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© 1981, Eugenio Barba
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Eugenio Barba
edizioni di pagina
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isbn 978-88-7470-666-2
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indice
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Introduzione
Il gesto formativo dell’esperienza teatrale 9
di Francesco Cappa
Teatro-Cultura 47
Paura del ghetto 48
Immagini antistoriche 53
Le isole galleggianti 61
Pueblos, Cimarrones 70
Un teatro asociale? 74
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Dal diario di Iben Nagel Rasmussen 112
3 maggio 1974, p. 112 - 6 maggio 1974, p. 117
3. Sul teatro come arte del far vedere 131
Ringraziamenti 181
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A Jerzy
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introduzione
il gesto formativo
dell’esperienza teatrale
di Francesco Cappa
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Questo testo vive e interroga da un margine, da un «ghet-
to», come scrive Barba nelle pagine iniziali del libro, uno
spazio e un luogo che come i margini della filosofia, evocati
da Jacques Derrida, riescono a gettare una luce che attraver-
sa lateralmente gli elementi e le zone che credevamo di co-
noscere e che davamo forse per scontate e assodate. In que-
sto margine troviamo, ancora oggi, una voce e un discorso
che non hanno perso efficacia e attualità. Una voce e un di-
scorso ancora necessari per comprendere qualcosa di essen-
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ziali e non retoriche da essere interrogato come un essere
umano che cerca di incontrarne un altro attraverso un’espe-
rienza autentica. «Avventura e incontro: non quale che sia;
ma che accada quello che vorremmo accadesse e poi accada
anche ad altri tra noi»1. Un incontro in cui l’esperienza for-
mativa diviene allo stesso tempo una chance etica e un’occa-
sione per mobilitare problemi che riguardano tutti.
Per questi motivi mi limiterò a indicare alcuni luoghi del
libro, per generare riflessioni, digressioni e commenti, per
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1. Rivelare relazioni
La ricerca personale, non privata, lascia tracce.
In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove generazioni,
un senso imprevisto viene dato all’incontro con il teatro: non il
bisogno di ricevere teatro, ma il bisogno di fare teatro, di creare
nuove relazioni, come attore e come spettatore.
Il teatro diventa, così, il mezzo per non restare soli, per gettare un
ponte, per creare legami senza rinunciare ai propri sogni. Il teatro
1
J. Grotowski, Holiday: il giorno che è santo, in Id., Holiday e Teatro
delle fonti, La Casa Usher, Firenze 2006, p. 59.
11
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diventa anche l’astuzia, la trincea per proteggere e nascondere
quel che riteniamo essenziale.
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politica e società dei consumi, sono del tutto anacronistiche?
Lasciamo, per ora, la domanda sospesa.
Quello che è interessante notare è che l’esperienza con-
temporanea, sul piano formativo, ripropone con uno scarto
la questione che Pasolini denunciava senza tregua: se, a par-
tire dagli anni Sessanta del XX secolo, l’avere aveva spudo-
ratamente impoverito l’essere, potremmo dire che oggi l’ave-
re – informazioni, conoscenze, esperienze – genera la
necessità di essere connessi. Ma l’essere connessi non deter-
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grande metafora dell’esserci e quindi anche del modo di for-
marsi e di formare il Sé.
Se l’accesso all’informazione non si annoda, in ogni sog-
getto, al campo di esperienza che i processi formativi metto-
no in movimento, l’eccesso di connessioni può generare una
crisi della presenza anziché un potenziamento delle oppor-
tunità di formazione del Sé. Il potere pulviscolare espresso
dall’apertura estrema che la network society ci offre, in ogni
istante, può generare un effetto di passivizzazione a fronte,
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«L’Odin rifiuta sia il teatro convenzionale dominante che il teatro
d’avanguardia ortodosso. L’Odin è stato il pioniere di quel movimento
denominato Terzo teatro. [...] Il modo in cui costruisce un’opera è
tale da costruire una sfida per gli spettatori come solo i migliori teatri
d’avanguardia sanno fare. Ma invece di girare nel circuito dei festival,
l’Odin va in villaggi dove rimane per lunghi periodi o va nei quartieri
abitati dalle minoranze o dalla classe operaia. Oppure lavora con grup-
pi locali attivi in ambito artistico. L’Odin non è un gruppo elitario» (J.
Grotowski, Intervista con Jerzy Grotowski su Eugenio Barba. A cura di
Richard Schechner [1984], in Id., Testi 1954-1998. Oltre il teatro, vol.
III, La casa Usher, Firenze 2016, pp. 254-255).
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descriveva una nuova esperienza teatrale che già rispondeva
ai primi sintomi della perdita di presenza dei soggetti nella
dimensione relazionale, sociale e politica. Oltre a sottoline-
are una possibilità di distinzione del Terzo teatro nel rappor-
to con le istituzioni culturali e teatrali dell’epoca in cui Bar-
ba scriveva.
La connessione oggi induce anche un ritmo, spesso com-
pulsivo, segnato dalla logica dell’adempimento costretto dai
software che, a dispetto del nome, pesantemente e in modo
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Qualcosa che Karl Marx scrisse in una lettera al suo amico
Engels alla fine dell’estate del 1867: «Mi è costato tanta fati-
ca trovare le cose stesse, vale a dire la loro connessione». Tale
connessione esprime la tensione del soggetto, anche corpo-
rea espressa in quella fatica, a scoprire la struttura, l’artico-
lazione, la legge del mutamento che governa le forme della
storia, della società, dei fenomeni che ci attraversano e ci
formano. Quello che Marx chiamava scienza della forma re-
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2. Il gesto formativo
Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i risultati e che
permette di non fermarsi ad essi. [...] Sapere non è comprendere.
Il modo di controllare un processo di lavoro è qualcosa che si as-
sorbe in un lunghissimo arco di tempo, in determinate relazioni
e condizioni di lavoro. Solo quando lo si è assorbito, lo si è com-
preso, si comprende anche che cosa si sa.
Influenzare l’allievo sarebbe – secondo un’opinione comune –
negativo. I segni dell’influenza rivelerebbero un rapporto malsa-
no. Ma con questo modo di ragionare non si approda a nulla:
tutti siamo influenzati da qualcuno. Il problema è la carica di
energia che viene messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è
così forte che permette di andare lontano, o se è così debole che
non produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una mar-
cia sul posto. [...]
Ma dove il rapporto è libero, se nasce da una scelta reciproca,
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garantirà tanto più una forma di giustizia quanto più obbligherà
reciprocamente le sue parti.
Questa scelta reciproca racchiude l’esigenza di un rapporto peda-
gogico diverso, basato su uno scambio e una influenza profonda
fino a giungere ad una relazione in cui non si sa più chi è maestro
e chi è allievo. È questo che permette che una rigorosa disciplina
non sia costrizione.
Ciò implica una tradizione vivente, una vivente trasmissione del-
le esperienze, qualcosa che va al di là dei princìpi, delle teorie,
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In un’occasione pubblica è stata posta a Jerzy Grotowski
una domanda sul significato del gesto come segno. Questa
domanda per Grotowski ne conteneva una implicita:
Si deve avere l’idea di qualcosa e poi cercare di metterla in
pratica? [...] Se si prende questa via, sin dall’inizio si è divisi
tra pensiero e azione, intenzione e vita; si ha a che fare con
certe “idee” che si prendono per vere a priori e poi si cerca il
modo per illustrarle. Naturalmente, si può costruire in questo
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J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, cit., pp. 69-70.
4
Ivi, p. 71.
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che il gesto-segno porta con sé. Il teatro, ha scritto Jean-Luc
Nancy, nella sua forza di duplicazione della presenza per-
mette al segno di divenire la rappresentazione di un “corpo-
teatro”.
La teatralità procede dalla dichiarazione di esistenza – e l’e-
sistenza stessa è l’essere che è dichiarato, presentato, non
trattenuto in sé. È l’essere che dà segno di se stesso, che si dà
a sentire non in una semplice percezione ma come densità e
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come tensione5.
5
J.-L. Nancy, Corpo-teatro, Cronopio, Napoli 2008, p. 32.
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volte li nominava Grotowski – può accedere non solo a un’e-
nergia che non sospettava di avere, ma può relamente “co-
municare” qualcosa che può contattare il pubblico, il sog-
getto che si sta formando, l’altro. Barba sottolinea spesso il
fatto che una delle esperienze fondamentali per la formazio-
ne dell’attore riguarda l’apprendere ad apprendere, in linea
con la filosofia dell’educazione di Dewey, che mirava ad
«accendere il desiderio di apprendere» più che ad appren-
dere conoscenze, e con le teorie della psicologia culturale
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bruneriana6.
Il performer-formatore, così come il performer-formando
può capire solo se fa, dal suo fare o non fare: quindi appren-
de dalla retroflessione dei suoi gesti, consapevoli e inconsa-
pevoli, accedendo ad un piano, quello gestuale appunto, che
è soggettivo e intersoggettivo, o meglio transindividuale. Un
piano ben presente alla prospettiva dell’antropologia teatra-
le di Barba.
È ancora Grotowski che, in un passaggio di un suo inter-
vento del 1987 intitolato Performer, indica l’importanza
6
Roberta Secchi, che si è formata come attrice con Barba, mi ha
fatto notare che la densità e la tensione come qualità tecniche, sceni-
che, formative e performative sono da mettere in relazione con la resi-
stenza che l’attore, il performatore, ma anche il formando e lo spetta-
tore mettono in gioco nella relazione. Resistenza ad apprendere perché
apprendere significa cedere le armi, essere disponibile a trasformarsi
a cambiare, a evolversi. Resistenza dello spettatore davanti agli spetta-
coli dell’Odin, che non sono sempre di facile fruizione, non sono pro-
dotti commercialmente confezionati, non inducono la passivizzazione
dello spettatore.
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dell’intreccio essenziale tra perfomance e processo forma-
tivo:
La domanda chiave è: qual è il tuo processo? Gli sei fedele
oppure lotti contro il tuo processo? Il processo è come il de-
stino di ciascuno, il proprio destino che si sviluppa nel tempo
(che semplicemente si svolge, e questo è tutto). Allora: qual è
la qualità della tua sottomissione al tuo proprio destino? Si può
captare il processo se ciò che si fa è in rapporto con noi stessi,
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J. Grotowski, Testi 1954-1998. L’arte come veicolo, vol. IV, La casa
Usher, Firenze 2016, p. 55.
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Fino a quattro anni, riteneva Benjamin, il bambino vive il
suo periodo di massima indipendenza “ideologica” ed è du-
rante questo periodo che bisogna fornirgli gli strumenti per
la formazione di una capacità e libertà critica che gli per-
metterà in futuro non solo di comprendere, ma di ricono-
scere le forme più sottili e nascoste dell’ideologia. In questo
senso l’articolo intitolato Pestalozzi a Yverdun è qualcosa di
più di uno scritto occasionale in cui Benjamin affrontava
questioni pedagogiche: «La mentalità di Yverdun era la
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W. Benjamin, Figure dell’infanzia. Letteratura, educazione, immagi-
nario, a cura di F. Cappa e M. Negri, Raffaello Cortina, Milano 2014,
p. 116.
9
Ivi, p. 118.
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offre di insegnare, ogni volta si tende verso chi impara per-
ché sa che solo questo è il modo per imparare a insegnare
sempre meglio e più profondamente. Non la mano che in-
dica e insegna, ma la mano che incontra.
La forza del gesto pedagogico, scevra da ogni pietismo
educativo, viene ridotta alla sua essenza di punto di presa di
un discorso e di una pratica che investono l’essenziale di ciò
che si compie come azione. Tale azione è sorretta dalla forza
del gesto di chi forma, nella sua relazione profonda con un’i-
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ta alle neutralità dell’estetica: prassi pura. Né valore d’uso né
valore di scambio, né esperienza biografica né evento imper-
sonale, il gesto è il rovescio della merce10.
10
G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Borin-
ghieri, Torino 1996, p. 65.
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buona riuscita delle nostre azioni, dovrebbe mostrarci che i
nostri gesti, coordinati in un’azione, vanno a buon fine, tra-
lasciando non di rado quali siano i criteri e i parametri che
giudicano utile, efficace, giusta un’azione. Le parole di
Agamben ci segnalano che il rischio di ogni gesto dovrebbe
invece porre attenzione a un effetto di liberazione, per il
soggetto, per la comunità, di una potenza ulteriore. Questo
tipo di gesto, questa qualità del gesto, che dovrebbe caratte-
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3. Tradurre l’esperienza
È questa dialettica che caratterizza il rapporto regista-attori, atto-
ri-regista, spettacolo-spettatori. È un rapporto di traduzioni e tra-
dimenti continui in cui parte dal punto in cui l’altro è arrivato.
Non è importante “capirsi” né trasmettere qualcosa di identico
per tutti. È importante costruire il ponte, scoprire le relazioni,
crearne d’altre: mettere in azione, permettere una reazione.
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duzione perfetta anche nel senso di purificare il desiderio di
dominazione e assimilazione che vede l’altro, l’estraneo, chi
deve essere “comunicato” come qualcosa che deve essere
tradotto nel “proprio” sogno-desiderio di riproduzione, di
ripetizione.
Si tratta invece di prendersi la responsabilità di questa tra-
duzione, con le ombre che porta in seno; di dare corpo a
questa traduzione, e quindi di assumere come tratto propo-
sitivo la sua infedeltà. Nella traduzione si rende evidente il
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tradotti e quindi desacralizzati non sarebbe sopravvissuto
quasi nulla della nostra cultura.
La traduzione formativa è una figura dell’incontro. È la
figura dell’incontro con lo straniero, con l’altro che non ca-
pisce la mia lingua, con chi deve imparare quello che io so.
E ogni traduzione non può che generare un sapere aperto,
perché ogni traduzione costruisce una variazione, ricerca il
significato, non parte da un significato già istituito. È in que-
sto senso che trovo forte l’analogia tra traduzione e forma-
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essere accostato al lavoro del ricordo e al lavoro del lutto. Il
nodo tra memoria e lutto è per certi versi il nodo essenziale
dell’esperienza formativa, nella misura in cui – perché si dia
soggettivazione, perché si incontri la singolarità con il suo
impegno alla verità, perché ci sia eredità e trasmissione – un
lutto va attraversato, affinché il ricordo dell’altro non muoia,
è necessario trasformare e tradurre il nostro desiderio – an-
che il nostro desiderio di formare – in qualcosa che esprima
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rà mai abbastanza sui rischi della personalizzazione nel lavoro
dell’attore, sui rischi di una concezione psicologistica che non
fa che ripercorrere i vecchi preconcetti e le vecchie mitologie
sull’attore.
Quel che conta è il risultato obiettivo: le azioni, non le inten-
zioni.
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Tale linguaggio, che evoca nello spirito immagini di un’inten-
sa poesia naturale (o spirituale), dà bene l’idea di ciò che
potrebbe essere a teatro una poesia dello spazio indipenden-
te dal linguaggio articolato11.
11
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 155-
157.
12
Ivi, p. 157.
13
A. Artaud, Le théâtre que je vais a fonder, in Œvres Complètes,
Gallimard, Paris, vol. V, p. 37.
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una fisicità fine a se stessa a un dispositivo capace di innesca-
re il flusso della profondità. La profondità però non va inte-
sa come essenza originaria e nascosta, ma come intervento
nel “fare” della dynamis14.
Il segno è un elemento magico, nel senso junghiano in cui
magico e psichico vengono a significare la stessa cosa: il se-
gno è un mezzo cifrato, enigmatico (geroglifico) per ritrova-
re un vuoto senza il quale non esiste realtà e senso. Il dispo-
sitivo teatrale attraversando il campo dei gesti indica
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14
Vedi U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Anto-
nin Artaud, Feltrinelli, Milano 1977, p. 115.
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detto, costruire una grammatica che fondata sullo scacco del
significante metta in luce nuovi significati. Si tratta di pro-
durre sulla scena nuova realtà e non imitazione.
L’attore diviene quasi inessenziale, Artaud preconizza
quella “macchina attoriale” che Carmelo Bene, a suo modo
e con un’altra idea di teatro, ha realizzato. L’attore è inessen-
ziale e insieme fondamentale, perché quello che conta è cre-
are lo spazio del sacro con un teatro che riesca a manifestarsi
anche senza mediatore umano, ma nella trama dei suoi segni.
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15
A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 1996, p. 72.
16
U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 165.
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di pienezza e concretezza dell’astrazione, al teatro di Robert
Wilson, se quest’ultimo, in una conferenza tenuta alla trien-
nale di Milano di qualche anno fa, diceva:
la croce fra spazio e tempo è la struttura di tutto, dagli edifici
alle opere d’arte d’ogni genere, il modo di stare in palcosce-
nico, il nostro fondamento. Attenzione e rilassamento è il
modo in cui vediamo, in cui siamo coscienti di essere. All’ini-
zio c’è l’unità dello spazio vuoto che è bellissimo. L’attore
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Deleuze, un gesto espressivo e comunicativo (poiché Artaud
non rinunciò mai, neppure abitando il suo limite, al compito
della comunicazione, per quanto profonda potesse risultare)
che violenta la lingua-madre, ne detronizza le forme e i co-
dici tentando di farsi pienamente abitare dal “soffio conti-
nuo e pieno” di una scienza che trasgredisce ogni sua intrin-
seco tentativo di darsi come è e non come potrebbe essere
“ulteriormente”. L’atto mitico della “ricreazione del corpo”
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che approda alla sua non organicità, alla sua gloria deve,
però, passare attraverso il corpo per farsi carne. Solo questo
passaggio può consentire all’uomo di sfiorare in un momen-
to essenziale, nel soffio di una lingua sconosciuta, non tanto
il senso, che sempre si dà nello scarto e nel suo scacco, ma
una pienezza che non tradisce la vita.
L’agglomerato frusciante d’una lingua sconosciuta costituisce
una deliziosa protezione, avviluppa lo straniero (per poco che
il paese non gli sia ostile) in una pellicola sonora che trattiene
alle soglie delle sue orecchie tutte le alienazioni della lingua
materna [...].
La lingua sconosciuta, di cui colgo purtuttavia la respirazio-
ne, l’areazione emotiva, in una parola la pura significanza,
forma attorno a me, via via ch’io mi muovo, una leggera ver-
tigine, mi trascina nel suo vuoto artificiale, che non si realizza
che per me, vivo nell’interstizio, alleggerito d’ogni senso pie-
no. Come ve la siete cavata laggiù con la lingua? Sottointeso:
come vi siete assicurato il bisogno vitale della comunicazione?
O più esattamente, asserzione ideologica che nasconde l’in-
terrogativo pratico: non c’è comunicazione che nella parola.
Capita invece, in questo paese (il Giappone), che l’impero dei
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significanti sia così vasto, ecceda a tal punto la parola, che lo
scambio dei segni rimane di una ricchezza, d’una motilità,
d’una sottigliezza affascinanti, a dispetto dell’opacità della
lingua, anzi, talvolta grazie a questa stessa opacità. La ragione
di ciò è che laggiù il corpo esiste, si dispiega, agisce, si dà
senza isteria, senza narcisismo ma secondo un puro progetto
erotico, sia pura sottilmente discreto.
[...] è tutto il corpo dell’altro che si è fatto conoscere, gustare,
accogliere e che ha dispiegato (senza fine reale) il suo raccon-
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17
R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, pp. 14-15.
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Quei princìpi, infatti, non sono suggerimenti estetici fatti per
aggiungere bellezza al corpo dell’attore. Sono mezzi per toglie-
re al corpo gli automatismi quotidiani, per impedirgli, cioè, di
essere solo un corpo umano condannato a rassomigliare a se
stesso, a presentare e rappresentare solo se stesso.
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metodo, una via per rendere possibile alla sensibilità la per-
cezione dell’apertura verso questi altri piani di esistenza.
La partitura dei segni concreti viene a contrapporsi ad un
sistema di simboli che sul palco guida il pubblico dal signi-
ficante al significato, non solo psicologico, dell’azione dram-
matica che avviene sul palcoscenico. Il segno conta in fun-
zione del suo «dinamismo», espressione che per Artaud è un
sinonimo di creazione pura18. Il segno concreto (il gesto)
non si oppone alla realtà come qualcosa di autonomo; il se-
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18
Cfr. U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 124.
19
In una modalità “ritmica”, come vuole la definizione stessa di
partitura: «Negli spettacoli del teatro Balinese, lo spirito ha la sensa-
zione che l’idea abbia in un primo tempo cozzato contro i gesti, e abbia
poi preso piede in mezzo ad una intensa fermentazione di immagini
visive o sonore, pensate come allo stato puro. Per dirla più brevemen-
te e con maggior chiarezza, qualcosa di simile allo stato musicale deve
aver presieduto a questa regia, nella quale tutto ciò che è concezione
dello spirito è semplicemente un pretesto, una virtualità il cui doppio
ha prodotto un’intensa poesia scenica, un linguaggio spaziale» (A. Ar-
taud, Sul teatro Balinese, in Id., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Tori-
no 1968, p. 179).
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poiché produce l’esperienza praticabile di un piano in cui il
soggetto può sperimentare un’eccedenza rispetto al senso
offerto dalla mera cosalità: un piano che rende conto del
doppio della vita proprio in quella dimensione “più che re-
ale”, potenzialmente implicata nella pura azione della fisici-
tà, della materialità del gesto.
In questa prospettiva va inteso il riferimento al potere dei
geroglifici, non tanto quindi come esempio della forza dei
simboli, quanto del potere eccedente dei segni che diventano
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20
A. Artaud, in Œuvres Complètes, vol. XXIII, Gallimard, Paris,
1965, p. 349.
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spetto rivelatore della materia, che pare improvvisamente di-
sperdersi in segni per insegnarci l’identità metafisica fra con-
creto e astratto, e insegnarcela in gesti fatti per durare21.
21
A. Artaud, Sul teatro Balinese, cit., p. 176.
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della creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione
di esseri finiti22.
22
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., p. 207.
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terra di cenere e diamanti 23 –, è il momento in cui riconosci-
mento e rigetto, asserzione e rifiuto si fondono. Nella tradi-
zione buddista il Sunyata è la negazione assoluta di questo
mondo mediante una tecnica di Saggezza basata non sul
pensiero razionale, ma sull’esperienza.
È una pratica che sta esattamente tra l’affermare e il rifiutare,
tra l’agire e la rinuncia all’azione. Finché si vuole conseguire
l’Illuminazione non la si raggiunge perché, finché si desidera
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Questa
de-presa della disponibilità è una presa, una presa addirittura più
abile, poiché fluida, non rigida, non trattenuta: la nozione è etica
e, allo stesso tempo, strategica. Presa tanto più efficace per il
fatto che non si localizza più, non si specifica più, non si impone
più; tanto più adeguata perché non mirando più a nulla, non
resta mai delusa né mancante; non è né sviata né frammentata25.
23
E. Barba, La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in
Polonia, Ubulibri, Milano 2004.
24
Ivi, p. 48.
25
F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cine-
se in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 28-29.
41
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Solo in questo modo, accedendo a questa disponibilità,
l’energia può animare l’atto teatrale, può rendere fertile il
risuonare del gesto dell’attore oltre il tempo e oltre lo spazio,
proprio perché vive nello spazio e nel tempo del teatro: ecco
perché la finzione è il modo proprio in cui l’attore può mo-
dellare la sua energia.
Modellare l’energia significa creare e dare forma: stare
nell’apertura di un processo che dà forma non perché dipen-
de da un atto di volontà, ma perché rischia l’abbandono, si
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26
J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, cit., p. 53.
42
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fosse invece faticosa premessa alla scoperta della propria so-
litudine, creativa e senza lutto27.
27
E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 12.
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teatro-cultura
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ma anche alle relazioni che gli uomini stabiliscono produ-
cendo spettacoli.
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Altri lo hanno rifiutato come pericoloso e mistificante.
Hanno visto dietro di esso la proposta di un teatro con-
tento dei suoi limiti, volutamente seduto al suo umile po-
sto in fondo alla fila. Un teatro che chiede per sé solo le
briciole del prestigio della Cultura e del pubblico denaro
che, in certi paesi, viene destinato alla conservazione e
allo sviluppo dell’Arte teatrale.
Mi hanno detto: «Se Terzo teatro indica il ghetto in cui
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contri, le esperienze, i momenti di illuminazione, le ferite
che costituiscono le insicure radici personali. D’abitudine
esse non debbono essere portate allo scoperto. Devono
restare teatro.
Nei mesi seguenti all’Atelier di Belgrado del ’76, il ter-
mine Terzo teatro si è velocemente diffuso. Non solo po-
lemiche e discussioni, ma anche la moda. Nella provincia
del teatro la moda spesso coincide con l’attenzione al pro-
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re per garantirsi una precaria esistenza, allora non ci rico-
nosciamo nell’arcipelago del Terzo teatro.» Rifiutare il
ghetto?
Le juderias spagnole, le judengasse tedesche, i ghetti ita-
liani sorsero dalla discriminazione, dalla violenza dei
goym, della maggioranza verso la minoranza ebrea. Sono
il segno fisico di un’intolleranza che ancora non giungeva
fino all’annientamento sistematico, alla soluzione finale.
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Accettare le norme e i modi di vivere che non senti come
tuoi: si diventa, allora, marrani. Si è accettati. Esterior-
mente nulla distingue il marrano dalle persone del nuovo
ambiente, anche se dentro di lui può nascondere altre
aspirazioni, altre nostalgie, altre “fedi”.
Forse il rifiuto a lasciarsi chiudere, di vivere nel ghetto
riflette il rifiuto di una scelta di vita che è oggetto di scan-
dalo per i goym del nostro tempo.
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tis i pazienti poveri, senza chieder loro a quale religione
appartenessero.
Il ghetto era il quartiere dove qualsiasi ebreo, da qual-
siasi regione venisse, dall’Oriente, dalle terre slave, dalle
isole o dall’Africa, sapeva di essere accolto. La separazio-
ne del ghetto era separazione dai suoi vicini. Non era iso-
lamento dalla società, dalla storia, dalle più profonde
trasformazioni del proprio tempo.
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Immagini antistoriche
Ci sono due domande che sembrano eguali, ma non lo
sono. La prima: qual è il valore sociale di un teatro? La
seconda: quali relazioni un teatro stabilisce con il pubbli-
co? Come influisce su di esso? Come sa esserne influen-
zato?
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Per valutare il teatro, come fenomeno sociale e cultura-
le, ci si orienta automaticamente sul pubblico. Ma le rela-
zioni fra gli attori e il pubblico diventano importanti solo
in un secondo momento. Innanzi tutto contano le relazio-
ni che si instaurano fra coloro che fanno teatro.
La prima fase sociale del teatro avviene al suo interno:
è il modo come differenti individui regolano le loro rela-
zioni di lavoro e socializzano i propri bisogni. Il carattere
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ni. Essa, però, dura, e per questo stesso fatto si prolunga
imponendo la sua visione.
Gli attori, ovviamente, non scrivono “recensioni” dei
loro pubblici, né – in genere – lasciano testimonianze
scritte sulle relazioni che intercorrono all’interno del
gruppo, sulla dimensione sociale del loro gruppo.
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Ma gli storici del teatro – a cominciare dal Settecento,
mentre la Commedia dell’Arte era ancora viva – travisa-
rono questo processo storico dietro l’immagine di un te-
atro che aveva fatto una scelta estetica o di “linguaggio”:
quella dell’improvvisazione o quella del gesto al posto
della parola. Dal punto di vista degli spettatori colti, che
scrivevano, la funzione della Commedia dell’Arte fu di
rappresentare, nella cultura del tempo, i diritti della fan-
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cause e motivazioni tanto più ingannatrici quanto più
sembrano chiare e inoppugnabili al senso comune.
La “scienza” del teatro non ha ancora avuto neppure la
sua rivoluzione copernicana. Sembra che gli uomini ruo-
tino intorno alle terre immobili delle estetiche e delle ide-
ologie teatrali, e non queste intorno agli uomini dalla cui
storia concreta sono state generate.
Intorno a chi orbiti? Intorno al teatro psicologico o alla
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bavagliarlo quasi quanto l’esilio, nel paese in cui viveva, è
una storia quasi tutta da fare.
Così come è una storia da fare quella del significato re-
ale del Berliner Ensemble a Berlino. Ma i teorici del
brechtismo, quelli che l’hanno trasformato in una teolo-
gia negli anni Cinquanta e Sessanta in Francia e in Italia,
negli Usa e in Scandinavia, oggi vanno a Berlino, nel tea-
tro che Brecht ha creato, vedono i suoi spettacoli e quelli
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Stanislavskij da una parte è stato elevato a modello per
l’attore del realismo socialista, dall’altra viene ridotto
all’immagine dell’attore dell’individualismo borghese.
Con la pretesa di stare attenti ai valori sociali, si creano,
invece, enti soprasensibili che vengono fatti entrare in
conflitto.
I veri conflitti storici si perdono e si nascondono dietro
puri conflitti di idee.
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Di qui iniziò l’avventura del Vieux Colombier e del grup-
po dei Copiaus. Fra l’altro divennero anche ottimi attori,
e quando quell’avventura si esaurì – quasi come un suo
risultato secondario, quasi appiattendo i bisogni che li
avevano spinti a riunirsi in gruppo – mutarono il volto del
teatro francese.
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rale, si finge malato e disinteressato al lavoro: non si può
essere “morali” in una società immorale.
Quest’ultima è una frase di Brecht.
Cosa significa essere stanislavskijani o brechtiani? Esse-
re custodi e sacerdoti delle loro tombe o viaggiatori ani-
mati dal loro segno?
Significa seguire Brecht quando parla della sua tecnica
di straniamento, o orientarsi su di lui quando parla della
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Le isole galleggianti
I critici, gli ideologi e gli uomini di teatro hanno tentato
per anni di ignorare questa constatazione: che il teatro ha
perso il suo carattere di uso profondamente funzionale ad
un determinato ceto sociale, ad una determinata colletti-
vità.
In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove
generazioni, un senso imprevisto viene dato all’incontro
con il teatro: non il bisogno di ricevere teatro, ma il biso-
gno di fare teatro, di creare nuove relazioni, come attore
e come spettatore.
Nasce un teatro come espressione di piccoli gruppi di
persone che forse presentano necessità e contraddizioni
che riguardano un numero limitato di individui. Essi, pe-
rò, esistono, si manifestano e agiscono fra di noi.
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Sono gruppi che non si sognano come veicolo di grandi
parole, di grandi messaggi, di grandi dibattiti, ma che cer-
cano la strada perché il singolo entri in contatto con il
singolo, il diverso con il diverso.
Non contenuti nuovi, ma rapporti nuovi, spesso difficil-
mente decifrabili, vengono a prendere il posto lasciato
vuoto dagli abituali contenuti del teatro. Non è un “altro
teatro” che nasce. Altre situazioni cominciano ad essere
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chiamate teatro.
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suoi spettacoli per pochi spettatori e non basati sulla
comprensibilità di un testo fatto di parole – sono la rispo-
sta ad una situazione che sembrava condannarci all’impo-
tenza.
Siamo stati costretti ad essere autodidatti. Eravamo sta-
ti rifiutati dalle scuole teatrali e dai teatri professionali
dove alcuni dei miei compagni volevano, all’inizio, essere
normali attori interpreti di testi. E dove io desideravo,
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suo lavoro e scrivendo, interessato solo ad una interpre-
tazione concettuale, senza nessun momento di verifica
pratica.
Per molto tempo l’Odin non è stato riconosciuto come
un teatro, ma come un gruppo che riusciva a sopravvive-
re attraverso altre attività culturali, la pubblicazione di
libri e riviste, l’organizzazione di tournées di spettacoli
stranieri.
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mini che, tramite il teatro, seguono il sogno di costruirsi
la propria vita.
Un teatro dei diversi, quindi, di sognatori?
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aveva fatto l’aquila sul cactus, la loro visione e il loro pre-
sagio.
Gli Aztechi costruirono anche delle zattere di giunchi
sulle quali stesero della terra in cui deposero dei semi. Da
quegli orti galleggianti sorse lentamente un villaggio, il cui
nome avrà un lungo destino: México-Tenochtitlan. Méxi-
co significa: “la città che è al centro del lago della luna”.
Ma questa è una storia ottimistica.
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sere definiti “peccatori”, “malati”, “socialmente disadat-
tati”, “asociali”. E d’essere trattati come tali.
Bisogna scavarsi una trincea.
Quando era il tempo di seminare, molti schernivano ciò
che l’Odin seminava, il modo come lo facevamo. Voleva-
no che seminassimo, coltivassimo altro.
I consigli erano espliciti: seguici dove ti indichiamo e
sarai salvo, nelle braccia dell’accettazione di noi tutti. Ci
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che ormai hanno speso quasi un’intera vita a seminare
sull’acqua.
Ma se malgrado tutto uno riesce a sopravvivere, allora
paradossalmente la sua “asocialità” si trasforma in qual-
cosa di sociale. Il teatro diventa, così, il mezzo per non
restare soli, per gettare un ponte, per creare legami senza
rinunciare ai propri sogni.
Il teatro diventa anche l’astuzia, la trincea per protegge-
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cepire, di agire. Se questo atteggiamento per molti rappre-
senta un allargamento dei confini del teatro, spesso a noi
stessi sembra un rifiuto di tutto ciò che nella nostra cultu-
ra ha senso chiamare teatro.
Penso a Grotowski, alla gente del Living, a noi dell’O-
din. Più d’uno di noi, dopo aver per anni lavorato a ride-
finire il ruolo e la figura dell’attore, ha poi cercato di can-
cellare l’attore nel suo compagno di lavoro, di annullare
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la rappresentazione.
E di conseguenza annullare lo spettatore.
È stato detto che “spettatore” è qualcosa meno di “uo-
mo”. Ma parlo di uomo. Del bisogno di trasformare il
teatro in una ben delimitata situazione che permetta di
andare al di là dei rapporti e delle percezioni che debbo-
no caratterizzare la vita di ogni giorno.
Per alcuni ciò significa orientarsi su un territorio peri-
coloso, sospetto, denunciabile come “romantico”, “misti-
co”, “irrazionale”.
Questa ricerca cosciente di colui che sceglie il teatro
non per esserne “spettatore”, ma come situazione per rag-
giungere un diverso stato di esperienza, questo è già su-
perare i limiti definiti da una convenzione vecchia di po-
chi secoli: il Teatro.
Cosa vediamo se guardiamo con stupore attraverso
questa parola usuale?
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seri invisibili ad occhio nudo. Fino ad allora la “vita” era
stata qualcosa di visibile: il cavallo, il cigno, il delfino, il
verme. Questa nuova forma di vita sollevò molte doman-
de: quale era la funzione di questi piccoli esseri, i “micro-
bi”? Quale la loro relazione con il “Regno della Natura”?
Molti scienziati importanti del tempo – Buffon, per
esempio, che pure aveva fatto compiere un grande pro-
gresso alle scienze naturali, studiando la storia della na-
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Pueblos, Cimarrones
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Quanto questo sia falso è qualcosa che bisogna – e che
si può – sperimentare.
La seconda verità è che anche in pochi si può riuscire a
condizionare la situazione che ci sovrasta e che sembra
condizionarci senza vie di uscita.
Non basta essere differenti, orientarsi su norme e valori
di vita più giusti, resistere accanto a se stessi, alle proprie
aspirazioni, anche se ingenue e utopistiche. Occorre at-
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degradi a materia morta, rigida fino a spezzarsi, o malle-
abile come cera che riceve l’impronta.
Il passaggio dalla subcultura alla cultura di gruppo è il
passaggio dallo stato di minore età allo stato di minoran-
za. Sono queste minoranze, che si aprono come tanti pic-
coli trabocchetti nel centro stesso della nostra società, a
costituire quel che è forse il più importante mutamento
culturale dei nostri anni, e non soltanto nel teatro. È illu-
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Discutere di problemi che non si possono risolvere di-
scutendo è un’abitudine che bisogna perdere.
Spesso aggrapparsi a un Teatro Politico significa sfug-
gire al problema di fare, col teatro, una politica.
Di quale teatro ha oggi bisogno la società? Chi non ac-
cetta una società e una cultura che gli viene imposta, ma
cerca una diversa società e la propria cultura deve inver-
tire la domanda. Si deve chiedere cosa lui voglia, con il
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la soluzione di problemi concreti, nasceva una nuova
identità.
Un teatro asociale?
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Quando i teatri di gruppo si incontrano, sono i dialoghi
degli emigranti che si intrecciano. Questo è accaduto ogni
volta che abbiamo potuto incontrarci. Una volta dopo
l’altra abbiamo ritrovato lo stesso senso d’essere dura-
mente al lavoro e insieme d’essere sospesi; la stessa con-
traddittoria consapevolezza d’aver preso in mano il no-
stro destino, e di essere, per ciò, in balia di forze che non
potremo dominare, quando il mare non sarà più adatto
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Il voler essere “asociale” è a volte il segno del più pro-
fondo impegno a cambiare. È il voltar la testa in un’altra
direzione, cercare cosa può esserci di diverso da questa
società che vuoi rifiutare. Ciò che rifiuti diventa ciò su cui
ti orienti, il tuo Nord cui tener fisso lo sguardo per allon-
tanarti.
È la marcia di emigrazioni parallele, sempre minaccia-
te, spesso sconfitte. Ogni volta che ti sei troppo fidato
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lorano i rapporti fra le persone, la loro visione del mondo,
il loro comportamento anche privato.
Non si possono scegliere delle idee, sperando che que-
ste ti cambino. Bisogna scegliere delle condizioni di vita
e di lavoro.
Devi essere “asociale” se vuoi creare l’esempio contra-
rio alla socialità dell’ingiustizia.
Devi essere “asociale” se non vuoi accettare le regole
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società di frontiera, i bordi sfrangiati fra qualcosa che è
Società e qualcosa che non lo è più.
Molti si sentono, ci sentiamo o ci siamo sentiti lenta-
mente scivolare verso una forma di apatia, di impotenza.
Il teatro è stato lo scoglio al quale ci siamo afferrati e che
ci rende, malgrado tutto, sociali.
Dal punto di vista di coloro che posseggono la maestria
della parola possiamo assomigliare a muti che si esprimo-
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ossessioni, ma dando loro un corpo, raggiungendo gli al-
tri senza affiorare all’idioma che avete in comune.
È un mezzo per sfuggire alla ragione dei domatori, per
infrangere il cerchio della solitudine.
(ottobre-novembre 1978)
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(a fronte, in alto)
Johann Sebastian Bach, 1976-80,
foto Torgeir Wethal.
(a fronte, in basso)
Vieni! E il giorno sarà nostro,
1976-80; foto Tony D’Urso.
(in alto)
Anabasis, 1977-84;
foto Tony D’Urso.
(a destra)
Judith, 1984; foto Torben Huss.
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(a fronte, in alto)
Dentro lo sheletro della balena,
1996; foto Mihaela Marin.
(a fronte, in basso)
Le farfalle di Doña Musica,
1997; foto Rossella Viti.
(in alto)
Mithos, 1998-2005; foto Jan Rüsz.
(in basso)
Il sogno di Andersen, 2004-10;
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la corsa dei contrari
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stata “pubblicata”, o – al limite, come nel caso di Zeami
e degli scritti tecnici degli attori della Commedia dell’Ar-
te – è rimasta a lungo affidata ad una tradizione di mano
in mano?
Una sera, in India, ascoltai un cantore la cui voce rag-
giungeva effetti che non immaginavo possibili. Ebbi la
sensazione di essere sulle tracce di un segreto. Gli chiesi
come allenasse la sua voce. Rispose: «Ho impiegato
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francava, in un senso molto concreto, sociale ed economi-
co. Un affrancamento non in senso vagamente psicologi-
co, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e
forse anche nel senso di langue franque.
Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi
attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro
quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza ad accettare
la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro
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tutti e nessuno, qualcosa di impersonale. Questo non sa-
rebbe dedurre dall’esperienza una teoria, ma far violenza
alla esperienza.
Dopo quindici anni di lavoro teatrale, a volte sono sor-
preso ancora dei miei compagni. Mi meraviglia la loro con-
tinua ricerca, la loro testardaggine, il loro coraggio nel la-
vorare tutti i giorni, dalla mattina alla sera, senza che, a
volte, sembri esserci un frutto della fatica. Altre volte,
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diverso da quel che nessuno rimprovera all’artista, che
sembra isolarsi, e che proprio per questo, con la forza dei
suoi risultati, successivamente agisce nel mondo che lo
circonda».
Ricorderebbe che Brecht, per esempio, qui in Danimar-
ca, si estraniò, per passare ore ed ore a casa sua, al suo
tavolino, a scrivere poesie che – a causa dell’esilio – pochi
potevano leggere, e pièces che nessuno per anni avrebbe
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dall’altra parte con le proprie forze. Non credo che sia
giusto dire che io “formo” degli attori. Con gli anni mi è
stata riconosciuta una competenza a formare degli spetta-
coli, e ho acquisito l’esperienza che mi permette di lavo-
rare assieme a dei compagni, affinché si “formino”, appa-
iano, agli occhi degli altri, attori.
Se le esigenze del mestiere mi obbligano a dare una for-
ma ad un attore, allora so che con lui, per il momento, ho
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campo d’azione molto ristretto. Si troverà super-specia-
lizzato, termine che evoca, in genere, una grande compe-
tenza. Ma un attore super-specializzato è un attore che
dipende dal pubblico di un determinato tipo di teatro,
incapace di essere vivente, come attore, in situazioni di-
verse da quelle per le quali è stato addestrato. Ha un dres-
sage non una disciplina. La sua specializzazione gli apre
solo due strade: essere un proletario o diventare un privi-
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dre” e “figlio”. Influenzare l’allievo sarebbe – secondo
un’opinione comune – negativo. I segni dell’influenza ri-
velerebbero un rapporto malsano. Ma con questo modo
di ragionare non si approda a nulla: tutti siamo influenza-
ti da qualcuno. Il problema è la carica d’energia che viene
messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è così forte che
permette di andare lontano, o se è così debole che non
produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una
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porto pedagogico diverso, basato su uno scambio e una
influenza profonda fino a giungere ad una relazione in cui
non si sa più chi è maestro e chi è allievo. È questo che
permette una rigorosa disciplina che non sia costrizione.
Ciò implica una tradizione vivente, una vivente trasmis-
sione delle esperienze, qualcosa che va al di là dei princì-
pi, delle teorie, delle generalizzazioni tecniche, dei profes-
sori con i loro libri e i loro programmi. Implica un
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Il modo in cui formuliamo i risultati delle nostre ricer-
che è più una rete che cattura quasi casualmente la com-
prensione di chi legge, che una precisa indicazione di la-
voro.
Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i ri-
sultati e che permette di non fermarsi ad essi. L’attore che
sa perfettamente eseguire un certo numero di esercizi, che
sa fornire un certo numero di ottime prestazioni, può es-
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ni che lo spingono ad intraprendere questa professione.
Ottengo, in genere, risposte formulate in maniera vaga.
Esse fanno trapelare dei bisogni essenziali e nascondono
delle trappole. Possono essere una bussola, ma così rudi-
mentale da trasformarsi facilmente in una bussola impaz-
zita che sabota il viaggio.
Spesso dicono: voglio essere attore per esprimermi, per
rivelare me stesso, per essere spontaneo, per comunicare,
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2.1. Spontaneità
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mo dominarle o lasciarcene dominare. È il contesto che
decide del loro valore. Quel che nel nostro secolo illumi-
nato è soltanto una crisi di isteria, in altri contesti sociali
e culturali è il segno di una capacità eccezionale per cui
una persona riesce ad entrare in contatto con un’altra re-
altà.
Il mito della spontaneità deriva dal non accettare se
stessi. Così mitizziamo un’immagine diversa di noi stessi,
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nalità, limitato sin dall’infanzia a un rendimento che mai
esige e ci fa conoscere il massimo delle nostre capacità
fisiche, psichiche e mentali: un’aurea mediocritas mai per-
corsa da grandi scariche fisiche, emotive. Allora pensiamo
che l’esplosione sia spontaneità e cerchiamo di mandare
in frantumi la campana di vetro delle norme quotidiane
di comportamento. Il risultato sono, appunto, null’altro
che frantumi di vetro.
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lato da regole precise, durante il quale uno si sente in si-
curezza.
Come quando uno parla o scrive: non può usare qualsi-
asi segno o qualsiasi suono, deve passare attraverso le re-
gole e le parole di una lingua. Può inventare dei neologi-
smi, ma seguendo la logica imposta da preesistenti radici
linguistiche.
Questa resistenza permette l’esercizio della libertà. È
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guono una logica precisa, non agendo ogni volta arbitra-
riamente, ma forgiandosi delle regole altrettanto precise
di quelle che nel linguaggio parlato permettono il discor-
so personale.
È l’attore stesso che può decidere quale sarà la logica
delle proprie regole. Ma quando, di volta in volta, le ha
decise, deve accettarle fino in fondo. Per esempio: un at-
tore decide di iniziare a lavorare sul volo. È evidente che
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clusionata, illudendosi che un comportamento caotico e
inespressivo possa rappresentare la libertà.
A volte l’attore così facendo si sente libero (sente qual-
cosa che fra sé e sé chiama “libertà”). Ma lo spettatore
rimane imprigionato in una frana di gesti in cui non riesce
a vedere una logica. La logica dell’attore, quando invece
c’è, è qualcosa di ben visibile. Con questo termine non
intendo soltanto la logica di un discorso. Lo spettatore
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Allora è facile vedere che un attore sta mentendo: «È
così che si comporta quando è libero, spontaneo, quando
è insieme a qualcuno che ama, che lo accetta?».
Nella realtà non accade quasi mai di sentirsi in una si-
tuazione di simile sicurezza fra più persone. È per que-
sto – si potrebbe dire – che il teatro è finzione. Ma finzio-
ne non equivale a menzogna. Mentire, per un attore, è il
trapiantare senza mediazioni, in maniera non dialettica,
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2.2. Comunicazione
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bilitazione delle nostre forze fisiche, psichiche, intellet-
tuali, quando affrontano un compito, un problema, un
ostacolo. È la capacità dell’individuo di intervenire
nell’ambiente circostante, adattandosi ed adattandolo. È
solo in rapporto a qualcosa di preciso che l’energia indivi-
duale si modella in un’azione precisa.
Le numerose e complesse regole che sembrano blocca-
re in una corazza di segni prestabiliti gli attori e i danza-
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Quando un attore cerca la posizione “sicura” che gli per-
metta di conservare tranquillamente l’equilibrio, di “esse-
re naturale”, in realtà fa scadere questa drammaticità e
questa energia in forza d’inerzia, in entropia. Ma non ap-
pena comincia a spostare il suo equilibrio, a renderlo pre-
cario, tutta una serie di altre opposizioni scaturisce
dall’opposizione tra peso e spina dorsale: diverse opposi-
zioni fra diverse parti del corpo trasformano la sua massa
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è un processo estremamente lungo, un vero e proprio
nuovo condizionamento. All’inizio l’attore è come un
bambino che impara a camminare, a muoversi, che deve
ripetere infinite volte i gesti più semplici per trasformarli
da inerti movimenti in azioni.
L’uso sociale del nostro corpo è necessariamente il risul-
tato di una cultura. Esso è stato acculturato e colonizzato.
Conosce solo gli usi e le prospettive per i quali è stato
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Spesso questo regresso all’impotenza infantile umilia
l’attore. Esso si ritrova improvvisamente impacciato e im-
preciso alle prese con il proprio corpo, improvvisamente
goffo e ridicolo, malgrado la sua età adulta, la sua intelli-
genza, e la fatica con cui si è costruito – come ognuno si
costruisce – la sua apprezzabile persona pubblica. Questo
momento di umiliazione è necessario e dura molto più a
lungo dei momenti simili che è necessario attraversare se
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Gli esercizi del training non sono tesori di sapienza, se-
greti per essere espressivi o rivelare se stessi. Sono lavoro.
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può imparare e ripetere come si ripetono i vocaboli di una
lingua.
All’inizio saranno ripetuti in maniera meccanica, come
i vocaboli di una lingua straniera che si voglia apprendere.
Poi saranno assorbiti, cominceranno a “venire da soli”;
allora l’attore può scegliere. Anche con pochissimi eserci-
zi può fare un lungo training. Non solo, infatti, gli eserci-
zi possono essere ripetuti in un ordine differente, ma pos-
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prova la sua capacità di raggiungere una condizione di
presenza fisica totale, la condizione che poi dovrà ritrova-
re nel momento creativo dell’improvvisazione e dello
spettacolo.
Questa “presenza fisica totale” non ha nulla a che vede-
re con la violenza, con la pressione, con la ricerca della
velocità a tutti i costi. L’attore può essere estremamente
concentrato, quasi immobile, ma in questa immobilità te-
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base che, di azione in azione, caratterizza la dialettica del
bios, dell’organismo vivente.
Un esercizio vale l’altro, se rispetta le leggi, la dialettica
della vita. In questo caso un esercizio è funzionale a tutti
i livelli: rende fisicamente abile l’attore; gli permette di
mettere alla prova e di padroneggiare le proprie energie;
e – soprattutto – gli permette di comprendere, con una
specie di intelligenza fisica, quale sia la logica per deter-
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come quando si parla non si pronunciano le parole stac-
cate, ma la fine dell’una coincide con l’inizio dell’altra, in
una serie di onde che rispecchiano il nostro ritmo emoti-
vo, razionale, i momenti di rallentamento e di sospensio-
ne e i momenti di forza e di incisività.
L’attore che esegue in maniera staccata, o con un ritmo
sempre ripetuto, i diversi esercizi del training è come uno
che ingurgita una dopo l’altra diverse medicine che in
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Gli esercizi di acrobatica sono, all’Odin, l’esempio di
un qualcosa necessario per il lavoro dell’attore, e nello
stesso tempo privo, in sé, di valore.
Innanzi tutto, sono per lui la prova lampante che si pos-
sono raggiungere dei risultati che solo poco prima gli sem-
bravano lontani e quasi irraggiungibili. Sono come un’as-
sicurazione. Perché, anche se gli è stato detto che non
sono i risultati che contano, ma il processo, anche se sa
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corpo ad un certo punto precipita. Allora, occorre un’al-
tra carica di energia, un controimpulso che permette di
contrastare la forza di gravità, così che il momento della
caduta contenga già l’impulso per riprendere il volo.
Tutto questo fa conoscere e sperimentare quel che è
forse la cosa più difficile: trovare il momento di nuovi sats
durante il percorso, quando si è in aria, senza appoggi per
terra.
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quistare un’autonomia personale, una libertà d’azione
che, attraverso il processo creativo su uno spettacolo, di-
venta azione sociale, pubblica.
2.3. Creatività
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cosa” per “rivelare i lati nascosti”, “liberare se stesso” in
un processo che obiettivamente (cioè visto dal di fuori) fa
trapelare inerti energie in movimenti fortuiti, suoni inar-
ticolati, modi di comportarsi fossilizzati. Non ha nulla a
che vedere con l’improvvisazione che caratterizzava la
recitazione degli attori del passato, specialmente nella
Commedia dell’Arte, che era piuttosto simile a ciò che noi
oggi chiamiamo composizione. Il mettere insieme lunghe
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gruppo di persone può mettersi in moto secondo un suo
ritmo organico, salendo e scendendo, passando attraverso
lunghi periodi di monotonia, improvvise accensioni,
nell’accanimento intorno ad un particolare, all’invenzione
di qualcosa di nuovo. Tutto ciò che accade, accade entro
quel numero limitato di persone, in una situazione di tem-
poraneo isolamento. L’esterno sembra non aver accesso.
È la stessa percezione del tempo e della nostra presenza
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Dal diario di Iben Nagel Rasmussen
3 maggio 1974
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– Non sono i tuoi figli – rispose.
– Come non sono i miei figli? Sono sì i miei figli.
– No – rispose. – Qui abbiamo visto le foto dei tuoi bam-
bini. Sono molto differenti. I tuoi veri bambini hanno i
capelli lunghi.
Si allontanò. E anch’io mi allontanai, passeggiando via
dall’uomo che avevo incontrato nel sogno, e vidi che pian-
gevo. L’uomo, allora, mi si è riavvicinato e mi ha chiesto:
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– Perché piangi?
Gli ho indicato i miei bambini e gli ho detto:
– Vedi, neanche io so se questi sono i miei figli.
(Lunga pausa)
Venti anni possono essere lunghi. Quaranta sono quasi la
vita di un uomo. L’uomo o la donna ritorna al suo paese
natale. Forse ha indossato i suoi vestiti migliori. Forse ha
tagliato i capelli alle persone che lo accompagnano. Si ad-
dentra, e vi sono due, no, tre cose che rivede chiaramente.
Una è un minuscolo lago, come uno di quei laghetti finlan-
desi, pressappoco così
(Indica una parte del pavimento)
questo è un laghetto. Lui-o-lei veniva spesso sulle rive di
questo lago, oppure vi faceva il bagno. Quando lui-o-lei
ritorna a questo posto i suoi sensi rievocano l’immagine
netta di come quel lago mai aveva accettato la sua volontà.
Quale era la sua volontà? Quando lui-o-lei si immergeva
in quel lago era come se lui-o-lei desiderasse di tenere tut-
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to intero il laghetto dentro di sé per conservarlo, rinchiu-
derlo, catturare l’acqua e i colori nell’acqua, e la donna e
l’uomo che...
(Ride)
e soprattutto l’istante. Quando ritorna a quel lago è come
se questo riflettesse la sua vana lotta per fermare, fermarsi.
Si specchia nel lago e lui-o-lei vede qualcuno che è invec-
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no, si tenne lì un grande sposalizio. C’erano tanti invitati
che non fu possibile averli tutti a casa. Allora si dovette
porre il tavolo fuori, sulla strada o sulla piazza, e allora – ca-
pisci? – ad un certo punto qualcosa accadde in questo spo-
salizio.
– Che accadde? – chiede.
– Sì, proprio questo è il problema, perché la maggior par-
te della gente ha provato a dimenticare. È stato qualcosa di
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Nel momento in cui tocca questo tavolo, quel che è succes-
so durante quello sposalizio ritorna. Anche lui-o-lei c’è.
Era seduto a questo tavolo, allo stesso posto, e mentre è
seduto lì (sogna?) è come se qualcuno lo tiri per la manica
e dica:
– Nonna, zio cosa successe esattamente?
E lui-o-lei risponde:
– Vedi, qui sedeva un grassone ed era così – e lo descri-
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6 maggio 1974
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provvisazione. Ma queste tre frasi sono come una delle po-
esie di Harry Martinson, quando era marinaio, dove lui
cita una serie di nomi: Jokohama, Palenbang, Sidney, Sin-
gapoor, e altri porti lontani. È il viaggio di una nave, con le
sue tappe precise, è l’indicazione di una rotta ben definita.
Ma come si svolge il viaggio, le bonacce e le tempeste, gli
avvenimenti fra un porto e l’altro, tutto questo non lo sap-
piamo. Siete voi stessi a riempire i vuoti, a deciderlo.
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shakespeariana – Lady Macbeth – allora la figlia di Polonia
può presentare le sue reazioni con l’ombra di altre reazioni,
quelle di una donna forte, risoluta, decisa.
Ma queste nuances ci sorprendono perché deviano, ren-
dono come estraneo, nuovo, il punto di riferimento presta-
bilito e riconoscibile.
Se non esiste un punto di riferimento, allora tutto è pos-
sibile. Cioè niente è possibile.
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tare che il vostro ritmo, le posizioni dei piedi e delle gambe
tendono a ripetersi, che uno ha tendenza a piegarsi in un
determinato modo, a girarsi, a tirarsi indietro in un deter-
minato modo. Si ripete sempre lo stesso modello, un auto-
matismo che non controllate e che vi controlla. Da che cosa
dipende?
Dal di fuori lo si sente come una chiara differenza tra
l’immagine che voi avete, e il modo in cui essa si manifesta.
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mi dice nulla oltre il fatto che sta camminando. Ci deve
essere qualcosa nel suo modo di camminare (di questo l’at-
tore può essere cosciente o incosciente) che mi fa fermare lo
sguardo su di lui, che mi fa dedurre determinate immagini,
determinati pensieri. L’attore manipola in maniera fredda
questa situazione. Ma se la porta alle sue estreme conse-
guenze non può evitare di far intravedere, dietro questa
finzione, qualcosa d’altro.
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di creare l’arco del ponte, il passaggio dalla vostra riva all’al-
tra: lo spettatore.
Nell’improvvisazione informe l’una e l’altra riva restano
nascoste dietro la polvere del ponte che crolla.
La forza di certe vostre improvvisazioni è di tutto un altro
tipo di quella del training. Anche se il training ha anch’esso
la tendenza a cadere in forme di automatismo, a volte viene
fuori una specie di fiammata. Nelle improvvisazioni, inve-
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realtà che uno è spaventato. Naturalmente è ridicolo tutto
questo, perché uno non è spaventato. Ma se uno non trova
la chiave per la porta da aprire per chiudersi nel buio qual-
siasi incontro è possibile, allora, se non troviamo questa
chiave, rimarremo sempre alla luce del giorno, dove ricono-
sciamo tutto, sappiamo già tutto. È inutile che, alla luce del
giorno, facciamo finta di essere spaventati. In realtà non lo
siamo. Naturalmente, non è necessario che dietro questa
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non importa che cosa. Questo polmone è esattamente come
i nostri polmoni che inalano sostanze chimiche, ossigeno,
azoto e le trasformano in qualcosa che è difficile da definire,
la vita, che nessuno scienziato ha saputo spiegare esatta-
mente. Questo è la fantasia, questo polmone che si imbeve
di tutti questi fenomeni obiettivi e li trasforma in qualcosa
d’altro, che è la nostra vita interiore. Ed è questo che si
tratta di saper “sfruttare”, ciò che possiamo chiamare la no-
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può lasciar andare, attraverso la finzione, e rimanere sem-
pre al timone, attenti ai dettagli, alla logica di una rotta che
vi appartiene?
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racconto, una specie di cautela, avvertibile qua e là, per
cui chi racconta sorveglia le sue parole, maschera – con
immagini che depistino l’ascoltatore – i bivii e i nodi che
sarebbero troppo rivelatori, in cui il racconto diventereb-
be troppo esplicito ed autobiografico. Se il racconto è
“sincero”, lo è perché si batte continuamente contro la
tentazione d’essere spontaneo, non sorvegliato, di crolla-
re in una confessione personale che isola, che non per-
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“pubblico”. Ma è l’obiettività della sua azione che innan-
zi tutto conta. La sua presenza in prima persona è l’om-
bra, l’eco che dà vita al corpo, alla voce, ma che non è
nulla se non ombra o eco, appunto, di un corpo e di una
voce sperimentabili, dall’esterno, in tutta la loro oggetti-
vità.
Gli spettatori hanno spesso la tendenza ad identificare
l’individualità dell’attore attraverso le sue azioni teatrali.
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diventano addirittura deleteri, capaci di distruggere ogni
possibilità di creazione, quando il regista si lascia attrarre
dalla tentazione luciferina di lavorare sul livello personale
degli attori.
Questa, in fondo, può essere l’unica “regola” che deve
guidare il lavoro dell’attore e del regista nelle improvvisa-
zioni: “quel che conta è il risultato obiettivo: le azioni,
non le intenzioni”.
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riproduce l’immagine né ritrova l’atmosfera della stazione
di partenza. L’importante è partire, e finire molto lontani
dal punto in cui si era iniziato. Finire in qualcosa, però,
che abbia senso per gli altri e da cui gli altri, a loro volta,
possano partire.
È questa dialettica che caratterizza il rapporto regista-
attori, attori-regista, spettacolo-spettatori. È un rapporto
di traduzioni e tradimenti continui in cui l’uno parte dal
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spesso credere che in esse si racchiudano dei “significati”
con i quali lavori il regista. In realtà le improvvisazioni
costituiscono solo la materia prima dello spettacolo, le
pietre e i mattoni che, a seconda delle esigenze del mon-
taggio, e non della loro interna essenza, verranno tagliati
in questo o quest’altro modo, usati per questa o quest’al-
tra parte dell’edificio.
Ciò non significa svalutare il lavoro delle improvvisazio-
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Uno spettacolo è, in realtà, il risultato di uno scontro
che si svolge in una situazione di accettazione e di fiducia
reciproche. Da questa dialettica dipende la profondità e
l’ampiezza in cui può svilupparsi il lavoro creativo di un
gruppo di persone.
È inutile pensare che si possa imparare un modo di agi-
re (o di parlare) libero e sicuro, creativo.
Si possono solo cercare e trovare le persone di fronte
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Il teatro non deve generare un vedere facile, né lo spet-
tatore dovrebbe accettarlo. In fondo significa, per lui,
abdicare alla sua prerogativa di individuo creatore di sto-
ria e di coscienza. È accettare di accontentarsi della super-
ficie della realtà, senza penetrare sotto la crosta, senza
capire. Saper far vedere e saper vedere presuppongono,
in fondo, un addestramento alla dialettica. All’unica di-
sciplina che non impariamo a scuola, la base per com-
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processo creativo sbocca in qualcosa di obiettivo, di so-
ciale, in uno spettacolo, fra questi diversi momenti non
c’è frattura.
Le opposizioni che regolano il processo vivente non ca-
ratterizzano solo l’organismo dell’attore, non riguardano
solo la tensione fra il suo peso e la sua spina dorsale, fra
impulso e controimpulso. Ritroviamo opposizioni fonda-
mentali da cui partire anche a tutti i livelli superiori, a li-
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sofo sono spesso chiare ed efficaci allegorie dell’opposi-
zione fra apparenza e realtà, spiritualità e materialità
dell’uomo, fra la vita e la morte. L’immagine della morte,
infatti, sembra affiorare dall’interno stesso dell’organi-
smo vivente.
Ma per l’incisore che le componeva, le tavole anatomi-
che erano opera di precisione, di scomposizione e di ri-
composizione della realtà così come a lui risultava sotto la
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opposizioni che costituiscono le regole profonde delle
diverse realtà.
Significa: visione di ciò che si nasconde sotto l’epider-
mide. Simile al teatro anatomico è il teatro a cui noi pen-
siamo, a metà fra spettacolo e scienza, fra didattica e tra-
sgressione, fra orrore e ammirazione.
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antropologia teatrale
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Princìpi simili e spettacoli diversi
Diversi attori, in luoghi ed epoche diverse, fra i molti
princìpi propri di ciascuna tradizione, in ciascun paese,
si sono serviti anche di alcuni princìpi simili. Rintraccia-
re questi “princìpi-che-ritornano” è il primo compito
dell’antropologia teatrale.
I “princìpi-che-ritornano” non sono prove dell’esisten-
za di una “scienza del teatro” o di alcune leggi universali;
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Naturalmente, l’attore che si muove all’interno di una
rete di regole codificate ha una maggiore libertà artistica
di colui che – come l’attore occidentale – è prigioniero
dell’arbitrio e della mancanza di regole. Ma l’attore orien-
tale paga la sua maggiore libertà con una specializzazione
che gli offre minori possibilità di uscir fuori dai territori
che conosce. Un complesso di precise e utili regole prati-
che per l’attore sembra che possa esistere solo a condizio-
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le forme di teatro diverse dalle proprie. Nel caso di De-
croux, come nel caso dei maestri orientali, non si tratta di
ristrettezza mentale, né tanto meno di intolleranza. Si
tratta della consapevolezza che le basi e i princìpi di par-
tenza di un attore vanno difesi come il suo bene più pre-
zioso, un bene che sarebbe irrimediabilmente inquinato e
distrutto dal sincretismo, e che va salvaguardato anche a
rischio dell’isolamento.
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i teatri non si assomigliano nei loro spettacoli, ma nei loro
princìpi.
L’antropologia teatrale vuole studiare quei princìpi:
non le profonde e ipotetiche ragioni di quelle somiglian-
ze, ma i loro possibili usi. Facendolo, sa di rendere un
servizio sia all’uomo di teatro occidentale che a quello
orientale, sia a chi ha una tradizione sia a chi ne soffre la
mancanza, sia a chi è colpito dalla degenerazione, sia a chi
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Lokadharmi e Natyadharmi
«Noi abbiamo due parole – mi dice Sanjukta Panigra-
hi – per indicare il comportamento dell’uomo: l’una, lo-
kadharmi, indica il comportamento (dharmi) della gente
comune (loka); l’altra, natyadharmi, indica il comporta-
mento dell’uomo nella danza (natya)».
Nel corso degli ultimi anni ho visitato numerosi mae-
stri di teatri diversi. Con alcuni di loro ho collaborato a
lungo. Lo scopo della mia ricerca non era lo studio di ciò
che caratterizzava le diverse tradizioni, non ciò che ren-
deva uniche le loro arti, ma ciò che le accomunava ad
altre forme d’arte d’Oriente e d’Occidente. Quella che
all’inizio era una mia ricerca quasi isolata, lentamente è
divenuta la ricerca di un gruppo di persone che com-
prende uomini di scienza, studiosi di teatro europei ed
asiatici, artisti appartenenti a diverse tradizioni. A questi
ultimi va, in modo particolare, la mia gratitudine: la loro
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collaborazione si è caratterizzata per una forma partico-
lare di generosità che ha abbattuto le barriere della riser-
vatezza per rivelare i “segreti” e quasi le intimità del loro
mestiere. Una generosità che a volte è arrivata ad una
forma di calcolata temerarietà nel porsi in situazioni di
lavoro che obbligavano alla ricerca del nuovo e che rive-
lavano una curiosità per l’esperimento insospettabile in
artisti che sembravano i fedeli sacerdoti d’una tradizione
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immutabile1.
Gli attori orientali, anche quando fanno una dimostra-
zione tecnica, fredda, posseggono una qualità di presenza
che colpisce lo spettatore e lo obbliga a guardarli. In tale
situazione non esprimono niente, eppure vi è in essi come
un nocciolo di energia, come un’irradiazione suggestiva e
sapiente, ma non premeditata, che capta i nostri sensi. Ho
pensato a lungo che si trattasse di una particolare “forza”
dell’attore, acquisita con anni ed anni di esperienze e di
lavoro, di una particolare dote tecnica. Ma ciò che noi
chiamiamo “tecnica” è un’utilizzazione particolare del
nostro corpo.
Noi utilizziamo il nostro corpo in maniera sostanzial-
mente differente nella vita quotidiana e nelle situazioni di
“rappresentazione”. A livello quotidiano abbiamo una
tecnica del corpo condizionata dalla nostra cultura, dal
nostro stato sociale, dal nostro mestiere. Ma in una situa-
zione di “rappresentazione” esiste un’utilizzazione del
1
Cfr. Ringraziamenti, infra, pp. 181 sgg..
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corpo, una tecnica del corpo che è totalmente differente.
Si può quindi distinguere una tecnica quotidiana da una
tecnica extra-quotidiana.
Le tecniche quotidiane non sono consapevoli: ci muo-
viamo, ci sediamo, portiamo i pesi, baciamo, indichiamo,
annuiamo e neghiamo con gesti che crediamo “naturali”
e che sono, invece, culturalmente determinati. Le diffe-
renti culture insegnano diverse tecniche del corpo secon-
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trario, sullo spreco dell’energia. A volte sembrano addi-
rittura suggerire un principio speculare rispetto a quello
che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo: il prin-
cipio del massimo impiego di energia per un minimo ri-
sultato.
Quando ero in Giappone con l’Odin Teatret, mi chie-
devo cosa significasse l’espressione con cui gli spettatori
ringraziavano gli attori alla fine dello spettacolo: otsuka-
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parole non c’è più relazione dialettica, ma solo distanza:
l’inaccessibilità, insomma, di un corpo di virtuoso.
Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comuni-
cazione, quelle del virtuosismo tendono alla meraviglia e
alla trasformazione del corpo. Le tecniche extra-quotidia-
ne, invece, tendono all’informazione: esse, alla lettera,
mettono-in-forma il corpo. In ciò consiste la differenza
essenziale che le divide da quelle tecniche che invece lo
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trans-formano.
L’equilibrio in azione
La constatazione di una particolare qualità di presenza
che gli attori orientali spesso posseggono ci ha portato
alla distinzione tra tecniche quotidiane, tecniche del vir-
tuosismo e tecniche extra-quotidiane del corpo. Sono
queste ultime che riguardano la vita dell’attore. Esse la
caratterizzano prima ancora che questa vita cominci a rap-
presentare qualcosa o ad esprimersi.
L’affermazione precedente non è facile da accettarsi per
un occidentale: esiste forse un livello dell’arte dell’attore
in cui egli è vivo, presente, ma senza rappresentare né si-
gnificare nulla?
Forse solo chi conosce bene il teatro giapponese può
accogliere come normale l’affermazione in questione. È
giusto, quindi, che sia un giapponese a fornirci un esem-
pio estremo ma lampante di come la vita dell’attore pos-
sa essere priva di ogni carattere di rappresentazione, e
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limitarsi ad essere fortemente presente. “Essere forte-
mente presente” pur senza nulla rappresentare è, per un
attore, un ossimoro, una contraddizione in termini: l’at-
tore, infatti, per il suo stesso stare davanti agli spettatori,
sembra dover per forza rappresentare qualcosa o qualcu-
no. Moriaki Watanabe definisce così l’ossimoro dell’at-
tore della pura presenza: si tratta di un attore che rappre-
senta la propria assenza. Sembra un gioco del pensiero,
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così direttamente alle fonti della vita e dell’energia dell’at-
tore, che gli intenditori dicono che è più difficile essere
kokken che attore.
I casi che Watanabe ha analizzato (un suo studio sul
kyoko shantai, il corpo della finzione, è stato pubblicato
in Giappone) mostrano che esiste un livello in cui le tec-
niche extra-quotidiane del corpo riguardano l’energia
dell’attore per così dire allo stato puro, cioè al livello pre-
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lingua di lavoro esistessero parole che potevano tradurre
il nostro termine “energia”. «Noi diciamo che un attore
ha o non ha ko-shi per indicare che ha o non ha la giusta
energia nel lavoro», mi risponde l’attore Kabuki Sawamu-
ra Sojurō. Ma ko-shi, in giapponese, non indica un con-
cetto astratto, ma una ben precisa parte del corpo: le an-
che. Dire “hai ko-shi, non hai ko-shi” significa dire “hai le
anche, non hai le anche”. Ma cosa significa, per un attore,
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mente a premere ora sulla parte anteriore, ora su quella
posteriore, ora sul margine destro, ora sul sinistro dei
piedi. Perfino nell’immobilità più assoluta questi micro-
movimenti sono presenti, a volte più ristretti, altre volte
più ampi, a volte più controllati, altre meno, a seconda
delle nostre condizioni fisiche, dell’età, del mestiere. Ci
sono laboratori scientifici specializzati nella misurazione
dell’equilibrio attraverso la misurazione dei diversi tipi di
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e amplificato per potenziare la presenza dell’attore, per
trasformarsi, cioè, nella base delle sue tecniche extra-
quotidiane.
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si all’essenziale, e scopriva l’essenziale nell’alterazione
dell’equilibrio.
Le posizioni base delle forme di teatro-danza orientale
sono altrettanti esempi di una distorsione cosciente e con-
trollata dell’equilibrio. Lo stesso può dirsi per le posizio-
ni base della danza classica europea e per il sistema del
mimo di Decroux: abbandonare la tecnica quotidiana
dell’equilibrio e cercare un “equilibrio di lusso” che dila-
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La danza delle opposizioni
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chiedessimo di tradurre la rigida distinzione fra danza e
teatro.
«Energia – diceva l’attore Kabuki Sawamura Soju-
ro – potrebbe essere tradotta con ko-shi».
E l’attore Nō Hideo Kanze: «Mio padre non diceva mai:
usa più ko-shi. Ma mi insegnava di che si trattasse facen-
domi camminare, mentre lui mi tratteneva per le anche».
Per vincere la resistenza, il torso è costretto a piegarsi
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senza allontanarsi fino al punto di perdere il contatto e il
particolare legame che li oppone.
In questo senso, potremmo dire, allargando il concetto,
che le tecniche extra-quotidiane del corpo sono in un rap-
porto hippari hai, di trazione antagonista, con le tecniche
dell’uso quotidiano. Abbiamo visto, infatti, che si allonta-
nano da questa, ma mantenendo la tensione, senza cioè
distaccarsene e divenire estranee ad esse.
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si di parti del corpo in posizione kras e parti del corpo in
posizione manis.
La danza delle opposizioni caratterizza la vita dell’atto-
re a differenti livelli. Ma, in generale, nella ricerca di que-
sta danza l’attore ha una bussola per orientarsi: il disagio.
Le mime est à l’aise dans le mal-aise, il mimo è a suo agio
nel disagio, dice Decroux, e questa sua massima trova una
serie di echi presso i maestri di teatro di tutte le tradizioni.
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rola “energia”; capacità di perdurare nel lavoro. E anco-
ra una volta questa parola rischia di trasformarsi in una
trappola.
Quando un attore occidentale vuole essere energico,
quando vuole usare tutte le sue energie, comincia a muo-
versi con grande vitalità nello spazio, sviluppa grandi mo-
vimenti, molta velocità e forza muscolare. Tutto ciò viene
associato alle immagini di “fatica”, di “lavoro duro”. Un
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come resistendo a una forza che li obbliga a piegarsi e
viceversa.
Katzuko Azuma spiega, ad esempio, quali forze siano al
lavoro nel movimento – tipico tanto della danza Buyo
quanto del Nō – in cui il torso si inclina leggermente e le
braccia si distendono in avanti restando appena arcuate.
Lo spiega parlando di forze che agiscono in senso contra-
rio a ciò che si vede: le braccia – dice – non si distendono,
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Le virtù dell’omissione
Il principio che si rivela attraverso la danza delle opposi-
zioni nel corpo è – contro tutte le apparenze – un princi-
pio che procede per eliminazione. Esso è lavoro isolato
dal proprio contesto, e perciò rivelato.
Le danze, che paiono un intreccio di movimenti assai
più complessi di quelli quotidiani, sono – in realtà – il
risultato di una semplificazione: compongono momenti
in cui le opposizioni che reggono la vita del corpo appa-
iono allo stato semplice. Ciò avviene perché un numero
ben delimitato di forze – di opposizioni – vengono isola-
te, eventualmente amplificate, e montate insieme o in
successione. Ancora una volta: si tratta di un uso antie-
conomico del corpo perché nelle tecniche quotidiane
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tutto tende a sovrapporsi, con risparmi di tempo e di
energia.
Quando Decroux scrive che il mimo è un “ritratto del
lavoro” compiuto dal corpo, ciò che dice può essere as-
sunto anche dalle altre tradizioni. Questo “ritratto del
lavoro” del corpo è uno dei princìpi che presiede alla vita
anche di coloro che poi lo nascondono, come per esempio
i danzatori del balletto classico, che dissimulano il peso e
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Decroux – come gli attori indiani – considera il corpo
come limitato essenzialmente al tronco, e considera i mo-
vimenti delle braccia e delle gambe come movimenti ac-
cessori (o “aneddotici”) appartenenti realmente al corpo
solo se trovano origine nel tronco. Ciò significa, allora,
che possono percorrere la strada inversa: essere assorbiti
nei soli movimenti del tronco.
Si può parlare di questo processo – secondo cui si re-
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nese che significa “piegare” nel senso di piegare qualcosa
che è nello stesso tempo flessibile e resistente come per
esempio una canna di bambù. Tameru indica il trattenere,
il conservare. Da qui il tamé, la capacità di trattenere le
energie, di assorbire in un’azione limitata nello spazio le
energie necessarie per un’azione più ampia. Questa capa-
cità diventa, per antonomasia, un modo per indicare il
talento dell’attore in generale. Per dire che l’allievo ha o
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erano loro negate. E proprio in quei casi il loro bios risal-
tava con forza particolare e impressionava la mente dello
spettatore.
Le “controscene” non appartengono solo alla tradizio-
ne dell’attore occidentale. Fra il XVII e il XVIII secolo,
l’attore Kabuki Kameko Kichizaemon compilò un tratta-
to sull’arte dell’attore dal titolo Polvere nelle orecchie. Egli
dice che in certi spettacoli, quando uno solo degli attori
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Intermezzo
Ci si potrebbe chiedere se i princìpi per la vita dell’attore
che abbiamo fino a qui incontrato non ci portino troppo
lontano dal teatro che noi conosciamo e pratichiamo in
Europa. Ci si potrebbe chiedere se essi siano davvero dei
buoni consigli utili alla pratica teatrale o se non siano,
invece, solo un miraggio. Ci si potrebbe chiedere se indi-
viduare il livello pre-espressivo dell’arte dell’attore non ci
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cosa. I fiori in un vaso, invece, sono irrimediabilmente
fiori in un vaso, soggetti d’opere d’arte a volte, ma mai
opere d’arte essi stessi.
Ma immaginiamo di usare i fiori recisi per rappresenta-
re qualche altra cosa: la lotta della pianta per crescere, per
allontanarsi dal terreno in cui affonda tanto più le radici
quanto più si alza verso il cielo. Immaginiamo di voler
rappresentare il passaggio del tempo, come la pianta
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una linea obliqua può evidenziare la forza composta che
risulta dalle due opposte tensioni. Una composizione che
sembra derivare da un raffinato gusto estetico è il risultato
dell’analisi e della dissezione di un fenomeno e della tra-
sposizione di energia che agiscono nel tempo in linee che
si tendono nello spazio.
Questa trasposizione apre la composizione a nuovi si-
gnificati, diversi da quelli originari: ecco che il ramo che
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ne di un fenomeno fisico. Partendo da quei significati mai
si raggiungerebbe la concretezza e la precisione dell’ike-
bana, mentre partendo da questa si raggiungono quelli.
Nei confronti dell’attore spesso si tenta di procedere
dall’astratto al concreto, si crede che il punto di partenza
possa essere costituito dalle cose da esprimere, le quali
poi implicherebbero le tecniche adatte ad esprimerle. Un
sintomo di questa assurda credenza è fornito dalla diffi-
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spingere fosse spinta, flettendo le braccia verso il petto e
facendo forza sul piede e la gamba che sta avanti. Questa
inversione radicale delle forze rispetto a quelle che carat-
terizzano l’azione reale restituisce il lavoro – o lo sfor-
zo – che entra in gioco nell’azione reale.
Accade, in questi casi, come se il corpo dell’attore ve-
nisse scomposto e ricomposto secondo regole che non
seguono più quelle della vita quotidiana. Alla fine di
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I giapponesi sono forse coloro nella cui cultura teatrale
il problema della natura degli automatismi della vita quo-
tidiana è stato più coscientemente e radicalmente affron-
tato.
I precetti che nella lingua di lavoro usata dalla maestra
di Katzuko Azuma impongono di uccidere il ritmo (otoò
korosò) e di uccidere il respiro mostrano come la ricerca
delle opposizioni possa essere finalizzata alla rottura de-
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Un corpo deciso
In molte lingue europee esiste un’espressione che potreb-
be essere scelta per condensare ciò che è essenziale per la
vita dell’attore. È un’espressione grammaticalmente para-
dossale, in cui una forma passiva viene ad assumere un
significato attivo e in cui l’indicazione di una energica di-
sponibilità all’azione si mostra come velata da una forma
di passività. Non è un’espressione ambigua, ma ermafro-
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teggi e le acrobazie della volontà di trasmettere un’espe-
rienza che in senso proprio non si può trasmettere, ma
soltanto fare. Cercare di spiegare l’esperienza dell’attore
in realtà significa creare artificialmente, con una compli-
cata strategia, le condizioni in cui questa esperienza può
riprodursi.
Immaginiamo di penetrare ancora una volta nell’intimi-
tà del lavoro che si svolge fra Katzuko Azuma e la sua
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piega le ginocchia, preme le piante dei piedi sul terreno,
inclina leggermente il busto, poi, abbandonata a se stessa,
scatta via, avanza velocemente fino al limite prefissato,
davanti al quale si arresta come sull’orlo di un burrone
che improvvisamente si apra a pochi centimetri dai suoi
piedi. Ciò che fa, in altre parole, è il movimento che
chiunque abbia visto delle danze giapponesi si è abituato
a riconoscere come caratteristico. Quando un attore ha
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re – come spiega Zeami – di infrangere apparentemente
le regole per ristabilire il contatto con il pubblico. Qui
risiede forse una costante della vita dell’attore: il legame
tra l’edificazione di regole artificiali e la loro infrazione.
Un attore che ha solo regole è un attore che non ha più
teatro, ma solo liturgia. Un attore che non ha regole è
anch’egli privo di teatro, ha solo il lokadharmi, il compor-
tamento quotidiano, con la sua noia e la sua necessità di
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la di acciaio sia ricoperta di molti strati di cotone. Il bali-
nese I Made Pasek Tempo fa un cenno di assenso: «Tutto
quel che fa Azuma è davvero così, dice, kras ricoperto di
manis». Nella tradizione occidentale, il lavoro dell’attore è
stato orientato da una rete di finzioni, di “se magici” che
riguardano la psicologia, il carattere, la storia della sua per-
sona e del suo personaggio. Anche i princìpi pre-espressi-
vi della vita dell’attore non sono qualcosa di freddo, che
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Nella tradizione indiana, fra le dieci qualità dell’attore
c’è quella del saper guardare, di saper dirigere lo sguardo
nello spazio. È questo il segno che l’attore reagisce a qual-
cosa di preciso. Possiamo vedere un attore che esegue in
maniera straordinaria gli esercizi del suo allenamento, ma
se il suo sguardo non è precisamente direzionato, le sue
azioni non hanno forza. Il corpo può essere, al contrario,
rilassato, ma gli occhi essere in azione, cioè guardare per
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Appassionato di film western, il grande fisico danese
Niels Bohr si chiedeva perché, in tutti i duelli finali, il pro-
tagonista sia più veloce a sparare anche se è il suo avversa-
rio a metter per primo mano alla pistola. Bohr si chiedeva
se dietro questa convenzione non ci fosse una qualche ve-
rosimiglianza fisica. Risolse di sì: il primo è più lento perché
decide di sparare, e muore. Il secondo vive perché è più
veloce, ed è più veloce perché non deve decidere, è deciso.
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Un milione di candele
«La vera espressione – ha detto Grotowski in una recente
intervista – è quella dell’albero». E spiegava: «Se un atto-
re vuole esprimere, allora è diviso, c’è una parte che vuo-
le ed una che esprime, una parte che ordina ed una che
esegue gli ordini».
Inseguendo la traccia dell’energia dell’attore, siamo
giunti a intravederne il nocciolo:
a) nell’amplificazione e nella messa in gioco delle forze
che sono in opera nell’equilibrio;
b) nelle opposizioni che reggono la dinamica dei movi-
menti;
c) in un’opera di riduzione e di sostituzione che fa sem-
pre emergere l’essenziale delle azioni e allontana il corpo
dell’attore dalle tecniche quotidiane del corpo, creando
una tensione, una differenza di potenziale attraverso cui
passa energia.
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Le tecniche extra-quotidiane del corpo consistono in pro-
cedimenti fisici che appaiono fondati sulla realtà che si co-
nosce, ma secondo una logica che non è immediatamente
riconoscibile.
Ora siamo in grado, se non di comprendere, per lo me-
no di intuire cosa si dissimuli dietro altre parole con cui
la nostra parola “energia” può essere tradotta: sono le
parole che rimandano ad un’unità, al risarcimento di una
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rappresentano personaggi maschili, è che in quei casi l’at-
tore o l’attrice fa esattamente il contrario di ciò che fa
oggi l’attore che si traveste in una persona dell’altro sesso:
non si traveste, ma si sveste della maschera del suo sesso
per lasciare trasparire un temperamento dolce o vigoroso,
indipendentemente dagli schemi a cui un uomo o una don-
na debbono conformarsi in una determinata cultura.
Nelle opere teatrali delle diverse civiltà, i personaggi
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gia” applicato all’attore. La meno utilizzabile perché tra-
duce l’esperienza di un punto di arrivo e di un grande
risultato; non traduce l’esperienza della via per conseguir-
lo. Sanjukta Panigrahi ricorda che energia si dice Shakti:
è l’energia creatrice, che non è né maschile né femminile,
ma che viene rappresentata da un’immagine di donna.
Per questo, solo alle donne in India viene attribuito il ti-
tolo Shakti amsha, parte della Shakti. Ma l’attore, indi-
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A te mi inchino che sei forma
di maschio e di femmina,
due deità in una,
che nella metà femmina ha il vivido colore
del fiore di Champak
e nella metà maschio ha il pallido colore
del fiore di canfora.
bracciali d’oro,
la metà maschio è adorna
di bracciali di serpenti.
La metà femmina ha occhi d’amore,
la metà maschio ha occhi di meditazione.
La metà femmina
ha una ghirlanda di fiori di mandorlo,
la metà maschio
una ghirlanda di teschi.
Di vesti abbaglianti è vestita
la metà femmina,
nuda
è la metà maschio.
A lei mi rivolgo,
congiunta al Dio Shiva,
suo sposo.
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A Lui mi rivolgo
congiunta alla Dea Shiva,
sua sposa.
(marzo 1981)
2
Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in «Degrés», n.
25, 1980.
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ringraziamenti
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tagna in cui lavorava, e mi ha spiegato le conseguenze che i
mutamenti delle tecniche quotidiane del corpo hanno sulla
tradizione teatrale in Giappone.
Mannojō Namura, grande maestro di Kyogen, incontrato
nel ’73 ad Holstebro e nel ’79 a Tokyo.
I Made Bandem, danzatore del Kokar di Bali, con cui ho
collaborato nel corso dell’incontro di Bergamo, nel ’77.
I Made Pasek Tempo, del villaggio di Tampaksiri, a Bali,
considerato uno dei più grandi maestri di topeng, maestro da
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pria tradizione culturale e dirige il Conjuncto Nacional de
Folklore.
Ragunath Panigrahi, maestro di canto tradizionale in-
diano.
Sanjukta Panigrahi, danzatrice, ricreatrice della danza
Orissi. Ne rivelò l’inaspettata bellezza ad Holstebro, nel ’77,
ed è oggi fra coloro che con maggior esperienza, dedizione
ed autorità collabora alle ricerche dell’antropologia teatrale.
Coloro, però, che più debbo ringraziare sono forse i bam-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.
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