrucutu. Qui
ebbe origine il forte legame con il suo direttore, lo scrittore argentino Osvaldo

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La conquista della differenza 255

Dragún, uno degli artisti più puri e impegnati che abbia conosciuto, uno degli
abitanti da me più amati nella mia patria professionale.
Poi già non ricordo più quante volte l’Odin sia venuto a Cuba, a volte io
solo, altre volte solo Julia Varley. La grande tournée di tutto l’Odin Teatret nel
1994, in pieno marasma economico del “periodo speciale”, fu merito di Lecsy
Tejeda ed Eberto Garcia Abreu.
Ed eccomi di nuovo qui, circondato dai miei compagni dell’Odin Teatret,
tra alcune delle persone che danno senso e valore al mio agire teatrale, e la cui
perseveranza e impegno sono per me uno stimolo a non desistere nei momenti
di sconforto. Anche quest’ultima visita di sei settimane in diverse città di pro-
vincia ed all’Avana, ha la sua origine in quello che ai miei occhi è l’essenza
della cubanità: prendere posizione spinti da una motivazione inderogabile.
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L’Odin è oggi a Cuba grazie alla motivazione di Omar Valiño secondato da


Maité Hernández-Lorenzo e da un pugno di amici leali dell’Odin, e grazie agli
interventi taumaturgici di Julian González Toledo. A voi va la gratitudine di
tutti noi dell’Odin con la gioia di una certezza: che per anni e anni ci ritrove-
remo insieme resistendo allo spirito del tempo.

La danza del grande e del piccolo


Questa sequela di nomi e di fatti sono aneddoti privati, ma anche fatti
storici. Cosa vedo quando penso alla storia? Vedo la danza tra il Grande e il
Piccolo. Il suo ritmo grottesco, tenero, alla fine sempre tragico, impedisce al
tempo di fluire in maniera uniforme, e invece lo scalfisce, lo sfaccetta riem-
pendo le nostre vite di essenza e sostanza, di profumi e passioni.
In questa danza, vi sono momenti in cui siamo trascinati, e momenti in cui
siamo noi a influire sul corso del tempo. Allora sembra che il nostro destino
sia guidato dalle nostre mani. Molti pensano che questa possibilità di model-
lare il proprio destino sia una pura illusione. In realtà, ci illudiamo di illuderci
Esiste La Grande Storia che ci trascina e ci sommerge, sulla quale spesso
sentiamo di non poter intervenire. Non la possiamo neppure conoscere, non
possiamo capire in che direzioni si muova, mentre si sta muovendo, e noi con
lei. Solo osservandola a ritroso, dopo che il tempo è passato, le sue svolte e i
suoi capovolgimenti ci appaiono chiari. La Grande Storia non ci concede li-
bertà alcuna. Procede inesorabilmente e va non sappiamo dove, o perché.
Spesso ci raccontiamo favole di Speranza o di Disperazione. Tutte ugualmente
insensate, anche se a volte la loro insensatezza accende una fievole luce nel
buio che ci circonda.

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256 Eugenio Barba

Eppure nella Grande Storia è possibile ritagliare piccole isole, minuscoli


giardini dove la nostra mano può essere efficace e dove possiamo vivere la
nostra Piccola Storia.
La Piccola Storia, intessuta di rifiuti e “superstizioni”, è quella della no-
stra vita, della nostra casa, della nostra famiglia, dei malintesi, degli incontri e
delle coincidenze che ci hanno guidato al mestiere e all’ambiente ai quali ab-
biamo deciso di appartenere.
È evidente che la Grande Storia e le Piccole Storie non sono indipendenti.
Ma le Piccole Storie non sono delle semplici porzioni della Grande.
I bambini che costruiscono una piccola diga ai margini della corrente di
un grande fiume, che ricavano una minuscola piscina in cui bagnarsi e sguaz-
zare, non giocano nella corrente impetuosa, ma non sono neppure in un’acqua
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separata da quella che scorre al centro del fiume. Creano, lungo i suoi margini,
delle cavità e degli habitat imprevisti trasmettendo al futuro le tracce della loro
differenza.
Tutto questo l’ha descritto Voltaire nel suo Candide. Sotto un diluvio di
ironia e d’avventure, crolla l’illusione che il mondo in cui viviamo sia vivibile
o sia il “migliore dei mondi possibili”. Dopo aver a lungo partecipato al gioco
meccanico della lotta tra pessimismo e ottimismo, il protagonista di Voltaire
approda, nell’ultima pagina, alla coscienza che bisogna lavorare senza pensare
al destino del proprio lavoro, impegnandosi a “coltivare il proprio giardino”.
Questo atteggiamento non significa arrendersi, cedere, non è un richiamo
all’egoismo o a una visione ristretta ed egocentrica della vita. È l’affermazione
della necessità di contraddire la Grande Storia con una Piccola Storia che
possa appartenerci. E provare a farle danzare.
Il teatro è il tentativo di stare nell’acqua del fiume senza lasciarsi trasci-
nare dalla corrente.
Questa è la storia del teatro: piccoli giardini, pozze d’acqua riparate, a
volte spazzate via, dall’impeto della corrente.

L’altra faccia della continuità


Soffermiamoci un momento sull’espressione “storia del teatro”. Perché
qualcosa abbia una storia occorre che vi sia una certa continuità fra il suo
passato e il suo presente. In che cosa consiste la continuità del teatro?
Vi è una categoria di teatri che sono come case che sopravvivono ai loro
abitanti e mantengono una propria identità passando di mano in mano. Vi è poi
un’altra categoria di teatri che non sono fatti di pietre e mattoni, la cui sola
consistenza è il gruppo vulnerabile di persone che lo compongono. Spariscono

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La conquista della differenza 257

e spariranno con quelle persone. Non possono essere né ereditati né riempiti di


nuovi contenuti.
La vita del teatro è una danza tra continuità e discontinuità. Le storie dei
teatri “vulnerabili” spesso interferiscono con le storie delle case del teatro, ma
si muovono in base a disegni indipendenti. La loro forma, il loro modo di or-
ganizzarsi e di entrare in contatto con gli spettatori e con la realtà sociale cir-
costante, non si adegua ai modelli dei teatri duraturi. Deriva da necessità per-
sonali e dal grado della loro estraneità ai valori delle pratiche riconosciute e
consolidate.
È la storia sotterranea di teatri senza fama e senza nome. È un terreno
fecondo e turbolento dove sorgono e scompaiono valori imprevisti ed espe-
rienze imprevedibili. Qui il teatro si rinnova e si trascende. È una trascendenza
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tangibile che consiste nel superamento dei limiti che tradizionalmente distin-
guono ciò che è teatro da ciò che non lo è, che infrange le frontiere tra il lavoro
sul personaggio e il lavoro dell’individuo su se stesso, tra la pratica artistica e
l’intervento politico e sociale.
L’energia della vita teatrale all’inizio del nuovo millennio scaturisce dalla
tensione fra le luci fisse del firmamento teatrale e la turbolenza dei teatri “vul-
nerabili”, fra le case dei teatri e i teatri che esplorano i deserti, fra la stabilità e
l’irrequietezza. Questa tensione è qualcosa di nuovo.
Per secoli, a partire dal Cinquecento, la fonte di energia per il teatro eu-
ropeo fu la tensione tra tradizione e sperimentalismo. Nel ventesimo secolo,
sede dello sperimentalismo furono i teatri amateurs e, a volte, i teatri di profes-
sione, quando si trattò di inventare nuove formule per salvaguardare la propria
esistenza e la propria dignità. Focolai di sperimentalismo furono gli ambienti
dei futuristi, dadaisti e surrealisti fino alle correnti più recenti delle avan-
guardie artistiche che hanno inciso nella cultura contemporanea. Furono nic-
chie dello sperimentalismo teatrale i “Teatri Liberi” e i “Teatri d’Arte” a co-
minciare da Antoine e da Stanislavskij.
Anche nei teatri asiatici, la tensione che è fonte di energia fu a lungo
quella tra la fedeltà alle forme della tradizione e la pulsione all’innovazione.
Per ragioni culturali e politiche, questa tensione si intrecciò a quella fra in-
flusso straniero e rispetto delle forme autoctone. Da un lato era un impulso ad
appropriarsi delle forme nuove approdate in Asia dai paesi più potenti e colo-
nialisti. Dall’altro era una reazione a rifiutare gli stili stranieri e a riscoprire il
valore del proprio sapere teatrale. È una dialettica di fagocitazione e rifiuto
che in numerose varianti caratterizza la creatività di molti artisti dei teatri
africani e sudamericani.

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258 Eugenio Barba

Anche nel teatro di matrice europea la tensione fra tradizione e speri-


mentalismo ha avuto un colore politico. Sperimentalismo ed avanguardia fu-
rono spesso l’espressione del rifiuto nei confronti dell’arretratezza conserva-
trice, o della ribellione contro le istituzioni dei ceti privilegiati e dominanti
della cultura e dei loro raffinati strumenti di potere.
Oggi, all’inizio del nuovo millennio, il panorama è ancora cambiato. La
ribellione del teatro è soprattutto creazione di una condizione di insularità, di
esilio interno, una forma materiale, spesso non detta, di dissidenza. L’intera
orbita del teatro è marginale rispetto ai centri in cui pulsa la vita e la cultura
del nostro tempo. Il teatro sembra un relitto archeologico di epoche trascorse.
Eppure si rinnova incessantemente. Continua a portare il segno di una diver-
sità che può avere la debolezza di un limite o la forza e la dignità di chi si rico-
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nosce minoranza.
Il teatro può aiutarci a far rispettare la nostra differenza. Allora si converte
nella pratica di una dissidenza.

Un modo particolare di muoversi


Gli anni mi hanno insegnato quanto sia importante ridefinire a me stesso i
termini abituali del mestiere per distillare nuove immagini, sapori e fragranze.
È come se il mestiere teatrale mi soffocasse. L’unico modo per respirare è
spiegare in continuazione a me stesso cosa sia il teatro; perché continuo a
farlo; come raggiungere una conoscenza che contiene il suo opposto, cioè
come sfuggire all’accumularsi dell’esperienza che cristallizza un’identità e si
muta involontariamente in un limite; dove far deflagrare con i miei compagni
dell’Odin questi decenni di prestigio, di solitudine e di fierezza. In quale pri-
gione, castello, ghetto o isola lontana operare ancora un baratto, un momento
passeggero ed illusorio di reciprocità e parità.
Se oggi, cari amici cubani, mi domandaste: Cosa è il teatro? risponderei:
è un modo particolare di muoversi. Questo “modo particolare” è un ethos, un
comportamento che manifesta un sapere artigianale incorporato, e allo stesso
tempo un nodo convulso di “superstizioni” e fantasmi personali, quel che
chiamiamo valori – la nostra bussola della vita.
Muoversi, per un attore e un regista, significa sottomettersi con disciplina
e coerenza, per anni, a una pratica mentale e somatica che ci sradica dai luoghi
comuni e dai pregiudizi della nostra cultura di origine, e ci spinge verso i terri-
tori scabrosi dell’alterità. Questa alterità ha due visi. È l’altro in noi stessi,
quella parte di noi che vive in esilio nella profondità più profonda del nostro
essere. Ed è l’altro essere umano, separato e distante da noi per geografia,

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La conquista della differenza 259

cultura o sesso. Il teatro non può essere un incontro filantropico in cui si cerca
di comprendere, spiegare o accettare il differente. Il teatro è una lotta fiorita, è
la nostra necessità di appropriarci dell’altro – gli autori, i colleghi di lavoro,
gli spettatori, i morti – di fondersi con lui, di divorarlo, impegnando tutto il
nostro metabolismo per assorbire l’essenziale ed espellere il superfluo. Il con-
fronto con l’altro è un rito di passaggio che rinnova il riconoscimento di forze
e qualità reciproche ed inspiegabili.
Il teatro ci muove dalla realtà inferiore alla realtà dell’esistenza profonda.
Ci proietta dalla superficie nella corrente opaca delle energie che operano oc-
culte. Basta ricordare Marx, Freud, Niels Bohr, e le fondamenta su cui ci
muoviamo, l’universo subatomico che nega le evidenze della fisica di Newton
e irride le relazioni di causa ed effetto, di tempo e spazio, di passato e futuro.
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Il teatro muove il nostro universo interiore verso il mondo degli eventi


tangibili e spinge la nostra Piccola Storia a ballare con la Grande Storia. La
nostra rabbia, le nostre esaltazioni, i nostri smarrimenti e rifiuti si scontrano
con la disciplina dell’artigianato teatrale. Emozioni, sensibilità ed impulsi
sono sottomessi a un processo di finzione e si trasformano in azione percetti-
bile che accarezza o graffia i sensi e la memoria dello spettatore.
Il teatro ci alza o abbassa socialmente, ci fa essere accettati, riconosciuti e
riconoscibili, oppure rifiutati, a volte perseguitati. Il teatro europeo è la storia
di un mestiere discriminato, con innumerevoli esempi di attori che abbatterono
le barriere sociali grazie a un consenso di ammirazione. Rachel, Adelaide Ri-
stori, Jenny Lind, Eleonora Duse, Johanne Louise Heiberg, e molti altri mo-
delli di eccellenza artistica provenivano da ambienti disprezzati e rifiutati,
ebree, zingare, figlie naturali o figlie d’arte.
Il teatro ci muove, alla lettera, ci fa viaggiare, è la materializzazione di
una geografia che attraversiamo per visitare fisicamente e mentalmente luoghi
e ambienti lontani, per incontrare temperamenti e temperature che sorpren-
dono. Il teatro è un viavai di relazioni, è un nomadismo radicato in un ethos, in
un artigianato incorporato.
Affermo che il teatro è un modo particolare di muoversi. Questa defini-
zione vale dal punto di vista di chi pratica attivamente il mestiere. Muoversi,
però, è un verbo riflessivo che si dirige al soggetto, un serpente che si morde la
coda. Qualsiasi definizione del teatro deve partire dalla consapevolezza che lo
spettacolo crea un fascio di relazioni con realtà diverse e si immette in uno
spazio/tempo sociale.
Il teatro è un modo particolare di muovere lo spettatore.
Questo è in fondo l’obiettivo del lungo apprendistato e degli sforzi con-
tinui di ogni attore: muovere lo spettatore, creare una finzione, un’illusione

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260 Eugenio Barba

che allucini lo spettatore e gli faccia esperire la trasparenza. Nel corso dello
spettacolo, le caratteristiche personali e la perizia degli attori, i comportamenti
e i destini dei personaggi, le tensioni e le peripezie del racconto devono per-
dere la loro consistenza per i sensi dello spettatore, devono trasformarsi in un
vuoto, un ponte trasparente che avvicina ogni spettatore alle sue ferite na-
scoste, alle sue cicatrici interiori, alle tracce delle sue lotte e dei suoi compro-
messi. Questo dialogo con se stesso può avvenire solo se l’attore riesce a de-
stare le energie sopite di ogni singolo spettatore provocando risonanze,
sensazioni e memorie che permettono di riflettere in termini di intimità, di
Piccola Storia.
Solo se l’attore riesce a muoversi crea le premesse per muovere lo spetta-
tore, per sedurlo e spiazzarlo provvisoriamente dalla trincea delle sue convin-
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zioni.
Muovere lo spettatore, tecnicamente parlando, presuppone l’assimila-
zione di modi paradossali di pensare e comportarsi sulla scena. Il “se magico”
di Stanislavskij, i procedimenti per straniare il comportamento del perso-
naggio tanto apprezzati da Brecht, i principi pre-espressivi della presenza
scenica evidenziati dall’Antropologia Teatrale, sono alcuni dei cammini che
l’attore può seguire per essere convincente in ogni sua più piccola azione.
L’attore genera una qualità di presenza diversa, provoca un’osmosi con le
energie dello spettatore, realizza un atto sociale che si converte in un processo
di meditazione individuale.
È il trionfo della presenza assoluta nell’istante che fugge, l’impegno to-
tale dell’individuo-attore che compie le sue azioni qui ed ora di fronte agli
spettatori, al centro stesso della sua epoca e della sua società. Ma l’attore crea
la realtà della finzione per poter essere altrove. Il teatro è l’arte dell’ubiquità:
prende posizione di fronte alle circostanze in cui il nostro destino personale e
la Grande Storia ci hanno sbattuto, e nello stesso tempo ci trasporta nell’utopia,
in una quotidianità ideale. Il teatro permette di vivere dentro le viscere del
mostro e allo steso tempo in un’isola di libertà.
Dov’è questo “altrove”? In quale luogo fisico, geografico, affettivo, men-
tale si trova?

Dissidenza e utopia: un tempo dentro un altro tempo


In un mattino sereno, in una villa di Roma, un uomo sessantenne corre e
salta sui prati come un bambino. Ha passato gran parte della sua vita in pri-
gione in celle sotterranee e isolate, torturato. Ora è finalmente libero. È nato
nel 68, 1568, in Calabria, nell’estrema punta dell’Italia meridionale. Si chiama

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La conquista della differenza 261

Tommaso Campanella, l’autore della Città del sole, un’opera su una società
giusta e utopica. L’aveva scritta in carcere nel 1602, ispirandosi all’Utopia di
Thomas More, l’intellettuale decapitato per aver rifiutato di firmare il docu-
mento che riconosceva Enrico VIII come capo della chiesa d’Inghilterra.
Campanella, di origini contadine, era un frate domenicano, teologo, filo-
sofo, astrologo, aveva delle visioni e faceva profezie. I suoi nemici lo chiama-
vano mago e stregone. Scandalizzato dalla ristrettezza della mentalità eccle-
siastica aveva abbandonato l’ordine monastico – un reato per quel tempo.
Campanella viene incarcerato. Tornato provvisoriamente libero, diventa uno
dei capi di una congiura contro il governo spagnolo che dominava l’Italia del
Sud. La congiura è scoperta e i 140 congiurati, tra cui 14 monaci, vengono in-
catenati e portati a Napoli. Alcuni dei prigionieri sono squartati sotto gli occhi
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della folla, trasformando la loro morte in spettacolo. Altri vengono impiccati


agli alberi delle navi della flotta spagnola. I rimanenti vengono torturati af-
finché confessino i nomi dei complici della rivolta armata.
Campanella subisce la tortura del “puledro”, steso su una trave di legno e
stretto con corde che schiacciano le sue carni sulle ossa. Viene sospeso alla
fune con le braccia all’indietro e le spalle slogate. Alla fine è sottoposto alla
tortura della “veglia”, l’invenzione recente del giudice Ippolito de Marsilis. Al
prigioniero si dava cibo e vino in abbondanza. La difficile digestione favoriva
il sonno, ma gli si impediva di dormire. Per 20, 30, 40 ore di seguito era co-
stretto a sedere su uno sgabello alto che non permetteva di poggiare i piedi a
terra, con le braccia legate dietro la schiena e tirate da una fune. Ogni volta che
la testa si chinava nel sonno, i suoi guardiani lo battevano.
Campanella si rende conto che alla fine della tortura lo condanneranno.
Sa anche che è proibito mettere a morte un peccatore, un delinquente o un
eretico se costui è pazzo. Un demente non ha la coscienza per pentirsi dei suoi
misfatti. E le condanne e i tormenti vengono inflitti per permettere al condan-
nato di redimersi agli occhi di Dio. Occorre quindi che il torturato soffra e
muoia in piena coscienza, in modo da accettare la condanna e pentirsi.
Campanella, allora, si finge pazzo. La finzione dura giorni, settimane,
mesi, senza tregua, senza distrazioni. Negli intervalli fra una seduta di tortura
e un’altra, Campanella fa smorfie, mormora frasi senza senso, è scosso da
convulsioni, dà fuoco al pagliericcio della sua cella. Durante l’ultima tortura
della veglia, alla quale dovrebbe seguire la condanna a morte, ad ogni do-
manda risponde sempre con le stesse ossessive parole: “dieci cavalli bianchi”.
– Sei cosciente che i tuoi peccati ti condanneranno all’inferno?
– Dieci cavalli bianchi.
– Hai mai fatto pratiche di magia?

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262 Eugenio Barba

– Dieci cavalli bianchi.


– Hai mai evocato Satana?
– Dieci cavalli bianchi.
– Non hai forse dichiarato che esistono altri mondi abitati, oltre alla nostra
terra?
– Dieci cavalli bianchi.
– Sostieni che il papa sia un usurpatore?
– Dieci cavalli bianchi.
– Hai scritto tu l’infame opuscolo anonimo intitolato I tre impostori dove
anche Cristo è dichiarato impostore, accanto a Mosè e Maometto?
- Dieci cavalli bianchi.
Finalmente, la mattina del 6 giugno 1601, alla fine dell’ultima e lunghis-
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sima “veglia”, viene dichiarato legalmente pazzo e condannato al carcere a


vita. Lui stesso firma il documento con una croce, come fanno quelli che non
sanno né leggere né scrivere. Resta in carcere fino al 1626, compone La città
del sole, la sua visione utopica di una società umana e giusta, scrive numerosi
libri e poesie. È la sua altra libertà. 27 anni di “altra libertà”, il suo “altrove”.
L’utopia è il salto in un “altrove”, quando questo mondo mostra il suo
volto repellente. Thomas More e Tommaso Campanella sono tra i primi intel-
lettuali a mostrare il legame tra utopia e dissidenza. O meglio, indicano come
la dissidenza sia la capacità di vivere in un tempo dentro un altro tempo, la
pratica di un’ubiquità che permette di vivere simultaneamente nel tempo-pri-
gione e in un’isola di libertà, la piscina che ci permette a volte di stare nel-
l’acqua della Grande Storia senza lasciarci trascinare dalle sue correnti.

La differenza inquietante
È importante preservare la testimonianza che la dissidenza sia pratica-
mente possibile. Come si può essere dissidenti in maniera efficace?
Secondo la storia e l’etimologia della parola, “dissidenza” viene dal latino
dissidere, sedere (sedere) separatamente (dis). Fu usata per designare i prote-
stanti polacchi nella Pax Dissidentium firmata a Varsavia nel 1573 quando il re
Henry de Valois si impegnò a rispettare la libertà di culto e di opinione poli-
tica. Il dissidente, quindi, non è lo scismatico, uno che se ne va, che abbandona
o che si separa. È uno che crea una distanza senza distaccarsi per evidenziare
le sue “superstizioni” e la sua differenza.
La differenza, in sé, non è un valore, è una condizione. Può essere una
condizione di inferiorità una fase che prelude all’integrazione, oppure una se-
gregazione scelta o patita. Diventa feconda quando diventa inquietante. Nor-

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La conquista della differenza 263

malmente i corpi estranei, coloro che qualifichiamo come “differenti”, gene-


rano indifferenza, vengono rimossi ai margini della nostra mente e della nostra
società. Oppure vengono sentiti come minacciosi e generano ostilità. In se-
guito, quando non fanno più paura, quando sono non solo stranieri ed estranei,
ma vinti, diventano museo e spettacolo ed acquistano il fascino dell’esotico.
Il teatro è fuori da questa logica. Può essere una differenza vezzeggiata,
sovvenzionata o anche soltanto tollerata. Può essere una differenza che si ac-
contenta di sé. Oppure può divenire la pratica di una dissidenza che riesce ad
affascinare, a farsi rispettare, ed a mostrarsi irriducibile. È inquietante perché
non si adegua alle regole della lotta. Lottare con essa sarebbe come lottare con
un’ombra che più l’afferri più ti sfugge di mano.
La lotta prevede che vi sia un vincitore e un vinto, oppure – come terza
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precaria possibilità – una tregua. Ma alla fine, la lotta tende ad eliminare il


problema e la contraddizione, punta al trionfo dell’omogeneità e del-
l’integrazione. Completamente diverso è il trasmettersi di un’ombra indele-
bile, la pratica di una “superstizione” che buca la compattezza dello spirito del
tempo. In questo caso non si tratta di essere vinti o vincitori. Si tratta di preser-
vare una presenza che non si adegua e che non finisce nelle sabbie mobili del-
l’indifferenza circostante. La differenza inquietante vince non quando riesce a
prevalere, ma se riesce a resistere con la propria presenza e a salvaguardare la
capacità di trasmettere al futuro il segno della propria disappartenenza. Non è
possibile non stare in questo mondo. Ma è possibile non appartenergli.
Il teatro è l’esperienza di una diaspora volontaria da quello che cono-
sciamo, dalle certezze e dagli alibi della nostra cultura. A volte, alcune delle
nostre opere sono accarezzate dalle nuvole, appaiono belle e vengono applau-
dite. Ma la loro incandescenza e durata nella memoria delle Piccole Storie e
della Grande Storia, sono indissolubilmente legate all’azione anonima, rigo-
rosa e quotidiana di uomini e donne che incarnano il paradossale mestiere
dell’ubiquità: prendere posizione in dissidenza verso il mondo che ci circonda
per vivere nell’utopia.

Un granello di sabbia
Il concetto di utopia è strettamente connesso a quello di isola. L’isola non
è isolata, sta a sé nel mare, che è il mezzo di comunicazione per eccellenza.
L’isola è connessa al mondo circostante, è distante, ma non distaccata.
Ricordiamo i grandi racconti che ci giungono dal passato, i miti dei Giar-
dini. Ogni giardino sereno ha la sua insidia, c’è sempre il veleno di un serpente
che si nasconde nell’erba del Paradiso.

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264 Eugenio Barba

Quale serpente si nasconde nell’isola di libertà del teatro?


Quando cominciamo, il nostro sogno più grande è di poter approdare alla
terra del mestiere, coltivarne gli alberi della Conoscenza, incontrare in una
lotta-abbraccio i suoi spiriti familiari e gli spiriti che la invadono dagli angoli
remoti della terra.
Quando cominciamo, teniamo una fiamma tra le mani per illuminare una
voce lontana: la nostra vocazione. Con gli anni, le nostre mani stringono ce-
nere, e tutta la nostra energia e il nostro sapere sono tesi nello sforzo di mante-
nere in vita la poca brace che ancora arde.
Non siamo sbarcati sull’isola della libertà, siamo inghiottiti nelle viscere
del mostro.
Il teatro è un mostro che soffoca subdolamente la nostra necessità origi-
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naria con la consuetudine, la ripetitività, gli alibi e la grigia fatica. Il teatro di-
venta semplicemente un lavoro, una dimestichezza con un mestiere che ha
perso la sua magia, il suo ethos, i suoi ideali. All’ora di cena ci sediamo a ta-
vola. All’ora di andare a letto, sbadigliamo. Vediamo un albero, e raccogliamo
la sua frutta. Il teatro sopravvive e ci fa sopravvivere avvolti in un sano fata-
lismo di indifferenza e tiepidezza.
Solo la rivolta ci può proteggere, una rivolta contro noi stessi, contro le
nostre tentazioni, i nostri piccoli cedimenti e compromessi, contro l’impulso
naturale a scegliere le soluzioni conosciute e seguire il cammino meno arduo.
Quel che trasforma il mostro in un’isola di libertà è la via del rifiuto, del lavoro
anonimo e incorruttibile, ogni giorno, per anni, anni e anni.
Non dobbiamo nutrire aspirazioni ambiziose. Dobbiamo essere consape-
voli che dentro le viscere del mostro siamo solo un granello di sabbia.
Dobbiamo essere sabbia, non olio, nella macchina del mondo.

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ELOGIO DELL’INCENDIO*
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My speech is like smoke and my body is the burning: le mie parole sono
come fumo, e a bruciare è il mio corpo. Scelgo questa immagine, anche per
evitare che il titolo del mio discorso – Elogio dell’incendio – sembri un pane-
girico della distruzione. Vuol essere, invece, celebrazione della metamorfosi, e
quindi della resistenza. L’immagine iniziale è il titolo di un’opera di Deb Mar-
golin, attrice e drammaturga americana, un’artista pugnace che recita spesso
da sola. Il suo corpo, allora, è tutto il suo spazio scenico, e bruciare si rivela
sinonimo di essere-in-vita.
Per secoli gli spettatori hanno visto gli attori e le attrici in una luce-in-
vita, mobile, piena d’ombre impreviste e mutevoli, ben diversa dalla nostra
luce elettrica, docile ed addomesticata.
Ognuno di noi ha almeno una volta vissuto l’esperienza di uno spettacolo
che ci ha ustionati riducendo in cenere quello che pensavamo fosse il teatro,
l’arte dell’attore e il nostro ruolo di spettatore.
Ci sono bambini e vecchi, innamorati e dementi che hanno visto indimen-
ticabili e fuggitivi spettacoli nella danza delle fiamme nel camino o del falò in
un campo.
Vi sono le fiaccole che artisti visionari hanno gettato nella pratica e nel-
l’idea stessa del nostro mestiere, creando roghi che hanno alimentato con la
coerenza del loro agire.
Il teatro è “la terra del fuoco”.

* Discorso di ringraziamento per il titolo di Dottore honoris causa conferito dall’Insti-


tuto Universitario Nacional del Arte (IUNA) di Buenos Aires, il 5 dicembre 2008. Pubblicato
per la prima volta in “Memoria de teatro” n.5, Cali, Colombia, maggio 2009.

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266 Eugenio Barba

Parlando di teatro, soprattutto fra i professionisti e gli intenditori, la realtà


del fuoco ritorna come un leitmotiv: il fuoco della recitazione, il pubblico che
s’accende, l’ardore delle passioni e degli applausi. Quando una commedia è
davvero brillante e fa scintille, quando l’attore tragico arde di passione e ribel-
lione o l’attrice si infiamma di sdegno o voglia di vendetta, lo spettatore, atter-
rito e felice, viene sfiorato da un dubbio: è solo una sua impressione, o in
qualche parte sta covando un incendio?
Per secoli i teatri non poterono sottrarsi al loro appuntamento con le
fiamme, improvviso e imprevisto, ma obbligato. Bruciavano in media una
volta ogni cinquant’anni.
Andarono a fuoco tutti i teatri di San Francisco nel rogo che scoppiò su-
bito dopo il terremoto del 18 aprile 1906 e che durò tre giorni: gli imponenti
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Grand Opera House, Tivoli Opera House, Alcazar, Fischer’s & Alcazar, Cali-
fornia, Columbia, Majestic, Central, Orpheum, senza contare le sale minori e
il teatro cinese di Chinatown.
Arsero il Théâtre de la Porte Saint-Martin, lo Châtelet e il Théâtre Lyrique
durante la Comune di Parigi nel 1871, quando i comunardi appiccano fuoco
agli edifici pubblici.
José Posada immortalò l’incendio e la distruzione del teatro di Puebla in
una stampa che andò a ruba in Messico, mentre l’incendio del Bolshoi Teatro
di Mosca nel 1942, causato dalle bombe tedesche, ispirò a Stalin un discorso
che infiammò lo spirito patriottico del suo popolo.
Un’intera generazione teatrale perì tra le fiamme, il 5 settembre del 2005,
nel teatro di Beni Sweif, nella regione meridionale d’Egitto. Il fuoco carbo-
nizzò più di quaranta artisti, registi, critici e studiosi che assistevano a Grab
your Dreams di Mohamed Shawky. Erano il nucleo del movimento teatrale
della generazione tra gli anni ’70 e ’80.
A volte il teatro che brucia sembra spingere i suoi abitanti, gli attori, verso
altre città, esili o nuove avventure, come accadde a Wilhelm Meister nel ro-
manzo di Goethe. O come si immaginò il pittore che rappresentò la maschera
di Jodelet fuggire dall’incendio del Théâtre du Marais a Parigi nel 1634. Però,
se furono catastrofi, come considerarle metafore?
L’intero Padiglione Olandese dell’Esposizione Coloniale del 1931 andò
in cenere, si salvò solo il teatro. Era la sonnolenta estate del 1931 a Parigi, e i
giornali seppero commuovere i loro lettori descrivendo gli attori balinesi in
fuga, stringendo al petto i loro dorati costumi. Molti parigini accorsero a ve-
dere gli spettacoli di questi bizzarri danzatori pronti a rischiare la vita per sal-
vare i loro orpelli. Tra loro, Antonin Artaud.

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La conquista della differenza 267

Chiudendo l’introduzione a Il teatro e il suo doppio, Artaud parla di


fuoco. Sembra alludere al martirio e si tratta invece di vita. Spiega quel che la
cultura dovrebbe essere e non è. Il fumo delle sue parole si sprigiona davvero
da un corpo. Per questo conviene tradurre le sue parole alla lettera, come un
mantra contro lo spirito del suo secolo e di quello in cui viviamo:
Quando usiamo la parola vita dobbiamo renderci conto che non si tratta
della vita riconosciuta dalla superficie dei fatti, ma di questa sorta di fragile
e mobile focolare al quale le forme non appartengono. E se qualcosa è
ancora infernale e maledetta, in questo tempo, è l’attardarsi artisticamente
su delle forme, invece d’essere come suppliziati che vengono arsi e fanno dei
segni sui loro roghi.
Artaud non parla esplicitamente di attori. Eppure quei segni, quel suppli-
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ziato e quel rogo sono stati immediatamente intesi come un’immagine estrema
ed ideale dell’attore. Julian Beck e Judith Malina ne fecero la pietra angolare
del loro Living Theatre, il teatro vivo.
Antonin Artaud fu forse il più povero, il più sofferente, certo il meno
professionalmente autorevole fra i protagonisti della Grande Riforma del
teatro nella prima metà del secolo scorso. Dal punto di vista del mestiere, ha
ben poco da insegnare. Oggi lo annoveriamo fra i maestri, ma non fu mai un
maestro. Però fu l’allievo della propria anima divisa. Da essa imparò moltis-
simo. Legò indissolubilmente il nocciolo dell’arte teatrale alle sofferenze del-
l’anima malata. Artaud non depose le armi, continuò tutta la vita a soccombere
rialzarsi e combattere. Fino alla notte in cui si sedette sul letto e capì che l’ora
era arrivata. Si levò una scarpa, e tenendosela in mano come un amuleto, iniziò
l’ultimo viaggio.
Artaud indicò a noi, popolo del teatro, non i segreti del mestiere, ma quel
che attraverso il mestiere dobbiamo soffrire e, forse, sperare: l’esilio. È appena
un’infima parte della nostra professione. Ma senza quell’infima parte, arte e
mestiere sono solo un fuoco di paglia.
Sappiamo perché i teatri brucino e siano bruciati: per incuria, per la cru-
deltà del cielo, per speculazione, per malavita, per fascismo, per vendetta e
minaccia, per vecchiaia.
Nel teatro, in questa “terra del fuoco”, appaiono due diverse nature. L’una
è catastrofe, l’altra trasformazione. L’una distrugge, l’altra raffina, rafforza il
ferro e separa l’oro dalla fanghiglia a cui è incorporato. Di questo secondo
fuoco faccio l’elogio. Da questo secondo fuoco la nostra professione trae la
vita e il suo valore. La sua danza.
Danziamo? Sì, danziamo. Oppure no, non danziamo: facciamo teatro. Ma
chi saprebbe dire dove sta la differenza, dove passa il confine?

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268 Eugenio Barba

Danziamo sempre, ma non sempre per adeguarci ad un genere estetico.


Danziamo come su dei carboni ardenti, perché questa danza è essenzialmente
un rifiuto non distruttivo, una guerra non violenta alla natura che ci assoggetta.
E quindi, più o meno consapevolmente, un rifiuto della storia cui apparte-
niamo. Come se avessimo le ali; come se pesantissime radici affondassero
nella terra sotto i nostri piedi; come se il nostro “io” fosse un altro. Come se
davvero fossimo liberi. Ma umilmente, perché questa danza ha l’umiltà d’un
mestiere, poco più dell’esercizio del come se. E per gli spettatori è innanzi
tutto un passatempo.
Se qualcosa sembra non si possa associare all’elogio dell’incendio, è
proprio l’idea di un passatempo. Eppure…
La nostra arte non è fatta per essere arte. Non corre per raggiungere una
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forma definitiva. Corre per sparire. È un’arte arcaica, non solo perché oggi è
esclusa o si esclude dallo spettacolo principale del nostro tempo, lo spettacolo
dell’immagine riprodotta e riproducibile. Ma soprattutto perché sotto le appa-
renze d’un passatempo può nascondere una ricerca spirituale, qualcosa che
scuote, fortifica e a volte modifica la nostra coscienza e ci immette in una
condizione governata da altri valori.
Dobbiamo rimanere con i piedi ben piantati per terra e gli occhi fissi sulla
cassetta degli incassi. Ma non dobbiamo dimenticare che il teatro è finzione in
transito verso un’altra realtà, verso il rifiuto della realtà che crediamo di cono-
scere. Il teatro è finzione che può cambiare sia coloro che recitano che coloro
che osservano. Niente di altisonante, di minaccioso, di eretico o di folle. Solo
passatempo.
Essere passatempo è il livello elementare della nostra arte, così come il
pane lo è per la cucina mediterranea. Non si mangia senza pane. Ma il solo
pane alla lunga non basta.
A volte il passatempo è un valore in sé. Quando il tempo sembra non
passare mai, per chi è privato della libertà, per chi si tiene in piedi di fronte alla
propria sofferenza, all’amputazione della propria identità, o alla morte, il pas-
satempo può essere la formula della vita, la resistenza all’orrore. Dostojevskij
racconta come il vaudeville recitato con costumi signorili e le catene ai piedi,
nella katorga siberiana, fosse per i condannati un modo per rifarsi una vita.
Fare modestamente teatro, da amateur, negli anni della guerra fra l’esercito e
Sendero Luminoso, ad Ayacucho in Perù, era un’azione vicina all’eroismo,
per un gruppo di giovani che ho conosciuto. Erano attori perché desideravano
anche avere una zattera fuori dall’orrore.
In Europa, nel corso del Rinascimento, uno dei modi di far festa non erano
semplicemente i fuochi artificiali, era l’incendio. Il potente che organizzava i

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La conquista della differenza 269

festeggiamenti comprava una o due case popolari, cacciava via gli abitanti, le
svuotava, le riempiva di fuochi d’artificio e polvere da sparo, poi la faceva in-
cendiare ed esplodere. Lo spettacolo era molto applaudito.
Per chi non vi è direttamente implicato, l’incendio può essere uno spetta-
colo. E per chi lo racconta può essere una metafora della forza dirompente del
teatro nel cuore d’una città, della sua natura di focolaio di infezione morale.
Oppure una immagine della vocazione degli attori ad essere dei “senza casa”,
sempre pronti ad essere sfrattati: dal fuoco, dagli integralisti, dalle autorità,
dallo sfruttamento economico.
Nel paese in cui nel 1981 bruciò il teatro Picadero, forse non dovrei usare
l’incendio come una metafora.
Quando leggo che in Argentina regnava la pace dei cimiteri, che vi furono
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trentamila desaparecidos, migliaia di prigionieri politici e un milione di esi-


liati, che il popolo era senza dirigenti – morti, incarcerati o fuori dal paese – e
che qualsiasi forma di organizzazione sembrava impossibile, Il Teatro Abierto
mi appare come la danza sopra questi carboni ardenti di un pugno di attori e
autori, scenografi e tecnici, appena duecento, di fronte alla violenza della
Storia.
Il comando della dittatura che incendiò la sala del Picadero nell’agosto
1981 non aveva previsto che il suo atto criminale avrebbe scatenato una danza
ben più grande. Numerosi direttori di teatri commerciali si offrirono di conti-
nuare il Teatro Abierto, decine di pittori donarono quadri per raccogliere fondi
e le personalità più note dei diritti umani e della cultura espressero la loro
adesione. Così lo scrittore Carlos Somigliana descrisse questa danza: “l’obiet-
tivo profondo del Teatro Abierto fu quello di tornare a guardare la nostra faccia
senza vergognarci”.
Vi è un fuoco che non cessa di ardere nelle coscienze e nelle memorie dei
teatranti, come anche negli edifici dei teatri.
La sera del 7 maggio 1772, ad Amsterdam, durante la rappresentazione
del Déserteur di Monsigny, opera comica in tre atti, scoppiò un incendio che
distrusse completamente il teatro Schouwburg, facendo diciotto vittime. In
appena tre anni, fu costruito un nuovo edificio, più imponente e sfarzoso.
Fino al 1941, lo Schouwburg fu il teatro principale della città, situato nel
Plantagebuurt, il cuore del vecchio quartiere ebraico di Amsterdam. Nel-
l’ottobre 1941, i nazisti che avevano occupato l’Olanda cambiarono il suo
nome in Joodsche Schouwburg (Teatro Ebreo) per soli attori, musicisti e spet-
tatori israeliti. Nel settembre del 1942 il teatro fu chiuso e trasformato in un
luogo per raggruppare gli ebrei. 104.000 uomini, donne e bambini vi vennero
ammassati, e da lì avviati ai campi di sterminio della Germania e della Polonia.

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270 Eugenio Barba

Il teatro Schouwburg, da centro di cultura e divertimento, divenne un


cupo luogo di angoscia e dolore. Dopo la guerra quello spazio non poteva ri-
prendere la sua funzione originale e restò chiuso per anni. Fu scelto per diven-
tare un luogo della memoria. Oggi, entrando nell’ex teatro, vediamo bruciare
una fiamma eterna.
Con questa immagine d’una fiamma di pura memoria, che brucia senza
fumo di parole e senza corpo, potrei chiudere questo discorso.
Concluderò, invece, con un brindisi immaginario. Come si usa a teatro,
quando si ricorre al mimo al posto degli oggetti materiali.
Immaginate che qui, su questo tavolo accademico, ci sia una bottiglia di
birra. E torniamo sulle rive del Tamigi, in una delle nostre antiche patrie tea-
trali.
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Troviamo la notizia del primo incendio nella storia del teatro europeo in
una lettera del nobile inglese Sir Henry Watton, datata 2 luglio 1613 e inviata a
Sir Henry Bacon. Comincia così: “Ed ora lasciamo riposare i discorsi politici
e dello Stato. Mettiamoli a dormire. Ora vi voglio raccontare qualcosa che in
questa settimana è accaduta nella zona del Tamigi”.
Sir Watton riferisce che gli “Attori del Re”, la compagnia di Shakespeare,
hanno messo in scena un suo dramma intitolato All Is True. L’allestimento era
suntuoso, con stuoie e tappeti sul palcoscenico, una festa più ricca e maestosa
delle vere cerimonie di corte. Durante lo spettacolo vennero sparate vere salve
di cannone e alcune scintille, volate fra la paglia del tetto, consumarono l’in-
tero teatro in meno di un’ora. Così spari il Globe: senza morti e senza feriti.
Il teatro, immediatamente riedificato con un tetto di tegole, fu riaperto un
anno più tardi. Nel 1642 i Puritani, nel loro ardore religioso, chiusero tutti i
teatri incluso il Globe che fu dimenticato anche come forma di edificio tea-
trale: gli inglesi, alla riapertura dei teatri adottarono il teatro all’italiana. Pas-
sarono più di tre secoli e il Globe Theatre, uno dei nostri miti, risuscitò. Resti
del suo edificio furono scoperti nel 1989 sulle rive del Tamigi e, su ispirazione
di un attore e regista americano, Sam Wanamaker, un nuovo Globe fu rico-
struito nel 1997 uguale all’antico modello elisabettiano e vicino al luogo in cui
sorgeva l’originale.
Sapeva bene, Sir Watton, che ogni dramma deve chiudersi con il respiro
leggero d’una farsa, e concluse così la sua lettera a Sir Henry Bacon: “Soltanto
uno degli spettatori rischiò la morte. Gli si incendiarono le braghe e sarebbe
forse finito arrostito se un allegrone mezzo ubriaco non l’avesse spento ver-
sandogli addosso una bottiglia di birra”.
Fra tanti incendi, non sarebbe opportuno augurare anche a noi una buona
birra?

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EPILOGO
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L’EPILOGO È UNA DOMANDA

L’Odin Teatret è oggi un teatro quasi cinquantenne. Per noi, “piccola tra-
dizione nomade”, cinquant’anni anni sono un tempo molto lungo. La nave su
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cui abbiamo navigato ha scricchiolato a lungo. Non vogliamo essere dei so-
pravvissuti. E quando leggiamo il nostro nome nei libri di storia, più che
dall’orgoglio ci sentiamo scossi dalla voglia di recalcitrare. All’orizzonte si
profilano le sagome dei nostri spettatori futuri, quelli che non hanno mai assi-
stito alle nostre opere.
Gli spettatori della memoria sono molto più difficili degli spettatori della
presenza. Meno indifferenti, meno ostili, meno entusiasti. Molto più inclini
all’involontario tradimento. La storia rischia di dissiparsi in una dolciastra
leggenda. La spina del coraggio rischia di fiorire in artificiali immagini
d’agiografia teatrale.
La messa in scena della memoria è anch’esso uno dei nostri compiti. Il
più difficile. Altrettanto difficile del nostro primo spettacolo, quando non ave-
vamo un mestiere sicuro, né esperienza. Per quest’ultima messa in scena, che
non vedremo, pur essendone responsabili, torniamo ad essere autodidatti. Le
nostre conoscenze tecniche non servono a nulla. Non serve il sapere. Serve
forse solo la nostra ribellione iniziale contro lo spirito dei tempi e la sua cecità,
fatta di illusioni e ottimismi a buon mercato. Il tempo torna a prenderci a calci
e ci obbliga di nuovo a debuttare.
Come trasmettere una memoria viva, fatta di tensioni e contraddizioni,
non edulcorata e patinata dal passare del tempo? Come lottare contro la ditta-
tura della storia a lieto fine?

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BIBLIOTECA TEATRALE
MEMORIE DI TEATRO

1. Sergio Tofano, Il teatro all’antica italiana e altri scritti di teatro (a cura


di Alessandro Tinterri).
2. Francesco Augusto Bon, Scene comiche e non comiche della mia vita
(a cura di Teresa Viziano).
3. Luigi Rasi, La Duse (Postfazione: La Duse contro il teatro del suo tempo,
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di Mirella Schino).
4. Claudio Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro
italiano.
5. Guido Lopez, Marco Praga e Silvio D’Amico. Lettere e documenti (1919-
1929).
6. Maria Ines Aliverti, Poesia fuggitiva sugli attori nell’età di Voltaire.
7. Mirella Schino, Il crocevia del Ponte d’Era. Storie e voci da una genera-
zione teatrale (1974-1995).
8. Clive Barker, Giochi di Teatro. Strumenti per l’attore (a cura di Paolo
Asso).
9. Tra psicoanalisi e Teatro. Identificazione e creatività (a cura di Elisabetta
Zanzi e Sara Spadoni).
10. La letteratura in scena. Gadda e il teatro (a cura di Alba Andreini e Rober-
to Tessari).
11. Erland Josephson, Memorie di un attore (a cura di Vanda Monaco We-
sterståhl).
12. Franco Ruffini, Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro.
13. Paola Daniela Giovanelli, Sabatino Lopez. Critico di garbo (Prefazione
di Guido Lopez).
14. Vsevolod Emil’eviĆ mejerchol’d, Un ballo in maschera (a cura e con un
saggio di Anna Tellini).
15. Anton Bierl, L’Orestea di Eschilo sulla scena moderna. Concezioni teo-
riche e realizzazioni sceniche (Traduzione di Luca Zenobi, Premessa di
Massimo Fusillo, Postfazione dell’autore alla nuova edizione italiana).
16. Alessandra Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della trage-
dia greca (Premessa di Massimo Fusillo).
17. Iben Nagel Rasmussen, Il cavallo cieco. Dialoghi con Eugenio Barba e
altri scritti (a cura di Mirella Schino e Ferdinando Taviani).
18. Renzo Vescovi, Scritti dal Teatro Tascabile (a cura di Mirella Schino).
19. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano.

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20. Bernadette Majorana, Pupi e attori ovvero l’opera dei Pupi a Catania.
Storia e documenti.
21. Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse.
22. Valentina Venturini, Raffaele Viviani. La Compagnia, Napoli e l’Europa.
23. Goldoni a Bologna (a cura di Paola Daniela Giovanelli).
24. Voci e anime, corpi e scritture (a cura di Maria Ida Biggi e Paolo Puppa).
25. Franco Ruffini, L'attore che vola. Boxe, acrobazia, scienza della scena.
26. Francesca Romana Rietti, Jean-Louis Barrault. Artigianato teatrale.
27. Stefano Geraci, Destini e retrobotteghe. Teatro italiano nel primo Otto-
cento.
28. Carla Arduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia.
29. Zbigniew Osiński, Jerzy Grotowski e il suo laboratorio. Dagli spettacoli a
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L’arte come veicolo.

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