Sei sulla pagina 1di 196

menalive

4
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
© 1981, Eugenio Barba

© 2019, Pagina soc. coop., Bari


Nuova edizione, 2019
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Per informazioni sulle opere pubblicate


e in programma rivolgersi a:
Edizioni di Pagina
via Rocco Di Cillo 6 - 70131 Bari
tel. e fax 080 5031628
http://www.paginasc.it
e-mail: info@paginasc.it
facebook account
http://www.facebook.com/edizionidipagina
twitter account
http://twitter.com/EdizioniPagina

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Eugenio Barba

la corsa dei contrari


antropologia teatrale
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

introduzione di Francesco Cappa

edizioni di pagina

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

È vietata la riproduzione, con qualsiasi


mezzo effettuata, compresa la fotocopia.
Per la legge italiana la fotocopia è lecita
solo per uso personale purché non
danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia
che eviti l’acquisto di un libro è illecita e
minaccia la sopravvivenza di un modo di
trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia
un libro, chi mette a disposizione
i mezzi per fotocopiare, chi favorisce
questa pratica commette un furto e opera
ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata


Pagina soc. coop. - Bari

Versione digitale (pdf)

isbn 978-88-7470-666-2

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
indice
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Introduzione
Il gesto formativo dell’esperienza teatrale 9
di Francesco Cappa

Teatro-Cultura 47
Paura del ghetto 48
Immagini antistoriche 53
Le isole galleggianti 61
Pueblos, Cimarrones 70
Un teatro asociale? 74

La corsa dei contrari 81


Premessa sul silenzio scritto 81
1. Sul significato sociale dell’attore 82
2. Sulla formazione dell’attore 85
2.1. Spontaneità, p. 91 - 2.2. Comunicazione, p. 97 -
2.3. Creatività, p. 109

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Dal diario di Iben Nagel Rasmussen 112
3 maggio 1974, p. 112 - 6 maggio 1974, p. 117
3. Sul teatro come arte del far vedere 131

Antropologia teatrale 137


Princìpi simili e spettacoli diversi 138
Lokadharmi e Natyadharmi 141
L’equilibrio in azione 145
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

La danza delle opposizioni 152


La virtù dell’omissione 157
Intermezzo 162
Un corpo deciso 168
Un milione di candele 174

Ringraziamenti 181

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

A Jerzy

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
introduzione
il gesto formativo
dell’esperienza teatrale
di Francesco Cappa
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Allora, cosa cerco?


Cerco di protrarre una presenza arcaica,
ormai non congeniale all’epoca in cui vivo.
E. Barba

Siamo noi l’eco di cui i secoli


non hanno potuto soffocare la voce?
E. Jabès

La corsa dei contrari è un testo aurorale.


In esso i temi si presentano allo stato nascente, con la
chiarezza e l’impeto di ciò che vede la luce, prende forma e
origina, nello slancio di ciò che genera altro nel tempo che
viene.
Tale impeto si manifesta nella forma dell’interrogazione.
Le tre parti che compongono La corsa dei contrari si aprono
con interrogativi che non solo fondano il discorso, ma segna-
no immediatamente, insieme al punto di enunciazione
dell’autore, anche il luogo di distinzione della risposta e,
forse, ancor più lo spazio possibile creato per chi potrà ri-
spondere.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Questo testo vive e interroga da un margine, da un «ghet-
to», come scrive Barba nelle pagine iniziali del libro, uno
spazio e un luogo che come i margini della filosofia, evocati
da Jacques Derrida, riescono a gettare una luce che attraver-
sa lateralmente gli elementi e le zone che credevamo di co-
noscere e che davamo forse per scontate e assodate. In que-
sto margine troviamo, ancora oggi, una voce e un discorso
che non hanno perso efficacia e attualità. Una voce e un di-
scorso ancora necessari per comprendere qualcosa di essen-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ziale dell’esperienza teatrale e non solo di questa.


La necessità di rileggere e rendere di nuovo disponibile
questo testo nasce dal desiderio di offrirlo non solo a chi è
appassionato e interessato al teatro, ai suoi protagonisti, alle
sue forme o, in modo più specifico, all’opera di Eugenio
Barba, ma soprattutto dal desiderio di riproporlo ad un pub-
blico più ampio e meno esperto, nella convinzione che, an-
che se pubblicato molti anni fa, agiti e renda vivi materiali e
pensieri che non riguardano solo il teatro e la sua storia.
Un modo di leggere questo testo, pubblicato dall’editore
Feltrinelli nel 1981, potrebbe, per esempio, essere guidato
da una vena che lo percorre quasi interamente che riguarda
l’esperienza formativa. Se ci si lascia condurre e in parte in-
cantare dalla voce che sorregge il testo, si comprende ben
presto che la formazione, in modo esplicito la formazione
dell’attore, travalica ogni tecnicismo, senza perdere di pre-
cisone e rigore, e supera ogni angusta definizione o teoria
legata a saperi “disciplinati”, fissati, istituzionalizzati.
Il lettore, di qualunque estrazione sociale e culturale, è
messo a contatto con questioni e domande talmente essen-

10

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ziali e non retoriche da essere interrogato come un essere
umano che cerca di incontrarne un altro attraverso un’espe-
rienza autentica. «Avventura e incontro: non quale che sia;
ma che accada quello che vorremmo accadesse e poi accada
anche ad altri tra noi»1. Un incontro in cui l’esperienza for-
mativa diviene allo stesso tempo una chance etica e un’occa-
sione per mobilitare problemi che riguardano tutti.
Per questi motivi mi limiterò a indicare alcuni luoghi del
libro, per generare riflessioni, digressioni e commenti, per
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

mostrare risonanze e genealogie tematiche. A partire da al-


cune frasi riprese dal testo, poste in corsivo al principio dei
paragrafi che seguono, proverò a stimolare alcune connes-
sioni, prossime, a volte meno prossime, al discorso originale,
e, inoltre, modi di leggere e interpretare le numerose tracce
disseminate da Eugenio Barba sul suo cammino e sul nostro.

1. Rivelare relazioni
La ricerca personale, non privata, lascia tracce.
In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove generazioni,
un senso imprevisto viene dato all’incontro con il teatro: non il
bisogno di ricevere teatro, ma il bisogno di fare teatro, di creare
nuove relazioni, come attore e come spettatore.
Il teatro diventa, così, il mezzo per non restare soli, per gettare un
ponte, per creare legami senza rinunciare ai propri sogni. Il teatro

1
J. Grotowski, Holiday: il giorno che è santo, in Id., Holiday e Teatro
delle fonti, La Casa Usher, Firenze 2006, p. 59.

11

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
diventa anche l’astuzia, la trincea per proteggere e nascondere
quel che riteniamo essenziale.

Nella prima parte di questo libro, nel capitolo intitolato Te-


atro e cultura, Eugenio Barba afferma che quel che conta nel
teatro è «rivelare relazioni». Tale affermazione, solo appa-
rentemente banale, crea oggi un interessante corto circuito
rispetto al continuo ritornello contemporaneo che ripete
ossessivamente che le relazioni sono il cuore dell’essere so-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ciale, ma solo se si è “connessi”. In un mondo in cui tutto


sembra essere – spesso in modo coatto – connesso, il signifi-
cato che Barba costruisce intorno all’idea del Terzo teatro e
della qualità delle relazioni assume un valore speciale che
sembra indicare, a distanza di quasi quarant’anni, un antido-
to alle perversioni della società e della socialità della “con-
nessione”.
Bisogna in qualche modo adattarsi e fare i conti con quel-
la che si chiama realtà.
Tale realtà ha i tratti facilmente individuabili, perché la loro
violenza è quella di una mortuaria vitalità che dilaga su tutto:
perdita di antichi valori (comunque li si voglia giudicare);
borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accet-
tazione del consumo attraverso l’alibi di una ostentata ed
enfatica ansia democratica; correzione del più degradato e
delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di
un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza.

Così scriveva Pasolini nel 1975 sul «Corriere della Sera»


del 18 luglio. Queste considerazioni, rivolte all’innesto tra

12

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
politica e società dei consumi, sono del tutto anacronistiche?
Lasciamo, per ora, la domanda sospesa.
Quello che è interessante notare è che l’esperienza con-
temporanea, sul piano formativo, ripropone con uno scarto
la questione che Pasolini denunciava senza tregua: se, a par-
tire dagli anni Sessanta del XX secolo, l’avere aveva spudo-
ratamente impoverito l’essere, potremmo dire che oggi l’ave-
re – informazioni, conoscenze, esperienze – genera la
necessità di essere connessi. Ma l’essere connessi non deter-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

mina necessariamente l’essere in relazione. La connessione,


l’essere o – più sottilmente, dal punto di vista del marketing
dell’esperienza – il sentirsi connessi sono diventati valori as-
soluti.
Ciò risulta evidente e immediatamente percepibile sul pia-
no commerciale: non essere in grado di entrare nella rete del
mercato globalizzato determina con ottime probabilità il
fallimento.
Se si osserva il fenomeno della connessione da una pro-
spettiva pedagogica, le conseguenze sulle strutture dell’e-
sperienza, sui modelli formativi, sulle relazioni educative,
sui processi di insegnamento e apprendimento, sugli stru-
menti di valutazione ci costringono a riflettere con più atten-
zione sulle parole di Pasolini. La questione, ovviamente, non
sta nell’essere entusiasti delle possibilità dei social networks
o considerarle una forma deteriore di esperienza della socia-
lità, che determina un nuovo “isolazionismo”, come viene
descritto, depressivamente ma in modo illuminante, ne La
possibilità di un’isola di Michel Houellebecq. Piuttosto si
tratta di osservare il fenomeno della connessione come una

13

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
grande metafora dell’esserci e quindi anche del modo di for-
marsi e di formare il Sé.
Se l’accesso all’informazione non si annoda, in ogni sog-
getto, al campo di esperienza che i processi formativi metto-
no in movimento, l’eccesso di connessioni può generare una
crisi della presenza anziché un potenziamento delle oppor-
tunità di formazione del Sé. Il potere pulviscolare espresso
dall’apertura estrema che la network society ci offre, in ogni
istante, può generare un effetto di passivizzazione a fronte,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

a volte, di un’ostentata ed enfatica attività di ricerca. Un’at-


tività che spesso più che aver di mira qualcosa, qualcosa che
desideriamo, che ci interessa, che ci serve, che ci apre al
mondo, ha in realtà di mira la ricerca di un rilancio della
nostra debole sommersa presenza, nel rimbalzo che la rispo-
sta dell’altro sembra offrirci, anche solo per un attimo.
La scena allestita dal web diviene così la manifestazione
perfetta dell’opposto della scena teatrale del Terzo teatro2.
Una scena che, nelle parole di Barba che aprono il testo,

2
«L’Odin rifiuta sia il teatro convenzionale dominante che il teatro
d’avanguardia ortodosso. L’Odin è stato il pioniere di quel movimento
denominato Terzo teatro. [...] Il modo in cui costruisce un’opera è
tale da costruire una sfida per gli spettatori come solo i migliori teatri
d’avanguardia sanno fare. Ma invece di girare nel circuito dei festival,
l’Odin va in villaggi dove rimane per lunghi periodi o va nei quartieri
abitati dalle minoranze o dalla classe operaia. Oppure lavora con grup-
pi locali attivi in ambito artistico. L’Odin non è un gruppo elitario» (J.
Grotowski, Intervista con Jerzy Grotowski su Eugenio Barba. A cura di
Richard Schechner [1984], in Id., Testi 1954-1998. Oltre il teatro, vol.
III, La casa Usher, Firenze 2016, pp. 254-255).

14

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
descriveva una nuova esperienza teatrale che già rispondeva
ai primi sintomi della perdita di presenza dei soggetti nella
dimensione relazionale, sociale e politica. Oltre a sottoline-
are una possibilità di distinzione del Terzo teatro nel rappor-
to con le istituzioni culturali e teatrali dell’epoca in cui Bar-
ba scriveva.
La connessione oggi induce anche un ritmo, spesso com-
pulsivo, segnato dalla logica dell’adempimento costretto dai
software che, a dispetto del nome, pesantemente e in modo
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

subliminale ci suggeriscono e molto spesso costringono ad


“aggiornarci” di continuo, pena l’esclusione da una piena e
soddisfacente operatività. Un’operatività che non riguarda
più solo i nostri devices, ma la nostra stessa identità, profes-
sionale e relazionale.
Ci sarebbe quindi un paradossale effetto di passivizzazio-
ne della formazione che interviene nel momento in cui l’es-
sere connessi, spesso guidato dal desiderio di dimostrare agli
altri di esserlo, diventa formativo in sé, come ostensione di
una condizione che è “in formazione permanente” perché
eternamente connessa a tutto lo scibile.
Un analista e interprete dei rapporti tra saperi e poteri nel-
la società contemporanea come Manuel Castells sperava,
concludendo una sua lezione alla Bocconi di Milano nel
2008, che lo spazio pubblico potesse diventare «la costruzio-
ne di un network di connessione tra le menti» e la diversità
di vedute potesse rendere le reti di comunicazione più aperte.
Credo che si sottovaluti, a volte, in questi discorsi, il fatto
che la formazione, l’educazione si occupa di una qualità del-
la connessione che sta a monte di quella evocata da Castells.

15

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Qualcosa che Karl Marx scrisse in una lettera al suo amico
Engels alla fine dell’estate del 1867: «Mi è costato tanta fati-
ca trovare le cose stesse, vale a dire la loro connessione». Tale
connessione esprime la tensione del soggetto, anche corpo-
rea espressa in quella fatica, a scoprire la struttura, l’artico-
lazione, la legge del mutamento che governa le forme della
storia, della società, dei fenomeni che ci attraversano e ci
formano. Quello che Marx chiamava scienza della forma re-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ale dei fenomeni al di là della loro forma apparente. Ogni


gesto dovrebbe mirare a questa connessione, e il gesto tea-
trale diventa un paradigma di questa possibilità.

2. Il gesto formativo
Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i risultati e che
permette di non fermarsi ad essi. [...] Sapere non è comprendere.
Il modo di controllare un processo di lavoro è qualcosa che si as-
sorbe in un lunghissimo arco di tempo, in determinate relazioni
e condizioni di lavoro. Solo quando lo si è assorbito, lo si è com-
preso, si comprende anche che cosa si sa.
Influenzare l’allievo sarebbe – secondo un’opinione comune –
negativo. I segni dell’influenza rivelerebbero un rapporto malsa-
no. Ma con questo modo di ragionare non si approda a nulla:
tutti siamo influenzati da qualcuno. Il problema è la carica di
energia che viene messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è
così forte che permette di andare lontano, o se è così debole che
non produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una mar-
cia sul posto. [...]
Ma dove il rapporto è libero, se nasce da una scelta reciproca,

16

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
garantirà tanto più una forma di giustizia quanto più obbligherà
reciprocamente le sue parti.
Questa scelta reciproca racchiude l’esigenza di un rapporto peda-
gogico diverso, basato su uno scambio e una influenza profonda
fino a giungere ad una relazione in cui non si sa più chi è maestro
e chi è allievo. È questo che permette che una rigorosa disciplina
non sia costrizione.
Ciò implica una tradizione vivente, una vivente trasmissione del-
le esperienze, qualcosa che va al di là dei princìpi, delle teorie,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

delle generalizzazioni tecniche, dei professori con i loro libri e i


loro programmi. Implica un rapporto intero fra le persone.

In ogni gesto c’è sempre la relazione che il soggetto intrat-


tiene con il mondo. In ogni gesto si manifesta il modo in cui
il soggetto vede il mondo, lo sente. In ogni gesto il soggetto
presenta la sua eredità, il suo ambiente, la sua provenienza,
anche geografica, geopolitica, la sua costituzione psicologi-
ca, la sua educazione. Attraversando da parte a parte esi-
stenza e carne, la gestualità crea quell’unità che noi chiamia-
mo corpo, perché non è il corpo che dispone di gesti, ma
sono i gesti che fanno nascere un corpo dall’immobilità
della carne.
I gesti sono le parole carnali del desiderio perché, appun-
to, carichi di ambivalenza e portatori di passione per l’altro
e per l’essere-con-l’altro: l’intenzione del mio gesto che “toc-
ca” l’altro – non necessariamente nel contatto fisico – è sem-
pre ambivalente perché viene preso, catturato dall’altro e
ogni volta trasformato, reso insicuro per l’intenzione iniziale
e sempre prossimo all’abbandono, perché l’incontro con
l’altro ristruttura il gesto come “azione in sé”.

17

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
In un’occasione pubblica è stata posta a Jerzy Grotowski
una domanda sul significato del gesto come segno. Questa
domanda per Grotowski ne conteneva una implicita:
Si deve avere l’idea di qualcosa e poi cercare di metterla in
pratica? [...] Se si prende questa via, sin dall’inizio si è divisi
tra pensiero e azione, intenzione e vita; si ha a che fare con
certe “idee” che si prendono per vere a priori e poi si cerca il
modo per illustrarle. Naturalmente, si può costruire in questo
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

modo e sarà logico: si possono spiegare le idee, ma questo


prodotto non includerà mai pienamente colui che lo ha fatto,
o colui che lo incontra, perché non è possibile raggiungere la
pienezza se si prende il cammino delle divisioni3.

La questione del gesto-segno apre una prospettiva che va


oltre l’arte dell’attore, oltre il “recitare, il far finta”. Ciò che
viene in questione è la pienezza dell’esperienza del soggetto
e di quello che si “sa”.
Il gesto-segno, per l’attore così come per il formatore, non
deve cercare l’approvazione dello spettatore, del formando.
Non si deve cercare l’accettazione dello spettatore, ma accet-
tarsi. [...] Non è sufficiente compiere ciò che ci rivela, si deve
fare di più: compierlo, per quanto sia possibile, in piena luce,
non furtivamente, ma apertamente. Allora, forse, questo è un
“segno”, o lo diventa?4

La formazione mette al lavoro proprio questa possibilità

3
J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, cit., pp. 69-70.
4
Ivi, p. 71.

18

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
che il gesto-segno porta con sé. Il teatro, ha scritto Jean-Luc
Nancy, nella sua forza di duplicazione della presenza per-
mette al segno di divenire la rappresentazione di un “corpo-
teatro”.
La teatralità procede dalla dichiarazione di esistenza – e l’e-
sistenza stessa è l’essere che è dichiarato, presentato, non
trattenuto in sé. È l’essere che dà segno di se stesso, che si dà
a sentire non in una semplice percezione ma come densità e
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

come tensione5.

La formazione cerca di mettere in luce in che modo i gesti-


segni che il corpo-teatro del formatore compie e sostiene
possano essere percepiti, elaborati, comunicati, «presentati
e non trattenuti», come scrive Nancy. Come questi segni
possano essere letti come “spie”, per esempio, delle latenze
proprie del processo formativo.
Tali segni mostrano una volta di più che ogni esperienza
formativa va intesa sempre anche come una performance:
intendere la formazione come performance significa com-
prendere la qualità della perfomance pedagogica. La cono-
scenza del performer viene dall’incontro con le proprie resi-
stenze.
Il tema della resistenza ad apprendere è centrale sia nella
relazione pedagogica sia nella formazione dell’attore, così
come sia Grotowski sia Barba l’hanno affrontata. Solo nel
momento in cui attraverso il training l’attore incontra e rico-
nosce le proprie resistenze, i propri blocchi psichici – così a

5
J.-L. Nancy, Corpo-teatro, Cronopio, Napoli 2008, p. 32.

19

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
volte li nominava Grotowski – può accedere non solo a un’e-
nergia che non sospettava di avere, ma può relamente “co-
municare” qualcosa che può contattare il pubblico, il sog-
getto che si sta formando, l’altro. Barba sottolinea spesso il
fatto che una delle esperienze fondamentali per la formazio-
ne dell’attore riguarda l’apprendere ad apprendere, in linea
con la filosofia dell’educazione di Dewey, che mirava ad
«accendere il desiderio di apprendere» più che ad appren-
dere conoscenze, e con le teorie della psicologia culturale
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

bruneriana6.
Il performer-formatore, così come il performer-formando
può capire solo se fa, dal suo fare o non fare: quindi appren-
de dalla retroflessione dei suoi gesti, consapevoli e inconsa-
pevoli, accedendo ad un piano, quello gestuale appunto, che
è soggettivo e intersoggettivo, o meglio transindividuale. Un
piano ben presente alla prospettiva dell’antropologia teatra-
le di Barba.
È ancora Grotowski che, in un passaggio di un suo inter-
vento del 1987 intitolato Performer, indica l’importanza

6
Roberta Secchi, che si è formata come attrice con Barba, mi ha
fatto notare che la densità e la tensione come qualità tecniche, sceni-
che, formative e performative sono da mettere in relazione con la resi-
stenza che l’attore, il performatore, ma anche il formando e lo spetta-
tore mettono in gioco nella relazione. Resistenza ad apprendere perché
apprendere significa cedere le armi, essere disponibile a trasformarsi
a cambiare, a evolversi. Resistenza dello spettatore davanti agli spetta-
coli dell’Odin, che non sono sempre di facile fruizione, non sono pro-
dotti commercialmente confezionati, non inducono la passivizzazione
dello spettatore.

20

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
dell’intreccio essenziale tra perfomance e processo forma-
tivo:
La domanda chiave è: qual è il tuo processo? Gli sei fedele
oppure lotti contro il tuo processo? Il processo è come il de-
stino di ciascuno, il proprio destino che si sviluppa nel tempo
(che semplicemente si svolge, e questo è tutto). Allora: qual è
la qualità della tua sottomissione al tuo proprio destino? Si può
captare il processo se ciò che si fa è in rapporto con noi stessi,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

se non si odia ciò che si fa. Il processo è legato all’essenza e


virtualmente porta al corpo dell’essenza. [...] Nel Performer il
performing può diventare molto prossimo al processo7.

Proviamo a volgere ora lo sguardo verso un esempio “sto-


rico” di cosa possa essere questo “processo” se inteso nel
rapporto fra teoria e prassi dalla prospettiva del gesto peda-
gogico.
In pieno contrasto con un tipo d’insegnamento libresco e
catechetico, Walter Benjamin proponeva, molti anni fa,
un’educazione politecnica, che risentiva delle indicazioni
marxiane e che puntava a sfaldare la scissione borghese tra
prassi e teoria. Quello che Benjamin invocava come univer-
salismo attivo e pratico, opposto alla settorializzazione delle
competenze e delle capacità, ricordava molto da vicino la
propensione goethiana per l’antiparcellizzazione del sapere
e dei saperi trasmessi, specialmente nei primissimi anni del-
lo sviluppo del soggetto.

7
J. Grotowski, Testi 1954-1998. L’arte come veicolo, vol. IV, La casa
Usher, Firenze 2016, p. 55.

21

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Fino a quattro anni, riteneva Benjamin, il bambino vive il
suo periodo di massima indipendenza “ideologica” ed è du-
rante questo periodo che bisogna fornirgli gli strumenti per
la formazione di una capacità e libertà critica che gli per-
metterà in futuro non solo di comprendere, ma di ricono-
scere le forme più sottili e nascoste dell’ideologia. In questo
senso l’articolo intitolato Pestalozzi a Yverdun è qualcosa di
più di uno scritto occasionale in cui Benjamin affrontava
questioni pedagogiche: «La mentalità di Yverdun era la
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

mentalità spartiate della classe borghese che si stava


liberando»8.
Nell’ambiente creato da Pestalozzi, il grande pedagogo,
il rapporto con la durezza, spiega Benjamin, non rimandava
a quella della società degli uomini adulti, ma passava sem-
pre attraverso il legno, la pietra, il ferro e gli altri materiali
che i bambini avrebbero imparato a maneggiare e trasfor-
mare. Con un tono accorato, abbastanza atipico per Benja-
min, sempre nello stesso articolo egli scriveva che il vero
insegnamento di Pestalozzi era l’esempio, che non trae la
sua forza dalla teoria: «Quello che egli dava ai bambini,
senza i quali non poteva vivere, non era il suo esempio, ma
la mano: l’offerta della mano, per usare una delle sue espres-
sioni preferite»9. La pratica della mano aperta o chiusa, che
ammonisce, incoraggia, spiega o zittisce ma che sempre si

8
W. Benjamin, Figure dell’infanzia. Letteratura, educazione, immagi-
nario, a cura di F. Cappa e M. Negri, Raffaello Cortina, Milano 2014,
p. 116.
9
Ivi, p. 118.

22

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
offre di insegnare, ogni volta si tende verso chi impara per-
ché sa che solo questo è il modo per imparare a insegnare
sempre meglio e più profondamente. Non la mano che in-
dica e insegna, ma la mano che incontra.
La forza del gesto pedagogico, scevra da ogni pietismo
educativo, viene ridotta alla sua essenza di punto di presa di
un discorso e di una pratica che investono l’essenziale di ciò
che si compie come azione. Tale azione è sorretta dalla forza
del gesto di chi forma, nella sua relazione profonda con un’i-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

potesi formativa più radicata nella pratica che in un quadro


di valori che rimane lontano o “diviso” – come diceva Gro-
towski – dalla materialità dell’atto formativo.
Giorgio Agamben, glossando i Commentari a La società
dello spettacolo di Guy Debord, nel suo testo intitolato Mez-
zi senza fine, offre una prospettiva interessante sulla natura
del gesto.
Il gesto, secondo Agamben, rimette in questione il rappor-
to tra potenza e atto. C’è un passaggio della sua argomenta-
zione che evoca questioni traducibili nel campo descritto
dalle tensioni tra gesto e formazione, che stiamo cercando di
esplorare. Scrive Agamben:
fra il testo e l’esecuzione si insinua la maschera, come misto
indistinguibile di potenza e atto. E ciò che avviene – sulla
scena, come nella situazione costruita – non è l’attuazione di
una potenza, ma la liberazione di una potenza ulteriore. Gesto
è il nome di questo punto di incrocio della vita e dell’arte,
dell’atto e della potenza, del generale e del particolare, del
testo e dell’esecuzione. Esso è un pezzo di vita sottratto al
contesto della biografia individuale e un pezzo di arte sottrat-

23

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ta alle neutralità dell’estetica: prassi pura. Né valore d’uso né
valore di scambio, né esperienza biografica né evento imper-
sonale, il gesto è il rovescio della merce10.

Due aspetti in questo discorso colpiscono, correlati fra


loro. Il primo riguarda il fatto che il gesto non sia la mera
attuazione di qualcosa che era in potenza e trova forma,
espressione, manifestazione. Piuttosto il gesto corrisponde o
indica la possibilità di liberare qualcosa di ulteriore, un ef-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

fetto non prevedibile o predicibile, che però è tutt’uno con


il campo di esperienza che il gesto produce fra soggetti e fra
soggetto e mondo.
Il secondo aspetto sostiene che il gesto, così inteso, può
divenire «il rovescio della merce»: quindi se si intende il
gesto come la possibilità di un’ulteriorità – obiettivo proprio
di ogni formazione che non sia mera attuazione di intenti o,
peggio, riproduzione – il gesto può divenire la via perché la
formazione stessa non divenga merce in un’epoca in cui qua-
si tutto tende a trasformarsi in qualcosa che si vende e si
compra, seguendo le giustificazioni e gli obiettivi più coe-
renti con la strumentalizzazione generalizzata delle relazio-
ni, anche nei contesti educativi, formativi, di insegnamento
e di cura.
Il gesto formativo implica sempre un rischio. Spesso que-
sto rischio viene legato semplicemente alla prassi che, nella
sua distanza o vicinanza con la teoria, dovrebbe garantirci la

10
G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Borin-
ghieri, Torino 1996, p. 65.

24

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
buona riuscita delle nostre azioni, dovrebbe mostrarci che i
nostri gesti, coordinati in un’azione, vanno a buon fine, tra-
lasciando non di rado quali siano i criteri e i parametri che
giudicano utile, efficace, giusta un’azione. Le parole di
Agamben ci segnalano che il rischio di ogni gesto dovrebbe
invece porre attenzione a un effetto di liberazione, per il
soggetto, per la comunità, di una potenza ulteriore. Questo
tipo di gesto, questa qualità del gesto, che dovrebbe caratte-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

rizzare il gesto formativo, presente in molte pagine de La


corsa dei contrari, non ha tanto a che fare con l’imparare un
modo di fare o con un metodo, quanto con l’ipotesi etica e
politica che vede nel gesto il campo aperto di un incontro
non mancato con se stessi.
Così nell’esperienza i corpi non si ridurranno a funzioni e
i gesti testimonieranno ancora di una qualità della presenza
non servile rispetto al principio naturalizzato della presta-
zione.

3. Tradurre l’esperienza
È questa dialettica che caratterizza il rapporto regista-attori, atto-
ri-regista, spettacolo-spettatori. È un rapporto di traduzioni e tra-
dimenti continui in cui parte dal punto in cui l’altro è arrivato.
Non è importante “capirsi” né trasmettere qualcosa di identico
per tutti. È importante costruire il ponte, scoprire le relazioni,
crearne d’altre: mettere in azione, permettere una reazione.

La traduzione è – come la formazione – sempre una media-


zione etico-pratica: si tratta di rinunciare al sogno della tra-

25

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
duzione perfetta anche nel senso di purificare il desiderio di
dominazione e assimilazione che vede l’altro, l’estraneo, chi
deve essere “comunicato” come qualcosa che deve essere
tradotto nel “proprio” sogno-desiderio di riproduzione, di
ripetizione.
Si tratta invece di prendersi la responsabilità di questa tra-
duzione, con le ombre che porta in seno; di dare corpo a
questa traduzione, e quindi di assumere come tratto propo-
sitivo la sua infedeltà. Nella traduzione si rende evidente il
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

problema della fedeltà e del tradimento.


Dare corpo al desiderio di tradurre significa anche tradur-
si nella relazione formativa attraverso un lavoro di ri-tradu-
zione, che mentre presuppone il carattere finito e imperfetto
del nostro tradurre, del nostro formare, ne mette alla prova
grazie all’altro la fedeltà, l’adeguatezza e la possibilità del
nuovo, dell’inaspettato. Poiché il solo rimedio a una cattiva
traduzione è una nuova traduzione.
Ogni traduzione è già sempre quindi una ritraduzione.
Anche per questo nel passaggio dall’orale allo scritto, come
ci ha insegnato Platone, la questione è che lo scritto non dà
la versione di ciò che si pensa, ma semplicemente fornisce
una forma di stabilizzazione del pensiero, una sua possibile
e transitoria traduzione appunto.
In questo senso la traduzione è vicina all’ordine dell’espe-
rienza della testimonianza perché per tradurre bisogna avere
fiducia in qualcosa: fiducia nel testo di partenza, fiducia nel
lettore futuro, che in qualche modo deve abbeverarsi a que-
sta traduzione. Diceva Walter Benjamin che senza traduzio-
ne non c’è sopravvivenza. Se i testi sacri non fossero stati

26

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tradotti e quindi desacralizzati non sarebbe sopravvissuto
quasi nulla della nostra cultura.
La traduzione formativa è una figura dell’incontro. È la
figura dell’incontro con lo straniero, con l’altro che non ca-
pisce la mia lingua, con chi deve imparare quello che io so.
E ogni traduzione non può che generare un sapere aperto,
perché ogni traduzione costruisce una variazione, ricerca il
significato, non parte da un significato già istituito. È in que-
sto senso che trovo forte l’analogia tra traduzione e forma-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

zione, perché la traduzione è squisitamente una mediazione


etico pratica. Chi forma è un mediatore e l’eredità non può
che passare attraverso questa mediazione. La trasmissione è
consentita da questo tradimento del testo iniziale, del sapere
di partenza e di ciò che io credo di sapere.
Perché solo se io sono disposto, come avviene nella tradu-
zione, a scoprire mentre traduco qualcosa che non conosce-
vo anche della mia lingua di provenienza, se sono capace di
tollerare l’estraneo che c’è nel mio sapere, ossia se tollero un
modo differente di relazionarmi con ciò che credo di sapere,
passa qualcosa, perché lì si crea lo spazio per l’altro, lo spa-
zio dell’ospite, diceva Paul Ricœur. La traduzione formativa
in questo senso è anche un’etica dell’ospitalità radicata nella
materialità storica della propria esperienza, esistenziale e
formativa.
Se l’esperienza e la pratica della traduzione diviene un mo-
do per comprendere a fondo la sfida formativa della cultura
contemporanea, chi vuole accostarsi a questa pratica deve
tener presente quale istanza metodologica porta con sé la
traduzione. Sul piano del metodo il lavoro di traduzione può

27

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
essere accostato al lavoro del ricordo e al lavoro del lutto. Il
nodo tra memoria e lutto è per certi versi il nodo essenziale
dell’esperienza formativa, nella misura in cui – perché si dia
soggettivazione, perché si incontri la singolarità con il suo
impegno alla verità, perché ci sia eredità e trasmissione – un
lutto va attraversato, affinché il ricordo dell’altro non muoia,
è necessario trasformare e tradurre il nostro desiderio – an-
che il nostro desiderio di formare – in qualcosa che esprima
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

la nostra esperienza singolare come un dono e non come una


proprietà.
È necessario vivere fino in fondo il nostro compito di tra-
duzione, affrontare la prova che la trasmissione ci impone
poiché la funzione di mediazione da una parte desacralizzi
l’eredità per renderla viva, dall’altra accetti la resistenza,
propria e dell’altro, interiore ed esteriore, che la trasmissio-
ne determina ogni volta che si accetta l’impossibilità di rima-
nere “lo stesso”, l’impossibilità di non “divenire altro” nei
processi formativi e di consapevolezza di sé.

4. La crudeltà e la “fisica” di Artaud


come antidoti allo psicologismo teatrale

Il teatro è un vuoto di verità.


L’elemento personale non può mai essere in primo piano, nep-
pure quando l’attore improvvisa. Ciò che sfaccetta l’azione
dell’attore, dà forma alla sua arte – o alla sua ambiguità –, è
la dialettica fra il “personale” e il “pubblico”. Ma è l’obiettivi-
tà della sua azione che innanzi tutto conta. [...] Non si insiste-

28

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
rà mai abbastanza sui rischi della personalizzazione nel lavoro
dell’attore, sui rischi di una concezione psicologistica che non
fa che ripercorrere i vecchi preconcetti e le vecchie mitologie
sull’attore.
Quel che conta è il risultato obiettivo: le azioni, non le inten-
zioni.

Artaud aveva in mente un teatro puro e una scena governata


Documento acquistato da () il 2023/11/13.

dalla “poesia dello spazio”. Sono famose le pagine de La


messa in scena e la metafisica in cui viene affrontata la que-
stione e il valore del gesto nel Teatro della crudeltà.
Sostengo che la scena è un luogo fisico e concreto che esige di
essere riempito e di poter parlare il suo linguaggio concreto.
[...] Mi sembra più urgente determinare prima in che cosa con-
sista il linguaggio fisico, il linguaggio materiale e solido, grazie
al quale il teatro può differenziarsi dalla parola [...] quell’aspet-
to del linguaggio teatrale puro, che sfugge alla parola, del lin-
guaggio fatto di segni, di gesti, di atteggiamenti dotati di valo-
re ideografico, tipico delle pantomime non pervertite.
Per “pantomima non pervertita” intendo la Pantomima diretta,
in cui i gesti – anziché rappresentare parole, gruppi di frasi, co-
me nella nostra pantomima europea, vecchia di soli cinquant’an-
ni, e nata dalla deformazione delle parti mute della Commedia
dell’Arte – rappresentano idee, atteggiamenti dello spirito,
aspetti della natura, e ciò in modo effettivo, concreto [...].
Questi segni costituiscono, come si vede, autentici geroglifici,
entro i quali l’uomo, nella misura in cui contribuisce a formar-
li, è semplicemente un elemento come gli altri, cui tuttavia,
grazie alla sua doppia natura, aggiunge particolare prestigio.

29

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Tale linguaggio, che evoca nello spirito immagini di un’inten-
sa poesia naturale (o spirituale), dà bene l’idea di ciò che
potrebbe essere a teatro una poesia dello spazio indipenden-
te dal linguaggio articolato11.

Malgrado queste considerazione siano ascrivibili alla pri-


ma fase del pensiero di Artaud, alcune indicazioni sul valore
dei gesti e la loro funzione di “segni” permangono fino alle
ultime rappresentazioni del suo teatro.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Artaud non oppone ingenuamente la parola al gesto, anzi


sulla scena che aveva in mente stanno dalla stessa parte, en-
trambi possono esprimere il soffio della vita.
Come ha scritto Artioli, se il teatro a differenza del cinema
può esibire il corpo vivente, questo “a priori” non basta a
garantirne la potenza dell’illusione che trasforma l’uomo e
la sua cultura. Esistono gesti/segni vivi-vivificanti e gesti/
segni inerti e mortificanti, occludenti. I gesti/segni devono
essere come i gesti degli attori del teatro balinese che «anzi-
ché servire da ornamento, da accompagnamento a un pen-
siero, lo fanno evolvere, lo dirigono, lo distruggono o lo
mutano radicalmente»12. Non è il gesto in sé a costituire il
punto di forza di una messa in scena, ma la sua «incorpora-
zione in una tessitura di segni attivi»13, l’utilizzazione del
linguaggio secondo gli schemi del cerimoniale, il trapasso da

11
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 155-
157.
12
Ivi, p. 157.
13
A. Artaud, Le théâtre que je vais a fonder, in Œvres Complètes,
Gallimard, Paris, vol. V, p. 37.

30

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
una fisicità fine a se stessa a un dispositivo capace di innesca-
re il flusso della profondità. La profondità però non va inte-
sa come essenza originaria e nascosta, ma come intervento
nel “fare” della dynamis14.
Il segno è un elemento magico, nel senso junghiano in cui
magico e psichico vengono a significare la stessa cosa: il se-
gno è un mezzo cifrato, enigmatico (geroglifico) per ritrova-
re un vuoto senza il quale non esiste realtà e senso. Il dispo-
sitivo teatrale attraversando il campo dei gesti indica
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

qualcosa e, per Artaud, sarà efficace se risucchierà lo spetta-


tore nel gorgo della Forza eraclitea della vita, oppure ineffi-
cace se lo manterrà nel perimetro della sua individualità. La
duplicità della nozione di segno, che può essere vivificante
o nullificante, indica l’emblema doppio in cui la vita prende
forma, in cui il vivente perde la sua relazione divina con
l’Essere. Il gesto puro dovrebbe riassorbire in sé la doppiez-
za del segno e in qualche modo, sperimentando i suoi «av-
volgimenti carnali», riattivarne una potenza non pervertita
dalla divaricazione, dalla separazione.
Se la parola deve farsi gesto, essa va assoggettata ad una
scena che disgreghi i codici del teatro estetico, della forma
compiuta e rassicurante, una scena in cui la presenza della
gestualità assuma un valore nuovo. Essere segno attivo in-
corporato in un dispositivo rigoroso vuol dire appunto que-
sto: essere capace di non ripetere la parola “nel corpo”, piut-
tosto dar voce alla carne, imprimersi nei nervi, rivelare il non

14
Vedi U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Anto-
nin Artaud, Feltrinelli, Milano 1977, p. 115.

31

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
detto, costruire una grammatica che fondata sullo scacco del
significante metta in luce nuovi significati. Si tratta di pro-
durre sulla scena nuova realtà e non imitazione.
L’attore diviene quasi inessenziale, Artaud preconizza
quella “macchina attoriale” che Carmelo Bene, a suo modo
e con un’altra idea di teatro, ha realizzato. L’attore è inessen-
ziale e insieme fondamentale, perché quello che conta è cre-
are lo spazio del sacro con un teatro che riesca a manifestarsi
anche senza mediatore umano, ma nella trama dei suoi segni.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

«L’idea di una natura che si auto-purifica, esteriorizzando in


segni visibili il dramma che la lavora, ci sembra eloquente»15.
Questa scena vive grazie ad una nuova cultura del corpo,
intesa come riappropriazione della materia non pervertita,
resa gloriosa dalla carne che attraversa l’opera dell’attore,
quasi deflagrandola ogni volta che si compie un gesto sulla
ribalta: la carne permette al vuoto di emergere dal corpo,
crea lo spazio per l’Essere, per essere.
“Fisico”, “concreto”, “oggettivo”, “materiale”, il disposi-
tivo linguistico della “crudeltà” rifiuta la dominante dialogi-
ca per divenire arte dello spazio e del movimento.
Nella drammaturgia artaudiana della maturità, dove il liri-
smo del gesto ha soppiantato il lirismo della parola, la scrit-
tura è indice degradato teso a fissare, nella precarietà fretto-
losa dell’appunto, ciò che sulla scena diverrà iscrizione16.
Si può sostenere che l’eredità di questa “iscrizione” arriva
a Grotowski, a Brook, ma anche, ad un suo grado massimo

15
A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 1996, p. 72.
16
U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 165.

32

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
di pienezza e concretezza dell’astrazione, al teatro di Robert
Wilson, se quest’ultimo, in una conferenza tenuta alla trien-
nale di Milano di qualche anno fa, diceva:
la croce fra spazio e tempo è la struttura di tutto, dagli edifici
alle opere d’arte d’ogni genere, il modo di stare in palcosce-
nico, il nostro fondamento. Attenzione e rilassamento è il
modo in cui vediamo, in cui siamo coscienti di essere. All’ini-
zio c’è l’unità dello spazio vuoto che è bellissimo. L’attore
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

deve essere quel nulla che è tutto. Lo spazio intorno ad un


oggetto ne determina la grandezza. Lo spazio vuoto è già
completamente vuoto, è pieno, completo. Un solo gesto di-
venta così potente perché c’è tanto spazio intorno.

Forse le parole di Wilson non solo rievocano la “poesia


dello spazio” di cui parla Artaud, ma ne arricchiscono il va-
lore, dato il potenziale conoscitivo che assume lo spazio, la
luce e il tempo del gesto nelle creazioni del regista americano.
L’attore deve provare a portare se stesso ad essere quel
nulla che è tutto sulla scena. Nel linguaggio dell’ultimo Ar-
taud, ne è prova il limite raggiunto in Per finirla con il giudi-
zio di dio, si cerca di rintracciare e ritracciare uno spazio
della passione, che è lo spazio anche metaforico proprio
della tradizione della carne. Questa passione però non inve-
ste il corpo nel suo esserci particolare, ma, nell’intenzione di
Artaud, dovrebbe misurarsi con la scena metafisica che egli
stesso prospettava. La relazione tra significante e significato
deve essere superata dall’ingresso in un nuovo linguaggio,
dall’accesso ad una nuova lingua pura. Artaud non ha in
mente una lingua edenica, piuttosto, come ha visto Gilles

33

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Deleuze, un gesto espressivo e comunicativo (poiché Artaud
non rinunciò mai, neppure abitando il suo limite, al compito
della comunicazione, per quanto profonda potesse risultare)
che violenta la lingua-madre, ne detronizza le forme e i co-
dici tentando di farsi pienamente abitare dal “soffio conti-
nuo e pieno” di una scienza che trasgredisce ogni sua intrin-
seco tentativo di darsi come è e non come potrebbe essere
“ulteriormente”. L’atto mitico della “ricreazione del corpo”
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

che approda alla sua non organicità, alla sua gloria deve,
però, passare attraverso il corpo per farsi carne. Solo questo
passaggio può consentire all’uomo di sfiorare in un momen-
to essenziale, nel soffio di una lingua sconosciuta, non tanto
il senso, che sempre si dà nello scarto e nel suo scacco, ma
una pienezza che non tradisce la vita.
L’agglomerato frusciante d’una lingua sconosciuta costituisce
una deliziosa protezione, avviluppa lo straniero (per poco che
il paese non gli sia ostile) in una pellicola sonora che trattiene
alle soglie delle sue orecchie tutte le alienazioni della lingua
materna [...].
La lingua sconosciuta, di cui colgo purtuttavia la respirazio-
ne, l’areazione emotiva, in una parola la pura significanza,
forma attorno a me, via via ch’io mi muovo, una leggera ver-
tigine, mi trascina nel suo vuoto artificiale, che non si realizza
che per me, vivo nell’interstizio, alleggerito d’ogni senso pie-
no. Come ve la siete cavata laggiù con la lingua? Sottointeso:
come vi siete assicurato il bisogno vitale della comunicazione?
O più esattamente, asserzione ideologica che nasconde l’in-
terrogativo pratico: non c’è comunicazione che nella parola.
Capita invece, in questo paese (il Giappone), che l’impero dei

34

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
significanti sia così vasto, ecceda a tal punto la parola, che lo
scambio dei segni rimane di una ricchezza, d’una motilità,
d’una sottigliezza affascinanti, a dispetto dell’opacità della
lingua, anzi, talvolta grazie a questa stessa opacità. La ragione
di ciò è che laggiù il corpo esiste, si dispiega, agisce, si dà
senza isteria, senza narcisismo ma secondo un puro progetto
erotico, sia pura sottilmente discreto.
[...] è tutto il corpo dell’altro che si è fatto conoscere, gustare,
accogliere e che ha dispiegato (senza fine reale) il suo raccon-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

to, il suo testo17.

5. La concretezza come via per l’essenziale

In quali direzioni può orientarsi un attore occidentale per co-


struirsi le basi materiali della sua arte? È questa la domanda
cui l’antropologia teatrale tenta di rispondere.
L’esempio dell’ikebana ci mostra come significati astratti na-
scano da un preciso lavoro di analisi e trasposizione di un fe-
nomeno fisico. Partendo da quei significati mai si raggiunge-
rebbe la concretezza e la precisione dell’ikebana, mentre
partendo da questa si raggiungono quelli. Nei confronti
dell’attore spesso si tenta di procedere dall’astratto al concreto,
si crede che il punto di partenza possa essere costituito dalle
cose da esprimere, le quali poi implicherebbero le tecniche
adatte ad esprimerle. Un sintomo di questa assurda credenza
è fornito dalla diffidenza verso le forme di teatro codificato, e
verso i princìpi per la vita dell’attore che essi racchiudono.

17
R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, pp. 14-15.

35

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Quei princìpi, infatti, non sono suggerimenti estetici fatti per
aggiungere bellezza al corpo dell’attore. Sono mezzi per toglie-
re al corpo gli automatismi quotidiani, per impedirgli, cioè, di
essere solo un corpo umano condannato a rassomigliare a se
stesso, a presentare e rappresentare solo se stesso.

Il teatro della crudeltà cerca di organizzare gli elementi


“espansi” di un linguaggio, insieme acustico e visivo, trattan-
doli come “geroglifici”, come segni di una lingua che con-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

serva in sé un potere magico oltre che deittico. Al fondo di


questo linguaggio, quindi, devono esserci forze metafisiche
che toccano la sensibilità del pubblico attraverso gli oggetti
– grazie alla loro “fisica” – e vanno intese proprio in questo
senso le parole di Artaud che sottolineano il fatto che quel
che conta è «la crudeltà che le cose possono esercitare su di
noi».
Il linguaggio del teatro della crudeltà di Antonin Artaud è
concreto e serve a «captare i sensi», genera con i gesti e i
segni un nuovo lirismo che sta oltre le parole, una «nuova e
più profonda intellettualità» che oltrepassa il giogo del sen-
so, della spiegazione di ciò che accade. Esso, non rifacendo
mai due volte lo stesso gesto ma creando «una nuova realtà»,
dà al pubblico la possibilità di sperimentare una creazione
che non pretende di essere un’opera chiusa; si genera così
una creazione di cui conosciamo soltanto un aspetto, ma che
si completa su altri piani. Quello che conta non è riportare
questi altri piani sotto l’occhio dell’intelligenza, ciò equivar-
rebbe a diminuirli, quel che davvero conta è usare con rigo-
re – con crudeltà – la partitura dei segni concreti come un

36

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
metodo, una via per rendere possibile alla sensibilità la per-
cezione dell’apertura verso questi altri piani di esistenza.
La partitura dei segni concreti viene a contrapporsi ad un
sistema di simboli che sul palco guida il pubblico dal signi-
ficante al significato, non solo psicologico, dell’azione dram-
matica che avviene sul palcoscenico. Il segno conta in fun-
zione del suo «dinamismo», espressione che per Artaud è un
sinonimo di creazione pura18. Il segno concreto (il gesto)
non si oppone alla realtà come qualcosa di autonomo; il se-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

gno è concreto perché è sempre l’espressione di una forza


che ha la stessa necessità della vita. Nel segno/gesto si espri-
me qualcosa di integralmente vissuto che però ogni volta
(mai due volte allo stesso modo) organizza in modo discipli-
nato e rigoroso19 la ristrutturazione dell’esperienza che si
trasforma in rappresentazione della vita, in messa in scena
dei suoi contenuti essenziali. Il segno concreto rende dispo-
nibile un’azione reale, che è allo stesso tempo più che reale,

18
Cfr. U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 124.
19
In una modalità “ritmica”, come vuole la definizione stessa di
partitura: «Negli spettacoli del teatro Balinese, lo spirito ha la sensa-
zione che l’idea abbia in un primo tempo cozzato contro i gesti, e abbia
poi preso piede in mezzo ad una intensa fermentazione di immagini
visive o sonore, pensate come allo stato puro. Per dirla più brevemen-
te e con maggior chiarezza, qualcosa di simile allo stato musicale deve
aver presieduto a questa regia, nella quale tutto ciò che è concezione
dello spirito è semplicemente un pretesto, una virtualità il cui doppio
ha prodotto un’intensa poesia scenica, un linguaggio spaziale» (A. Ar-
taud, Sul teatro Balinese, in Id., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Tori-
no 1968, p. 179).

37

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
poiché produce l’esperienza praticabile di un piano in cui il
soggetto può sperimentare un’eccedenza rispetto al senso
offerto dalla mera cosalità: un piano che rende conto del
doppio della vita proprio in quella dimensione “più che re-
ale”, potenzialmente implicata nella pura azione della fisici-
tà, della materialità del gesto.
In questa prospettiva va inteso il riferimento al potere dei
geroglifici, non tanto quindi come esempio della forza dei
simboli, quanto del potere eccedente dei segni che diventano
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

materia viva e magica grazie al teatro. I segni concreti, che


stanno al centro dell’azione del teatro, agiscono precisamente
nello spazio denso teso fra significante e significato, nell’azio-
ne che produce questo doppio, questa divaricazione. Nello
stesso spazio in cui Artaud installa l’azione del corpo che ope-
ra la comunicazione crudele, come scriverà più tardi pensan-
do al corpo senz’organi, «l’idea nozione corporea deve andar-
sene per essere sostituita da quella di movimento infigurato
del corpo [mouvement infiguré du corp]»20. Questa qualità del
movimento, quella dei geroglifici del teatro balinese, che ave-
vano confermato le intuizioni di Artaud sulla necessità di un
teatro rigoroso e perciò crudele, mette in figura l’infinito ma-
teriale. Così scriveva lo stesso Artaud, sotto l’effetto della vi-
sione come spettatore di quel prodigioso teatro orientale:
Prescindendo dal prodigioso rigore dello spettacolo, ciò che
mi sembra per noi più sorprendente e più stupefacente è l’a-

20
A. Artaud, in Œuvres Complètes, vol. XXIII, Gallimard, Paris,
1965, p. 349.

38

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
spetto rivelatore della materia, che pare improvvisamente di-
sperdersi in segni per insegnarci l’identità metafisica fra con-
creto e astratto, e insegnarcela in gesti fatti per durare21.

Per Artaud il gusto per la crudeltà che il teatro deve risve-


gliare è direttamente legato al risveglio del «mondo interio-
re» – insieme a quello “oggettuale”. L’uomo interiore non è
quello definito dal sapere psicologico, ma «l’uomo metafisi-
camente considerato». Il teatro è crudele se riesce a ristabi-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

lire il contatto fra l’uomo e i princìpi essenziali, una relazio-


ne che non narra però di conciliazione, di riconoscimento
reciproco, attraverso i grandi miti o l’opera dell’immagina-
zione collettiva, intesa come fonte antropologica di fissazio-
ne del senso dell’esperienza primitiva. Questo contatto non
scioglie ma crea.
In questa prospettiva i sogni, scrive Artaud, diventano
parte della «tecnica» del teatro della crudeltà solo se non
sono ridotti a una «funzione sostitutiva», di spiegazione del
segno verso la quiete del senso. La violenza, pertanto, nel
teatro della crudeltà ha un significato tecnico e mira a nega-
re la natura vicaria dei «sogni reali» che produce il teatro
tradizionale. Esso vuole creare una nuova «concretezza»,
una realtà che nasce dai nervi scoperti nell’uomo dalla mes-
sa in scena della metafisica: il teatro deve manifestare, nel
suo linguaggio,
l’idea di un perpetuo conflitto e di un continuo spasimo in
cui la vita viene troncata ogni minuto, in cui ogni elemento

21
A. Artaud, Sul teatro Balinese, cit., p. 176.

39

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
della creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione
di esseri finiti22.

Questa necessità di un movimento “troncato”, di una in-


terruzione che mostra in che modo la dialettica dei contra-
ri sia la via di accesso privilegiata alla finzione, all’esperien-
za teatrale che crea, è la stessa messa in luce da Eugenio
Barba alla fine de La corsa dei contrari. Nel luogo in cui si
svela che
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

dopo aver parlato della danza delle opposizioni su cui si fon-


da la vita dell’attore e dopo essersi occupati dei contrasti che
egli volontariamente amplifica, dell’equilibrio che egli volon-
tariamente rende precario e mette in gioco, l’immagine dello
Shakti [l’energia creatrice] può divenire un simbolo di tutto
ciò di cui qui non si parla, della domanda fondamentale: co-
me si diventa un buon attore?

L’ultima parte del testo sviluppa, in modo originale, una


delle eredità più poderose della poetica e della pratica del
teatro che da Artaud passa a Grotowski fino al lavoro di
Barba. La corsa dei contrari che Barba ci invita a intercetta-
re e seguire, per quanto ci sia possibile, proviene anche da
quella passione per la dottrina del Sunyata che influenzò in
modo decisivo il modo in cui Grotowski trasformò il suo
metodo, la sua visione del mondo e il suo teatro.
Il Sunyata è la congiunzione del sì e del no, dell’esistere e
del non esistere – spiega Barba in una pagina del suo La

22
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., p. 207.

40

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
terra di cenere e diamanti 23 –, è il momento in cui riconosci-
mento e rigetto, asserzione e rifiuto si fondono. Nella tradi-
zione buddista il Sunyata è la negazione assoluta di questo
mondo mediante una tecnica di Saggezza basata non sul
pensiero razionale, ma sull’esperienza.
È una pratica che sta esattamente tra l’affermare e il rifiutare,
tra l’agire e la rinuncia all’azione. Finché si vuole conseguire
l’Illuminazione non la si raggiunge perché, finché si desidera
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

qualcosa, esiste dualità: un Sé che tende al fine desiderato e


un Non-Sé verso cui si tende. Il vero conseguimento si ottie-
ne solo quando non si vuole più conseguire qualche cosa. In
Per un teatro povero Grotowski applicò questa visione all’at-
tore: «l’atteggiamento mentale necessario è una disponibilità
passiva ad attuare una partitura attiva, non un atteggiamento
per cui una persona vuole fare una determinata cosa, ma per
cui fa a meno di non farla»24.

Questa
de-presa della disponibilità è una presa, una presa addirittura più
abile, poiché fluida, non rigida, non trattenuta: la nozione è etica
e, allo stesso tempo, strategica. Presa tanto più efficace per il
fatto che non si localizza più, non si specifica più, non si impone
più; tanto più adeguata perché non mirando più a nulla, non
resta mai delusa né mancante; non è né sviata né frammentata25.

23
E. Barba, La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in
Polonia, Ubulibri, Milano 2004.
24
Ivi, p. 48.
25
F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cine-
se in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 28-29.

41

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Solo in questo modo, accedendo a questa disponibilità,
l’energia può animare l’atto teatrale, può rendere fertile il
risuonare del gesto dell’attore oltre il tempo e oltre lo spazio,
proprio perché vive nello spazio e nel tempo del teatro: ecco
perché la finzione è il modo proprio in cui l’attore può mo-
dellare la sua energia.
Modellare l’energia significa creare e dare forma: stare
nell’apertura di un processo che dà forma non perché dipen-
de da un atto di volontà, ma perché rischia l’abbandono, si
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

addentra nello spazio-tempo dell’espressione. «L’espressio-


ne è il momento in cui ti apri la strada attraverso l’ignoto e
conosci. [...] L’espressione è il premio, il dono della natura
per la fatica del conoscere»26.
L’attore incontra questa avventura, questo rischio
dell’abbandono, questo svelarsi che si presenta, a noi stes-
si e agli altri, quando prendiamo la via del disarmo: lì pos-
siamo forse accedere alla “spontaneità” della quale scrive
Eugenio Barba in questo libro, all’organicità dell’esperien-
za teatrale. Un processo che, se non tradito, può realizzare
atti d’amore.
La passione amorosa, nel nostro tempo, è vista sempre a una
sola dimensione, erotica. Per questo risulta pressoché impos-
sibile comprendere in tutta la sua densità il termine “Mae-
stro”. E risulta difficile andare aldilà dell’ovvio, di concetti
come influenza, metodi, fedeltà o infedeltà. Come se il Mae-
stro non fosse colui che si rivela per sparire. Come se la sua
azione consistesse tutta nell’insegnare e nel sedurre. E non

26
J. Grotowski, Holiday e Teatro delle Fonti, cit., p. 53.

42

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
fosse invece faticosa premessa alla scoperta della propria so-
litudine, creativa e senza lutto27.

Nella corsa non è possibile a priori sapere cosa e come


accadrà. Così come la passione amorosa, anche quella del
Maestro, non è possibile senza dispendio, senza dono.
C’è nella corsa un sapere che non si può dire a parole e che
viene dai nostri atti concreti, dal modo in cui ci abbandonia-
mo al ritmo dei nostri passi, dei nostri errori, delle nostre
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

incerte scoperte. Il primo passo però, se muove dal desiderio


di non nascondersi, di svelarsi, perché più urgente di ogni
altra cosa è la ricerca di ciò che è essenziale nella propria
vita, spingerà la corsa ad «attraversare le frontiere tra te e
me». Il teatro è questa corsa. Una via in cui grazie alla sco-
perta della propria solitudine creativa si apre l’orizzonte
possibile della vera vita. Quella che può trasformarci e tra-
sformare la realtà.

27
E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 12.

43

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

la corsa dei contrari


antropologia teatrale

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
teatro-cultura
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

A volte domandano: qual è la tua utilità, l’utilità del tuo


teatro?
Rispondere significherebbe accettare la ragione per cui
solo chi produce ha diritto di esistere, e chi non produce
non ha più funzione, va isolato, eliminato perché social-
mente defunto, alla lettera: morto.
Chi fa questa domanda – «Qual è la vostra utilità» – de-
ve stare attento a se stesso, al suo atteggiamento che lo
porta a negare il valore degli alberi che non danno frutti.
L’albero che non dà frutto – proverbialmente inutile – di-
venta essenziale nelle città senza ossigeno.
La produzione non produce soltanto merci, ma anche
relazioni tra gli uomini. Questo vale anche per il teatro:
non produce soltanto spettacoli, prodotti culturali.
Chi giudica dal punto di vista estetico è alla “merce”
teatrale che guarda.
Per comprendere il valore sociale del teatro non biso-
gna guardare soltanto alle merci, agli spettacoli prodotti,

47

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ma anche alle relazioni che gli uomini stabiliscono produ-
cendo spettacoli.

Paura del ghetto


Il primo incontro di un Terzo teatro avvenne a Belgrado
nel 1976.
Una modesta sovvenzione destinata ad organizzare
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

conferenze, tavole rotonde, dibattiti con critici, studiosi e


registi mi permise di riunire alcuni gruppi teatrali che ave-
vo incontrato in diversi paesi d’Europa e dell’America
Latina. Erano questi uomini di teatro – quasi sempre iso-
lati ed anonimi – che dovevano avere una possibilità di
riunirsi, di scambiarsi esperienze, lavorare insieme.
Ciò che, disseminato in diversi luoghi lontani, sembrava
un fenomeno trascurabile mostrò un suo profilo. Ma un
profilo inatteso, che non sembrava adeguarsi alla nostra
Cultura teatrale: né al teatro cosiddetto tradizionale, né a
quello d’avanguardia. I tratti comuni risultavano attraver-
so una serie di negazioni. Perciò: Terzo teatro.
La difficoltà di definire a livello concettuale non era
importante. Più importante era riconoscere tutta una se-
rie di caratteristiche che, al di là delle differenze, riuniva-
no gruppi che vivevano in una situazione di discrimina-
zione. Si sono espressi, naturalmente, dubbi e riserve sul
termine Terzo teatro. Alcuni hanno sentito troppa ambi-
guità nella definizione in negativo che creava una falsa
unità tra fenomeni differenti e contraddittori.

48

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Altri lo hanno rifiutato come pericoloso e mistificante.
Hanno visto dietro di esso la proposta di un teatro con-
tento dei suoi limiti, volutamente seduto al suo umile po-
sto in fondo alla fila. Un teatro che chiede per sé solo le
briciole del prestigio della Cultura e del pubblico denaro
che, in certi paesi, viene destinato alla conservazione e
allo sviluppo dell’Arte teatrale.
Mi hanno detto: «Se Terzo teatro indica il ghetto in cui
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

lasciarsi rinchiudere per garantirsi una precaria sopravvi-


venza, allora non ci riconosciamo come parte dell’arcipe-
lago del Terzo teatro».

Terzo teatro è una definizione che si limita a riconoscere


solo la realtà in cui vivono moltissimi gruppi di teatro. Ma
è anche il punto di arrivo di una serie di domande che
ponevo a me stesso per giustificare alcune mie scelte, e
per rispondere alle domande che altri mi ponevano sul
mio lavoro teatrale, sulla direzione che esso stava pren-
dendo, sul senso che stava assumendo. Era come se no-
tassi su altri, attorno a me, i sintomi di una malattia che
riconoscevo perché anche mia.
Continuare a parlare di Terzo teatro, cercare di rispon-
dere alle domande e ai dubbi che intorno a questa espres-
sione sono sorti, vuol dire lasciarsi trascinare verso la mu-
ta domanda sul senso del teatro per le nostre vite.
L’unico modo di prendere posizione di fronte ai dubbi
e alle domande sarebbe di rispondere in prima persona.
Questo si nasconde dietro la mia parola “teatro”; gli in-

49

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
contri, le esperienze, i momenti di illuminazione, le ferite
che costituiscono le insicure radici personali. D’abitudine
esse non debbono essere portate allo scoperto. Devono
restare teatro.
Nei mesi seguenti all’Atelier di Belgrado del ’76, il ter-
mine Terzo teatro si è velocemente diffuso. Non solo po-
lemiche e discussioni, ma anche la moda. Nella provincia
del teatro la moda spesso coincide con l’attenzione al pro-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

blema. Sia pure attraverso un itinerario del tutto partico-


lare, era stato individuato un problema urgente per molti,
un nodo di interrogativi ancora nebulosi.
Ma questo nodo di interrogativi rischia di essere bana-
lizzato in un genere, in un’immagine ottimistica, dove la
luce prevale sull’ombra. Come se il Terzo teatro costituis-
se di per sé il seme di un rinnovamento, non una zona
ambigua dove sintomi di mutismo e di impotenza voglio-
no ergersi a parlare, come per dimostrare di essere in gra-
do di svilupparsi in radici, in germogli.
Non c’è da illudersi: il Terzo teatro indica innanzi tutto
una zona distruttiva. È come se la faccia nera del teatro si
traducesse in situazioni che ci strappano di mano la pos-
sibilità di usare giudizi conosciuti.
Esiste, allora, una presenza sociale di questa faccia nera
del teatro, fatta di negazioni, che nonostante le mode dei
mercanti e l’ottimismo degli ideologi conserva la sua vo-
cazione al rifiuto?

«Se Terzo teatro indica il ghetto in cui lasciarsi rinchiude-

50

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
re per garantirsi una precaria esistenza, allora non ci rico-
nosciamo nell’arcipelago del Terzo teatro.» Rifiutare il
ghetto?
Le juderias spagnole, le judengasse tedesche, i ghetti ita-
liani sorsero dalla discriminazione, dalla violenza dei
goym, della maggioranza verso la minoranza ebrea. Sono
il segno fisico di un’intolleranza che ancora non giungeva
fino all’annientamento sistematico, alla soluzione finale.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Erano i luoghi dove si assembravano gli ebrei, a volte su


ordine perentorio, a volte per usufruire più facilmente
della protezione di un vescovo o di un principe benevol-
mente disposto, a volte per spontaneo bisogno degli ebrei
stessi di vivere vicini.
Ecco le origini del ghetto. Un luogo che implicava la
limitazione di alcune libertà elementari, ma che permet-
teva di conservarne altre: la libertà di poter seguire le leg-
gi del proprio dio, di poter celebrare il proprio culto, di
poter parlare la propria lingua, di poter vivere secondo le
proprie norme. Il ghetto era il luogo dove si poteva salva-
re la propria identità, dove si poteva difendere e traman-
dare i valori essenziali di una cultura a cui si sentiva di
appartenere.
Rifiutare il ghetto? Ma a quali condizioni?
Si può uscire dal ghetto. Basta convertirsi, coprire le
proprie radici, condannarsi all’isolamento invece che alla
separazione. Basta accettare una situazione di spaccatura
cronica, anche se consolata dalla consapevolezza di una
massa ecumenica che a parole divide la tua nuova fede.

51

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Accettare le norme e i modi di vivere che non senti come
tuoi: si diventa, allora, marrani. Si è accettati. Esterior-
mente nulla distingue il marrano dalle persone del nuovo
ambiente, anche se dentro di lui può nascondere altre
aspirazioni, altre nostalgie, altre “fedi”.
Forse il rifiuto a lasciarsi chiudere, di vivere nel ghetto
riflette il rifiuto di una scelta di vita che è oggetto di scan-
dalo per i goym del nostro tempo.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Si adduce come argomento che non ci si vuol lasciar


rinchiudere in un ghetto, perché non si vuole la chiusura,
l’isolamento, il soffocamento in una realtà separata da ciò
che di vivo e importante si muove nella nostra società. E
si dimentica consapevolmente o per ignoranza che mai il
ghetto fu separato da ciò che di vivo e importante si muo-
veva nella società, nella città che lo circondava. L’intera
economia cittadina passava per le finanze del ghetto. Nel
ghetto abitavano i filosofi che vivevano in continuo con-
fronto con i filosofi e i teologi cristiani e islamici. Nel
ghetto lavoravano i medici ricercati da papi e imperatori,
e le cui scuole erano segretamente frequentate da studen-
ti cristiani. Nel ghetto si traducevano Aristotele e Ippo-
crate, venivano alla luce le scienze della linguistica e
dell’astronomia, si disegnavano le carte marine, si costru-
ivano gli strumenti nautici usati da Bartolomeo Dias,
Cristoforo Colombo, Vasco de Gama. Nei ghetti, nelle
juderias, nelle judengasse visse Maimonide, gioielliere e
filosofo, il più grande medico del suo tempo. Si faceva
pagare a peso d’oro dai califfi e dai ministri, e curava gra-

52

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tis i pazienti poveri, senza chieder loro a quale religione
appartenessero.
Il ghetto era il quartiere dove qualsiasi ebreo, da qual-
siasi regione venisse, dall’Oriente, dalle terre slave, dalle
isole o dall’Africa, sapeva di essere accolto. La separazio-
ne del ghetto era separazione dai suoi vicini. Non era iso-
lamento dalla società, dalla storia, dalle più profonde
trasformazioni del proprio tempo.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Oggi, la parola ghetto risveglia solo l’associazione con la


parola pogrom. Il ghetto è anche il luogo su cui affilare le
armi della condanna sommaria e dell’offesa, della rapina
e della distruzione di un inerme supposto nemico. E die-
tro la buona intenzione di abolire ogni forma di ghetto
sorride sornione il bisogno di abolire ogni diversità, ogni
minoranza.

Esistono o no, oggi, i ghetti di cui in via figurata parlo? E


se esistono, se continuano ad esistere, cosa fare? Essere
nel ghetto, con chi ci si sente solidali? O fuori?

Immagini antistoriche
Ci sono due domande che sembrano eguali, ma non lo
sono. La prima: qual è il valore sociale di un teatro? La
seconda: quali relazioni un teatro stabilisce con il pubbli-
co? Come influisce su di esso? Come sa esserne influen-
zato?

53

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Per valutare il teatro, come fenomeno sociale e cultura-
le, ci si orienta automaticamente sul pubblico. Ma le rela-
zioni fra gli attori e il pubblico diventano importanti solo
in un secondo momento. Innanzi tutto contano le relazio-
ni che si instaurano fra coloro che fanno teatro.
La prima fase sociale del teatro avviene al suo interno:
è il modo come differenti individui regolano le loro rela-
zioni di lavoro e socializzano i propri bisogni. Il carattere
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

di questa prima socializzazione decide il posto e l’influen-


za del gruppo teatrale nella società.
Il pubblico è spesso un raduno di fantasmi, senza volto,
la Grande Bestia con la faccia nera, come lo chiamavano
gli attori d’altri tempi. Gli spettatori assistono, poi scom-
paiono. Non necessariamente lo spettacolo lascia tracce
su chi lo vede, o chi lo vede lascia tracce su chi lo fa. A
registrare le conseguenze dell’incontro fra un gruppo di
attori e un certo numero di spettatori sono in genere gli
scritti degli spettatori di professione: i critici.
Le parole scritte sono l’unica traccia durevole, e fanno
nascere il preconcetto che il valore sociale del teatro si
misuri da ciò che esse misurano: le reazioni e i giudizi del
pubblico allo spettacolo. Ciò che dura sembra distinguere
ciò che è più importante, rovesciando il luogo comune
secondo cui ciò che è importante dura.
Ma la testimonianza scritta spesso non costituisce una
testimonianza della cosa guardata, una sua comprensione.
Testimonia solo un modo di guardare e le sue convenzio-

54

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ni. Essa, però, dura, e per questo stesso fatto si prolunga
imponendo la sua visione.
Gli attori, ovviamente, non scrivono “recensioni” dei
loro pubblici, né – in genere – lasciano testimonianze
scritte sulle relazioni che intercorrono all’interno del
gruppo, sulla dimensione sociale del loro gruppo.

Uno dei fenomeni più importanti della storia del teatro


Documento acquistato da () il 2023/11/13.

moderno, la Commedia dell’Arte, è sorto dall’esigenza di


alcuni uomini di mettersi insieme. Erano persone che ave-
vano sempre fatto mestieri giudicati infamanti o “bassi”:
buffoni, ciarlatani, saltimbanchi, acrobati e prestigiatori
di piazza. Oppure uomini e donne dalla vita sregolata, che
cioè infrangevano apertamente le regole dominanti.
Questi individui – i primi attori di professione del tem-
po moderno – hanno trasformato la loro devianza, la loro
“asocialità” riunendosi in gruppo. Hanno socializzato la
loro differenza. Hanno “inventato” una nuova forma di
teatro per difendersi. O meglio: il loro modo di difender-
si, di conquistare un più dignitoso livello di vita, di impor-
re all’esterno il diritto di essere rispettati moralmente e
culturalmente ha dato come risultato una forma di teatro
che gli spettatori del tempo, colti ed incolti, e poi gli sto-
rici hanno considerato nuova e originale dal punto di vista
artistico.
Ma non era una nuova arte. Era una nuova micro-cul-
tura che nasceva dal lavoro collettivo di uomini che fino
ad allora erano vissuti dandosi isolatamente in spettacolo.

55

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Ma gli storici del teatro – a cominciare dal Settecento,
mentre la Commedia dell’Arte era ancora viva – travisa-
rono questo processo storico dietro l’immagine di un te-
atro che aveva fatto una scelta estetica o di “linguaggio”:
quella dell’improvvisazione o quella del gesto al posto
della parola. Dal punto di vista degli spettatori colti, che
scrivevano, la funzione della Commedia dell’Arte fu di
rappresentare, nella cultura del tempo, i diritti della fan-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tasia, il piacere di un gioco teatrale svincolato dai legami


della verosimiglianza.
Dal punto di vista degli attori, la sua funzione fu di
forzare il recinto dell’emarginazione, di coprire, al di là
della discriminazione sociale, una forma di socialità sen-
za per questo dover accettare le norme della morale ri-
conosciuta.

Un precetto del vecchio teatro imponeva all’attore di non


voltare mai le spalle al pubblico. Per gli spettatori, l’atto-
re non doveva possedere una schiena. Anche nei libri, per
coloro che scrivono, leggono e discutono sulla storia del
teatro, il teatro non ha una spina dorsale. È qualcosa di
piatto, a due dimensioni.
Sembra normale, ma in realtà è strano continuare a pen-
sare che il teatro agisca solo attraverso la sua superficie,
che gli spettacoli costituiscano la sua storia reale. È strano
perché il pensiero moderno ci ha costretti a considerare
la realtà sociale, economica, psicologica e fisica come
mossa da profonde leggi nascoste dietro la maschera di

56

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
cause e motivazioni tanto più ingannatrici quanto più
sembrano chiare e inoppugnabili al senso comune.
La “scienza” del teatro non ha ancora avuto neppure la
sua rivoluzione copernicana. Sembra che gli uomini ruo-
tino intorno alle terre immobili delle estetiche e delle ide-
ologie teatrali, e non queste intorno agli uomini dalla cui
storia concreta sono state generate.
Intorno a chi orbiti? Intorno al teatro psicologico o alla
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

biomeccanica? Intorno al Teatro della Crudeltà o al Tea-


tro Epico?
Brecht, Stanislavskij, Mejerchol’d, Artaud: in base a
questi uomini dissolti in categorie si giudica l’operato di
chi viene dopo di loro.
Questo processo nasconde proprio quel che loro furo-
no: uomini che vennero isolati o dovettero isolarsi per
realizzare il teatro corrispondente ai propri bisogni, e che
era diverso, irriconoscibile per tutti coloro che ragionava-
no in base alle teorie e alle ideologie dell’epoca.
Brecht, nella Germania degli anni Trenta, era accusato
d’essere uno scrittore decadente e borghese. Il suo mar-
xismo era visto da molti militanti marxisti come un’infa-
tuazione filosofica e intellettuale, che non comportava,
sul piano pratico, una concreta partecipazione ai movi-
menti rivoluzionari.
Che Brecht rivoluzionasse il teatro lo si cominciò a pre-
dicare in coro dopo la sua morte. Ma la storia della con-
traddizione che Brecht riuscì ad essere, fino al suo ultimo
giorno di vita, malgrado gli onori che rischiavano di im-

57

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
bavagliarlo quasi quanto l’esilio, nel paese in cui viveva, è
una storia quasi tutta da fare.
Così come è una storia da fare quella del significato re-
ale del Berliner Ensemble a Berlino. Ma i teorici del
brechtismo, quelli che l’hanno trasformato in una teolo-
gia negli anni Cinquanta e Sessanta in Francia e in Italia,
negli Usa e in Scandinavia, oggi vanno a Berlino, nel tea-
tro che Brecht ha creato, vedono i suoi spettacoli e quelli
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

dei suoi collaboratori, e di fronte al rigore, alla fredda


ferocia con cui l’impossibilità di parlare e la disobbedien-
za furba – intellettuale e animalesca insieme – si stampano
nei gesti di Galileo, di fronte a questo i teologi del brech-
tismo storcono la bocca: tutto questo è già visto, dicono.
Ormai il Berliner è puro museo, pura tecnica asettica.
Ma cosa cercavano, in Brecht? La novità dell’artista? O
la capacità dell’uomo di sopravvivere in tempeste storiche
in cui molti tradivano e molti erano costretti a perire? La
capacità di sopravvivere salvaguardando la propria iden-
tità, riuscendo malgrado tutto a parlare quando le bocche
si chiudevano o cantavano in coro, attraversando diversi
paesi senza essere l’uomo di ogni paese, conservando la
forza di reagire in maniera razionalmente adeguata alle
situazioni? Se era questo, e non la futile “novità dell’arti-
sta” che amavano in Brecht, perché non capiscono che
tutto quello che i suoi collaboratori, a Berlino Orientale,
nel 1978, ci mostrano attraverso questo Galileo, non è
“già visto”, ma qualcosa che bisogna tornare a scrutare?

58

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Stanislavskij da una parte è stato elevato a modello per
l’attore del realismo socialista, dall’altra viene ridotto
all’immagine dell’attore dell’individualismo borghese.
Con la pretesa di stare attenti ai valori sociali, si creano,
invece, enti soprasensibili che vengono fatti entrare in
conflitto.
I veri conflitti storici si perdono e si nascondono dietro
puri conflitti di idee.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

La biomeccanica mejercholdiana è una forma di oppo-


sizione alla “reviviscenza” stanislavskijana: così racconta-
no i manuali. Mejerchol’d non si opponeva a Stanislavskij.
Si opponeva ai suoi seguaci che lo elevavano a sistema.
Nella stessa maniera si opponeva a quel che lui stesso
chiamava il “mejercholdismo”.
Non i numerosi “seguaci”, ma Mejerchol’d fu vero al-
lievo di Stanislavskij: essere formato da lui per poi svilup-
pare questa esperienza secondo i propri bisogni. E in-
fluenzare, a sua volta, il maestro, ispirandogli il “metodo
di azioni fisiche”.
Quando Mejerchol’d cadde in disgrazia e gli tolsero il
lavoro – il primo passo verso il suo destino di artista for-
malista, la fucilazione – l’unico che gli offrì un teatro fu
Stanislavskij, un moralista mai contento di sé, che, in for-
ma teatrale, condusse tutta la vita una ricerca personale,
non privata.
La ricerca personale, non privata, lascia tracce. Copeau
sceglieva i suoi collaboratori in base alle loro doti umane.
Poco gli importava che fossero mediocri o pessimi attori.

59

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Di qui iniziò l’avventura del Vieux Colombier e del grup-
po dei Copiaus. Fra l’altro divennero anche ottimi attori,
e quando quell’avventura si esaurì – quasi come un suo
risultato secondario, quasi appiattendo i bisogni che li
avevano spinti a riunirsi in gruppo – mutarono il volto del
teatro francese.

I greci usavano una stessa parola, sèma, per indicare la


Documento acquistato da () il 2023/11/13.

“tomba” ed il “segno”. Anche nel linguaggio d’altri po-


poli si trova una simile identificazione.
Le dottrine, i metodi, le poetiche sono le tombe e i segni
degli uomini che, nel passato, si sono avventurati su stra-
de nuove.
Possiamo guardarle come monumenti che si fanno am-
mirare, commentare e imitare. Oppure possiamo guar-
darle per scoprire, al di là di quel segno, il senso di una
vita che ha scoperto la sua strada e l’ha percorsa.
Sono i becchini, non gli allievi, sono gli sfruttatori, non
gli ammiratori, che trasformano quelle strade, quei sentie-
ri personali, in comode autostrade – monumenti al pro-
gresso – su cui tutti possono o debbono passare. Per non
lasciarsi pietrificare ancora in vita in un monumento tea-
trale, Stanislavskij, vecchio, si ritira in casa sua, raduna un
gruppo di giovani con i quali inizia una ricerca nuova.
Sgretola il suo “sistema” dando vita al metodo di azioni
fisiche.
Per far questo, per sfuggire al controllo politico e cultu-

60

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
rale, si finge malato e disinteressato al lavoro: non si può
essere “morali” in una società immorale.
Quest’ultima è una frase di Brecht.
Cosa significa essere stanislavskijani o brechtiani? Esse-
re custodi e sacerdoti delle loro tombe o viaggiatori ani-
mati dal loro segno?
Significa seguire Brecht quando parla della sua tecnica
di straniamento, o orientarsi su di lui quando parla della
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

necessità di conservare la propria identità, di mantenersi


“straniero” nelle società attraversate, della difficile arte di
scrivere la verità senza lasciarsi spezzare la schiena?

Le isole galleggianti
I critici, gli ideologi e gli uomini di teatro hanno tentato
per anni di ignorare questa constatazione: che il teatro ha
perso il suo carattere di uso profondamente funzionale ad
un determinato ceto sociale, ad una determinata colletti-
vità.
In diversi paesi del mondo, specialmente nelle nuove
generazioni, un senso imprevisto viene dato all’incontro
con il teatro: non il bisogno di ricevere teatro, ma il biso-
gno di fare teatro, di creare nuove relazioni, come attore
e come spettatore.
Nasce un teatro come espressione di piccoli gruppi di
persone che forse presentano necessità e contraddizioni
che riguardano un numero limitato di individui. Essi, pe-
rò, esistono, si manifestano e agiscono fra di noi.

61

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Sono gruppi che non si sognano come veicolo di grandi
parole, di grandi messaggi, di grandi dibattiti, ma che cer-
cano la strada perché il singolo entri in contatto con il
singolo, il diverso con il diverso.
Non contenuti nuovi, ma rapporti nuovi, spesso difficil-
mente decifrabili, vengono a prendere il posto lasciato
vuoto dagli abituali contenuti del teatro. Non è un “altro
teatro” che nasce. Altre situazioni cominciano ad essere
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

chiamate teatro.

Per ragioni particolari, l’Odin si è trovato a vivere alcune


di queste situazioni anni fa.
Quando un gruppo arriva a far discutere di sé, viene
attaccato, viene accusato d’essere inutile o controprodu-
cente, spesso ha già vinto per metà la sua battaglia.
La discriminazione più forte non è quella che ti lancia
contro le accuse formulate sulla base dei precetti. Molti
gruppi, molte persone vengono ridotti al silenzio ancora
prima che qualcuno cominci a discutere se abbiano o no
il diritto di parlare. L’esperienza più dura non si svolge
sotto gli occhi di nessuno. Se ne può parlare solo in ter-
mini personali.
La lotta per sopravvivere determina le scelte successive.
Per gli spettatori – che giudicano a cose fatte – i risultati
di questa lotta appaiono come una nuova “corrente”
del teatro. Tutti i tratti fondamentali dell’Odin – dalla
tecnica dell’attore alla organizzazione interna, dalla sua
etica al modo di risolvere i problemi economici, fino ai

62

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
suoi spettacoli per pochi spettatori e non basati sulla
comprensibilità di un testo fatto di parole – sono la rispo-
sta ad una situazione che sembrava condannarci all’impo-
tenza.
Siamo stati costretti ad essere autodidatti. Eravamo sta-
ti rifiutati dalle scuole teatrali e dai teatri professionali
dove alcuni dei miei compagni volevano, all’inizio, essere
normali attori interpreti di testi. E dove io desideravo,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

all’inizio, mettere normalmente in scena testi con attori


professionisti.
La situazione ci ha costretto a cominciare da soli e sen-
za nessuna esperienza. Alla discriminazione del mondo
teatrale si aggiunse presto anche quella geografica e della
lingua: per sopravvivere avevamo dovuto emigrare dalla
capitale della Norvegia in una cittadina della Danimarca,
lontana dalle grandi città, dai critici e dal pubblico degli
affezionati al teatro.
Dovevamo riuscire a non vivere tutto questo come una
menomazione, trovare una strada per non sottometterci
ai due handicap che ci vietavano irrimediabilmente di fa-
re un teatro che, in quegli anni, fosse riconoscibile e ac-
cettato: l’handicap della lingua, che ci impediva di espri-
merci teatralmente tramite i testi, e l’handicap della nostra
mancanza di educazione teatrale.
Ci siamo dovuti inventare sia una “funzione sociale”
che sembravamo non avere, sia un nostro sapere teatrale.
Io stesso non ho una formazione professionale: i miei tre
anni con Grotowski li ho passati seduto, osservando il

63

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
suo lavoro e scrivendo, interessato solo ad una interpre-
tazione concettuale, senza nessun momento di verifica
pratica.
Per molto tempo l’Odin non è stato riconosciuto come
un teatro, ma come un gruppo che riusciva a sopravvive-
re attraverso altre attività culturali, la pubblicazione di
libri e riviste, l’organizzazione di tournées di spettacoli
stranieri.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

In base a quel che, di norma, ci si aspetta da un teatro,


ci siamo sentiti ripetere, un anno dopo l’altro, che erava-
mo inutili, gente ossessionata da bisogni privati, che vive-
vamo “fuori dalla storia”.

Le stesse accuse vengono oggi ripetute ad altri che, anche


giustificando la loro scelta con un impegno politico e so-
ciale, di fatto si staccano dalle grandi riunioni e dalle gran-
di assemblee, e si riuniscono in piccoli gruppi, fanno del
teatro.
I gruppi che chiamo del Terzo teatro non appartengono
ad una linea, ad un’unica tendenza teatrale. Però vivono
tutti in una situazione di discriminazione: personale o cul-
turale, professionale, economica o politica. Sono i padro-
ni della scrittura a decidere della validità di quel che fan-
no.
Sono quindi gruppi costretti a verificare quotidiana-
mente la necessità di una “antistorica” testardaggine: la
necessità di perseverare, anche nell’isolamento, alla ricer-
ca di una risposta ai propri bisogni individuali. Sono uo-

64

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
mini che, tramite il teatro, seguono il sogno di costruirsi
la propria vita.
Un teatro dei diversi, quindi, di sognatori?

Quale può essere l’immagine di un sognatore? Una per-


sona che si allontana dalla terra e va sull’acqua. Ma non
lo fa per scoprire o raggiungere altre regioni. Alcuni, che
sembrano isolarsi in mezzo all’acqua, vogliono restare
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

uniti fra di loro. E provano a costruire sul lago dei fram-


menti di terra. Sono le isole galleggianti. Le isole galleg-
gianti non sono un progetto per rendere utili e fertili le
distese d’acqua del Texcoco e del Titicaca. Sono un mez-
zo per sopravvivere.
Il possesso delle terre galleggianti non si può tramanda-
re ai propri figli: appena smetti di costruirtelo, il tuo cam-
po non c’è più. È un piccolo orto malfermo che dà frutti,
ma la cui dimensione e la cui esistenza stessa è condizio-
nata dalle correnti. Esso nasce dall’esigenza di mettere
radici. Ma in una realtà sradicata.

Quando i Toltechi videro arrivare gli Aztechi, poco nu-


merosi e affamati, li chiamarono “figli di nessuno”, “co-
loro di cui nessuno conosce la faccia”. I Toltechi conces-
sero ai nuovi venuti, perché ci vivessero, alcuni isolotti sul
lago Texcoco: lì i serpenti velenosi, numerosissimi, li
avrebbero sterminati.
Furono gli Aztechi, invece, a mangiarsi i serpenti, come

65

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
aveva fatto l’aquila sul cactus, la loro visione e il loro pre-
sagio.
Gli Aztechi costruirono anche delle zattere di giunchi
sulle quali stesero della terra in cui deposero dei semi. Da
quegli orti galleggianti sorse lentamente un villaggio, il cui
nome avrà un lungo destino: México-Tenochtitlan. Méxi-
co significa: “la città che è al centro del lago della luna”.
Ma questa è una storia ottimistica.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Molto più a sud, sulle distese andine dell’Alto Perù,


un’altra tribù, gli Uro, costruisce isole galleggianti sul lago
Titicaca. I cronisti dell’epoca della Conquista avevano
parlato degli Uro come di uomini dalla vita poco diversa
da quella degli animali, vita indegna d’essere vissuta.
Alcuni antropologi, anni fa, dissero che gli Uro erano
scomparsi dalla faccia della terra. Ma gli Uro sopravvivo-
no ancora, coltivando i loro minuscoli orti dalla vita effi-
mera.

Non c’è nessun diritto ad essere diversi.


È moraleggiante e ingenuo appellarsi ad un tale diritto
che sta solo nelle costituzioni o nel mondo delle idee, e
che a volte non sta neppure lì.
Un diritto conquistato da chi? Imposto da chi? Con
quale forza? Se la forza controllata o violenta dell’autori-
tà o delle diverse maggioranze non può concedere a lungo
questo diritto, allora è suicida mostrarsi con tutte le no-
stre aspirazioni, con tutti i nostri bisogni. Rischiamo d’es-

66

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
sere definiti “peccatori”, “malati”, “socialmente disadat-
tati”, “asociali”. E d’essere trattati come tali.
Bisogna scavarsi una trincea.
Quando era il tempo di seminare, molti schernivano ciò
che l’Odin seminava, il modo come lo facevamo. Voleva-
no che seminassimo, coltivassimo altro.
I consigli erano espliciti: seguici dove ti indichiamo e
sarai salvo, nelle braccia dell’accettazione di noi tutti. Ci
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

siamo dovuti tappare le orecchie, quasi isolarci per trova-


re la rotta che era nostra, per evitare di essere divisi, o
trascinati altrove.
Molte stagioni sono passate. Ora che è il tempo del rac-
colto e che molti riconoscono che c’è veramente qualcosa
da raccogliere, ci guardiamo intorno. Ed è come se, dopo
il lungo inverno, la solitudine facesse ormai parte della no-
stra vita. Dalle lettere che ricevo, dalle visite, dagli incontri
che mi capita di avere, mi rendo conto che il senso dell’O-
din sta solo in parte nei suoi risultati teatrali. Sta nel suo
esistere, nel suo sopravvivere come segno tangibile che un
gruppo di persone escluse, di differenti paesi, di differenti
religioni, di differenti lingue, in realtà un gruppo di disa-
dattati, ha avuto il coraggio di ritirarsi dalla terraferma,
dove gli uomini sembrano lavorare utilmente la terra. Su
una zattera ha portato il proprio sacco di terra e lo ha lavo-
rato ostinatamente, senza seguire la cultura della terrafer-
ma, adattandosi alle correnti che lo spingevano lontano. È
questo il valore dell’Odin, di altri gruppi, di altre persone

67

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
che ormai hanno speso quasi un’intera vita a seminare
sull’acqua.
Ma se malgrado tutto uno riesce a sopravvivere, allora
paradossalmente la sua “asocialità” si trasforma in qual-
cosa di sociale. Il teatro diventa, così, il mezzo per non
restare soli, per gettare un ponte, per creare legami senza
rinunciare ai propri sogni.
Il teatro diventa anche l’astuzia, la trincea per protegge-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

re e nascondere quel che riteniamo essenziale.


Negli ultimi anni di lotta, negli anni di intense attività
svolte per salvaguardare l’essenziale, obbligati a spendere
energie e fantasia semplicemente per sopravvivere, il co-
raggio di continuare ci veniva anche dal sapere che un’al-
tra persona, un altro gruppo si trovava nelle nostre stesse
condizioni. Eppure continuava a non cedere e usava tutta
la sua forza, tutta la sua furbizia per proteggere una ricer-
ca che non era solo di teatro.

Se, guardandomi intorno, cerco di capire cosa è diventata


la ricerca teatrale negli anni Sessanta, mi appare chiaro
come essa si sia lentamente rivolta in una direzione che,
all’inizio, nessuno di noi prevedeva. Un profondo legame
con una storia precisa, i cui antenati potevano essere Sta-
nislavskij, Mejerchol’d o Brecht, faceva tradurre i nostri
bisogni in termini di teatro, di “riforma del linguaggio te-
atrale”, dei suoi mezzi espressivi. Col tempo e l’esperienza,
questo legame è andato al di là della professione, è diven-
tato atteggiamento etico, con un suo distinto modo di per-

68

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
cepire, di agire. Se questo atteggiamento per molti rappre-
senta un allargamento dei confini del teatro, spesso a noi
stessi sembra un rifiuto di tutto ciò che nella nostra cultu-
ra ha senso chiamare teatro.
Penso a Grotowski, alla gente del Living, a noi dell’O-
din. Più d’uno di noi, dopo aver per anni lavorato a ride-
finire il ruolo e la figura dell’attore, ha poi cercato di can-
cellare l’attore nel suo compagno di lavoro, di annullare
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

la rappresentazione.
E di conseguenza annullare lo spettatore.
È stato detto che “spettatore” è qualcosa meno di “uo-
mo”. Ma parlo di uomo. Del bisogno di trasformare il
teatro in una ben delimitata situazione che permetta di
andare al di là dei rapporti e delle percezioni che debbo-
no caratterizzare la vita di ogni giorno.
Per alcuni ciò significa orientarsi su un territorio peri-
coloso, sospetto, denunciabile come “romantico”, “misti-
co”, “irrazionale”.
Questa ricerca cosciente di colui che sceglie il teatro
non per esserne “spettatore”, ma come situazione per rag-
giungere un diverso stato di esperienza, questo è già su-
perare i limiti definiti da una convenzione vecchia di po-
chi secoli: il Teatro.
Cosa vediamo se guardiamo con stupore attraverso
questa parola usuale?

Quando Leeuwenhoek mise una goccia d’acqua sotto un


microscopio, osservò con stupore tutto un nugolo di es-

69

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
seri invisibili ad occhio nudo. Fino ad allora la “vita” era
stata qualcosa di visibile: il cavallo, il cigno, il delfino, il
verme. Questa nuova forma di vita sollevò molte doman-
de: quale era la funzione di questi piccoli esseri, i “micro-
bi”? Quale la loro relazione con il “Regno della Natura”?
Molti scienziati importanti del tempo – Buffon, per
esempio, che pure aveva fatto compiere un grande pro-
gresso alle scienze naturali, studiando la storia della na-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tura – chiamarono questa forma di vita “un’offesa alla


natura”.
Per anni sì parlò dei microbi nei salotti, nelle chiacchie-
re, come d’una curiosità, la cui esistenza era senza peso.
Ma poi si seppe qualcosa di più sui microbi, sul loro si-
gnificato nel processo della vita. E come siano più perico-
losi della tigre.

Pueblos, Cimarrones

Le tristi verità sono anche solidi alibi.


Una triste verità dice che in pochi non si può far nulla.
Sempre, alla fine, si verrà ridotti a strumenti di chi ha il
controllo delle grandi istituzioni, il potere di aprire e
chiudere le nostre stesse fonti di sussistenza. Che sarà fa-
tale integrarsi, cambiarsi, oppure essere ridotti all’inatti-
vità e all’inefficacia.
Quanto questo sia vero è facile sperimentarlo. È così
evidente che non serve parlarne.

70

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Quanto questo sia falso è qualcosa che bisogna – e che
si può – sperimentare.
La seconda verità è che anche in pochi si può riuscire a
condizionare la situazione che ci sovrasta e che sembra
condizionarci senza vie di uscita.
Non basta essere differenti, orientarsi su norme e valori
di vita più giusti, resistere accanto a se stessi, alle proprie
aspirazioni, anche se ingenue e utopistiche. Occorre at-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

traversare e superare la situazione che in genere marchia


un gruppo marginale: l’essere subcultura. Un teatro che
risponde alle “nuove culture” dei giovani, un “teatro gio-
vane”, non è un valore in se stesso. È il teatro di una
delle subculture che caratterizzano la nostra società.
Occorre trasformarsi da subcultura in cultura. Cultura
come abilità di adeguarsi e modificare l’ambiente, come
modo di organizzare e scambiare le numerose attività in-
dividuali e collettive, come capacità di trasmettere la
“saggezza” collettiva, frutto delle diverse esperienze, dei
diversi saperi tecnici.
Solo la capacità di riorganizzare al suo interno tutti gli
aspetti fondamentali che regolano la convivenza permette
a un gruppo di adattarsi all’esterno senza dipenderne to-
talmente.
È necessario orientarsi verso una sorta di completezza,
verso un microcosmo culturale. La completezza culturale
non è autismo, è il suo opposto: capacità di rispondere
continuamente, di reagire in maniera adeguata e appro-
priata ai mutamenti di situazione, senza che il gruppo si

71

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
degradi a materia morta, rigida fino a spezzarsi, o malle-
abile come cera che riceve l’impronta.
Il passaggio dalla subcultura alla cultura di gruppo è il
passaggio dallo stato di minore età allo stato di minoran-
za. Sono queste minoranze, che si aprono come tanti pic-
coli trabocchetti nel centro stesso della nostra società, a
costituire quel che è forse il più importante mutamento
culturale dei nostri anni, e non soltanto nel teatro. È illu-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sorio credere che siano solo grandi organismi a provocare


grandi mutamenti.

La discriminazione stessa obbliga i gruppi ad una sola


prospettiva, oltre quella di sparire o di tradire: trasfor-
marsi in pueblos, nei due sensi della parola: la tua gente e
il luogo fisico dove vivi. Ma la discriminazione, la costri-
zione ai margini non è in sé cultura. La maggior parte dei
gruppi vive solo una condizione di inferiorità.
Una cultura in senso proprio, adulta, anche se di un
numero limitato di persone, esiste quando un gruppo è in
grado di confrontarsi con la cultura circostante a tutti i
livelli: da quello dell’organizzazione economica a quello
dell’uso dei prodotti del proprio lavoro, da quello delle
relazioni interpersonali a quello della riflessione critica
sul proprio operato.

Come socializzare i propri bisogni, servirsi di essi, lavo-


rare con essi per raggiungere gli altri, senza nascondersi
dietro le pretese risposte ai pretesi bisogni della società?

72

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Discutere di problemi che non si possono risolvere di-
scutendo è un’abitudine che bisogna perdere.
Spesso aggrapparsi a un Teatro Politico significa sfug-
gire al problema di fare, col teatro, una politica.
Di quale teatro ha oggi bisogno la società? Chi non ac-
cetta una società e una cultura che gli viene imposta, ma
cerca una diversa società e la propria cultura deve inver-
tire la domanda. Si deve chiedere cosa lui voglia, con il
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

teatro, dalla società.

La nostalgia dei pueblos, di una cultura popolare radicata


in un passato comune di generazioni e generazioni, è la
malattia del ritorno impossibile.
La cultura dei gruppi teatrali è una cultura senza radici.
È la cultura dei cimarrones, gli schiavi negri che in Bra-
sile, nella Giamaica, a Surinam, a Cuba, fuggivano sulle
montagne e nella Selva, dando vita a minuscole comunità
che a volte resistevano molti anni, spesso con contatti re-
golari anche con i piantatori bianchi, che non erano ab-
bastanza forti da abbatterle.
I cimarrones avevano perso quasi completamente la loro
cultura africana. Avevano assimilato molti dei caratteri
culturali dei bianchi, da cui erano fuggiti, e il cui mondo
rifiutavano. Non avevano una cultura, erano privi di radi-
ci, l’unica radice era la loro stessa fuga.
Dovevano ricostruirsi una società.
E dai frammenti di passati non omogenei, di lingue di-
menticate o mal apprese, di disparati mestieri, attraverso

73

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
la soluzione di problemi concreti, nasceva una nuova
identità.

Il teatro-cultura non può essere un teatro indifeso. Sareb-


be suicida trattare il lavoro teatrale e i suoi risultati, lo
spettacolo, come problemi di second’ordine, come stru-
menti svalutati che non debbano tendere alla perfezione.
Chi costruiva un nuovo villaggio cercava il luogo che me-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

glio permetteva la vita in comune, e contemporaneamen-


te il luogo che le montagne, l’acqua o le foreste difende-
vano meglio.
Lo spettacolo sono le nostre montagne, la nostra acqua,
le nostre foreste.
La sua capacità di colpire, di imporre rispetto, di affa-
scinare anche coloro che non dovrebbero o non vorreb-
bero accettarci non solo permette di vivere, ma ci mette
fuori tiro.

Un teatro asociale?

Asociali non lo si è. Lo si diventa. Un’altra emigrazione,


parallela a quella per il pane, attraversa la geografia e la
coscienza stessa della nostra società. È composta dagli
sterrati, volontari o no, da un paese, da una religione, da
un’ideologia, da una classe. Ben poco ci unisce nel nostro
passato, nella nostra storia, oltre il fatto che necessità di-
verse e distanti ci hanno spinto ad unirci.

74

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Quando i teatri di gruppo si incontrano, sono i dialoghi
degli emigranti che si intrecciano. Questo è accaduto ogni
volta che abbiamo potuto incontrarci. Una volta dopo
l’altra abbiamo ritrovato lo stesso senso d’essere dura-
mente al lavoro e insieme d’essere sospesi; la stessa con-
traddittoria consapevolezza d’aver preso in mano il no-
stro destino, e di essere, per ciò, in balia di forze che non
potremo dominare, quando il mare non sarà più adatto
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

alle piccole navi.


La stessa necessità, ogni volta, di darci reciprocamente
qualcosa per accrescere le nostre difese, quando ogni
gruppo si troverà di nuovo solo.
La stessa vena profonda, quasi nascosta di solidarietà,
con tutte le sue increspature, divisioni, rivalità.
Spesso anche con gli stessi sogni che si esalano nell’emi-
grazione, grandiosi e fallaci.
Quale emigrante non sogna, per un momento, più o
meno a lungo, di allontanarsi dai suoi compagni? Di di-
venire, per una volta, concittadino del paese che attraver-
sa senza appartenervi?
Chi non presta orecchio alla voce che lo invita alla triste
pace del tradimento di se stessi?
Chi rinuncia a questi sogni, quante volte si è sentito
lanciare contro la stessa accusa: asociale.
Un’accusa che è un concetto vuoto.

Non è mai possibile essere “fuori dalla società”. Si può


solo divergere dalle sue norme.

75

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Il voler essere “asociale” è a volte il segno del più pro-
fondo impegno a cambiare. È il voltar la testa in un’altra
direzione, cercare cosa può esserci di diverso da questa
società che vuoi rifiutare. Ciò che rifiuti diventa ciò su cui
ti orienti, il tuo Nord cui tener fisso lo sguardo per allon-
tanarti.
È la marcia di emigrazioni parallele, sempre minaccia-
te, spesso sconfitte. Ogni volta che ti sei troppo fidato
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

nei sogni, la “realtà” ti assorbe. Ma se riesci ad allonta-


narti, giorno per giorno, passo dopo passo, con lo sguar-
do fisso a quel che vuoi non essere, appoggiandoti e
appoggiando i compagni, un giorno ti capita di scoprire
con meraviglia che il “sociale” da cui ti sei allontanato si
interessa a te. Scopre in te un’immagine di vita diversa.
Ti studia come l’esempio di un piccolo gruppo che, pur
vivendo al centro della società, non sganciandosi da es-
sa, costruisce una sua propria cultura: un organismo
microscopico non distruttivo, ma portatore d’altre for-
me di convivenza.
Perché aver paura delle parole? Divenire “asociale” è il
tentativo di costruire la tua microscopica “asocietà” dove
tentare concretamente la vita cui aspiri, non un’informe
emotività, la vaga sentimentalità dei “tutti fratelli”, dei
“tutti simili gli uni agli altri”.

Non è per una grande famiglia, ma per una piccola socie-


tà che ha senso mettersi a parte, scegliere un lavoro “inu-
tile”, che nel tempo si distilla in risultati obiettivi che co-

76

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
lorano i rapporti fra le persone, la loro visione del mondo,
il loro comportamento anche privato.
Non si possono scegliere delle idee, sperando che que-
ste ti cambino. Bisogna scegliere delle condizioni di vita
e di lavoro.
Devi essere “asociale” se vuoi creare l’esempio contra-
rio alla socialità dell’ingiustizia.
Devi essere “asociale” se non vuoi accettare le regole
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

del gioco in cui tu resterai perso e impigliato. Devi di-


ventarlo se vuoi cercare di rompere almeno una maglia
nella rete, e trovare un altro spazio all’esterno, altre re-
lazioni.
Devi essere “asociale” se vuoi trasmettere la tua pre-
senza e la tua azione anche a coloro che domani potran-
no confrontarsi sulle tue esperienze, partendo dalle tue
tracce.
Non devi ridurre la tua presenza a questo momento, a
questo posto, ai tuoi legami d’oggi, alle sole domande che
oggi ti pongono.
Sei forse per questo apolitico? Cosa è la politica? Non
è l’arte del possibile?
Devi essere “asociale” per realizzare il tuo possibile.
Sarebbe falso idealismo trasformare la realtà dei gruppi
teatrali in un ideale di vita comunitaria.
Essi sono, piuttosto, il risultato di tensioni, di disadat-
tamenti, di una devianza che ha provocato a lungo ango-
scia, senso di soffocamento.
Non sono le isole di Utopia. Sono i frammenti di una

77

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
società di frontiera, i bordi sfrangiati fra qualcosa che è
Società e qualcosa che non lo è più.
Molti si sentono, ci sentiamo o ci siamo sentiti lenta-
mente scivolare verso una forma di apatia, di impotenza.
Il teatro è stato lo scoglio al quale ci siamo afferrati e che
ci rende, malgrado tutto, sociali.
Dal punto di vista di coloro che posseggono la maestria
della parola possiamo assomigliare a muti che si esprimo-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

no attraverso strani segni, una lingua di immagini quasi


privata. Dal punto di vista dei muti, siamo muti che riu-
sciamo a parlare.

Constatando l’impossibilità o il disagio a integrarsi in una


vita non umana, alcuni parlano di emarginazione in senso
positivo. Parlano della propria “follia” e la esaltano come
qualcosa da difendere.
Ma emarginazione e follia è proprio ciò che combattia-
mo per restar fedeli alle nostre necessità fondamentali,
rifiutando d’essere ridotti all’impotenza e al silenzio. Non
lasciarsi addomesticare non è rifugiarsi nell’emarginazio-
ne e nella follia.
È non lasciarsi addomesticare all’emarginazione e alla
follia.

Il teatro è spreco, ma è anche un’attività socialmente ac-


cettata. È apparentemente improduttivo, ma giustifica un
lavoro di gruppo. Puoi proiettarvi i tuoi sogni e le tue

78

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ossessioni, ma dando loro un corpo, raggiungendo gli al-
tri senza affiorare all’idioma che avete in comune.
È un mezzo per sfuggire alla ragione dei domatori, per
infrangere il cerchio della solitudine.

Rispondere così sarebbe rispondere il vero.


Ma solo una faccia della verità.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

(ottobre-novembre 1978)

79

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Ornitofilene, 1965-66; foto Terje Lund.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Kaspariana, 1966-68; foto Roald Pay.


Ferai, 1969-70; foto Torgeir Wethal.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

La casa del padre, 1972-74; foto Roald Pay.


Il libro delle danze, 1974-80; foto Tony D’Urso.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

(a fronte, in alto)
Johann Sebastian Bach, 1976-80,
foto Torgeir Wethal.

(a fronte, in basso)
Vieni! E il giorno sarà nostro,
1976-80; foto Tony D’Urso.

(in alto)
Anabasis, 1977-84;
foto Tony D’Urso.

(a destra)
Judith, 1984; foto Torben Huss.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Matrimonio con Dio, 1984-90; foto Jan Rüsz.


Le stanze del palazzo dell’Imperatore, 1988-2000; foto Tony D’Urso.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Il Castello di Holstebro, 1990; foto Jan Rüsz.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Itsi Bitsi, 1991; foto Tony D’Urso.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Kaosmos, 1993-96; foto Rossella Viti.


Orô de Otelo, 1994-2013; foto Giovanna Talà.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
(a fronte, in alto)
Dentro lo sheletro della balena,
1996; foto Mihaela Marin.

(a fronte, in basso)
Le farfalle di Doña Musica,
1997; foto Rossella Viti.

(in alto)
Mithos, 1998-2005; foto Jan Rüsz.

(in basso)
Il sogno di Andersen, 2004-10;
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

foto Jan Rüsz.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Ave Maria, 2011; foto Tommy Bay.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
la corsa dei contrari
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Premessa sul silenzio scritto


Ho avuto l’illusione che la sapienza teatrale fosse qualco-
sa che poteva essere carpita e posseduta. Prima andai da
un vivo. Per tre anni rimasi seduto ad osservare il lavoro
di Jerzy Grotowski. Poi andai in India. In seguito mi ri-
volsi ai morti, ai livressources della “scienza” del teatro.
Sul mio tavolo ci sono Stanislavskij, Mejerchol’d, Brecht,
gli antichi scritti di Zeami, il Natyashastra. C’è Ejsenstein.
Questa è stata la mia preparazione fino al giorno in cui ho
cominciato a lavorare con i miei compagni dell’Odin.
È per quella sapienza di cui sono stato spettatore o ho
letto, che oggi alcuni vogliono lavorare con me o mi fanno
delle domande sul lavoro dell’attore? O a causa dei risul-
tati raggiunti dai miei compagni attori?
Può il libro trasmettere il senso delle esperienze di anni
ed anni di lavoro?
Perché, in alcune culture, la sapienza teatrale non è mai

81

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
stata “pubblicata”, o – al limite, come nel caso di Zeami
e degli scritti tecnici degli attori della Commedia dell’Ar-
te – è rimasta a lungo affidata ad una tradizione di mano
in mano?
Una sera, in India, ascoltai un cantore la cui voce rag-
giungeva effetti che non immaginavo possibili. Ebbi la
sensazione di essere sulle tracce di un segreto. Gli chiesi
come allenasse la sua voce. Rispose: «Ho impiegato
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

trent’anni per cantare come canto, e tu mi chiedi come ho


fatto?».
La richiesta del Cnrs, che è all’origine di questo artico-
lo, contiene in particolare due domande:
1. Che significa essere attore nella nostra epoca e nella
nostra società?
2. Che significa, per me, formare degli attori?

1. Sul significato sociale dell’attore


Non so quale significato abbiamo, nella nostra epoca e
nella nostra società, i miei compagni ed io. Siamo forse
noi a stabilire che significato abbiamo o avremo?
È il contesto che decide del significato delle parole. Una
parola può solo essere precisa. L’origine di questo termine
indica qualcosa di ben distinto, così ben stagliato da non
poter essere sostituito da nient’altro.
Si potrebbe dire che il significato di essere attore è af-
francarsi. Sono molti gli esempi storici in cui è possibile
constatare che, tramite la sua professione, l’attore si af-

82

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
francava, in un senso molto concreto, sociale ed economi-
co. Un affrancamento non in senso vagamente psicologi-
co, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e
forse anche nel senso di langue franque.
Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi
attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro
quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza ad accettare
la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

spettacoli, dice la loro incapacità a soddisfare i propri bi-


sogni nella “vita reale”, o il loro desiderio di non immet-
tersi nelle “utilità del proprio tempo”. Soltanto in futuro
qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali
tracce ha lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto
l’esercizio di un lavoro che scompare con lui.
I miei compagni ed io, dopo anni di isolamento, di “la-
boratorio”, abbiamo scoperto quasi all’improvviso di si-
gnificare qualcosa che per molti era importante. Chi sono
questi “molti”? Qualche migliaio di persone sparse qua e
là in diversi paesi. Intorno ad essi c’è una nebulosa più
diffusa: un’attenzione per il nostro lavoro e per la nostra
storia, un vago interesse, un po’ di curiosità. I confini di
questa nebulosa sono segnati da coloro che, quando sen-
tono il nostro nome, mostrano di riconoscerlo. Ci è im-
possibile fare il salto da questi piccoli cerchi di cui abbia-
mo esperienza a quel cerchio tanto vasto da poter essere
chiamato “epoca” e “società”. Per fare questo salto, biso-
gnerebbe abbandonare il terreno della esperienza e par-
lare dell’Attore in generale, di una astrazione che indica

83

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tutti e nessuno, qualcosa di impersonale. Questo non sa-
rebbe dedurre dall’esperienza una teoria, ma far violenza
alla esperienza.
Dopo quindici anni di lavoro teatrale, a volte sono sor-
preso ancora dei miei compagni. Mi meraviglia la loro con-
tinua ricerca, la loro testardaggine, il loro coraggio nel la-
vorare tutti i giorni, dalla mattina alla sera, senza che, a
volte, sembri esserci un frutto della fatica. Altre volte,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

quando uno di noi sembra lavorare meno, accontentarsi o


indietreggiare di fronte a quel che lui ritiene impossibile,
gli altri scuotono la testa, si irritano. Come se fosse sempli-
cemente normale, o fosse diventata una nostra seconda
natura accanirsi per ore ed ore intorno a un gesto, a un
frammento, passare la maggior parte del nostro tempo, per
anni, in un ambiente non più grande di un teatro, in una
“società” fatta di una quindicina di persone.
Il filosofo potrebbe dire che tutto questo non significa
nulla di buono e di utile. Potrebbe dimostrare che c’è qui
un eccesso e ripetere – come diceva un grande politi-
co – «pas trop de zèle». Potrebbe dire: «È vero, questi
attori non lavorano quel tanto che basta al mercato degli
spettacoli, essi costituiscono una minuscola società di un
numero esiguo di persone strette da legami profondi e
intricati che impegnano quasi la loro intera vita. Ma in
questo risiede il pericolo, perché tagliano i collegamenti
con l’esterno, con il proprio tempo e la propria società».
Ma è anche possibile che il filosofo dica cose diverse:
«Quel che questo gruppo di persone fa non è, in fondo,

84

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
diverso da quel che nessuno rimprovera all’artista, che
sembra isolarsi, e che proprio per questo, con la forza dei
suoi risultati, successivamente agisce nel mondo che lo
circonda».
Ricorderebbe che Brecht, per esempio, qui in Danimar-
ca, si estraniò, per passare ore ed ore a casa sua, al suo
tavolino, a scrivere poesie che – a causa dell’esilio – pochi
potevano leggere, e pièces che nessuno per anni avrebbe
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

rappresentato, cosciente che «ogni volta che Hitler an-


nuncia una nuova vittoria, la mia importanza come scrit-
tore diminuisce». Eppure restava inchiodato allo scritto-
io.
Un’azione che si svolge in un ambito ristretto – direbbe
il filosofo – ha veramente un senso se va tanto in profon-
dità da giustificare la sua piccola estensione.

2. Sulla formazione dell’attore


Che significa per me formare degli attori? La domanda è
stata posta non ad un attore, ma a qualcuno che “forma”
attori. Colui che forma l’attore sembra in grado di riem-
pire la zona di silenzio che copre per lo spettatore il “se-
greto” dell’attore.
La zona di silenzio non può essere eliminata. È l’ostaco-
lo necessario per passare la soglia. A questo, e non a tra-
smettere tecniche ed esperienze, servono gli scritti sull’at-
tore: rendono ruvido il silenzio, lo solidificano in un
muro di regole, di teorie su cui appoggiarsi per saltare

85

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
dall’altra parte con le proprie forze. Non credo che sia
giusto dire che io “formo” degli attori. Con gli anni mi è
stata riconosciuta una competenza a formare degli spetta-
coli, e ho acquisito l’esperienza che mi permette di lavo-
rare assieme a dei compagni, affinché si “formino”, appa-
iano, agli occhi degli altri, attori.
Se le esigenze del mestiere mi obbligano a dare una for-
ma ad un attore, allora so che con lui, per il momento, ho
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

fallito il mio compito.


Teatro indica qualcosa di così esteso e vago, nella nostra
società, che sotto questo nome vengono accettate le cose
più diverse. A volte, basta che qualcuno dica qualcosa
muovendosi.
Sappiamo cosa, in genere, debba aspettarsi un giovane
che desideri divenire attore: entrare in una scuola dove
la pratica teatrale gli viene insegnata divisa per materie.
Difficilmente gli capiterà di lavorare a lungo con qualcu-
no che gli trasmetta la sua esperienza personale, che sia
in grado o abbia il tempo non di insegnargli una tecnica,
un savoir faire, ma di stimolarlo ad uno sviluppo perso-
nale che possa approfondirsi attraverso tutta la sua vita
artistica.
L’aspirante attore sarà ammesso alla scuola in base alle
così dette “doti naturali”. Queste “doti” anche in seguito
continueranno ad essere sfruttate come la principale mi-
niera di lavoro. È una educazione a “vivere di rendita”.
Uscirà dalla scuola con un piccolissimo bagaglio a sua
disposizione. Riuscirà, se è bravo, a progredire, ma in un

86

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
campo d’azione molto ristretto. Si troverà super-specia-
lizzato, termine che evoca, in genere, una grande compe-
tenza. Ma un attore super-specializzato è un attore che
dipende dal pubblico di un determinato tipo di teatro,
incapace di essere vivente, come attore, in situazioni di-
verse da quelle per le quali è stato addestrato. Ha un dres-
sage non una disciplina. La sua specializzazione gli apre
solo due strade: essere un proletario o diventare un privi-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

legiato dell’industria dello spettacolo.


Oggi la sterilità della tradizione teatrale obbliga ognuno
a ricominciare sempre daccapo. Ci si nasconde dietro l’a-
libi che così si lascia ad ognuno la libertà di uno sviluppo
personale. È come tarpare le ali ad un uccello affinché, in
cambio, esso sia libero di camminare nella direzione che
vuole.
È essenziale trasmettere le proprie esperienze agli altri,
anche se c’è il rischio di creare degli epigoni che per ec-
cessivo rispetto ripeteranno solo quel che hanno appreso.
È naturale che uno cominci dal ripetere qualcosa che non
è suo, che non appartiene alla sua storia e non deriva dal-
la sua ricerca. Questo è per lui il punto di partenza, che
gli permetterà di allontanarsi.
Boulez ha scritto una volta che ciò che permette la cre-
scita culturale e artistica sono i rapporti tra un cattivo
padre e un cattivo figlio. Essere un buon padre da una
parte, e un buon figlio rispettoso dall’altra, è un rischio da
correre.
Quello che è peggio è la mancanza di rapporti tra “pa-

87

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
dre” e “figlio”. Influenzare l’allievo sarebbe – secondo
un’opinione comune – negativo. I segni dell’influenza ri-
velerebbero un rapporto malsano. Ma con questo modo
di ragionare non si approda a nulla: tutti siamo influenza-
ti da qualcuno. Il problema è la carica d’energia che viene
messa in gioco nel rapporto: se l’influenza è così forte che
permette di andare lontano, o se è così debole che non
produce, in cambio, che un piccolo spostamento, o una
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

marcia sul posto. Un riflesso condizionato ci fa giudicare


sempre come sintomi negativi i segni dell’influenza. Que-
sto riflesso deriva dal preconcetto che sia possibile un
solo modello pedagogico: quello delle nostre scuole. Nel-
le scuole i bambini e i ragazzi, fino a una certa età, sono
obbligati ad andare. Anche in seguito, non sono loro a
scegliere i loro insegnanti, né gli insegnanti scelgono i
propri allievi.
Da questa iniziale mancanza di libertà reciproca, deriva
che il rapporto apparirà tanto più giusto quanto più sarà
neutro, libero, blando. Se permetterà ad ognuno di fare il
più possibile quello che vuole, e se la trasmissione delle
conoscenze sarà impersonale ed uguale per tutti in qua-
lunque posto. È questo che, in qualche modo, garantisce
che il rapporto – obbligato – non si trasformi in una vera
e propria violenza.
Ma dove il rapporto è libero, se nasce da una scelta re-
ciproca, garantirà tanto più una forma di giustizia quanto
più obbligherà reciprocamente le sue parti.
Questa scelta reciproca racchiude l’esigenza di un rap-

88

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
porto pedagogico diverso, basato su uno scambio e una
influenza profonda fino a giungere ad una relazione in cui
non si sa più chi è maestro e chi è allievo. È questo che
permette una rigorosa disciplina che non sia costrizione.
Ciò implica una tradizione vivente, una vivente trasmis-
sione delle esperienze, qualcosa che va al di là dei princì-
pi, delle teorie, delle generalizzazioni tecniche, dei profes-
sori con i loro libri e i loro programmi. Implica un
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

rapporto intero fra le persone.


Viene un momento in cui le circostanze, l’età, le doman-
de che provengono dall’esterno chiedono di allargare il
cerchio di questa trasmissione, di passare dalla presenza
cercata ad un rapporto anonimo, attraverso la parola
scritta.
Le esperienze si trasformano, allora, in proposte e affer-
mazioni generali, si spersonalizzano, non sanno più a chi
precisamente si indirizzino. Un processo di sviluppo lega-
to a storie e persone concrete rischia di trasformarsi in un
altro manuale.
Naturalmente, ho fatto delle constatazioni che mi ven-
gono confermate dall’esperienza. Ma il modo di formulare
queste constatazioni non può che essere personale e ri-
schia di essere vago per chi legge. Deriva in gran parte
dalla lingua di lavoro che i miei compagni ed io ci siamo
formati col tempo, un gergo interno. A volte mi è capitato,
quando una nuova prospettiva si apriva nel corso del lavo-
ro, di pensare: «Ah! Allora è di questo che si trattava quan-
do Mejerchol’d (o Stanislavskij, o Zeami) diceva...».

89

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Il modo in cui formuliamo i risultati delle nostre ricer-
che è più una rete che cattura quasi casualmente la com-
prensione di chi legge, che una precisa indicazione di la-
voro.
Quello che conta è comprendere ciò che sta dietro i ri-
sultati e che permette di non fermarsi ad essi. L’attore che
sa perfettamente eseguire un certo numero di esercizi, che
sa fornire un certo numero di ottime prestazioni, può es-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sere un attore senza prospettive: è come chi conosce a


memoria una ventina o un centinaio di frasi di una lingua
che, per il resto, gli è sconosciuta.
Sapere non è comprendere. Il modo di controllare un
processo di lavoro è qualcosa che si assorbe in un lunghis-
simo arco di tempo, in determinate relazioni e condizioni
di lavoro. Solo quando lo si è assorbito, lo si è compreso,
si comprende anche che cosa si sa.
Per l’aspirante attore che scegliesse di venire all’Odin
Teatret, e chiedesse di dargli un’idea di quel che si potrà
aspettare da questo rapporto, credo che fisserei alcuni
punti di riferimento. A volte mi capiterà di fare delle af-
fermazioni recise. Il lettore sa già che non sono delle de-
finizioni estetiche sull’arte dell’attore, dei precetti che ri-
tengo validi per tutti, che vorrei veder applicati dovunque,
da tutti gli attori di tutti i teatri. Sono l’enunciazione del-
le scelte mie e dei miei compagni. Ciò che a me – e a
noi – risulta.

Ad un aspirante attore chiedo sempre quali siano le ragio-

90

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ni che lo spingono ad intraprendere questa professione.
Ottengo, in genere, risposte formulate in maniera vaga.
Esse fanno trapelare dei bisogni essenziali e nascondono
delle trappole. Possono essere una bussola, ma così rudi-
mentale da trasformarsi facilmente in una bussola impaz-
zita che sabota il viaggio.
Spesso dicono: voglio essere attore per esprimermi, per
rivelare me stesso, per essere spontaneo, per comunicare,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

per essere creativo.

2.1. Spontaneità

Pinocchio, il burattino di legno che parlava e camminava


da solo, decise di cercare se stesso: tutte le parti dell’albe-
ro da cui proveniva. In altre parole: ciò che lui era quando
era “naturale”. Si mise alla ricerca, ed effettivamente tro-
vò qualcosa. Le altre parti della sua natura erano un calcio
di fucile, la porticina di un tabernacolo, il tavolo della
cucina di un bordello, una parte di una scialuppa di sal-
vataggio...
Ritrovare se stessi non ha un senso. Pinocchio – come
ognuno di noi – aveva una sola vera possibilità: accettare
quello che era – cioè quel che era diventato; non tentare
di ritornare indietro per la nostalgia di una “unità” per-
duta, non tentare di soffocare quelli che lui considerava i
suoi lati negativi, ma cercare di padroneggiarli, trasfor-
mandoli in una forma di energia.
È come se le nostre energie fossero amorfe: noi possia-

91

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
mo dominarle o lasciarcene dominare. È il contesto che
decide del loro valore. Quel che nel nostro secolo illumi-
nato è soltanto una crisi di isteria, in altri contesti sociali
e culturali è il segno di una capacità eccezionale per cui
una persona riesce ad entrare in contatto con un’altra re-
altà.
Il mito della spontaneità deriva dal non accettare se
stessi. Così mitizziamo un’immagine diversa di noi stessi,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

un’immagine che, nella realtà, ci è difficile concretizzare.


Ne deriva una violenza contro quel che siamo e non vo-
gliamo essere. Alla ricerca di questa immagine ci lasciamo
guidare da quel che caratterizza la nostra cultura e la no-
stra società: la violenza come condizione per ottenere dei
risultati. Questa mentalità – che ci porta a concepire il
mutamento come una rottura, una lacerazione, e non co-
me un processo naturale ed organico – spinge l’attore ad
uno scatenamento caotico, a tendere e forzare artificial-
mente il suo corpo.
Spesso, ai nostri occhi, l’immagine della spontaneità si
concretizza nelle persone di altre culture che sembrano
muoversi o danzare, più liberi, più leggeri di noi, più pre-
senti con tutti se stessi. In realtà sono anch’essi imbriglia-
ti dalle norme della cultura che li ha plasmati, dai condi-
zionamenti che li hanno formati. Ciò che crediamo
spontaneità e su cui ci orientiamo è solo qualcosa che ci
colpisce per la sua differenza, che, addirittura, ci appare
all’opposto di quel che noi siamo. Il nostro comporta-
mento quotidiano è “ragionevole”, guidato dalla funzio-

92

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
nalità, limitato sin dall’infanzia a un rendimento che mai
esige e ci fa conoscere il massimo delle nostre capacità
fisiche, psichiche e mentali: un’aurea mediocritas mai per-
corsa da grandi scariche fisiche, emotive. Allora pensiamo
che l’esplosione sia spontaneità e cerchiamo di mandare
in frantumi la campana di vetro delle norme quotidiane
di comportamento. Il risultato sono, appunto, null’altro
che frantumi di vetro.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Ma nella radice del termine “spontaneità” è implicito il


concetto di libera scelta. Il problema della spontaneità
riguarda la libertà e la sicurezza: la libertà di scegliere di
fronte a diverse alternative senza essere obbligati ad una
scelta imposta dall’esterno; la sicurezza di essere in grado
di realizzare quel che si è scelto, senza incappare in bloc-
chi materiali o psichici, senza trovarsi impediti da una
mancanza di conoscenze tecniche o dalla paura, per
esempio, di quel che diranno gli altri su di noi.
La spontaneità non può essere qualcosa che si oppone
al “virtuosismo”, è qualcosa che viene dopo. Solo se un
pianista è qualcosa di più di un “virtuoso” riesce a far
passare attraverso il modo in cui suona qualcosa di perso-
nale. Cioè può esprimersi – gettarsi fuori – attraverso la
resistenza che il campo musicale ben delimitato dallo
strumento e dalle regole che si è scelto gli impone. La si-
tuazione della spontaneità – che può essere ricollegata a
quella del “rivelare se stessi” – non è fine a se stessa. È
l’ombra di un processo ben determinato, chiaro, control-

93

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
lato da regole precise, durante il quale uno si sente in si-
curezza.
Come quando uno parla o scrive: non può usare qualsi-
asi segno o qualsiasi suono, deve passare attraverso le re-
gole e le parole di una lingua. Può inventare dei neologi-
smi, ma seguendo la logica imposta da preesistenti radici
linguistiche.
Questa resistenza permette l’esercizio della libertà. È
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

una constatazione ovvia, ma l’attore rischia spesso di agi-


re come se se la dimenticasse. Per lui, nella nostra cultura,
sembra non esistano regole. L’appassisce.
La situazione dell’attore è simile a quella della colomba
di cui parlava Kant in un suo esempio famoso: la resisten-
za dell’aria affatica il suo volo, ma senz’aria cadrebbe a
terra con la pesantezza di un corpo morto.
Così l’attore lavora come spingendo un muro, per ab-
batterlo ed eliminare le barriere e i condizionamenti che
lo separano dagli altri e dall’immagine che di sé vorrebbe
avere. Ma è il modo in cui spinge il muro a “rivelare”
l’attore, il modo in cui utilizza tutte le sue energie reagen-
do all’ostacolo che gli sta davanti. Ma se abbatte il muro,
si trova solo nel vuoto, non trova più resistenza e ammu-
tolisce. Il tentativo di abbattere le resistenze deve essere
affrontato in altri termini: un tentativo di appropriarsene,
di immetterle in un altro contesto, dar loro un nuovo sen-
so determinato dal nostro modo di vedere la vita.
L’attore raggiunge il bios, la vita, come professionista e
come essere sociale, attraverso azioni e reazioni che se-

94

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
guono una logica precisa, non agendo ogni volta arbitra-
riamente, ma forgiandosi delle regole altrettanto precise
di quelle che nel linguaggio parlato permettono il discor-
so personale.
È l’attore stesso che può decidere quale sarà la logica
delle proprie regole. Ma quando, di volta in volta, le ha
decise, deve accettarle fino in fondo. Per esempio: un at-
tore decide di iniziare a lavorare sul volo. È evidente che
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

non può volare. Allora cerca di andare il più in alto pos-


sibile, di acquisire una particolare leggerezza. Partendo
da qui, da una sua scelta personale, individua una situa-
zione di lavoro che poi gli impone regole precise per le
sue azioni: per esempio deciderà di camminare sulle pun-
te dei piedi e di non poggiare il tallone per terra. Non lo
poggerà mai, e non per l’effetto che farebbe sullo spetta-
tore, ma innanzi tutto per sé, perché questa diventa una
regola con la quale egli si batte. In altre parole: si esprime.
Quando l’attore arriva a possedere tutte le regole che si
è imposto e riesce a passare attraverso di esse quasi senza
più pensarci, componendole e variandole nel ritmo del
suo lavoro, raggiunge una forma di sicurezza e di libertà
che per chi vede: appare “spontaneità”.
Cosa c’è, però, dietro questa parola? Un condiziona-
mento liberamente scelto e assorbito dall’attore, e che lo
spettatore non percepisce come artificiale, forzato. Il
comportamento dell’uomo segue sempre una logica fisi-
ca, emotiva o intellettuale. Solo nel teatro ci sono uomini
che mostrano gesti e frammenti di azioni in maniera scon-

95

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
clusionata, illudendosi che un comportamento caotico e
inespressivo possa rappresentare la libertà.
A volte l’attore così facendo si sente libero (sente qual-
cosa che fra sé e sé chiama “libertà”). Ma lo spettatore
rimane imprigionato in una frana di gesti in cui non riesce
a vedere una logica. La logica dell’attore, quando invece
c’è, è qualcosa di ben visibile. Con questo termine non
intendo soltanto la logica di un discorso. Lo spettatore
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

può benissimo non riconoscere un discorso, una storia,


una re-presentation dietro le azioni dell’attore. Ma cono-
sce, in esse, la dinamica di azioni e reazioni, qualcosa che
vive, si sviluppa e si distingue in un processo dialettico
che regola la presenza fisica dell’attore, e che non ha nul-
la a che vedere con l’inerte colata di un magma emotivo.
C’è un’altra immagine che ci può guidare nella nostra
ricerca della spontaneità: spontaneo è il comportamento
di un uomo o di una donna quando è insieme a qualcuno
che ama, e con il quale si sente sicuro e accettato. Allora
tutte le sue azioni modellano l’incandescenza della sua
energia in modo preciso, per alzare la mano per accarez-
zare, oppure per tirare i capelli, ma sapendo esattamente
fino a dove può andare e dove deve fermarsi, quale è il
punto oltre il quale comincia a far male, perde il contatto
con l’altro e si chiude in una forma di autosoddisfazione.
Nulla, nel suo comportamento, è casuale. Un ritmo “logi-
co” regola il succedersi di momenti di tenerezza e di gran-
di onde di vitalità che all’esterno possono anche apparire
azioni violente e reazioni di dolore.

96

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Allora è facile vedere che un attore sta mentendo: «È
così che si comporta quando è libero, spontaneo, quando
è insieme a qualcuno che ama, che lo accetta?».
Nella realtà non accade quasi mai di sentirsi in una si-
tuazione di simile sicurezza fra più persone. È per que-
sto – si potrebbe dire – che il teatro è finzione. Ma finzio-
ne non equivale a menzogna. Mentire, per un attore, è il
trapiantare senza mediazioni, in maniera non dialettica,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

qualcosa che egli ritiene “autentico” in un contesto artifi-


ciale: il cerchio di finzione del teatro.

2.2. Comunicazione

Alla radice della parola “finzione” c’è il senso di “fare”,


“dar forma”. Probabilmente all’origine indicava l’azione
del vasaio che modellava la creta. Alla stessa maniera la
bocca e la laringe modellano i suoni quando l’uomo vuo-
le comunicare qualcosa e parlare (in latino: fari).
L’attore si dà forma, e dà forma alla sua comunicazione
attraverso la finzione, modellando la sua energia. In caso
contrario è solo il supporto, l’attaccapanni per le comu-
nicazioni d’altri.
È nel momento in cui viene modellata, che l’energia
dell’attore diviene qualcosa che può comunicarsi, qualco-
sa di pubblico. Similmente la creta può trasformarsi in un
oggetto di scambio e di comunicazione quando è stata
modellata e diventa vaso.
L’energia – letteralmente: “entrare in lavoro” – è la mo-

97

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
bilitazione delle nostre forze fisiche, psichiche, intellet-
tuali, quando affrontano un compito, un problema, un
ostacolo. È la capacità dell’individuo di intervenire
nell’ambiente circostante, adattandosi ed adattandolo. È
solo in rapporto a qualcosa di preciso che l’energia indivi-
duale si modella in un’azione precisa.
Le numerose e complesse regole che sembrano blocca-
re in una corazza di segni prestabiliti gli attori e i danza-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tori dell’India e di Bali, della Cina e del Giappone, sono


in realtà mezzi per modellare l’energia, trasformarla in
comunicazione. È come se alcune regole generali, mai
enunciate nella loro semplicità, venissero nascoste dietro
una fitta rete di norme stilistiche. Qualcosa di simile è
accaduto, a giudicare dalle immagini giunte fino a noi,
anche per gli attori della Commedia dell’Arte, per i giul-
lari, i jongleurs, i joglars medioevali, per gli attori greci.
Esiste una logica che permette di modellare le energie.
Per comprenderla, per utilizzarla come attore, non avreb-
be senso, però, sottoporci ad un training fisico che pro-
viene da forme teatrali di altre culture e che riplasma il
corpo dell’attore fino a farlo coincidere con dei modelli
che una società si è creata attraverso un lungo processo
culturale.
Noi possiamo partire dall’opposizione basilare che re-
gola la nostra presenza biologica: l’opposizione tra il no-
stro peso che ci porta in basso e la spina dorsale che ci
spinge in alto e ci tiene eretti.
In questa opposizione c’è il primo seme drammatico.

98

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Quando un attore cerca la posizione “sicura” che gli per-
metta di conservare tranquillamente l’equilibrio, di “esse-
re naturale”, in realtà fa scadere questa drammaticità e
questa energia in forza d’inerzia, in entropia. Ma non ap-
pena comincia a spostare il suo equilibrio, a renderlo pre-
cario, tutta una serie di altre opposizioni scaturisce
dall’opposizione tra peso e spina dorsale: diverse opposi-
zioni fra diverse parti del corpo trasformano la sua massa
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

in energia, rendono il corpo vivente.


Dove c’è opposizione c’è vita, una dialettica fisica che
lo spettatore percepisce, anche quando non sa scoprire
delle intenzioni dietro le tensioni che modellano le ener-
gie dell’attore. C’è infatti, un primo livello della dramma-
ticità dell’attore che non ha nulla a che vedere con cate-
gorie intellettuali e che riguarda solo il modo in cui egli
manipola la sua energia. Attraverso il modo in cui sfrutta
e compone il rapporto peso-equilibrio, l’opposizione dei
movimenti, la composizione delle velocità e dei ritmi, l’at-
tore permette allo spettatore non soltanto una diversa
percezione del corpo, ma anche una diversa percezione
del tempo e dello spazio. Non un “tempo nello spazio”,
ma uno “spazio-tempo”. È solo padroneggiando l’oppo-
sizione materiale fra peso e spina dorsale, che l’attore pa-
droneggia un metro, nel proprio lavoro, con il quale af-
frontare tutte le altre opposizioni fisiche, psicologiche,
sociali che caratterizzano le situazioni che egli analizza e
articola nel suo processo creativo.
Il processo del padroneggiamento delle proprie energie

99

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
è un processo estremamente lungo, un vero e proprio
nuovo condizionamento. All’inizio l’attore è come un
bambino che impara a camminare, a muoversi, che deve
ripetere infinite volte i gesti più semplici per trasformarli
da inerti movimenti in azioni.
L’uso sociale del nostro corpo è necessariamente il risul-
tato di una cultura. Esso è stato acculturato e colonizzato.
Conosce solo gli usi e le prospettive per i quali è stato
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

educato. Per trovarne altri deve distaccarsi dai suoi mo-


delli. Deve fatalmente indirizzarsi verso una nuova forma
di “cultura” dalla quale essere “colonizzato”. Ma questo
passaggio fa scoprire all’attore la propria vita, la propria
indipendenza e la propria eloquenza fisica.
Gli esercizi del training rappresentano questa “seconda
colonizzazione”. Non sostituiscono le ali dell’attore, ma
le sbarre a cui egli può aggrapparsi e attraverso cui si eser-
cita a passare per divenire padrone della propria forza.
Così si impone, apparentemente, sempre nuove forme di
“prigionia”. Per esempio: impedirsi di muovere le mani
“ritrovandone” l’impulso nelle spalle, nel busto, nei fian-
chi; usare le gambe e i piedi come si usano le braccia e le
mani per sottolineare e dar forza al discorso; concentrare
un’azione che si svolgeva in un largo spazio, ma conser-
vando la stessa carica d’energia, in pochi centimetri qua-
drati, o in una posizione seduta. Queste forme apparenti
e volontarie di “prigionia” assomigliano alla apparente
prigionia in cui è serrato il bambino quando inizia a muo-
vere i primi passi sorretto da un girello.

100

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Spesso questo regresso all’impotenza infantile umilia
l’attore. Esso si ritrova improvvisamente impacciato e im-
preciso alle prese con il proprio corpo, improvvisamente
goffo e ridicolo, malgrado la sua età adulta, la sua intelli-
genza, e la fatica con cui si è costruito – come ognuno si
costruisce – la sua apprezzabile persona pubblica. Questo
momento di umiliazione è necessario e dura molto più a
lungo dei momenti simili che è necessario attraversare se
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

si vuole imparare una lingua, o, per esempio, imparare a


sciare. Inoltre costituisce un ostacolo particolarmente
grave per l’attore occidentale, che non lo attraversa – co-
me l’attore orientale – nella sua prima adolescenza. Molti
preferiscono, così, ritirarsi al sicuro, sotto la protezione
delle doti che credono di possedere naturalmente. Dietro
una reale o immaginaria piacevolezza o verosimiglianza
nel modo di porgere il gesto e la parola, essi accarezzano
lo spettatore senza fargli scoprire nulla di nuovo.
Altri, che pure non si accontentano di questo, rifiutano
la “banalità” del compito: semplicemente reimparare a
muoversi. Vogliono, allora, scoprire gli “arcani” del cor-
po, le zone della potenza o dei centri di energia, così come
sono stati individuati o raccontati da filosofie e dottrine
occidentali o orientali. Così si seguono dei princìpi, delle
teorie o delle mitologie invece che tenersi all’esperienza.
Credono di poter attingere la propria vita di attore dai
preziosi serbatoi dello yoga o di elaborati sistemi, e non
dal proprio tempo e dalla propria fatica del proprio per-
sonale, monotono e banale lavoro.

101

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Gli esercizi del training non sono tesori di sapienza, se-
greti per essere espressivi o rivelare se stessi. Sono lavoro.

Un esercizio è un’azione che uno apprende e che ripete


dopo averla scelta, con degli obiettivi ben precisi.
Ad esempio: se uno vuole inginocchiarsi con tutte e due
le gambe contemporaneamente, ad un certo punto, scen-
dendo verso terra, perde il controllo, il peso prende il
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sopravvento, e batte le ginocchia per terra. Il problema è


allora trovare un controimpulso che permetta di andare
per terra anche velocemente senza urtare con le ginocchia
in modo da farsi male. Per risolvere questo problema, uno
trova un esercizio che poi ripete.
Un altro esercizio può nascere dal problema di come
spostare l’equilibrio in avanti, fino al momento in cui non
controlla più il peso del proprio corpo che, guidato sol-
tanto dalla legge di gravità, cade come un corpo morto.
In piena caduta, allora, occorre trovare un controimpulso
che permetta di non cadere a faccia in giù, ma di planare
di lato, in modo che il colpo sia preso, progressivamente,
dalla parte laterale del corpo.
Il senso di un esercizio sta, in fondo, nel compiere un’a-
zione precisa che proietta tutte le energie in una determi-
nata direzione, e – in pieno processo – dare un altro im-
pulso, un’altra scarica di energia che costringe il
movimento a deviare dalla sua traiettoria, e a concludersi
in maniera altrettanto precisa.
Così si costruiscono tutta una serie di esercizi che uno

102

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
può imparare e ripetere come si ripetono i vocaboli di una
lingua.
All’inizio saranno ripetuti in maniera meccanica, come
i vocaboli di una lingua straniera che si voglia apprendere.
Poi saranno assorbiti, cominceranno a “venire da soli”;
allora l’attore può scegliere. Anche con pochissimi eserci-
zi può fare un lungo training. Non solo, infatti, gli eserci-
zi possono essere ripetuti in un ordine differente, ma pos-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sono anche essere eseguiti con un ritmo differente, in


differenti direzioni, in chiave estroversa o introversa, po-
nendo l’accento sull’una o sull’altra fase dell’esercizio.
Ancora una volta: esattamente come nel linguaggio parla-
to, il significato di una frase non deriva solo dalla sua
costruzione sintattica, ma anche dalle accentuazioni, dal
tono che, in una frase, sottolinea determinate parole.
Anche nel training sono gli accenti a determinare le di-
verse logiche di una stessa catena di esercizi, a far sì che
si possa ripetere lo stesso esercizio in molti modi diversi.
Quale è, allora, il valore dell’esercizio, una volta che
l’attore lo padroneggia? Non serve più ripeterlo, perché
ormai non è più una resistenza da superare. Entra in gio-
co, allora, l’altro senso della parola “esercizio”: mettere
alla prova. Si mettono alla prova le proprie energie. Du-
rante il training, l’attore può modellare, misurare, fare
scoppiare e controllare le proprie energie, lasciarle anda-
re e giocare con esse, come qualcosa di incandescente
che, però, sa maneggiare con fredda precisione.
Attraverso gli esercizi del training l’attore mette alla

103

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
prova la sua capacità di raggiungere una condizione di
presenza fisica totale, la condizione che poi dovrà ritrova-
re nel momento creativo dell’improvvisazione e dello
spettacolo.
Questa “presenza fisica totale” non ha nulla a che vede-
re con la violenza, con la pressione, con la ricerca della
velocità a tutti i costi. L’attore può essere estremamente
concentrato, quasi immobile, ma in questa immobilità te-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

nere in mano tutte le sue energie, come un arco teso pron-


to a scattare.
Noi chiamiamo con una parola scandinava – sats – l’e-
nergia raccolta su se stessa che è il punto di partenza per
l’azione, il momento in cui concentriamo tutte le nostre
forze prima di indirizzarle in un’azione. In qualsiasi azio-
ne il sats corrisponde, in dimensioni microscopiche, alla
posizione di partenza del velocista. Il sats è caratterizzato
da una carica di energia che va in direzione opposta al
movimento da compiere, come quando si porta il peso in
giù, prima di saltare, o si raccolgono le forze portando
leggermente indietro il braccio, prima di dare un colpo in
avanti.
A ben vedere, le particolari posizioni di equilibrio nel
teatro orientale sottolineano il sats, lo rendono più diffi-
cile e drammatico, accentuando la carica di energia che è
in qualsiasi movimento. L’essenziale, per l’attore, non è
eseguire un esercizio, ma – tramite l’esigenza di eseguire
l’esercizio – trovare il momento del sats, l’opposizione

104

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
base che, di azione in azione, caratterizza la dialettica del
bios, dell’organismo vivente.
Un esercizio vale l’altro, se rispetta le leggi, la dialettica
della vita. In questo caso un esercizio è funzionale a tutti
i livelli: rende fisicamente abile l’attore; gli permette di
mettere alla prova e di padroneggiare le proprie energie;
e – soprattutto – gli permette di comprendere, con una
specie di intelligenza fisica, quale sia la logica per deter-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

minare le sue azioni.


Questa comprensione sarà la stessa che lo guiderà nel
lavoro creativo, nell’improvvisazione.
Preso isolatamente, in sé, un esercizio non ha nessun
valore, è come un vocabolo che non dice nulla e non ser-
ve a nulla, se non entra in una frase.
Spesso il nostro modo di pensare la vita del nostro cor-
po si lascia guidare dall’immagine più banale della medi-
cina: per ogni risultato che si voglia raggiungere, per ogni
malanno che si voglia guarire o per ogni azione di difesa
e di potenziamento per un organo bisognoso di aiuto, c’è
un farmaco adatto allo scopo. Il legame farmaco-risultato
sembra essere immediato e deterministicamente fissato,
indipendentemente dall’intera vita del soggetto.
Anche gli esercizi del training vengono a volte pensati
così, come farmaci o come diete, come ricette che deter-
minano questo o quel risultato.
In realtà, quel che è veramente importante è il ritmo, la
concatenazione di un esercizio con un altro, il modo or-
ganico in cui l’attore dirige questa concatenazione. Così

105

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
come quando si parla non si pronunciano le parole stac-
cate, ma la fine dell’una coincide con l’inizio dell’altra, in
una serie di onde che rispecchiano il nostro ritmo emoti-
vo, razionale, i momenti di rallentamento e di sospensio-
ne e i momenti di forza e di incisività.
L’attore che esegue in maniera staccata, o con un ritmo
sempre ripetuto, i diversi esercizi del training è come uno
che ingurgita una dopo l’altra diverse medicine che in
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

realtà non gli serviranno a nulla.


L’uso “medicinale” del training è un controsenso: allon-
tana l’attore dalla scoperta del proprio ritmo organico, da
quella specie di danza in cui il corpo reagisce secondo la
propria logica “emotiva, così come la voce nel canto.
Il training non ha uno scopo utilitario. È l’amplificazio-
ne della vita del nostro corpo. Ciò che caratterizza questa
vita è che essa segue onde ben precise. La precisione è il
segno di un’energia organicamente finalizzata: se le no-
stre azioni potessero essere messe sotto un microscopio,
si dovrebbe poter distinguere nettamente qual è l’inizio e
qual è la fine di ognuna di esse, così come nel flusso del
discorso chi parla conosce esattamente i confini netti e
precisi tra una parola e l’altra.
In fondo è quel che Mejerchol’d affermava: in ogni suo
movimento l’attore deve conoscere esattamente il mo-
mento di preparazione, quello dell’azione e la fine.
Il carattere pretestuoso degli esercizi, il loro essere dei
puri mezzi, inefficaci se isolati, appare particolarmente
evidente negli esercizi di acrobatica.

106

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Gli esercizi di acrobatica sono, all’Odin, l’esempio di
un qualcosa necessario per il lavoro dell’attore, e nello
stesso tempo privo, in sé, di valore.
Innanzi tutto, sono per lui la prova lampante che si pos-
sono raggiungere dei risultati che solo poco prima gli sem-
bravano lontani e quasi irraggiungibili. Sono come un’as-
sicurazione. Perché, anche se gli è stato detto che non
sono i risultati che contano, ma il processo, anche se sa
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tutto questo teoricamente, è sempre difficile, in pratica,


lavorare in un campo dove si vedranno i primi risultati
solo dopo due o tre anni. Con gli esercizi di acrobatica,
invece, si ottengono dei risultati molto spettacolari in bre-
ve tempo. Questo dà la sensazione di “poter riuscire”.
Sono un po’ come una stampella psicologica.
Gli esercizi di acrobatica, inoltre, permettono di spiega-
re in forma tangibile cosa significhi prendere in mano le
proprie energie, farle esplodere, e poi riprenderle di nuo-
vo in mano.
All’inizio il problema sembra essere solo quello di supe-
rare, a livello psicologico, la paura, la sensazione di non
essere capace. Poi uno riesce ad eseguire l’esercizio, con-
centrandosi per superare la difficoltà “acrobatica”, non
preoccupandosi però di come arriva a terra. Allora pro-
prio questo deve diventare importante: finire un esercizio
in modo che la sua fine sia già il sats, l’inizio dell’esercizio
seguente. Il segreto dell’esercizio acrobatico, a questo
punto, sta nel concentrarsi sulla sua fine.
È evidente che la caduta non può essere trattenuta, il

107

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
corpo ad un certo punto precipita. Allora, occorre un’al-
tra carica di energia, un controimpulso che permette di
contrastare la forza di gravità, così che il momento della
caduta contenga già l’impulso per riprendere il volo.
Tutto questo fa conoscere e sperimentare quel che è
forse la cosa più difficile: trovare il momento di nuovi sats
durante il percorso, quando si è in aria, senza appoggi per
terra.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

L’acrobatica, come in genere il training, non è un accumu-


lo di materiali per lo spettacolo: è il passaggio da una cul-
tura fisica ad un’altra. Anche se questa nuova cultura fisi-
ca è stata elaborata da altri, uno può impadronirsene,
assorbendola fino a trasformarla in energia propria.
In realtà, tutti gli esercizi fisici sono esercizi spirituali,
riguardano lo sviluppo della totalità dell’uomo, il modo
in cui far scaturire e controllare tutte le proprie energie
psichiche e mentali, quelle di cui ci rendiamo conto, che
possiamo formulare a parole, e quelle di cui non sappia-
mo dire nulla.
Così, ancora una volta, il training è l’esercizio del comu-
nicare, del mettersi in grado di allacciare rapporti con
l’esterno, lavorando in libertà, in una situazione in cui
non ci si sente più divisi fra l’intenzione e l’azione. È un
processo che scava canali di comunicazione, un gioco di
pazienza per inventarsi la propria lingua, per scoprire la
propria logica.
Questa “intelligenza fisica” permette all’attore di con-

108

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
quistare un’autonomia personale, una libertà d’azione
che, attraverso il processo creativo su uno spettacolo, di-
venta azione sociale, pubblica.

2.3. Creatività

Il processo creativo dell’attore può essere un processo


condotto a freddo. Egli può scomporre il suo corpo in
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

diverse parti e ricomporlo ottenendo degli effetti dram-


matici, una situazione di conflitto, oppure introversione
ed estroversione, facendo dialogare fra loro diverse parti
del corpo. Attraverso una dialettica fisica costruisce
un’immagine spettacolare che rende visibile le tensioni
emotive, concettuali, psicologiche.
In questi casi l’attore compone la sua “persona”, sfrutta
la sua capacità di modellare le proprie energie, e – come
un burattinaio nascosto – muove una immagine più sug-
gestiva e rivelatrice delle immagini della realtà quotidia-
na.
In questo caso l’arte dell’attore, il suo processo creativo
è simile a quello che un tempo caratterizzava il processo
creativo del letterato e del pittore, la cui arte consisteva
nel saper manipolare la tensione fra disciplina tecnica (le
regole della composizione) e varietà e innovazione (la cre-
atività in senso stretto). Ma quando oggi un attore parla
di “creatività” intende qualcosa di diverso. Egli immagina
una sorta di creazione diretta, in prima persona, a cui
spesso dà il nome di improvvisazione. Un “fare qualsiasi

109

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
cosa” per “rivelare i lati nascosti”, “liberare se stesso” in
un processo che obiettivamente (cioè visto dal di fuori) fa
trapelare inerti energie in movimenti fortuiti, suoni inar-
ticolati, modi di comportarsi fossilizzati. Non ha nulla a
che vedere con l’improvvisazione che caratterizzava la
recitazione degli attori del passato, specialmente nella
Commedia dell’Arte, che era piuttosto simile a ciò che noi
oggi chiamiamo composizione. Il mettere insieme lunghe
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

citazioni di testi classici e giochi di parole, situazioni e


soluzioni sceniche, poesie e lazzi che venivano appresi e
provati prima per essere inseriti nello spettacolo secondo
i bisogni e le circostanze.
C’è poi un terzo senso che si può dare al termine “im-
provvisazione”. Non il montaggio improvvisato di mate-
riali precostituiti, non una sorta di creazione diretta, in
prima persona, ma un processo attraverso cui vengono
fatti affiorare dei materiali grezzi, da cui verranno tagliati
i blocchi di pietra con cui costruire lo spettacolo.
L’improvvisazione in questo senso è un processo creati-
vo allo stato grezzo in cui l’attore abbandona la sua tecni-
ca – il territorio del training – prima di saltare in ciò che
costituisce il campo vero e proprio della sua arte, della sua
azione sociale. Ciò che caratterizza il lavoro di improvvi-
sazione è una situazione etica, una certa qualità nei rap-
porti di gruppo, determinate condizioni di lavoro (lungo
tempo a disposizione, concentrazione, sicurezza, riserva-
tezza) di cui è difficile parlare. È impossibile descrivere a
parole come – date certe condizioni – la fantasia di un

110

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
gruppo di persone può mettersi in moto secondo un suo
ritmo organico, salendo e scendendo, passando attraverso
lunghi periodi di monotonia, improvvise accensioni,
nell’accanimento intorno ad un particolare, all’invenzione
di qualcosa di nuovo. Tutto ciò che accade, accade entro
quel numero limitato di persone, in una situazione di tem-
poraneo isolamento. L’esterno sembra non aver accesso.
È la stessa percezione del tempo e della nostra presenza
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

che cambia, e ci si sente come i membri di una spedizione


alpinistica chiusi nella vita quotidiana rarefatta di un mi-
nuscolo campo-base.
In fondo la traccia migliore o più fedele di questa situa-
zione la si trova non quando si cerca di raccontarla, ma
quando si vede come essa incida direttamente sulla comu-
nicazione sul lavoro. Quando, cioè, il materiale dell’im-
provvisazione non è un materiale fisico, ma verbale.
In genere è il “regista” ad agire con le parole. Quel che
egli fa non è sostanzialmente diverso da ciò che fa l’attore.
Non racconta quel che l’attore deve fare, costituisce piut-
tosto un analogo verbale alle improvvisazioni dell’attore.
Riporterò qui due frammenti di diario, due relitti quasi,
che si riferiscono a due nostre sedute di lavoro di alcuni
anni fa. I rapporti si invertono: non sono più io a registra-
re quel che gli attori fanno, ma sono gli attori che registra-
no ciò che io dico.
In questo caso, il punto di vista si sposta dal regista
all’attrice, Iben Nagel Rasmussen, una compagna di mol-
ti anni di lavoro.

111

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Dal diario di Iben Nagel Rasmussen
3 maggio 1974

Iniziamo il lavoro per il nuovo spettacolo. Fra pochi gior-


ni partiamo per l’Italia del Sud, andremo a vivere a Car-
pignano.
Facciamo le prime improvvisazioni per il nuovo spetta-
colo qui ad Holstebro, nella sala bianca. Eugenio ci dà il
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tema per l’improvvisazione. Ma questa volta non è, come


al solito, una frase di poche parole. Eugenio fa un lungo
racconto. Ogni tanto si ferma, cerca con gli occhi nella
sala, è come se vedesse qualcosa, e allora il racconto cam-
bia direzione.
A volte sembra procedere a caso. Improvvisamente è co-
me se trovasse dove andare.
Eugenio: Ho sognato che mi ero vestito molto elegante,
e avevo vestito molto eleganti i miei figli. Ed ero tornato al
mio paese. Era da molto che non vi ritornavo, ed era la
prima volta che vi portavo i miei bambini. Avevo anche
tagliato i loro capelli lunghi.
Allora andai in strada. Sulla via principale del paese in-
contravo molte persone che, nonostante il tempo trascorso,
potevo riconoscere. Ma loro sembravano non riconoscermi.
Mi passavano oltre, l’uno dopo l’altro. Fermai uno di loro,
ero sicuro che mi aveva riconosciuto, anche se non mi aveva
salutato. Gli domandai:
– Perché non mi salutate? Perché non salutate i miei figli?

112

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
– Non sono i tuoi figli – rispose.
– Come non sono i miei figli? Sono sì i miei figli.
– No – rispose. – Qui abbiamo visto le foto dei tuoi bam-
bini. Sono molto differenti. I tuoi veri bambini hanno i
capelli lunghi.
Si allontanò. E anch’io mi allontanai, passeggiando via
dall’uomo che avevo incontrato nel sogno, e vidi che pian-
gevo. L’uomo, allora, mi si è riavvicinato e mi ha chiesto:
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

– Perché piangi?
Gli ho indicato i miei bambini e gli ho detto:
– Vedi, neanche io so se questi sono i miei figli.
(Lunga pausa)
Venti anni possono essere lunghi. Quaranta sono quasi la
vita di un uomo. L’uomo o la donna ritorna al suo paese
natale. Forse ha indossato i suoi vestiti migliori. Forse ha
tagliato i capelli alle persone che lo accompagnano. Si ad-
dentra, e vi sono due, no, tre cose che rivede chiaramente.
Una è un minuscolo lago, come uno di quei laghetti finlan-
desi, pressappoco così
(Indica una parte del pavimento)
questo è un laghetto. Lui-o-lei veniva spesso sulle rive di
questo lago, oppure vi faceva il bagno. Quando lui-o-lei
ritorna a questo posto i suoi sensi rievocano l’immagine
netta di come quel lago mai aveva accettato la sua volontà.
Quale era la sua volontà? Quando lui-o-lei si immergeva
in quel lago era come se lui-o-lei desiderasse di tenere tut-

113

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
to intero il laghetto dentro di sé per conservarlo, rinchiu-
derlo, catturare l’acqua e i colori nell’acqua, e la donna e
l’uomo che...
(Ride)
e soprattutto l’istante. Quando ritorna a quel lago è come
se questo riflettesse la sua vana lotta per fermare, fermarsi.
Si specchia nel lago e lui-o-lei vede qualcuno che è invec-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

chiato, incanutito, il cui viso è pieno di rughe grigie. E che


fa? Che fa quest’uomo o questa donna?
(Lunga pausa)
Arriva ad una casa. In realtà quest’uomo o questa donna
proviene da Cana, una volta ci viveva, ma col tempo non vi
è più ricordo. Lui-o-lei non è in grado di sapere se è di Cana
oppure di un altro paese. Ma lui-o-lei accetta questo, sa che
non è la cosa più importante. La cosa più importante si
trova in un altro posto. Entra in questa casa. No, non entra
in questa casa, sente una melodia. Non gli è chiaro se sente
questa melodia perché qualcuno la canta oppure perché il
posto involontariamente gli fa ritrovare questa melodia; la
canzone è “La giovane Aaslau”, sapete, la ballata norvegese.
No: scopre qualcosa di strano, al centro della piazza – un
tavolo. Questo tavolo deve essere lì da molto tempo.
Lui-o-lei domanda:
– Cos’è questo tavolo?
Rispondono che si racconta che è successo molto tempo
fa, ma la gente è tuttavia in forte dubbio. Secondo qualcu-

114

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
no, si tenne lì un grande sposalizio. C’erano tanti invitati
che non fu possibile averli tutti a casa. Allora si dovette
porre il tavolo fuori, sulla strada o sulla piazza, e allora – ca-
pisci? – ad un certo punto qualcosa accadde in questo spo-
salizio.
– Che accadde? – chiede.
– Sì, proprio questo è il problema, perché la maggior par-
te della gente ha provato a dimenticare. È stato qualcosa di
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

talmente penoso per l’onore del paese che il meglio da fare


era dimenticarselo. Ma alla fine ci si è dimenticati solo di
portar via il tavolo. Allora... si siede al tavolo. E su quel
tavolo
(Mostra la cassa di legno in mezzo alla sala)
ci sono molti oggetti, anche le vostre maschere. Si siede a
quel tavolo e, naturalmente, stanco com’è, piomba nel son-
no. Sogna? Da vecchio, da vecchia ritorna al suo paese. Va
dove c’è l’acqua. Una cosa è sicura, sente che l’acqua viene
sul suo corpo. È perché la vecchiaia lo possiede? Perché la
gente non lo conosce e, secondo l’antica usanza, accoglie lo
straniero lavandogli i piedi? È per questo? Arriva e una
ragazza, un ragazzo, guarda questo vecchio straniero e dice:
– Benvenuto straniero.
E gli dà il segno del benvenuto, che può trovare riposo.
Forse lava i suoi piedi. Ma questo cos’è? Un pozzo dove si
attinge acqua da bere? Cos’è esattamente? Ha qualcosa a
che fare con l’acqua. È chiaro, il ritorno lo lava, la lava, e
quando si è purificato con l’acqua va e si siede a tavola.

115

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Nel momento in cui tocca questo tavolo, quel che è succes-
so durante quello sposalizio ritorna. Anche lui-o-lei c’è.
Era seduto a questo tavolo, allo stesso posto, e mentre è
seduto lì (sogna?) è come se qualcuno lo tiri per la manica
e dica:
– Nonna, zio cosa successe esattamente?
E lui-o-lei risponde:
– Vedi, qui sedeva un grassone ed era così – e lo descri-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ve –, si muoveva così, agitava il bicchiere in questo modo,


gesticolava, cantava così.
E l’uomo o la donna fa tutto questo mentre racconta, di-
venta il grassone, si mette la maschera che è sulla tavola e
agisce dietro di essa. Poi il prossimo. Il prossimo era una
donna tubercolotica, pallida, che tossiva tutto il tempo e
sputava sangue, e avrebbe voluto nasconderlo, avrebbe vo-
luto divertirsi, così beveva tutto il tempo per nascondere gli
attacchi di tosse. In realtà, invece di bere, sputava sangue
nel bicchiere. Così lui-o-lei diventa la donna tubercolotica,
si mette la maschera, agisce. E il terzo era... E il quarto...
Tutte le persone. Quanti ce n’erano seduti a quel tavolo?
Probabilmente molti.
E qualcosa avviene intorno a questo tavolo, e lui-o-lei
cerca con cura, trova.
Questo è il tema. È chiaro?
(Lo ripete in maniera più concentrata)
C’è una cosa che ho dimenticato: quando lui-o-lei si siede a
tavola sente innalzarsi la canzone “La giovane Aaslau”.

116

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
6 maggio 1974

Eugenio: Tutto questo rassomiglia, anzi è, una guerra di


posizione, dove uno si trova al riparo e sa che passerà molto
tempo, prima che abbia luogo la battaglia decisiva. Ma ogni
volta che uno esce allo scoperto, deve credere che questa
battaglia è quella finale. Cioè, ogni improvvisazione deve
avere il carattere di: battaglia finale. Non lasciate che l’im-
provvisazione si trasformi in una routine, su cui incidano la
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

stanchezza, l’abitudine o altri fattori. È evidente che questi


fattori incidono. Ma non permettete che vi inducano in un
errore di calcolo, impedendovi di agire al momento giusto.
(Iben: Ognuno di noi sceglie un personaggio come
compagno di viaggio. Ne parliamo un po’. Torgeir sceglie
il nano del romanzo di Lagerkvist, Reidar sceglie Ulisse,
Odd sceglie Peer Gynt, Ragnar Giobbe, non mi ricordo
cosa abbia scelto Elsa, Jens sceglie Don Juan, io scelgo il
folle Nijinskij.
Facciamo alcune improvvisazioni. Poi Eugenio com-
menta:)
Eugenio: Ultimamente ho detto più volte: lasciarsi an-
dare, e nello stesso tempo avere il controllo di sé. Lo ripeto,
perché è molto importante comprendere la vita interna di
un’improvvisazione, le sue forze e le sue linee di sviluppo.
Per esempio, se prima di un’improvvisazione faccio un
lungo discorso, malgrado la quantità di parole, ci sono delle
informazioni ben precise. Potrei racchiuderle in tre frasi,
quel che potremmo chiamare il tema da cui partire per l’im-

117

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
provvisazione. Ma queste tre frasi sono come una delle po-
esie di Harry Martinson, quando era marinaio, dove lui
cita una serie di nomi: Jokohama, Palenbang, Sidney, Sin-
gapoor, e altri porti lontani. È il viaggio di una nave, con le
sue tappe precise, è l’indicazione di una rotta ben definita.
Ma come si svolge il viaggio, le bonacce e le tempeste, gli
avvenimenti fra un porto e l’altro, tutto questo non lo sap-
piamo. Siete voi stessi a riempire i vuoti, a deciderlo.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Ma la rotta deve essere seguita. Ancora una volta: se il


tema, se la rotta non viene seguita, non esiste possibilità di
intervento da parte vostra, non potete rendervi conto se
siete o no arrivati in porto.
Cosa vuol dire arrivare in porto?
Durante l’ultima improvvisazione ho potuto vedere come
alcuni di voi si lasciassero guidare dal tema. Potevo imme-
diatamente percepire a che stadio del tema si trovassero.
Non che comprendessi quel che facevano – la cosa non mi
interessa – ma potevo seguire il loro processo.
Se io non posso seguire questo processo, mi sento perduto,
perduto nel senso che non posso aiutarvi. In questo caso,
infatti, che cosa succede? C’è una serie di avvenimenti for-
tuiti che io non posso mettere in rapporto con nulla.
Facciamo un esempio: qualcuno deve rappresentare Ofe-
lia. Il personaggio di Ofelia, allora, offre come punto di ri-
ferimento una certa sensibilità, un certo comportamento: la
dolcezza di sorella, la sottomissione di figlia, la follia per
amore. Ma se la passione di Ofelia, portata al suo eccesso,
incontra l’eccesso di un’altra passione di un’altra donna

118

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
shakespeariana – Lady Macbeth – allora la figlia di Polonia
può presentare le sue reazioni con l’ombra di altre reazioni,
quelle di una donna forte, risoluta, decisa.
Ma queste nuances ci sorprendono perché deviano, ren-
dono come estraneo, nuovo, il punto di riferimento presta-
bilito e riconoscibile.
Se non esiste un punto di riferimento, allora tutto è pos-
sibile. Cioè niente è possibile.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Come quando si dice: la vita è teatro, il teatro è vita.


Quando lo abbiamo detto non abbiamo fatto nessun passo
avanti.
Bisogna comprendere bene cosa significhi seguire il tema.
Non significa illustrare, rappresentare il tema. Significa
averlo sempre presente come punto di riferimento. È il
Nord che ci permette di orientarci in tutte le direzioni, di
“fare il punto”.
Se uno non lo ha, rischia di restare prigioniero di una
forma di recitazione che scimmiotta la realtà, o che diventa
una pessima forma di psicodramma. Quando dico pessima
forma di psicodramma, è perché non è neanche estrema,
eccessiva.
Nell’improvvisazione si verificano sempre alcuni auto-
matismi. Quando si improvvisa regolarmente, subentrano
sempre degli automatismi che si impadroniscono dell’at-
tore.
Quali sono le conseguenze di questi automatismi? Innan-
zitutto una “maniera” particolare di muoversi che si ripete
di continuo. Per esempio, qualunque sia il tema, si può no-

119

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tare che il vostro ritmo, le posizioni dei piedi e delle gambe
tendono a ripetersi, che uno ha tendenza a piegarsi in un
determinato modo, a girarsi, a tirarsi indietro in un deter-
minato modo. Si ripete sempre lo stesso modello, un auto-
matismo che non controllate e che vi controlla. Da che cosa
dipende?
Dal di fuori lo si sente come una chiara differenza tra
l’immagine che voi avete, e il modo in cui essa si manifesta.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Sono come due binari che vanno nella stessa direzione ma


non si incontrano.
Durante l’ultima improvvisazione ho avuto la sensazione
netta di che cosa sia il teatro. Il teatro non è quel che un
tempo dicevo, cioè dire la verità. Il teatro è un vuoto di
verità, è il massimo grado di finzione. Se uno non parte da
qui, penso che rimanga bloccato in un territorio molto ste-
rile. Cos’è questo vuoto di verità?
Anche se voi scegliete le esperienze più intime, le più do-
lorose, le più gioiose, non sono esperienze vive, che si svol-
gono in questo momento, non è la vostra situazione attuale.
Possono essere ricordi, ceneri di qualcosa che fu fuoco, op-
pure qualcosa che corrisponde ai sogni ad occhi aperti o alle
immagini di un ragazzo o di una ragazza nell’età della pu-
bertà.
Ma tutto questo che è effimero, che non è reale, può tra-
sformarsi, deve trasformarsi in qualcos’altro. Se non si tra-
sforma in qualcosa d’altro, allora si ferma allo stadio della
finzione che è solo menzogna.
Concretamente: se un attore si limita a camminare non

120

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
mi dice nulla oltre il fatto che sta camminando. Ci deve
essere qualcosa nel suo modo di camminare (di questo l’at-
tore può essere cosciente o incosciente) che mi fa fermare lo
sguardo su di lui, che mi fa dedurre determinate immagini,
determinati pensieri. L’attore manipola in maniera fredda
questa situazione. Ma se la porta alle sue estreme conse-
guenze non può evitare di far intravedere, dietro questa
finzione, qualcosa d’altro.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Se uno di noi comincia a mentire, più mente più si avvi-


cina ad una verità su di sé, che lo rivela. Quel che qui spe-
rimentiamo è la legge dei contrari.
Qualcuno di voi vuole dire, in tutti i modi, qualcosa di
decisivo, di importante. E forse lo dice. Però dall’esterno
non lo si percepisce. Perché non lo si percepisce?
Perché manca qualcosa, una logica che si rivela attraverso
la precisione: non c’è percezione perché non c’è precisione.
Perché cadete in quegli automatismi? Come li si può com-
battere? Come può l’improvvisazione essere qualcosa che
conosciamo molto bene, con la quale siamo quotidianamen-
te in contatto, e che tuttavia agisce ogni volta come un for-
te stimolo?
Spesso le vostre improvvisazioni sono soffocate. Non tut-
te. In alcuni casi più, in altri meno. Si intuisce che c’è qual-
cosa, ma non viene fuori, oppure trabocca in maniera infor-
me.
C’è qualcosa dietro le vostre improvvisazioni, so che esiste
un senso per voi, ma questo senso non viene tagliato in
pietre precise che, l’una in relazione all’altra, siano in grado

121

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
di creare l’arco del ponte, il passaggio dalla vostra riva all’al-
tra: lo spettatore.
Nell’improvvisazione informe l’una e l’altra riva restano
nascoste dietro la polvere del ponte che crolla.
La forza di certe vostre improvvisazioni è di tutto un altro
tipo di quella del training. Anche se il training ha anch’esso
la tendenza a cadere in forme di automatismo, a volte viene
fuori una specie di fiammata. Nelle improvvisazioni, inve-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ce, spesso è come se voi vi muoveste in un mondo alla Wer-


ther – il giovane Werther, gotico, romantico che soffre...:
tutta un’atmosfera opprimente. D’accordo il mondo è op-
primente, con tutto quel che ne consegue. Ma c’è una cosa
che manca in questa oppressione: la sua forza vitale.
Le vostre improvvisazioni hanno perduto la forza di attra-
zione che affascina e nello stesso tempo spaventa. Trattate
l’improvvisazione come una forma di quotidianità. Ed è
quotidianità. Ma dobbiamo essere furbi perché se trasfor-
miamo l’improvvisazione in una forma di quotidianità, il
risultato è solo quotidianità. Credo che in un modo o
nell’altro uno si debba preparare all’improvvisazione, non
solo quando entriamo nella sala, ma anche prima, durante
il giorno, in maniera molto consapevole.
Ci troviamo in uno stadio dove cerchiamo di conoscere il
terreno prima di entrarci: cosa posso fare su questo terreno?
È possibile percepire se stessi in un altro modo? È possibile
incontrare una persona che sia noi stessi, eppure sconosciu-
ta? Il proprio corpo di diamante, il terzo occhio, l’androgi-
no, l’homunculus, il nano? Ma con una tale chiarezza di

122

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
realtà che uno è spaventato. Naturalmente è ridicolo tutto
questo, perché uno non è spaventato. Ma se uno non trova
la chiave per la porta da aprire per chiudersi nel buio qual-
siasi incontro è possibile, allora, se non troviamo questa
chiave, rimarremo sempre alla luce del giorno, dove ricono-
sciamo tutto, sappiamo già tutto. È inutile che, alla luce del
giorno, facciamo finta di essere spaventati. In realtà non lo
siamo. Naturalmente, non è necessario che dietro questa
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

porta, nel buio, ci sia qualche cosa di orribile. Spaventoso


può essere quando uno è così felice che non può più reggere,
come una corda di violino che sta per spezzarsi. Questo è
spaventoso. Spaventosa è l’esperienza schiacciante di Dio,
della donna che i mistici e gli amanti vivono come un mo-
mento di terrore, come un fiume che riceve l’oceano dentro
di sé, qualcosa che dà le vertigini, un’ebbrezza, un senso di
realizzazione e annichilimento.
Bisogna essere furbi. Non si può venire qui facendo affi-
damento in forze che non siamo in grado di tirare fuori
completamente. Fidando sulla capacità di acuire le nostre
forze nervose, quel che si potrebbe chiamare un fecondo
stato di coscienza. Non siamo capaci di questo nel nostro
mondo, nella nostra cultura. Dobbiamo trovare altri sentie-
ri, attaccare da un altro lato. La nostra fonte fertile è qual-
cosa di differente dalla realtà: chiamiamola fantasia. Quel
che noi chiamiamo fantasia è come un polmone che inspira
alcuni elementi oggettivi: un cavallo che viene frustato sul-
la strada, una ragazza di quattordici anni che ha degli occhi
che sembrano delle noci che uno ha voglia di schiacciare...

123

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
non importa che cosa. Questo polmone è esattamente come
i nostri polmoni che inalano sostanze chimiche, ossigeno,
azoto e le trasformano in qualcosa che è difficile da definire,
la vita, che nessuno scienziato ha saputo spiegare esatta-
mente. Questo è la fantasia, questo polmone che si imbeve
di tutti questi fenomeni obiettivi e li trasforma in qualcosa
d’altro, che è la nostra vita interiore. Ed è questo che si
tratta di saper “sfruttare”, ciò che possiamo chiamare la no-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

stra mitologia, le nostre rappresentazioni, le nostre imma-


gini.
Fate attenzione, tutto questo può benissimo essere finzio-
ne. Io posso benissimo stare qui a raccontarvi una storia, e
generalmente, quando racconto una storia, la racconto ben
cosciente che attraverso questa storia io rivelo qualcosa di
me stesso, anche se questa storia è completamente inventa-
ta. Quando lascio fluire il mio discorso, so che anche se
cerco di nascondermi dietro le parole, e cerco di dar loro un
significato intellettuale ben preciso, tuttavia, dietro ogni
parola c’è una testa che fa capolino. L’arte è fingere. E que-
sto vuol dire: l’arte è, attraverso la finzione, saper costruire
una verità.
Cercate, con le improvvisazioni, di chiarificare a voi stes-
si questo processo. Cercate di combattere gli automatismi
che fanno che voi camminiate sempre allo stesso modo, vi
muoviate sempre allo stesso modo, semplicemente perché
camminare è soltanto camminare, bere un bicchier d’acqua
è soltanto bere un bicchier d’acqua.
Voi attraversate la soglia dell’improvvisazione. Come ci si

124

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
può lasciar andare, attraverso la finzione, e rimanere sem-
pre al timone, attenti ai dettagli, alla logica di una rotta che
vi appartiene?

I due frammenti di diario, le parole registrate, sono abba-


stanza lontani perché oggi possa commentarli come og-
getti che non mi appartengono più.
Essi possono far intendere, meglio di una descrizione,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

cosa sia il processo creativo dell’attore nell’improvvisa-


zione.
È un processo assai simile a quello che si vede testimo-
niato dalle parole registrate che, proprio perché parole,
possono essere conservate e trasmesse senza perdere il
loro valore di documento. I due brani mostrano due mo-
menti che sono presenti anche nel lavoro dell’attore: da
una parte un lasciarsi andare, un sentirsi libero e sicuro di
dire (fare) anche le cose più strane, ingiustificate, perso-
nali; dall’altra un’analisi meticolosa, uno sguardo da ser-
gente che sottopone tutto ad un esame freddo, senza sen-
timento, spietato nel senso di non tener conto di nulla se
non dei dati obiettivi. È nell’equilibrio fra calore e fred-
dezza, fra ingenuità e disincanto, fra “religione” e “atei-
smo” che il lavoro creativo dell’attore (del regista, del
gruppo) si sviluppa.
All’interno di ognuno dei singoli brani si può ritrovare
la compresenza di questi due momenti.
Il primo – una vera e propria improvvisazione verba-
le – mostra, però, una certa cura e una certa tecnica del

125

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
racconto, una specie di cautela, avvertibile qua e là, per
cui chi racconta sorveglia le sue parole, maschera – con
immagini che depistino l’ascoltatore – i bivii e i nodi che
sarebbero troppo rivelatori, in cui il racconto diventereb-
be troppo esplicito ed autobiografico. Se il racconto è
“sincero”, lo è perché si batte continuamente contro la
tentazione d’essere spontaneo, non sorvegliato, di crolla-
re in una confessione personale che isola, che non per-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

mette di raggiungere l’altra riva.


Il secondo brano, malgrado il suo tono freddo, razioci-
nante, spesso sembra nutrirsi di un mondo di immagini
personali, alogico, arbitrario. Ma questa apparente alogi-
cità, questa arbitrarietà non è altro che la nostra logica
individuale. Possiamo chiaramente motivarla a noi stessi
anche se sappiamo che sarebbe ridicolo cercare di moti-
varla agli altri. Questa apparente alogicità, però, deve tra-
sformarsi subito in qualcosa di oggettivo, in ragioni obiet-
tive.
Così il lavoro dell’attore può essere eseguito a freddo,
può tendere a risultati molto ben definiti e programmati,
ma non deve esaurirsi tutto in questa superficie di esecu-
zione, sia pure altamente professionistica; deve lasciare
intravedere dietro, come un’ombra, l’universo emotivo,
personale e irripetibile di un individuo presente in prima
persona. L’elemento personale non può mai essere in pri-
mo piano, neppure quando l’attore improvvisa. Ciò che
sfaccetta l’azione dell’attore, dà forma alla sua arte – o
alla sua ambiguità – è la dialettica fra il “personale” e il

126

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
“pubblico”. Ma è l’obiettività della sua azione che innan-
zi tutto conta. La sua presenza in prima persona è l’om-
bra, l’eco che dà vita al corpo, alla voce, ma che non è
nulla se non ombra o eco, appunto, di un corpo e di una
voce sperimentabili, dall’esterno, in tutta la loro oggetti-
vità.
Gli spettatori hanno spesso la tendenza ad identificare
l’individualità dell’attore attraverso le sue azioni teatrali.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Quanto più queste sono efficaci e appaiono “spontanee”


allo spettatore, tanto più questi è portato ad interpretare
il teatro come una sorta di psicodramma particolarmente
ben riuscito. È un errore di ottica che a volte passa dallo
spettatore all’attore stesso, il quale crede che la sua forza
di attore, la sua efficacia dipenda da quanto di personale,
di importante, di incandescente riuscirà a dire (a “libera-
re”) nelle improvvisazioni. Quel che decide della forza di
un’improvvisazione non è il suo grado di drammaticità,
ma la sua precisione. L’attore può reagire ad un mondo
immaginario estremamente semplice, persino quotidiano
e banale, un mondo che può al limite non interessargli
affatto, ma che ricostruisce per le esigenze del suo lavoro.
Se però egli lo costruisce con precisione, se si muove in
esso con precisione, allora ciò che fa assume senso per chi
lo guarda.
Non si insisterà mai abbastanza sui rischi della persona-
lizzazione nel lavoro dell’attore, sui rischi di una conce-
zione psicologistica che non fa che ripercorrere i vecchi
preconcetti e le vecchie mitologie sull’attore. Rischi che

127

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
diventano addirittura deleteri, capaci di distruggere ogni
possibilità di creazione, quando il regista si lascia attrarre
dalla tentazione luciferina di lavorare sul livello personale
degli attori.
Questa, in fondo, può essere l’unica “regola” che deve
guidare il lavoro dell’attore e del regista nelle improvvisa-
zioni: “quel che conta è il risultato obiettivo: le azioni,
non le intenzioni”.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Per il resto non esistono regole, né tabù. L’attore – co-


me il regista – deve nutrire un’atteggiamento assoluta-
mente spregiudicato nei confronti della sua arte, una spe-
cie di amoralismo che gli permetta di indirizzarsi verso
l’essenziale. Alcuni attori lavorano in uno stato di tensio-
ne e coinvolgimento emotivo, altri lavorano a freddo, in
una situazione di cosciente e voluta menzogna. Alcuni si
costruiscono una precisa linea d’azione, altri procedono
a caso, lasciando, quasi, che siano le circostanze a decide-
re. Tutto questo non è importante. Importante è che nel
processo ci sia una logica, che la logica abbia un preciso
punto di partenza e si traduca in precise azioni fisiche.
Nell’“improvvisazione verbale” riportata più sopra tut-
to ciò era chiaro. Non si trattava di un “racconto”, ma di
un “raccontare” attraverso una serie di andirivieni, dub-
bi, cambiamenti di strada, mutamenti di tono, contraddi-
zioni che partivano da un punto “non importa quale”, che
forse aveva senso solo per chi parlava, ma era qualcosa di
preciso, di netto, una stazione ben costruita da cui può
iniziare un viaggio. Ma il viaggio, nel suo percorso, non

128

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
riproduce l’immagine né ritrova l’atmosfera della stazione
di partenza. L’importante è partire, e finire molto lontani
dal punto in cui si era iniziato. Finire in qualcosa, però,
che abbia senso per gli altri e da cui gli altri, a loro volta,
possano partire.
È questa dialettica che caratterizza il rapporto regista-
attori, attori-regista, spettacolo-spettatori. È un rapporto
di traduzioni e tradimenti continui in cui l’uno parte dal
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

punto in cui l’altro è arrivato. Non è importante “capirsi”


né trasmettere qualcosa di identico per tutti. È importan-
te costruire il ponte, scoprire le relazioni, crearne d’altre:
mettere in azione, permettere una reazione.
Lo spettatore “tradisce” lo spettacolo (attori e regista)
quando ne traduce le immagini nel proprio modo di im-
maginare, di pensare, di giudicare e di vedere.
L’attore “tradisce” il regista quando colora in maniera
personale la struttura dello spettacolo, quando si batte
contro la partitura di azioni e reazioni rigidamente fissate
come contro una rete da far crollare, con un’energia che
fa mutare di senso ad ogni segno, che lo rende ambiguo,
e che appare allo spettatore esattamente il contrario di
quello che è: l’energia di un’azione improvvisata, che na-
sce sul momento. Così, per un errore ottico identico,
quanto più un arco spinge verso il basso, tanto più sembra
percorso da forze che lo spingono in alto.
Il regista “tradisce” le intenzioni degli attori quando
“oggettivizza” e monta le loro azioni o frammenti di esse
nello spettacolo. Una mitologia delle improvvisazioni fa

129

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
spesso credere che in esse si racchiudano dei “significati”
con i quali lavori il regista. In realtà le improvvisazioni
costituiscono solo la materia prima dello spettacolo, le
pietre e i mattoni che, a seconda delle esigenze del mon-
taggio, e non della loro interna essenza, verranno tagliati
in questo o quest’altro modo, usati per questa o quest’al-
tra parte dell’edificio.
Ciò non significa svalutare il lavoro delle improvvisazio-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ni. È dalla qualità dei materiali improvvisati che dipende,


in gran parte, la qualità dello spettacolo. È dalla logica e
dal rigore con cui l’attore lavora sui suoi materiali che
dipende, per lui, la possibilità di prolungare il proprio
processo creativo nello spettacolo definitivamente fissato,
ogni sera.
Solo se il mattone, la pietra dell’improvvisazione è cari-
ca di energia, essa può continuare ad appartenere all’at-
tore anche dopo che è stata utilizzata dal regista. Questa
carica di vita, di autonomia, si scontra, percorre e trasfor-
ma a sua volta la logica e il montaggio del regista.
Ancora una volta è la tensione che decide della vita
dell’organismo teatrale. L’espropriazione, qui, non paga.
Se l’attore lascia che i suoi materiali gli vengano comple-
tamente espropriati dal regista, quel che attori e regista si
troveranno in mano sarà solo un pugno di sabbia.
Ma non paga neppure il pacifismo, l’umanitarismo: se il
regista non cerca di appropriarsi in modo personale del
lavoro creativo dell’attore, questo rimane allo stato mole-
colare, la sabbia di un’aiuola privata.

130

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Uno spettacolo è, in realtà, il risultato di uno scontro
che si svolge in una situazione di accettazione e di fiducia
reciproche. Da questa dialettica dipende la profondità e
l’ampiezza in cui può svilupparsi il lavoro creativo di un
gruppo di persone.
È inutile pensare che si possa imparare un modo di agi-
re (o di parlare) libero e sicuro, creativo.
Si possono solo cercare e trovare le persone di fronte
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

alle quali ci si senta liberi, sicuri quando si agisce, quando


si parla – quando si “crea”.

3. Sul teatro come arte del far vedere


Vedere non è una situazione passiva. È un agire, un lavo-
ro. Al lavoro dell’attore è connesso il lavoro dello spetta-
tore. C’è, effettivamente uno spettatore passivo, il cui
sguardo è come abbandonato ad una corrente uniforme,
come davanti a un film di cui si sa già tutto e che si lascia
scorrere pigramente davanti agli occhi. È uno sguardo
amorfo e senza energia che risponde al gesto amor-
fo – senza forma, non modellato – dell’attore. È lo sguar-
do del teatro della ridondanza o del movimento al posto
dell’azione.
Il vedere comincia ad essere un agire quando è sforzo
per comprendere, per distinguere qualcosa che si sa e non
si sa riconoscere, per discernere che cosa sia essenziale,
quale sia la relazione fra i vari movimenti che ci capitano
sotto gli occhi.

131

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Il teatro non deve generare un vedere facile, né lo spet-
tatore dovrebbe accettarlo. In fondo significa, per lui,
abdicare alla sua prerogativa di individuo creatore di sto-
ria e di coscienza. È accettare di accontentarsi della super-
ficie della realtà, senza penetrare sotto la crosta, senza
capire. Saper far vedere e saper vedere presuppongono,
in fondo, un addestramento alla dialettica. All’unica di-
sciplina che non impariamo a scuola, la base per com-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

prendere le forze che regolano la vita fisica, biologica,


sociale.
Come riportare, nel teatro, in una situazione artificiale,
la complessità e la forza che caratterizzano la vita di un
individuo, di una società?
È possibile restituire quel che nella realtà è così forte,
che quando si tenta di riprodurlo si trasforma in una pa-
rodia, in un muto fantasma?
È possibile riportare in teatro tutti gli orrori, la grandez-
za, la profondità e la simultaneità dell’esistenza dell’uo-
mo, della sua storia individuale e sociale, senza appiattir-
li, senza ridurli ad un’immagine a due dimensioni? Ma al
contrario: potenziandoli come sotto le lenti di un micro-
scopio, come portando in primo piano la dinamica di for-
ze che percorre – spesso non percepita – ogni frammento
di realtà?
È come se uno dovesse dimenticare le categorie esteti-
che e riportarsi alla scienza del bios, della vita.
Fra il lavoro dell’attore per dominare e modellare le
proprie energie fisiche e il momento in cui tutto il suo

132

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
processo creativo sbocca in qualcosa di obiettivo, di so-
ciale, in uno spettacolo, fra questi diversi momenti non
c’è frattura.
Le opposizioni che regolano il processo vivente non ca-
ratterizzano solo l’organismo dell’attore, non riguardano
solo la tensione fra il suo peso e la sua spina dorsale, fra
impulso e controimpulso. Ritroviamo opposizioni fonda-
mentali da cui partire anche a tutti i livelli superiori, a li-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

vello individuale, a livello sociale.


Così come il training può rivelare le tensioni nascoste
sotto i movimenti, lo spettacolo può essere la rappresen-
tazione non della “realtà” della superficie e dei colori del-
la storia, ma dei suoi muscoli e dei suoi nervi, del suo
scheletro, di ciò che si vede soltanto in una storia scarni-
ficata: i rapporti di forza, le spinte socialmente centrifu-
ghe e centripete, la tensione fra libertà e organizzazione,
fra intenzioni e azioni, fra uguaglianza e potere.

Quel che il teatro dice a parole non è, in fondo, molto


importante. Quel che conta nel teatro è rivelare relazioni,
è mostrare la superficie dell’azione e insieme il suo inter-
no, gli organi che sono al lavoro, le forze opposte, il modo
in cui l’azione si divide e si suddivide in segmenti fra loro
correlati, il modo in cui è agita e il modo in cui è patita.
In questo senso, il teatro è come le tavole anatomiche
degli antichi trattati sul corpo umano. Per gli amanti
dell’arte e per i mercanti esse sono opere d’arte; per il
medico sono preziosi strumenti di conoscenza; per il filo-

133

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
sofo sono spesso chiare ed efficaci allegorie dell’opposi-
zione fra apparenza e realtà, spiritualità e materialità
dell’uomo, fra la vita e la morte. L’immagine della morte,
infatti, sembra affiorare dall’interno stesso dell’organi-
smo vivente.
Ma per l’incisore che le componeva, le tavole anatomi-
che erano opera di precisione, di scomposizione e di ri-
composizione della realtà così come a lui risultava sotto la
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

copertura dei vestiti e la liscia superficie della pelle: per-


corsa da onde e da avvallamenti, da scissioni e da fasci di
legamenti, da leve, contrappesi e giunture.
Nei secoli passati, esistevano i “teatri anatomici”. An-
che allora si mischiavano, sulle gradinate, spettatori affa-
mati e assetati e spettatori curiosi e fatui, filosofi acciglia-
ti e giovani religiosi attratti dal mistero fascinante e
tremendo dell’uomo aperto.
In basso, il chirurgo e l’uomo aperto nascondevano,
dietro il palesamento degli organi e la meticolosità delle
proprie indicazioni, il proprio mistero: come è arrivato
qui? – ci si domandava dell’uno – Perché lo fa? – ci si do-
mandava dell’altro.
Simile all’uno e all’altro insieme – al corpo aperto, e al
chirurgo sapiente ed eretico che lo apre – è la presenza
dell’attore, e quel che malgrado tutto è il suo mistero. Il
nostro teatro anatomico non riguarda soltanto il corpo
dell’uomo. Riguarda le sue azioni, e le sue relazioni negli
avvenimenti sociali, nei conflitti storici: le tensioni e le

134

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
opposizioni che costituiscono le regole profonde delle
diverse realtà.
Significa: visione di ciò che si nasconde sotto l’epider-
mide. Simile al teatro anatomico è il teatro a cui noi pen-
siamo, a metà fra spettacolo e scienza, fra didattica e tra-
sgressione, fra orrore e ammirazione.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

135

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
antropologia teatrale

A Iben, Katsuko, Sanjukta


Documento acquistato da () il 2023/11/13.

In quali direzioni può orientarsi un attore occidentale per


costruirsi le basi materiali della sua arte? È questa la do-
manda cui l’antropologia teatrale tenta di rispondere. Es-
sa non risponderà, pertanto, né al bisogno di analizzare
scientificamente in che consista il “linguaggio dell’atto-
re”, né alla domanda fondamentale per chi fa teatro: co-
me si diventa un buon attore?
L’antropologia teatrale non cerca princìpi universal-
mente veri, ma indicazioni utili. Non ha l’umiltà di una
scienza, ma l’ambizione di individuare le conoscenze uti-
li all’azione dell’attore. Non vuole scoprire “leggi”, ma
studiare regole di comportamento.
Originariamente, il termine “antropologia” veniva
compreso come lo studio del comportamento dell’uomo
non solo a livello socio-culturale, ma anche a livello fisio-
logico. L’antropologia teatrale, di conseguenza, studia il
comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in
una situazione di rappresentazione.

137

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Princìpi simili e spettacoli diversi
Diversi attori, in luoghi ed epoche diverse, fra i molti
princìpi propri di ciascuna tradizione, in ciascun paese,
si sono serviti anche di alcuni princìpi simili. Rintraccia-
re questi “princìpi-che-ritornano” è il primo compito
dell’antropologia teatrale.
I “princìpi-che-ritornano” non sono prove dell’esisten-
za di una “scienza del teatro” o di alcune leggi universali;
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sono consigli particolarmente buoni, indicazioni che han-


no una forte probabilità di risultare utili alla prassi teatra-
le.
I “buoni consigli” hanno questa particolarità: possono
essere seguiti o ignorati. Non sono tassativi come le leggi:
o addirittura possono essere rispettati proprio per poter-
li infrangere e superare.
L’attore contemporaneo occidentale non ha un reperto-
rio organico di consigli su cui appoggiarsi e orientarsi. Ha
come punti di partenza, in genere, un testo o le indicazio-
ni di un regista. Ma gli mancano quelle regole di azione
che, pur non restringendo la sua libertà artistica, lo aiuti-
no nel suo compito.
L’attore tradizionale d’Oriente, al contrario, si basa su
un corpo organico e ben sperimentato di “consigli asso-
luti”, cioè delle regole d’arte che assomigliano alle leggi
di un codice: codificano uno stile d’azione chiuso in se
stesso e a cui tutti gli attori di quel genere debbono ade-
guarsi.

138

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Naturalmente, l’attore che si muove all’interno di una
rete di regole codificate ha una maggiore libertà artistica
di colui che – come l’attore occidentale – è prigioniero
dell’arbitrio e della mancanza di regole. Ma l’attore orien-
tale paga la sua maggiore libertà con una specializzazione
che gli offre minori possibilità di uscir fuori dai territori
che conosce. Un complesso di precise e utili regole prati-
che per l’attore sembra che possa esistere solo a condizio-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ne di essere regole assolute, chiuse alle influenze di espe-


rienze e tradizioni esterne. Quasi tutti i maestri teatrali
orientali impediscono ai loro allievi di occuparsi di forme
di spettacolo diverse da quella da loro praticata. A volte
chiedono loro di non recarsi neppure a vedere altre forme
di teatro o di danza. Sostengono che è così che si preserva
la purezza dello stile dell’attore, e che si dimostra la sua
totale dedizione verso la propria arte.
Tutto accade come se le regole di comportamento tea-
trale si sentissero minacciate dalla loro stessa evidente
relatività, quasi soffrissero di non essere vere e proprie
leggi. Questo processo di difesa ha almeno il pregio di
evitare la tendenza patologica che spesso la consapevolez-
za della relatività delle regole comporta: la totale mancan-
za di regole e l’arbitrio. Così, come un attore Kabuki può
ignorare i migliori “segreti” del Nō, è sintomatico che
Étienne Decroux – forse l’unico maestro europeo che ab-
bia elaborato un complesso di regole paragonabile a quel-
lo di una tradizione orientale – cerchi di trasmettere ai
propri allievi la stessa rigorosa chiusura nei confronti del-

139

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
le forme di teatro diverse dalle proprie. Nel caso di De-
croux, come nel caso dei maestri orientali, non si tratta di
ristrettezza mentale, né tanto meno di intolleranza. Si
tratta della consapevolezza che le basi e i princìpi di par-
tenza di un attore vanno difesi come il suo bene più pre-
zioso, un bene che sarebbe irrimediabilmente inquinato e
distrutto dal sincretismo, e che va salvaguardato anche a
rischio dell’isolamento.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Il rischio dell’isolamento consiste nel pagare la purezza


con la sterilità. I maestri che chiudono i propri allievi nel-
la riserva di un corpo di regole che per avere forza finge
di ignorare la propria relatività, e quindi l’utilità del con-
fronto, preservano certamente la qualità della propria
arte, ma ne minacciano il futuro.
Un teatro, però, può aprirsi alle esperienze degli altri
teatri non per intrecciare maniere diverse di far spettaco-
li, ma per rintracciare princìpi simili in base ai quali tra-
smettere le proprie esperienze. In questo caso l’apertura
al diverso non significherebbe necessariamente una cadu-
ta nel sincretismo e nella confusione delle lingue. Da una
parte si eviterebbe il rischio dell’isolamento sterile,
dall’altra quello di un’apertura a tutti i costi, che degene-
rerebbe nella promiscuità. Pensare, sia pure in via teorica
e astratta, ad una base pedagogica comune non significa,
infatti, pensare ad un modo comune di fare teatro. «Le
arti – ha scritto Decroux – si assomigliano nei loro prin-
cìpi, non nelle loro opere». Potremmo aggiungere: anche

140

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
i teatri non si assomigliano nei loro spettacoli, ma nei loro
princìpi.
L’antropologia teatrale vuole studiare quei princìpi:
non le profonde e ipotetiche ragioni di quelle somiglian-
ze, ma i loro possibili usi. Facendolo, sa di rendere un
servizio sia all’uomo di teatro occidentale che a quello
orientale, sia a chi ha una tradizione sia a chi ne soffre la
mancanza, sia a chi è colpito dalla degenerazione, sia a chi
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

è minacciato dalla purezza.

Lokadharmi e Natyadharmi
«Noi abbiamo due parole – mi dice Sanjukta Panigra-
hi – per indicare il comportamento dell’uomo: l’una, lo-
kadharmi, indica il comportamento (dharmi) della gente
comune (loka); l’altra, natyadharmi, indica il comporta-
mento dell’uomo nella danza (natya)».
Nel corso degli ultimi anni ho visitato numerosi mae-
stri di teatri diversi. Con alcuni di loro ho collaborato a
lungo. Lo scopo della mia ricerca non era lo studio di ciò
che caratterizzava le diverse tradizioni, non ciò che ren-
deva uniche le loro arti, ma ciò che le accomunava ad
altre forme d’arte d’Oriente e d’Occidente. Quella che
all’inizio era una mia ricerca quasi isolata, lentamente è
divenuta la ricerca di un gruppo di persone che com-
prende uomini di scienza, studiosi di teatro europei ed
asiatici, artisti appartenenti a diverse tradizioni. A questi
ultimi va, in modo particolare, la mia gratitudine: la loro

141

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
collaborazione si è caratterizzata per una forma partico-
lare di generosità che ha abbattuto le barriere della riser-
vatezza per rivelare i “segreti” e quasi le intimità del loro
mestiere. Una generosità che a volte è arrivata ad una
forma di calcolata temerarietà nel porsi in situazioni di
lavoro che obbligavano alla ricerca del nuovo e che rive-
lavano una curiosità per l’esperimento insospettabile in
artisti che sembravano i fedeli sacerdoti d’una tradizione
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

im­mutabile1.
Gli attori orientali, anche quando fanno una dimostra-
zione tecnica, fredda, posseggono una qualità di presenza
che colpisce lo spettatore e lo obbliga a guardarli. In tale
situazione non esprimono niente, eppure vi è in essi come
un nocciolo di energia, come un’irradiazione suggestiva e
sapiente, ma non premeditata, che capta i nostri sensi. Ho
pensato a lungo che si trattasse di una particolare “forza”
dell’attore, acquisita con anni ed anni di esperienze e di
lavoro, di una particolare dote tecnica. Ma ciò che noi
chiamiamo “tecnica” è un’utilizzazione particolare del
nostro corpo.
Noi utilizziamo il nostro corpo in maniera sostanzial-
mente differente nella vita quotidiana e nelle situazioni di
“rappresentazione”. A livello quotidiano abbiamo una
tecnica del corpo condizionata dalla nostra cultura, dal
nostro stato sociale, dal nostro mestiere. Ma in una situa-
zione di “rappresentazione” esiste un’utilizzazione del

1
Cfr. Ringraziamenti, infra, pp. 181 sgg..

142

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
corpo, una tecnica del corpo che è totalmente differente.
Si può quindi distinguere una tecnica quotidiana da una
tecnica extra-quotidiana.
Le tecniche quotidiane non sono consapevoli: ci muo-
viamo, ci sediamo, portiamo i pesi, baciamo, indichiamo,
annuiamo e neghiamo con gesti che crediamo “naturali”
e che sono, invece, culturalmente determinati. Le diffe-
renti culture insegnano diverse tecniche del corpo secon-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

do se si cammini o no con le scarpe, se si portino i pesi


sulla testa o in mano, se si baci con la bocca o con il naso.
Il primo passo per scoprire quali possono essere i princì-
pi del bios teatrale dell’attore, la “vita dell’attore”, consi-
ste, allora, nel comprendere che alle tecniche quotidiane
del corpo si contrappongono delle tecniche extra-quoti-
diane, cioè delle tecniche che non rispettano gli abituali
condizionamenti dell’uso del corpo.
A queste tecniche extra-quotidiane fanno ricorso colo-
ro che si pongono in una situazione di rappresentazione.
Spesso in Occidente non è evidente e consapevole la
distanza che separa le tecniche quotidiane del corpo da
quelle extra-quotidiane che caratterizzano il comporta-
mento dell’uomo nel teatro. In India, invece, è una diffe-
renza ovvia, sancita dalla nomenclatura: lokadharmi e
natyadharmi.
Le tecniche quotidiane del corpo sono in genere carat-
terizzate dal principio del minimo sforzo: cioè il conse-
guimento della massima resa con il minimo impiego di
energia. Le tecniche extra-quotidiane si basano, al con-

143

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
trario, sullo spreco dell’energia. A volte sembrano addi-
rittura suggerire un principio speculare rispetto a quello
che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo: il prin-
cipio del massimo impiego di energia per un minimo ri-
sultato.
Quando ero in Giappone con l’Odin Teatret, mi chie-
devo cosa significasse l’espressione con cui gli spettatori
ringraziavano gli attori alla fine dello spettacolo: otsuka-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ràsama. Il significato esatto di questa espressione – una


delle tante formule che l’etichetta giapponese permette, e
che è particolarmente indicata per gli attori – è: “tu sei
stanco”. L’attore che ha interessato o colpito lo spettatore
è stanco perché non ha risparmiato le sue energie, e di
questo viene ringraziato.
Ma lo spreco, l’eccesso nell’uso dell’energia non basta a
spiegare la forza che caratterizza la vita dell’attore. È evi-
dente la differenza fra questa “vita” e la vitalità di un acro-
bata e persino di certi momenti di maggior virtuosismo
dell’Opera di Pechino e di altre forme di teatro o danza.
In questi casi, gli acrobati, i danzatori, gli attori ci mostra-
no un “altro corpo”, un corpo che segue tecniche assai
diverse da quelle quotidiane, ma così diverse da perdere
apparentemente ogni contatto con queste. Non si tratta
più di tecniche extra-quotidiane, ma semplicemente di
“altre tecniche”. In questo caso non c’è più la tensione
dell’allontanarsi, non c’è più quella sorta di “energia ela-
stica” che caratterizza le tecniche extra-quotidiane quan-
do si contrappongono alle tecniche quotidiane. In altre

144

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
parole non c’è più relazione dialettica, ma solo distanza:
l’inaccessibilità, insomma, di un corpo di virtuoso.
Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comuni-
cazione, quelle del virtuosismo tendono alla meraviglia e
alla trasformazione del corpo. Le tecniche extra-quotidia-
ne, invece, tendono all’informazione: esse, alla lettera,
mettono-in-forma il corpo. In ciò consiste la differenza
essenziale che le divide da quelle tecniche che invece lo
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

trans-formano.

L’equilibrio in azione
La constatazione di una particolare qualità di presenza
che gli attori orientali spesso posseggono ci ha portato
alla distinzione tra tecniche quotidiane, tecniche del vir-
tuosismo e tecniche extra-quotidiane del corpo. Sono
queste ultime che riguardano la vita dell’attore. Esse la
caratterizzano prima ancora che questa vita cominci a rap-
presentare qualcosa o ad esprimersi.
L’affermazione precedente non è facile da accettarsi per
un occidentale: esiste forse un livello dell’arte dell’attore
in cui egli è vivo, presente, ma senza rappresentare né si-
gnificare nulla?
Forse solo chi conosce bene il teatro giapponese può
accogliere come normale l’affermazione in questione. È
giusto, quindi, che sia un giapponese a fornirci un esem-
pio estremo ma lampante di come la vita dell’attore pos-
sa essere priva di ogni carattere di rappresentazione, e

145

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
limitarsi ad essere fortemente presente. “Essere forte-
mente presente” pur senza nulla rappresentare è, per un
attore, un ossimoro, una contraddizione in termini: l’at-
tore, infatti, per il suo stesso stare davanti agli spettatori,
sembra dover per forza rappresentare qualcosa o qualcu-
no. Moriaki Watanabe definisce così l’ossimoro dell’at-
tore della pura presenza: si tratta di un attore che rappre-
senta la propria assenza. Sembra un gioco del pensiero,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ed è, invece, una figura del teatro giapponese.


Nel Nō, nel Kabuki e nel Kyogen, Watanabe individua
una figura intermedia fra le due, che in Europa, come nel
teatro moderno giapponese, sembrano esaurire la figura
dell’attore: la sua identità reale e la sua identità finta. Per
esempio, nel teatro Nō, il secondo attore, il waki, spesso
rappresenta il proprio non-esserci, cioè il suo assentarsi
dall’azione. Egli mette in opera una complessa tecnica
extra-quotidiana del corpo che non deve servire a espri-
mere, ma a “far notare la sua capacità di non esprimere”.
Questa negazione artisticamente elaborata si ritrova inol-
tre in quel passaggio del Nō quando il personaggio prin-
cipale – lo shite – deve scomparire. L’attore, ormai spo-
gliato del suo personaggio, ma non per questo ridotto
alla sua identità quotidiana, si allontana dagli spettatori
senza voler esprimere niente, ma con la stessa energia che
caratterizza i momenti espressivi.
Anche i kokken, gli uomini vestiti di nero che assistono
l’attore in scena, sono chiamati a “recitare l’assenza”. La
loro presenza, che non esprime né rappresenta, attinge

146

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
così direttamente alle fonti della vita e dell’energia dell’at-
tore, che gli intenditori dicono che è più difficile essere
kokken che attore.
I casi che Watanabe ha analizzato (un suo studio sul
kyoko shantai, il corpo della finzione, è stato pubblicato
in Giappone) mostrano che esiste un livello in cui le tec-
niche extra-quotidiane del corpo riguardano l’energia
dell’attore per così dire allo stato puro, cioè al livello pre-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

espressivo. Nel teatro classico giapponese, questo livello


appare, a volte, allo scoperto. Esso, però, è sempre pre-
sente nell’attore: è la base stessa della sua vita.
Parlare di “energia” dell’attore significa utilizzare
un’immagine che si presta a mille equivoci. La parola
“energia” deve essere, invece, subito riempita di signifi-
cati molto concreti. Etimologicamente essa significa “es-
sere in opera, in lavoro”. Come avviene, allora, che il cor-
po dell’attore entri in lavoro – come attore – ad un livello
pre-espressivo? Con quali altre parole potremmo sostitu-
ire la nostra parola “energia”?
Chi traducesse in una lingua europea i princìpi degli
attori orientali, userebbe parole come “energia”, “vita”,
“forza”, “spirito” per tradurre termini come i giapponesi
ki-ai, kokoro, io-in, ko-shi; i balinesi taksù, virasa, chikara;
il cinese shun toeng; gli indiani prana, shakti. L’impreci-
sione delle traduzioni nasconde sotto grandi parole le
indicazioni pratiche dei princìpi della vita dell’attore.
Ho provato a percorrere la strada in senso inverso. Ho
chiesto ad alcuni maestri di teatri orientali se nella loro

147

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
lingua di lavoro esistessero parole che potevano tradurre
il nostro termine “energia”. «Noi diciamo che un attore
ha o non ha ko-shi per indicare che ha o non ha la giusta
energia nel lavoro», mi risponde l’attore Kabuki Sawamu-
ra Sojurō. Ma ko-shi, in giapponese, non indica un con-
cetto astratto, ma una ben precisa parte del corpo: le an-
che. Dire “hai ko-shi, non hai ko-shi” significa dire “hai le
anche, non hai le anche”. Ma cosa significa, per un attore,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

non avere le anche?


Quando camminiamo secondo le tecniche quotidiane
del corpo, le anche assecondano il movimento delle gam-
be. Nelle tecniche extra-quotidiane dell’attore Kabuki e
dell’attore Nō le anche, invece, debbono restare fisse. Per
bloccare le anche mentre si cammina, occorre piegare leg-
germente le ginocchia e usare il tronco come un solo bloc-
co, impiegando la colonna vertebrale, che si trova, così, a
premere verso il basso. Si creano, in tal modo, due diver-
se tensioni nella parte inferiore e nella parte superiore del
corpo, che obbligano a trovare un nuovo equilibrio. Non
si tratta di una scelta stilistica, ma di un mezzo per inne-
scare la vita dell’attore, che solo in un secondo momento
diventa una particolare caratteristica di stile.
La vita dell’attore, infatti, si basa su un’alterazione
dell’equilibrio. Quando siamo in posizione eretta, non
possiamo mai restare immobili. Anche quando sembria-
mo immobili, ci serviamo di minuscoli movimenti con i
quali spostiamo il nostro peso. Si tratta di una serie con-
tinua di aggiustamenti con cui il peso passa incessante-

148

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
mente a premere ora sulla parte anteriore, ora su quella
posteriore, ora sul margine destro, ora sul sinistro dei
piedi. Perfino nell’immobilità più assoluta questi micro-
movimenti sono presenti, a volte più ristretti, altre volte
più ampi, a volte più controllati, altre meno, a seconda
delle nostre condizioni fisiche, dell’età, del mestiere. Ci
sono laboratori scientifici specializzati nella misurazione
dell’equilibrio attraverso la misurazione dei diversi tipi di
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

pressione operata dai piedi sul terreno: ne risultano dia-


grammi nei quali ognuno può leggere quanti complicati e
laboriosi movimenti faccia per restare fermo. Sono stati
fatti esperimenti con attori professionisti. Risulta che se si
chiede loro di immaginare di portare un peso, di correre,
di camminare, di cadere, di saltare, già questa immagina-
zione produce immediatamente una modificazione del
loro equilibrio, mentre invece non lascia quasi traccia
nell’equilibrio di una persona normale, per cui l’immagi-
nazione resta un fatto quasi esclusivamente mentale.
Tutto questo può dir molto sull’equilibrio e sul rappor-
to fra processi mentali e tensioni muscolari; non dice
niente di nuovo, però, sull’attore. Dire, infatti, che un at-
tore è abituato a controllare la propria presenza fisica e a
tradurre in impulsi fisici le immagini mentali vuol dire
semplicemente che un attore è un attore. Ma le matasse
di micromovimenti rivelate dai laboratori scientifici in cui
si misura l’equilibrio ci mettono su un’altra traccia: esse
costituiscono come il nocciolo che, nascosto nel fondo
delle tecniche quotidiane del corpo, può essere modellato

149

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
e amplificato per potenziare la presenza dell’attore, per
trasformarsi, cioè, nella base delle sue tecniche extra-
quotidiane.

Chi ha visto uno spettacolo di Marcel Marceau si è certo


soffermato almeno un attimo a considerare lo strano de-
stino di quel mimo che compare sul palcoscenico solo per
pochi secondi, fra un numero e l’altro, reggendo un car-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tello su cui è annunciato il titolo del numero che Marceau


sta per eseguire. D’accordo – uno si dice – il mimo vuole
essere uno spettacolo muto, e anche gli annunci, per non
rompere il silenzio, debbono essere muti. Ma perché im-
piegare un mimo, un attore come portacartelli? Non si-
gnifica bloccarlo in una situazione disperante in cui, alla
lettera, non può far nulla?
Uno di quei mimi, Pierre Verry, che è stato a lungo il
mimo la cui azione consisteva nel presentare i cartelli dei
numeri di Marceau, un giorno ha raccontato come cer-
casse di raggiungere il massimo dell’esistenza scenica
nel breve istante in cui compariva sul palcoscenico
senza dovere – e senza potere – fare nulla. Ha detto che
la sua unica possibilità era rendere più forte possibile,
più viva possibile la posizione nella quale teneva alzato
il cartello. Per ottenere questo risultato nei pochi secon-
di della sua comparsa, doveva concentrarsi a lungo per
raggiungere un “equilibrio labile”. Così la sua immobi-
lità diventava un’immobilità non statica ma dinamica.
In mancanza d’altro, Pierre Verry era obbligato a ridur-

150

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
si all’essenziale, e scopriva l’essenziale nell’alterazione
dell’equilibrio.
Le posizioni base delle forme di teatro-danza orientale
sono altrettanti esempi di una distorsione cosciente e con-
trollata dell’equilibrio. Lo stesso può dirsi per le posizio-
ni base della danza classica europea e per il sistema del
mimo di Decroux: abbandonare la tecnica quotidiana
dell’equilibrio e cercare un “equilibrio di lusso” che dila-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ta le tensioni su cui il corpo si regge. Per ottenere questo


risultato, gli attori delle diverse tradizioni orientali defor-
mano la posizione delle gambe, delle ginocchia, il modo
di poggiare i piedi per terra, o riducono la distanza fra un
piede e l’altro, riducendo la base e rendendo precario l’e-
quilibrio. «Tutta la tecnica della danza – dice Sanjukta
Panigrahi parlando della danza Orissi, ma indicando un
principio generale per la vita dell’attore – è basato sulla
divisione del corpo in due metà uguali, secondo una linea
che lo attraversa verticalmente, e sulla suddivisione ine-
guale del peso ora su una parte ora sull’altra». La danza,
cioè, amplifica, come mettendole sotto un microscopio,
quei minuscoli e continui spostamenti di peso con cui ci
reggiamo fermi in piedi e che i laboratori specializzati nel-
la misura dell’equilibrio rivelano tramite complicati dia-
grammi.
È questa danza dell’equilibrio che gli attori e i danzatori
rivelano nei princìpi fondamentali di tutte le forme di te-
atro.

151

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
La danza delle opposizioni

Il lettore non si meraviglierà se parlo indifferentemente di


attore o danzatore così come passo con una certa indiffe-
renza dall’Oriente all’Occidente e viceversa. I princìpi di
vita di cui andiamo in cerca non tengono in alcun conto
le nostre distinzioni fra ciò che definiamo “teatro” o “mi-
mo” o “danza”. Queste distinzioni sono, d’altra parte,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

labili anche per noi. Gordon Craig, dopo aver ironizzato


sulle immagini arzigogolate usate dai critici per descrivere
il particolare modo di camminare del grande attore ingle-
se Henry Irving, aggiunge con semplicità: «Irving non
camminava sul palcoscenico, vi danzava». Lo stesso spo-
stamento dal teatro alla danza venne usato, ma questa
volta in senso negativo, per svalutare le ricerche di Mejer-
chol’d. Di fronte al suo Don Juan, alcuni scrissero che non
si trattava di vero teatro, ma di balletto. La rigida distin-
zione fra il teatro e la danza, caratteristica della nostra
cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione
che rischia continuamente di attrarre l’attore verso il mu-
tismo del corpo, e il danzatore verso il virtuosismo. Que-
sta distinzione apparirebbe assurda ad un artista orienta-
le, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei
di altre epoche storiche: ad un giullare o ad un comico del
Cinquecento. Possiamo chiedere ad un attore Nō o ad un
attore Kabuki come tradurrebbe, nella sua lingua di lavo-
ro, la parola “energia”, ma egli scuoterebbe la testa se gli

152

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
chiedessimo di tradurre la rigida distinzione fra danza e
teatro.
«Energia – diceva l’attore Kabuki Sawamura Soju-
ro – potrebbe essere tradotta con ko-shi».
E l’attore Nō Hideo Kanze: «Mio padre non diceva mai:
usa più ko-shi. Ma mi insegnava di che si trattasse facen-
domi camminare, mentre lui mi tratteneva per le anche».
Per vincere la resistenza, il torso è costretto a piegarsi
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

leggermente in avanti, le ginocchia si flettono, i piedi pre-


mono sul terreno e strisciano piuttosto che alzarsi in un
passo normale: ciò che risulta è la camminata di base del
Nō. L’energia come ko-shi si rivela non come il risultato
di una semplice e meccanica alterazione dell’equilibrio,
ma come il risultato di una tensione tra forze contrappo-
ste.
L’attore di Kyogen Mannojō Namura ricordava ciò che
dicevano gli attori della scuola Kita di Nō: l’attore deve
immaginare che al di sopra di lui vi sia un cerchio di ferro
che tira verso l’alto, e contro cui bisogna opporre resisten-
za per tenersi con i piedi al suolo. Il termine giapponese
per designare queste forze contrapposte è hippari hai, che
significa: tirare a sé qualuno che ti tira a sua volta. Nel
corpo dell’attore hippari hai avviene fra l’alto e il basso e
fra l’avanti e il dietro. Ma v’è hippari hai anche fra l’attore
e l’orchestra: essi, infatti, procedono non all’unisono, ma
cercando di allontanarsi l’uno dall’altra, sorprendendosi
vicendevolmente, rompendo l’uno il tempo dell’altra, pur

153

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
senza allontanarsi fino al punto di perdere il contatto e il
particolare legame che li oppone.
In questo senso, potremmo dire, allargando il concetto,
che le tecniche extra-quotidiane del corpo sono in un rap-
porto hippari hai, di trazione antagonista, con le tecniche
dell’uso quotidiano. Abbiamo visto, infatti, che si allonta-
nano da questa, ma mantenendo la tensione, senza cioè
distaccarsene e divenire estranee ad esse.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Uno dei princìpi attraverso cui il corpo dell’attore rive-


la la sua vita allo spettatore, dunque, in una tensione di
forze contrapposte, è il principio dell’opposizione. Attor-
no a questo principio, che ovviamente appartiene anche
all’esperienza dell’attore occidentale, le tradizioni codifi-
cate dell’Oriente hanno edificato diversi sistemi di com-
posizione.
Nell’Opera di Pekino, tutto il sistema codificato dei
movimenti dell’attore è retto sul principio per cui ogni
movimento deve iniziare dalla direzione opposta a quella
in cui si dirige. Tutte le forme di danza balinese sono co-
struite componendo una serie di opposizioni fra kras e
manis. Kras significa forte, duro, vigoroso; manis significa
delicato, soffice, tenero. I termini manis e kras possono
essere applicati a diversi movimenti, alle posizioni delle
diverse parti del corpo in una danza, ai momenti succes-
sivi di una stessa danza. Se si esamina una posizione di
base della danza balinese, si osserva come essa, che ad
uno sguardo occidentale può apparire bizzarra e forte-
mente stilizzata, sia il risultato di un conseguente alternar-

154

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
si di parti del corpo in posizione kras e parti del corpo in
posizione manis.
La danza delle opposizioni caratterizza la vita dell’atto-
re a differenti livelli. Ma, in generale, nella ricerca di que-
sta danza l’attore ha una bussola per orientarsi: il disagio.
Le mime est à l’aise dans le mal-aise, il mimo è a suo agio
nel disagio, dice Decroux, e questa sua massima trova una
serie di echi presso i maestri di teatro di tutte le tradizioni.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

La maestra di Katzuko Azuma le diceva che per verificare


se una posizione era assunta nel modo giusto doveva ba-
dare al dolore: se non duole è sbagliato. E sorridendo
aggiungeva: «Ma se duole non vuol necessariamente dire
che sia giusta». La stessa cosa ripetono Sanjukta Panigra-
hi, i maestri dell’Opera di Pekino, quelli di danza classica
o di danze balinesi. Il disagio diventa, allora, un sistema
di controllo, una specie di radar interno che permette
all’attore di osservarsi mentre agisce. Non si osserva tra-
mite gli occhi, ma tramite una serie di percezioni fisiche
che gli confermano che tensioni non abituali, extra-quo-
tidiane, abitano il suo corpo.
Quando chiedo a I Made Pasek Tempo quale sia, se-
condo lui, la dote principale per un attore e danzatore,
egli risponde che è il tahan, la capacità di resistenza. La
stessa consapevolezza si ritrova nella lingua di lavoro
dell’attore cinese. Per dire che un attore ha maestria, si
dice che ha kun-fu, che letteralmente significa “capacità
di tener duro, di resistere”. Tutto ciò ci riporta a quel che
in una lingua occidentale potremmo indicare con la pa-

155

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
rola “energia”; capacità di perdurare nel lavoro. E anco-
ra una volta questa parola rischia di trasformarsi in una
trappola.
Quando un attore occidentale vuole essere energico,
quando vuole usare tutte le sue energie, comincia a muo-
versi con grande vitalità nello spazio, sviluppa grandi mo-
vimenti, molta velocità e forza muscolare. Tutto ciò viene
associato alle immagini di “fatica”, di “lavoro duro”. Un
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

attore orientale (o un grande attore occidentale) può fati-


care molto di più quasi senza muoversi. La sua fatica non
è determinata da un eccesso di vitalità, dall’uso di grandi
movimenti, ma dal gioco delle opposizioni. Il suo corpo
diventa carico di energie perché in esso si stabilisce tutta
una serie di differenze potenziali che lo rendono vivo,
fortemente presente anche nei movimenti lenti o nell’ap-
parente immobilità.
La danza delle opposizioni si danza nel corpo prima che
con il corpo.
È essenziale comprendere questo principio della vita
dell’attore: l’energia non corrisponde necessariamente a
dei movimenti nello spazio.
Nelle diverse tecniche quotidiane del corpo, nel lo-
kadharmi, le forze che mettono in vita le azioni di disten-
dere o ritrarre un braccio o le gambe, o le dita di una
mano agiscono una alla volta. Nel natyadharmi, nelle tec-
niche extra-quotidiane, le due forze contrapposte (disten-
dere e ritrarre) sono in azione simultaneamente: o meglio,
le braccia, le gambe, le dita, la schiena, il collo si stendono

156

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
come resistendo a una forza che li obbliga a piegarsi e
viceversa.
Katzuko Azuma spiega, ad esempio, quali forze siano al
lavoro nel movimento – tipico tanto della danza Buyo
quanto del Nō – in cui il torso si inclina leggermente e le
braccia si distendono in avanti restando appena arcuate.
Lo spiega parlando di forze che agiscono in senso contra-
rio a ciò che si vede: le braccia – dice – non si distendono,
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

ma è come se stringessero verso il petto una grande sca-


tola. Per questo, andando verso l’esterno premono verso
l’interno, così come il torso, che è come spinto all’indie-
tro, oppone resistenza e si piega in avanti.

Le virtù dell’omissione
Il principio che si rivela attraverso la danza delle opposi-
zioni nel corpo è – contro tutte le apparenze – un princi-
pio che procede per eliminazione. Esso è lavoro isolato
dal proprio contesto, e perciò rivelato.
Le danze, che paiono un intreccio di movimenti assai
più complessi di quelli quotidiani, sono – in realtà – il
risultato di una semplificazione: compongono momenti
in cui le opposizioni che reggono la vita del corpo appa-
iono allo stato semplice. Ciò avviene perché un numero
ben delimitato di forze – di opposizioni – vengono isola-
te, eventualmente amplificate, e montate insieme o in
successione. Ancora una volta: si tratta di un uso antie-
conomico del corpo perché nelle tecniche quotidiane

157

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tutto tende a sovrapporsi, con risparmi di tempo e di
energia.
Quando Decroux scrive che il mimo è un “ritratto del
lavoro” compiuto dal corpo, ciò che dice può essere as-
sunto anche dalle altre tradizioni. Questo “ritratto del
lavoro” del corpo è uno dei princìpi che presiede alla vita
anche di coloro che poi lo nascondono, come per esempio
i danzatori del balletto classico, che dissimulano il peso e
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

la fatica dietro un’immagine di leggerezza e di facilità.


Il principio delle opposizioni, proprio perché le oppo-
sizioni sono l’essenza dell’energia, si collega al principio
della semplificazione. Semplificazione significa in questo
caso: omissione di alcuni elementi per metterne in rilievo
altri, che così appaiono essenziali.
Gli stessi princìpi che sottostanno alla vita del danzato-
re – con i suoi movimenti evidentemente lontani dai mo-
vimenti quotidiani – possono sottostare anche alla vita
dell’attore, i cui movimenti sembrano più prossimi all’uso
quotidiano. Non solo, infatti, si può omettere la comples-
sità dell’uso quotidiano del corpo per lasciare emergere
l’essenza del suo lavoro, il suo bios che si manifesta attra-
verso opposizioni fondamentali, ma si può anche omette-
re di distendere l’azione nello spazio.
Dario Fo spiega come la forza del movimento dell’atto-
re risulti dalla sintesi: cioè sia dalla concentrazione in un
piccolo spazio di un’azione che impiega grande energia,
sia dalla riproduzione dei soli elementi essenziali di un’a-
zione, eliminando quelli ritenuti accessori.

158

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Decroux – come gli attori indiani – considera il corpo
come limitato essenzialmente al tronco, e considera i mo-
vimenti delle braccia e delle gambe come movimenti ac-
cessori (o “aneddotici”) appartenenti realmente al corpo
solo se trovano origine nel tronco. Ciò significa, allora,
che possono percorrere la strada inversa: essere assorbiti
nei soli movimenti del tronco.
Si può parlare di questo processo – secondo cui si re-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

stringe lo spazio dell’azione – come di un processo di as-


sorbimento dell’energia.
Il processo di assorbimento dell’energia si sviluppa da
quello dell’amplificazione delle opposizioni, ma rivela
una nuova e diversa strada per individuare uno di quei
“princìpi-che-ritornano” che possono dimostrarsi utili
alla prassi teatrale.
L’opposizione fra una forza che spinge verso l’azione e
una forza che trattiene si traduce in una serie di regole che
contrappongono – per usare la lingua di lavoro dell’atto-
re Nō e dell’attore Kabuki – un’energia usata nello spazio
ad un’energia usata nel tempo. Secondo queste regole, i
sette decimi dell’energia dell’attore debbono essere usati
nel tempo e solo i tre decimi nello spazio. Gli attori dico-
no anche che è come se l’azione non terminasse lì dove il
gesto si arresta nello spazio, ma continuasse molto più
avanti.
Sia nel Nō che nel Kabuki esiste l’espressione tameru
che può essere rappresentata da un ideogramma cinese
che significa “accumulare”, o da un ideogramma giappo-

159

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
nese che significa “piegare” nel senso di piegare qualcosa
che è nello stesso tempo flessibile e resistente come per
esempio una canna di bambù. Tameru indica il trattenere,
il conservare. Da qui il tamé, la capacità di trattenere le
energie, di assorbire in un’azione limitata nello spazio le
energie necessarie per un’azione più ampia. Questa capa-
cità diventa, per antonomasia, un modo per indicare il
talento dell’attore in generale. Per dire che l’allievo ha o
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

non ha sufficiente presenza scenica, sufficiente forza, il


maestro gli dice che ha o non ha tamé.
Tutto questo può apparire il risultato di una codifica-
zione complicata ed eccessiva dell’arte dell’attore. In re-
altà si tratta di un’esperienza comune agli attori di diver-
se tradizioni: comprimere in movimenti ristretti le stesse
energie fisiche messe in moto per compiere un’azione più
ampia e pesante. Ad esempio: accendere una sigaretta
mobilizzando l’intero corpo, così come si mobilizza
quando dobbiamo sollevare non un cerino ma un grosso
pacco; accennare col mento e socchiudere appena la boc-
ca impiegando le stesse forze usate per avventarsi su
qualcosa e per morderla. Questo processo fa scoprire
una qualità d’energia che rende teatralmente vivo l’inte-
ro corpo dell’attore anche nell’immobilità. È per questo,
probabilmente, che le cosiddette “controscene” diven-
nero le grandi scene di molti celebri attori: obbligati a
non agire, a restare di lato, mentre altri svolgevano l’azio-
ne principale, essi erano capaci di assorbire in movimen-
ti quasi impercettibili le forze di azioni che, per così dire,

160

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
erano loro negate. E proprio in quei casi il loro bios risal-
tava con forza particolare e impressionava la mente dello
spettatore.
Le “controscene” non appartengono solo alla tradizio-
ne dell’attore occidentale. Fra il XVII e il XVIII secolo,
l’attore Kabuki Kameko Kichizaemon compilò un tratta-
to sull’arte dell’attore dal titolo Polvere nelle orecchie. Egli
dice che in certi spettacoli, quando uno solo degli attori
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sta danzando e gli altri volgono le spalle al pubblico e


siedono di fronte ai musicisti, gli attori che stanno così in
disparte usano rilassarsi. «Io non mi rilasso – scrive Ka-
meko Kichizaemon – ma eseguo l’intera danza nella mia
mente. Se non lo facessi, la vista della mia schiena sarebbe
così poco interessante da infastidire lo sguardo dello spet-
tatore».
Le virtù teatrali dell’omissione non consistono nel “la-
sciar perdere”, nell’indefinito, nella non-azione. In tea-
tro e per l’attore, omissione significa piuttosto “trattene-
re”, non gettar via, in un accesso di espressività e di
vitalità ciò che caratterizza la propria vita scenica. La
bellezza dell’omissione, infatti, è la bellezza dell’azione
indiretta, della vita che si rivela con il massimo di inten-
sità nel minimo di attività. Ancora una volta, è di un
gioco di opposizioni che si tratta, ma ad un livello, or-
mai, che conduce oltre il livello pre-espressivo dell’arte
dell’attore, e che quindi esula dai limiti che all’inizio ci
eravamo proposti.

161

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Intermezzo
Ci si potrebbe chiedere se i princìpi per la vita dell’attore
che abbiamo fino a qui incontrato non ci portino troppo
lontano dal teatro che noi conosciamo e pratichiamo in
Europa. Ci si potrebbe chiedere se essi siano davvero dei
buoni consigli utili alla pratica teatrale o se non siano,
invece, solo un miraggio. Ci si potrebbe chiedere se indi-
viduare il livello pre-espressivo dell’arte dell’attore non ci
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

distacchi dai veri problemi dell’attore europeo. Il livello


pre-espressivo non è forse verificabile solo in una cultura
teatrale altamente codificata? La tradizione europea non
è forse caratterizzata dalla mancanza di codificazione e
dalla ricerca di un’espressività individuale? Sono delle
domande impegnative e invece che a delle risposte imme-
diate ci provocano ad una pausa di riposo.
Parleremo, quindi, di fiori.
Se disponiamo dei fiori in un vaso lo facciamo perché
mostrino la loro bellezza, rallegrino la vista e l’olfatto.
Possiamo anche far loro assumere significati ulteriori:
pietà filiale o religione, amore, riconoscenza, rispetto. Ma
per belli che siano, i fiori hanno un difetto: strappati dal
loro contesto, continuano, però, a rappresentare se stessi.
Sono come l’attore di cui parla Decroux: un uomo con-
dannato a rassomigliare ad un uomo, un corpo che imita
un corpo. Il che può essere piacevole, ma non è sufficien-
te per l’arte. Perché ci sia arte, Decroux aggiunge, biso-
gna che l’idea della cosa sia rappresentata da un’altra

162

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
cosa. I fiori in un vaso, invece, sono irrimediabilmente
fiori in un vaso, soggetti d’opere d’arte a volte, ma mai
opere d’arte essi stessi.
Ma immaginiamo di usare i fiori recisi per rappresenta-
re qualche altra cosa: la lotta della pianta per crescere, per
allontanarsi dal terreno in cui affonda tanto più le radici
quanto più si alza verso il cielo. Immaginiamo di voler
rappresentare il passaggio del tempo, come la pianta
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

sbocci, cresca, si chini e muoia. Se riusciremo nel nostro


intento, i fiori rappresenteranno qualcosa d’altro dai fiori
e comporranno un’opera d’arte. Avremmo fatto, cioè, un
ikebana.
Ikebana significa – se si segue il valore dell’ideogram-
ma – “far vivere i fiori”. La vita dei fiori, proprio perché è
stata recisa, bloccata, può essere rappresentata. Il proce-
dimento è chiaro: qualcosa è stato strappato alle sue nor-
mali regole di vita (a questo stadio si fermano i nostri nor-
mali fiori disposti in un vaso) e quelle regole sono state
sostituite e ricostruite analogicamente con altre regole. I
fiori, per esempio, non possono agire nel tempo, non si
può rappresentare in termini temporali il loro sbocciare e
appassire. Ma il passaggio del tempo può essere suggerito
con un parallelo nello spazio: si può accostare – cioè pa-
ragonare – un fiore in boccio ad un altro già sbocciato; si
possono sottolineare le direzioni in cui si sviluppa la pian-
ta, la forza che la lega a terra e quella che la spinge ad al-
lontanarsi, con due rami che si spingono l’uno verso l’alto,
l’altro verso il basso. Un terzo ramo che si innalza lungo

163

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
una linea obliqua può evidenziare la forza composta che
risulta dalle due opposte tensioni. Una composizione che
sembra derivare da un raffinato gusto estetico è il risultato
dell’analisi e della dissezione di un fenomeno e della tra-
sposizione di energia che agiscono nel tempo in linee che
si tendono nello spazio.
Questa trasposizione apre la composizione a nuovi si-
gnificati, diversi da quelli originari: ecco che il ramo che
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

tende verso l’alto viene associato al Cielo, il ramo che ten-


de verso il basso alla Terra, e il ramo di centro alla media-
zione fra questi due opposti princìpi, l’Uomo. Il risultato
di un’analisi schematica della realtà e della trasposizione
secondo princìpi che la rappresentano senza riprodurla
diventa l’oggetto di una contemplazione filosofica.
«Il pensiero ha difficoltà a fissare il concetto di boccio-
lo, perché la cosa così designata è in preda a un impetuo-
so sviluppo, e mostra, scappando di sotto al pensiero, un
grande impulso a non essere bocciolo, bensì un fiore.»
Sono parole che Brecht attribuisce a Hü-jeh, che aggiun-
ge: «Così, per chi pensa, il concetto di bocciolo è già il
concetto di qualcosa che aspira a non essere quel che è».
Questo pensiero “difficile” è precisamente ciò che l’ike-
bana si propone di essere: indicare il passato e suggerire
il futuro, rappresentare attraverso l’immobilità il moto
continuo per cui ciò che è positivo si rovescia in negativo
e viceversa.
L’esempio dell’ikebana ci mostra come significati astrat-
ti nascano da un preciso lavoro di analisi e di trasposizio-

164

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ne di un fenomeno fisico. Partendo da quei significati mai
si raggiungerebbe la concretezza e la precisione dell’ike-
bana, mentre partendo da questa si raggiungono quelli.
Nei confronti dell’attore spesso si tenta di procedere
dall’astratto al concreto, si crede che il punto di partenza
possa essere costituito dalle cose da esprimere, le quali
poi implicherebbero le tecniche adatte ad esprimerle. Un
sintomo di questa assurda credenza è fornito dalla diffi-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

denza verso le forme di teatro codificato, e verso i princì-


pi per la vita dell’attore che essi racchiudono. Quei prin-
cìpi, infatti, non sono suggerimenti estetici fatti per
aggiungere bellezza al corpo dell’attore. Sono mezzi per
togliere al corpo gli automatismi quotidiani, per impedir-
gli, cioè, di essere solo un corpo umano condannato a
rassomigliare a se stesso, a presentare e rappresentare so-
lo se stesso. Quando certi princìpi tornano con frequenza,
in diverse latitudini e tradizioni, si può presumere che
“funzionino” praticamente anche nel nostro caso.
L’esempio dell’ikebana mostra come certe forze che si
sviluppano nel tempo possano trovare un’analogia in ter-
mini di spazio. Questo sostituire con forze analoghe quel
che caratterizza le tecniche quotidiane del corpo è alla
base del sistema del mimo di Decroux. Spesso Decroux
rende l’idea di un’azione reale agendo esattamente al con-
trario. Rivela, per esempio, l’azione di spingere qualcosa
non proiettandosi con il busto in avanti e facendo forza
sul piede che sta dietro – come accade nell’azione rea-
le – ma arcuando la schiena all’indietro, come se invece di

165

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
spingere fosse spinta, flettendo le braccia verso il petto e
facendo forza sul piede e la gamba che sta avanti. Questa
inversione radicale delle forze rispetto a quelle che carat-
terizzano l’azione reale restituisce il lavoro – o lo sfor-
zo – che entra in gioco nell’azione reale.
Accade, in questi casi, come se il corpo dell’attore ve-
nisse scomposto e ricomposto secondo regole che non
seguono più quelle della vita quotidiana. Alla fine di
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

quest’opera di ricomposizione, il corpo non assomiglia


più a se stesso. Come i fiori dei nostri vasi o degli ikebana
giapponesi, anche l’attore ed il danzatore sono recisi dal
contesto “naturale” in cui si agisce, recisi dalle regioni in
cui dominano le tecniche quotidiane del corpo. Come i
fiori e i rami dell’ikebana anche l’attore, per vivere teatral-
mente, non può presentare o rappresentare ciò che è.
Detto con altre parole: deve abbandonare i propri auto-
matismi.
Le diverse codificazioni dell’arte dell’attore sono, innanzi
tutto, metodi per rompere gli automatismi della vita quoti-
diana.
Naturalmente, la rottura degli automatismi non è
espressione. Ma senza rottura degli automatismi non c’è
espressione.
«Uccidi il respiro! Uccidi il ritmo!», ripeteva a Katzuko
Azuma la sua maestra. Uccidere il respiro ed uccidere il
ritmo significa rendersi conto della tendenza a legare au-
tomaticamente il gesto al ritmo del respiro e della musica,
e infrangerla.

166

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
I giapponesi sono forse coloro nella cui cultura teatrale
il problema della natura degli automatismi della vita quo-
tidiana è stato più coscientemente e radicalmente affron-
tato.
I precetti che nella lingua di lavoro usata dalla maestra
di Katzuko Azuma impongono di uccidere il ritmo (otoò
korosò) e di uccidere il respiro mostrano come la ricerca
delle opposizioni possa essere finalizzata alla rottura de-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

gli automatismi delle tecniche quotidiane del corpo. Uc-


cidere il ritmo, infatti, significa creare una serie di ten-
sioni per non fare coincidere i movimenti della danza
con le cadenze della musica. Uccidere il respiro signifi-
ca, fra l’altro, trattenere il respiro anche nel momento
dell’espirazione – che è rilassamento – opponendole una
forza contraria. Katzuko Azuma diceva che era per lei
una vera e propria sofferenza vedere un danzatore
che – come accade in tutte le culture tranne la giappo-
nese – va a tempo. Ed è facile capire come per lei, in
base alle particolari soluzioni della sua cultura, una dan-
za che segue il ritmo della musica sia qualcosa che mette
a disagio, perché mostra un’azione che viene decisa
dall’esterno, dalla musica, o dagli automatismi del com-
portamento quotidiano.
La soluzione che la cultura giapponese ha trovato per
questo problema appartiene a lei sola. Ma il problema,
che essa illumina con un’evidenza tutta particolare, ri-
guarda in generale l’attore e la sua capacità di infrangere
automatismi, d’essere in vita.

167

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Un corpo deciso
In molte lingue europee esiste un’espressione che potreb-
be essere scelta per condensare ciò che è essenziale per la
vita dell’attore. È un’espressione grammaticalmente para-
dossale, in cui una forma passiva viene ad assumere un
significato attivo e in cui l’indicazione di una energica di-
sponibilità all’azione si mostra come velata da una forma
di passività. Non è un’espressione ambigua, ma ermafro-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

dita, somma in sé azione e passione, e malgrado la sua


stranezza è un’espressione del linguaggio comune. Si dice,
infatti, “essere deciso”, “être decidé”, “to be decided”. E
non si intende dire che qualcosa o qualcuno ci decide, che
subiamo una decisione o siamo oggetto di essa. Ma nep-
pure si intende dire che stiamo decidendo, che siamo noi
a condurre l’azione di decidere.
Fra queste due opposte condizioni, scorre una vena di
vita che la lingua sembra non poter indicare e su cui vol-
teggia con delle immagini. Nessuna spiegazione, ma solo
l’esperienza diretta, mostra cosa voglia dire “essere deci-
si”. Per spiegare a qualcuno cosa significhi “essere decisi”
dovremmo ricorrere a innumerevoli associazioni di idee,
a innumerevoli esempi, alla costruzione di situazioni arti-
ficiali. Eppure ognuno di noi crede di sapere molto bene
cosa questa espressione indichi. Tutte le complesse imma-
gini, le collane di regole astruse che si intrecciano attorno
all’attore, l’elaborazione di precetti artistici che sembra-
no – e sono – il risultato di estetiche sofisticate sono i vol-

168

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
teggi e le acrobazie della volontà di trasmettere un’espe-
rienza che in senso proprio non si può trasmettere, ma
soltanto fare. Cercare di spiegare l’esperienza dell’attore
in realtà significa creare artificialmente, con una compli-
cata strategia, le condizioni in cui questa esperienza può
riprodursi.
Immaginiamo di penetrare ancora una volta nell’intimi-
tà del lavoro che si svolge fra Katzuko Azuma e la sua
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

maestra. Anche la maestra si chiama Azuma. Quando ri-


terrà di averle trasmesso la sua esperienza, trasmetterà
anche il suo nome all’allieva. Azuma, dunque, dice alla
futura Azuma: «Trova il tuo Ma» (Ma significa qualcosa
di simile a “dimensione” nel significato di spazio, ma an-
che di tempo come durata). «Per trovare il tuo Ma devi
uccidere il ritmo, trovare, cioè, il tuo jo-ha-kyu.»
L’espressione jo-ha-kyu designa le tre fasi in cui viene
suddivisa ogni azione dell’attore. La prima fase è determi-
nata dall’opposizione fra una forza che tende a sviluppar-
si e un’altra che la trattiene (jo = trattenere); la seconda
fase (ha = rompere, spezzare) è costituita dal momento in
cui ci si libera di questa forza, fino ad arrivare alla terza
fase (kyu = rapidità) in cui l’azione raggiunge il suo cul-
mine, dispiega tutte le sue forze per poi arrestarsi improv-
visamente come davanti ad un ostacolo, ad una nuova
resistenza.
Per insegnare ad Azuma a muoversi secondo lo jo-ha-
kyu la sua maestra la trattiene per la cintura ed improvvi-
samente la lascia. Azuma fatica a compiere i primi passi,

169

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
piega le ginocchia, preme le piante dei piedi sul terreno,
inclina leggermente il busto, poi, abbandonata a se stessa,
scatta via, avanza velocemente fino al limite prefissato,
davanti al quale si arresta come sull’orlo di un burrone
che improvvisamente si apra a pochi centimetri dai suoi
piedi. Ciò che fa, in altre parole, è il movimento che
chiunque abbia visto delle danze giapponesi si è abituato
a riconoscere come caratteristico. Quando un attore ha
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

appreso, come una seconda natura, questo modo artifi-


ciale di muoversi, appare tagliato fuori dallo spazio-tem-
po quotidiani e appare vivo: è, cioè, deciso.
“Decidere” vuol dire, etimologicamente, “tagliar via”.
L’espressione “essere deciso” assume, così, ancora un’altra
faccia: è come se indicasse che la disponibilità alla creazio-
ne è anche il tagliarsi fuori dalle pratiche quotidiane.
Le tre fasi dello jo-ha-kyu impregnano gli atomi, le cel-
lule e l’intero organismo di uno spettacolo giapponese. Si
applicano a ogni azione dell’attore, ad ogni suo gesto, al-
la respirazione, alla musica, ad ogni scena teatrale, ad ogni
singolo dramma, alla composizione di una giornata di
drammi Nō. È una sorta di codice della vita che percorre
tutti i livelli di organizzazione del teatro.
René Sieffert sostiene che la regola dello jo-ha-kyu è una
«costante del senso estetico dell’umanità». In un certo
senso è vero, anche se una regola si dissolve in qualcosa
di insignificante se finisce per essere applicabile a tutto.
Dal nostro punto di vista è più importante un’altra con-
statazione di Sieffert: che lo jo-ha-kyu permette all’atto-

170

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
re – come spiega Zeami – di infrangere apparentemente
le regole per ristabilire il contatto con il pubblico. Qui
risiede forse una costante della vita dell’attore: il legame
tra l’edificazione di regole artificiali e la loro infrazione.
Un attore che ha solo regole è un attore che non ha più
teatro, ma solo liturgia. Un attore che non ha regole è
anch’egli privo di teatro, ha solo il lokadharmi, il compor-
tamento quotidiano, con la sua noia e la sua necessità di
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

provocazione diretta per tener desta l’attenzione.


Tutti gli insegnamenti che Azuma impartisce ad Azuma
sono diretti alla scoperta del centro della propria energia.
I metodi della ricerca sono codificati meticolosamente,
frutto di generazioni e generazioni di esperienza. Il risul-
tato è incerto, impossibile da definire con precisione, di-
verso da persona a persona.
Oggi, Azuma dice che il principio della sua vita, della sua
energia di attrice e danzatrice può essere definito come un
centro di gravità che sta al centro di una linea che va
dall’ombelico al coccige. Ogni volta che danza, Azuma
cerca di trovare l’equilibrio attorno a questo centro. Anco-
ra oggi, malgrado tutta la sua esperienza, malgrado il fatto
che sia stata allieva di una delle più grandi maestre, e sia
lei stessa, oggi, maestra, non sempre lo trova. Lei immagi-
na (o forse sono le immagini con cui le si cercò di trasmet-
tere l’esperienza) che il centro della sua energia sia una
palla di acciaio che sta in un punto della linea che va
dall’ombelico al coccige, o dal triangolo formato congiun-
gendo le due estremità delle anche al coccige, e che la pal-

171

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
la di acciaio sia ricoperta di molti strati di cotone. Il bali-
nese I Made Pasek Tempo fa un cenno di assenso: «Tutto
quel che fa Azuma è davvero così, dice, kras ricoperto di
manis». Nella tradizione occidentale, il lavoro dell’attore è
stato orientato da una rete di finzioni, di “se magici” che
riguardano la psicologia, il carattere, la storia della sua per-
sona e del suo personaggio. Anche i princìpi pre-espressi-
vi della vita dell’attore non sono qualcosa di freddo, che
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

riguarda la fisiologia e la meccanica del corpo. Anch’essi


sono basati su una rete di finzioni, ma finzioni, “se magici”
che riguardano le forze fisiche che muovono il corpo. Ciò
che l’attore cerca, in questo caso, è un corpo finto, non una
personalità finta.
Nelle tradizioni orientali, nel balletto, nel sistema del
mimo di Decroux ogni gesto del corpo, per rompere gli
automatismi del comportamento quotidiano, è dramma-
tizzato, è compiuto immaginando di spingere qualcosa, di
sollevare, di toccare oggetti di una determinata forma e
dimensione, di un determinato peso e di una determinata
consistenza. Si tratta di una vera e propria psicotecnica
che non ha, però, lo scopo di influenzare la psiche dell’at-
tore, ma il suo fisico. Appartiene, quindi, alla lingua che
l’attore parla con se stesso, o tutt’al più a quella che il
maestro parla con l’allievo, ma che non ha alcuna pretesa
di significare qualcosa per lo spettatore che vede.
Per trovare la tecnica extra-quotidiana del corpo, l’at-
tore non studia fisiologia, ma crea una rete di stimoli
esterni a cui reagisce con azioni fisiche.

172

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Nella tradizione indiana, fra le dieci qualità dell’attore
c’è quella del saper guardare, di saper dirigere lo sguardo
nello spazio. È questo il segno che l’attore reagisce a qual-
cosa di preciso. Possiamo vedere un attore che esegue in
maniera straordinaria gli esercizi del suo allenamento, ma
se il suo sguardo non è precisamente direzionato, le sue
azioni non hanno forza. Il corpo può essere, al contrario,
rilassato, ma gli occhi essere in azione, cioè guardare per
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

vedere, e l’intero corpo, allora, diventa vivo. In questo sen-


so si può dire che gli occhi sono come una seconda spina
dorsale dell’attore. Tutte le tradizioni orientali codificano
i movimenti degli occhi, le direzioni che debbono seguire.
Ciò non riguarda soltanto lo spettatore, ciò che egli vede,
ma anche l’attore, il modo in cui popola lo spazio vuoto
con linee di forza, con stimoli a cui reagisce.
Alla fine del suo diario, l’attore Kabuki Sadoshima
Dempachi, morto nel 1712, scrive che esiste un’espressio-
ne secondo cui “si danza con gli occhi” e che ciò significa
che la danza può essere paragonata al corpo e gli occhi
all’anima. Aggiunge che la danza a cui gli occhi non pren-
dono parte è una danza morta, mentre è viva la danza cui
partecipano insieme i movimenti del corpo e quelli degli
occhi. Anche nelle tradizioni europee gli occhi sono “spec-
chio dell’anima”, e gli occhi dell’attore possono essere visti
come il punto intermedio fra le tecniche extra-quotidiane
del suo comportamento fisico ed una sua psicotecnica
extra-quotidiana. Sono gli occhi che mostrano che egli è
deciso e che lo fanno essere deciso.

173

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Appassionato di film western, il grande fisico danese
Niels Bohr si chiedeva perché, in tutti i duelli finali, il pro-
tagonista sia più veloce a sparare anche se è il suo avversa-
rio a metter per primo mano alla pistola. Bohr si chiedeva
se dietro questa convenzione non ci fosse una qualche ve-
rosimiglianza fisica. Risolse di sì: il primo è più lento perché
decide di sparare, e muore. Il secondo vive perché è più
veloce, ed è più veloce perché non deve decidere, è deciso.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Un milione di candele
«La vera espressione – ha detto Grotowski in una recente
intervista – è quella dell’albero». E spiegava: «Se un atto-
re vuole esprimere, allora è diviso, c’è una parte che vuo-
le ed una che esprime, una parte che ordina ed una che
esegue gli ordini».
Inseguendo la traccia dell’energia dell’attore, siamo
giunti a intravederne il nocciolo:
a) nell’amplificazione e nella messa in gioco delle forze
che sono in opera nell’equilibrio;
b) nelle opposizioni che reggono la dinamica dei movi-
menti;
c) in un’opera di riduzione e di sostituzione che fa sem-
pre emergere l’essenziale delle azioni e allontana il corpo
dell’attore dalle tecniche quotidiane del corpo, creando
una tensione, una differenza di potenziale attraverso cui
passa energia.

174

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Le tecniche extra-quotidiane del corpo consistono in pro-
cedimenti fisici che appaiono fondati sulla realtà che si co-
nosce, ma secondo una logica che non è immediatamente
riconoscibile.
Ora siamo in grado, se non di comprendere, per lo me-
no di intuire cosa si dissimuli dietro altre parole con cui
la nostra parola “energia” può essere tradotta: sono le
parole che rimandano ad un’unità, al risarcimento di una
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

divisione, ad un attore che dopo essersi dissezionato si


ritrova intero.
Nella lingua di lavoro del Nō, “energia” può essere tra-
dotta con ki-hai che significa “accordo profondo” (hai)
dello spirito (ki, nel senso di spirito come pneuma e di
spiritus, respiro) con il corpo. Anche in India ed a Bali è
la parola prana (equivalente a ki-hai) a fornire una delle
possibili traduzioni di “energia”. Ma tutte queste sono
immagini che possono ispirare, non consigli capaci di gui-
dare. Esse accennano, infatti, a qualcosa che sta al di là
dell’intervento del maestro: ciò che noi chiamiamo espres-
sione, o “fascino sottile”, o arte dell’attore.
Quando Zeami scriveva dello yugen, il fascino sottile,
citava come esempio la danza che prese il nome da Shira-
bioshi, una donna che danzava nel Giappone del XIII
secolo vestita da uomo, con una spada in mano, e seduce-
va gli sguardi nelle strade. La ragione per cui, così spesso,
specialmente in Oriente, ma anche in Occidente – il cul-
mine dell’arte dell’attore sembra essere toccato da uomini
che rappresentano personaggi femminili, o da donne che

175

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
rappresentano personaggi maschili, è che in quei casi l’at-
tore o l’attrice fa esattamente il contrario di ciò che fa
oggi l’attore che si traveste in una persona dell’altro sesso:
non si traveste, ma si sveste della maschera del suo sesso
per lasciare trasparire un temperamento dolce o vigoroso,
indipendentemente dagli schemi a cui un uomo o una don-
na debbono conformarsi in una determinata cultura.
Nelle opere teatrali delle diverse civiltà, i personaggi
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

maschili e quelli femminili sono rappresentati con quei


temperamenti che le diverse culture identificano come
“naturalmente” appropriati al sesso femminile o a quel-
lo maschile. La rappresentazione dei caratteri distintivi
dei sessi è quindi, nelle opere teatrali, la più soggetta
alle convenzioni: si tratta di un condizionamento così
profondo da rendere quasi impossibile la distinzione tra
sesso e temperamento. Quando un attore rappresenta
un personaggio di sesso opposto al suo, l’identificazione
tra determinati temperamenti e l’uno o l’altro dei due
sessi si incrina. È forse il momento in cui l’opposizione
fra lokadharmi e natyadharmi, fra il comportamento
quotidiano e quello extra-quotidiano, scivola dal piano
fisico a un altro piano non più immediatamente ricono-
scibile. Una nuova presenza fisica e una nuova presenza
spirituale si rivelano attraverso la rottura – che nel teatro
viene paradossalmente accettata – dei ruoli maschili e
femminili.
Parlando con Sanjukta Panigrahi, emerge la più giusta
e la meno utilizzabile delle traduzioni del termine “ener-

176

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
gia” applicato all’attore. La meno utilizzabile perché tra-
duce l’esperienza di un punto di arrivo e di un grande
risultato; non traduce l’esperienza della via per conseguir-
lo. Sanjukta Panigrahi ricorda che energia si dice Shakti:
è l’energia creatrice, che non è né maschile né femminile,
ma che viene rappresentata da un’immagine di donna.
Per questo, solo alle donne in India viene attribuito il ti-
tolo Shakti amsha, parte della Shakti. Ma l’attore, indi-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

pendentemente dal suo sesso, dice Sanjukta Panigrahi, è


sempre Shakti, energia che crea.
Il punto di arrivo, quando l’attore crea, non è un mo-
mento di cui ci si possa occupare in queste pagine. Ma,
giunti alla fine, dopo aver parlato della danza delle oppo-
sizioni su cui si fonda la vita dell’attore e dopo esserci oc-
cupati dei contrasti che egli volontariamente amplifica,
dell’equilibrio che egli volontariamente rende precario e
mette in gioco, l’immagine della Shakti può divenire un
simbolo di tutto ciò di cui qui non si parla, della domanda
fondamentale: come si diventa un buon attore?
In una delle sue danze, Sanjukta Panigrahi mostra
Ardhanarishwara, Shiva per metà femminile. Subito do-
po di lei, Iben Nagel Rasmussen presenta Moon and
Darkness: siamo a Bonn, alla fine della International
School of Theatre Anthropology, dove per un mese pe-
dagoghi ed allievi provenienti dai diversi continenti si
sono accaniti attorno alle basi tecniche, pre-espressive,
fredde, del lavoro dell’attore. Il canto che accompagna la
danza di Sanjukta dice:

177

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
A te mi inchino che sei forma
di maschio e di femmina,
due deità in una,
che nella metà femmina ha il vivido colore
del fiore di Champak
e nella metà maschio ha il pallido colore
del fiore di canfora.

La metà femmina fa tintinnare


Documento acquistato da () il 2023/11/13.

bracciali d’oro,
la metà maschio è adorna
di bracciali di serpenti.
La metà femmina ha occhi d’amore,
la metà maschio ha occhi di meditazione.

La metà femmina
ha una ghirlanda di fiori di mandorlo,
la metà maschio
una ghirlanda di teschi.
Di vesti abbaglianti è vestita
la metà femmina,
nuda
è la metà maschio.

La metà femmina è capace


di tutte le creazioni,
la metà maschio è capace
di tutte le distruzioni.

A lei mi rivolgo,
congiunta al Dio Shiva,
suo sposo.

178

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
A Lui mi rivolgo
congiunta alla Dea Shiva,
sua sposa.

Iben Nagel Rasmussen, invece, canta il lamento dello


shamano di un popolo distrutto. Subito dopo ricompare
come un’adolescente che balbetta parole rapite, sulla so-
glia di un mondo in guerra. L’attrice orientale e l’attrice
occidentale sembrano allontanarsi, ognuna nel fondo del-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

la propria cultura. Eppure, si raggiungono. Sembrano


superare non solo la loro persona e il loro sesso, ma per-
sino la loro perizia artistica, per mostrare qualcosa che sta
dietro a tutto ciò.
Il maestro d’attori sa quanti anni di lavoro stiano alla
base di questi istanti, eppure gli sembra che qualcosa
sbocci spontaneamente, né cercato né voluto. Non ha
niente da dire. Può solo guardare come Virginia Woolf
guardava Orlando: «Un milione di candele ardevano in
Orlando, senza che egli si desse pensiero di accenderne
neppure una sola»2.

(marzo 1981)

2
Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in «Degrés», n.
25, 1980.

179

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ringraziamenti
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

Desidero ringraziare, ad uno ad uno:


Katzuko Azuma, che ho incontrato in una minuscola sala
al centro di Tokyo, mentre dava lezioni di danza Buyo, allie-
va della famosa danzatrice Azuma, da cui ha ricevuto il no-
me, ricercatrice sapiente e curiosa.
Moriaki Watanabe, professore di letteratura francese
all’Università di Tokyo, esperto di Racine e Claudel, regista
moderno e guida sicura per penetrare i segreti del Nō.
Hisao Kanze, il grandissimo attore Nō, scomparso nel
1978, e suo fratello, Hideo, anch’egli attore Nō e sperimen-
tatore: con cui collaborai ad Holstebro nel 1973 e quattro
anni dopo nel corso dell’Incontro Internazionale del Teatro
di Gruppo a Bergamo.
Sawamura Sojurō, attore Kabuki specialista nelle parti
femminili, che è stato il primo ad introdurmi al teatro Ka-
buki.
Tadashi Suzuki, di cui ho visto, nel 1979, la regia delle
Troiane di Euripide, che mi ha ospitato nel villaggio di mon-

181

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tagna in cui lavorava, e mi ha spiegato le conseguenze che i
mutamenti delle tecniche quotidiane del corpo hanno sulla
tradizione teatrale in Giappone.
Mannojō Namura, grande maestro di Kyogen, incontrato
nel ’73 ad Holstebro e nel ’79 a Tokyo.
I Made Bandem, danzatore del Kokar di Bali, con cui ho
collaborato nel corso dell’incontro di Bergamo, nel ’77.
I Made Pasek Tempo, del villaggio di Tampaksiri, a Bali,
considerato uno dei più grandi maestri di topeng, maestro da
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

quattro anni di Toni Cots, attore dell’Odin.


Shanta Rao, che continua a danzare, ed è già un mito che
incarna la storia della danza tradizionale indiana nel nostro
tempo. È venuta a Holstebro nel ’77, ha danzato, ha accet-
tato – contrariamente al suo costume – di tenere un semina-
rio, e soprattutto ha lasciato nel nostro teatro il segno della
sua saggezza.
Étienne Decroux e Dario Fo, autodidatti e per questo
veri maestri, con cui ho collaborato nel campo della pedago-
gia teatrale, e da cui ho spesso imparato.
Chang Chai Chin, del Tapon Opera, teatro finanziato
dall’aeronautica militare della Repubblica di Cina, nomina-
to sergente per meriti artistici.
Tiao Chun-Lin, maestro al Foo Hsing Opera School di
Taiwan.
Victoria Santa Cruz, maestra di danza e di ritmo, in-
contrata a Lima e poi al Taller di Ayacucho sul teatro di
gruppo. Peruviana di pelle nera, donna, ha sperimentato
la discriminazione sul piano personale e professionale.
Oggi incarna ciò che i peruviani idealizzano come la pro-

182

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
pria tradizione culturale e dirige il Conjuncto Nacional de
Folklore.
Ragunath Panigrahi, maestro di canto tradizionale in-
diano.
Sanjukta Panigrahi, danzatrice, ricreatrice della danza
Orissi. Ne rivelò l’inaspettata bellezza ad Holstebro, nel ’77,
ed è oggi fra coloro che con maggior esperienza, dedizione
ed autorità collabora alle ricerche dell’antropologia teatrale.
Coloro, però, che più debbo ringraziare sono forse i bam-
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

bini della scuola di Kathakali del villaggio indiano di Cheru-


thuruti. Nel 1963, all’inizio del mio apprendistato teatrale,
quando i loro maestri erano riluttanti, visto che non ero di-
sposto a ripagarli con denaro, furono quei bambini che ac-
cettarono di rispondere alle mie domande e per primi mi
permisero di introdurmi alla conoscenza del teatro e della
danza indiana.
Ma nulla avrei capito del teatro orientale, dei suoi princìpi,
delle sue profonde esperienze, dei suoi “segreti”, senza il
lavoro, giorno per giorno, con gli attori dell’Odin Teatret. È
stata questa pratica costante che mi ha dato occhi per vede-
re realtà teatrali che in genere sembrano troppo diverse dal-
la nostra per poterci dialogare.
Così, dopo aver ricordato tanti maestri, posso concludere
questi ringraziamenti ricordando il mio maestro, Jerzy Gro-
towski: è con gioia che ancora una volta ho potuto misurar-
mi con il suo lavoro, trarre stimolo, conferme e interrogativi
per l’antropologia teatrale delle sue ricerche sul “teatro del-
le fonti”.

183

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Documento acquistato da () il 2023/11/13.

www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Potrebbero piacerti anche