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COLLANA DI SEMIOTICA
diretta da Isabella Pezzini
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Comitato Scientifico
Pierluigi Cervelli (Sapienza Università di Roma)
Valeria Giordano (Sapienza Università di Roma)
Giovanni Fiorentino (Università di Viterbo)
Jorge Lozano (Università Complutense di Madrid)
Costantino Maeder (Università Cattolica di Lovanio)
Gianfranco Marrone (Università di Palermo)
Franciscu Sedda (Università di Roma Tor Vergata)
Ilaria Tani (Sapienza Università di Roma)
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3 m bRoma: luoghi del consumo,
o zz to nto consumo dei luoghi
B ma me
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Ara Pacis, Auditorium, Esquilino e altro.
all Analisi semiotiche e sociolinguistiche
PRIN 2006
Coordinamento editoriale di Leonardo Romei
Edizioni Nuova Cultura
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Collana di Semiotica
diretta da Isabella Pezzini
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A cura di Isabella Pezzini
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Roma: luoghi del consumo,
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consumo dei luoghi
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3 mISBN: 9788861343610
Copyright © 2009 Edizioni Nuova Cultura ‐ Roma
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o zz to nCopertina: progetto grafico di Emilia Antonucci
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B ma me Questo volume è stato realizzato con il contributo
all della Sapienza Università di Roma.
L’unità di ricerca di Roma è composta da:
Isabella Pezzini (responsabile), Ilaria Tani, Franciscu Sedda,
Pierluigi Cervelli, Leonardo Romei, Vincenza Del Marco,
Paolo Demuru, Mariarosa Bova, con la collaborazione di Cristina Greco,
Bianca Terracciano, Raffaele Guaitoli.
È vietata la riproduzione non autorizzata,
anche parziale, realizzata con qualsiasi
mezzo, compresa la fotocopia, anche
ad uso interno o didattico.
Questo volume è stato stampato
con tecnologia “print on demand”
presso centro stampa Nuova Cultura
P.le Aldo Moro, 5 ‐ 00185 Roma
www.nuovacultura.it
Per ordini: ordini@nuovacultura.it
Le fotografie sono degli autori dei saggi, salvo diversa indicazione.
Il disegno di copertina è di Renzo Piano.
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/ n Indice
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Premessa ................................................................................................... 9
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Ugo Volli, Il bordo e il linguaggio ........................................................ 17
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PARTE I
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S :A P A
PAZI PER LA CULTURA RA ACIS E UDITORIUM
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Isabella Pezzini, Nuovi spazi semiosici nella città: due casi
a Roma ..................................................................................................... 55
Maurizio Gargano, Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae:
esperienza quotidiana e forme di una città ........................................ 83
Leonardo Romei, Un Centre Pompidou a Roma? ................................ 94
Elisa Pardini, Ricognizione fotografica di una giornata
all’Auditorium ..................................................................................... 122
Mariarosa Bova, Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura
dei consumi nella metropoli ............................................................... 130
Pierluigi Cervelli, Il Parco della Musica di Roma:
una cartografia delle pratiche ........................................................... 159
PARTE II
SPAZI PER LA VITA QUOTIDIANA: IL QUARTIERE ESQUILINO
A cura di Ilaria Tani
Vincenza Del Marco, Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza
Vittorio .................................................................................................. 185
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Pierpaolo Mudu, Le soglie delle trasformazioni urbane:
immigrazione e ordine all’Esquilino ................................................. 204
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Ilaria Tani, Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e
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sociali: riflessioni sull’Esquilino ......................................................... 221
1 4 s
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna, Italiano e
s
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3 mall’Esquilino .......................................................................................... 243
lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani
o zz to nPaolo Demuru, Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro
t o
B ma me di Civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous ........ 256
for esti
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PARTE III
CONFRONTI E RILANCI
A cura di Pierluigi Cervelli
Pierluigi Cervelli, Trasformazioni culturali e dinamiche urbane.
Nove domande ..................................................................................... 277
• Gianni Celestini, Macrocosmi e microcosmi urbani ................. 293
• Daniel Modigliani, Le trasformazioni di Roma nel nuovo
Piano Regolatore Generale ......................................................... 301
• Piero Ostilio Rossi, Le Città di Roma .......................................... 310
• Roberto Secchi, Etica del progetto e trasformazione
dell’esistente ................................................................................. 333
• Franco Zagari, Il punto di vista del paesaggio ........................... 345
Orazio Carpenzano, Spazialità latenti. Una ricerca progettuale
sulle testate edilizie cieche .................................................................. 351
• Alessia Maggio, La presenza muta delle cose ........................... 355
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n PARTE IV
RA LOCALE E GLOBALE
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Adriana Magro, Moema Rebouças, La città ai piedi: una ricerca
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fra i bambini di Vitoria in Brasile ...................................................... 367
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4 su
1 s
Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli, Fra Roma e Dubai. La città
3 mglocale o
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.................................................................................................... 378
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Bibliografia generale ............................................................................ 435
all
Gli Autori .............................................................................................. 455
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/ Premessa
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Questo libro raccoglie i risultati della ricerca condotta dalla unità
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locale di Roma (Sapienza Università, Dipartimento di Sociologia
s s nell’ambito del progetto PRIN 2006 intitolato
Comunicazione)
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3 m“La città come testo. Scritture e riscritture urbane” diretto da Ugo
o zz to nse opubblicazioni, fra le quali quella degli Atti del Convegno or‐
Volli. Il progetto nazionale, ormai concluso, ha dato luogo a diver‐
t
B ma me ganizzato dallo stesso Volli a Torino nel maggio 2008 (cfr. Leone,
for esti a cura, 2009) . In questa sede, dunque, raccogliamo i contributi di
1
all
ricerca dell’unità romana, arricchiti dalle discussioni e dagli ap‐
porti ulteriori del Convegno tenuto a Roma il 26‐27 giugno 2009 . 2
Il termine di “riscrittura”, o “ridisegno”, è utilizzato anche nel
linguaggio comune per indicare gli interventi di ristrutturazione,
risanamento, riordino e ridefinizione di luoghi o parti della città
ad opera di amministratori e di esperti che sono preposti al suo
governo. Oppure, eventualmente, per riferirsi ad una più spon‐
tanea opera di cittadini, abitanti o fruitori della città, che attra‐
verso le loro pratiche tendono ad adattarla alle proprie esigenze
di consumo e di vita. Anche in questo senso, la città è – o può es‐
sere considerata – testo, in un’accezione del tutto particolare: non
dato stabile ma in divenire, “scritto e riscritto” da molte mani.
1
Le altre unità di ricerca: Bergamo, diretta da Rossana Bonadei; Palermo,
diretta da Gianfranco Marrone; Sassari, diretta da Silvano Tagliagambe (per
maggiori informazioni sulla ricerca nel suo complesso, cfr. anche il sito http:
//www.unibg.it/turismo/scrittureurbane/).
2
Cfr. in questo volume i testi di Volli, Mudu, Vedovelli, Barni, Bagna, Magro
e Rebouças. Il convegno, svoltosi a Roma presso il Centro Congressi, Facoltà
di Scienze della Comunicazione, è stato aperto da Franca Faccioli, Franco
Ferrarotti e Mario Morcellini, Preside della Facoltà di Scienze della Comuni‐
cazione, che qui ringraziamo insieme agli altri partecipanti. Il convegno ha
inoltre beneficiato del patrocinio dell’Associazione Italiana Studi Semiotici.
10 Premessa
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Come il testo nel senso di textum, la città è infatti il risultato di
una tessitura fra orditi e trame di ordini semiotici diversi, da
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quello spaziale, urbanistico e architettonico a quello linguistico e
2
antropologico: si parla infatti di tessuto urbano. E, come il testo,
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la città è anche e sempre testis, teste, il testimone di quell’insieme
4
1 s
di scritture che hanno contribuito a produrla. La città è inoltre
s
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oggetto di linguaggi che parlano di lei, “la parlano”, la analizzano
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e la interpretano dandole consistenza e personalità semiotica, e
Bo mat men
al tempo stesso essa è in qualche modo soggetto di linguaggi,
è espressione e produttore di culture che le sono inerenti e spe‐
b/n sata
di beneficiare di un’ampia testualità che le riguardasse. Questo ci
offriva la possibilità di operare a livelli diversi, cercando di inte‐
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grarli: di riflessione sui metodi, di analisi testuali e linguistiche
2
più tradizionali accanto all’analisi di morfologie spaziali specifi‐
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che, e all’osservazione di pratiche sociali.
4
1 s
I luoghi individuati, in Roma, sono stati Piazza Augusto Im‐
s
a 3 m bro
peratore e il nuovo museo dell’Ara Pacis; l’Auditorium e il Parco
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della Musica; l’area circostante Piazza Vittorio nel quartiere
Bo mat men
Esquilino. Tre situazioni tra loro in apparenza molto diverse, ma
accomunate dal riguardare zone, nella mappa e nel sistema della
3
Questa politica si può dire inizi col primo mandato della giunta Rutelli (1993)
e continui con il mandato Veltroni. Sembrerebbe invece essersi esaurita con
le elezioni amministrative della primavera 2008, sindaco Alemanno.
12 Premessa
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relazione al loro cotesto; sulla comunicazione e sull’identità isti‐
tuzionale dei nuovi complessi culturali che essi ospitano. Si è inol‐
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tre cimentato, localmente, sull’osservazione diretta degli usi e
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delle pratiche sociali che si vanno sedimentando in questi luoghi;
0x ura
sulle forme di testualità cui danno luogo o in cui sono rappresen‐
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1 s
tati. Tutto ciò sullo sfondo di una considerazione più generale dei
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a 3 m bro
fenomeni linguistici, semiotici e sociali che si producono nella cit‐
z z o m to
tà contemporanea, esposta ai flussi migratori e alla pressione del‐
Bo mat men
le nuove comunità che vi prendono piede, e delle politiche
pubbliche e di ricerca che li riguardano. Abbiamo cercato, infine,
for esti
di situare il nostro percorso di ricerca nel contesto più ampio de‐
gli studi sulla metropoli e sulle dinamiche della globalizzazione,
b/n sata
vamente: sulla efficacia del complesso architettonico nella costi‐
tuzione di un nuovo spazio pubblico a dimensione metropoli‐
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tana, a fronte dei tratti di esemplarità sanciti a suo tempo dal
2
Beaubourg di Parigi, di Piano e Rogers; sulla funzione di volano
0x ura
di comunicazione e di riorganizzazione dei consumi culturali
4
1 s
della città, fra tradizione e innovazione, che l’Auditorium ha
s
a 3 m bro
prepotentemente assunto, e che trova espressione nella sua stessa
z z o m to
organizzazione spaziale; sulla fruizione effettiva, infine, attivata
Bo mat men
negli abitanti del quartiere dai nuovi spazi esterni e dai servizi a
disposizione del pubblico, come il giardino, la cavea e il parco, i
for esti
bar, la libreria, e sul reale realizzarsi di quella funzione connetti‐
va e di sutura urbana auspicata dal progetto.
all La seconda parte, “Spazi per la vita quotidiana: il quartiere
Esquilino”, a cura di Ilaria Tani, esamina alcuni aspetti del quar‐
tiere considerato tradizionalmente come il più multietnico della
città sottoposto da anni a un consistente tentativo di riqualifica‐
zione da parte dell’amministrazione, che ha portato alla realizza‐
zione di opere importanti e a una generale rivalutazione immo‐
biliare, pur rimanendo nella percezione dei suoi abitanti e del re‐
sto della città come in preda al degrado. Da un punto di vista
semiotico l’area di piazza Vittorio costituisce un oggetto esem‐
plare per la sua complessità, risultante dall’incrocio di diverse
dimensioni. L’analisi di Vincenza Del Marco relativa agli elemen‐
ti propriamente architettonici e urbanistici (la piazza, i giardini, i
portici) contribuisce a chiarire come siano stati interpretati i con‐
cetti di riqualificazione e decoro urbano nella riscrittura di que‐
sto spazio pubblico e come si rapportino queste forme alle prati‐
che quotidiane degli abitanti. A ben vedere, la riscrittura del
quartiere sembra essere avvenuta non secondo una trama ma per
spot: frammentarietà del ridisegno che a fatica si coniuga con la
frammentarietà e lʹeterogeneità della fruizione di un luogo abita‐
to e frequentato da soggetti appartenenti a differenti etnie, con
conseguente perdita di coerenza e di riferimenti centrali.
Pierpaolo Mudu analizza e discute le forme del conflitto so‐
14 Premessa
b/n sata
ciale e politico innestato dal fenomeno della immigrazione che ob‐
bliga a rinunciare ad astratte polarizzazioni interpretative, come
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l’opposizione centro‐periferia. La diffusa immagine dell’Esquilino
2
come area marginale e periferica sembra dipendere in gran parte
0x ura
dall’indebolimento dello scambio comunicativo, dalla frammen‐
4
1 s
tazione culturale e sociale che la caratterizza, anche dal punto di
s
a 3 m bro
vista linguistico. Ilaria Tani si sofferma sul paesaggio linguistico
z z o m to
quale categoria di analisi che consente non solo di mappare la
Bo mat men
diversità linguistica ma anche di far emergere la forza simbolica
e la vitalità delle singole lingue, nonché le difficoltà degli abitanti
all
mente di “segni” sconosciuti – dalle insegne dei negozi in cinese
a scritte murali, manifesti e volantini –, vissuti come forma di ap‐
propriazione del territorio da parte di “altri”. Massimo Vedovelli,
Monica Barni e Carla Bagna, cui si deve il lavoro di mappatura
del paesaggio linguistico dell’Esquilino, si soffermano, oltre che
sui metodi e i criteri di studio di un “territorio linguistico di su‐
per‐contatto”, qual è appunto l’area qui indagata, anche sulla sua
valenza paradigmatica per una riflessione sui possibili effetti del‐
la superdiversità sulla condizione sociolinguistica italiana.
Paolo Demuru, nell’oramai considerevole produzione testuale
ambientata nel quartiere, analizza un romanzo costruito sul gioco
reciproco dei punti di vista fra abitanti locali e immigrati, fin dal
titolo: Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, di Amara
Lakhous, autore immigrato da molti anni a Roma. In queste pa‐
gine riecheggiano, trasposte a una ben diversa dimensione di
globalità, le interferenze, le commistioni linguistiche e di menta‐
lità, allora tutte italiche e molto romanesco‐laziali, intessute a suo
tempo nel Pasticciaccio di Gadda, che oggi può essere parados‐
salmente riletto in chiave nostalgica dagli abitanti del quartiere.
La terza parte del libro, curata da Pierluigi Cervelli, è dedicata
ad alcuni “Confronti e rilanci” con architetti, paesaggisti, urbani‐
sti, a vario titolo diretti protagonisti dei processi di trasformazio‐
Premessa 15
b/n sata
ne urbana di questi anni, a Roma e non soltanto. In particolare,
cinque interviste, a Gianni Celestini, Daniel Modigliani, Piero
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Ostilio Rossi, Roberto Secchi, Franco Zagari riarticolano le que‐
2
stioni poste dallo sviluppo della ricerca, fra cui quelle relative al‐
0x ura
la memoria culturale iscritta nella città, presa nella dialettica fra
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1 s
passato e contemporaneità; quelle delle relazioni fra i grandi at‐
s
a 3 m bro
tori della gestione urbana, che decidono le politiche cittadine, e
z z o m to
gli abitanti, che nel vissuto quotidiano le subiscono, vi si adatta‐
Bo mat men
no, le aggiustano. E ancora la questione della privatizzazione
dello spazio urbano, con il consolidamento di modelli residenzia‐
for esti li protetti e fortemente introversi, o quella delle dinamiche dei
flussi migratori che modificano e attraversano le pianificazioni
all abitative, che a Roma si situano sullo sfondo della recente ap‐
provazione del Nuovo Piano Regolatore della città.
Completa questa sezione la presentazione dei risultati di un
seminario di ricerca dottorale diretto da Orazio Carpenzano, sul‐
le potenzialità espressive delle “facciate mute” che costellano Ro‐
ma, traccia di ferite ancora aperte, di progetti interrotti, di sciatte‐
ria urbana, laddove invece la facciata rappresenta la dimensione
pubblica anche dell’abitazione privata.
L’ultima parte del libro, “La città fra locale e globale”, allarga
ulteriormente il campo. L’intervento di Adriana Magro, ricerca‐
trice dellʹUniversità Federale di Espírito Santo in Brasile, offre le
coordinate di un progetto di analisi degli spazi della metropoli a
partire dalle percezioni e dalle rappresentazioni dei bambini che
vi crescono. Infine Pierluigi Cervelli e Franciscu Sedda, a partire
da un argomentato confronto fra Roma e un’altra metropoli del
circuito delle “città globali”, Dubai, riprendono le fila dei temi
generali della ricerca nella prospettiva di una semiotica della cul‐
tura, e rileggono in questa chiave alcune delle questioni metodo‐
logiche incontrate nel corso del lavoro.
Impossibile far seguire a questa svelta presentazione della ri‐
cerca una articolata riflessione conclusiva. Solo qualche parola,
16 Premessa
b/n sata
piuttosto, per sottolineare il carattere evidente di work in progress
di questo lavoro. Osservandone il risultato, mi sembra di poter
00 fre
dire che nella sua costruzione abbiamo inseguito un modello
2
ideale di ricerca, stimolati sia dalla complessità dell’oggetto scel‐
0x ura
to sia dalla situazione pionieristica in cui ci siamo trovati a ope‐
4
1 s
rare, considerando lo sviluppo assai recente e per certi versi
s
a 3 m bro
ancora embrionale di una semiotica della città. Ci siamo misurati
z z o m to
con molti dubbi e difficoltà, che abbiamo cercato di affrontare
Bo mat men
anche sperimentando, e soprattutto confrontandoci con le altre
esperienze nel cantiere più ampio della ricerca. Ci è sembrato inol‐
0 0 Il bordo e il linguaggio
f re
2
4 0x ura
1 s s
1. L’interazione fra linguaggio e spazio è uno degli ambiti più fe‐
a m b ro
3 mcondi di produzione del senso. Anche se vi sono stati numerosi
o zz to nto questo tema (Cavicchioli 1997 e 2002; Lakoff, Johnson 1980), la
t o
studi di semiotica dello spazio e metaforologia che hanno sfiora‐
all (ma vedi Volli 2008a) e nella necessaria spazialità di ogni traccia
su cui si costruisce una scrittura (Derrida 1967; McLuhan 1964;
Innis 1950; Mumford 1961).
Questo articolo si propone di iniziare ad esplorare tale tema
in un caso particolare, quello delle città (che sono ovviamente di‐
spositivi di produzione e conservazione di senso con una forte ed
essenziale dimensione spaziale) e in particolare della loro fonda‐
zione. La fondazione di una città, nella misura in cui essa ha un
carattere formale, come è spesso testimoniata o immaginata nel‐
l’antichità, è un atto “religioso” o “magico” e più generalmente
“simbolico” che ha lo scopo di trasformare lo spazio destinato a
diventare urbano in modo da renderlo adeguato alla sua nuova
funzione. Dal nostro punto di vista è necessario chiarire il carat‐
tere semiotico di questa separazione e rifunzionalizzazione, spes‐
so posta in relazione con un atto di nominazione, che serve a
rendere evidente, comunicabile, legalmente vincolante la nuova
organizzazione del territorio.
Nel seguito di questo articolo analizzerò due casi particolar‐
mente significativi, la fondazione di Roma e quella di Babele, o
meglio le loro narrazioni rispettivamente in Plutarco e nella Bib‐
bia, riservando qualche accenno al caso di Cartagine. Per questa
città, infatti, come in un certo senso per Babele, oltre al racconto
18 Ugo Volli
b/n sata
della fondazione rituale abbiamo quello di un’altrettanto rituale
degradazione o de‐urbanizzazione, che avviene dopo che la di‐
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struzione fisica è compiuta. Su questo problema della sconsacra‐
2
zione urbana, mi permetto di rimandare all’ottimo saggio di
0x ura
Massimo Leone (2009).
4
1
s s
a 3 m bro
2. Anche se il mito della fondazione di Roma appare in molti luo‐
z z o m to
ghi della letteratura latina, da Varrone a Ovidio da Virgilio a
Bo mat men
Servio a Livio a molti altri1, la sua trattazione più articolata si
trova nella biografia di Romolo scritta da un celebre autore greco,
for esti Plutarco, che seguiremo nella nostra analisi (trad. it., 2003). La
all
questione della fondazione viene presentata innanzitutto da Plu‐
tarco come il problema dell’ “origine del nome” e della “causa
1. Gli storici non concordano sulle origini del grande nome di
Roma, divenuto celebre fra tutti gli uomini; né sulla ragione per
cui fu attribuito alla città. Ma gli uni ritengono che i Pelasgi, […]
si siano stanziati in quelle terre, e abbiano denominato in questo
modo la città, per ricordare la loro prestanza (rhome) nelle armi.
Altri pensano che alcuni Troiani […] giunsero in Etruria e qui, al‐
la foce del fiume Tevere, gettarono gli ormeggi. Alle donne troia‐
ne, ormai sfinite e non disposte a riprendere la via del mare, una
compagna, che si chiamava Rhome e – a quanto pare – si distin‐
gueva per nobiltà di natali e soprattutto per saggezza, propose di
bruciare le imbarcazioni. E così esse fecero […]
2. Alcuni dicono che Rhome, figlia di Italo e di Leucaria (ma, se‐
condo altri, figlia di Telefo, a sua volta figlio di Eracle), avesse
sposato Enea (a detta d’altri, però, si trattava del figlio di Enea,
Ascanio) e che avesse dato nome alla città. Per altri invece la città
1
Per una rassegna bibliografica cfr Grandalnozzi (1993), Carandini (2003).
Il bordo e il linguaggio 19
b/n sata
fu fondata da Romano, figlio di Odisseo e di Circe; o da Romo,
figlio di Binazione, venuto da Troia per volontà di Diomede; o da
00 fre
Romide, tiranno dei Latini, che aveva respinto gli Etruschi, giunti
in Italia dalla Lidia e in Lidia dalla Tessaglia.. Peraltro neppure
2
0x ura
coloro che sostengono, seguendo la tradizione più fondata, che
14 s
eponimo della città fu Romolo concordano poi sulle origini di
s
quest’ultimo. Gli uni infatti credono che fosse figlio di Enea e di
a 3 m bro Dessitea, a sua volta nata da Forbante, e che fosse giunto in Italia
z z o m to in tenera età in compagnia del fratello Romo. E che, mentre le al‐
Bo mat men
tre imbarcazioni naufragarono nel fiume in piena, quella che tra‐
sportava i fanciulli avesse raggiunto senza scossoni un dolce
for esti
declivio; essi, salvatisi inaspettatamente, in seguito avrebbero
chiamato il declivio Rhome. Altri, però, ritengono che Rhome, fi‐
all glia della medesima Dessitea, avesse sposato Latino, figlio di Te‐
lemaco, generandogli Romolo. Altri ancora che Emilia, figlia di
Enea e di Lavinia, si fosse unita ad Ares.
Non possiamo qui esaminare neanche sommariamente tutte que‐
ste ipotesi onomastiche, che derivano certamente dalla passione
antiquaria e etimologica di Plutarco. Certamente però risulta
evidente che la decisione di fondare una città e la scelta del suo
nome sono momenti ben differenziati di uno stesso processo e
che quest’ultimo serve non solo quasi sempre a celebrarne il fon‐
datore, ma anche a suggerire ragioni della fondazione e origini
dei fondatori, cioè in un certo senso a concentrare il senso del‐
l’impresa urbana. Lo stesso accade anche nell’episodio “più at‐
tendibile” di Romolo e Remo. Qui la storia viene raccontata con
maggior dettaglio, sostanzialmente nel solco della narrazione
virgiliana. Da Enea derivano i re di Alba, da costoro i due fratelli
Numitore e Amulio, che si dividono l’eredità: questi la ricchezza,
quello la sovranità. Ma Amulio con la ricchezza si prende anche
il regno e per evitare la nascita di eredi del fratello spodestato re‐
lega al ruolo di vestale destinata alla verginità l’unica figlia di
Numitore. L’obbligo della verginità è però rotto (forse da Ares o
dallo stesso sovrano che violenta la nipote) e nascono due figli,
20 Ugo Volli
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Romolo e Remo, che vengono condannati a morte nel bosco ma
salvati miracolosamente, (come Edipo), anche per via di una ce‐
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sta che galleggia sul fiume (come per Mosè), di una lupa (che
2 forse per Plutarco è una prostituta) e di un picchio. Allevati da
a 3 m bro Romolo, i due fratelli riescono ad abbattere il regno di Amulio,
z z o m to con l’aiuto di numerosi sbandati. È a questo punto che Plutarco
Bo mat men 9. Alla morte di Amulio, ristabilitosi l’ordine, Romolo e Remo
pone l’esigenza di fondare una nuova città:
al l gnarvi finché il nonno materno fosse rimasto in vita: perciò gli la‐
sciarono il regno e tributarono onori anche alla loro madre. Deci‐
sero dunque di vivere per conto loro, fondando una città nei luo‐
ghi in cui erano cresciuti da piccoli. Questa risulta la spiegazione
più plausibile. Ma nello stesso tempo la fondazione diventava
per loro anche una necessità, poiché molti servi e altrettanti ribel‐
li si erano raccolti attorno ad essi, quindi o dovevano congedarli,
lasciandoli disperdere un po’ ovunque, oppure stabilirsi insieme
a loro in una località a parte. Che infatti gli abitanti di Alba non
ritenessero opportuno convivere con ribelli, né accoglierli fra i
cittadini, lo dimostra prima di tutto l’impresa compiuta per acca‐
parrarsi le donne.[…] Non appena iniziò la costruzione della cit‐
tà, edificarono un tempio che servisse come luogo di rifugio per i
fuggitivi, e lo dedicarono al dio Asilo; in esso accoglievano tutti,
senza consegnare gli schiavi ai padroni, né i proletari agli usurai,
né gli omicidi ai magistrati, ma dicevano che a tutti garantivano
asilo in nome di un vaticinio rilasciato dall’oracolo di Delfi. E così
la città si popolò in fretta: a quanto dicono, fin dall’inizio le abi‐
tazioni furono più di mille.
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Dt 12:5; 19:7) per gli omicidi involontari che sono fra le più origi‐
nali innovazioni della Bibbia. L’esigenza politica o sociologica
00 fre
reale (la successione al trono, la sorte degli sbandati) anche per
2 Plutarco costituisce però una motivazione sufficiente per la costi‐
4 0x ura tuzione della città, non la fonda davvero. Per farlo c’è bisogno
1 s s
d’altro e di più. In primo luogo la collocazione esatta:
3 m bTra roi due fratelli, che stavano per radunare insieme in un’unica
a m
o zz to nto zione. città i loro uomini, insorse ben presto una lite sulla sua colloca‐
for esti
quanto quadrangolare) e voleva rendere quel luogo una città;
Remo invece scelse una località più sicura sull’Aventino, che in
all
suo ricordo fu chiamata Remorium, e ora si chiama Rignarion.
Si tratta di una questione che implica di nuovo il nome e implici‐
tamente stabilisce il fondatore, diventando così ragione di divi‐
sioni fra i due fratelli. Qui interviene la famosa divinazione degli
uccelli, cioè l’intervento divino, non senza un qualche aiuto da
parte del vincitore.
Alla fine stabilirono di risolvere la disputa scrutando il volo di
uccelli fausti, perciò si appostarono in luoghi diversi. Dicono che
a Remo siano apparsi sei avvoltoi, il doppio a Romolo; ma, se‐
condo alcuni, Remo li vide veramente, Romolo invece mentì, e
soltanto quando gli si presentò innanzi Remo, solo allora gli ap‐
parvero i dodici avvoltoi. Ancora oggi i Romani, quando pren‐
dono gli auspici, osservano soprattutto il volo degli avvoltoi. […]
10. Quando Remo si rese conto che il fratello si era preso gioco di
lui, si sdegnò, e mentre Romolo stava scavando un fossato, con il
quale aveva intenzione di circondare le mura della città, si fece
beffe del suo lavoro e cercò di ostacolarlo. Infine varcò il fossato,
22 Ugo Volli
b/n sata
ma cadde, colpito in quello stesso punto, secondo alcuni, dal me‐
desimo Romolo, secondo altri, un compagno di Romolo, Celere.
0 0 fre
La descrizione completa dell’atto rituale di fondazione, intorno a
2
x del quale a insorge la disputa, appare però solo nel
un dettaglio
0
4 ssu
brano successivo:
r
1 11. o
3 m bche li avevano allevati; poi costruì la città. Per questo fece venire
a r Romolo seppellì Remo nella Remoria insieme ai due uomini
z z o m to dall’Emilia esperti con leggi e testi sacri, che gli spiegassero e gli
Bo mat men steri. Difatti venne scavata una fossa circolare intorno all’attuale
insegnassero ogni aspetto rituale, come per un’iniziazione ai mi‐
for esti Comizio, nella quale furono deposte offerte votive di tutto ciò
all
che risultava adatto secondo le consuetudini e necessario secon‐
do natura. Infine ogni abitante portò una piccola porzione della
propria terra d’origine e la gettò nella fossa, mescolandola insie‐
me con le altre. Chiamano questa fossa con lo stesso nome con
cui indicano il cielo: mundus. Poi circoscrissero la città, descri‐
vendo un cerchio tutt’attorno a questo punto centrale. L’ecista
collega all’aratro un vomere di bronzo, a cui ha soggiogato un
bue e una vacca, e li guida personalmente, tracciando un solco
lungo i confini; è compito di quanti lo seguono rivoltare le zolle
all’esterno, sollevare l’aratro e controllare che nessuna di esse ri‐
manga fuori dal tracciato. Con questa linea segnano dunque i
confini del muro urbico, e lo chiamano in forma sincopata pome‐
rium, cioè sito collocato dietro il muro o dopo il muro. Nel punto
in cui pensano di collocare le porte, rimuovono il vomere e solle‐
vano l’aratro, lasciando un intervallo di spazio. Per questo
1’intero muro è ritenuto sacro, tranne le porte. Se considerassero
sacre anche queste ultime, facendovi entrare e uscire beni neces‐
sari, ma impuri, sfiderebbero la collera divina.
Dunque se le premesse per la fondazione della città nella conce‐
zione dell’antichità classica qui rappresentata da Plutarco sono
umane, di convenienza politica, ambizione personale e così via, il
gesto della fondazione stessa ha invece il carattere altamente “ri‐
tuale” e dunque semiotico di “un’iniziazione ai misteri”. Il com‐
Il bordo e il linguaggio 23
b/n sata
pito del fondatore consiste nel compiere i gesti efficaci sul piano
giuridico come su quello religioso (una distinzione peraltro che
00 fre
in quest’epoca è assai problematica, come ci insegna fra gli altri
2
Émile Benveniste (1969)). Si tratta, dal nostro punto di vista, della
0x ura
messa in opera di un dispositivo semiotico complesso, che in un
4
1 s
certo modo istituisce il senso della città e lo proietta sullo spazio,
s
a 3 m bro
separando un luogo forte e regolato dal contesto indifferenziato
z z o m to
in cui sorgeva, secondo “leggi e testi sacri” ben stabiliti. Il pro‐
Bo mat men
cesso che qui descrive Plutarco è del resto molto simile alle ceri‐
monie condotte tradizionalmente per la fondazione di colonie
all
re di Menfi; Archelao di Ege; Endimione di Elide; Sisifo di Efira;
Neleo di Pilo; Mileto della città che porta il suo nome: Mileto).
La prima fase dell’operazione è la creazione di una sorta di
metonimia fisica del mondo, una fossa in cui le terre di origine
degli abitanti si fondono con il suolo locale. Nelle classiche fon‐
dazioni di colonie era uso che l’ecista portasse un sacchetto con
la terra della madrepatria; qui le patrie sono molte e le terre da
mescolare anche. È un’operazione di inversione semiotica dei
confini, un gesto che per così dire rivolta le appartenenze: non è
più il mondo che circonda la città, ma la città che circonda la fos‐
sa chiamata mundus; gli abitanti non sono più estranei, prove‐
nienti da un’altra terra, ma la loro terra diventa parte del fonda‐
mento della città. Per dirla ironicamente con l’ermeneutica, l’atto
preliminare della fusione degli orizzonti è l’unione delle fonda‐
menta. Il mundus ha lo stesso nome del cielo, un nome che indica
la purezza e che richiama l’ordine del kosmos. Esso è segnato da
una verticalità, com’è il caso del cielo, ma questa verticalità non
si volge orgogliosamente in alto, bensì in basso, forse verso gli
inferi dove sono custoditi gli antenati, certamente verso terra.
Che una fossa nella terra sia chiamata come il cielo ricostruisce
un’endiadi che è essenziale nella visione religiosa antica: cielo e
terra costituiscono insieme “tutto l’universo”, come nel primo
24 Ugo Volli
b/n sata
versetto della Genesi o in più di un’espressione di Platone2.
A partire da questo mondo/cielo/punto di origine è tracciato il
00 fre
cerchio che circoscrive la città e la separa dal resto del territorio:
2
“L’ecista collega all’aratro un vomere di bronzo, a cui ha soggio‐
0x ura
gato un bue e una vacca, e li guida personalmente, tracciando un
4
1 s
solco lungo i confini; è compito di quanti lo seguono rivoltare le
s
a 3 m bro
zolle all’esterno, sollevare l’aratro e controllare che nessuna di
z z o m to
esse rimanga fuori dal tracciato”. Il gesto di separazione costitui‐
Bo mat men
sce il muro come sacro (Agamben 1995), cioè inviolabile a pena
di estromissione dalla comunità civile per chi lo violi. O, se si
all
che non deve essere violato. Così si spiega che Romolo possa uc‐
cidere senza scandalo il fratello per una mancanza apparente‐
mente futile (saltare oltre il solco). La città regge per la sacertà
delle sue mura, che la separano e la oppongono al contado circo‐
stante. Lo spazio “liscio” della campagna viene “striato” dal sol‐
co (Deleuze, Guattari 1980) e cambia natura. Questa inviolabilità
è così importante da dover stabilire un’eccezione ritualizzata per
le porte, in modo che siano transitabili senza violare il solco. An‐
che la specificazione del bronzo del vomere e la strana aggioga‐
tura asimmetrica (“un bue e una vacca”) entrano nel rituale e ser‐
vono a stabilire il carattere sacro del solco. Del resto una tradi‐
zione alternativa all’aratura è la delimitazione della città per
mezzo di una pelle bovina, che viene in maniera più o meno truf‐
faldina tagliata a strisce sottilissime e usata per circondare lo
spazio del futuro nucleo urbano, come avviene a Cartagine3.
2
Si veda per esempio Filebo, 28e.
3
Devenere locos ubi nunc ingentia cernes / moenia surgentemque novae
Karthaginis arcem, / mercatique solum, facti de nomine Byrsam, / taurino
quantum possent circumdare tergo (Virgilio Eneide I 365‐72). Si veda anche
il verdetto dell’Oracolo di Delfi a Cadmo, che sta alla base della tematica del‐
le Baccanti: “Scegli fra le vacche muggenti quella che ha su tutte e due i fian‐
chi un disegno bianco di luna piena. Prendila per tua guida sulla strada che
Il bordo e il linguaggio 25
b/n sata
La natura dell’urbano è dunque segnata innanzitutto da una
opposizione rispetto al terreno agricolo circostante che è stabilita
00 fre
da uno strumento agricolo come l’aratro, usato però in maniera
2
particolare: non solo con un’aggiogatura speciale e con un vomere
0x ura
ben definito, ma soprattutto con un unico solco circolare che funge
4
1 s
da bordo sacro segnando la traccia delle mura. La linea rotonda
s
a 3 m bro
unidirezionale chiusa delle mura si oppone al parallelismo retti‐
z z o m to
lineo e aperto dei solchi agricoli: è l’opposizione fra la città al‐
Bo mat men
l’antica come Volterra, Palmanova, Roma e Milano circondate da
mura e la città razionale e moderna come New York o Torino in
all
Il cerchio e la fossa che gli sta al centro disegnano una figura
molto diffusa nelle diverse culture, paragonabile a un mandala.
La città insomma si presenta come una topologia peculiare, do‐
minata da un bordo e da un asse centrale perpendicolare ad esso.
Il territorio su cui essa sorgerà diventa un supporto di iscrizione
su cui viene disegnata la figura della città, cioè il confine e l’asse.
Solo successivamente vi si sovrappongono le funzioni effettive e
i loro supporti: mura e abitazioni e templi e piazze.
La narrazione della distruzione di Cartagine conferma que‐
st’analisi5. Per eliminare ritualmente il suo grande nemico, alla
fine di un lungo ciclo di guerre, Roma non si accontenta di ven‐
dere come schiavi i suoi abitanti e di radere al suolo la città. La
conclusione della distruzione consiste in uno strano atto agricolo:
i romani arano (in maniera normale, con solchi paralleli) il terri‐
torio che era stato urbano e poi seminano i solchi col sale. Il pri‐
dovrai percorrere. Dove la vacca si inginocchierà e poserà per la prima volta
la testa cornuta sul terreno, in quel punto dovrai sacrificarla alla terra im‐
mersa nell’oscurità. Dopo averla sacrificata fonda su una collina, la più alta,
una città dalle larghe vie”.
4
Una considerazione ironica di questa opposizione si trova nel “Paradosso
di porta Ludovica” in Eco (1963).
5
Cfr. Leone (2009).
26 Ugo Volli
b/n sata
mo gesto ha evidentemente il senso di annullare la divisione ri‐
tuale, ripetendo in maniera intensificata e moltiplicata il gesto di
00 fre
Remo; il secondo atto maledice la terra in questione con la sterili‐
2
tà del sale, perché nulla vi nasca.
4 0x ura
1 s
3. Ritroviamo figure analoghe a quelle di Roma e di Cartagine
s
a 3 m bro
anche a Babele, nel cuore del libro della Genesi. L’episodio di Ba‐
z z o m to
bele, che occupa in tutto una decina di versetti del capitolo 11 del‐
Bo mat men
la Bibbia, è notissimo e però in genere letto in maniera piuttosto
superficiale. Dovremo invece occuparcene un po’ più in profon‐
for esti dità. Eccone innanzitutto il testo, che riporto per chiarezza nel‐
all
l’originale, in una traslitterazione non scientifica ma tale da
rendere la pronuncia possibile a qualunque lettore anche non
specialista, e nella versione italiana “nuova riveduta” della Cei:
11:1 Vayehi chol‐haaretz safah echat udevarim achadim.
Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole.
11:2 Vayehi benosam mikedem vayimtzeu vikah beeretz Shinar vayeshvu
sham.
Dirigendosi verso l’Oriente6, gli uomini capitarono in una pianu‐
ra nel paese di Scinear, e là si stanziarono.
6
Vi è una stranezza in questa traduzione della “Nuova riveduta” che inverte
il senso della migrazione: l’espressione ebraica “min” vale letteralmente
“da” e così è tradotta nella LXX (apò) e nella Vulgata (de); lo stesso intende la
Luzzi (“essendo partiti verso l’Oriente”) mentre la traduzione Cei/Gerusa‐
lemme dice “Emigrando dall’Oriente” e la Diodati originale (“Partendosi gli
uomini da Oriente”); ma la nuova Diodati traduce “Mentre si spostavano
verso Sud”. Insomma il disorientamento babelico continua anche nelle tra‐
duzioni della Bibbia…
Il bordo e il linguaggio 27
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
11:3 Vayomeru ish el reehu havah nilbenah levenim venisrefah lisrefah
1 s s
vatehi lahem halvenah leaven vehachemar hayah lahem lachomer.
all
Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui ci‐
ma giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo
dispersi sulla faccia di tutta la terra».
11:5 Vayered Ado‐nay lirot et‐hair veet‐hamigdal asher banu beney
haadam.
Il SIGNORE discese per vedere la città e la torre che i figli degli
uomini costruivano.
11:6 Vayomer Ado‐nai hen am echad vesafah achat lechulam vezeh
hachilam laasot veatah lo‐yibatzer mehem kol asher yazmu laasot.
Il SIGNORE disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti
28 Ugo Volli
b/n sata
una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla
impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare.
00 fre
2
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z m o
z to nreehu.
o t
11:7 Havah nerdah venavlah sham sefatam asher lo yishmeu ish sefat
11:8 Vayafetz Ado‐nai otam misham al‐peney chol‐haaretz vayachdelu
livnot hair.
Così il SIGNORE li disperse di là su tutta la faccia della terra ed
essi cessarono di costruire la città.
11:9 Al‐ken kara shemah Bavel ki‐sham balal Ado‐nai sefat kol‐haaretz
umisham hefitsam Ado‐nai al‐peney kol‐haaretz
Perciò a questa fu dato il nome di Babel, perché là il SIGNORE
confuse la lingua di tutta la terra e di là li disperse su tutta la fac‐
cia della terra.
Il bordo e il linguaggio 29
b/n sata
Come nota Zumthor, autore del più bel libro recente sull’argo‐
mento (1997), nella letteratura occidentale si parla generalmente
00 fre
di “torre” di Babele7, ma in realtà il testo nomina sempre la “torre”
2
insieme a una “città” (vv. 4 e 5) e una volta (v. 8) solo quest’ulti‐
4 0x ura
ma. Abbiamo dunque un’endiadi, torre/città, e se nella storia
1 s
dell’Occidente ha avuto spazio solo in genere l’immagine della
s
a 3 m bro torre “con la testa in cielo”, come suona letteralmente il v.4, ciò è
z z o m to accaduto perché essa è apparsa più strana e affascinante di quella
Bo mat men
di una città. Ma per la mentalità nomadica che (almeno nell’auto‐
comprensione della Bibbia8) è implicita in questo testo, meravi‐
all
7
È interessante che della sola torre si parla nella versione coranica. Si legge
nella “Sura del racconto” (Corano XXVII, 38‐41): “E disse il Faraone: ‘O voi
del Consiglio! Non sapevo che voi aveste un altro dio fuori che me. Tu Ha‐
man, accendimi dunque un fuoco sull’argilla, e costruiscimi una torre, sì che
possa salire su fino al dio di Mosé; perché davvero lo credo un bugiardo!’ E
s’inorgoglirono, lui e le sue schiere, sulla terra, contro verità, e s’illusero che
non sarebbero stati ricondotti a Noi”. Ma subito in seguito (vv. 58‐59) si par‐
la subito di “città” distrutte, come vendetta per l’ubris del faraone: “58. E
quante città sterminammo, città che si vantavano petulanti dei loro agi! Ecco
le loro case che, dopo la distruzione, solo pochi abitano ormai. Noi siamo
stati di tutto gli eredi! 59. Ma il tuo Signore non prese a sterminare quelle
città senza aver prima inviato alla loro Metropoli un messaggero a recitar
loro i Nostri Segni, e solo le città sterminammo la cui gente era d’iniqui”.
8
Per “autocomprensione” intendo il modo in cui il testo, preso alla lettera,
sembra descriversi, anche alla luce della tradizione che ne promana (o ha la
pretesa di promanarne). È evidente che una posizione del genere è diversa
dallo studio filologico/storico delle origini di un testo, che si è sviluppata
sulla Bibbia a partire da Spinoza e dalla cosiddetta Ipotesi Documentaria
di Wellhausen (vedi Friedman 1987), richiamata anche da Zumtor (1997,
pp. 29‐30) nella sua analisi di Babele. Ma senza voler negare in linea di prin‐
cipio tale approccio e l’idea di una composizione complessa della Bibbia,
bisogna ammettere che in due secoli di fitta ricerca accademica i risultati
condivisi sono molto scarsi e il dissenso sembra crescere con la massa delle
ricerche. Il nostro approccio è diverso, classicamente semiotico, nel senso di
partire da un testo dato e delimitato, “così come si presenta”, per studiarne
gli effetti di senso interni e l’efficacia simbolica. Metodologicamente origina‐
30 Ugo Volli
b/n sata
gliosa e terribile è la città in se stessa, la grande metropoli della
Mesopotamia, incomparabilmente più grande di ogni insedia‐
00 fre
mento nel deserto. Ed è chiaro che nella tecnologia dell’epoca
2
(qualunque sia la datazione della Bibbia), alcuna torre può essere
0x ura
così grande da identificarsi con una città; essa ne fa parte, ne co‐
4
1 s
stituisce magari l’ornamento più prezioso, ma la sua condizione
s
a 3 m bro
di esistenza è la città che la circonda.
z z o m to Il brano biblico parla dunque di città, della prima città che
Bo mat men
appare per nome nella storia biblica e naturalmente di linguag‐
gio, anzi della dispersione dei linguaggi, costituendo il mito fon‐
all
concomitanza che di per sé dà da pensare. La città e i linguaggi
appartengono per la Bibbia allo stesso ordine di problemi, quello
che la tradizione ebraica chiama generazione della dispersione
(dor haflaga)9. È interessante dunque per noi vedere in qualche
dettaglio10 come il linguaggio interagisca con la fondazione e con
le è solo l’inclusione nel nostro testo di studio della tradizione di commento,
il che si giustifica con la sua canonicità, con il fatto che il testo standard di
studio della Torah ebraica include sempre gli stessi commenti, con l’idea di
uno studio dell’autocomprensione di una tradizione interpretativa. Per una
discussione più estesa di questo punto metodologico, vedi Volli (2008a e
2008b). Per quanto riguarda specificamente l’aspetto nomadico, la Torah si
descrive come produzione di Mosè, a capo di un popolo che vaga nel deser‐
to. Nomadi erano anche i patriarchi nella descrizione biblica (“Mio padre era
un’ara‐meo errante”, Dt. 26: 4); l’Egitto urbano è invece luogo di schiavitù e
esilio, come lo sarà Babilonia dopo la distruzione del primo Tempio.
9
In quanto contrapposta alla generazione del diluvio (dor hamabul). Anche se
quest’ultima era colpevole della peggiore violenza e “The generation of the
Tower of Babel, who received the name of Dor Haflaga, the Generation of
the Dispersion, didn’t kill anybody. They didn’t even desire the death of an‐
ybody. We can presume that they were efficient and task oriented people”
(Rav Manes Kogan), e anche “The people of the Generation of the Dispersion
have no share in the World to come” (Sanhedrin 107b).
10
A integrazione della nota metodologica precedente, vale la pena di affer‐
mare qui che se la semiotica in generale studia i testi con particolare atten‐
Il bordo e il linguaggio 31
b/n sata
la distruzione della proto‐metropoli e come all’inverso questa in‐
terferisca con la pratica linguistica moltiplicandola e differen‐
00 fre
ziandola.
2
0x ura
4. La fondazione della città, nel testo, ha alcune premesse signifi‐
4
1 s
cative. La prima si trova nel versetto 11.1, che nella traduzione
s
a 3 m bro
normalizzata della Cei sembra alludere a un semplice monolin‐
z z o m to
guismo: “Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse
Bo mat men
parole”. Considerato più da vicino il testo dice però assai di più,
o qualcosa di molto più ambiguo. Intanto non è chiaro come
all
qui la terra per indicare tutti gli uomini che la abitano, ma questo
tipo di interpretazione non è affatto scontata nella Torah, che
tende a prendere sempre molto più letteralmente la nozione di
“terra”11.
zione anche a quei loro dettagli che, apparentemente poco significativi, pos‐
sono rivelarsi come tracce di operazioni di senso non manifestate, lavorando
su un testo così antico e influente bisogna porre attenzione anche a dettagli
“minori”, come un uso lessicale o una forma verbale inconsueta. In generale
la semiotica concorda con la tradizione interpretativa della Torah nel ritene‐
re che in linea di principio ogni aspetto del testo, fino a prova contraria vada
assunto come significativo e vada interrogato sul suo contributo alla signifi‐
cazione. Inutile dire che qui potremo svolgere questo compito solo molto
parzialmente. Ci atterremo però a un principio importante in generale e so‐
prattutto su questo testo, di interrogarlo secondo la sua lingua originale e la
sua forma originale di scrittura, cercando di percepire i fenomeni di senso
secondo la sua pertinenza. Vedremo presto come questo principio possa
comportare una comprensione assai diversa e superiore rispetto a quella che
si ottiene lavorando semplicemente su una traduzione.
11
Oltre all’oggetto della creazione (Gn. 1,1), la terra è “l’asciutto” (1.10) che
“produce germogli, piante ecc.” (1.11) e “esseri viventi secondo la loro spe‐
cie: bestiami, rettili ecc.” (1.24), va “riempita” dalla progenie degli uomini
(1.24), vi abitano i “giganti” (6.4), su di essa “è grande la malvagità degli
uomini” (6,5) sicché “era corrotta di fronte a Dio” (6.5), la sola occasione in
cui forse potrebbe essere intesa riferita all’umanità prima del nostro versetto
32 Ugo Volli
b/n sata
Questo apax legomenon, insieme all’organizzazione gramma‐
ticale molto caratteristica della frase e a una notevole incon‐
00 fre
gruenza testuale, suggerisce la possibilità di un’interpretazione
2
radicalmente alternativa. L’incongruenza sta nel fatto che imme‐
0x ura
diatamente prima dell’episodio di Babele, in ben tre ricorrenze, il
4
1 s
testo si riferisce a una pluralità di linguaggi umani (Gn.10: 2; e
s
a 3 m bro
poi: 20; e infine: 31) corrispondenti alle diverse nazioni discese
z z o m to
dai vari figli di Noè, secondo una formula che si ripete con la so‐
Bo mat men
la variante del nome del figlio: “Questi sono i figli di Sem [di
Cam, di Iafet], secondo le loro famiglie, secondo le loro lingue [“li‐
all
di queste ricorrenze compare appena nel penultimo versetto
prima di quello che stiamo analizzando. Anche se si immagina
qui una giuntura nel testo, secondo l’ “ipotesi documentaria” che
vede nella Bibbia strati diversi montati e unificati da un “redatto‐
re”, bisogna supporre che costui fosse ben distratto per non ac‐
corgersi del problema. Dunque si afferma un plurilinguismo e
poi subito dopo (secondo la traduzione Cei) “tutta la terra parla‐
va la stessa lingua”: strana situazione.
Il fatto è che questa, più che una traduzione è un’interpre‐
tazione. Il testo infatti ha una struttura piuttosto diversa; letta
parola per parole essa dice infatti: “Vajechì [“E fu che”, che spesso
significa semplicemente “allora”] kol [“tutta”] haaretz [“la terra”]
safah [“lingua”, ma letteralmente “labbro” che deriva dalla radice
e però in 6.12‐13 si dice che essa era corrotta perché ogni uomo aveva per‐
vertito la sua condotta” e dunque anche qui va intesa una distinzione). An‐
che la dizione “tutta la terra” (kol haaretz) non è praticamente mai intesa
come equivalente all’umanità; del resto nei pochi versetti dell’episodio, essa
torna tre volte e le altre due sono evidentemente da intendersi in senso lette‐
rale (si parla di disperdere i babelici su “tutta la terra”).
12
Si noti che qui lingua è espressa con lashon, che si riferisce proprio come
primo significato all’organo interno alla bocca e di qui al modo di parlare, e
non safah, letteralemente “labbro, bordo”, come nel brano di Babele. Vedre‐
mo subito che si tratta di un cambiamento lessicale molto significativo.
Il bordo e il linguaggio 33
b/n sata
che significa innanzitutto “bordo”, “confine”] ahat [“una” oppure
“unica”] u [e] devarim [“parole”, ma forse anche “cose”] achadim
00 fre
[“une” o forse anche “uniche” o “uniformi”]. Bisogna tener conto
2
che in ebraico la copula non viene mai espressa per cui la tradu‐
0x ura
zione (eccessivamente) letterale, necessaria per porsi il problema
4
1 s
del significato del testo, suona: “Allora tutta la terra [è] una lin‐
s
a 3 m bro
gua e parole uniche”.
z z o m to È possibile che questo enigmatico frammento si possa davve‐
Bo mat men
ro intendere come “tutta l’umanità aveva lo stesso linguaggio”,
secondo l’interpretazione tradizionale, secondo cui il tema dell’e‐
all
zione dell’unità e in particolare di quel numerale “achat” alla
lingua o al labbro della terra risulta una stridente banalizzazione
della fondamentale dichiarazione di fede, il cosiddetto “shemà”,
“Ascolta Israele”, in cui si afferma che “echad” (il maschile della
stessa parola) cioè uno, unico, o anche solo è il Signore: Egli è
uno e implicitamente il solo a essere davvero uno. Vi è dunque
qui almeno il sospetto di una sottile, ma precisa bestemmia nella
situazione di partenza della torre.
Restano comunque da spiegare queste strane “parole une”,
un plurale qualificato di unità che costituisce una sorta di curioso
ossimoro, che qualcuno13 ha suggerito di intendere come un di‐
13
La fonte di questo tipo di valutazione si trova nel midrash (commento rab‐
binico antico) Bereshit Rabba 38, che viene così sintetizzato da rav Ezra Bick:
“(1) R. Eliezer said: ‘One speech (devarim achadim) – sealed speech (devarim
achudim)’. The sin of the generation of the flood is explicit, but the sin of the
generation of the dispersion is not explicit. ‘Devarim achadim’ – they said
sharp (chadim) things about Our God who is one (echad) and about Av‐
raham, who ‘was one in the land’. They said: Avraham is a sterile mule who
cannot bear children. And about God they said: Is it right that he has taken
the upper worlds for himself and given us the lower worlds? Come let us
make a tower and place an idol on top of it, with a sword in its hand, so that
it will appear as though it is making war on Him (Rashi quotes the last line
as: ‘Let us ascend to the heavens and make war on Him’). (2) Another expla‐
34 Ugo Volli
b/n sata
scorso tautologico, vuoto, obbligatorio, come quello che oggi si
usa chiamare pensiero unico. Vi sono anche altre letture di que‐
00 fre
sta espressione particolarmente suggestiva. Alain Touraine
2
(1992) ne parla così “La stretta comunione che, all’origine di Ba‐
4 0x ura
bele, unisce i “figli dell’uomo” rappresenta uno stato di grazia e
1 s
di armonia in cui nessun ostacolo sembra interporsi ancora tra la
s
a 3 m bro volontà divina e i disegni della creatura”. Petrosino (2003) so‐
z z o m to stiene che vada letta anche secondo l’evidenza che “al di là delle
Bo mat men
diverse lingue vi è sempre uno stesso uomo”. Dunque, potrem‐
mo arrischiarci a pensare una sorta di lingua fondamentale, un
for esti “mentalese”, per dirla con Fodor (1978), o piuttosto la “lingua
all
vera” (o “pura”) di Benjamin (1921)14, quella per cui Benjamin
nation: One speech ‐ shared speech. What belongs to one belongs to the other,
and what belongs to the other belongs to the first.” (Commento sulla parashat
Noach, (http://www.vbm‐torah.org/parsha.59/02noach.htm)). La spiegazione
accennata nel punto (1), che è un gioco di linguaggio basato sulla somiglian‐
za di due parole quali se ne trovano molti nell’ermeneutica ebraica, per cui il
discorso babelico non è solo unico (“achadim”) ma anche chiuso, sigillato,
prigioniero (“achudim”) è stata sviluppata nel commento di Chaim Baharier.
Lo stesso procedimento vale per l’assonanza con chadim, taglienti.
Vale la pena di tener presente che “Rashì, citando il Midrash Tanchumà, il
Targum Jonathan ed il Talmud Jerushalmì Meghillà (1: 9), ci rende subito
partecipi del fatto che l’unica lingua parlata all’epoca era la ‘lingua sacra’,
ossia l’ebraico, la lingua con la quale era stato creato il mondo” (Rav Ric‐
cardo Pacifici). Rashì è un autore dell’XI secolo, il massimo commentatore
ebraico della Bibbia e del Talmud. Vale la pena di aggiungere qui un com‐
mento di Derrida (1996): “Non si parla mai che una sola lingua… (sì ma) ‐ Non si
parla mai una sola lingua”.
14
“Wenn anders es aber eine Sprache der Wahrheit gibt, in welcher die letz‐
ten Geheimnisse, um die alles Denken sich müht, spannungslos und selbst
schweigend aufbewahrt sind, so ist diese Sprache der Wahrheit ‐ die wahre Spra‐
che”. [se … si dà una lingua della verità, nella quale i segreti ultimi intorno a
cui tutto il pensiero si affatica sono custoditi senza tensione e persino tacita‐
mente, allora questa lingua della verità è la vera lingua. E proprio questa lin‐
gua, nel presentire e descrivere la quale risiede la sola perfezione che il filo‐
sofo può augurarsi, è quella intensivamente nascosta nelle traduzioni.] [cor‐
Il bordo e il linguaggio 35
b/n sata
scrive che “ogni affinità metastorica delle lingue si basa sul fatto
che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una sola
00 fre
e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse
2
prese singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni
4 0x ura
reciprocamente complementari: la pura lingua” o quella “per‐
1 s
fetta” di Mallarmé15 che Benjamin cita a epigrafe del suo saggio
s
a 3 m bro sulla traduzione. Il pensiero di una lingua essenziale, unica per
Bo mat men
nomi (Volli 2008a). Non possiamo approfondirla qui, anche se
evidentemente si tratta dell’opposto di Babele, di ciò che rende
all
sivo mio UV]. È evidente nel saggio di Benjamin dedicato alla traduzione
una riflessione implicita ma per nulla segreta sull’episodio biblico che stia‐
mo discutendo. Scrive fra l’altro Benjamin in Sulla lingua in generale e sulla
lingua dell’uomo: “il rapporto assoluto del nome alla cosa sussiste solo in Dio,
solo in esso il nome, essendo intimamente identico al verbo creatore, è il pu‐
ro medio della conoscenza. Vale a dire che Dio ha fatto le cose conoscibili nei
loro nomi. Ma l’uomo le nomina a misura della conoscenza”. La cosa, infatti,
“è creata dal verbo di Dio e conosciuta nel suo nome secondo la parola uma‐
na […]. Nel nome la parola di Dio non è rimasta creatrice, essa è divenuta in
parte ricettiva, anche se linguisticamente ricettiva. Questa ricezione è rivolta
alla lingua delle cose stesse, da cui a sua volta s’irraggia, senza suono e nella
muta magia della natura, la parola divina”. E un po’ più in là: “Il peccato
originale è l’atto di nascita della parola umana, in cui il nome non vive più
intatto, che è uscita fuori dalla lingua nominale, conoscente […]. La parola
deve comunicare qualcosa (fuori di se stessa). Ecco il vero peccato originale
dello spirito linguistico”.
15
Stéphane Mallarmé, Crise de vers: “Les langues imparfaites en cela que plu‐
sieurs, manque la suprême: penser étant écrire sans accessoires, ni chucho‐
tement mais tacite encore l’immortelle parole, la diversité, sur terre, des
idiomes empêche personne de proférer les mots qui, sinon se trouveraient,
par une frappe unique, elle‐même matériellement la vérité”. [Le lingue im‐
perfette in quanto numerose, manca quella suprema: poiché pensare è scri‐
vere senza accessori, né sussurro, ma è tacita ancora l’immortale parola, la
diversità sulla terra degli idiomi impedisce a chiunque di proferire le parole
che altrimenti si troverebbero, in un colpo solo, che sarebbe materialmente la
verità.]
36 Ugo Volli
b/n sata
Babele un problema o forse una punizione. Come scrive Roland
Barthes16:
00 fre
2
La divisione delle lingue è stata oggetto di due miti contrastanti;
1 sall’uomo come dono di grazia. Il potere, sia esso ari‐
mi; nel mito
s
ro
3 m bstocratico o popolare, ha sempre voluto farci tornare (se così pos‐
conferita
a m
o zz to nto lingue
so dire, dalla Pentecoste delle lingue plurali) dallo sciame delle
all
da questo processo emerge la promessa messianica di
una nuova unità linguistica. In un bel saggio sull’argomento Do‐
natella di Cesare (2008) accosta e contrappone il movimento di
dispersione di Babele all’espressione profetica “in quel giorno il
Signore sarà Uno ed il Suo Nome Uno” (Zaccaria XIV, 9), che an‐
nuncia la restaurazione dell’unità anche linguistica del Senso.
Non possiamo seguire qui tutti questi percorsi ricchi di sti‐
moli e di implicazioni. Ma è ben possibile non sostituire ma so‐
vrapporre a questa interpretazione anche un senso geografico (o
geo‐teologico) per cui a kol haaretz, “tutta la terra”, viene assegna‐
to davvero il senso della totalità del territorio; safah achat indica
un unico bordo o confine e “une” o “uniformi” non sono tanto le
parole ma gli oggetti, le cose. “Tutta la terra era dunque rinchiu‐
sa da un confine unico e condivideva ogni cosa”. Letto così, il
versetto sembra implicare una sorta di globalizzazione iniziale,
16
Appunti per la preparazione della lezione inaugurale al College de France, 1977. Il
rapporto fra pentecoste e Babele meriterebbe di essere approfondito, anche
perché la festa cristiana riscrive una delle più importanti feste ebraiche, Sha‐
vuot, che ha un’originale significato agricolo di festa delle primizie e ed è
stata quindi interpretata come il ricordo del natan Torah, la rivelazione della
Torah, avvenuta con la più significativa manifestazione esplicita e pubblica
delle voce divina e dunque della sua (forse molteplice) “lingua”.
Il bordo e il linguaggio 37
b/n sata
un esperimento estremo di concentrazione dell’umanità in un
unico progetto. Il seguito confermerà che questa è un’isotopia
00 fre
plausibile.
2
Il versetto successivo infatti ha esso pure un evidente caratte‐
0x ura
re geografico. Letteralmente: “E accadde che nel partire dall’O‐
4
1 s
riente [letteralmente: dalla parte anteriore] trovarono una valle
s
a 3 m bro
nella terra di Shinar e si stabilirono [letteralmente sedettero] là”.
z z o m to
Questa partenza dall’Oriente può essere letta in molti modi, co‐
Bo mat men
me un allontanarsi dall’Ararat dove miticamente si sarebbe posa‐
ta l’arca di Noè, come un riconoscimento delle radici aramaiche
for esti di Israele17, o in maniera più interessante come un “disorienta‐
all
mento” (Neher 1970). Certamente indica un concentrarsi di una
popolazione non nominata nel testo (il soggetto, coniugato alla
terza persona plurale, non è espresso), o forse possiamo intende‐
re tutti i popoli elencati nel capitolo 10, piuttosto che “tutta le ter‐
ra” del versetto precedente, che richiederebbe un verbo al singo‐
lare. Il nome Shinar ci rimanda secondo l’ermeneutica tradi‐
zionale a Nimrod, il “potente cacciatore” citato in Gn. 8‐10, dove
gli si attribuisce il regno di Shinar e anche di Babele. Dunque sem‐
bra esservi un concentrarsi di tutta la popolazione che la Bibbia
riconosce sotto un unico potere, all’interno di uno stesso confine,
quel “là” (sham) su cui dovremo presto tornare. Se questa lettura
regge, il secondo versetto spiega il primo, non ne rappresenta
uno sviluppo e quello di Nimrod si configura come il primo im‐
pero universale. Questa universalità è, dal punto di vista geo‐
teologico, la premessa fondamentale della storia di Babele.
È qui che si innesta il programma babelico. Il primo dato no‐
tevole è che si tratti proprio di un programma, cioè di una prefi‐
gurazione delle attività che si vogliono compiere e che questa
proiezione nel futuro della possibilità sia collettiva, frutto di un
discorso di “ogni uomo al suo vicino”, dunque di una comunica‐
17
Secondo l’opinione ripetutamente espressa da Garbini (2003).
38 Ugo Volli
b/n sata
zione orizzontale che si propaga, di un’”opinione pubblica”: né
l’una cosa né l’altra si era mai vista prima nella Bibbia e non si
00 fre
ritroveranno se non molto più tardi nel testo, durante la forma‐
2
zione del popolo ebraico nel Sinai. Quel che si propongono i ba‐
0x ura
belici (chiamiamoli così per intenderci, anche se si tratta di
4
1 s
un’anticipazione rispetto al testo, perché il nome della città verrà
s
a 3 m bro
solo alla fine) è innanzitutto (versetto 3) una costruzione artificia‐
z z o m to
le18 che viene considerata degna di presentazione nella sua di‐
Bo mat men
mensione tecnica (è questo il senso della precisazione del verset‐
to: usavano “mattoni al posto di pietre, bitume al posto del ce‐
all
In maniera abbastanza curiosa, ma tutto sommato logica, la
prefigurazione riguarda innanzitutto gli strumenti (mattoni, bi‐
tume) e solo dopo mette in campo l’obiettivo vero e proprio,
l’oggetto di valore. Ma è chiaro che è questo a contare, così come
18
È questa la seconda delle tre “zone di interesse” che Zumthor (1997, p. 29)
individua nel testo “corrispondenti a tre campi lessicali tra i quali si distri‐
buiscono le parole: uno concernente lo spazio, l’altro, il fatto di costruire, il
terzo, la lingua”. In questo testo mi concentro sul primo e sul terzo, notando
che per quanto riguarda il secondo, la tecnica, è evidente la meraviglia di
uno scrittore del testo nomade (o almeno dell’abitante di zone fornite di ma‐
teriale naturale di costruzione come la pietra), rispetto al centro di innova‐
zione materiale costituito dalla metropoli con le sue pratiche artificiali e
industriali, ritenute degne di essere citate anche in un testo del tutto sintetico
come questo. In genere il giudizio del commento è negativo rispetto a questo
aspetto (dice un midrash che i babelici erano indifferenti alla morte di un
umano, ma piangevano per la rottura di un mattone, o che le donne incinte
erano obbligate a continuare a lavorare anche durante il parto, ecc.) Ma tutto
questo nel testo non c’è – sebbene la tecnica e le città siano descritte in pre‐
cedenza come invenzioni di Caino e dei suoi eredi (Gn.4, 17‐22), dunque im‐
plicitamente negative: sulla “questione della tecnica”, così di moda nel pen‐
siero occidentale degli ultimi cento anni, qui non mi diffonderò.
19
Va notato qui un gioco di parole, come quello che concluderà il testo: i
mattoni [lebenah] in luogo della pietra [le’eben] e il bitume [hemar] in luogo
della malta [homer].
Il bordo e il linguaggio 39
b/n sata
viene delineato nel versetto 4. Quel che vogliono costruire i babe‐
lici è ir umigdal, “una città e una torre”. Nell’episodio l’endiadi
00 fre
città‐torre è citato due volte, una volta la città, mai la torre da sola.
2
Dunque, contrariamente a quanto si è abituati a ripetere, il testo
0x ura
non riguarda tanto l’erezione di un monumento, quanto l’edifica‐
4
1 s
zione di un complesso urbano di cui la torre fa parte. Babele è la
s
a 3 m bro
storia della fondazione e della distruzione di una città. È una po‐
z z o m to
tente città fornita di torre che i babelici vogliono, non un semplice
Bo mat men
pilastro altissimo. Se questa città ha, come possiamo ben imma‐
ginare dal versetto 1, safah achat, “un confine unico”, essa rispon‐
for esti de alla stessa logica della Roma di Plutarco: una cerchia che si
all
estende sul piano orizzontale con un elemento verticale al suo
centro; solo che qui al posto di una fossa che affonda nel suolo, il
“mundus” dei romani, abbiamo una torre “e la sua testa in cielo”,
come suona letteralmente il testo20. Naturalmente il problema è
la ragione di un progetto così ambizioso, dispendioso di tempo e
di energie e certamente impossibile da realizzare fino in fondo
(almeno se il fondo è quel cielo da raggiungere con la torre). Per
esempio il maggior commentatore ebraico della Torah, Rashi (XI
secolo), riporta (ad loc.) questo commento rabbinico tradizionale:
They said: Once every 1656 years the heavens collapse (the great
flood took place in the year 1656 after creation). Come let us
build supports, one in the north, one in the south, one in the
west, and this one here will be in the east.
Usualmente si traduce “la cui cima giunga fino al cielo” (Riveduta), “la cui
20
cima tocchi il cielo” (Cei Gerusalemme) ecc. Ma sul piano letterale, giocando
con le metafore, si potrebbe anche parlare di “una testa fra le nuvole”… Si
noti l’assonanza, sempre significativa nella Torah, fra “cieli” Shamaym e le
due parole chiave omografe del testo di cui parleremo in seguito, Sham/
Shem. Dal punto di vista puramente grammaticale, la parola Shamaym appa‐
re addirittura come un duale da Sham, anche se l’etimologia accettata è lie‐
vemente diversa, attribuendo il duale a un singolare non usato Shame,
spazioso, ovviamente legato a Sham. Che il cielo sia duale non deve sorpren‐
dere alla luce della divisione in due che subisce in Genesi 1.
40 Ugo Volli
b/n sata
Vi è chi pensa invece che l’altezza della torre fosse necessaria per
tentare quell’assalto al cielo21 che è uno dei topoi del pensiero
00 fre
tradizionale sui tempestosi rapporti fra umani e divinità, citato
2 anche come una preoccupazione di Zeus nel discorso di Aristo‐
4 0x ura fane contenuto nel Simposio di Platone22:
1 s s
a m ro
3 m bme in comune dal maschio e dalla femmina […] La forma di cia‐
Infatti l’androgino allora era un genere a sé e aveva forma e no‐
o zz to nto circolare, aveva pure quattro mani, quattro gambe e due volti su
scun uomo era rotonda: aveva la schiena e i fianchi di aspetto
B ma me un collo rotondo, del tutto uguali. Sui due volti, che poggiavano
for esti su una testa sola dai lati opposti, vi erano quattro orecchie, due
all
organi genitali e tutto il resto come può immaginarsi da tutto
questo. […] Quanto a forza e vigore erano terribili e nutrivano un
sentire orgoglioso, e quello che dice Omero a proposito di Efialte
e di Oto, che tentarono di dare la scalata al cielo per imporsi agli
dèi, si riferisce loro.
Questo tipo di progetto (e di “colpa”) appare però irragionevole
al commento tradizionale. Scrive rav Brick23:
The Abrabanel advances a number of arguments – some of which
are somewhat contradictory – against understanding these midra‐
shim literally. Either the people of the tower were fools (if they
thought they could actually reach the heaven), in which case they
deserved no punishment at all, or they were totally corrupt here‐
21
Lo stesso Rashi, ibid: “They came with one plan and said, ‘He [God] has no
right to select the heavens for Himself. Let us ascend to the sky and wage
war against Him’”.
22
Anche questa possibilità naturalmente ha a che fare con il tema della tecni‐
ca. Non è raro l’accostamento fra l’episodio di Babele e il celebre primo sta‐
simo dell’Antigone (pollà ta deina kuden deinonoteron anthropou, molte sono le
cose meravigliose sulla terra ma la più meravigliosa è l’uomo, ecc.). Frequen‐
te è anche l’accostamento con Prometeo.
23
Cfr. n. 9.
Il bordo e il linguaggio 41
b/n sata
tics, in which case the punishment was not severe enough. Verse
5 seems to indicate that God thought they could accomplish their
00 fre
goal if left undisturbed (“And now, nothing will prevent them
from achieving that which they planned to do”), which is ridicu‐
2
0x ura
lous if they were trying to build support pillars for the sky.
4
1 s
Insomma, se si inventano degli scopi al di là della lettera del te‐
s
a m b ro
3 mse l’idea di un’umanità che usa la tecnica per lottare contro una
sto, difficilmente si arriva a una spiegazione ragionevole (anche
o zz to ncatastrofe
t o ecologica, in collaborazione/competizione contro l’or‐
B ma me dine naturale del mondo, oggi può sembrare più seducente che
for esti in passato).
Vale dunque la pena di tornare alla lettera del testo, dove è
a l l fornita una spiegazione (un oggetto di valore) particolarmente
interessante dal punto di vista semiotico: “facciamoci un nome
per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra”. “Farsi un
nome” è un’espressione interessante e piuttosto rara nella Bib‐
bia24, che sembrerebbe alludere qui alla creazione di una fama:
facciamoci un nome, diventiamo famosi. Ma i problemi non sono
finiti con questa interpretazione un po’ giornalistica: se “il nome”
(la fama) è notorietà, una notizia per gli altri, questo non è cer‐
tamente possibile nel quadro universalistico di Babele (in cui
“tutta la terra” è unificata e dunque sta lì: chi dovrebbe aver no‐
tizia dell’impresa babelica?). E poi, perché “farsi un nome” do‐
24
La ritroviamo in Samuele 7:23: “E chi è come il tuo popolo, come Israele,
l’unica nazione sulla terra che DIO è venuto a riscattare per sé come suo po‐
polo per farsi un nome, e per compiere per te cose grandi e tremende per la
tua terra davanti al tuo popolo che hai riscattato per te dall’Egitto, dalle na‐
zioni dei loro dèi?” Isaia 63:12: “che li guidava per mezzo della destra di Mo‐
sè con il suo braccio glorioso, che divise le acque davanti a loro per farsi un
nome eterno”. Si noti che in entrambi i casi è Dio che si fa un nome. La non
indifferenza del divino a quello che le genti penseranno di lui, al suo Nome,
in questo senso molto specifico, è del resto evidente nei due episodi di “trat‐
tativa” che conducono con Lui Abramo, a favore di Sodoma e Gomorra, e
Mosé per il popolo ebraico dopo l’episodio del vitello d’oro.
42 Ugo Volli
b/n sata
vrebbe impedire la “dispersione”? E se “tutta la terra” significa
nel verso 1 l’umanità intera, perché essa dovrebbe temere di es‐
00 fre
sere dispersa proprio “sulla faccia di tutta la terra”? Su se stessa?
2
L’espressione non risulta pericolosamente tautologica o autori‐
0x ura
flessiva? La cosa è ulteriormente complicata dal seguito del testo,
4
1 s
quando il timore dei babelici si realizza (ironicamente forse a
s
a 3 m bro
causa della loro azione per evitarlo, una sorta di inverso della se‐
z z o m to
rendipity) e Dio “confonde la lingua di tutta la terra” e “li disper‐
Bo mat men
de” (ancora un plurale non spiegato come al versetto 2) “sulla
faccia di tutta la terra”: Tutta la terra dispersi sulla faccia di tutta
all
È facile rispondere a queste domande invocando una confusio‐
ne o imprecisione del testo, ma al di là del carattere sacro riven‐
dicato dall’Ebraismo e dal Cristianesimo, qui siamo di fronte a
uno dei più potenti racconti della tradizione umana, uno di quel‐
li che più profondamente hanno plasmato la cultura occidentale.
Ogni suo dettaglio è significativo, ogni sua difficoltà istruttiva.
Torniamo dunque al “farsi un nome”. Molti hanno notato che
vi è un contrasto implicito ma netto fra l’anonimato del discorso
collettivo e il progetto di “farsi un nome” che vi si articola: i ba‐
belici, progettando un nome per se stessi, intendono quantomeno
costruire per se stessi un’identità riconoscibile, pur essendo pre‐
sentati come una folla senza volto. Il nome proprio nella Bibbia
non è una parola come le altre o un contrassegno arbitrario: al
contrario esso si applica a qualcosa per delinearne, ma spesso
anche modificarne l’essenza; grazie ad esso talvolta addirittura le
cose acquistano la loro specifica esistenza25.
“Farsi un nome”, può essere letto, secondo Zumthor come la
rivendicazione all’esistenza “come popolo”, significa un voler
comunicare di fronte al “cielo” una presenza significativa. Attra‐
25
Su questo tema vedi Volli (2008a). Da notare che l’interpretazione rabbinica
tradizionale “farsi un nome (shem)” equivale a farsi un idolo. Il termine shem de‐
signa per antonomasia il divino, come mostro nel mio saggio appena citato.
Il bordo e il linguaggio 43
b/n sata
verso il loro terribile sforzo collettivo i babelici cercherebbero di
scampare al loro anonimato di partenza, per entrare nella storia o
00 fre
piuttosto per realizzarla. Se guardiamo ai fatti la storia parte in‐
2
fatti esattamente dove vi è accumulo, sovrapposizione e conflitto
0x ura
di tracce, dove la densità urbana innesca questo processo di scrit‐
4
1 s
tura e riscrittura. Le città sono costruite, letteralmente, una sopra
s
a 3 m bro
l’altra, la loro sovrapposizione nel paesaggio mediorientale pro‐
z z o m to
duce non torri ma cumuli o collinette, “Tal”. Bisogna prendere
Bo mat men
atto che nell’ideologia del testo biblico questo ingresso nella sto‐
ria è valutato negativamente, come una serie di errori cui biso‐
all
se non quella “fine della storia”, cui è ritornata recentemente an‐
che in termini laici la discussione filosofico‐politica26?
Il nome, d’altro canto, anche nella cultura moderna non fun‐
ziona mai come un semplice vettore di riferimento, è il modo di
parlare di qualcosa, ne sintetizza la storia. Farsi un nome è narra‐
tivizzarsi, raccontare di sé. La torre e la città sono dispositivi di
scrittura, oggetti destinati a iscrivere l’esistenza dei babelici, a fis‐
sare la loro memoria (secondo l’etimologia latina di “monumen‐
to”). “Infatti – scrive Derrida (1980) – il testo della Genesi collega
immediatamente, come se si trattasse dello stesso disegno: innal‐
zare una torre, costruire una città, farsi un nome in una lingua
universale che sia anche un idioma, e riunire una filiazione”. Ed
è evidente che il solo testimone possibile, il solo soggetto esterno
a questo lavoro che costruisce la storia attraverso l’urbanesimo,
non può che essere Dio.
Anche per questa ragione la costruzione di una città può esse‐
re pensata come qualcosa che evita la “dispersione”. Il suo bor‐
do, sia fatto di mura o di lingua, è ciò che si oppone direttamente
all’indifferenziato, al confuso, al disperso. Di per sé la città anti‐
ca, segnata dal suo limite, è un dispositivo per segnare il territo‐
26
Fukuyama (1992).
44 Ugo Volli
b/n sata
rio in maniera del tutto opposta alla dispersione, per centrarlo e
separarlo. Babele, come Roma, trasforma in cittadini identificati
00 fre
le masse disperse che vi sono confluite, per mezzo della costitu‐
2
zione di un bordo.
4 0x ura
Per cogliere interamente l’isotopia geografica di questo brano,
1 s
bisogna aggiungere un’altra considerazione, che pure può lascia‐
s
a 3 m bro
re perplesso il lettore moderno. “Facciamoci un nome” è “nassà
z z o m to
lanu shem”; nome è “shem”. Si tratta di una delle parole chiave di
Bo mat men
questo episodio27. Bisogna notare che nella versione non vocaliz‐
zata che è la sola usata fino a circa il decimo secolo della nostra
all
si scrive esattamente come la parola “sham” (là) che è anch’essa
una delle parole più usate e significative del testo. Nell’autocom‐
prensione della tradizione ermeneutica ebraica questo genere di
omografie e in generale le parentele di significante sono molto
più che casi sfortunati, fonti di possibili errori; perché il testo sa‐
cro è quello scritto e la lettura può essere variabile, ma anche per‐
ché, come abbiamo visto nel caso di “devarim achadim/achudim”
nel midrash attribuiro a Rav Eliezer, anche una semplice asso‐
nanza, la cui grafia normale non corrisponde, è spesso usata come
base per un percorso di interpretazione. È comunque possibile
usare entrambe le letture, e comprendere questo testo come se
dicesse “nassà lanu sham”, facciamoci un là, cioè realizziamo un
posto che visto dall’esterno abbia una forza di indicazione tale da
essere preso come direzione. Il che naturalmente è in buon ac‐
cordo con la funzione di una torre e con il problema di evitare la
dispersione28.
27
Anche quantitativamente. In nove versetti, meno di duecento parole, “no‐
me” è citato due volte; “torre” due volte; “città” tre volte, “linguaggio” quat‐
tro volte, “terra” sei volte, “disperdere” tre volte, “uno” quattro volte, “là”
quattro volte, “scendiamo” due volte; “venite” due volte. È evidente la pre‐
dominanza di espressioni spaziali.
28
Per un esempio di questa relazione, si veda questo intervento di Rabbi
Il bordo e il linguaggio 45
b/n sata
5. Come è noto, segue l’intervento divino che ottiene esattamente
il risultato temuto dai babelici, disperdendoli per tutta la terra
00 fre
(versetti 7 e 8). Sulle ragioni di questa azione, che appare senza
2
ira e non imputa esplicitamente nulla ai costruttori della città29,
4 0x ura
vi è stato un grande dibattito: c’è chi ha immaginato nei dettagli i
1 s
peccati di Babele, spesso legandoli al tema della tecnica (ma an‐
s
a 3 m bro che a problemi geografici: “orsù, costruiamoci una città” Gn.11,4,
z z o m to sarebbe l’opposto del comandamento divino “siate fecondi, mol‐
Bo mat men
tiplicatevi riempite la terra” Gn. 1,28) e chi ha invece pensato che
l’intervento divino fosse un aiuto a disincagliare la vita dei babe‐
for esti lici dalla chiusura e dalla tautologia dell’unica città, dell’unico
all
Josh Feigelson, della Northwestern University: “Judaism expresses this ten‐
sion in such dichotomies as a God who has a name, which we do not utter; a
God who is outside the world and history, and who is simultaneously part
of it; a God who lives in Heaven, and who lives in a house on earth, a Mish‐
kan. My rebbe and teacher, Rabbi Avi Weiss, points out that the Tower of
Babel is in many ways a prelude to the Mishkan. For our purposes, the most
notable thing about the Mishkan is how it is referred to six times in sefer
Devarim, ‘Hamakom she’yivchar l’shaken shmo sham’, ‘The place He will
choose for His name to dwell’. The Torah here beautifully ties together the
ideas of name and place, shem and sham, fully heightening the potentially
idolatrous, but clearly necessary, elements in our relationship with God (and
other people, images of God): God (and people) must have a name and a
place if we are to relate to God (and them), but God (and they) cannot possi‐
bly be limited to that name or that place”.
29
Scrive Zumthor (1997, p. 43): “Il testo non parla mai di colpa: solo alcuni
commentatori hanno evocato il peccato di Babele. Non una parola ci dice di
una collera divina. Il Signore si mostra curioso (egli viene a ‘vedere’ l’opera
umana) e irritato, niente di più. Non una parola accusa l’uomo di aver di‐
sprezzato un divieto. Il Signore li mette nell’impossibilità di proseguire, tut‐
to qui. Al peggio, Egli denuncia una iniziativa che gli dispiace”. Il paragone
implicito va chiaramente all’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dal
giardino dell’Eden, dove l’accusa e la condanna sono ben presenti. Pure è
possibile anche in questo caso una valutazione diversa: nel mondo cristiano
quello è il “peccato originale”, che si ripercuote su tutta l’umanità, mentre
l’ebraismo ne nega un tale valore metafisico assoluto.
46 Ugo Volli
b/n sata
linguaggio, delle parole condivise, del lavoro comune, insomma
di un’uniformità “comunista”30. Non discuteremo qui di questo e
00 fre
neppure di altri dettagli del testo che danno da pensare (per
2
esempio: perché la “discesa”, addirittura doppia, per un Dio che
0x ura
è dappertutto? E perché quel plurale?).
4
1 s
Bisogna soffermarsi qui invece ancora su due dettagli del te‐
s
a 3 m bro
sto. Il primo è il modo in cui la dispersione viene realizzata:
z z o m to
spezzando l’unità del linguaggio (del labbro, del bordo, del con‐
Bo mat men
fine dalla cui unità cui siamo partiti): il testo dice Havah (“an‐
diamo” o “orsù” – è la stessa espressione che i babelici usano nel
for esti verso 4) nerdah (“scendiamo”) venavlah (“e confondiamo”) sham
all
(“lì”) sefatam (“il loro labbro” o “bordo” o “confine”) asher (“che”)
lo (“non”) yishmeu (“ascolterà”) ish (“uomo”) sefat (“il labbro” o
“bordo” o “confine” del) reehu (suo vicino”).
Partendo da un dettaglio la cui importanza sta in quel che ab‐
biamo appena detto, si può notare anche qui un’ambiguità di
quel “lì”, messo in una posizione strana nella frase, che potrebbe
significare anche “il nome”, e diventare così oggetto del “con‐
fondere”. Lo stesso lì è ripetuto altre due volte in maniera piutto‐
sto ridondante nel versetto successivo: lì la divinità confuse le
lingue e di lì disperse i babelici. Ma il verbo levalol, tradotto qui
normalmente con “confondere”, significa innanzitutto “sovrap‐
30
È interessante registrare a questo proposito l’intuizione di Kafka che l’im‐
presa di babele fosse destinata a ripiegarsi su se stessa e a estinguersi da so‐
la, senza l’intervento divino. Si veda il suo racconto “Lo stemma della città”:
“ci si preoccupava troppo di guide, interpreti, alloggi per gli operai e vie di
collegamento, come se secoli e secoli di libero lavoro stessero ancora dinanzi.
[…] Così passò il tempo della prima generazione, ma le seguenti erano tal
quali, soltanto la perizia nelle arti s’accresceva sempre più, e con essa la bra‐
mosia di contesa. Oltre a tutto ciò, fin dalla seconda o dalla terza generazio‐
ne ci si avvide che la costruzione della torre che doveva toccare il cielo era
una follia, ma ormai tutti si sentivano troppo legati l’uno all’altro per abban‐
donare la città” (Franz Kafka, 1976, Il messaggio dell’imperatore. Racconti, Mi‐
lano, Frassinelli‐Adelphi, pp. 284‐285).
Il bordo e il linguaggio 47
b/n sata
porre” e solo in conseguenza “mescolare” e “confondere”, ma
anche “consacrare”, dato che i sacrifici vegetali erano preceduti
00 fre
dal gesto di mescolare farina e olio.
2
E dunque sì, l’azione divina consiste forse in una confusione
0x ura
delle lingue, ma fors’anche in una sovrapposizione dei confini, in
4
1 s
un lavoro di cancellazione delle distinzioni e delle distanze, nella
s
a 3 m bro
cancellazione del lì, in un collasso della struttura geografica uni‐
z z o m to
taria della città, onde i babelici non sono più in grado di ascoltare
Bo mat men
l’uno il labbro dell’altro. Questo mescolamento nel caso di Roma
avviene nel mundus dove si mescola la terra di tutti i futuri cit‐
all
dere il bordo unico; nel caso di Babele un gesto simile cancella
l’unità e produce confusione.
Certo, se “sefah” dovesse voler dire dappertutto lingua, l’af‐
fermazione che ogni uomo non ascolti la lingua del suo vicino
sarebbe molto strana, perché gli uomini non si troverebbero osta‐
colati solo da una molteplicità delle lingue dei popoli che rende‐
rebbe problematica la comprensione31, ma di un’incomunicabilità
individuale, come la intende Dante nell’Inferno32: addirittura
dall’azione divina nascerebbero lingue individuali impossibili da
capire a tutti gli altri uomini “vicini” a chi la parla; insomma,
ognuno avrebbe la sua lingua. Con il che si dissolverebbe lo stes‐
so concetto di lingua, che per necessità, in quanto strumento di
comunicazione, dev’essere sempre sociale e condivisa: il solo
modo di essere sicuri di capirci anche da noi stessi è parlare una
lingua pubblica, come ha insegnato Wittgenstein33. In ogni caso,
31
L’interpretazione tradizionale spesso parla qui di 72 lingue diverse che
nascono a Babele. Ma il numero nel testo non c’è e sembra accennare soprat‐
tutto a una simbolica numerica della molteplicità. In realtà il testo non parla
mai di moltiplicazione, bensì solo di “confusione”.
32
Cfr. la nota successiva.
33
Wittgenstein (1953, §§ 243‐315), vedi anche Kripke (1982). E interessante il
modo in cui Dante affronta la questione: In Inferno XXXI, 67 il capo della
48 Ugo Volli
b/n sata
questa frammentazione così estrema, risultato del balal divino
potrebbe spiegare perché l’episodio di Babele non sia in contrad‐
00 fre
dizione con l’esistenza già stabilita di una pluralità di lingue, co‐
2
me ho accennato in precedenza. Esse potrebbero essere infatti in
0x ura
un certo senso unite – nel senso di Benjamin, per esempio: capaci
4
1 s
di tradursi reciprocamente in quanto portatrici della “pura lin‐
s
a 3 m bro
gua”. Dopo il fallimento di Babele nel mondo non verrebbe in‐
z z o m to
trodotta la pluralità linguistica, quanto piuttosto l’incomunicabi‐
Bo mat men
lità, l’opacità del linguaggio. Ogni attività linguistica individuale
procede per conto suo e nessuno può comprendere, o meglio
all
Di fronte a questa analisi non risulta così pretestuosa l’altra
lettura, per cui l’azione divina consisterebbe nella sovrapposizione
dei confini, in modo che nessuno sarebbe in grado di rispettare
quello dell’altro, provocando una sorta di conflitto prossemico
generalizzato; e soprattutto la cancellazione e dispersione di
quella grande barriera contro il territorio indifferenziato che è il
bordo della città.
Si noti infine che la legge del contrappasso è resa completa
non solo per il fatto che i babelici con la loro azione ottengono
proprio ciò che cercavano di evitare, ma anche che l’incompren‐
sione coglie proprio quel legame anonimo di ciascuno col suo vi‐
cino (ish el reehu) che abbiamo visto all’origine del programma
della città.
Torre, il gigante Nembrotte (Nimrod) “per lo cui mal coto / pur un linguag‐
gio nel mondo non s’usa” pronuncia parole incomprensibili: “Raphèl maì
amèche zabì almi”. Per Virgilio non bisogna dargli attenzione: “Lasciànlo
stare e non parliamo a vòto; / ché così è a lui ciascun linguaggio / come ‘l suo
ad altrui, ch’a nullo è noto” (si noti che gli attribuisce un linguaggio privato
incomprensibile) e lo apostrofa “Anima sciocca, / tienti col corno, e con quel ti
disfoga quand’ira o altra passïon ti tocca!” (il corno è forse lo shofar ebraico,
che forse Dante aveva avuto occasione di incontrare). Dante comunque regi‐
stra l’espressione e esprime con chiarezza il problema, con la sua solita ge‐
niale sensibilità ai problemi del linguaggio.
Il bordo e il linguaggio 49
b/n sata
L’altro dettaglio da considerare è l’etimologia del nome della
città, esplicitata nel verso 9, secondo un’abitudine molto diffusa
00 fre
nel testo biblico34, come una derivazione dalla voce verbale balal,
2 “confuse”, “perché là il Signore confuse la lingua di tutta la ter‐
4 0x urara” L’etimologia è ovviamente discutibile. Come nota Zumthor,
1 s s
a m ro
3 m bne accadica Bab‐ilu, “Porta del Dio”. Nessun dubbio che i redat‐
Noi sappiamo per altra via che Babel non è altro che l’espressio‐
o zz to nto tori lo sapessero anche loro. Perché dunque questo gioco?
B ma me Derisione sprezzante per la religione babilonese; ironia per deni‐
o r
f es t i grare i costruttori della torre; gioco di parole dal sapore popolare;
intenzione deliberata, manifestazione di un senso esoterico? Gli
all
esegeti non hanno potuto mettersi d’accordo sulla portata di
questa creazione verbale – che almeno dev’essere registrata come
tale35.
34
Val la pena di considerare una questione preliminare. Il testo del versetto
dice che “perciò” karà “il suo nome [della città] Babel”. Karà è terza persona
singolare (attiva, nel modo grammaticale “paal”) del verbo likrò, chiamare.
La sua traduzione ovvia è “chiamò” e il solo soggetto disponibile è Dio. Quin‐
di il nome è dato da Dio, come per esempio è reso qualche volta nelle tradu‐
zioni in lingua inglese (King James: “Therefore is the name of it called
Babel”). Nella totalità delle altre traduzioni, come quelle della Cei, ma anche
di Lutero, si traduce il verbo come se fosse al passivo (ma allora il verbo sa‐
rebbe nikrò) o alla terza persona plurale (e allora suonerebbe karù): la città fu
chiamata, si dette il nome, chiamarono la città ecc. La distinzione è impor‐
tante, perché implica un atto umano invece che uno divino.
35
L’ambiguità però non può essere intorno al riferimento del nome alla città
o a Dio, come pretende Derrida (1980), cui fa eco Zumthor, sulla scorta di
una traduzione poetica e assai precisa ma inevitabilmente approssimata di
Churaqui. Scrive Churaqui traducendo i versetti 8 e 9: “Confondiamo le loro
labbra, l’uomo non capirà più le labbra del suo vicino.[…] Smettono di co‐
struire la città. Sulla quale Egli grida il suo nome, Bavel, Confusione” In
francese e nella traduzione di traduzione italiana la confusione c’è, mentre
nel testo ebraico “il suo nome” è shemah espressione che si riferisce al pos‐
sessivo di un oggetto femminile. A Dio il testo si riferirebbe dicendo shemoh.
Questo testimonia di come anche interpreti raffinati possano prendere vere e
50 Ugo Volli
b/n sata
Non ci interessa qui provare a risolvere questo problema sulle
intenzioni del testo o dei suoi redattori, che sono sempre un ar‐
00 fre
gomento scivoloso e indecidibile, proprio perché attiene alla sfe‐
2
ra intima delle motivazioni, ancor più indecifrabile se il narratore
0x ura
in questione dev’essere inteso come la divinità, secondo la tradi‐
4
1 s
zione. Resta il fatto che l’episodio si chiude dando il nome alla cit‐
s
a 3 m bro
tà – invece di aprirsi con esso com’era il caso di Roma. Prima
z z o m to
d’allora la città non ha nome proprio. E che questo nome non al‐
Bo mat men
lude alle circostanze della fondazione della città, per esempio al
nome del suo fondatore, come a Roma, ma all’opposto a quelle
all
fatto Babele esisteva ai tempi della compilazione della Bibbia. Il
riferimento etimologico è molto debole, una semplice assonanza:
si dice che il nome è “babel” perché Dio “balal”36. E però la città
archetipica secondo la Bibbia, la prima che ha un nome, secondo
questa para‐etimologia, è chiamata “confuse” o “sovrappose”, un
tema su cui Derrida (1980) ha attirato con forza l’attenzione. Il
che caratterizza probabilmente anche una certa considerazione
ideologica della vita metropolitana, che senza dubbio appare agli
occhi dei nomadi come “confusione” istituzionalizzata. Ma so‐
prattutto, dal nostro punto di vista, indica un modo rituale di di‐
proprie cantonate basandosi esclusivamente su traduzioni. Del tutto corrette
sono invece le riserve sulla doppia traduzione di Churaqui del nome Babel,
come “Babele, Confusione”.
36
Bisogna tener conto anche di una possibile spiegazione teologica. Scrivono
A.M. Scarpa e G. Marconi in un articolo, “Babele”, che si trova in rete (http://
www.babelonline.net/home/001/tema/tema_babel.pdf): “L’autore allude in ter‐
mini polemici alle torri‐templi chiamate ziggurat, denominate ‘porte del cie‐
lo’ o ‘della divinità’, strumento di comunicazione fra il cielo, dimora degli
dèi, e la terra degli uomini, come ad esempio E‐temen‐an‐ki dedicata al dio
Marduk in Babilonia (equivalente di Babele, o anche Bab‐ilani ovvero ‘la por‐
ta degli dèi’), costruita al tempo di Hammurapi. Costruzioni imponenti in‐
terpretate dal lettore biblico come simbolo del potere dei grandi imperi,
espressione di hybris umana”.
Il bordo e il linguaggio 51
b/n sata
struzione che in fondo è analogo a quello che abbiamo visto ap‐
plicato dai romani a Cartagine: “sovrapporre” all’esistenza diffe‐
00 fre
renziata della città, alla sua “unità” formale, una molteplicità di
2
bordi o confini, come quelli che rigano la superficie dei campi. In
0x ura
un censo senso ararla, “striarla” di nuovo in linee aperte per “li‐
4
1 s
sciarne” la chiusura.
s
a 3 m bro L’episodio così finisce e la narrazione biblica riprende esatta‐
z z o m to
mente da dove si era interrotta in Gn. 10,31, il penultimo versetto
Bo mat men
prima di Babele, con le genealogie di Sem, reiterate a partire da
Gn.11,10: una messa fra parentesi del nostro episodio tanto più
all
scrive nel testo biblico shem, che è esattamente la stessa parola di
quel “nome” (e magari ancora di quel “là” sham) che abbiamo di‐
scusso sopra. Babele è un intervallo tra due dispiegamenti del
nome “nome” – e quindi, secondo la concezione classica ebraica,
del cuore della lingua.
6. Siamo ora in condizione di concludere questo percorso con
qualche considerazione semiotica. Nella fondazione di città e nel‐
la loro distruzione rituale vi è un intreccio molto fitto fra lin‐
guaggio (o atti simbolici) e manipolazioni spaziali. In queste
situazioni agisce una struttura narrativa in cui solo apparente‐
mente la città da fondare è l’oggetto di valore. Quel che è in gio‐
co al di là della realizzazione fisica della struttura urbana è la
fama (il “nome”) della nuova realtà. La città fisica rispetto a que‐
sta meta si pone come mezzo, e la sua sopravvivenza eventual‐
mente come sanzione. L’aspetto fondamentale che ho illustrato è
la complessità della competenza necessaria per realizzare il com‐
pito della fondazione: una competenza che serve a realizzare una
segmentazione efficace dell’urbano rispetto allo spazio indiffe‐
renziato. È in questo processo di differenziazione, realizzato fisi‐
camente da un confine o da un bordo, che la città si de‐finisce e
fonda la sua capacità di orientamento. Questo processo può pe‐
52 Ugo Volli
b/n sata
raltro essere valorizzato dal testo che lo narra in modi assai di‐
versi, come un’impresa saggia e magari eroica, ricca di futuro,
00 fre
com’è il caso di Roma, o come un errore, un inciampo o peggio,
2
un peccato o una bestemmia, come nel caso di Babele.
4 0x ura
Resta un intreccio, un nodo, un palinsesto che è l’urbano: il
1 s
“là” da cui prospetticamente si parla o per cui si parla, il luogo in
s
a 3 m bro
cui le lingue o i discorsi si mescolano e insieme si separano dal
z z o m to
resto del mondo. Un paradosso fragile che si cancella con metodi
Bo mat men
molto simili a quelli che lo costituiscono.
for esti
all
n PARTE I
b sata
/
00 fre
SPAZI PER LA CULTURA: ARA PACIS E AUDITORIUM
2
0x ra
1
4 ssu
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
n
b sata
/ Isabella Pezzini
0 0 fre
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 1
0 x2 ra
1 4 ssu
a 3 m bro
1. L’oggetto della ricerca
z z o m Musica sono ormai diventati dei veri e propri tangibili loghi del
o
Sia il nuovo museo dell’Ara Pacis che l’Auditorium Parco della
t
o t n
B ma me programma di forte investimento in direzione dell’offerta cultu‐
for esti rale della città che ha caratterizzato l’amministrazione di Roma
all
fra il 1993 e il 2008. Gli interventi di riscrittura sono avvenuti in
due aree ritenute strategiche nel riassetto e dunque nella ridefi‐
nizione delle specificità, delle vocazioni o delle specializzazioni
del tessuto cittadino.
Entrambe le realizzazioni culminano in forti segni di archi‐
tettura contemporanea, che fanno rima con altri progetti firmati
da celebri architetti in corso di realizzazione nella città (fra i quali
l’ampliamento della Galleria Comunale di Arte Contempora‐
nea, MACRO, di Odile Decq; il Museo Nazionale delle Arti del
XXI secolo MAXXI, di Zaha Hadid; il nuovo Centro Congressi
detto “la Nuvola” di Massimiliano Fuksas), tutti indicatori del
riconoscimento operato dagli amministratori del particolare va‐
lore comunicativo e di rappresentanza assunto oggi dall’archi‐
tettura2.
1.1. Il nuovo museo dell’Ara Pacis
Il primo intervento studiato è in realtà il più recente, ed è av‐
1
Questo scritto riprende con alcune modifiche il saggio pubblicato negli Atti
del convegno internazionale La città come testo. Scritture e riscrittura urbane
(Leone, a cura, 2009).
2
Cfr. Ciucci, Ghio, Rossi (2006), cap. 3, “Le nuove icone della città”, pp. 120‐160.
56 Isabella Pezzini
b/n sata
venuto nel centro storico, in un punto nevralgico ma da tempo
trascurato, Piazza Augusto Imperatore, il cui perimetro esterno
2 00 fre
è delimitato da via della Frezza a Nord e via Tomacelli a Sud,
il Lungotevere a Ovest e via Corso a Est. Prima dell’intervento,
0x ura
questa piazza veniva considerata quasi una “periferia interna”,
4
1 s s
retroscena di quel centro commerciale naturale di lusso che
a 3 m bro
negli anni si è attestato nel tridente da Piazza del Popolo a
z z o m to
Piazza Venezia, nonché un vecchio emblema degli sventra‐
Bo mat men menti operati dal fascismo. Ridisegnata da Vittorio Ballio
for esti
Morpurgo, la piazza in realtà è rimasta incompiuta al 1939 a
causa della guerra. La sua realizzazione, dopo essere stato a
all
lungo mal tollerata, oggi è “storicizzata”, e cioè considerata a
tutti gli effetti un importante esempio dell’architettura del pe‐
riodo, al di là del suo valore rappresentativo nei confronti del‐
la dittatura fascista3. La piazza, inoltre, si sviluppa intorno al
Mausoleo di Augusto, gigantesca tomba circolare in gran parte
interrata. Coperta, essa ebbe funzione di Auditorium, fino al
1936, quando Mussolini (che si diceva avesse eletto il luogo a
proprio sepolcro) fece demolire la sala in vista di una nuova
sistemazione nell’ambito della piazza. Nel corso del tempo,
questo monumento, già ampiamente saccheggiato e progressi‐
vamente lasciato a se stesso, ha assunto l’aspetto di un roman‐
tico giardino con rovine, popolato di gatti e clochard: è stato
oggetto di un concorso per la riqualificazione nel 2006, vinto
da un progetto di Francesco Cellini, oggi in corso di realizza‐
zione, che lo renderà più visibile e agibile ai turisti. Molto au‐
mentati dall’inaugurazione del nuovo museo – ’ risulta la terza
meta preferita dai visitatori di Roma –, essi tendono infatti
istintivamente a inoltrarvisi dopo la visita all’Ara Pacis, e pri‐
ma di approdare a un tavolo dei molti locali di tendenza che
3
Cfr. Rossini (2007), cap. “L’Ara Pacis da Morpurgo a Meier”.
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 57
b/n sata
coronano l’idealtour “dallo shopping al museo” in questo pun‐
to della città (Criconia 2007).
2 00 fre
Il nuovo Museo dell’Ara Pacis, inaugurato nel settembre 2006,
costituisce un caso unico nella storia post‐bellica di Roma: è in‐
0x ura
fatti un’opera di architettura contemporanea costruita nel centro
4
1 s s
storico, e oltretutto previa demolizione di un edificio preesisten‐
a 3 m bro
te, fatto piuttosto raro ed eclatante. Si trattava della cosiddetta
z z o m to
“teca Morpurgo”, un contenitore nato in realtà come provvisorio
Bo mat men
per la fretta e la scarsità di mezzi, fatto erigere in tempi record
dallo stesso Mussolini per le celebrazioni fasciste del bimillenario
all
velato del tutto inadeguato dal punto di vista della conservazio‐
ne museale.
L’opera odierna è firmata da un architetto americano di fama
internazionale, Richard Meier, a cui è stata commissionata per
incarico diretto dall’amministrazione cittadina, sindaco France‐
sco Rutelli4. Il progetto e la sua esecuzione, completata durante il
successivo mandato di sindaco di Walter Veltroni, sono stati ac‐
compagnati da un acceso dibattito sulla stampa quotidiana e
specialistica e da violente opposizioni, che hanno contribuito alle
importanti modifiche al progetto in corso di esecuzione5.
4
Per la precisione, il Committente del nuovo museo dell’Ara Pacis è il Co‐
mune di Roma‐Sovraintendenza ai Beni Culturali, Ufficio Città Storica. L’in‐
carico è affidato nel 1996; nel 2000 iniziano i lavori, che si interrompono per
approfondimenti degli scavi e conseguenti modifiche al progetto. Il 23 set‐
tembre 2006 sono inaugurati gli spazi dell’auditorium e del museo (cfr.
Ciucci, Ghio, Rossi 2006, p. 136). Richard Meier era già anche autore, sempre
a Roma, della parrocchia di Dio Padre Misericordioso, nel quartiere periferi‐
co di Tor Tre Teste, commissionato dal Vicariato di Roma (1996‐2003).
5
Il dibattito in ambito architettonico è ben rappresentato nella Rassegna
stampa tematica del sito dell’Ordine degli Architetti di Roma, www.architet
tiroma.it.
58 Isabella Pezzini
b / n ta
1.2. L’Auditorium Parco della Musica
aè l’Auditorium Parco della Musi‐
es situato fra il quartiere Flaminio
Il secondo intervento studiato
ca, progettato 0da 0Renzo frPiano,
2 aParioli (sud), Villa Glori (est) e Villaggio
(ovest), il xquartiere
4 0 u r
Olimpico (nord), al quale idealmente offre un “cuore”, una piaz‐
za 1 s s
sempre mancata. Prima dell’intervento, la zona era lasciata
3 o
a mmnell’incuria,
r pericolosa di notte benché “semi‐centrale” come il
z b
o Flaminio, dove è attualmente in costruzione anche
o z to nil MAXXI (Museo Nazionale delle arti del XXI secolo) progettato
t
quartiere
B ma me da un’altra architetta di fama mondiale, Zaha Hadid, in vista di
for esti ti”.
una più ampia ridefinizione della zona come “quartiere delle ar‐
all
Il pro‐getto di Renzo Piano – diversamente da quello per ‐
l’Ara Pacis – ha vinto un concorso internazionale a inviti nel
1993, e i lavori sono iniziati nel 1995. Previsto per il 2000, il com‐
plesso è stato inaugurato a partire dal 2002, ed ha comunque
percorso un iter molto lungo e complesso in tutte le sue fasi. A
partire alla scelta del luogo, caduta infine in una zona “spenta” e
marginale sebbene certamente non periferica, priva di interventi
diretti dagli anni sessanta, dove però nel corso degli scavi sono
state individuate le fondamenta di una villa romana. Questo so‐
prattutto ha comportato, con il loro inglobamento, importanti
modifiche al progetto iniziale
L’Auditorium si è progressivamente caratterizzato come una
struttura multifunzionale, in grado di ospitare eventi di grande
importanza culturale e sociale (dai concerti della Stagione di San‐
ta Cecilia, alla Festa del cinema ai Festival di filosofia, matemati‐
ca, scienza…) e sembra avere inciso profondamente nella vita
culturale di Roma e nella sua immagine di metropoli anche all’e‐
stero. Ad oggi, malgrado le critiche, il successo dell’operazione
appare evidente, anche in termini economici e di immagine: nel
2006 la struttura musicale ha avuto 934.563 spettatori paganti, e
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 59
b/n sata
sotto questo aspetto è al primo posto in Europa6. Differentemente
dall’Ara Pacis, l’intervento è stato accolto sostanzialmente con
00 fre
favore, come osserva Piero Ostilio Rossi: “Per la prima volta do‐
2 po molti anni un’opera di architettura moderna è tornata al cen‐
4 0x ura tro dell’interesse della vita cittadina ed è oggetto di valutazioni,
1 s s
di discussioni e di critiche, ma – questo è il punto – è sentita co‐
a 3 m bro me una componente significativa e vitale della città” (Rossi, in
z z o m to Ciucci, Ghio, Rossi 2006, p. 45).
Bo mat men
for esti 2. L’approccio e il metodo di analisi
all Dal punto di vista del metodo di studio, il gruppo di ricerca ha
lavorato in tre direzioni principali: in termini di analisi dei di‐
scorsi e delle istanze discorsive pubbliche che hanno accompa‐
gnato i progetti; di analisi semiotica dei testi architettonici in
relazione al loro cotesto; di osservazione diretta, in un approccio
socio‐ ed etno‐semiotico degli usi e delle pratiche sociali che si
vanno sedimentando in questi luoghi.
2.1. L’Ara Pacis
Un primo passo della nostra ricerca, dunque, ha riguardato pro‐
prio l’intreccio dei diversi discorsi che hanno accompagnato i
progetti (Mondada 2000). Ogni area urbana che si trovi al centro
di un processo di “riscrittura” si trova infatti potenzialmente al
centro di una serie di enunciazioni, che considerate nel loro svi‐
luppo successivo, sintagmatico, danno luogo a diverse narrazio‐
ni, a cui tutti i discorsi ulteriori fanno riferimento in modo più o
meno esplicito. Schematicamente, per quanto riguarda l’Ara Pa‐
cis, possiamo distinguere tra le narrazioni che riguardano la sto‐
I dati sono pubblicati dal Rapporto annuale del sito ufficiale dell’Auditorium,
6
www.auditorium.com.
60 Isabella Pezzini
b/n sata
ria del luogo e dei suoi abitanti (il sito e le sue trasformazioni,
piazza Augusto Imperatore); la storia del monumento (l’Ara Pa‐
00 fre
cis e i significati che le sono stati attribuiti); la storia del progetto
2
in questione (la volontà politica, la scelta di Meier); le vicende e
0x ura
la discussione del progetto stesso7.
4
1 s
Ovviamente ogni narrazione tende a incrociarsi con le altre e
s
a 3 m bro
a porsi, almeno a zone, in modo metalinguistico rispetto ad esse,
z z o m to
e spesso sono proprio questi nodi semantici ad essere rivelatori
Bo mat men
di conflitti soggiacenti, esplicitati o meno. Inoltre, ogni narrazio‐
ne seleziona i propri protagonisti, attori dotati di competenze e
all
punti di vista, le possibili diverse prospettive sugli stessi elemen‐
ti ed eventi. Un ruolo di mediazione e di sintesi, certamente non
neutrale, viene in genere assunto dal discorso giornalistico e te‐
levisivo, accessibile ad un pubblico più vasto e creatore entro cer‐
ti limiti di una comunità mediale che si sente a pieno titolo
partecipe della vita cittadina.
Per ricostruire l’intreccio fra queste narrazioni si è intrapresa
l’analisi della presentazione offerta dal catalogo, dal sito internet
e più in generale dalla comunicazione del Museo, accanto alla
ricostruzione del dibattito pubblico avvenuto sulla stampa o da
essa riportato (basato in particolare sul corpus degli articoli rac‐
colti dal sito internet dell’Ordine degli architetti di Roma).
L’analisi, condotta con strumenti semiolinguistici, ha cercato di
individuare le principali strategie narrative ed enunciative adot‐
tate nelle ricostruzioni e nelle argomentazioni a favore o contra‐
rie al progetto: le rappresentazioni degli attori in gioco, le loro
competenze, i valori convocati e discussi; i temi principali del di‐
battito, il livello retorico‐figurativo dei discorsi.
Un secondo passo della ricerca, sempre per quanto riguarda
Queste “narrazioni” forniscono del resto la scansione interna del libro di
7
Orietta Rossini (2007), di fatto catalogo del Museo.
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 61
b/n sata
in particolare l’Ara Pacis, è consistito nella visita al museo e nella
sua descrizione secondo un approccio di semiotica sincretica,
00 fre
dove l’analisi dello spazio architettonico si stratifica con quella
2
dell’allestimento museale, degli oggetti esposti e della comunica‐
0x ura
zione nei confronti del visitatore: espressioni eterogenee (archi‐
4
1 s
tettura, reperti, oggetti, linguaggio verbale e non verbale) concor‐
s
a 3 m bro
rono a formulare un messaggio comune, la cui unità si percepisce
z z o m to
in termini di effetti di senso complessivi (Hammad3 2006).
Bo mat men
Un carattere specifico di questo museo è di nascere anzitutto
come contenitore di un singolo monumento di particolare valore,
for esti di difficile conservazione anche a causa della sua collocazione,
all
sulle rive del Tevere, in pieno traffico cittadino. A partire da que‐
sto vincolo possiamo individuare tre aspetti che caratterizzano il
progetto del museo, senza entrare nel merito di una valutazione
critico‐architettonica dell’opera di Meier. Anzitutto l’altissima
risoluzione tecnologica dei materiali e degli apparati, che si spo‐
sa con l’evidente ricerca di relazioni, rime e citazioni del contesto
e della teca preesistente: l’uso del travertino, che domina gli edi‐
fici monumentali della piazza; il recupero delle grandi lastre con
l’incisione delle Res Gestae, che vanno a costituire il fianco destro
dell’edificio; la collocazione di una fontana e un obelisco di fron‐
te all’ingresso principale, stilizzatizzazioni rispettive del sette‐
centesco porto di Ripetta, interrato con la costruzione degli argini
ottocenteschi, e dell’orologio solare di Augusto, che in origine
completava il monumento… Il secondo carattere è l’apparente
semplicità della principale struttura espositiva, un grande spazio
vetrato attorno all’Ara, e di conseguenza del primo tratto del
percorso del visitatore. Questo è chiamato a un’esperienza esteti‐
ca di forte impatto, quasi subito dopo l’ingresso nel museo, mar‐
cato da un brusco passaggio dall’ombra alla luce. Il primo pic‐
colo corpo “introduttivo” fornisce infatti, sulla destra, il plastico
con la collocazione originaria dell’Ara Pacis nel Campo Marzio,
mentre a sinistra una fila di copie di teste romane, i Comites
62 Isabella Pezzini
b/n sata
Latentes, ha la funzione di accogliere i visitatori nella dimensione
culturale dell’età di Augusto. Dopo il previsto percorso di ammi‐
00 fre
razione, nel corpo centrale, attorno e attraverso l’Ara, in direzione
2
obbligata, e quindi dopo una fruizione soprattutto estesico‐pate‐
0x ura
mica, solo nel sotterraneo il visitatore potrà ritrovare e appro‐
4
1 s
fondire tutti i dati e le conoscenze relative al monumento, in gra‐
s
a 3 m bro
do di fornirgli una competenza più strutturata.
Bo mat men
con l’aggregazione degli spazi sotterranei e degli annessi, come
l’auditorium o la biblioteca, di un’attività culturale più a largo
for esti raggio (mostre, didattica, convegni ecc.), in grado di mantenere
all
desta l’attenzione del pubblico al di là del monumento principa‐
le, coinvolto in tal modo in un continuo dialogo con la contem‐
poraneità. Lo testimoniano le mostre e gli eventi che si sono suc‐
ceduti dall’inaugurazione: dalla discussa mostra di Valentino al‐
l’installazione scultorea‐musicale di Mimmo Paladino e Brian
Eno, alle mostre di Enzo Mari e poi di Alessandro Mendini, pro‐
tagonisti dell’arte e del design contemporanei.
Questo passo dell’analisi ha comportato dunque una rifles‐
sione sui tipi diversi di funzioni e di conseguenza di fruizioni che
tipicamente questo museo contemporaneo fa proprie, ed inoltre,
perestensione, sul rapporto fra questo particolare tipo di spazio,
lo spazio urbano circostante e lo spazio urbano in generale. I
rapporto del museo con l’area urbana immediatamente circo‐
stante è caratterizzato da una forte destinazione e vocazione al
consumo globale, data la massiccia presenza di negozi, di concept
store, di locali e di servizi (Pezzini, Cervelli 2006).
2.2. L’Auditorium
Se lo sfondo metodologico della ricerca permane ovviamente lo
stesso, per quanto riguarda lo studio dell’Auditorium particolare
attenzione è stata posta al carattere del progetto in quanto crea‐
zione di uno spazio di consumo materiale e immateriale. La ri‐
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 63
b/n sata
cerca focalizza quattro aspetti in particolare: la presenza nel cuo‐
re di Roma di uno spazio “vuoto” e periferico, tra il quartiere Pa‐
00 fre
rioli e il Villaggio Olimpico; la progettazione di Renzo Piano di
2
un grande struttura e l’incontro/scontro tra il progetto e la memo‐
0x ura
ria remota del luogo (la villa romana); l’effettiva realizzazione del
4
1 s
progetto e le sue proposte culturali; l’uso e le pratiche che si sono
s
a 3 m bro
successivamente attestate in questo luogo, in particolare negli
z z o m to
spazi esterni. Tutti elementi che dovrebbero contribuire ad una
Bo mat men
valutazione dell’efficacia di questo intervento rispetto alle diver‐
se funzioni cui era chiamato, in particolare nel doppio rapporto
all
un lato e con la dimensione metropolitana e dell’intrattenimento
globale dall’altro. Quest’ultimo aspetto è indubbiamente il più
importante, si può dire anzi che i primi tre aspetti costituiscono
la premessa al cuore conoscitivo della ricerca rappresentato dal
quarto punto. In particolare, è sembrato necessario concentrare
l’attenzione sulle diverse istanze che a vari livelli interagiscono
dentro e con l’Auditorium: quelle dei differenti tipi di visitatori;
dei cittadini che vivono nei pressi dell’Auditorium; dell’archi‐
tettura, e dunque dell’efficacia spaziale su visitatori e cittadini;
della Fondazione che gestisce l’Auditorium. In sintesi, obiettivo
di questa parte della ricerca è studiare la riscrittura della città
proprio attraverso le forme che prende il consumo dell’Audi‐
torium nell’incontro tra queste diverse istanze.
3. Gli snodi emergenti
I principali assi o snodi di senso intorno ai quali ci sembra di poter
organizzare i risultati raggiunti dalla ricerca, ci paiono i seguenti:
b/n sata
2. il rapporto tra la riscrittura della città, i suoi attori e le compe‐
tenze – in termini di doveri, voleri, saperi, poteri – implicati da
00 fre
questa azione complessa;
2
3. il tema dell’autorappresentazione della città e delle zone di
4 0x ura
autoriflessività, in cui esplicitamente essa si mette in scena, si
1 s
propone come soggetto o come marca, e quindi del ruolo spe‐
s
a 3 m bro cifico che assumon i nuovi spazi semiosici nella riformulazio‐
z z o m to ne dello spazio pubblico.
Bo mat menDi seguito, ne tratteremo in breve alcuni aspetti.
b/n sata
tempo, il succedersi storico è rappresentabile solo tramite una
giustapposizione nello spazio.
00 fre
Questo, a ben vedere, è proprio ciò che accade normalmente
2
nelle città e rende del tutto specifico il rapporto che in esse si isti‐
0x ura
tuisce fra spazio e tempo, dove elementi eterogenei, prodotti in
4
1 s
tempi diversi, sono riuniti insieme nel collage di una patina pa‐
s
a 3 m bro
radossale, che è quella del presente della loro simultanea perce‐
z z o m to
zione, più o meno sottolineata e agevolata da interventi architet‐
Bo mat men
tonico‐urbanistici specifici. Come scrive Hubert Damisch, tali
eterogeneità adempiono ad una “una funzione analoga a quella
for esti attribuita nel sogno allo spostamento e alla condensazione, nel
all
momento in cui passato e presente si scontrano. Tanto che a livel‐
lo della forma è la stessa identica cosa dire che la città non ha al‐
tre realtà che storica e affermare che essa esiste solo nel presente”
(Damisch 1996, pp. 34‐35). La città non è mai un semplice teatro
della memoria.
Riportando queste riflessioni verso i nostri casi di studio, fra
“vuoto urbano” e viceversa “troppo pieno”, il caso dell’Audito‐
rium, sorto in uno spazio relativamente poco denso della città,
sembrerebbe contrapporsi – almeno superficialmente – a quello
del nuovo museo dell’Ara Pacis, posto invece in un luogo iper‐
sensibile ed estremamente rappresentativo per l’identità cittadi‐
na, e cioè il pieno centro storico. In realtà, sia pure con toni
diversi, in entrambi i casi è emerso il conflitto sempre incomben‐
te e più evidente, a Roma “città eterna”, tra l’antico e il moderno,
il passato glorioso e il presente cialtrone, tra l’affresco sepolto e la
ruspa invadente immortalati da Federico Fellini nel film Roma,
nel 1972. Un conflitto che in sostanza si potrebbe riassumere in
una contrapposizione culturale di fondo, che nella pratica si mo‐
dula poi in posizioni più articolate e sfumate. Da un lato fra colo‐
ro che ritengono che il tempo dell’evoluzione “spontanea” della
città storica europea sia finito, e che alla luce di questa consape‐
volezza si tratti di assumere nei confronti di ciò che ne rimane
66 Isabella Pezzini
b/n sata
un’attitudine sostanzialmente di restauro e di conservazione, più
o meno discreta8. Si tratta del partito della cosiddetta “città mu‐
00 fre
seo”, che rischia di trasformare la legittima difesa del patrimonio
2
storico in anti‐modernismo viscerale, e di assecondare pur senza
0x ura
volerlo le tendenze del consumo alla trasformazione dei centri
4
1 s
storici in “parchi a tema” (Castells 2004).
s
a 3 m bro D’altro lato, vi sono invece coloro che malgrado tutto credono
z z o m to
ancora nell’idea di città come organismo simbolico e vivo e dun‐
Bo mat men
que che essa debba esprimere questa sua vitalità e il senso delle
sue trasformazioni complessive anche – forse soprattutto – attra‐
all
Si tratta di un conflitto che bene si presta a incarnarne altri
meno plateali, “quotidiani”, più diffusi e sfumati nel vissuto e
nelle rappresentazioni dei suoi abitanti, fra i fantasmi e i simula‐
cri di una città ideale perduta per sempre, sempre valorizzata
positivamente e nostalgicamente, e la città attuale, reale, con i
suoi problemi e le sue eventuali nuove presenze, sempre avverti‐
te come deludenti e da neutralizzare9. Questo atteggiamento, che
istintivamente sfocia nella difesa dello status quo, non è un dato
ovvio, ma appare specifico di un diffuso sentire, tutto sommato
8
Scrive Orietta Rossini, a proposito dell’eccezionalità del cantiere dell’Ara
Pacis, “riaperto” dove si era interrotto cinquant’anni prima, alla caduta del
regime: “Comprensibilmente, dopo l’interventismo del regime, l’architettura
italiana aveva sviluppato una cultura avanzatissima del restauro e del recu‐
pero urbanistico, e alla fine degli anni novanta l’incarico a Meier, un’icona
dell’architettura internazionale, sembrava infrangere criteri di prudenza che
si avvertivano acquisiti proprio in contesti complessi e storicamente densi
come quello in causa” (Rossini 2007, p. 119).
9
Scrive Piero Ostilio Rossi, al termine del saggio già citato: “Non possiamo
far finta di ignorare infatti che l’architettura contemporanea è guardata con
un pregiudiziale sospetto ed è istintivamente considerata nel sentire comu‐
ne, soprattutto in una città così ricca di testimonianza storiche come Roma,
un’alterazione negativa e non un possibile arricchimento del tessuto urbano
o del paesaggio naturale” (Ciucci, Ghio, Rossi 2006, p. 46).
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 67
b/n sata
di recente formazione. Per lunghissimo periodo infatti la città si è
riformulata e rigenerata utilizzando i suoi stessi materiali, ben
00 fre
prima degli interventi violenti del fascismo – la stessa Ara Pacis
2
era divenuta, com’è noto, parte integrante delle fondamenta di
0x ura
un edificio in costante trasformazione dal duecento, il palazzo
4
1 s
Fiano‐Almagià.
s
a 3 m bro
Dai nostri due casi di studio emergono ad ogni modo diverse
z z o m to
possibili strategie da parte dell’architettura contemporanea nei
Bo mat men
confronti del “reperto” antico, al di là delle ovvie differenze di
partenza, che ci sembra utile sottolineare.
for esti L’Ara Pacis nasce come museo contenitore per la conserva‐
all
zione e la valorizzazione di un simbolo della Roma augustea
(Moretti 1975). L’altare è un “oggetto” perduto e ritrovato che
nasce come simbolo e che nel corso del tempo conosce una serie di
vicissitudini – interramento e perdita, recupero parziale, deco‐
struzione ed estetizzazione dei suoi componenti, recupero filolo‐
gico, risimbolizzazione e pietra di volta di una “invenzione della
tradizione” ad opera del fascismo – che ne fanno un caso non so‐
lo affascinante ma esemplare. Cambiando i modi di attribuzione
di valore il significato di uno stesso oggetto può cambiare pro‐
fondamente, per esempio in base alle diverse possibili attitudini
del presente nei confronti del passato e della sua memoria. Ma
questo stesso processo può finire per rendere l’oggetto una sorta
di “feticcio”, pretesto di esercizio del “modo simbolico”, di una
deriva ed un eccesso di attribuzione di significati (Eco 1984).
Oggi la presentazione e la comunicazione del Museo‐Teca
mettono al centro del loro discorso un presente investito di re‐
sponsabilità nei confronti del passato, ed anzi il suo impegno to‐
tale nella custodia e della valorizzazione di questo importantissi‐
mo reperto, caduto nell’ombra e nel degrado per l’inadeguatezza
del vecchio contenitore. Il tema delle tecnologie di conservazione
ipermoderne messe in campo è addirittura preminente rispetto
alla presentazione dell’opera di Richard Meier in senso architet‐
68 Isabella Pezzini
b/n sata
tonico ed estetico – certamente più immediatamente esposta al
giudizio tanto critico che di gusto10. La stessa concezione del mu‐
00 fre
seo, come abbiamo visto, che pone l’Ara al centro del piano a li‐
2
vello suolo, in un grande volume vuoto, visibile dall’esterno,
0x ura
enfatizza il carattere di culto dell’oggetto esposto – peraltro un
4
1 s
altare – ed invita a una fruizione fortemente estesico‐estetica, col‐
s
a 3 m bro
locando tutto l’apparato filologico e il percorso cognitivo sapien‐
z z o m to
ziale nel piano sottostante e negli annessi.
Bo mat men
Dopo tutte le vicissitudini che ha subito, il monumento del‐
l’Ara Pacis si presenta oggi tipicamente come “un testo estrapo‐
for esti lato dal contesto”, cioè tendenzialmente depositario di informa‐
all
zioni costanti. Ad esso la teca di Meier si offre però come un
nuovo contesto, capace da un lato di restituirgli l’aura perduta e
dall’altro di reinnestarlo, nel confronto dialogico con l’architet‐
tura contemporanea, in quanto “meccanismo in funzione che ri‐
crea continuamente se stesso cambiando fisionomia e generando
nuove informazioni”, cioè come “un sistema semiotico generato‐
re di significato” (Lotman 1998, pp. 38‐39).
La struttura del museo, così ampiamente vetrata, dovrebbe o
potrebbe rendere possibile questo processo di riattivazione se‐
miotica in due diverse direzioni, dall’esterno verso l’interno e
dall’interno verso l’esterno. La teca nei confronti dell’Ara evi‐
denzia infatti il contrasto, l’ “intensa conflittualità interna del
nesso testo‐contesto”, nel dialogo fra antichità e contemporaneità
10
Nel sito www.arapacis.it sono presenti due “spot” di presentazione dell’o‐
pera, quello di Richard Meier, incentrato sulla filosofia del suo progetto e
sulla visione estetico‐sociale della città, e quello invece di Walter Veltroni,
sindaco, che contestualizza l’opera rivelando e rivendicando l’intenzione
politica promotrice dell’opera. In particolare questo secondo è interessante
come costruzione discorsiva della dimensione simbolica di un’opera di ar‐
chitettura rispetto a una visione politica. Entrambi insistono sul ruolo del
museo nel creare una connessione fra antichità‐passato e presente‐futuro, fra
memoria e sviluppo.
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 69
b/n sata
– e questa operazione di ri‐sistemazione – paragonabile all’atto
linguistico di una ri‐enunciazione, ha in una sorta di trascina‐
00 fre
mento semantico l’effetto di rendere contemporaneo l’antico.
2
Al tempo stesso, nel contesto della “vecchia” Piazza di Mor‐
0x ura
purgo, l’opera contemporanea afferma con la sua apparente forte
4
1 s
discontinuità il valore del nuovo (Gargano, infra), quantomeno
s
a 3 m bro
“deautomatizzando” la percezione complessiva del luogo e ri‐
z z o m to
svegliandone le memorie dimenticate11. Il tema critico che meri‐
Bo mat men
terebbe a questo punto di essere approfondito riguarda il corri‐
spondente prezzo semantico, la perdita della patina del “tempo
all
L’Auditorium, dal canto suo, incontra le fondamenta di una
villa romana la cui esistenza era caduta nell’oblio, se non scono‐
sciuta agli archeologi, nel corso degli scavi per la realizzazione
del progetto di Renzo Piano, che viene rimaneggiato profonda‐
mente in modo da ospitare al suo interno di spazio multifunzio‐
nale anche gli scavi e il relativo museo.
In questo caso il rapporto instaurato fra presente e passato
non è programmatico ma accidentale, il presente persegue i pro‐
pri obiettivi incorporando e inglobando come cammeo e elemen‐
to di pregio anche le vestigia del passato. La strategia adottata
dall’architettura contemporanea nei confronti dell’antico è qui
quella del “dialogo interno”, “che si realizza nell’ambito di uno
steso testo attraverso lo scontro, il conflitto, l’intersezione e lo
11
La discontinuità è in realtà soprattutto cromatica (il bianco di Meier), dato
che in effetti si moltiplicano i rimandi e le citazioni al resto della piazza ed
anche al vecchio contenitore, di cui viene ripresa l’intera parete in travertino
con l’iscrizione in piombo delle Res Gestae. Questa strategia, d’altra parte,
non è del tutto nuova a Roma, come testimonia ad esempio il recente restau‐
ro dei Mercati Traianei, o il Museo della Centrale Montemartini, una siste‐
mazione provvisoria di archeologia romana in un contesto di archeologia
industriale, divenuta per il successo definitiva (Hammad 2006; Ciucci, Ghio,
Rossi 2006, pp. 50‐79).
70 Isabella Pezzini
b/n sata
scambio di informazioni tra tradizioni differenti – è sempre Lot‐
man che parla – tra sottotesti diversi e fra le “voci” dell’Architet‐
00 fre
tura” (Lotman, cit., p. 40). Questa dialogicità, nelle diverse possi‐
2
bili forme, ha un senso se riesce ad innestare o anche solo a
4 0x ura
testimoniare non una semplice giustapposizione di oggetti o di
1 s
monumenti ma lo stratificarsi di idee diverse e successive della
s
a 3 m bro città come sistema complesso, che, in uno stesso paesaggio, attiva
z z o m to relazioni e connessioni differenti fra i suoi elementi.
Bo mat men3.2. Ma di chi è la città? Riscrittura, autorialità e potere
for esti E d’altra parte l’architettura non è fatta di sola architettura. La
all città è uno spazio in cui si struttura a vari livelli – da quello fisico
a quello immaginario – il vivere quotidiano, secondo memoria,
abitudine, straniamento. Uno spazio quindi che viene sentito
come “proprio” dai suoi cittadini, e al quale, benché sia un luogo
di consumo e che si consuma, è istintivamente affidato il senso di
permanenza delle cose. Ogni suo cambiamento, tanto più se
esplicito e dichiarato, pubblico, è destinato ad essere percepito e
vissuto in termini conflittuali.
Il conflitto è già insito nel sentire “propria” la città. La città è
“propria” ma al tempo stesso è sempre anche “altrui”: il sentirla
propria si accompagna costantemente al senso di una condivi‐
sione forzata (orizzontale) e a una latente espropriazione (verti‐
cale) da parte dei Poteri che ne fanno il terreno della propria
affermazione e autorappresentazione. Ogni città è un ambiente
semiotico globale, una “semiosfera” dotata di una propria iden‐
tità, espressa ad esempio dallo spessore semantico del suo nome
– “Roma” – ma è al tempo stesso la somma di molte semiosfere
differenti, che per la maggior parte del tempo convivono, spesso
ignorandosi reciprocamente, ma potenzialmente fra loro in con‐
flitto.
Del resto, nella teoria della modernità, la città è esattamente
quel luogo che rende possibile la coesistenza della diversità, con‐
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 71
b/n sata
cetto espresso dalla stessa semantica dell’ “urbanità”. “In ogni cit‐
tà, sintetizza di recente Daniel Innerarity, tutti gli elementi – abi‐
00 fre
tanti, edifici e funzioni – convivono in stretta vicinanza, sono con‐
2
dannati, per così dire, a una tolleranza reciproca. Tale obbligo, nel
0x ura
corso dei secoli, ha potuto configurare l’insieme di regole che
4
1 s
oggi ammiriamo come cultura storica della città […] sono fattori
s
a 3 m bro
che fanno della città un luogo di comunicazione, di divisione del
z z o m to
lavoro, di esperienza della differenza, di conflitto e di innovazio‐
Bo mat men
ne” (Innerarity 2006, p.105).
Paul Zanker, studioso dell’arte di Roma antica, dedica un libro
all
alla figura di Augusto e alla sua concezione dello Stato. Per Zan‐
ker è chiarissimo il ruolo minuzioso svolto dall’architettura e dalle
arti nell’affermazione di nuovi valori legati alla monarchia, a suo
avviso in “un processo in larga misura spontaneo, senza esplicite
direttive dall’alto”. Nel capitolo “Marmo e autocoscienza” leg‐
giamo: “Il culto imperiale e la trasmissione di nuovi valori, so‐
prattutto per quanto riguarda le ristrutturazione urbanistica
della città, vanno qui dunque di pari passo, in un clima di pieno
consenso ideologico” (Zanker 1987, trad. it., p. 352).
Se il fascismo ha immaginato di poter riattualizzare una simi‐
le concezione della città e della sua architettura come espressione
ed immagine coordinata di un Potere unico, è evidente che un
approccio di questo tipo oggi non è più possibile. Nella demo‐
crazia, sono i meccanismi complessi della rappresentanza e della
delega, integrati e corretti dalle forme della partecipazione e del
dibattito pubblico a “rappresentare” la città. La città oggi non è
più un solo “corpo”, lo spazio ideale di una civitas concorde, è
terreno di conflitti e di conquista. Utilizzando la metafora del te‐
sto e dell’interpretazione, se la città è un testo esso è attraversato
dal conflitto delle interpretazioni (Volli 2005). Per fare un esem‐
pio molto concreto, all’interno del sito web del nuovo museo
dell’Ara Pacis, sono ancora conservati due video di presentazio‐
72 Isabella Pezzini
b/n sata
ne, risalenti alla sua inaugurazione. Sono due video‐interviste,
una a Richard Meier, l’architetto, e una a Walter Veltroni, primo
00 fre
cittadino, rappresentante della committenza. Entrambi, ciascuno
2
dalla propria prospettiva, estetico‐architettonica il primo, politica
0x ura
il secondo, fanno del nuovo Museo il simbolo di una visione as‐
4
1 s
siologica legata a un’idea di sviluppo della città in cui passato e
s
a 3 m bro
presente dialoghino insieme e soprattutto dove il presente abbia
z z o m to
un rilevante ruolo di formatività, e si proietti verso il futuro. Ma
Bo mat men
ecco che la prima dichiarazione fatta dal nuovo sindaco, Gianni
Alemanno, di opposto schieramento politico rispetto al predeces‐
for esti sore, è di voler “rimuovere” la nuova teca dell’Ara Pacis, letta
all
banalmente come simbolo della precedente amministrazione,
colpevole di aver decostruito e rielaborato i simboli della cultura
della città: “La teca dell’Ara Pacis è un intervento invasivo. Va
rimossa” […] “…è uno sfregio nel cuore della città”, un “atto di
arroganza intellettuale contro i cittadini romani” («la Repubbli‐
ca», 1 maggio 2008, p. 12). È interessante notare gli stereotipi lin‐
guistici adottati, che Alemanno importa direttamente dai toni
accesi del dibattito precedente l’inaugurazione, efficaci nel solle‐
ticare un sentimento di espropriazione/riappropriazione della
città da parte delle diverse parti politiche. Esse sono al tempo
stesso rivelatori di una concezione “padronale” della città, vista
più come oggetto e che in quanto soggetto di investimenti ed in‐
terventi politici.
3.3. La città si autorappresenta
Scrive Alan Bennet, nel suo spiritoso quanto acuto Una visita gui‐
data, a proposito dei motivi per cui le persone affollano la Natio‐
nal Gallery di Londra: “In realtà […] non lo sanno. […] La verità
è che la gente viene qui per le ragioni più varie: per rilassarsi un
po’, o per ripararsi dalla pioggia, o per guardare i quadri, o ma‐
gari per guardare le persone che guardano i quadri. C’è da spe‐
rare, anzi da contarci, che queste opere riescano in qualche modo
Nuovi spazi semiosici nella città: due casi a Roma 73
b/n sata
a emozionarli e che, uscendo, portino con sé qualcosa di inaspet‐
tato e imprevedibile” (Bennet 2005, pp.42‐43).
00 fre
Spazi come l’Ara Pacis o l’Auditorium potrebbero essere dun‐
2
que considerati, al di là ed in forza della loro funzione specifica
0x ura
di musei o di spazi culturali, come locali eterotopie, luoghi di
4
1 s
commutazione della percezione ordinaria della città, punti di di‐
s
a 3 m bro
scontinuità nel suo tessuto, che ci obbligano a pensare ai “pae‐
z z o m to
saggi percettivi” che vi si alternano.
Bo mat men
Questi spazi nascono, infatti, per enfatizzare la percezione
sensoriale nell’esperienza estetica e nella fruizione culturale (la
all
sembrano rendere possibile anche un ribaltamento di queste
esperienze metropolitane dall’ “interno” dei luoghi deputati ver‐
so l’esterno che le contiene: così come dall’interno insonorizzato
e trasparente dell’Ara Pacis è la città che si rappresenta e diventa
uno spettacolo, muto e in movimento.
Il paesaggio contemporaneo della città non deve essere per
forza di cose ottenuto da radicali modificazioni, ma da modi di‐
versi, per l’appunto “contemporanei”, di riconoscere e “mettere
in rete” i suoi elementi. Chiede non solo luoghi di memoria e di
celebrazione del passato e dei suoi monumenti, ma soprattutto
proposte e dispositivi che ne favoriscano dinamiche interpretati‐
ve, sperimentazioni, accostamenti imprevisti, nuove occasioni di
produzione di senso.
Teorici della metropoli contemporanea come Saskia Sassen o
Manuel Castells osservano che all’architettura dev’essere affidato
il compito di riportare in primo piano l’accezione culturale dello
spazio come forma di vita, e concentrare l’attenzione dagli inter‐
venti sullo spazio fisico a quelli sul cosiddetto “spazio dei flussi”.
In questo senso, il “modello spaziale dominante nell’età dell’in‐
formazione” dovrebbe esprimersi proprio nei musei, nei centri
per congressi, così come nei nodi di trasporto: “luoghi dell’im‐
maginario culturale e di comunicazione funzionale, trasformati
74 Isabella Pezzini
b/n sata
dall’architettura in forme di espressione culturale e di condivi‐
sione dei significati” (Castells 2004, p. 74), negli esempi migliori,
00 fre
cattedrali dell’età dell’informazione, mete di pellegrinaggio in
2
cui cercare il senso del proprio vagare. “Luoghi di riflessione, in
0x ura
cui si esprime la frattura fra gli edifici e la città nel suo comples‐
4
1 s
so. La mancata integrazione tra questa architettura dei flussi e lo
s
a 3 m bro
spazio pubblico è una giustapposizione tra marcatura simbolica
z z o m to
e anonimato metropolitano […] ogni opera ha il suo linguaggio e
Bo mat men
il suo progetto che non si può ridurre a una funzione o a una
forma, ma il suo significato finale dipenderà dalla messa in rela‐
all
urbano” (Castells 2004, p. 75).
A partire da queste considerazioni, in futuro si tratterà di ve‐
rificare se i nuovi spazi romani, con le manifestazioni che ospita‐
no e la politica culturale che realizzano, si dimostrano all’altezza
dei compiti attesi da loro.
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n
Maurizio Gargano
b sata
/
00 fre
Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae:
2
0 x ra
esperienza quotidiana e forme di una città 1
14 ssu
a m b ro
3 mLasciata alle spalle Piazza del Popolo, se si procede lungo Via del
o zz to nconcentrati o distratti dalle varie ragioni di un errare quotidiano
t o con l’obiettivo di recarsi in Piazza Augusto Imperatore,
Corso
B ma me nella città di Roma, non appena si volta a destra in direzione e in
for esti prossimità della piazza si è scossi da una inaspettata presenza: il
b/n sata
barriera visiva che testimoniava i lavori in corso di un cantiere
che appariva perenne. E perciò addirittura rimpianto – una volta
00 fre
rimosso – per aver fatto perdere la possibile e poetica istantanea
2
di “un territorio in continuo divenire” (Careri 2006). Provocatoria
0x ura
affermazione, quest’ultima, senz’altro suggestiva ma che – in ogni
4
1 s
caso – sembra tradire preferenze per realtà affascinanti ma estra‐
s
a 3 m bro
nee, per definizione, al destino di una vera a propria architettura:
z z o m to
mostrare la sua forma realizzata, portata a compimento.
Bo mat men
La spaesante percezione di una diversità che si impone ina‐
spettata, si accompagna inevitabilmente e costantemente alla ec‐
all
evento. Ed è su questo genere di emozione, è sulla possibilità di
non rimanere paralizzati da ciò che turba le proprie aspettative
che forse vale la pena soffermarsi a riflettere, ben di più che sullo
spaesamento generato dal nuovo o sul rifiuto di una diversità.
Molteplici perplessità, qualche raro apprezzamento ma, so‐
prattutto, critiche radicali si sono accumulate intorno al progetto
e alla realizzazione. Fonti e documenti storici scomodati, analisi
urbane più o meno puntuali, armonie compositive e partiti figu‐
rativi smontati e rimontati nella ricerca di pecche o fragilità pro‐
gettuali, perentorie bocciature basate su discutibili rapporti di
scala presumibilmente rintracciati in un tessuto urbano tutt’altro
che omogeneo e, certamente, mai totalmente pianificato o proget‐
tato unitariamente, risentimenti circa la scelta opportuna e le mo‐
dalità dell’incarico assegnato al progettista prescelto, disappunto
per i costi di realizzazione lievitati del 266% rispetto all’iniziale
budget previsto, sorvolando infine – per non rimanere troppo
invischiati nei numerosi giudizi – sull’opportunità di ribadire
una già discussa localizzazione dell’Ara Pacis nel luogo in cui fu
retoricamente trasportata e musealizzata nel 1938.
Non sono questi, per l’appunto, i nodi su cui si intende torna‐
re ad insistere aggiungendovi, magari, qualche ulteriore analisi
storica che le fonti del passato, intrecciate con le provocatorie cri‐
Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae 85
b/n sata
tiche contemporanee, potrebbero far affiorare. Non è questo, in
questa sede, l’intento: quanto – piuttosto – il voler insistere sugli
00 fre
effetti prodotti dal nuovo. E non vale, come è facile aspettarsi,
2
l’obiezione che spesso il nuovo non turba affatto. Che non è la
0x ura
novità a infastidire ma, invece, è il brutto, è il non riuscito, è l’i‐
4
1 s
nadeguato, è l’estraneo – in qualsiasi campo o settore della vita,
s
a 3 m bro
sia pubblica sia privata – che suscita resistenze e spinge al rifiuto.
Bo mat men
siano da mettere fra parentesi le valutazioni di ordine squisita‐
mente estetico, si assiste di frequente a giudizi liquidatori gene‐
for esti rati da idee del bello sostenute da valenze puramente autobio‐
all
grafiche. Troppo frettolosamente si trascura il peso che imma‐
gini, valori, esperienze, affetti intorpiditi, consolidati e non più
ravvivati, hanno sul valutare serenamente – e con incuriosita at‐
tesa – l’effetto rigenerante che proprio e solo il nuovo può inne‐
scare. Quel nuovo che, in quanto tale, sfugge a qualsiasi catego‐
ria classificatoria predeterminata. Che irrompe inatteso, impre‐
visto: seppure, nel caso di un incarico assegnato a un architetto
come Richard Meier, i margini di un’eventuale sorpresa fossero
facilmente prevedibili. Inoltre, come è tipico per ogni progetto di
architettura, le fasi ideative, rappresentative e costruttive avven‐
gono in tempi e con modalità tali da ridurre di molto l’effetto
novità.
Dov’è, allora, la novità a cui si sta alludendo? Non è certo nel‐
le soluzioni formali progettate da Meier: che per quanto risultino
singolari e impreviste sono comunque in sintonia con ciò che ca‐
pita, del resto, a qualsiasi modello di architettura non costretto,
non omologato dalla scelta di una tipologia seriale e standardiz‐
zata.
Il nuovo a cui si sta accennando – insomma – prendendo spun‐
to dalla nuova sistemazione a museo dell’Ara Pacis Augustae, è in
sostanza quel perturbante che coglie, coscientemente o inconscia‐
mente, chi è costretto ad assistere passivamente ad una modifi‐
86 Maurizio Gargano
b/n sata
cazione dell’esistente, del proprio vissuto. Per chiarire meglio: si
tratta – anche nella circostanza del caso in questione – di quel
00 fre
nuovo rifiutato, bocciato o mal visto che ha spesso ratificato il
2
fallimento, nella plurisecolare storia dell’architettura, di imprese
0x ura
e opere architettoniche ancor prima che venissero realizzate. La
4
1 s
lista sarebbe notevole e lunga. Ma è sufficiente citare – rimanen‐
s
a 3 m bro
do confinati nel delicato e spinoso caso rappresentato dalle città
z z o m to
storiche italiane – i rifiuti delle architetture di Palladio, Le Corbu‐
Bo mat men
sier o Wright a Venezia o quello più recente di Fumihiko Maki a
Firenze.
all
ogni caso, il suo progetto è stato realizzato: …peccato per l’as‐
senza di Palladio, Le Corbusier o Wright a Venezia, peccato per la
presenza di Richard Meier, di quel Meier a Roma, in quella parti‐
colare area urbana…
Ma qui non si intende fare confronti più o meno leciti. Il con‐
fronto diretto fra “campioni” del passato con quelli del presente
– come nel caso dello sport – è sempre da evitare, perché sempli‐
cemente improponibile in un’ottica storiografica: con buona pace
del VI film voluto da Sylvester Stallone su “Rocky Balboa” (nei
cinema italiani nel 2007). E comunque quella è fiction cinemato‐
grafica, aiuta solo a sognare.
Qui, al contrario, si è nel mondo reale e si è orientati essen‐
zialmente a cercare di cogliere il perché di una “resistenza al
nuovo”: sia quando questa resistenza riesce a impedire la realiz‐
zazione di un’architettura, sia – senza trovare alcuna differenza
tra queste pur opposte fortune – quando si registrano “bocciatu‐
re” per una nuova architettura calata all’interno di un cosiddetto
“contesto”, storicamente stratificato e configurato, che si ritiene
violato o non interpretato adeguatamente. Va dunque svelata
questa inconscia opposizione alla novità: sempre negata o mai
confessata, solo raramente dichiarata. E ciò prima ancora di ogni
valutazione, più o meno serena, sull’effetto che una architettura
Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae 87
b/n sata
inevitabilmente crea all’interno del consolidato panorama forma‐
le di una città o di un qualsiasi altro paesaggio. Della mutazione
00 fre
che genera.
2
È opportuno interrogarsi, quindi, e in prima istanza, proprio
0x ura
intorno all’effetto di una modificazione che, non raramente, alte‐
4
1 s
ra l’auspicabile serenità delle valutazioni. Non trascurando, in‐
s
a 3 m bro
somma, questo aspetto prima ancora delle analisi tecnico‐formali
z z o m to
e del pur inevitabile giudizio sulla qualità del progetto, da più
Bo mat men
parti e sotto vari aspetti sezionato, come s’è già sinteticamente
ricordato. È questa sorta di perturbamento degli equilibri conso‐
all
con gli edifici porticati che parzialmente la perimetrano, con la
presenza del Mausoleo di Augusto e con quella delle chiese
(San Carlo, San Rocco, San Girolamo), l’asse viario dell’attuale
Via di Ripetta e quello del Lungotevere, hanno subìto tutti il bru‐
sco risveglio da un lungo letargo acuito, inoltre, dal rumore visi‐
vo provocato dell’assenza dovuta alla distruzione dell’architet‐
tura preesistente che accoglieva l’Ara Pacis. In questi termini, il
rifiuto per l’ultimo arrivato sembra quasi inevitabile. Un rifiuto,
tuttavia, verosimilmente generato nella memoria, negli occhi e
nelle aspettative degli “addetti ai lavori” anche dal peso incom‐
bente della storia urbana e architettonica della città di Roma, al
pari di quelle di Venezia o Firenze. Una città resa ostile ai disegni
di cambiamento, per inerzia politica o per una esplicita volontà
conservatrice. Un cambiamento imbrigliato da un immobilismo
amministrativo‐gestionale, da una secolare sclerosi culturale, da
malcelati provincialismi e da semplici invidie o ripicche profes‐
sionali, che non hanno permesso di realizzare, nell’arco tempora‐
le di circa sessanta anni, alcuna nuova architettura all’interno del
perimetro delle mura aureliane. Un silenzio costruttivo finalmen‐
te interrotto con la complicità dell’opera di Meier.
È, allora, questo nuovo che va salutato e accolto. Un ultimo ar‐
rivato che prepotentemente costringe il preesistente a trovare
88 Maurizio Gargano
b/n sata
nuovi equilibri e nuove relazioni formali, che crea nuove espe‐
rienze quotidiane. Un nuovo che, comunque, arricchisce la scena
00 fre
urbana e la vita quotidiana di un museo vero e proprio, di una
2
piazza con giochi d’acqua e spazi per la sosta, di una sala‐audi‐
0x ura
torium, di ulteriori spazi espositivi oltre quelli propri del museo
4
1 s
principale, di una terrazza panoramica e di un’area destinata al‐
s
a 3 m bro
l’ingresso principale, auspicabilmente completata e impreziosita
z z o m to
dalla progettata presenza di un’antica colonna corinzia che do‐
Bo mat men
vrebbe sostituire il monolite provvisorio. L’area di accesso al
museo, raggiungibile attraverso una gradinata, comprende anche
all
ne critiche rivolte all’incombenza dell’intero progetto di Meier –
consente una rinnovata vista proprio delle due chiese (San Rocco
e San Girolamo) affacciate sulla Via di Ripetta che acquistano,
così, una nuova fruibilità visiva, diversamente da quanto accade
ad altre chiese romane, confitte in spazi assai più angusti rispetto
a quelli che solo in rari casi gli sventramenti moderni, più o me‐
no recenti, hanno generato: condizione usuale nella originaria e
più tradizionale topografia romana, troppo spesso dimenticata.
Un’architettura che, nonostante i pittoreschi epiteti di quanti
l’hanno definita “la pompa di benzina”, “la pizzeria di Dallas” o
“l’ecomostro di Roma”, accoglie l’Ara Pacis Augustae non celan‐
dola al pubblico di passaggio e che, anzi, registrando molti più
visitatori di quanti era solita averne, rende un degno omaggio al
nuovo‐che‐attira. A un nuovo che non ha alcuna zavorra di cui de‐
ve liberarsi per poter procedere spedito verso il giudizio della
Storia, per ricevere l’eventuale accoglienza o l’effettiva bocciatu‐
ra non certo di critici difficili da soddisfare e tacitare ma della cit‐
tà e di quanti vivono i suoi spazi e godono delle sue forme. Sarà
solo l’esperienza quotidiana di quella parte di città e la vitalità
delle forme che la configurano a determinare il successo o il rifiu‐
to di quella nuova forma. Di quell’architettura arrivata per ulti‐
ma, in un contesto sedimentato.
Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae 89
b/n sata
Autorevoli architetti hanno affermato esplicitamente – o indi‐
rettamente – che l’architettura ha la capacità di “trasfigurare un
00 fre
locus”, così come è altrettanto possibile prevedere che qualunque
2
luogo può decretare la morte di un’architettura, se questa non
0x ura
trova il modo di appaesarsi, di entrare in sintonia con quella im‐
4
1 s
palpabile condizione che alimenta la dinamica vitale e sorpren‐
s
a 3 m bro
dente di una città o di una sua determinata parte.
z z o m to Entrare in sintonia, dunque. Anche se la troppo recente inau‐
Bo mat men
gurazione di questo nuovo edificio impedisce di valutare chi sarà
“trasfigurato”, qualche segno emergente dalle soluzioni compo‐
for esti sitive che connotano l’intero progetto, alcune dimensioni volu‐
all
metriche, la scelta dei materiali selezionati e le loro modalità di
impiego, lasciano intravedere un possibile, efficace dialogo con le
forme preesistenti. Alcuni scorci visivi ne danno conto. Angoli
visuali modificati e ravvivati dalla presenza di questo complesso
museale che è capace di aggiungere nuovi ma non estranei cro‐
matismi ad una scenografia urbana sclerotizzata. Rinnovate pro‐
spettive si lasciano apprezzare per un dialogo tra forme che – per
quanto estranee tra loro – appare tutt’altro che stridente, come
invece si è cercato di dimostrare, con eccessiva disinvoltura. Un
confronto tra forme e cromatismi (proporzioni, linee, volumi, su‐
perfici, materiali) degno di un riuscito, quanto inevitabile incon‐
tro‐scontro tra età e linguaggi necessariamente diversi. Volumi,
superfici e setti murari – insolitamente “decisi” rispetto a certe
agili linearità che hanno caratterizzato alcune emblematiche ope‐
re di Richard Meier – sembrano trovare una giustificazione pro‐
prio confrontandosi con gli spessori e l’imponenza delle architet‐
ture che circondano il museo. Per evitare di venirne schiacciato o
risultare inadeguato se troppo leggero o trasparente.
Nuove istantanee si aggiungono alla memoria dei luoghi e
delle visuali tradizionali. Dal Lungotevere, dirigendo lo sguardo
verso gli edifici porticati di Ballio Morpurgo e cogliendo di sfug‐
gita la bianca testata nord del museo – a cui si affianca e si con‐
90 Maurizio Gargano
b/n sata
trappone il sottostante muraglione rivestito con lastre di traver‐
tino, come fosse la memoria invasiva ed emergente di un antico
00 fre
rudere – è impossibile non rilevare una affascinante sovrapposi‐
2
zione di immagini. Una convivenza che, spingendo lo sguardo
0x ura
fino agli edifici di Via del Corso, consegna alla percezione un’ef‐
4
1 s
ficace stratificazione storica scaturita dall’accostamento di partiti
s
a 3 m bro
figurativi eterogenei. Una sorta di fotografia urbana: il frammento
z z o m to
di una di “città analoga” fatta di alberi, arredi e architetture diver‐
Bo mat men
se, apprezzabile proprio in virtù della sovrapposizione ottica gene‐
rata dalla compresenza delle forme preesistenti e di quella nuova
all
le geometrie e i cromatismi prodotti dai nuovi materiali del pro‐
getto di Meier: il bianco delle superfici intonacate, i setti murari
di cemento rivestiti con conci di travertino che vi si frappongono,
le trasparenze o i riflessi variopinti delle superfici vetrate.
Come non apprezzare, inoltre, il fronte occidentale vetrato
che si affianca improvviso al flusso delle auto sul Lungotevere,
consentendo la rapida percezione – o la contemplazione, nelle
ore di punta – dell’Ara Pacis, offerta così allo sguardo? Come
non cogliere le linee orizzontali dei frangisole vetrati e quelle del‐
l’intero fronte che sembrano accompagnare l’orizzontalità dello
scorrere del traffico?
E perché non rilevare gli aspetti positivi del forte impatto ge‐
nerato dal fronte orientale che si svolge lungo la Via di Ripetta?
Un prospetto composto ortogonalmente alla testata sud che ac‐
coglie la scalinata e l’area di accesso al museo, caratterizzato dalla
compresenza dei vari materiali impiegati, dalla riproposta inci‐
sione del testo delle Res Gestae di Augusto e dalle linee variamente
articolate, capace di disegnare una fuga prospettica rinnovata ri‐
spetto a quella, praticamente inesistente, che sosteneva la rimos‐
sa “teca” con l’Ara Pacis. Una prospettiva sottoposta a critiche a
causa della presunta invadenza del corpo di fabbrica del Museo,
ritenuto troppo aggettante rispetto al filo degli edifici preesistenti
Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae 91
b/n sata
o all’asse “rettilineo” di una delle tre arterie costituenti il cosid‐
detto “tridente” che ha origine da Piazza del Popolo. Lo stesso
00 fre
attuale tridente di strade, va ricordato, si è configurato negli anni
2
senza un disegno unitario iniziale e, inoltre, lo stesso unico “Bi‐
0x ura
vium” generato dall’antica Via Lata (Via del Corso) ha preso
4
1 s
forma progressivamente (nell’attuale solco di Via di Ripetta) at‐
s
a 3 m bro
traverso frammenti realizzati in fasi tra loro successive (interessi
z z o m to
di papa Sisto IV, legati all’ospedale di San Giacomo e alla pre‐
Bo mat men
senza delle carceri di Tor di Nona; disegni medicei incoraggiati e
parzialmente realizzati da papa Leone X, testimoniati dal tratto
all
in merito, lasciando l’analisi di questo aspetto ad altre sedi, è
comunque opportuno far tornare alla memoria la visuale della
“moderna” Via di Ripetta, tutt’altro che lineare e ininterrotta fino
all’area di Sant’Eustachio. Un leggero flesso era già segnato a
causa dell’attraversamento generato dell’antica “Via Trinitatis”
(un lungo asse stradale che raggiunge Trinità dei Monti attraver‐
so l’attuale Via Condotti). Inoltre la sezione dell’area che ospita‐
va il padiglione di Ballio Morpurgo per la sistemazione dell’Ara
Pacis interrompeva già la percezione unitaria della fuga prospet‐
tica verso Piazza del Popolo. Nessuna particolare intrusione vi‐
suale, dunque, imputabile al fronte sud del progetto di Meier.
Semmai un acritico sfruttamento dei confini di un lotto, presso‐
ché preesistenti: un’invadenza resasi forse necessaria per acco‐
gliere la quantità e varietà delle funzioni previste.
Sebbene si sia concentrata l’attenzione essenzialmente intorno
all’impatto visivo generato da questo nuovo museo in una de‐
terminata area della città di Roma, riflessioni specifiche merite‐
rebbero anche le soluzioni distributive della spazialità interna e
la relativa qualità espositiva di questo particolare museo. Ma non
è l’analisi complessiva del progetto che qui è stata affrontata,
quanto – piuttosto – il peculiare e generale effetto prodotto dal‐
l’opera realizzata sul contesto urbano con cui è entrata in rela‐
92 Maurizio Gargano
b/n sata
zione. Lasciando ad altri, e in particolare agli esperti di museo‐
grafia o museologia, il compito di decretare la validità o meno
00 fre
degli spazi che accolgono l’Ara e la documentazione della sua
2
storia, ci si è orientati principalmente verso l’innesco di una ri‐
0x ura
flessione circa ciò che eventualmente turba. Circa una novità che
4
1 s
turba quando, invece, dovrebbe comunque generare entusiasmo
s
a 3 m bro
per le rinnovate emozioni che suscita.
Bo mat men
non abbia raggiunto vette indiscutibili (ben altri consensi, al con‐
trario, ha ricevuto la sua chiesa realizzata sempre a Roma a Tor
all
ciò che ciascuno immagina o si prefigura, l’aspetto che si è voluto
prendere in considerazione. Nessuna predeterminata o soggetti‐
va aspettativa può mai essere in grado di accogliere una choccan‐
te novità. Evento da accogliere, dunque, e non rifiutare in una
città che corre il rischio di veder musealizzata la sua vita quoti‐
diana. Una città certamente meta di un pur vitale turismo ma
che, oltre agli spazi espositivi dovrebbe saper rinnovare anche
l’architettura degli spazi abitativi, educativi e per le cure sanita‐
rie. Senza il timore di alterare una conformazione consolidata, al
pari di quanto spesso accaduto con le architetture del passato: il
Colosseo che si è reso complice della distruzione dell’area di una
villa precedente; il palazzo della Cancelleria o quello Farnese nei
confronti del tessuto urbano che hanno trasfigurato, tralasciando
di ricordare i numerosi altri splendidi esempi coevi, forse meno
invasivi ma non meno “diversi” rispetto alle dimensioni abitative
e ai cromatismi della città preesistente. Limitandosi a questi spo‐
radici e indiscussi esempi, a cui si potrebbero aggiungere altre
architetture non solo relative alle fin troppo celebrate età “classi‐
ca” e “umanistico‐rinascimentale”, appare dunque evidente che
il nuovo è sempre in grado di stupire. Raramente si impone con
naturalezza e spesso crea disappunto o rifiuti radicali. Ma seppu‐
re l’architettura è inevitabilmente oggetto di approvazioni o boc‐
Un nuovo museo per l’Ara Pacis Augustae 93
b/n sata
ciature da parte del folto ed eterogeneo pubblico degli “addetti ai
lavori” – ben più di qualsiasi altra arte “biografica” o “allografi‐
00 fre
ca” – rimane pur sempre un’opera ad uso pubblico. E sarà il pub‐
2
blico che tiene viva la forma di una città – con la complicità del
0x ura
tempo – a emettere un giudizio finale. Un pubblico costituito an‐
4
1 s
che da quei giovani che sono soliti lasciare segno di sé con ap‐
s
a 3 m bro
prezzabili e artistici graffiti ma, anche, con deprecabili e troppo
z z o m to
facili “tags”. Un pubblico di cui si valuterà la maturità nel rispet‐
Bo mat men
tare la ampie e bianche superfici presenti nell’architettura di que‐
sto museo. Gesti espressivi più o meno invasivi che, uniti ai
for esti presumibili effetti di degrado imputabili agli agenti atmosferici
all
naturali e a quelli inquinanti più artificiali, potrebbero innescare
– proprio a partire da questa “candida” opera – una nuova atten‐
zione per la costante manutenzione delle architetture. Che non
sia limitata ai soli monumenti di un passato più o meno recente.
n
Leonardo Romei
b sat a
/
0 fre
Un Centre Pompidou a Roma?
0
2
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
0. Premessa
z z o m Obiettivo di questo saggio è riflettere su alcuni dei più rilevanti
t o
o t n
B ma me torium Parco della Musica. In particolare tenteremo di esaminare
aspetti semiotici della “riscrittura” realizzata a Roma con l’Audi‐
all ti le pratiche d’uso del nuovo spazio pubblico. Ci è parso utile
anche proporre un confronto con il Centre Georges Pompidou di
Parigi, risultato di un processo di riscrittura che sembra presen‐
tare non pochi elementi di affinità con il caso dell’Auditorium.
Non si tratta di valutare quale sia il più riuscito dei due com‐
plessi – per altro di scale diverse – ma di cogliere gli elementi at‐
traverso cui si articolano un intervento di trasformazione urbana
e i suoi effetti. Ci siamo basati sull’analisi semiotica delle caratte‐
ristiche dell’Auditorium come spazio architettonico e sull’osser‐
vazione delle pratiche che vi hanno luogo. Nella ricerca abbiamo
fatto spesso ricorso a fotografie digitali sia per testimoniare le
pratiche osservate, sia per mostrare i punti di vista e le figure di
osservatori impliciti costruiti nel testo.
1. Note sul concetto di riscrittura
Rinviando al saggio di Isabella Pezzini in questo volume per una
più ampia discussione del concetto di “riscrittura”, qui ci limi‐
tiamo ad affrontare alcuni aspetti della questione. Il concetto
Un Centre Pompidou a Roma? 95
b/n sata
di riscrittura è particolarmente interessante, dal punto di vista
semiotico, se confrontato con altri simili come ristrutturazione,
2 00 fre
recupero, rifunzionalizzazione, bonifica. La scrittura infatti opera un
intervento sul piano dell’espressione di un testo, per provare a
4 0x ura
modificarne il significato, cioè il piano del contenuto. Così, par‐
1 s s
lare di riscrittura ci porta a considerare la città come un testo in
z z o m to del contenuto. Un’espressione e un contenuto che non sono dati,
for esti
tuale1.
all
1
Il rapporto tra il piano dell’espressione e il piano del contenuto di una se‐
miotica spaziale, così come la visione della città come testo, sono oggetto di
un lungo e ricco dibattito di cui in questo paragrafo darò conto solo parzial‐
mente e senza poter tenere debitamente in considerazione, per la loro re‐
centissima pubblicazione, gli ultimi contributi (Violi e Volli in Leone, a cura,
2009; Marrone 2009). Solo alcune rapide considerazioni. Nel mio saggio cer‐
co soprattutto di mostrare l’interesse di leggere gli interventi di riscrittura
alla luce della semiotica dello spazio, in cui il rapporto tra espressione e con‐
tenuto non è considerato stabile e dato, ma sempre negoziato tra pratiche e
“linee di resistenza” delle strutture morfologiche. Ritengo che il rapporto di
determinazione tra contenuto e espressione sia frutto di negoziazioni locali,
da studiare volta per volta: se in alcuni casi si possono osservare complete
risemantizzazioni degli spazi da parte degli utenti, mi sembra però difficile
negare l’efficacia di alcuni spazi nel determinare stati d’animo e comporta‐
menti di chi li fruisce.
Per quanto riguarda il problema della metodologia di osservazione delle
pratiche sociali mi sembra che recenti contributi (Marsciani 2007) mostrino il li‐
vello di consapevolezza delle distorsioni possibili nelle fase di osservazione:
il semiotico osservatore – in questo caso Francesco Marsciani – legge i fenome‐
ni attraverso una griglia molto esplicita e dichiarata e dunque controllabile.
D’altro canto ritengo, almeno per quanto riguarda i dubbi con cui io stesso
mi confronto, che si debba ancora riflettere, in ambito semiotico: sui criteri di
costruzione dei corpus e le conseguenti possibilità di generalizzazioni delle
analisi; sull’estendibilità delle conclusioni tratte da analisi di testi narrativi a
fenomeni sociali di un certo tempo, spazio, periodo storico; sull’utilizzo delle
96 Leonardo Romei
b/n sata
Ma qual è il piano dell’espressione di una città? È necessario a
mio parere distinguere, per scopi analitici, se considerare la città
00 fre
come un testo autonomo che comunica qualcosa a chi la fruisce,
2
0x ura
ad esempio come visitatore, oppure considerare il legame tra le
14
caratteristiche della città e dei suoi spazi da un lato e le pratiche
s s
che vi hanno luogo dall’altro. È semplicemente una questione di
a 3 m bro
punto di vista, di livello di analisi.
z z o m to Per fare un esempio, Parigi, insieme ai suoi abitanti, costitui‐
Bo mat men sce complessivamente un testo che comunica qualcosa ai suoi
for esti
fruitori, ad esempio vitalità, fascino, un certo tipo di convivialità
e di “stare insieme in pubblico”, e in questa prospettiva si posso‐
all no considerare allora i suoi caffè, fotografarli, ritrarli, dipingerli e
studiare che storia raccontano. Se poi si decide di considerare il
modo in cui la socialità prende forma nei caffè, ecco che diviene
pertinente la disposizione delle sedie intorno ai tavolini all’a‐
perto, e ci si potrà chiedere perché le sedie sono poste l’una ac‐
canto all’altra e mai frontalmente, anche in assenza di rigide
delimitazioni dello spazio, e in che rapporto è questa disposizio‐
ne con lo “stare insieme in pubblico” tipico di Parigi. Gli oggetti
e le persone non vengono allora considerati come parte di un
piano dell’espressione riferito a un contenuto che è ad esempio
“la convivialità parigina” o “il fascino di Parigi”, ma come un te‐
sto che ha sua volta un piano dell’espressione e uno del contenu‐
to. È come nel fenomeno della connotazione, una semiotica che si
basa su una dimensione semiotica preesistente; studiando la città
come testo si deve scegliere se studiare la prima semiotica (o le
sue molteplici prime semiotiche) e la sua articolazione, o piutto‐
sto la semiotica che vi può essere costruita sopra.
fotografie e delle registrazione audiovisive come tecnica per cogliere le con‐
figurazioni assunte dagli attori sociali e i punti di vista inscritti nello spazio.
Un Centre Pompidou a Roma? 97
b/n sata
Nel nostro caso abbiamo scelto di considerare non tanto il
senso complessivo assunto dall’Auditorium rispetto all’intera cit‐
2 00 fre
tà, quanto la sua articolazione interna come testo praticato. Mol‐
teplici sono gli aspetti che possono essere studiati, da quelli
0x ura
visivi e di identità comunicativa, a quelli spaziali, perciò sono
4
1 s s
necessarie delle riduzioni metodologiche. Una prima riduzione
a 3 m bro
dei molteplici punti di vista attraverso cui si può studiare una
z z o m to
città, può essere ottenuta limitandosi a considerare la dimensione
Bo mat men spaziale. La semiotica della città viene così ricondotta a un se‐
for esti
miotica dello spazio.
Come mostra Manar Hammad (2003, pp. 11‐15), nell’ambito
b/n sata
ratteristiche concrete, delle pareti, delle finestre, una certa tempe‐
ratura, ma queste sue caratteristiche, rispetto alla semiotica dello
2 00 fre
spazio, non costituiscono un piano autonomo. Non possono cioè
essere correlate di per sé a dei programmi di azione2.
4 0x ura
Nel suo saggio sul rapporto tra spazio e comportamenti “di‐
1 s s
struttivi” degli studenti della Facoltà di Ingegneria dell’Uni‐
a 3 m bro
versità di Palermo, Gianfranco Marrone (2001, pp. 287‐368) sem‐
z z o m to
bra invece accogliere una prospettiva in parte diversa ma com‐
Bo mat men plementare, come cercheremo di mostrare. In questo studio lo
for esti
spazio viene considerato come un soggetto in grado di modifi‐
care fortemente i comportamenti di chi lo vive, tanto da portare
all i suoi fruitori ad un crescendo di passioni che esplode nell’atto
di distruzione. Si può dunque parlare dello spazio come di un
piano dell’espressione autonomo, correlabile direttamente a dei
programmi di azione? Non propriamente. Marrone introduce
infatti il tema dell’efficacia simbolica: vi sono spazi più efficaci
di altri nel determinare i comportamenti di chi li fruisce, spazi
che favoriscono o interferiscono nei programmi di azione di chi li
vive. Nel caso dell’efficacia simbolica, se consideriamo, seguendo
Hammad, il piano dell’espressione – costituito insieme da attori
umani e non umani – ecco che ci troviamo di fronte ad attori non
umani in grado di determinare le configurazioni topologiche e
passionali degli attori umani. L’approccio di Hammad e quello
di Marrone sono dunque complementari, mostrano casi diversi
di negoziazione tra piano dell’espressione e piano del contenuto
di una semiotica spaziale (cfr. nota 1).
2
Ho scritto “rispetto alla semiotica dello spazio”, perché è evidente che quel‐
la stessa stanza può invece essere considerata come piano dell’espressione se
consideriamo quali storie racconta del suo passato, il suo stile, il senso che
può costruire rispetto ad un fruitore che la consideri come un artefatto da
osservare.
Un Centre Pompidou a Roma? 99
b/n sata
Queste considerazioni ci consentono di individuare la teoria
implicita relativa al rapporto tra spazi e azione, che sottende gli
00 fre
interventi su una città. Adottando la distinzione tra espressione e
2
0x ura
contenuto, si può distinguere tra riscritture che modificano le
14
strutture della città per scopi estetici o prettamente operativo‐
s s
funzionali, e quelle che invece mirano soprattutto a modificare le
a 3 m bro
pratiche che vi hanno luogo (per quanto i due obiettivi siano
z z o m to
spesso compresenti). Se si assume infatti come modello la città in
Bo mat men quanto testo autonomo, si può intervenire in modo che i signi‐
for esti
ficati percepiti siano modificati e realizzare così opere architetto‐
niche che funzionino, ad esempio, come marche della sua iden‐
all tità percepita a livello globale. Qualora si intenda invece modi‐
ficare le pratiche che avvengono in un quartiere, la prospettiva
cambia. Nel nostro caso, come vedremo, gli obiettivi della riscrit‐
tura sono molteplici e riguardano entrambi gli aspetti qui sopra
considerati.
Infine è opportuno distinguere tra la riscrittura e la sua effica‐
cia, dal momento che vi possono essere interventi su comparti
urbani che puntano a riscriverne, ad esempio, la funzionalità,
cambiandone la viabilità e creando nuovi edifici, e che non pro‐
ducono invece nessun effetto. Si potrebbe dunque distinguere tra
“riscrittura efficace”, la cui sanzione è data dalle pratiche d’uso, e
riscrittura come pura attività di intervento.
2. L’obiettivo dell’intervento di riscrittura a Roma
Gli obiettivi della riscrittura operata con il Parco della Musica
sono molteplici. Fin dagli anni trenta il Comune di Roma cercava
uno spazio adeguato per l’orchestra dell’Accademia Nazionale di
Santa Cecilia, in particolare in previsione della demolizione, av‐
venuta nel 1937, del Mausoleo di Augusto, che ne ospitava i con‐
100 Leonardo Romei
b/n sata
certi. Il concorso del 1935, che individuava l’area di edificazione
nella zona delle Terme di Caracalla, si chiuse senza alcun vinci‐
00 fre
tore, e così anche il concorso del 1951, nel quale la scelta era ca‐
2
0x ura
duta sul Borghetto Flaminio. Il concorso venne nuovamente
14
bandito nel 1993 e questa volta ci fu un vincitore: Renzo Piano e
s s
il Renzo Piano Building Workshop. L’area individuata era questa
a 3 m bro
volta uno spazio di proprietà pubblica, collocato tra Villaggio
z z o m to
Olimpico e stadio Flaminio. Al primo obiettivo dell’intervento,
Bo mat men creare un grande spazio per la musica classica, se ne unisce un
for esti
secondo; l’area in questione rappresentava infatti “un ‘buco’ nel
tessuto cittadino” (La guida dell’Auditorium, p. 16) o, secondo un’al‐
all tra definizione, una periferia nel cuore di Roma. L’intervento in‐
tende dunque anche ritessere una zona della capitale e rivitaliz‐
zare il vicino quartiere del Villaggio Olimpico. Sul sito web del‐
l’Auditorium si afferma esplicitamente:
L’occasione di una riqualificazione urbana dell’area scelta per
l’Auditorium, delimitata dal quartiere dei Parioli a sud, dal quar‐
tiere Flaminio ad ovest, dal Villaggio olimpico a nord e da Villa
Glori ad est, non può quindi essere trascurata: occorre dare al luo‐
go la stessa dignità urbana e territoriale che presentano le quattro
aree che la contornano, ognuna delle quali possiede una propria
identità ed un proprio modello di vita quotidiana. L’Auditorium
deve agire da un lato come sofisticato strumento di forte attrazione
per un’utenza sovraurbana e dall’altro deve poter concentrare tutte
le varie funzioni che costituiscono la normale urbanità di un luo‐
go. Questo è garantito sia dalla particolare configurazione dei vo‐
lumi costruiti che dalla distribuzione di tutte le attività presenti
(www. auditorium. com).
L’intervento realizzato a Parigi, vent’anni prima, con il Centre
Pompidou presenta non pochi elementi di somiglianza (Piano,
Un Centre Pompidou a Roma? 101
b/n sata
Rogers 1987). Può essere utile ripercorrerne brevemente la storia.
Nel 1969 il Presidente Georges Pompidou elabora l’idea di rea‐
2 00 fre
lizzare un grande centro culturale dedicato alle arti e alla cultura,
e nel 1970 viene bandito il concorso, che sarà vinto nel 1971 da
0x ura
Renzo Piano. Sei anni dopo, il 31 Gennaio 1977, viene inaugurato
4
1 s s
il Centre Pompidou. Il concorso parlava di un “Centro consacra‐
a 3 m bro
to alla lettura pubblica, all’arte e alla creazione contemporanea”,
z z o m to
che avrebbe dovuto prevedere: una biblioteca pubblica, un mu‐
for esti
le, sale polivalenti, sale di esposizioni temporanee.
Come è noto, l’idea forte del progetto di Piano e Rogers fu
all
quella di destinare gran parte dell’area disponibile ad uno spazio
totalmente pubblico, una vera e propria piazza: Place Georges
Pompidou. Ed è lo stesso Renzo Piano a tracciare una stretta cor‐
relazione tra la riscrittura di Roma e quella di Parigi, intervenen‐
do sul tema della periferia.
Che cos’è, dov’è la periferia? È il luogo dove i valori della città
muoiono. Può esserci periferia anche nel cuore di una metropoli.
Nella mia esperienza, il plateau Beaubourg prima del Centro
Pompidou, oppure Potsdamer Platz a Berlino o ancora la zona
dell’Auditorium a Roma, pur non essendo ai margini, erano pez‐
zi di periferia imprigionati nel tessuto urbano. Luoghi dove era‐
no spariti i valori della città, l’incontro, il lavoro, lo scambio
fisico. Quei valori della città che per estensione diventano urba‐
nità, civitas. E quando mancano producono odio. A Beabourg,
Potsdamer, l’Auditorium c’è un tratto comune che si potrebbe
definire di allegria urbana (http://materialiresistenti.blog.dada.net/
post/214314/Renzo+Piano+sulle+banlieues).
102 Leonardo Romei
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3. Lo spazio dell’Auditorium Parco della Musica3
b
0 fres
Il Parco della Musica, nella fotografia satellitare che segue (Fig. 1),
0
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corrisponde all’area evidenziata.
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Fig. 1. Immagine satellitare dell’area che circonda l’Auditorium Parco della
Musica (© Google Earth)
3
Un chiarimento sul nome: quello che nelle conversazioni quotidiane è chia‐
mato spesso “Auditorium” o che è conosciuto come “Auditorium di Renzo
Piano”, è denominato ufficialmente “Auditorium Parco della Musica”. È im‐
portante inoltre distinguere tra:
‐ l’Auditorium Parco della Musica come spazio architettonico;
‐ la Fondazione Musica per Roma che ne gestisce formalmente le attività;
‐ l’Auditorium Parco della Musica come soggetto che è responsabile, dal
punto di vista del pubblico, dell’insieme degli eventi che hanno luogo.
Come vedremo nel paragrafo dedicato ai loghi, la presenza di questi diversi
soggetti è fonte di alcuni elementi di confusione e sovrapposizione comuni‐
cativa.
Un Centre Pompidou a Roma? 103
b/n sata
Lo spazio dell’Auditorium è circondato a nord dal quartiere del
Villaggio Olimpico, a sud dal quartiere Parioli, a est dal parco
00 fre
Villa Glori, a ovest dal quartiere Flaminio. Nella fotografia
2
(Fig. 1) possiamo individuare il Palazzetto dello sport (centro‐
0x ura
ovest) e lo stadio Flaminio (sud‐ovest) entrambi realizzati da
4
1 s
Pierluigi Nervi. Il Parco della Musica (Fig. 2), è costituito dalle tre
s
a 3 m bro
sale che ospitano i concerti e i vari eventi dell’offerta culturale
z z o m to
(concerti, festival, lezioni pubbliche), ovvero la sala Santa Cecilia
Bo mat men
(1 in Fig. 2), la sala Giuseppe Sinopoli (2) e la sala Goffredo Pe‐
trassi (3), alle sale si aggiunge la Cavea ‐ Largo Luciano Berio (4)
all
il Parco pensile (6), il Parco giochi (7)4.
Fig. 2. Immagine satellitare dell’Auditorium Parco della Musica
(© Google Earth)
4
Per una visione più approfondita degli spazi dell’Auditorium e per cogliere
la loro scala rispetto ai visitatori, si rimanda il lettore al lavoro fotografico di
Elisa Pardini in questo volume.
104 Leonardo Romei
b/n sata
La presenza di spazi pubblici all’interno della struttura è un trat‐
to di somiglianza con l’altro centro culturale progettato da Piano,
00 fre
il Centre Pompidou di Parigi, che prevede una grande piazza
2
(Fig. 3).
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1
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Fig. 3. Immagine satellitare del Centre Pompidou
di Parigi (© Google Earth)
La scelta di dedicare una parte dell’area indicata nel concorso ad
una piazza – come ricorda Renzo Piano (2007) – valse la vittoria
al progetto elaborato con Richard Rogers. Il Centre è inoltre ca‐
ratterizzato dalla presenza di strutture disseminate intorno all’e‐
Un Centre Pompidou a Roma? 105
b/n sata
dificio che con la loro presenza creano uno spazio di mediazione
tra il dentro dell’edificio e il fuori della città (ivi). Il Parco della
00 fre
Musica è invece “aperto” verso la città soprattutto nel lato nord:
2
il semicerchio – che appare chiaramente nella fotografia satellita‐
0x ura
re (Fig. 2) – è rivolto a Nord verso il Villaggio Olimpico, ma “dà
4
1 s
le spalle”, a sud, al quartiere dei Parioli (Fig. 4).
s
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all
Fig. 4. Il quartiere Parioli in Roma, visto dalla Cavea dell’Auditorium
4. Integrazione con il quartiere e con la città
Come si è detto, il progetto dell’Auditorium Parco della Musica
aveva l’obiettivo di creare un grande spazio per la musica e la
cultura a Roma, ma anche quello di ridare vita ad una zona spen‐
ta e ritesserla con il resto della città. Da questo punto di vista ri‐
sultano significative anche le scelte dei materiali di costruzione,
in rapporto all’integrazione visiva con il quartiere e alla “memo‐
ria” di Roma. Non mi soffermerò sul tema dei percorsi che por‐
106 Leonardo Romei
b/n sata
tano all’Auditorium, per cui rinvio al lavoro di Mariarosa Bova
(infra). Tuttavia, ai fini del mio discorso sulla integrazione visiva
00 fre
con il Villaggio Olimpico, può essere utile considerarne alcuni
2
aspetti.
4 0x ura
Oltre al punto di vista della loro efficacia e funzionalità, i per‐
1 s
corsi hanno anche una componente visiva ed estetica, dal mo‐
s
a 3 m bro
mento che offrono diverse prospettive sulla struttura dell’Audi‐
z z o m to
torium5. Uno dei tragitti più utilizzati è quello che prevede l’ar‐
Bo mat men
rivo con la Metro A a Piazzale Flaminio (la metro più vicina) e
poi l’uso del Tram 2 che conduce fino a Viale De Cubertin. Arri‐
for esti vati a Viale De Cubertin lo sguardo del visitatore non incontra
all
tracce della struttura dell’Auditorium, ma un’indicazione (Fig. 5)
e sullo sfondo il Palazzetto dello Sport di Pierluigi Nervi.
Fig. 5. L’angolo tra Viale Tiziano e Viale de Coubertin
5
Come vedremo i due loghi riconducibili all’Auditorium, giocano un ruolo
decisivo nel selezionare, per lo spettatore, uno dei tanti punti di vista possi‐
bili.
Un Centre Pompidou a Roma? 107
b/n sata
Lo sguardo verso sinistra, una volta attraversata la strada, offre
invece una visione di alcuni edifici del Villaggio Olimpico, carat‐
00 fre
terizzati da mattoni di colore giallo ocra (Figg. 6‐7).
2
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Fig. 6. Il primo tratto di Viale de Coubertin
Fig. 7. Un edificio del quartiere
Olimpico visibile da Viale de
Coubertin
108 Leonardo Romei
b/n sata
Proseguendo verso il Parco della Musica si incrocia la pensilina
dove si arresta il Bus della linea M (M come musica) che collega
00 fre
la Stazione Termini con l’Auditorium. Nella fotografia successiva
2
(Fig. 8) possiamo vedere la galleria che conduce al Parco della
0x ura
Musica: tutti coloro che provengono da Tram, Bus M, o che han‐
4
1 s
no lasciato la loro vettura nel parcheggio presente a destra, de‐
s
a 3 m bro
vono percorrerla.
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Bo mat men
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all
Fig. 8. L’ingresso nella galleria che da Viale de
Coubertin conduce all’entrata dell’Auditorium
Come si sarà notato la galleria è cadenzata a sinistra da una serie
di colonne con mattoni giallo ocra (Fig. 9), molto simili a quelli
dell’edificio precedentemente visto.
Un Centre Pompidou a Roma? 109
b/n sata
2 00 fre
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Fig. 9. La galleria che da Viale de Coubertin conduce all’ingresso
dell’Auditorium
In fondo alla la galleria si incontra sulla destra una grande libre‐
ria (Fig. 10).
Fig. 10. La libreria “Notebook” dell’Auditorium vista dalla galleria
110 Leonardo Romei
b/n sata
Alla fine della galleria, a destra, lo spettatore può vedere le strut‐
ture esterne della Sala Sinopoli e della Santa Cecilia, ma non la
00 fre
Sala Petrassi (Fig. 11).
2
4 0x ura
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Fig. 11. La sala Giuseppe Sinopoli vista dall’ingresso
dell’Auditorium
Proseguendo verso la Sala Sinopoli, a destra si possono osservare
i tavolini del bar (Fig. 12).
Fig. 12. Il bar/caffetteria dell’Auditorium
Un Centre Pompidou a Roma? 111
b/n sata
In seguito alla ricostruzione di questo percorso visivo, la prima
considerazione che si può fare è che i mattoni di terracotta del‐
00 fre
l’Auditorium sono una evidente rima con i materiali del Vil‐
2
laggio Olimpico. Il percorso è inoltre caratterizzato da un gra‐
0x ura
duale passaggio dallo spazio del quartiere a quello specifico
4
1 s
dell’Auditorium. La galleria si integra nell’ambiente circostante,
s
a 3 m bro
grazie all’omogeneità dei materiali e alla presenza di ampi spazi
z z o m to
tra una colonna e l’altra che rendono la galleria aperta verso sini‐
Bo mat men
stra (nord), cioè verso il Villaggio Olimpico: se consideriamo la
galleria, cos’è città e cos’è Parco della Musica?
all
una “facciata” (come nel caso del Museo dell’Ara Pacis) o scon‐
trarsi con una forte “verticalità”. Infine si osserva che non c’è un
contatto visivo con le strutture delle tre sale nel loro insieme: è
necessario porsi fuori dalla cavea per coglierle complessivamen‐
te. La mancanza di “verticalità” e la gradualità, sono anche i trat‐
ti che caratterizzano il quartiere del Villaggio Olimpico, dove
anche la Chiesa è quasi indistinguibile dal resto degli edifici.
Torniamo ora al confronto con il Centre Pompidou. Il Centre
è caratterizzato da una forte continuità con la città dal punto di
vista pragmatico, non vi sono cancelli o inferriate per accedervi, e
da una notevole rottura da un punto di vista visivo. L’accesso
agli spazi free dell’Auditorium, la cavea e il parco pensile, è inve‐
ce disciplinato dalla presenza di un cancello.
Se consideriamo l’integrazione rispetto alla città, allargando
dunque la scala rispetto al quartiere, si può notare, nell’Audito‐
rium, l’uso del piombo come copertura delle tre sale e quello del
marmo travertino. La somiglianza con materiali ritenuti tipici del‐
l’architettura di Roma sono sottolineati nella Guida dell’Auditorium,
nelle visite guidate all’interno della struttura e nelle dichiarazio‐
ni di Renzo Piano.
Consideriamo ora l’Auditorium Parco della Musica anche in
rapporto al Museo dell’Ara Pacis di Roma. Il nuovo Museo del‐
112 Leonardo Romei
b/n sata
l’Ara Pacis ha toccato punti molto più sensibili di quanto non
abbia fatto l’Auditorium, poiché costruisce un discorso forte sul
00 fre
rapporto tra passato, presente e futuro (vedi l’articolo di Pez‐
2
zini infra). L’Auditorium non nasce invece come riscrittura di
0x ura
una zona di alto valore simbolico ma al contrario di una parte
4
1 s
di Roma che aveva perso valore e senso. Quando, durante gli
s
a 3 m bro
scavi del novembre 1995, vengono ritrovati i resti di una villa di
z z o m to
epoca romana, il progetto viene modificato per consentire la sua
Bo mat men
integrazione. Nell’Auditorium è oggi presente una sala dedicata
a valorizzare la Villa romana attraverso l’esposizione degli arte‐
all
messa in valore tradizionale basata su percorsi di tipo cognitivo.
Il Centre Pompidou è invece un’operazione di rottura con il
passato, è fondamentalmente un corpo estraneo, per quanto Pia‐
no e Rogers (1987) sottolineino la continuità, dal punto di vista
concettuale, con le grandi architetture metalliche di Parigi del
XIX secolo.
5. I loghi dell’Auditorium
Se consideriamo l’Home Page del sito web dell’Auditorium Par‐
co della Musica ci troviamo di fronte a due loghi (Fig. 13).
Fig. 13. I loghi dell’Auditorium e della fondazione
che lo gestisce
Un Centre Pompidou a Roma? 113
b/n sata
ll logo dell’Auditorium Parco della Musica, a sinistra, è caratte‐
00 fre
rizzato da 4 linee curve, che richiamano le tre sale di diverse di‐
2
mensioni, con le 3 linee sopra la scritta, e la cavea, con la linea in
0x ura
basso. Il logo della Fondazione Musica per Roma, a destra, è più
4
1 s
figurativo: rappresenta le tre sale stilizzate. Sotto le icone delle
s
a 3 m bro
due sale di destra sono però presenti, come in una citazione in‐
z z o m to
tertestuale, tre linee che richiamano il logo dell’Auditorium Par‐
Bo mat men
co della Musica.
Questa compresenza di due simboli è risolta nella pratica a fa‐
all
dazione ma anche lo stesso Auditorium come spazio architetto‐
nico. Per fare un esempio, un manifesto (Fig. 14) fotografato il 5
Dicembre 2007 sopra la frase “Natale all’Auditorium” presenta
gli elementi caratteristici del logo della Fondazione.
Fig. 14. Un manifesto natalizio di un evento all’Auditorium
L’immagine proposta nel logo della Fondazione, le tre sale in‐
sieme, non è la più “naturale” per chi arriva all’Auditorium (co‐
114 Leonardo Romei
b/n sata
me si è mostrato nel § 4) è al contrario una visione che va cercata,
allontanandosi dalla struttura. Si può ritenere che il logo agisca
00 fre
come “istruzione di lettura” del testo architettonico: propone tra
2
i molti punti di vista possibili, quello più efficace nel trasformare
4 0x ura
la struttura del Parco della Musica in un “monumento‐logo”
1 s
(Pezzini 2006).
s
a 3 m bro
z z o m 6. Le pratiche e l’efficacia degli spazi
t o
o t n
B ma me Il saggio di Pierluigi Cervelli, presente in questo volume, descri‐
for esti ve le pratiche di fruizione del Parco della Musica nei momenti in
all cui non si svolgono eventi. Esse mostrano un livello di appro‐
priazione degli spazi pubblici molto diverso da quello che ho po‐
tuto osservare al Centre Pompidou di Parigi6. In Place Pompidou
le persone si siedono, si stendono per riposarsi, mangiano, suo‐
6
Nel caso dell’Auditorium mi sono basato sulle analisi delle osservazioni con‐
dotte da Mariarosa Bova e Pierluigi Cervelli (infra), su quelle di Elisa Pardini
elaborate in forma di sequenze fotografiche (infra), e su osservazioni dirette,
4 giornate ad intervalli di circa 3 mesi nel corso del 2008. Per il Centre Pompi‐
dou, ho realizzato 4 giornate di osservazione, con il sussidio di fotografie,
sempre nell’anno 2008.
Ho cercato, nelle mie osservazioni dirette, di rilevare il grado di appro‐
priazione degli spazi “aperti” delle due strutture da parte degli utenti e la
frequentazione di questi spazi quando non vi svolgevano eventi specifici.
Ho individuato come elementi in grado in indicare il “grado di appropria‐
zione” la presenza/assenza e il perdurare nel tempo delle seguenti azioni:
sedersi per terra, leggere, mangiare, suonare, giocare (a carte, con il pallone,
ecc.), esibirsi in spettacoli da strada, formare gruppi.
Come indicatori dell’utilizzo degli spazi aperti al di fuori o in presenza
di eventi specifici ho cercato di rilevare semplicemente il numero di persone
presenti.
Si tratta di indicatori che si prestano ovviamente ad una distorsione nella
rilevazione da parte dell’osservatore, una distorsione che ritengo comunque
tollerabile visto il consenso che si ha sull’atto ad esempio di “sedersi per ter‐
ra” o “mangiare” o sulla “presenza/assenza di persone”.
Un Centre Pompidou a Roma? 115
b/n sata
nano, c’è anche chi gioca con la palla (Fig. 15).
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
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Fig. 15. Suonatore di didjeridoo e ragazzi che giocano in Place
Georges Pompidou a Parigi
Si può provare a ricondurre questa differenza nelle pratiche da un
lato alla diversa natura dell’Auditorium e del Centre come disposi‐
tivi di eventi e dall’altro alle caratteristiche dei loro spazi pubblici:
la cavea e il parco pensile da un lato e Place Pompidou dall’altro.
Soffermiamoci per prima cosa sugli spazi pubblici. Manar
Hammad nel saggio sulla privatizzazione dello spazio (Hammad
2003, pp. 217‐308), mostra che l’elemento fondamentale per indi‐
116 Leonardo Romei
b/n sata
viduare la natura privata o pubblica di uno spazio è il diverso
livello di libertà nel “poter fare”. In uno spazio pubblico, come
00 fre
una qualsiasi piazza, il quadro di ciò che si può fare e ciò che non
2
è consentito o gradito, è indicato dalle leggi del comune e dello
0x ura
stato oltre che, ovviamente, dalle convezioni culturali. Nella città
4
1 s
si possono individuare spazi che permettono una libertà di azio‐
s
a 3 m bro
ne maggiore rispetto agli altri, ad esempio i parchi pubblici, ed
z z o m to
altri in cui invece si è maggiormente limitati.
Bo mat men
Si può ipotizzare che, nel caso dello spazio esterno del Centre
Pompidou, tra il fruitore e il soggetto collettivo che suggerisce i
all
tre, con la sua forte presenza visiva e la vistosa disseminazione
delle sue strutture annesse. Questa istanza non agisce aggiun‐
gendo interdizioni a quelle che già sussistono in uno spazio pub‐
blico, al contrario le pratiche osservate ci mostrano che i regimi
di libertà sono maggiori di quelli che si hanno in un’altra piazza.
Di fatto le pratiche di fruizione che si possono riscontrare sono le
stesse che troviamo a Parigi nei parchi pubblici e nei giardini,
non nelle piazze, con la differenza che parchi e giardini normal‐
mente hanno i cancelli (per permettere la chiusura notturna) que‐
sta piazza no. L’efficacia del Centre può essere spiegata con i
tratti ludici dell’architettura, con l’assenza nella piazza di sogget‐
ti che sorvegliano, e in parte anche con l’inclinazione della piazza
che agisce come invito a sedersi7.
Negli spazi pubblici del Parco della Musica, invece, il fruitore
si trova di fronte ad un’istanza intermedia che però è dotata di
7
Si tratta in effetti di ipotesi che per essere verificate richiederebbero di indi‐
viduare una struttura del tutto simile a quella del Centro Pompidou salvo
una caratteristica – inclinazione, presenza dei sorveglianti, tratti ludici – così
da verificare l’influenza delle singole variabili. Per questi motivi, come scri‐
vo nella premessa, il mio è solo un tentativo di “esplodere” le caratteristiche
di due casi di riscrittura e funzionare dunque come indagine esplorativa in
vista di ulteriori ricerche.
Un Centre Pompidou a Roma? 117
b/n sata
ulteriori poteri di interdizione. Vi sono i cancelli che impedi‐
scono l’accesso in certi orari e le guardie giurate che vigilano e
00 fre
controllano. Queste presenze causano una diminuzione della
2
chiarezza dei regimi di libertà detenuti dai fruitori. Cosa si può
0x ura
fare? Si può portare il proprio cibo nella cavea? Si può suonare?
4
1 s
Si può sostare per lunghi periodi? A queste domande non vi è
s
a 3 m bro
una risposta chiara, i fruitori devono essere in grado di com‐
z z o m to
prendere in situ il loro regime ed in parte negoziarlo. La mancan‐
Bo mat men
za di chiarezza potrebbe costituire una spiegazione della scarsa
fruizione da parte degli immigrati, soggetti che si percepiscono
for esti come dotati di un minore margine di negoziazione e di compe‐
all
tenza e che dunque possono avere maggiori difficoltà nell’indi‐
viduare lo spazio di libertà di cui dispongono una volta oltrepas‐
sato il cancello.
Le osservazioni non sono in contraddizione con il grande suc‐
cesso – di pubblico e di fatturato – della libreria, che invece pre‐
senta un patto comunicativo chiaro, tipico di uno spazio com‐
merciale. La presenza dei vetri funziona inoltre come un invito
ad entrare, mentre l’ampiezza del locale permette al visitatore di
sentirsi libero al suo interno. I tavolini che occupano il portico e
lo spazio antistante la cavea, sembrano invece estendere i criteri
propri dello spazio commerciale allo spazio pubblico. Insomma,
la fruizione di questo spazio richiede una notevole competenza
da parte dei fruitori. A questo si aggiunge il fatto che nella comu‐
nicazione dell’Auditorium vi è una sovrapposizione tra due di‐
verse istanze: l’Auditorium Parco della musica come struttura e la
Fondazione Musica per Roma come ente che la gestisce.
7. Giochi di sguardo e valorizzazioni
Ogni tipo di testo incorpora, in modo più o meno evidente, un
punto di vista, un lettore, un osservatore. Non parlo solo dell’a‐
spetto pragmatico, per cui ad esempio il libro prevede di essere
118 Leonardo Romei
b/n sata
letto da poche decine di centimetri e non da metri, ma più gene‐
ralmente dell’efficacia di un testo, dal punto di vista del coinvol‐
00 fre
gimento, degli effetti patemici. Basti pensare alle scelte di abbi‐
2
gliamento mirate, come mostra Jurij Lotman (1994, pp. 55‐68), a
0x ura
un certo tipo osservatore, alle strategie di rappresentazione pitto‐
4
1 s
rica che prevedono la posizione dello spettatore (Eugeni 1999,
s
a 3 m bro
pp. 97‐166), oppure ai grandi centri commerciali, che possono ri‐
z z o m to
sultare attraenti se vi si arriva da lontano e in macchina, oppure
Bo mat men
“muti” se li si raggiunge a piedi. Così, come ci ricorda lo stesso
Lotman (1998, p. 45), anche la configurazione di una città incor‐
all
Nello spazio possiamo individuare porzioni valorizzate in
modo più o meno euforico a seconda della distanza dal punto di
massimo coinvolgimento del fruitore e di godimento visivo. Nel
caso dell’Auditorium, come è risultato dall’osservazione diretta,
lo spazio da cui si ottiene una migliore presa di insieme, tanto
sull’Auditorium quanto sul quartiere, è quello della strada che
si sviluppa di fronte all’ingresso principale, dunque uno spazio
esterno, di transito8, in cui non è possibile sedersi, a parte la pre‐
senza di due panchine. Il fatto che dalla cavea non sia possibile
avere una prospettiva d’insieme sull’Auditorium, potrebbe es‐
sere uno dei motivi della sua scarsa frequentazione al di fuori
degli eventi culturali, diversamente da quanto succede a Place
Pompidou.
8. Uno spazio che si accende e si spegne
Si è potuto osservare che iniziative culturali e eventi modificano
radicalmente lo spazio del Parco della Musica; questa considera‐
zione, apparentemente ovvia, acquista però un senso se confron‐
8
Salvo la domenica e altri giorni di festività, o durante eventi di particolare
rilievo, come il Festival del Cinema di Roma, in cui diventa zona pedonale.
Un Centre Pompidou a Roma? 119
b/n sata
tata con quanto avviene nel Centre Pompidou, i cui caratteri pre‐
sentano una maggiore stabilità.
00 fre
Il Parco della Musica “si accende” e si “spegne”, si apre e si
2
chiude. I cancelli che permettono l’accesso alla cavea la notte
0x ura
vengono chiusi e anche il parco pensile è inaccessibile, il che im‐
4
1 s
pedisce la trasformazione della cavea in una vera e propria piaz‐
s
a 3 m bro
za, anche se i motivi della scelta sono comprensibili sul piano
z z o m to
dell’ordine pubblico. Quando si accende l’Auditorium diventa
Bo mat men
invece un luogo unico a Roma, per vivacità e numero di presen‐
ze. Renzo Piano, nel 2002, definiva questo spazio, “metà cavea e
for esti metà città, piazza. Un luogo dove mi auguro che vengano ese‐
all
guiti sia i riti sacri della musica, sia quelli pagani, profani, della
città”. Ma la vita di una città o di una piazza non può essere lega‐
ta ad una fruizione puntuale, deve avere piuttosto un respiro co‐
stante, anche se può cambiare di ritmo in concomitanza di
ricorrenze, eventi pubblici di tipo politico, commerciale, religio‐
so, culturale.
9. Due diversi laboratori della città
Considerando il rapporto con l’immediato contesto urbano, si
può affermare che il Centre Pompidou ha un forte impatto sulla
vita quotidiana del quartiere Beaubourg, creando spazi pubblici
fortemente valorizzati in cui le persone si riuniscono e si incon‐
trano, anche in modo indipendente dall’offerta culturale. La pre‐
senza visiva e la “verticalità” del Centre e delle sue strutture an‐
nesse agiscono in modo simile ai palazzi del potere politico, com‐
merciale o religioso nella piazza rinascimentale, creando spazi di
valorizzazione positiva, con un’identità e una chiusura spaziale.
Con la sua presenza il Pompidou ha anche introdotto modi di
vivere la città che poi si sono affermati largamente a Parigi, basti
pensare al rilievo dato agli spazi pedonali. Per questo all’inizio il
progetto si scontrò con forti opposizioni per la scelta di chiudere
120 Leonardo Romei
b/n sata
alle automobili una zona ad alta densità di traffico.
Pur rappresentando un nuovo spazio pubblico per il quartiere
00 fre
e la città, l’Auditorium, almeno fino a questo momento, non
2
sembra però presentarsi come un’area valorizzata positivamente
0x ura
in cui al tempo stesso ci si senta meno vincolati da norme com‐
4
1 s
portamentali. La sua efficacia come nodo di flusso di consumi
s
a 3 m bro
culturali è squilibrata rispetto alla sua efficacia come spazio del
z z o m to
quartiere, in particolare rispetto al Villaggio Olimpico (vedi Cer‐
Bo mat men
velli infra). Il Parco della Musica è un laboratorio della città, agi‐
sce come enzima, non tanto però con la proposta di forme di
all
e la sua capacità di essere non solo uno spazio di approdo dei
consumi culturali ma anche luogo da cui avere una visione delle
altre offerte culturali di Roma, come mostra l’articolo di Bova in
questo stesso volume.
10. Riflessioni conclusive
Si può ipotizzare che esistano due concezioni diverse di come la
riscrittura urbana può incidere sulle forme della socialità, una
più aggressiva, l’altra più moderata. Sul primo fronte incontria‐
mo, ad esempio, le posizioni espresse da Jean Baudrillard e Jean
Nouvel (2000) in un loro dialogo: è l’idea dell’architettura come
oggetto inesplicabile, che stimola interpretazioni e opera come
rottura. Un’idea che può essere messa in relazione con le consi‐
derazioni di Jurij Lotman (1994) sull’arte, che tanto più incide
sulla semiosfera, quanto meno risulta traducibile in qualcosa di
già noto.
Sul secondo fronte, dove si collocano studiosi come Françoise
Choay (2006, pp. 131‐143), l’architettura svolge il ruolo di tradur‐
re, in uno spazio e in un edificio, il tessuto di relazioni e punti di
vista già presenti in una città. Le scelte architettoniche, da questa
prospettiva, puntano ad una integrazione, o quanto meno ad una
Un Centre Pompidou a Roma? 121
b/n sata
non rottura con il contesto in cui sono inserite. Non a caso Fra‐
nçoise Choay esalta Roma per la sua capacità di far coesistere in
00 fre
modo stratificato diversi periodi storici (non parla però diretta‐
2
mente dell’Auditorium) e critica invece il Centre Pompidou per
0x ura
la sua monumentalità, per la sua distanza dai cittadini, per il fat‐
4
1 s
to di costituire un corpo estraneo rispetto al tessuto sociale. Una
s
a 3 m bro
critica, questa, che però è messa in discussione dalla grande va‐
z z o m to
rietà di pratiche di appropriazione dello spazio che si possono
Bo mat men
riscontrare oggi al Centre, sicuramente maggiore di quelle osser‐
vate all’Auditorium. Ma anche l’idea dell’architettura come og‐
for esti getto intraducibile sembra basarsi su un rapporto tra spazi e
all
pratiche di tipo causa/effetto.
Dal confronto dei due casi di studio condotto in questo saggio
emerge invece come il rapporto tra l’architettura e il “vivere la
città” si sottragga ad una opposizione dicotomica tra integrazione
e non integrazione. Come abbiamo visto, infatti, il concetto di in‐
tegrazione andrebbe articolato, almeno, nelle dimensioni prag‐
matica e visiva, e il rapporto tra architettura e pratiche sociali
dovrebbe essere studiato caso per caso, considerando l’intera‐
zione tra le caratteristiche delle strutture, la costruzione dei punti
di vista, la proposta dei regimi di fruizione.
n
b sat a
/ Elisa Pardini
0 0Ricognizione fotografica
f re
2
x radi una giornata all’Auditorium 1
0
4 ssu
1
a m b rodi questo studio fotografico è capire, assumendo il
3 mL’obiettivo
o zz to npunto di vista degli ospiti e dei fruitori, come si è concretizzato il
t o
B ma me musica e la cultura a Roma. L’esperienza quotidiana di un fruito‐
progetto dell’Auditorium: la creazione di un grande spazio per la
1
L’osservazione è avvenuta il 30 dicembre 2007.
Ricognizione fotografica di una giornata all’Auditorium 123
b/n sata
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Ricognizione fotografica di una giornata all’Auditorium 127
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Ricognizione fotografica di una giornata all’Auditorium 129
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Mariarosa Bova
b sat a
/
0 fre
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura
0dei consumi nella metropoli
2
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z m
z to nto
A mia madre
o
B ma me 0. Premessa
for esti loro per storia ed offerta culturale. Uno di questi è la Fondazione
Il Parco della Musica è occupato e gestito da due enti diversi tra
all Musica per Roma, che inizia la sua attività con l’apertura del
Parco della Musica; si caratterizza subito proponendo al pubblico
iniziative culturali varie per tipologia (musica, arte, teatro, lette‐
ratura, scienze…) e genere (musica leggera italiana, musica rock
internazionale…) privilegiando comunque linguaggi e forme
espressive moderne e contemporanee. L’altro ente è l’Accademia
Santa Cecilia che invece ha una lunga e secolare tradizione, iden‐
tificata con la sua orchestra di musica classica, i suoi successi e
vicissitudini nel passaggio da una sede romana ad un’altra, ulti‐
me quelle in via della Conciliazione (dal 1958 al 2003) e poi al
Parco della Musica di Piano dove tuttora è sita.
Entrambe le organizzazioni, pur mantenendo propri loghi
e specificità, agiscono e si offrono al pubblico nello stesso com‐
plesso architettonico e sotto la comune denominazione Audito‐
rium Parco della Musica; scelta che si è dimostrata vincente, con‐
siderate le presenze di visitatori e il successo economico. In par‐
ticolare l’Accademia Santa Cecilia, dopo i primi due anni di
assestamento, ha registrato un ampliamento notevole dei pub‐
blici di riferimento, non solo in termini numerici quanto soprat‐
tutto relativamente a fasce di età e attività lavorative: profes‐
sionisti adulti e senior (addetti ai lavori o in genere amanti della
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 131
b/n sata
musica classica), ma anche e soprattutto giovani e studenti (i
nuovi target conquistati). Al punto che nel 2008 – secondo fonti
00 fre
dirette1 – la domanda da parte del pubblico ha addirittura supe‐
2
rato l’offerta.
4 0x uraDi qui alcuni interrogativi tra loro collegati:
1
s s
‐ A quali condizioni (prima ancora delle strategie economiche e
a m b ro
3 m di marketing) Santa Cecilia è riuscita ad ampliare il bacino di
o zz to ntodo a fidelizzare nuovi utenti, nuove fasce generazionali?
utenza originario, senza scontentare gli affezionati e riuscen‐
B ma me ‐ Come, nell’Auditorium di Piano, si sono conciliate tra loro (sen‐
al l lità di Musica per Roma con la tradizione dell’Accademia?
Un’informazione ulteriore2: molto spesso l’infoline Santa Cecilia
riceve le telefonate di cittadini interessati a conoscere gli eventi
serali della Capitale. Ciò di per sé è “strano”: infatti l’Accademia
Santa Cecilia non rappresenta tutto l’Auditorium, e a sua volta
l’Auditorium – cosa più importante ai fini di questa indagine –
1
Questa e le altre informazioni qui riportante, riferite al bacino di utenza
dell’Accademia, mi sono state rilasciate dalla dott.ssa Valeria Selvaggio (re‐
sponsabile del settore Gestione Teatro ‐ Santa Cecilia) il giorno 6 febbraio 2008,
in occasione di un colloquio tenutosi presso il suo ufficio.
2
L’informazione è stata ricavata nel corso di un’intervista telefonica (settem‐
bre 2008) ad un’addetta all’infoline Santa Cecilia.
132 Mariarosa Bova
b/n sata
non rappresenta tutti i luoghi di consumo culturale di Roma…
eppure per molti le cose non stanno esattamente così. L’infor‐
00 fre
mazione è interessante perché testimonia quanto l’Auditorium
2
sia entrato nei discorsi quotidiani e nell’immaginario collettivo, a
0x ura
tal punto che in parecchi si rivolgono ai suoi centralini per noti‐
4
1 s
zie su una serata di sicuro interesse in città. Sorge allora una do‐
s
a 3 m bromanda: cosa e come “fa” l’Auditorium per produrre un simile
z z o m to effetto?
Bo mat men
Gli interrogativi posti in questa premessa potrebbero sembra‐
re troppi, ma possono essere ridotti a un’unica questione, fon‐
all 1. Introduzione
In queste pagine la questione fondamentale è riassunta nell’ipo‐
tesi di partenza della ricerca (cfr. Pezzini infra), secondo la quale
lo spazio del consumo Auditorium funzionerebbe nella metropo‐
li romana come uno spazio eterotopico.
In ambito sociosemiotico – l’approccio disciplinare di riferi‐
mento per questo lavoro – il termine spazio indica “una costru‐
zione culturale”, cioè non solo un edificio, una superficie o un
contenitore di oggetti ma anche l’insieme di tutti i soggetti in es‐
so presenti, con i rispettivi ruoli e “fare” che convergono su quel‐
lo stesso spazio, gli uni inscrivendovi determinate istruzioni
d’uso, gli altri ricontrattandole nel tempo in una continua intera‐
zione reciproca (Marrone 2001).
Con eterotopico/eterotopia si intende, più in particolare, lo spa‐
zio in cui un soggetto (Destinante) propone ad un altro (Destina‐
tario) un accordo/contratto per intraprendere un’azione e raggiun‐
gere uno scopo.
Dunque ipotizzare che lo spazio del consumo Auditorium sia
un’eterotopia significa ipotizzare che esso sia uno spazio costrui‐
to dalle relazioni tra soggetti e in cui questi, o alcuni di essi –
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 133
b/n sata
come enti organizzatori e pubblici di riferimento – siglino un
nuovo accordo per una nuova azione, cioè un nuovo progetto di
00 fre
consumo nella città, di fruizione nel/del territorio urbano.
2 Si tenterà quindi di ricostruire il discorso dello spazio Audi‐
4 0x uratorium (con le soggettività inscritte, i ruoli attanziali, le modalità
1 s
e i valori profondi) considerando gli enunciati di cui è composto
s
a 3 m bro (architettura e allestimenti, eventi realizzati, pratiche fruitive) e i
z z o m to loro rapporti.
Bo mat men
Inoltre, avendo ipotizzato che esso funzioni come eterotopia e
che dunque si tratti di un discorso efficace con effetti sul consu‐
for esti mo, si cercherà di verificare o invalidare l’ipotesi osservando la
all
sua azione rispetto ai seguenti consumi:
‐ quelli dell’Accademia Santa Cecilia, il solo dei due enti gestori
con una storia e dei consumi culturali pregressi che hanno
subìto un riposizionamento nella nuova sede del Parco della
Musica;
‐ quelli programmati e presentati al suo interno;
2. Un’indagine in tre tappe
I punti sopra elencati rappresentano tre tappe del lavoro, che
possoro essere sintetizzate in tre preposizioni: verso/a/da l’Audi‐
torium in modo da costruire una struttura di indagine che assu‐
ma la centralità del luogo rispetto ai consumi, esplicitando le loro
differenti caratteristiche in base al loro “orientamento” rispetto
ad esso. Si mostrerà in tal modo cosa fa l’Auditorium, indican‐
done volta per volta le diverse azioni (§ 2.1.3, 2.2.3, 2.3.2).
134 Mariarosa Bova
b/n sata
Altresì, comprimendo e strutturando la ricerca lungo tale traiet‐
toria principale, vale a dire l’azione dello spazio sui consumi – in
00 fre
sintonia del resto con l’ipotesi principale da cui si è partiti (§ 1) –
2
non si potrà fare a meno di notare come progressivamente se ne
0x ura
produca un’altra, inversa e complementare alla prima: quella in‐
4
1 s
dicante l’azione dei consumi sullo spazio. L’analisi mostrerà, in‐
s
a 3 m bro
fatti, come i confini dell’Auditorium (complessivamente consi‐
z z o m to
derato) non coincidano esattamente con quelli dell’architettura
Bo mat men
zoomorfa di Piano, ma vengano di volta in volta “riaggiustati”
dalla sua organizzazione di eventi nella Capitale (§ 2.3.1 e 2.3.2).
all
uni e gli altri sembrano trovare nell’Auditorium un dispositivo
di sinergia, uno spazio comune presupposto ed effetto dei loro
rispettivi fare. Per il caso esaminato, dunque, contrariamente a
quanto sostenuto da Massimo Ilardi (2004) – il quale legge i pro‐
cessi in atto nella metropoli contemporanea attraverso l’opposi‐
zione tra logica ordinatrice dell’architettura e dei suoi piani rego‐
latori da un lato, e logica disobbediente del consumo dall’altro
(che si realizza indipendentemente da regole e progettualità del‐
la prima, scardinandola) – architettura e consumi non sarebbero
reciprocamente escludenti o distruttivi, ma elementi centrali e
convergenti di un unico progetto: lo spazio del consumo Audito‐
rium, appunto.
2.1.Verso l’Auditorium
In questo paragrafo intendo mettere in evidenza il nuovo posi‐
zionamento dei consumi in seguito al cambiamento di sede – da
quella storica di via della Conciliazione a quella disegnata da Pia‐
no – concentrando l’attenzione sul ruolo dello spazio nella pro‐
duzione di questo effetto.
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 135
b / n ta
2.1.1. L’Accademia Santa Cecilia in Via della Conciliazione
0 e sa
Dal 1958 al 2003 la sede dell’Accademia Santa Cecilia è stata in
0e inserito
f r lungo il rettilineo monumentale che da
Via della Conciliazione 4, nel palazzo Pio costruito durante il pe‐
2
0x ura
riodo fascista
1 4
Castel Sant’Angelo entra direttamente in piazza San Pietro.
s s
In questo edificio il passaggio dall’esterno all’interno, e da un
a m b ro
3 minterno ad un altro, è chiaramente segnato da limiti architettonici
o zz to ntra di esse e il percorso predisposto per il fruitore. Infatti, supe‐
t o
che permettono di distinguere le varie zone funzionali, i rapporti
B ma me rando dal marciapiede un’alta porta vetrata, si accede ad un
for esti primo segmento spaziale di forma rettangolare; si tratta dell’in‐
all
gresso alla cui destra si trova il box della biglietteria.
Oltre questa, una sequenza orizzontale di porte a vetri incor‐
niciate da infissi di ferro permette l’accesso al Foyer, uno spazio‐
so rettangolo pavimentato in marmo, lo stesso materiale che
riveste le pareti dal basso in alto per circa due terzi della superfi‐
cie, mentre nell’ultimo tratto – e fino all’alto soffitto – la muratu‐
ra è tinteggiata in bianco e presenta fregi dalle linee geometriche
di ispirazione fascista. Non ci sono finestre, per cui la luce è quel‐
la naturale che proviene dalle porte vetrate dell’ingresso e so‐
prattutto quella artificiale di tradizionali lampade a muro, alcuni
faretti in sospensione e il soffitto perimetrato da una cornice di
muratura che nasconde il dispositivo luminoso ma dalla quale
viene diffusa la luce. Questa zona del Foyer si presenta come
spazio di sosta prima dello spettacolo e di attraversamento verso
la sala concerti. Inoltre si caratterizza come spazio ampio e cen‐
trale rispetto agli ambienti laterali, di ridotte dimensioni, che si
affacciano su di esso presentando ciascuno una precisa destina‐
zione funzionale: un bar e un box guardaroba sulla destra, un sa‐
lottino ospiti e un altro box guardaroba sulla sinistra; l’interno
del bar e del salottino, delimitati da porte a vetri, sono visibili dal
Foyer.
L’agibilità di questi spazi laterali è però limitata. Si presen‐
136 Mariarosa Bova
b/n sata
tano di solito bui e chiusi al pubblico, rimanendo debolmente il‐
luminato solo il Foyer centrale; è invece solo in occasione di con‐
00 fre
certi o particolari eventi in programma, e limitatamente alla loro
2
durata, che questi spazi laterali vengono aperti all’andirivieni dei
0x ura
fruitori riempendosi di luci, colori e rumori. Attraversando il
4
1 s
foyer, lasciandosi ai lati gli spazi descritti, e salendo per alcuni
s
a 3 m bro
gradini si raggiunge l’entrata della sala concerti (1760 posti). Le
z z o m to
poltroncine di velluto rosso degradano verso il palcoscenico, si‐
Bo mat men
tuato in fondo e in posizione centrale, e valorizzato rispetto al
resto da rilievi dorati.
all
trova una sala destinata a mostre d’arte, accessibile da una delle
due entrate laterali e dunque fisicamente separata dalla zona
principale del foyer e della sala concerti.
Al lato della porta d’ingresso dell’Auditorium Conciliazione
una bacheca in vetro mostra ai passanti il cartellone con il pro‐
gramma della stagione di musica classica. Le serate con gli artisti
di musica leggera sono pubblicizzate a parte (attraverso il sito
ufficiale, tramite stampa locale, trasmissioni radio) e comunque
rappresentano un’area di attività secondaria3 rispetto alla princi‐
pale e originaria destinazione di questo Auditorium.
Da quanto detto emerge come architettura e configurazione
degli spazi, loro allestimenti e destinazione funzionale, distinzio‐
ne netta tra l’attività principale (fruizione musica classica) e quel‐
le secondarie, di supporto o di contorno alla prima (ristorazione,
sala espositiva, musica leggera), caratterizzino l’Auditorium Con‐
ciliazione come spazio tradizionale. Tradizionale dunque non so‐
lo per la tipologia dell’offerta culturale (musica classica) e degli
enti che la propongono (Orchestra Sinfonica di Roma e Accade‐
mia Santa Cecilia fino al 2003) ma anche per le modalità attraver‐
Come mi hanno dichiarato i due giovani addetti alla biglietteria, l’affluenza
3
di pubblico a tali eventi è spesso molto limitata.
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 137
b/n sata
so le quali quel tipo di consumo viene predisposto per il pubbli‐
co. Consumo a scomparti separati, per chi già sa, ed esige prati‐
00 fre
cità negli spostamenti4 e qualità artistica della performance mu‐
2
sicale.
4 0x ura
1 s s
2.1.2. L’Accademia Santa Cecilia in Via de Coubertin
all vea centrale, una sorta di quarto auditorium all’aperto. L’archi‐
tettura, fatta di corpi separati, variabili in scala e accostati tra lo‐
ro, si presta bene ad una utilizzazione flessibile degli spazi in cui
convergono sia consumi culturali sia consumi commerciali (bar,
ristoranti, libreria) di supporto ai primi ma allo stesso tempo au‐
tonomi per il servizio offerto al pubblico in fasce orarie indipen‐
denti da quelle degli spettacoli. L’offerta eventi dell’Auditorium
si presenta estremamente variegata includendo non solo musica
classica, curata dall’Accademia Santa Cecilia, ma anche musica
leggera, pop, rock nazionale ed internazionale oltre a spettacoli
teatrali, cinema, performance di danza contemporanea, mostre
d’arte… curate dalla Fondazione Musica per Roma, l’altro ente
gestore dell’Auditorium Parco della Musica (§ 0).
In una simile struttura, l’Accademia Santa Cecilia ha trovato
la disponibilità di una grandissima sala concerti all’avanguardia
4
Questi ultimi risultano molto agevoli sia all’interno dell’edificio, per le sue
modeste dimensioni e la linearità dei percorsi interni; sia al suo esterno, cioè
dai vari punti della città fino agli spazi pubblici, perpendicolari a via della
conciliazione, sui quali si affaccia (vale a dire Via Traspontina, dove si trova
la fermata delle seguenti linee di trasporto pubblico: 23, 34, 40, 982, 271, 10
notturno; e Piazza Pia, con le fermata del 23, 24, 40, 62, 271 e 280).
138 Mariarosa Bova
b/n sata
per l’acustica, la sala Sinopoli con circa 3000 posti; sale teatro per
le prove e le incisioni; bookshop per la vendita di spartiti e inci‐
00 fre
sioni realizzate; spazio per i propri uffici con ingresso a pian ter‐
2
reno, compreso tra la libreria e il bar; biglietteria riservata all’in‐
0x ura
gresso, accanto a quella Musica per Roma. E inoltre, malgrado
4
1 s
l’accostamento a quest’ultima e ai suoi spazi, l’Accademia per i
s
a 3 m bro
propri abbonati ha potuto mantenere un carattere di riservatezza
z z o m to
ed esclusività predisponendo un apposito servizio cortesia. Que‐
Bo mat men
sto si trova quasi all’estremità del Foyer, ospitato in una sua rien‐
tranza adiacente all’ingresso della sala Sinopoli; si tratta di uno
all
rato attraverso vetri, porte, cordoli o quant’altro, bensì per la di‐
scontinuità rilevabile in termini di luce e rumore. Infatti, essendo
a lato delle vetrate che danno sulla cavea, non riceve direttamen‐
te luce naturale e l’illuminazione è garantita spesso dai faretti
presenti sulla postazione cortesia e direzionati sul personale ad‐
detto alle informazioni. Anche il rumore in questo punto del
foyer è molto attutito, persino nei giorni di maggiore afflusso;
infatti si trova oltre il piccolo museo archeologico e quello degli
strumenti musicali, persino oltre l’area solitamente destinata alle
installazioni e all’esposizione di opere d’arte (che raggiungono
ma non superano l’ingresso della sala Sinopoli).
Sempre qui, lungo il Foyer ma sul lato opposto del servizio
cortesia, è posizionato ad altezza viso uno schermo video che
trasmette in diretta quanto succede all’interno della sala Sinopoli:
prove e preparativi prima di un concerto. La presenza di questo
dispositivo aumenta lo spazio esperibile per chiunque si trovi in
quel punto del Foyer: egli infatti avrà a disposizione non solo lo
spazio fisico immediato, ma anche lo spazio digitale che gli ren‐
derà presente quanto al momento non è accessibile (l’interno del‐
la sala concerto durante le prove).
Ma non si tratta dell’unico video che riguarda l’Accademia
Santa Cecilia. Infatti superate le porte a vetro dell’ingresso, dove
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 139
b/n sata
sono sistemati l’infopoint e le biglietterie, c’è un grande schermo
a muro in cui scorrono immagini e testo di presentazione degli
00 fre
eventi in programma all’Auditorium, sia quelli dell’Accademia
2
sia quelli della fondazione Musica per Roma. Altri video poi, più
0x ura
piccoli e in sequenza, sincronizzati e con identiche immagini, si
4
1 s
trovano fuori dai cancelli lungo il colonnato: è l’Auditorium che
s
a 3 m bro
dà il benvenuto al suo pubblico presentando allo stesso tempo gli
z z o m to
enti gestori e le rispettive iniziative.
Bo mat men
All’Auditorium, dotato anche di sistema wi‐fi per i suoi vi‐
sitatori, è usuale l’utilizzo di schermi video e nuovi media che
for esti anche l’Accademia Santa Cecilia ha integrato tra i propri stru‐
all
menti di comunicazione. Lo scorso luglio (anno 2008), ad esem‐
pio, uno schermo interattivo posizionato sul vetro d’ingresso dei
suoi uffici permetteva il collegamento internet al sito dell’Audi‐
torium per informazioni a portata di touch, mentre in ottobre la
stessa Accademia festeggiava il proprio centenario allestendo
nella sala Risonanze (accessibile dal foyer e vicino al piccolo mu‐
seo archeologico) video‐installazioni realizzate da Studio Azzur‐
ro; alcune ne ripercorrevano le fasi storiche, con immagini e testo
audio selezionabili dal visitatore attraverso semplici movimenti
della mano stesa sopra un monitor sensibile; un’altra permetteva
a chi fosse salito su un piccolo palco, muovendo tra le mani una
bacchetta, di attivare la proiezione di alcune immagini, quelle dei
musicisti del Santa Cecilia che vestiti in abito bianco si libravano
nell’aria suonando i loro strumenti.
Ma non si è limitata a questo la capacità del Santa Cecilia di
adeguarsi ai nuovi linguaggi del consumo, che oltre all’uso dei
nuovi media prevedono spesso la costruzione di un’esperienza
coinvolgente e plurisensoriale per il visitatore. Così la fruizione
di musica classica, in alcune iniziative come quella intitolata “Dal
Vivo”, è stata contaminata con altri consumi e altri percorsi sen‐
soriali; nel caso citato la serata di ascolto musicale era preceduta
dalla presentazione e degustazione di vini rinomati scelti in base
140 Mariarosa Bova
b/n sata
alle caratteristiche del brano musicale in programma. Come se la
musica fosse cibo, e l’ascolto anche una questione di gusto e di
00 fre
olfatto. In casi simili opera d’arte non è solo il brano e la sua ese‐
2
cuzione strumentale, ma ad essere estetizzata è l’intera esperien‐
4 0x ura
za corporea del consumo e della sua piacevolezza.
1 s
Si può dunque osservare come, accanto ad iniziative in cui la
s
a 3 m bro valorizzazione del consumo di musica classica rimane pratica e/o
Bo mat men
all’Auditorium sia riuscita anche a promuovere eventi utopici
e/o ludici, in cui ad essere valorizzati sono l’ibridazione dei con‐
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 141
b/n sata
estremi di un continuum6 in cui il movimento dell’uno verso l’al‐
tro avviene appunto in maniera continua e graduale, cioè sempre
00 fre
aggiungendo uno o più gradi alla posizione (di volta in volta) oc‐
2
cupata.
4 0x ura
Allora il fatto che nella nuova sede di via de Coubertin l’Ac‐
1 s
cademia Santa Cecilia “tradizionale” (per storia, pubblico di rife‐
s
a 3 m bro
rimento, tipologia del consumo e sua valorizzazione, § 1.1) sia
z z o m to
riuscita a mantenere alcune caratteristiche originarie della sua
Bo mat men
offerta (“cultura alta”, valorizzazione pratica e critica del consu‐
mo) e nello stesso tempo incorporarne di nuove (uso frequente di
for esti nuovi media e valorizzazione utopica e ludica del consumo) si‐
all
gnifica che al Parco della Musica ha trovato le condizioni per al‐
cuni spostamenti nella direzione dell’innovazione.
Spiegare questo nuovo posizionamento dell’Accademia non è
tanto importante di per sé quanto soprattutto perché sottolinea il
ruolo svolto dallo spazio in tale cambiamento.
A questo punto ritengo sia molto importante precisare un aspet‐
S1 S2 Tradizione Innovazione
Non S2 Non S1
Non Innovazione Non tradizione
6
Invece, se consideriamo tradizione e innovazione gli estremi di un continuum
come il seguente:
Tradizione Innovazione
allora lo spostamento dall’uno verso l’altro, avvenendo in maniera progressiva
e graduale (per singoli tratti, come nell’immagine sopra) porta a definire cia‐
scuna posizione sul continuum come somma di quelle precedenti e distanza
dai punti successivi. In tal caso perciò ciascun punto sulla retta, ciascun gra‐
do, può essere pensato come un più (+) o un meno (‐) di tradizione e/o inno‐
vazione a seconda della propria distanza dagli estremi così considerati.
142 Mariarosa Bova
b/n sata
to: in base all’approccio utilizzato e all’analisi effettuata, il nuovo
posizionamento dell’Accademia Santa Cecilia all’Auditorium non
00 fre
è giustificabile nel semplice passaggio dell’ente citato da una se‐
2
de ad un’altra, da un luogo ad un altro luogo. Piuttosto, secondo
0x ura
la nozione semiotica di spazio (di cui si è già parlato nelle pagi‐
4
1 s
ne precedenti), l’effetto ottenuto è spiegabile come esito comples‐
s
a 3 m bro
sivo del sistema di relazioni tra i seguenti elementi: da un lato ar‐
z z o m to
chitettura, allestimenti, oggetti, e soggetti a vario titolo coinvolti
Bo mat men
(enti gestori, partner istituzionali, pubblico di riferimento); e dal‐
l’altro, le modalità (dovere, potere, sapere, volere...), i valori e le
all
Spiegato questo, possiamo adesso considerare un ulteriore
punto di vista, più generale ma complementare a quello usato.
Vale a dire: se il nuovo posizionamento dell’Accademia (e dei
suoi consumi) è assunto come effetto del sistema di relazioni ap‐
pena detto, allora – spostando lo sguardo dal “dentro” di quel
sistema e osservandolo anche da “fuori” – possiamo notare come
la relazione Auditorium‐Santa Cecilia sia interpretabile come
quella tra uno soggetto collettivo spazio e un altro soggetto, con
cui il primo entra in rapporto costruendosi e al tempo stesso co‐
struendolo. Così, si potrebbe intendere lo spazio oltre che come
testo/discorso finito che tiene insieme altri testi, anche come una
sorta di meccanismo di produzione di essi (§ 3).
2.2. All’Auditorium
Consideriamo ora la configurazione topologica dell’Auditorium,
i modi di consumi presenti e le pratiche fruitive dei visitatori ri‐
levate attraverso l’osservazione diretta.
2.2.1. Configurazione topologica, consumi e pratiche di consumo
In questo paragrafo mi soffermerò solo su alcuni aspetti dell’ar‐
gomento, considerando che molti altri sono discussi nei saggi di
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 143
b/n sata
Pierluigi Cervelli e di Leonardo Romei presenti in questo stesso
volume.
00 fre
Le attività culturali e commerciali sono dislocate e organiz‐
2
zate all’interno del Parco della Musica sì da farne una vera e
0x ura
propria macchina produttiva e non soltanto un dispositivo di di‐
4
1 s
stribuzione e consumo. Una simile integrazione collega tra loro
s
a 3 m bro
alcune delle tante iniziative promosse, trasformandole in stimolo
z z o m to
e traino (anche economico) per altre.
Bo mat men
Infatti, oltre alle sale concerto, l’Auditorium conta al suo in‐
terno sale prova e teatro attrezzate per l’incisione di brani musi‐
all
la produzione di brani messi in vendita nello stesso bookshop
dell’Auditorium. Questo rapporto in loco tra produzione (o anche
semplice presentazione al pubblico) e distribuzione si riscontra
anche in ambiti diversi da quello prettamente musicale. Lo scor‐
so anno, ad esempio, in occasione dell’iniziativa CinaVicina, du‐
rante la quale l’Auditorium ha ospitato spettacoli, danze e opere
d’arte cinesi, sono stati messi in vendita presso il bookshop (una
delle più fornite librerie di Roma per varietà di titoli e autori) tut‐
ta una serie di testi e cataloghi relativi alla produzione di artisti
che avevano debuttato proprio all’Auditorium.
Quanto invece a Lezioni di storia, Festival della matematica, delle
scienze, Festival della filosofia, tutte iniziative che hanno riscosso
tanto successo da meritare annuali riedizioni, l’aspetto da sotto‐
lineare è la spettacolarizzazione del consumo che estetizza ed eu‐
forizza il messaggio pedagogico sotteso a queste attività, renden‐
dole pertanto accessibili non solo ad addetti ai lavori ed appas‐
sionati, ma anche a profani e semplici curiosi. Così ad esempio
ogni Lezione di storia non è solo un discorso da ascoltare, ma è un
evento da vivere, che mobilita flussi di visitatori registrando il
tutto esaurito, anche in prevendita7.
7
Queste informazioni e considerazioni derivano dall’osservazione diretta,
144 Mariarosa Bova
b/n sata
Si rivelano dunque diversificati i ruoli dell’Auditorium: pre‐
sentatore, intrattenitore, produttore, distributore, ma anche infor‐
00 fre
matore ed educatore. Questi, integrandosi con la polifunzionalità
2
della struttura, contribuiscono a dare dell’Auditorium un’imma‐
0x ura
gine sempre diversa a seconda delle attività di volta in volta pro‐
4
1 s
mosse e ospitate al suo interno; e le stesse pratiche di consumo a
s
a 3 m bro
loro volta rispondono tacitamente a quelle immagini e alle istru‐
z z o m to
zioni che esse prevedono.
Bo mat men
Le pratiche di consumo dei visitatori, anche quelle apparen‐
temente più libere e produttive (come l’andirivieni di biciclette e
for esti rollerblade) non rappresentano quasi mai spazi che il fruitore
all
“ruba” all’Auditorium riscrivendoli, bensì attività che l’Audi‐
torium stesso ora consente/favorisce (ad es. luglio 2008, mese della
street art); ora non impedisce (maggio‐giugno 2008: mesi in cui
l’Auditorium ospitava nell’area pedonale un prototipo di casa
sana ed ecologica, ed erano numerosi bici, pattini, tricicli, bambi‐
ni che giocavano con la palla o con piccole racchette); ora addirit‐
tura vieta (come durante lo scorso inverno/primavera 2007 in
occasione di eventi di moda e danza: in quel caso neanche le bici
erano ammesse fuori dalla pista ciclabile, e l’area pedonale sem‐
brava un nervoso backstage con andirivieni di modelle, addetti
stampa, security e truccatrici).
Insomma, è come se ci fosse un tacito accordo tra l’Audito‐
rium e i suoi fruitori: le libertà che i secondi in taluni casi si pren‐
dono sembrano previste/suggerite/concesse dallo stesso Audito‐
rium attraverso la sua programmazione e occupazione dei locali,
interni ed esterni. Tant’è che nei giorni di pausa, tra la dismissio‐
ne di un allestimento e la presentazione di nuovi eventi, le prati‐
che di consumo rientrano nei ranghi della routinaria passeggiata
che fiancheggia i giardini, con soste per bambini e accompagna‐
effettuata in giorni diversi della settimana e fasce orarie diverse della giorna‐
ta, nel periodo ottobre 2007 – luglio 2009.
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 145
b/n sata
tori presso il piccolo parco giochi, per altri presso le panchine ai
bordi dei giardini pensili; mentre la zona della Cavea rimane
00 fre
quasi deserta; lo stesso vale anche per il Foyer: percorrendolo in
2
quei giorni, essendoci minore illuminazione, schermi video spen‐
4 0x ura
ti, silenzio e il solo personale di controllo, sembra quasi di varca‐
1 s
re/violare una zona privata.
s
a 3 m bro
z z o m 2.2.2. Il Foyer/installazione/galleria
t o
o t n
B ma me più rappresentativo in merito alla polifunzionalità della struttura
Tra tutte le unità spaziali dell’Auditorium, il Foyer è forse quello
al l ciali, all’ibridazione dei loro mezzi e linguaggi.
Si tratta del lungo corridoio a semicerchio, perimetrato da pi‐
lastri e porte vetrate e da muri nell’ultimo tratto, che conduce
dall’ingresso o dalla cavea alle tre sale concerti. Non solo si carat‐
terizza come luogo di attraversamento verso le sale ma anche
come luogo di sosta, in quanto lungo il percorso sono sistemati
dei box con brochure informative sugli spettacoli, ed inoltre il la‐
to con gli ingressi alle sale è caratterizzato da alcune rientranze
aperte attrezzate a guardaroba ed altre, chiuse da vetri, destinate
al museo archeologico, al museo degli strumenti musicali, ad am‐
biente espositivo (la sala Risonanze).
Seppure locale interno e chiuso, la presenza di vetri su en‐
trambi i lati (da cui filtra luce naturale) e l’uso di mattoni a vista
al posto della muratura eliminano il contrasto dentro/fuori e
aperto/chiuso esaltando la continuità tra ambienti comunque di‐
stinti, e valorizzando quest’ampia porzione architettonica come
complessa.
Del resto non si tratta di un semplice Foyer, bensì di un Foyer
“artistico”: infatti sulle arcate rettangolari che ritmano il lungo
corridoio sono fissate delle scritte al neon che, in varie lingue,
146 Mariarosa Bova
b/n sata
parlano della musica, dell’arte e della loro bellezza8. L’installa‐
zione, intitolata Polifonia e realizzata da Nannucci nel 2002, è
00 fre
un’opera fissa che ormai si è perfettamente integrata con l’ar‐
2
chitettura e l’allestimento del Foyer, contribuendo a connotarlo
0x ura
come spazio metalinguistico (ne parleremo meglio nel prossimo
4
1 s
paragrafo).
s
a 3 m bro Non sempre ma spesso lungo la parete del Foyer con rien‐
z z o m to
tranze e zone di accesso alle sale sono sistemati quadri, dipinti,
Bo mat men
opere d’arte contemporanea (con relativi pannelli informativi)
che rifunzionalizzano questo luogo come galleria espositiva. L’e‐
all
fissa di Nannucci e l’uso frequente come galleria, viene ripresa
anche in occasione della promozione di prodotti ed iniziative
prettamente commerciali, che trovano qui la messa in scena ade‐
guata per una presentazione che mixa il linguaggio commerciale
con quello culturale ed artistico9.
2.2.3. Il “fare riflessivo” dell’Auditorium
Tra tutti i segmenti spaziali dell’Auditorium il Foyer è quello in
cui sembra più evidente il suo fare riflessivo.
Le scritte al neon dell’installazione rimandano alla materia
8
Di seguito alcune delle frasi: Las variationes de sonidos y colores nunca tiene
fin; Di che cosa stiamo parlando quando parliamo di arte; All people have always
had their own music; La musica dà anima all’universo e all’immaginazione; Events
take time events take place events take space; Uno spazio con un nucleo intangibile e
forse sacro; Callan las cuerdas la musica sabìa lo que yo siento.
9
A titolo di esempio: nel 2007/2008 si è tenuta l’esposizione da parte della
società Enea dei pannelli solari Stapelia destinati all’illuminazione cittadina e
così chiamati perché l’alta tecnologia del prodotto prendeva la forma
dell’omonimo fiore; in quell’occasione il pannello solare era posto su un pie‐
distallo, illuminato da un faretto mentre del personale specializzato ne il‐
lustrava le peculiarità tecniche… come se fosse una vera e propria opera
d’arte.
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 147
b/n sata
prima del sue numerose attività, cioè alla musica, all’arte, alla
poesia e alle passioni di chi ne fruisce; mentre la trasparenza di
00 fre
porte e pareti vetrate – che separano e al tempo stesso congiun‐
2
gono visivamente luoghi, consumi e linguaggi differenti – riman‐
4 0x ura
dano all’Auditorium come soggetto della contemporaneità. Pre‐
1 s
sentare oggetti diversi (per storia, valori, linguaggi) nello stesso
s
a 3 m bro spazio e sotto un unico sguardo d’insieme comporta infatti non
z z o m to solo ridefinire quegli oggetti alla luce dei rapporti reciproci, ma
Bo mat men
anche parlare di chi (simulacro) è l’autore di quello sguardo
d’insieme, l’Auditorium. Attraverso la sua azione, dunque, egli
all 2.3. Dall’Auditorium
In quest’ultimo paragrafo parlerò di alcune iniziative che l’Audi‐
torium ha promosso coinvolgendo altri luoghi romani del consu‐
mo culturale e della cultura in genere. Dall’Auditorium dunque
partirebbe la spinta per una ridefinizione dei consumi culturali, e
dei relativi flussi di visitatori, nella Capitale.
2.3.1. Le sinergie organizzative
L’Accademia Santa Cecilia, per differenziare l’offerta anche dal
punto di vista economico fidelizzando nuovi pubblici e aprendosi
all’esterno, già da qualche anno ha predisposto una forma legge‐
ra e flessibile di abbonamento attraverso un carnet di 10 ingressi,
5 dei quali per gli spettacoli del teatro Eliseo di via Nazionale e
altri 5 per concerti serali di musica classica presso l’Auditorium,
oltre ad un biglietto omaggio per visitare le mostre del restaurato
Palazzo delle Esposizioni (sempre su via Nazionale). Attraverso
questo pacchetto, quello che viene offerto ai consumatori non è
solo un insieme eterogeneo di eventi situati in luoghi diversi, ma
anche il movimento, lo spostamento nella città da un contesto ar‐
chitettonico e sociale ad un altro. Ad un consumo puntuale si af‐
148 Mariarosa Bova
b/n sata
fianca un consumo concepito in termini di flusso, in cui un ulte‐
riore palcoscenico diventa il tessuto urbano nello spostamento
00 fre
del flusso da un punto ad un altro. È questa la costruzione e il
2
consumo di un’immagine di metropoli nel rimando tra un luogo
0x ura
di eventi culturali e un altro e nei tragitti che li collegano; essi, con
4
1 s
le sequenze urbane che selezionano, sia apportano senso ai luo‐
s
a 3 m bro
ghi che collegano inserendoli nel continuum del loro tragitto10,
z z o m to
sia – nello stesso tempo – contribuiscono alla definizione e al con‐
Bo mat men
sumo della città e dei suoi spazi.
Riguardo all’importanza dei percorsi cittadini per la defini‐
for esti zione dei luoghi, nell’osservazione diretta di quelli che portano
all
al Parco della Musica, sia effettuati sui mezzi pubblici che fatti a
piedi nei dintorni, è emersa un’interessante e forte opposizione
in termini di visibilità ed orientamento, riassumibile metaforica‐
10
Negli studi sociologici sulla metropoli, l’importanza dei tragitti nella defi‐
nizione dei luoghi emerge già dagli anni sessanta con L’immagine della città di
Kevin Lynch (1960). Prendendo spunto da quella ricerca, anche per l’Audito‐
rium e l’analisi dei suoi spazi nel più vasto contesto della Capitale, si è volu‐
to tenere conto dei percorsi attraverso i quali raggiungerlo, ovviamente in
un quadro teorico e secondo un approccio molto diverso da quello della ri‐
cerca appena citata; la distanza disciplinare e metodologica, infatti, non con‐
sente di prelevare alcuni elementi da una parte e adattarli automaticamente
all’altra (per un approfondimento sull’opera di Lynch, è disponibile una
completa e sintetica scheda di lettura consultabile tra i materiali della ricerca
Prin 2006 al sito: www.unibg.it/turismo/scrittureurbane). Tuttavia ciò non im‐
pedisce di tenere in conto nell’analisi l’elemento rappresentato dai tragitti,
ovvero dai percorsi che portano all’Auditorium da vari punti della metropo‐
li romana. Come si vedrà, sono stati scelti quelli effettuati con i mezzi pub‐
blici perché, diversamente da quelli effettuabili con un mezzo privato e
spesso secondo le preferenze individuali, prevedono sempre la stessa strada
e le stesse soste, per turisti come per cittadini; insomma tragitti fissi, unici e
uguale per tutti, facilmente osservabili e verificabili, e che inscrivono nella
mappa cittadina determinati sistemi di visibilità e accessibilità, dunque de‐
terminati effetti di senso. È sotto questo preciso aspetto che sono stati presi
in considerazione nella presente ricerca.
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 149
b/n sata
mente nell’opposizione fili di Arianna/labirinto11. Labirinto è l’ef‐
fetto di senso che deriva attraversando a piedi la struttura re‐
00 fre
ticolare del quartiere nella zona antistante l’Auditorium, zona in
2
cui la disposizione ripetitiva, regolare e geometrica di edifici e
0x ura
strade impedisce sia di vedere i tre scarabei che di individuare
4
1 s
gli altri centri funzionali (pure esistenti, come la chiesa di San
s
a 3 m bro
Valentino, il supermercato, il maneggio, l’asilo nido) o una ge‐
z z o m to
rarchia ordinatrice in quella porzione di tessuto urbano; così lo
Bo mat men
sguardo di chi vi passeggia attraverso non ha panorami o pro‐
spettive d’insieme, ma rimane aderente alle pareti del labirinto,
all
stradali. A questo effetto di dispersione visiva e disorientamento
si contrappone invece la continuità ordinatrice dei percorsi dei
mezzi pubblici che da vari punti della città portano al Parco della
Musica. Come fili di Arianna essi costruiscono delle linee di sen‐
so all’interno della Capitale12, collegando l’uno all’altro vari luo‐
11
Labirinti e fili di Arianna sono metafore rintracciabili in Pavia (2002) in
riferimento rispettivamente a dispersione/orizzontalità diffusa tipica dei ter‐
ritori della metropoli contemporanea (i labirinti), e alla possibilità di una lo‐
ro lettura attraverso la selezione di tracciati (i fili di Arianna) che uniscono
tra loro i nodi delle singole reti cittadine. Riprendendo la suggestione, di
queste metafore e il loro campo di applicazione, ritarando il tutto però ad
una sola e più limitata area (in termini di complessità e di ampiezza della
superficie interessata), appunto quella del Parco della Musica e dei suoi din‐
torni, per la quale e rispetto alla quale vengono costruite le suddette osser‐
vazioni e considerazioni.
12
Nell’osservazione diretta dei percorsi con i mezzi pubblici, sono emersi in‐
fatti due importanti elementi. Il primo: questi percorsi creano una continuità
tra l’Auditorium e le restanti aree urbane, riuscendo però a smorzare solo in
parte l’effetto di “straniamento” della struttura rispetto al più vicino tessuto
viario ed edilizio in cui è inserita; tale situazione, del resto, si ripercuote nel
rapporto tra l’Auditorium e gli abitanti del quartiere, i quali generalmente
non lo inseriscono nei loro usi, “giri” e riti quotidiani. Il secondo elemento –
a cui sopra si accennava – consiste invece nel fatto che ciascun percorso, in
quanto differente serie continua di tappe, seleziona e costruisce una diversa
150 Mariarosa Bova
b/n sata
ghi/nodi fino all’Auditorium, il quale così risulta non totalmente
estraniato dal resto, come perso dentro un contesto labirintico
00 fre
appunto, ma meglio inserito nel sistema urbano e più omogeneo
2
rispetto alla sua logica funzionale.
4 0x ura
1 s
Riguardo al concetto di città e spazio come sistema di elementi e
s
a 3 m bro
di interrelazioni che il consumo seleziona e riattiva, va ricordata,
z z o m to
oltre alla suddetta iniziativa dell’Accademia Santa Cecilia anche
Bo mat men
quella – più interessante ai fini del presente lavoro – promossa
da Musica per Roma e intitolata Progetto Calliope: sotto questa
for esti denominazione, tanti eventi di arte e cultura sono distribuiti in
all
date diverse presso le sedi romane di Accademie estere aderenti
all’iniziativa e che per l’occasione aprono le loro porte al grande
pubblico. Un modo per far conoscere alcuni spazi della cultura
romani attraverso un itinerario del consumo che li rende visibili
e accessibili ai più, promuovendone l’immagine in un rinnovato
quadro d’insieme. Autore l’Auditorium.
C’è poi un altro caso, quello in cui, pur in assenza di una pro‐
grammazione comune, un luogo della cultura romana rinvia al‐
immagine dell’Auditorium, o anche aspetti diversi della stessa.
Così la linea M, mettendo insieme nodi centrali e rappresentativi della
Capitale (es. stazione Termini, Piazza della Repubblica, P.zza Fiume, Corso
Italia, l’interno di Villa Borghese, P.zza Flaminio), tutti caratterizzati da ele‐
menti architettonici, funzioni e pratiche tra loro differenti, predispone un
percorso turistico quasi fatto di cartoline messe in sequenza; il 910 invece da
Termini si sposta sul ricco quartiere Parioli attraversandolo tutto e seguendo
viale Pilsudski fino a via de Coubertin, dando in tal modo l’impressione ‐per
la continuità viaria e del paesaggio architettonico visibile dai finestrini‐ che il
Parco della Musica sia inglobato al suo interno invece che appartenere al dif‐
ferente quartiere Flaminio; infine il 233 spostandosi dal quartiere africano
sulla circonvallazione nella zona del Foro Italico, costruisce nell’ultimo tratto
una lunga linea tra aree e parchi attrezzati per lo sport e il tempo libero, quelli
dei campi di Acqua Acetosa così congiunti con il verde del Parco della Musi‐
ca e della limitrofa Villa Glori.
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 151
b/n sata
l’Auditorium. Non si tratta di un luogo qualunque ma del Macro
(Museo d’arte contemporanea, attivo ma ancora da ultimare) pres‐
00 fre
so l’ingresso del quale sono disponibili al pubblico brochure infor‐
2
mative su mostre ed eventi, non solo quelli ospitati presso il mu‐
0x ura
seo ma anche quelli promossi dall’Auditorium; il fatto interes‐
4
1 s
sante è che la maggior parte di quei volantini ed opuscoli non si
s
a 3 m bro
riferiscono al Macro – come ci si potrebbe aspettare – bensì al‐
z z o m to
l’Auditorium. La centralità dell’Auditorium viene costruita così
Bo mat men
anche attraverso questa comunicazione dislocata.
Intanto, dopo la recente inaugurazione del MAXXI, si aspetta
all
porto, vicino all’Auditorium che ha già inaugurato per il quartie‐
re Flaminio la terza fase di riqualificazione in cui, pur assecon‐
dando la vocazione del luogo (tempo libero e consumo culturale/
commerciale), emergono tuttavia delle discontinuità rispetto agli
interventi del passato. Operando degli sventramenti nel tessuto
urbano del Flaminio, vengono costruite le strutture per l’Esposi‐
zione Internazionale del 1911 e poi quelle per le Olimpiadi del
1960. Date importanti, accompagnate da grandi entusiasmi13 che
lanciano Roma a livelli internazionali, e che però si caratterizza‐
no come investimenti a breve e medio periodo, con spazi per lo
più destinati ad essere rifunzionalizzati una volta consumatosi
l’evento che li aveva posti in essere (come gli alloggi del villaggio
olimpico convertiti in edilizia popolare).
Con l’Auditorium, invece, il progetto di riqualificazione cam‐
bia segno: avviene per ricuciture nel tessuto urbano del quartiere, e
soprattutto ponendo in essere una struttura polifunzionale e si‐
nergica in cui il consumo degli eventi non ne esaurisce lo scopo
originario ma anzi lo alimenta, lo consolida e lo espande anche at‐
traverso il rimando ad altri luoghi culturali della Capitale e ad
Vedi il video disponibile all’indirizzo: http://video.tiscali.it/categorie/Speciali/
13
Mediauvis/580html.
152 Mariarosa Bova
b/n sata
un’idea di quartiere ancora in fieri (secondo i progetti comunali,
infatti, il Flaminio si appresta a diventare il “quartiere delle arti”).
2 00 fre
2.3.2. La “verticalità” dell’Auditorium e il suo fare progetto/meta‐
4 0x ura
fare
1 s s rete con altri luoghi in occasione di specifiche
a m b ro
3 miniziative e dirigendone il funzionamento, l’Auditorium costrui‐
Proprio facendo
o zz to nsoggetto produttore e relatore.
sce ola sua presenza nella metropoli e la sua visibilità in quanto
t
B ma me Dunque all’orizzontalità della rete e dei punti messi in rela‐
for esti zione si unirebbe la (sua) verticalità, intesa come capacità di
all emergere associando il nome Auditorium all’incessante attività
di organizzazione e promozione di eventi tanto in loco quanto
– come abbiamo visto – nei luoghi da esso distanti ma che esso
mette in relazione, tra loro e con sé, per tale via contribuendo a
definirli e a definirsi.
Il concetto di verticalità qui usato trae spunto da quello pre‐
sente nel saggio Babele (2002) di Rosario Pavia, seppure venga ri‐
formulato e inteso in maniera astratta.
La verticalità di Babele – come la intende Pavia – è la verticali‐
tà fisica di un edificio (in quel caso della torre più alta da cui la
città, Babilonia, prese appunto il nome) che con la sua struttura
architettonica emerge rispetto al contesto divenendo un punto di
riferimento visivo da vicino e da lontano. Babele è la torre citta‐
dina dalla quale la città è visibile sotto un solo sguardo e che a
sua volta, proprio per la sua altezza, è visibile da ogni punto del‐
la città, divenendone perciò un principio organizzatore in termi‐
ni architettonici, funzionali e sociali. È intorno alla torre infatti
che si addensano le principali attività urbane, ed è la torre stessa
che dà senso e razionalità alla loro distribuzione opponendosi
all’orizzontalità diffusa e disordinata del tessuto urbano e dei
suoi collegamenti. Un esempio attuale di Babele è la Torre Eiffel
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 153
b/n sata
a Parigi, vista da Barthes – riporta Pavia – come la Babele laica che
sprigiona l’immaginazione (Pavia 2002, p. 13); difatti per la sua al‐
2 00 fre
tezza la costruzione di acciaio è visibile da ogni punto di Parigi,
ne abbraccia l’estensione del tessuto urbano garantendo ancora
0x ura
allo sguardo una possibilità di decodifica e opponendosi alla
4
1 s s
struttura orizzontale e illeggibile riproposta oggi in molte metro‐
a 3 m bro
poli occidentali.
for esti
ponendosi rispetto al resto e divenendo, in base a ciò, principio
di ordine.
all
Invece, nel nostro oggetto di studio, la verticalità sarebbe quel‐
la dell’intero spazio Auditorium (inteso come sistema di relazio‐
ni tra architettura, soggetti, eventi, pratiche) il quale la costruisce
attraverso le sue relazioni e il suo fare. Quest’ultimo poi, come
abbiamo visto a proposito del progetto Calliope, non sarebbe un
semplice fare, bensì un meta‐fare in quanto racconta e coordina
quello di altri luoghi della cultura e del consumo.
3. Conclusioni
Ci sono adesso sufficienti elementi a conferma sia dell’ipotesi di
partenza (spazio Auditorium inteso come eterotopia, § 1) sia del‐
la convergenza tra logica dell’architettura e logica del consumo,
di cui si è parlato sopra (§ 2).
Emerge, infatti, nei tre passaggi come l’Auditorium possa es‐
sere inteso non solo come un discorso finito e concluso, prodotto
dall’insieme di vari enunciati/testi; ma anche si può rilevare co‐
me, una volta creato, si affermi come processualità, continua riar‐
ticolazione di quel discorso. A livello attanziale infatti (come a
più riprese evidenziato) l’Auditorium esprimerebbe una propria
soggettività, con un proprio bagaglio di modalità, potenzialità, e
154 Mariarosa Bova
b/n sata
un proprio “fare”, attraverso i quali agisce/è capace di agire effi‐
cace‐mente sui consumi riscrivendoli di volta in volta e in questo
00 fre
modo ri‐scrivendo anche se stesso.
2
Ciò da un lato convalida l’ipotesi di partenza, per la quale lo
0x ura
spazio Auditorium funzionerebbe come eterotopia (luogo in cui
4
1 s
avviene una riscrittura/progetto di riscrittura del consumo e del
s
a 3 m bro
territorio del consumo urbano); dall’altro porta a sottolineare ul‐
z z o m to
teriori elementi del concetto di spazio rispetto a quelli finora
Bo mat men
considerati, conducendo ad alcune riflessioni.
Infatti qui lo spazio sarebbe da intendere non solo come luogo
all
mezzo di esso (luogo in cui si svolge qualcosa, o che agisce su de‐
lega di altri soggetti), ma anche come luogo che definito da quelle
soggettività (di cui conserva le tracce) diventa soggetto a sua vol‐
ta, istanza a cui ricondurre direttamente l’azione e i suoi effetti.
Non solo. Lo spostamento rispetto alla definizione di spazio
inizialmente utilizzata si misurerebbe anche attraverso un altro
elemento, vale a dire le pratiche di gestione di cui abbiamo sopra
parlato.
Procediamo con ordine. Siamo partiti (§ 1) sia dallo spazio di
De Certeau inteso come luogo praticato, e dunque l’insieme del
luogo e delle pratiche di consumo presenti in esso; sia dallo spa‐
zio di Marrone dato dalla configurazione topologica unitamente
ad esseri e cose in essa interagenti. Come si può notare qui dun‐
que la definizione di spazio viene ad essere la risultante dei se‐
guenti elementi principali: architettura, funzioni, istruzioni d’uso
inscritte, pratiche fruitive in essa presenti… in cui il livello di‐
scorsivo dell’architettura contiene gli altri sovraordinandoli e ve‐
nendone al tempo stesso definito (v. anche Hammad 2006).
Rispetto a tale definizione nel caso Auditorium si registrerebbe
una sorta di anomalia (§ 2.3, 2.3.1, 2.3.2). Le pratiche di gestione
infatti con le quali l’Auditorium programma alcuni eventi (v. il
progetto Calliope, § 2.3.1) da consumare tanto in loco quanto pres‐
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 155
b/n sata
so altri centri romani della cultura forzano i limiti del suo livello
architettonico: il suo fare culturale e organizzativo supera la sua
00 fre
architettura, distribuendosi tra essa ed altre dislocate sul territo‐
2
rio metropolitano; per cui nel discorso dello spazio Auditorium
0x ura
l’enunciato di livello superiore non sarebbe più rappresentato
4
1 s
dall’architettura, bensì proprio dalle pratiche di gestione che la
s
a 3 m bro
sovraordinano, rendendola luogo stabile e principale ma non
z z o m to
l’unico. Si assisterebbe dunque ad un nuovo ordine gerarchico
Bo mat men
tra gli enunciati, con conseguenze sulla definizione stessa di spa‐
zio, o quantomeno su importanti caratteristiche del suo funzio‐
for esti namento. Ad uno spazio “singolare”, autonomo e chiuso per la
all
prevalenza dell’enunciato architettonico e dei suoi limiti, si af‐
fiancherebbe anche uno spazio “plurale”, più aperto e flessibile,
in cui le inevitabili rigidità della struttura architettonica possono
(entro certi limiti) essere spostate e ridisegnate dalle pratiche di
gestione, capaci di delimitarlo e definirlo ulteriormente attraver‐
so luoghi, soggetti, attività, valori differenti e fisicamente distanti
da esso.
È proprio guardando a quelle pratiche che si coglie il carattere
processuale dello spazio in quanto forma in divenire. La sua de‐
finizione, lungi da tentativi di stabilizzazione, viene sottoposta a
continue riarticolazioni e valorizzazioni. Lo dimostra, appunto, il
citato progetto Calliope che chiamando diversi luoghi romani
della cultura ad entrare nel circuito degli eventi Auditorium
(seppure per la durata della singola iniziativa) diventa occasione
per riconfigurare i luoghi selezionati attraverso la loro messa in
relazione. Il periodo limitato del progetto consente altresì la non
stabilizzazione di quella riconfigurazione, cosa che nel tempo to‐
glierebbe all’iniziativa o ad altre simili il carattere di evento; ma
tanto basta per “aprire” in modo evidente le architetture, o me‐
glio i testi architettonici con i relativi consumi e percorsi, a reci‐
proci rimandi. Così, costruendo per i suoi visitatori anche letture
momentanee, a scadenza temporale, l’Auditorium crea ed esibi‐
156 Mariarosa Bova
b/n sata
sce l’aspettativa dell’inatteso nella forma di uno spazio, il suo
spazio, sempre nuovo.
00 fre
Che per l’analisi dell’Auditorium si sia giunti ad un supera‐
2
mento dei tradizionali confini del testo non dovrebbe stupire ol‐
4 0x ura
tremodo. È infatti in corso da diversi anni – come riporta Pierluigi
1 s
Basso (2006) – un intenso dibattito, interno alla disciplina semio‐
s
a 3 m bro tica, centrato sui seguenti punti:
z o m t‐ valutare la tenuta del “testo” di fronte alla complessità e alla
o z t n oprocessualità delle pratiche e delle situazioni sociali, in cui l’e‐
B ma me terogeneità e la connaturata presenza di elementi discontinui
for esti rischiano di essere traditi dalle forzature omogeneizzanti del
all
testualismo e da una narratività immanente, chiusa e determini‐
stica);
‐ decidere quale sia il metodo e lo strumento più adeguato per
l’analisi semiotica di “oggetti” non genericamente culturali
ma più esattamente sociali, in cui cioè soggetti collettivi, azioni
e luoghi storicamente codificati sono legittimati a partecipare
direttamente alla significazione, pena una notevole perdita di
informazione.
Proprio per recuperare tale informazione – sempre secondo Bas‐
so – bisognerebbe porre una maggiore attenzione alle situazioni
sociali entro cui i testi sono prodotti, considerando meglio le pra‐
tiche all’interno dell’analisi, recuperando così le intenzionalità
concrete di cui esse si fanno portatrici, il loro carattere destinale,
vale a dire il loro valere per qualcuno, e il loro essere continua‐
mente riarticolate dal gioco degli attanti14.
14
È alla luce di ciò infatti che l’autore esprime i suoi dubbi e la sua insoffe‐
renza, quasi, verso l’effetto stabilizzante del modello testuale: “Sul piano dei
modelli teorici, l’ambizione di pervenire ad una modellizzazione generaliz‐
zabile delle pratiche deve essere sottoposta a opportuna riflessione critica. Se
la testualità è esattamente un oggetto che esemplifica al meglio un tentativo
di chiusura relativa e di stabilizzazione configurazionale della significazione,
Cosa fa l’Auditorium: una riscrittura dei consumi nella metropoli 157
b/n sata
Nel suggerire questo, ciò che Basso propone è al tempo stesso
una revisione del principio greimasiano di immanenza: da ga‐
00 fre
ranzia di chiusura formale del testo essa passerebbe ad indicare
2
il più ampio quadro culturale entro cui è situabile l’istanza pro‐
0x ura
duttrice del testo. Una simile scelta darebbe l’occasione di anco‐
4
1 s
rare il testo alla pratica in corso, di aprirlo allo scenario interattan‐
s
a 3 m bro
ziale di riferimento e alla traiettoria delle azioni.
z z o m to Nel solco di una riflessione teorica di questo tipo si potrebbe
Bo mat men
inserire il percorso di analisi sviluppato per il caso Auditorium.
Considerare – come fatto nel presente lavoro – le pratiche di ge‐
all
l’espressione ha voluto avere sin dall’inizio lo scopo di trattenere
per l’analisi elementi importanti ai fini della significazione, otte‐
le pratiche, comprese quella semiotica, si trovano a dover gestire il senso
lungo snodi che lo riarticolano costantemente” (Basso 2006, p. 234).
15
È emersa, dall’osservazione sul campo e dalle specifiche caratteristiche del‐
l’oggetto di studio, la necessità di considerare nella costruzione del piano
dell’espressione – e dunque poi nell’analisi – gli elementi relativi agli eventi
promossi, alla loro organizzazione, comunicazione e distribuzione negli spazi
interni e/o esterni dell’Auditorium; elementi qui momentaneamente inseriti
sotto l’etichetta “pratiche organizzative” o “pratiche di gestione”. Dal punto di
vista metodologico credo si tratti di un aspetto importante che, seppure pro‐
veniente dal “basso” dell’osservazione sul campo, intende segnalarsi all’at‐
tenzione teorica per futuri confronti e ulteriori precisazioni, sviluppi, appro‐
fondimenti.
L’Auditorium, infatti, non è un generico spazio del consumo: icona ar‐
chitettonica e contenitore espositivo, esso è anche e soprattutto una vera e
propria fabbrica metropolitana di eventi. Allora, come non considerare im‐
portanti ai fini dell’analisi proprio le pratiche organizzative di quegli stessi
eventi? Del resto, le conseguenze di questa “aggiunta” – come si evidenzia
nelle conclusioni – non sono di poco conto: il consueto dialogo a due tra con‐
figurazione topologica da un lato e pratiche fruitive dall’altro (capaci o meno
di risemantizzare la prima), diventa adesso – con le pratiche organizzative –
un dialogo a tre, che va ad arricchire l’intero processo di significazione e la
stessa definizione dello spazio preso in esame.
158 Mariarosa Bova
b/n sata
nendo poi come conseguenze da un lato lo sconfinamento del te‐
sto/dei testi nella forma processuale che quelli riarticola; dall’al‐
00 fre
tro, a livello attanziale, la necessità di individuare nello spazio
2
Auditorium il soggetto (“plurale”, collettiva) a cui ricondurre l’o‐
0x ura
rigine di quelle stesse pratiche, il loro senso e la produzione dei
4
1 s
loro effetti.
s
a 3 m bro Dunque, lo spazio Auditorium come una forma urbana del
z z o m to
consumo, forma continuamente ri‐definita dalle modalità (semio‐
Bo mat men
ticamente intese) delle relazioni tra le varie unità testuali che essa
ordina (architettura, sequenze di spazi, allestimenti, oggetti) e le
all
paci di rimodularne volta per volta confini competenze e valori.
In fieri.
nPierluigi Cervelli
b sata
/
0 0 fre
Il Parco della musica di Roma:
2
x una cartografia delle pratiche
4 0 u ra
1 s s
a 3 m bro
z m
z to nto
Il primo significato dell’edificio sono
le operazioni da fare per abitarlo.
o
B ma me U. Eco
for esti
all
0. Premessa
Roma vive un periodo di enorme trasformazione. Come in ogni
vero cambiamento, non conosciamo il futuro. L’obiettivo di que‐
sta analisi è proporre qualche riflessione sull’efficacia sociale delle
trasformazioni urbanistiche, a partire dall’analisi dei modi, effet‐
tivi e mancati, di usare gli spazi dell’Auditorium.
Questo obiettivo non può prescindere dalla considerazione di
due livelli analitici strettamente correlati: l’analisi dei modi in cui
i diversi utilizzatori “abitano” l’Auditorium e il complesso di re‐
lazioni fra le parti della città in cui esso si inscrive contribuendo a
riarticolarlo.
L’articolo si divide dunque in tre parti: nella prima si esplici‐
tano obiettivi analitici e metodologia semiotica utilizzata; nella
seconda si considerano nel dettaglio i diversi modi d’uso degli
spazi pubblici dell’Auditorium; nella terza il campo analitico si
espande fino a considerare le relazione fra l’Auditorium e i conte‐
sti spaziali e comunicativi in cui, a vari livelli di complessità, esso
pare inserirsi.
160 Pierluigi Cervelli
/n ata
1. Un microscopio urbano?
b
0 0 fres è uno
L’Auditorium‐Parco della Musica dei complessi più im‐
quartiere x
2 ed il lungotevere. Per la sua particolare mo‐
portanti che costituiranno la centralità
Flaminio a
museale che sorgerà fra il
1
gisce, proprio perché, come si evincerà dall’analisi, questa prossi‐
mità non si traduce in una frequentazione degli spazi dell’Audi‐
torium da parte degli abitanti del Villaggio Olimpico. Mi è sem‐
brato importante infatti tenere conto di tutto quello che nell’area
oggetto d’analisi non ha luogo: il campo di scelte che si traduco‐
no in una impossibilità.
Dati i limiti dell’indagine e la complessità straordinaria del
luogo analizzato, le pagine che seguono non sono certo da inter‐
pretare come un bilancio, che abbia la chiarezza e la completezza
di un ritratto, ma piuttosto come una serie di appunti, che possa‐
no delineare alcuni percorsi attuali e forse qualcuno possibile.
1
Le centralità, previste dal nuovo Piano Regolatore, saranno nuovi com‐
plessi pubblici e privati esito di una serie di progetti di riqualificazione o di
nuova edificazione, che interesseranno l’intero territorio comunale. Quella a
cui ci riferiamo si situa all’interno della “città consolidata”, come la definisce
il nuovo PRG, edificata nel corso del ’900.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 161
b / n ta
1.1. Obiettivi e modalità della ricerca
0 e sa
Presento nelle pagine che seguono i risultati di un’indagine, svol‐
f r
0 , centrate sull’Auditorium‐Parco della Musica e
ta attraverso una serie di osservazioni partecipanti, di tipo etno‐
2
0x ura
grafico‐semiotico 2
a m
o zz to npubblico.
t o
l’Auditorium) e su come esso funzioni in quanto nuovo spazio
B ma me non vi sono spettacoli, di nelle
Ho cercato osservare cosa succede quando e dove
for esti
aree aperte a tutti, in particolare nel
giardino pensile, nella cavea, nel portico su cui affacciano la li‐
all breria ed uno dei bar. Ho volutamente evitato di distinguere fra
pubblico presente per gli spettacoli e utilizzatori non paganti: mi
2
L’approccio etnosemiotico (Marsciani 2007) che ho seguito nel corso delle
osservazioni, è volto a indagare il vissuto degli abitanti nel corso della loro
esperienza in specifici luoghi (come gli spazi della cura medica o estetica) o
nello spazio urbano. Da circa dieci anni è uno degli approcci con cui si ana‐
lizza più efficacemente, nelle ricerche di marketing, l’ambito della cosiddetta
customer experience. La metodologia che ho seguito è quella, ormai abbastan‐
za assestata, della semiotica generativa applicata all’analisi allo spazio prati‐
cato (Marsciani 2007, Hammad 2003, Floch 1990 e 2006, Marrone 2001, Fab‐
bri 1984). Pur nella consapevolezza delle profonde differenze fra spazi com‐
merciali (e della metropolitana), su cui si è soffermato Floch, spazi della cura
(oggetto dell’analisi per Marsciani) o dello studio (analizzati da Marrone) o
ancora spazi sacri (Hammad) sembra che tutti possano fornire utili indica‐
zioni, ad un lavoro sugli spazi della vita quotidiana, poiché si basano, pur
nella diversità degli accenti individuali, su una comune metodologia, modo
in cui ho inteso sviluppare questa analisi. Si tratta di uno fra i molti livelli di
analisi considerabili, che non esaurisce l’oggetto ma ne propone piuttosto
una chiave di lettura particolare.
3
Il dibattito relativo alle “pratiche semiotiche” è ampio e complesso, (Cfr.
Basso 2006, a cura, Fabbri 2005, Marsciani 2007). Ho qui adottato una defini‐
zione “ristretta” del termine “pratica” che fosse il più possibile operativa,
basata sulle sole ipotesi formulate in Greimas e Courtés (1979, voci Pratiche
semiotiche e Discorso).
162 Pierluigi Cervelli
b/n sata
interessavano solo le modalità di fruizione dei luoghi accessibili a
tutti. Le osservazioni semiotiche che propongo si basano esclusi‐
2 00 fre
vamente sulle modalità d’uso dello spazio. Piuttosto che mirare
alla definizione di un utilizzatore di tipo ideale, o basare le rifles‐
0x ura
sioni su tipologie di utilizzatori preformate rispetto all’osserva‐
4
1 s s
zione, ho cercato di correlare le differenze significative rilevabili
a 3 m bro
nell’osservazione delle pratiche e nell’articolazione dei luoghi.
z z o m to Non sono stati somministrati questionari e le domande rivolte
Bo mat men ai frequentatori sono state stabilite ad hoc sulla base dei modi
for esti
d’uso dello spazio che parevano interessanti, senza ricorrere ad
una lista prestabilita.
all
È stato necessario operare su molteplici livelli analitici, consi‐
derando come si producono variazioni semantiche al variare delle
dimensioni dei molteplici “insiemi spaziali” in cui l’Auditorium
si inserisce, da quello globale del circuito comunicativo delle
nuove architetture e dei nuovi centri del consumo culturale mon‐
diale, sino a quello del suo contesto più ridotto, evidenziabile at‐
traverso la relazione con la zona adiacente del Villaggio Olim‐
pico.
Le osservazioni si sono svolte in due periodi distinti: fra la
metà di luglio ed i primi giorni di settembre 2008 e nel periodo
compreso fra il 6 novembre ed il 21 dicembre 20084, articolandosi
in 16 giornate di osservazione partecipante, cui hanno partecipato,
in due casi, Franciscu Sedda, Leonardo Romei e Mariarosa Bova.
In quattro casi si è coperta l’intera giornata (dalle 10 alle 20) e
negli altri la mia/nostra presenza si è articolata in periodi di circa
4 ore consecutive, mattina o pomeriggio, in modo da essere pre‐
senti alla fine nell’intero arco del giorno, dalla fase precedente
l’apertura dell’Auditorium fino alla chiusura serale, con la sola
4
Il periodo di osservazione si è prolungato per verificare l’apparizione di
ricorrenze o differenze significative fra la fase autunnale‐invernale e quella
estiva.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 163
b/n sata
esclusione della notte, ed in tutti i giorni della settimana.
Vorrei sottolineare infine che queste note, piuttosto che come
00 fre
presentazione di un metodo che pretenda di essere generale, au‐
2
tolegittimando i propri risultati, valgono solo come esplicitazione
4 0x ura
del punto di vista che ho assunto nel corso dell’analisi e nella lo‐
1 s
ro possibilità di essere occasione, per altri, di notare quello che
s
a 3 m bro sarà inevitabilmente sfuggito, in questa che rimane solo una mia
z z o m to ipotesi di lettura.
Bo mat men
for esti 2. L’articolazione metaurbana del Parco della Musica:
a l l forme della visibilità e della mimesi
Che l’Auditorium sia descritto, e si possa concepire, come una
“città nella città” è abbastanza evidente: nell’introduzione alla Gui‐
da all’Auditorium firmata dall’ex presidente della fondazione che
lo gestisce, Goffredo Bettini, si legge testualmente: “L’auditorium
è una vera e propria città. Alle tre sale infatti vanno aggiunti i
numerosi spazi espositivi, la cavea, il foyer, e poi il bar, un risto‐
rante, sale prova, un parco pensile”. Sempre nello stesso testo
Renzo Piano afferma: “L’idea della cavea […] è metà cavea e metà
città, metà piazza”. E all’interno del testo l’Auditorium è ancora
definito “una vera e propria città della musica”.
Data una tale serie di ricorrenze, vorrei provare ad appro‐
fondire questo aspetto dal punto di vista dei percorsi che potreb‐
be svolgere un qualunque visitatore. Iniziamo da una osser‐
vazione, che ho trovato straordinariamente acuta ed euristica,
proposta da Michel de Certeau nella sua riflessione sul Centre
Pompidou (1987). Dopo aver sostenuto che “il modello inizia‐
le del Centre George Pompidou si riferisce all’utopia di un in‐
sieme panottico mobile e totalizzante”, de Certeau (ivi, pp. 68‐69)
scrive:
164 Pierluigi Cervelli
b/n sata
Il Centro obbedisce ad un modello urbano. Questo ventre panta‐
gruelico è una città (d’altronde omogenea alle “villes nouvelles”
00 fre
create all’epoca della sua elaborazione) ma una città che ignora
l’ancoraggio delle dimore e delle vie private. Essa seleziona e
2
0x ura
mette assieme dell’urbano ciò che di esso è “pubblico”: degli uf‐
14 s
fici, delle piazze, delle strade, dei monumenti. Allo stesso modo
s
in cui, per Jakobson, è metalinguistico il linguaggio che parla del
Bo mat men
dare (exorbite) e manifesta tutti gli effetti di massa della città. È
un laboratorio dell’urbanità pubblica contemporanea. Un acqua‐
for esti
rio della metropoli. […] Da ciò, quello che accade su questo “tea‐
tro” (uno spettacolo, ma anche un teatro di operazioni) possiede
all un ruolo rivelatore. Anche i tratti negativi sopra indicati ne sono
segni. La molteplicità delle pratiche che si svolgono in questi
spazi “comuni” e che si combinano senza comunicare rappresen‐
tano una sorta di scrittura urbana, una testualità di operazioni
eteronome. È la visibilità di quello che una filosofia, una lettera‐
tura e alcune scienze sociali imparano oggi a leggere e a pensare
(trad. mia).
Ho riportato questa citazione perché anche l’Auditorium presen‐
ta, secondo me, una articolazione metaurbana. Ma questo non
avviene secondo il modo del panottismo, di una ricerca della vi‐
sibilità totale. Accedendo dalla cavea nel foyer non sono evidenti
delle differenze fra le mura interne del piano terreno e le mura
esterne che danno sulla cavea: entrambe lasciano a vista il mat‐
tone con inserti in travertino (tranne che in corrispondenza delle
scalinate) e le mura interne – come le mura di una qualunque
metropoli? – sono piene di scritte: tale è l’effetto delle installazio‐
ni al neon che costituiscono Polifonia, opera realizzata da Nan‐
nucci nel 2002. Il percorso nel foyer si snoda in una successione
di spazi distinti, in cui non tutte le parti sono percorribili: l’ac‐
cesso alle sale di ascolto è riservato agli spettatori paganti. Si simu‐
la dunque un percorso in una strada urbana (aperta sull’esterno
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 165
b/n sata
tramite ampie superfici vetrate e collegata all’interno celato tra‐
mite scalinate) che connette ambiti accessibili (museo, bar ecc.) e
00 fre
privatizzati (le tre sale di ascolto). La visibilità non è dunque to‐
2
tale. Essa assume piuttosto le modalità di una visione solo possi‐
0x ura
bile, e della valorizzazione seduttiva che una accessibilità parzia‐
4
1 s
le dello sguardo comporta. Lo sguardo infatti si apre sul piccolo
s
a 3 m bro
museo che raccoglie i reperti ritrovati durante gli scavi, ma filtra
z z o m to
solo parzialmente oltre la sala, sui resti della villa romana, per‐
Bo mat men
mettendo solo di intuirne la presenza e l’estensione. La stessa
modalità si ripropone guardando dalla cavea: le superfici vetrate
all
di luce naturale) permettendo solo qualche volta di intravedere
la villa di epoca romana5 ma non lasciando vedere le strutture in
legno al di sotto delle coperture in piombo delle sale, visibili in‐
vece dal giardino pensile al piano superiore, come anche i resti
archeologici nella loro interezza. Se nell’area del giardino pensile
lo sguardo può cogliere dunque elementi e caratteristiche degli
edifici inarrivabili dal basso, e si apre agli orizzonti dei parchi ur‐
bani confinanti e sulla collina del quartiere Parioli, si perde però
la presa visiva sull’interno del corpo architettonico. Da qualun‐
que posizione si guardi dunque, sembra che qualcosa sia sempre
precluso alla vista. Attraverso questa incompletezza costante del‐
lo sguardo, costretto ad un “baratto” continuo di punti di vista
tesi ad un insieme che pare inafferrabile nella sua totalità, il di‐
spositivo architettonico rovescia definitivamente l’apoteosi panot‐
tica del Centre Pompidou e costruisce per il visitatore un sapere
(una competenza cognitiva) costantemente incompleto: come se
potesse sempre accedere a qualcosa senza che sia possibile saper‐
lo. L’incertezza non si traduce passionalmente nella paura ma,
come se ci fosse, euforicamente, sempre qualcosa da scoprire,
nella segreta mobilità di uno stupore crescente. Non è lo stereo‐
5
Osservazione di Mariarosa Bova.
166 Pierluigi Cervelli
b/n sata
tipo del cambiamento continuo che caratterizza oggi, in positivo,
l’immaginario urbano contemporaneo?
2 00 fre
2.1. Abitare il Parco della Musica
4 0x ura
1 s s
Che cosa accade all’interno di questa utopia urbana? Come i visi‐
ro
3 mincontra il tempo delle pratiche sociali? La media durata del no‐
tatori abitano le aree “comuni” dell’Auditorium e come lo spazio
a m b
o zz to nstro periodo di osservazione ci permette di avanzare qualche ipo‐
t o
B ma me tensità di certi comportamenti piuttosto che a modificarli , una pri‐
tesi. Più che quella fra inverno ed estate, che va a modulare l’in‐
all siemi fortemente separati i giorni infrasettimanali ed i fine setti‐
mana (sabato pomeriggio e, soprattutto, domenica mattina). Se la
fruizione infrasettimanale è più che altro “di quartiere”, e l’Audi‐
torium pare fortemente sottoutilizzato, nel fine settimana ed in
particolare la domenica si nota bene come esso assuma la fun‐
zione di luogo pubblico su cui converge tutta la città: il posizio‐
namento delle persone ed il tipo di attività svolte cambiano sen‐
sibilmente. Non si tratta solo di un problema di affollamento: in
questa dinamica si evidenzia la costruzione di spazialità prosse‐
miche molto diverse e, proprio dal punto di vista dell’uso dello
spazio, sembra proporsi una relazione fra ambito urbano globale
e locale su cui si concentrerà la nostra riflessione.
6
Considerate le differenze dovute al caldo e al freddo (d’estate la fruizione
fra le 12 e 16 si dirada mentre d’inverno si concentra fortemente al mattino fino
alle 13) non sembrano esserci significative differenze fra comportamenti, (in
quanto “modi di fare”), estivi ed invernali: il numero delle persone presenti
è equivalente e le attività svolte sono simili, ad eccezione della pratica di
sdraiarsi nell’aiuola antistante l’Auditorium come se si fosse al mare, attua‐
bile solo d’estate.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 167
b / n ta
2.1.1. Una settimana “tipo”
0 e sa
Riporto un breve resoconto orario dei comportamenti e degli ad‐
0 fr
densamenti osservati che sembrano ricorrenti:
2
0x ura
1 4
Lunedì‐Venerdì
s s
a m b ro
3 mro, prevalentemente anziani. Verso le ore 10 e 30 si concentrano
H. 10‐11: Fase precedente l’apertura: ci sono poche persone in gi‐
o zz to nall’ingresso
t o qualche decina di persone che attendono l’apertura
B ma me alle 11.
for esti
H. 11‐13: Il luogo maggiormente frequentato è il parco sovrastan‐
all
te. Panchine, una statua (intitolata, prevedibilmente, Crescendo) e
le fontanelle tipiche delle strade di Roma restituiscono l’effetto di
trovarsi in un qualunque piccolo parco pubblico, e così le perso‐
ne presenti: qualcuno viene a correre, altri portano a spasso i ca‐
ni, qualcuno legge. In questi giorni infrasettimanali i frequenta‐
tori sono fra 30 e 50 nell’arco dell’intera mattinata. A volte si nota
qualche gruppetto di studenti che si riuniscono nella cavea, se‐
dendosi sui gradini. Dopo le 13 anche la cavea si svuota. Pare in‐
teressante notare, nonostante una frequenza sempre piuttosto
assidua, l’assenza di rifiuti nel giardino (anche se in certi punti il
parco sembra non finito, ancora oggetto di lavori). Verso l’ora di
pranzo parco e cavea si svuotano fino alle 15.30.
H. 15.30‐18.30: Il parco inizia a ripopolarsi lentamente (in estate a
partire dalle 16.30) principalmente di mamme, o più spesso di
baby‐sitter straniere che arrivano alle 16. Non si tratta mai di più
di 30 persone, compreso qualche turista che si aggira nella cavea.
Nel pomeriggio (mi dicono i sorveglianti) alcuni studenti vengo‐
no a studiare, usando la gradinata della cavea o sedendo nel par‐
co. Il bar e soprattutto la libreria sembrano invece sempre piutto‐
sto frequentati. Nel complesso degli spazi esterni non sosta quasi
nessuno, l’attività principale è il flusso veloce: quando mi sono
168 Pierluigi Cervelli
b/n sata
soffermato ho potuto contare trenta persone di passaggio in circa
20 minuti.
00 del frmomento
1
4
sura. D’inverno a quell’ora già non c’è più nessuno.
s s
a m b ro
3 mLa fruizione nei giorni lavorativi tende ad essere individuale o in
o zz to ntuale
o o lineare (come nella corsa o nella passeggiata) della frui‐
piccoli gruppi, quasi costantemente centrata sullo spazio, pun‐
t
B ma me zione individuale. Non essendo particolarmente frequentata
for esti si notano una serie di percorsi tangenziali all’Auditorium che si
nessuna area, a parte le ridotte concentrazioni nel parco giochi , 7
7
Più che un luogo di pratiche collettive lo spazio del parco giochi sembra il
luogo di tante pratiche individuali accostate. Nonni e genitori sono concen‐
trati sui loro pargoli e badano solo all’interazione con essi. Non così però le
baby‐sitter straniere, che sembrano invece interpretarlo come luogo auto‐
nomo di incontro e relazione.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 169
b / n ta
Sabato pomeriggio ‐ Domenica mattina
Durante il fine settimana la a
0 e s situazione cambia radicalmente. La
0 fr
domenica mattina il parco è affollato: ai lati del vialetto si gioca a
2
0x ura
palla, qualche ragazzo usa lo skateboard o improvvisa breakdan‐
1 4
ce ai bordi della cavea, altri leggono sotto gli ulivi prendendo le
sedie s saltri ancora si sdraiano nell’aiuola antistante l’in‐
dal bar,
a m b ro
3 mgresso. La riuscita dell’edificio si manifesta nella libertà espressa
o zz to nsone sostino in particolare in alcune aree, senza riprodurre mec‐
o
dai molteplici modi di usarlo. Pare anche interessante che le per‐
t
B ma me canicamente le segmentazioni dovute alla configurazione archi‐
for esti tettonica. La gran parte delle persone non si concentra infatti
all
nella cavea, che doveva avere, secondo le intenzioni progettuali,
proprio la funzione di una piazza ma, piuttosto precisamente, in
8
un’area che assume solo per l’occasione confini definiti: si confi‐
gura come un poligono il cui perimetro è delimitato, in lunghez‐
za, dalla soglia di accesso alla cavea, in corrispondenza del can‐
cello (nel punto in cui il pavimento comincia ad essere legger‐
mente discendente verso l’ingresso all’Auditorium) e dall’aiuola
attrezzata antistante, e si estende, in larghezza, dalle panchine
sino al cancello d’ingresso9. Plurale fino alla contraddittorietà, a
partire dalle componenti materiali fino all’aspetto funzionale,
questo spazio è reso fortemente omogeneo solo dall’addensa‐
mento delle persone.
Qui si concentrano infatti i bambini in bicicletta, le panchine
sono quasi sempre occupate da anziani (o da bambini) e altre
persone, in piedi, attendono guardandosi intorno. I bambini in
8
Cfr. Le affermazioni di Renzo Piano già citate.
9
Esso comprende la strada asfaltata chiusa al traffico, il marciapiede di en‐
trata, e (in misura più marcata d’estate), include la superficie di verde attrez‐
zato in cui si collocano la struttura prefabbricata verde ed il bar posti di
fronte all’Auditorium (d’estate le persone vi si sdraiano o giocano, d’inverno
invece la superficie verde è esclusa e ci si concentra sulla strada: prevalgono
bici e monopattini).
170 Pierluigi Cervelli
b/n sata
bicicletta e quelli sui rollerblade sembrano utilizzare questa area
come inizio del percorso che li porta verso il parco sovrastante,
00 fre
in modo da utilizzare poi la discesa come uno scivolo. Le perso‐
2
ne che si fermano dopo gli spettacoli lo usano invece come punto
0x ura
di sosta, di termine dell’uscita in cui, prima di separarsi, si scam‐
4
1 s
biano due chiacchiere con gli amici. Nelle attività in sé non c’è
s
a 3 m bro
niente di straordinario; esse possono ritrovarsi in un qualunque
z z o m to
altro luogo di forte fruizione di gruppo amicale e familiare. Que‐
Bo mat men
sto sembra però essere punto nodale dei percorsi visivi e viari. Si
tratta inoltre di un punto attorno a cui i percorsi si addensano e
all
ordinata dei piccoli gruppi che si incontrano nei giorni lavorativi:
i percorsi si incrociano e la disposizione delle persone pare più
disordinata e dinamica.
Pare interessante che quelli che nei giorni feriali erano punti
di evanescenza, di passaggio, divengono punti ora dinamici di
concentrazione e di incontro. Quello che negli altri giorni era solo
una soglia di attraversamento, un confine lineare, si è espanso
dunque fino ad assumere un suo significato e un suo specifico
ruolo. Dunque quello che ci saremmo aspettati avvenisse nei bar
o nella cavea10, si è “riterritorializzato”, – al di là di qualunque
“invito all’uso” – inventando una propria collocazione, una geo‐
grafia particolare.
2.2. L’articolazione semiotica delle pratiche spaziali
Da un punto di vista semiotico questo passaggio si manifesta nel‐
lo slittamento da una configurazione caratterizzata dalla pre‐
senza di più attori dotati di programmi d’azione individuali e
indipendenti, cui si può ricondurre la dinamica osservata duran‐
te la settimana, fino all’emersione di un collettivo caratterizzato
Con l’eccezione degli eventi speciali, come quando, in dicembre, essa ha
10
ospitato una pista di pattinaggio.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 171
b/n sata
dall’interazione. Essa si concretizza solo nello scambio di qualche
sguardo, in qualche cenno di saluto o nello scambio di brevi con‐
00 fre
versazioni, ma si manifesta comunque nella comune considera‐
2
zione della presenza altrui nel dispiegamento dei percorsi indivi‐
0x ura
duali (le cui traiettorie sono marcate, in una sorta di conversa‐
4
1 s
zione non verbale, dall’esitamento o dalla circumnavigazione).
s
a 3 m bro
Mi pare che Eco (1968, p. 243), in riferimento al lavoro di Hall,
z z o m to
abbia descritto con molta chiarezza le implicazioni semiotiche di
Bo mat men
una dinamica di questo tipo: “[…] la misurazione non interviene
più a stabilire le modalità di un evento fisico (la distanza) bensì le
all
za computata diventa tratto pertinente di un codice prossemico
[…]”. Traducendo le parole di Eco alla luce degli sviluppi degli
studi semiotici negli anni che ci separano dal suo pionieristico
lavoro potremmo sostituire ai termini “di un codice prossemico”,
la locuzione “dell’articolazione prossemica del testo”, ma la si‐
gnificatività delle pratiche rimarrebbe inalterata. Sembra anche
interessante notare come ci sia una messa in valore di certi luo‐
ghi particolari rispetto alle intenzioni progettuali (che miravano
a fare della cavea il luogo di queste attività) e come le pratiche
abbiano una dinamica fondamentalmente narrativa: quella rela‐
tiva alla circolazione del valore in un insieme, e allo stabilimento
di relazioni di tipo polemico o contrattuale fra gli agenti in gioco.
Emerge in questa attività trasformativa la componente forma‐
le delle pratiche abitative, la loro capacità di espandere gli ele‐
menti puntuali e linerari in totalità a sé stanti, conferendo dun‐
que loro spessore ed omogeneità, al punto di trasformarle in in‐
siemi il cui significato non è riconducibile a quello delle singole
parti coinvolte prima dell’interazione. Michel de Certeau (1990),
chiamava queste operazioni, (rifacendosi al funzionamento lin‐
guistico delle figure retoriche dell’asindeto e della metonimia) “re‐
toriche podistiche” proprio perché esse lavorano sopprimendo
distanze, come l’asindeto, e generando espansioni che trasforma‐
172 Pierluigi Cervelli
b/n sata
no, come nella metonimia, “i frammenti in totalità”.
Da questo punto di vista pare interessante che, piuttosto che
00 fre
permettere di individuare un luogo esplicitamente pubblico, l’in‐
2
terazione e la diversità delle pratiche fa dell’intero Auditorium,
0x ura
proprio attraverso il suo “sfociare” nello spazio esterno, una
4
1 s
grande piazza all’aperto, un luogo capace di assumere la funzio‐
s
a 3 m bro
ne di spazio pubblico. E questa capacità di tenere assieme preve‐
z z o m to
dibilità e imprevedibilità, usi previsti e imprevisti (posti in luo‐
Bo mat men
ghi imprevedibili, come una soglia di accesso) senza disgregarsi,
senza svuotarsi o irrigidirsi nei regolamenti, lo rende l’esatto op‐
for esti posto delle presunte piazze dei centri commerciali, e di quelle,
all
vuote e sovradimensionate, create come raccordo delle arterie
stradali interne alla città11.
Espandendo l’ambito delle riflessioni citate di Eco potremmo
ipotizzare che entrino in gioco delle relazioni fra pratiche abitati‐
ve e contesto spaziale più ampio in cui si situa l’Auditorium.
Dove non ce lo aspetteremmo, e dove il progetto non ha messo
un particolare accento, si localizza infatti gran parte degli utiliz‐
zatori della cavea: perché proprio lì e non altrove?
2.3. Una nuova configurazione della visibilità, un nuovo paesaggio
Questa area di connessione fra cavea e marciapiede, che inizia
a partire dall’ingresso principale, pare particolarmente importan‐
te. Oltre a essere il punto in cui si concentrano maggiormente le
persone è l’unico luogo in cui si rende possibile un tipo di visibi‐
lità molto diversa da quella all’interno della cavea e dell’edificio:
si passa ad un’intravisione che opera su una scala propriamente
urbana, in cui è maggiormente valorizzata la percezione visiva
11
Secondo Piano (Intervista in Iraci, a cura, 2007) questa capacità di proget‐
tare l’imprevedibilità è una delle più importanti caratteristiche di uno spazio
pubblico ed è stata esplicitamente cercata nella pianificazione di spazi poli‐
valenti e nel volontario non riempimento di tutti i punti dello spazio aperto.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 173
b/n sata
della continuità fra l’Auditorium e lo spazio circostante12.
Si tratta dunque di un luogo di percorsi visivi pluridirezionali
00 fre
che permettono di connettere, a partire da uno stesso punto di
2
osservazione, gli elementi notevoli dell’area più generale in cui
0x ura
l’Auditorium si situa13, ed i suoi confini: la tangenziale olimpica e
4
1 s
più lontano il portico del palazzetto Nervi, il quartiere Flaminio
s
a 3 m bro
a est, Villa Glori, a ovest, la cavea ed il punto di ingresso del‐
z z o m to
l’Auditorium (cfr. Figg. 1 e 2 in Romei, infra). Si tratta cioè di un
Bo mat men
punto di costituzione di un complesso di relazioni visive fra luo‐
ghi prima separati – un paesaggio14? – Anche questo è dunque
all
te elementi (appartenenti a diversi quartieri) come sistema di sot‐
totesti connessi proprio attraverso la presenza dell’Auditorium.
Questa modalità sembra rovesciare la spazialità “ad isole”
propria del complesso del Villaggio Olimpico e dello spazio cir‐
costante configurando un punto di “panorama”15 in cui è possibi‐
le costruire come insieme globale il complesso di spazi in cui
l’Auditorium si situa. Si tratta cioè del punto in cui si configura
un aumento della competenza modale di un soggetto osservato‐
re. È il luogo cioè in cui i visitatori si trovano ad essere compe‐
tenti nel possesso di uno sguardo che si muove su una duplice
scala: quella del Parco della Musica e quella del complesso di
quartieri in cui esso si inserisce. La localizzazione delle pratiche
sembra configurarsi in questo senso come assunzione della valo‐
12
Non a caso nella Guida all’Auditorium esso è definito (pag. 27) come “il
punto nevralgico di tutto il sistema”. Non vi è però nessuna allusione ai per‐
corsi dei visitatori.
13
Ad eccezione dello stadio Flaminio.
14
Piero Ostilio Rossi si soffermava, nella sua intervista, sull’importanza della ca‐
pacità di costruzione di paesaggi, che le nuove Centralità dovranno avere per
costruire relazioni connettive nella periferia frammentata in cui si inseriranno.
15
La distinzione fra spazi organizzati “per isole” e “per panorami” è riferita
alla classificazione proposta da Gropius. Cfr. Casabella 427 (1977). Devo a
Omar Calabrese questa segnalazione.
174 Pierluigi Cervelli
b/n sata
rizzazione dell’accessibilità visiva che in esso si produce, della
possibilità di assumere la doppia posizione di un soggetto osser‐
00 fre
vatore globale e locale.
2
Senza decostruire i quartieri il salto di scala dello sguardo
0x ura
rende pensabile una nuova totalità: un ulteriore livello di artico‐
4
1 s
lazione urbana, irriducibile a quelli già esistenti amministrativa‐
s
a 3 m bro
mente (il II municipio in cui tutte queste zone si situano) e nel
z z o m to
senso comune (i singoli quartieri), ma di scala intermedia fra le
Bo mat men
“microcittà”16 ed i municipi stessi.
In questo luogo l’Auditorium assume dunque una funzione
for esti rispetto a tutto lo spazio circostante, valorizzando al massimo
all
l’area del Villaggio Olimpico, rispetto a cui si apre frontalmente.
La “ricucitura”, per ora solo visiva, fra quartieri prima separa‐
ti, potrebbe essere il punto di partenza per tessere le relazioni
comunicative e le interazioni sociali che paiono ancora mancare.
Per considerare questa dimensione è però necessaria una espan‐
sione del campo analitico.
16
Riprendo il termine microcittà dalla ricerca condotta dal Cresme (in Capito‐
lium, n° 10, settembre 1999), indicante una porzione di città, un quartiere o
parte di esso, nominata dai suoi abitanti come un insieme e indicata da essi
come loro luogo di abitazione.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 175
b/n sata
spazio comunicativo globale dei centri culturali mondiali. L’Au‐
ditorium pare funzionare molto bene come punto di attrazione e
00 fre
socializzazione a livello globale e cittadino (questo è il livello “di
2
ampiezza” che la comunicazione del sito dell’Auditorium valo‐
4 0x ura
rizza), ma meno efficacemente in un ambito più ristretto e locale,
1 s
quello delle aree ad esso adiacenti. Perciò ci soffermeremo in par‐
s
a 3 m bro ticolare sugli ambiti cittadini riservando a quello più ampio solo
z z o m to qualche nota iniziale.
Bo mat men3.1. Il parco della Musica nello spazio globale
for esti Per più ragioni, in primo luogo di qualità architettonica e di pre‐
al l senza mediatica e comunicativa, l’Auditorium si pone immedia‐
tamente come una di quelle nuove architetture che permettono a
Roma di inserirsi nello spazio globale dei consumi culturali e, as‐
sieme, che lo costituiscono. Esso è entrato rapidamente, al pari di
altri luoghi noti a livello globale, nel circuito comunicativo in‐
ternazionale: è divenuto uno dei centri culturali più frequentati
d’Europa, con una altissima presenza di pubblico pagante; è me‐
ta di un nuovo turismo dell’architettura contemporanea; inoltre
lo studio di architettura a cui si deve la sua progettazione, il Ren‐
zo Piano Building Workshop, è noto a livello mondiale. Esso è,
insomma, uno di quei luoghi di cui si parla in tutto il mondo e da
cui si parla a tutto il mondo, uno di quei “monumenti‐logo” che
funzionano come “macrosegni identitari” (Pezzini 2006). La di‐
mensione globale, è valorizzata anche dal modo in cui il testo ar‐
chitettonico definisce il punto di vista di un’osservatore metaur‐
bano e planetario: come le città utopiche (Lotman 1998) infatti, è
costruito anche per prestarsi ad una visione dall’alto, dai punti so‐
praelevati della città come da Google Earth, rendendosi riconosci‐
bile attraverso la particolare forma delle sale d’ascolto ed il ritmo
che la loro successione costituisce17.
17
Potremmo dire, con Geninasca (1997), che si tratta di un “sintagma ritmi‐
176 Pierluigi Cervelli
b / n ta
3.2. Il parco della Musica nello spazio della città
0 e sa
Allo stesso modo si tratta di uno spazio globale anche per quanto
0 fr
riguarda Roma: se possiamo solo presumere che gli spettatori vi
2
0x uagli raspettacoli vengono da tutta la città. Il fatto
arrivino da tutta Italia, sicuramente i visitatori che lo frequentano
che 1 4
senza accedere
s sche gli è adiacente sia la terza, per fatturato, fra
la libreria
a m b ro
3 mtutte quelle della città ed il numero elevato di auto parcheggiate
o zz to nrispetto a quelle presenti durante la settimana, ne sono indici ba‐
la o
t domenica al Villaggio Olimpico (nei pressi dell’Auditorium),
B ma me nali e tuttavia evidenti. Dal punto di vista dello spazio urbano in
for esti quanto territorio comunicativo non si può non notare che la città
all
è “cosparsa” ovunque di cartelli che indicano l’Auditorium. In
una città paradossalmente poverissima di indicazioni stradali
(per l’aeroporto e per le principali stazioni, come per il centro
storico e per i principali luoghi politici e religiosi) questa ipertro‐
fia della reperibilità pare un dato da non sottovalutare. L’onni‐
presenza dell’informazione segnala un obiettivo: la ricerca co‐
stante di un orientamento possibile. Sembra cioè che si punti, a
livello politico e amministrativo, a rendere l’Auditorium rag‐
giungibile da ogni parte della città e insieme si ipotizzi che esso
sia una delle mete su cui si voglia poter convergere da ognuno
dei suoi punti. Allo stesso modo nell’introduzione alla Guida
all’Auditorium, si afferma che “si tratta di porre l’Auditorium al
centro della vita culturale cittadina” e che esso è “una tappa ob‐
bligata per chi vive o visita la capitale d’Italia”.
Anche i percorsi del trasposto pubblico, intesi come concate‐
namenti sintagmatici di episodi urbani, possono fornirci ulteriori
informazioni. Come sottolinea Mariarosa Bova (infra) se la linea
dei mezzi pubblici specificamente dedicata, la M, inserisce l’Audi‐
torium in un percorso turistico che funziona come presentazione
di una serie di “cartoline”, di punti notevoli, storici in questo ca‐
co” articolato in tre termini.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 177
b/n sata
so, della città tematizzata in chiave turistica (confermando l’iso‐
topia globalizzante precedentemente rilevata), l’altro autobus che
00 fre
lo raggiunge dalla Stazione Termini, il 910, fa dell’Auditorium il
2
punto terminativo di un percorso che si snoda attraversando tut‐
0x ura
to il quartiere Parioli, stabilendo nella sintassi del percorso, più
4
1 s
che una semplice continuità, la relazione più intensa18 che si dà
s
a 3 m bro
nella tensione fra sviluppo ed esito di un processo. Un altro per‐
z z o m to
corso svolto con l’autobus, il 233, pone in primo piano un’altra
Bo mat men
isotopia, valorizzando la possibile chiave di lettura di cui il nome
stesso dell’Auditorium, Parco della Musica, è caricato: la connes‐
all
re l’intelligenza di questa distribuzione viaria, che presenta i per‐
corsi come progressioni orientate che assumono un senso
peculiare nella loro distribuzione spaziale, va sottolineato come
essi evitano, almeno parzialmente, l’area di edilizia residenziale
pubblica prospiciente l’Auditorium. Questi percorsi permettono
infatti che si arrivi all’Auditorium senza entrare in relazione col
Villaggio Olimpico, toccato solo in parte dal percorso del tram, il
2, e da quello dell’altro autobus, il 53, che parte dal centro stori‐
co. Se non sembra logico cambiare i percorsi del trasporto pub‐
blico per includere questa area a lungo emarginata dal contesto
circostante, nondimeno va sottolineata l’esigenza di interrogarsi
sulla possibilità di altre strategie.
3.3. Fra le microcittà: come l’Auditorium si inserisce nel com‐
plesso di relazioni semantiche fra i quartieri ad esso adiacenti
Passiamo ora all’analisi delle relazioni con l’intorno più ridotto e
più prossimo con cui l’Auditorium entra in contatto: quello costi‐
tuito, oltreché dall’area del Villaggio Olimpico, dai quartieri
Perché capace di costruire un’attesa attraverso la modulazione di un sape‐
18
re parziale (Pezzini 1998).
178 Pierluigi Cervelli
b/n sata
adiacenti Flaminio e Parioli19. Va sottolineato come l’ipotesi pro‐
gettuale alla base della collocazione dell’Auditorium era quella
00 fre
di ricucire due parti di città, il quartiere Parioli ed il Villaggio
2
Olimpico, contigue ma profondamente separate da una frontiera
0x ura
semiotica, come si vedrà nel corso dell’analisi, oltre che orografi‐
4
1 s
ca e spaziale.
s
a 3 m bro Il primo è forse il quartiere maggiormente percepito come la
z z o m to
zona esclusiva della città, l’altra è una zona di case di edilizia
Bo mat men
residenziale pubblica (INCIS e poi IACP, oltre ad una parte di
proprietà comunale), a mio giudizio di notevole qualità, anche
for esti estetica, in gran parte di proprietà degli ex affittuari che hanno
all
acquistato le case intorno alla metà degli anni 80. Non si tratta
certo di una delle più “difficili” periferie romane.
Constatazione banale: gli abitanti del Villaggio Olimpico non
frequentano l’Auditorium20. La domenica mattina21, anche nella
parte del Villaggio Olimpico contigua all’Auditorium, gli abitanti
chiacchierano nello spazio fra i pilotis, vicino ai portoni di ingres‐
so degli edifici, accanto a qualche piccolo giardino autoprodotto.
Se vogliono prendere un caffè vanno al vicino bar “delle Olim‐
piadi”; se qualcuno porta a giocare dei bambini lo fa nel piccolo
parco giochi del complesso. Insomma tutte le attività che potreb‐
19
Il sito dell’Auditorium (sez. Come raggiungerci) presenta una mappa che
esclude il quartiere Flaminio, presentando solo il livello più semplice di arti‐
colazione semiotica dell’area urbana: quello che oppone Villaggio Olimpico
e quartiere Parioli. Tuttavia si afferma che: “L’Auditorium Parco della Musi‐
ca, (è) situato nel quartiere Flaminio, al Villaggio Olimpico”. Anche in questo
piccolo esempio emergono la molteplicità dei livelli di articolazione semio‐
tica urbana e insieme la possibilità, per ogni discorso, di magnificarne qual‐
cuno e narcotizzarne altri, a seconda delle strategie discorsive che gli sono
sottese.
20
Ad esclusione di alcune presenze occasionali: anziani che si recano al par‐
co la mattina e qualche gruppetto di ragazzi.
21
Momento settimanale di massima affluenza all’Auditorium e, presumibil‐
mente, di maggiore disponibilità di tempo libero.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 179
b/n sata
bero svolgersi anche all’Auditorium vengono svolte dagli abitanti
solo nel Villaggio stesso. C’è una precisa volontà di rifiuto del‐
00 fre
l’Auditorium? Interrogati su questo gli abitanti con cui sono en‐
2
trato in contatto non danno una risposta, ma, introducendo il
0x ura
tema delle relazioni con l’Auditorium, il discorso si sposta presto
4
1 s
sul timore di una gentrification del quartiere che coincida con
s
a 3 m bro
l’espulsione dei pochi affittuari rimasti. Nel loro discorso il ruolo
z z o m to
dell’Auditorium si rovescia rispetto alle intenzioni progettuali:
Bo mat men
da elemento connettivo si trasforma in un corpo estraneo, i cui
servizi ricreativi (dagli spettacoli ai bar), caratterizzati da costi
all
percepiti come “roba da ricchi”. Proprio perché abitanti, essi ri‐
fiutano una dinamica che li vede al massimo come spettatori,
come consumatori passivi di uno spazio che hanno sempre per‐
cepito come loro e in cui si sono sempre percepiti come attori di
trasformazioni.
C’è da dire anche che sia la autorappresentazione dell’Audi‐
torium come centro culturale (proposta nel sito) sia la program‐
mazione ignorano completamente la presenza del Villaggio
Olimpico, sia nei termini di una localizzazione delle attività22 sia
nella conoscenza delle attività autonomamente organizzate dagli
abitanti che già vi si svolgono. Dovrebbe invece avvenire un dia‐
logo sulle aspettative maturate ed i bisogni irrisolti, che produca
delle proposte: ad esempio inserire all’interno dell’Auditorium
dei laboratori pubblici senza fini di lucro, sul modello parigino
dei “laboratoires publiques” o quello brasiliano dei “puntos de
cultura”, potrebbe portare gli abitanti del Villaggio a pensarlo
anche come un loro campo di operazioni possibili e insieme ad
essere disposti a far coinvolgere le aree in cui abitano per attività
22
Si potrebbero riutilizzare gli ampi cortili fra i palazzi del complesso che
sono frequentati pochissimo: solo da pochi abitanti e solo per svolgere dei
percorsi predefiniti, (come quando vi si portano a spasso i cani), tratto que‐
sto che li fa apparire, in maniera piuttosto negativa, come spazi vuoti.
180 Pierluigi Cervelli
b/n sata
diffuse (di più vario tipo: rappresentazioni teatrali “di cortile”,
reading di poesie e videoproiezioni, esposizioni di fumetto, di
00 fre
cortometraggi, esposizioni di arte underground) capaci di rom‐
2
pere l’isolamento e l’autoemarginazione.
4 0x ura
Non è un problema dunque di qualità architettonica, si tratta
1 s
invece di ripensare il ruolo della comunicazione nella program‐
s
a 3 m bro
mazione culturale e nel cambiamento urbanistico. Oltre alle ra‐
z z o m to
gioni organizzative, e forse proprio alla loro base, emerge comun‐
Bo mat men
que un problema relativo alla dimensione semiotica della parte
di città in cui l’Auditorium si inserisce, quella delle frontiere in‐
all
tica cittadina, e che può condizionare l’efficacia di un intervento
di questo tipo.
scala che caratterizzano l’analisi della città ad un’intervista, gentilmente in‐
viatami, rilasciata da Franco Zagari a Davide Allegri, in cui Zagari definiva
alcune delle caratteristiche dell’approccio allo studio progettuale proprio di
un paesaggista, oltreché alla discussione avuta con Piero Ostilio Rossi sulla
relazione fra i livelli di articolazione della città e le “mappe mentali” degli
abitanti e degli immigrati, in occasione della redazione dell’intervista conte‐
nuta in questo volume.
Il Parco della Musica di Roma: una cartografia delle pratiche 181
b/n sata
per anni (proprio fino alla costruzione dell’Auditorium), luogo
notturno di specialisti della prostituzione e della droga24. Vera
00 fre
periferia “interna” di una delle aree centrali della città, il Villag‐
2
gio Olimpico era però la periferia marginalizzata di quell’area di
0x ura
cui il quartiere Parioli rappresenta il centro valoriale e semantico
4
1 s
(in una gerarchia in cui il quartiere Flaminio gioca un ruolo in‐
s
a 3 m bro
termedio), all’interno di un processo di traduzione su scala locale
z z o m to
delle relazioni semantiche rinvenibili nell’intero “organismo”
Bo mat men
urbano. Nel caso dell’Auditorium questo ha significato però che
il progetto si inserisse in un contesto doppiamente problematico:
for esti oltre a confrontarsi con uno spazio fisico, un territorio troppo
all
vuoto, il progetto si è inserito in uno spazio semanticamente
troppo pieno. La relazione fra il Villaggio Olimpico ed il quartie‐
re Parioli configurava una frontiera interna alla città, che la conti‐
guità ha forse ispessito, rendendola, attraverso l’esperienza della
coabitazione fra disuguaglianze che la grande città esprime a
pieno, qualcosa di più intenso e vissuto.
Cercando di riconnettere Parioli e Villaggio Olimpico non è
infatti un qualunque rapporto centro‐periferia che il progetto di
Renzo Piano ha provato a modificare ma il rapporto, più com‐
plesso, fra un centro locale e la sua periferia. Da opposizione priva‐
tiva, indicante generalmente una mancanza, la relazione centro/
periferia si trasforma, all’interno di questo contesto determinato,
in una opposizione categoriale: i termini che la esprimono sono
reciprocamente l’uno il contrario dell’altro. Da questo deriva che
essa non può essere risolta semplicemente aggiungendo degli
elementi terzi.
24
Paradossalmente la qualità architettonica del quartiere, alta e ancora per‐
fettamente visibile ma poco incidente in questa dinamica, era completamen‐
te espunta dalla sua rappresentazione nel discorso comune e mediatico.
182 Pierluigi Cervelli
4. Conclusioni
b /n ata
0 0relazioni:
f r esriscrivere la città non è necessaria‐
Come affermava Michel de Certeau (1987), “la coesistenza” spa‐
x2 ra
ziale non genera
0
mente riscrivere l’abitare. L’efficacia, anche in presenza del mas‐
4 ssu
simo della qualità architettonica e progettuale, di una “ricucitura”
1
a m b ro
3 mdi intensificazione
urbanistica che implichi una dinamica sociale è, per la possibilità
e trasformazione delle relazioni semantiche
z
z to nt o
nel passaggio dalla dimensione microurbana a quella macro,
o
B ma me arcipelago della città: vi si è sovrapposto creando un nuovo livel‐
sempre incerta. L’Auditorium non può rompere la struttura ad
for esti lo di relazioni, cioè iscrivendo efficacemente al proprio interno
all uno specifico contesto di cui si è proposto come centro valoriale,
senza però aver potuto creare, attraverso il suo semplice inseri‐
mento, delle trasversalità locali. In una città che continua ad es‐
sere fatta di isole separate, è però proprio con relazioni di questo
tipo che un rinnovamento urbanistico che miri ad inserirsi pro‐
fondamente nel tessuto sociale, dovrà confrontarsi.
b/ n PARTE II
ta
a
0 f r es
0IL QUARTIERE ESQUILINO
SPAZI PER LA VITA QUOTIDIANA:
0x2 ra
4 ssu A cura di Ilaria Tani
1
3 m bro
a
z o m to
z
Bo mat men
for esti
all
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
b n sata
Vincenza Del Marco
/
00 fre
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio
2
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
0. Premessa
z z o m Nel 2006 esce il film L’Orchestra di piazza Vittorio, regia di Agostino
t o
o t n
B ma me nima orchestra multietnica, raccontandone la storia, non povera
Ferrente, che porta alla ribalta nazionale ed internazionale l’omo‐
all
Nella prima parte del documentario viene rappresentato il
rapporto fra piazza Vittorio Emanuele II, ed in generale l’Esqui‐
lino, e quello che da più parti è stato individuato come un mira‐
bile esempio di intercultura: l’orchestra è infatti composta da
musicisti provenienti da differenti parti del mondo ed è volta a
coniugare le loro origini ed esperienze musicali.
La storia del progetto è anche una storia di luoghi. L’associa‐
zione Apollo 111, promotrice dell’orchestra, nasce infatti per evi‐
tare che il cinema‐teatro Apollo, già declassato in sala a luci rosse,
venga trasformato in una sala Bingo e pensa per questo spazio
un laboratorio multidisciplinare che possa valorizzare le diffe‐
renti culture e farle incontrare. Grazie ad alcune battaglie il ci‐
nema viene acquistato dal Comune, ma i tempi per il recupero
sono molto lunghi e le procedure di assegnazione complesse,
tanto che l’associazione deve trovare un luogo di fortuna (un
vecchio magazzino dell’Itis G. Galilei) affinché sia possibile svol‐
gere le prove dell’orchestra ed altre attività culturali.
Nell’Esquilino i promotori dell’orchestra cercano un posto per
costruire percorsi fra culture diverse e i musicisti per realizzare il
loro progetto, che troveranno però altrove: nel resto della città,
1
Il sito dell’associazione è all’indirizzo www.apolloundici.it.
186 Vincenza Del Marco
b/n sata
ma anche nel resto del mondo; infatti i numerosi tentativi di ri‐
cerca nell’area risultano fallimentari, in essa sembrano non risie‐
00 fre
dere ed operare musicisti.
2
Quello dell’immigrazione è stato uno dei fenomeni costitutivi
0x ura
del mutamento del quartiere, visibile ed esperibile nei suoi spazi,
4
1 s
conflittualmente vissuto da alcuni degli abitanti, in parte afferen‐
s
a 3 m bro
ti ad associazioni e promotori di blog, volti a segnalare e combat‐
z z o m to
tere il degrado e a costruire e rappresentare un’identità dei resi‐
Bo mat men
denti italiani del luogo.
Piazza Vittorio e il quartiere che la circonda per molti anni
all
sono state individuate differenti cause di degrado: la frettolosa
ed economica costruzione degli edifici con conseguenti lesioni,
cedimenti e crolli; il trasferimento nella piazza prima dei mercati
generali e poi del mercato centrale; la realizzazione della metro‐
politana; i problemi legati al traffico e alla viabilità.
Fra i temi problematici emersi nella cronaca degli ultimi de‐
cenni: appartamenti sovraffollati, affittacamere e dormitori abu‐
sivi; sequestri di merce contraffatta e prodotti alimentari non
conformi per etichettatura o qualità igienica, connivenze fra ca‐
morra e criminalità organizzata cinese; proteste e provvedimenti
contro il proliferare dei negozi cinesi; microcriminalità e prosti‐
tuzione.
Dagli anni novanta l’Esquilino è stato oggetto di numerosi in‐
terventi di riqualificazione fra cui ricordiamo:
‐ la riapertura dei giardini di piazza Vittorio Emanuele II nel 1995,
su progetto del 1983;
‐ la vendita dell’ex magazzino del vestiario (via Giolitti, angolo
via Mamiani) per l’abbattimento e la successiva costruzione di
un albergo e di un parcheggio multipiano; la trasformazione
della ex caserma Sani situata in via Principe Amedeo all’angolo
con via Lamarmora in mercato non alimentare e sede universi‐
taria; lo spostamento nel 2001 del mercato da piazza Vittorio
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 187
b/n sata
Emanuele II presso l’ex Caserma Guglielmo Pepe. I tre inter‐
venti avvengono su delibera del 1997 del Consiglio comunale
00 fre
per il nuovo centro Esquilino, con approvazione di maggioran‐
2 za ed opposizione;
4 0x ura‐ il restyling della stazione Termini, inaugurato nel 2000, che ha
1 s s dato luogo fra l’altro a passaggi interni, ad un centro commer‐
z z o m to na;
Bo mat men
‐ la riapertura nel 2001 del Teatro Ambra Jovinelli;
‐ l’apertura della Casa dell’Architettura nell’Acquario Romano
for esti
nel 2004 e dei giardini dell’edificio nel 2006.
all
Tali interventi, che hanno avuto degli effetti anche sul mercato
delle case, aumentandone i prezzi, sono stati accompagnati e se‐
guiti da piani di mantenimento. Ad esempio, per rendere dure‐
vole la riqualificazione di piazza Vittorio si è puntato su fattori
come l’illuminazione, la sicurezza, la pulizia, la viabilità («la Re‐
pubblica» 2001).
La riqualificazione è stata accompagnata da numerose mani‐
festazioni culturali, che hanno interessato in particolare piazza
Vittorio e le aree circostanti. Notti di Cinema a piazza Vittorio, ad
esempio, nasce nel 1997 come tentativo di rivalutazione di una
piazza in degrado. Intermundia è una festa interculturale orga‐
nizzata dal Comune di Roma, che si tiene nel mese di maggio
con cadenza annuale dal 1999.
Wonderland è una manifestazione per bambini con spettacoli,
giochi, una pista di pattinaggio sul ghiaccio, uno spazio cartoon e
una biblioteca.
Nel 2005 si sono svolte La Festa dei colori contro le segregazioni e
la manifestazione Cinema e poeti del mondo, dislocata fra il cortile
dell’ex Caserma Sani, il cortile che collega quest’ultima e l’ex Ca‐
serma Pepe e i portici della piazza. Nel 2007 Poeti dal mondo, por‐
tico 47 e Cinema dal mondo, Esquilino affair.
Anche il mercato, inaugurato con un concerto e una mostra e
188 Vincenza Del Marco
b/n sata
pensato come un agorà, è stato teatro di manifestazioni volte a
promuovere l’intercultura, come Assaggia il mondo (dicembre
00 fre
2008 e gennaio 2009), in cui chef professionisti hanno offerto al
2
pubblico piatti tipici di cucine di differenti nazionalità.
4 0x ura
Il quartiere e in particolare piazza Vittorio hanno inoltre ospi‐
1 s
tato feste religiose come la festa coranica del sacrificio, il Ramadan
s
a 3 m bro
e il Durga Puja2 e festività tradizionali come il Capodanno cinese,
z z o m to
ma anche alcune manifestazioni come quella contro la legge Bossi‐
Bo mat men
Fini del 2001, il sit‐in per la liberazione di Simona Pari e Simona
Torretta nel 2004 (piazza Vittorio è la sede di «Un ponte per…»,
for esti la ONG delle due volontarie), le iniziative di protesta contro la
all
raccolta delle impronte digitali ai bambini Rom e quelle contro il
ministro Gelmini dell’ “Onda anomala”.
Ma non sono mancati episodi di intolleranza e manifestazioni
degli abitanti e dei commercianti dell’Esquilino contro la micro‐
criminalità, il degrado, l’immigrazione incontrollata.
Una delle questioni più frequentemente sollevate oggi, come
nel passato, è quella della diversificazione dell’offerta degli eserci‐
zi commerciali. La presenza di numerosi negozi cinesi e di attività
di vendita all’ingrosso, con i conseguenti problemi legati all’im‐
magazzinaggio e al trasporto delle merci, viene spesso individuata
come causa di conflittualità tra i vecchi residenti e i nuovi abitan‐
ti. A questi problemi si è cercato di porre rimedio con provve‐
dimenti quali il Piano di intervento per la tutela e la riqualificazione
di commercio e artigianato nel rione Esquilino, del 27 marzo 2002, e
successivi vincoli merceologici del 2005, e singolari provvedi‐
menti come quello del 2005 relativo alle insegne (che rende ope‐
rativa la delibera 260 del 1997), che per contrastare il dilagare di
insegne ideogrammatiche impone l’uso della lingua italiana nelle
insegne dei negozi (dove le scritte non possono essere più alte
2
Nel 2008 il Comune ha deciso di negare l’autorizzazione alla “Durga Puja”,
festa religiosa indù, prevista dal 4 al 10 ottobre tra i giardini Nicola Calipari
(«la Repubblica» 2008b).
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 189
b/n sata
di 30 centimetri), e la possibilità di inserire sotto la scritta italiana
una traduzione straniera (di altezza non superiore a 20 centi‐
00 fre
metri).
2
Per quanto riguarda i portici di piazza Vittorio, si è pensato
0x ura
ad una galleria di alta qualità con ristoranti tipici, enoteche, una
4
1 s
libreria, che facessero sì che si potesse sostare e vivere il luogo
s
a 3 m bro
anche nelle ore notturne. Rientra poi nelle strategie di riqualifi‐
z z o m to
cazione l’assegnazione della ex caserma Sani all’Università La
Bo mat men
Sapienza.
Un’analisi semiotica dell’articolazione della piazza può con‐
all
lificazione e decoro urbano nella riscrittura di questo spazio pub‐
blico e come si rapportino queste forme alle pratiche quotidiane
degli abitanti.
1. Piazza Vittorio Emanuele II
Piazza Vittorio è il luogo in cui il protagonista del film di De Sica
Ladri di Biciclette va in cerca della bicicletta che gli è stata rubata.
È questa la piazza più vasta di Roma (316×174 m), realizzata in‐
sieme al quartiere Esquilino e inaugurata nel 1888. Come ricorda
Francesco Giovannetti (1986, p. 76):
La paternità dell’idea di una grande piazza porticata da costruirsi
sull’asse dello stradone di Santa Croce all’altezza del bivio dei
Trofei di Mario suole attribuirsi al progetto per l’ingrandimento
della città presentato al municipio dall’architetto Paniconi, nel
1871, donde essa viene ripresa nel progetto dalla commissione
Camporese‐Cipolla‐Viviani.
Nata secondo il modello degli square inglesi e con carattere mo‐
numentale, può essere considerata una citazione architettonica
delle forme dell’ex capitale Torino, con cui stabilisce una correla‐
190 Vincenza Del Marco
b/n sata
zione intertestuale. Oggi la piazza si presenta come l’elemento
centrale di un quartiere oggetto, come si è detto, di un composito
00 fre
tentativo di riqualificazione. Collegata alla linea della metropoli‐
2
tana attraverso ingressi che si situano lungo tutto il suo perime‐
0x ura
tro, per decenni quest’area ha affidato la sua centralità al mer‐
4
1 s
cato, spostato di recente nell’ex Caserma Pepe. Ma può essere an‐
s
a 3 m bro
cora davvero considerata il nucleo centrale del quartiere? E se è
z z o m to
così, da cosa è determinata tale centralità?
Bo mat men
Una risposta a questa domanda richiederebbe l’individua‐
zione dei fulcri del quartiere e delle loro articolazioni, nonché
all
A ben vedere, la riscrittura del quartiere sembra essere avve‐
nuta non secondo una trama ma per spot: punti di pregio per tu‐
risti (come l’albergo Radisson), aule per lezioni universitarie (l’ex
Caserma Sani), un teatro (l’Ambra Jovinelli), uno spazio per in‐
contri culturali (la Casa dell’Architettura), luoghi indipendenti
l’uno dall’altro, non legati da ideali percorsi unitari.
Frammentarietà del ridisegno che a fatica si coniuga con la
frammentarietà e l’eterogeneità della fruizione di un luogo abita‐
to e frequentato da soggetti appartenenti a differenti etnie, con
conseguente perdita di coerenza e di riferimenti centrali.
La piazza, assieme al mercato, è probabilmente il luogo in cui
maggiormente avvengono incontri e commistioni (non a caso
gran parte delle manifestazioni si svolgono nei suoi giardini),
quello che meglio si plasma e adegua a differenti tipologie di
pubblico.
Cercheremo qui di analizzare la tipologia architettonica dei
portici e i giardini, che in quanto luogo di sosta, e spazio in cui si
svolgono eventi, possono essere considerati come luogo privile‐
giato per l’osservazione di determinate dinamiche.
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 191
2. I giardini
b /n ata
0 fres
Costruiti nel 1888 su disegno dell’architetto Carlo Tenerani (e nel
0
x2 ra
2006 intitolati a Nicola Calipari, l’agente segreto italiano ucciso in
0
Iraq nel 2005, in seguito alla liberazione della giornalista Giulia‐
u costituiscono un’opera di pregio in una
4 ssi giardini
na Sgrena),
1
a m b ro dei portici era in asfalto). Con il tempo, sparita la
3 mvimentazione
piazza povera di abbellimenti (basti pensare che all’epoca la pa‐
o zz to ncancellata di ferro, nel luogo comincia ad avanzare il degrado.
t o
B ma me del mercato dal perimetro dei giardini all’ex Caserma Pepe. No‐
Il restauro, realizzato nel 1995, ha preceduto il trasferimento
for esti nostante la riqualificazione, per alcuni anni sono stati ancora
al l considerati spazi in degrado, gabinetto a cielo aperto e luogo di
bivacco, e solo con difficoltà hanno riconquistato la loro funzione
di giardini storici e pubblici di quartiere. Allo spostamento del
mercato è seguita la ristrutturazione dei marciapiedi.
I giardini presentano segni architettonici di differenti epoche:
la Porta Magica, smontata e ricostruita nella piazza alla fine
dell’Ottocento, una fontana di epoca romana del 226 d.C., deno‐
minata “I Trofei di Mario”, una fontana con gruppo scultoreo di
Mario Rutelli con delfini, tritone e piovra, due fontane realizzate
nel 1995, e poi palme, magnolie e platani, recuperati dalla siste‐
mazione ottocentesca dei giardini, che costituiscono assieme a
nuovi esemplari la vegetazione dei giardini.
Il perimetro ha forma rettangolare, con angoli smussati. I lati
a Nord‐Ovest e Sud‐Est sono quelli più corti e sono rispettiva‐
mente perpendicolari a via Carlo Alberto e a via Conte Verde.
Molto importanti per analizzare l’articolazione dei giardini e il
modo in cui questi si correlano al resto della piazza sono gli ele‐
menti che li delimitano e circondano: la recinzione, barriera orna‐
ta, presente sin dal 1889 e recentemente ripristinata e l’area pa‐
vimentata in basalto (larga ben 10 metri) che circonda i giardini,
un tempo occupata dal mercato e ora pensata per una libera frui‐
192 Vincenza Del Marco
b/n sata
zione e arredata in modo modulare con essenze arboree, per sco‐
raggiare eventuali utilizzazioni abusive (Bruno 2004, p. 194).
00 fre
Quest’area è scarsamente frequentata e non viene generalmente
2
percorsa in tutto il suo perimetro; si costituisce piuttosto come
0x ura
una sorta di rima eidetica della struttura rettangolare della piaz‐
4
1 s
za e della sua funzione circoscrivente, che si sostituisce a quella
s
a 3 m bro
inglobante, precedentemente svolta dal mercato. La cancellata
z z o m to
stabilisce un limite, accompagnato da un regime di visibilità at‐
Bo mat men
traverso, che sostituisce quello di non‐visibilità legata alle prece‐
denti strutture del mercato.
all
dinali. Quello perpendicolare a via Conte Verde ha un relativo
attraversamento pedonale, situato in corrispondenza del marcia‐
piede destro della via (con le spalle ai giardini). Da questo in‐
gresso si sviluppa una direttrice che per il materiale della pavi‐
mentazione (travertino in lastre) e la sua larghezza si costituisce
come principale. La direzionalità è accentuata da una fontana li‐
neare, collocata sull’asse centrale. La direttrice si presenta come
un prolungamento di via Conte Verde. Essa non congiunge i due
ingressi posti su uno dei due assi perpendicolari, ma confluisce
nell’area centrale che, come possiamo osservare dalle foto satelli‐
tari, ha una struttura circolare. A questa direttrice fondamentale
si affiancano percorsi secondari. L’ingresso situato sul lato oppo‐
sto dà accesso ad un’area semicircolare.
Attraversamenti pedonali sono anche in corrispondenza del
cancello situato nel tratto fra via Buonarroti e via Machiavelli e di
quello fra via Mamiani e via Ricasoli. In questo secondo tratto le
barriere del tram costituiscono un impedimento all’attraversa‐
mento della strada in luoghi non predisposti.
La funzione di congiunzione e attraversamento svolta dai
portici, di contro alle barriere architettoniche che separano i giar‐
dini e il resto della piazza (la cancellata, la strada trafficata, il
marciapiede in basalto, ecc.) si coniuga a fatica con le funzioni
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 193
b/n sata
esplicate dai giardini, che si costituiscono così come una sorta di
isola nella piazza.
00 fre
All’interno dei giardini la geometricità delle forme rettangola‐
2
ri inscatolate e della perpendicolarità degli assi viene smorzata
0x ura
dalla circolarità e dalla discontinuità degli spazi e dei percorsi
4
1 s
inscritti nei giardini, stabiliti attraverso il regime sia della visibili‐
s
a 3 m bro
tà che dell’esperienzialità.
Bo mat men
si correlano a istanze corporee enuncianti: le relazioni prossemi‐
che e cinesiche che si stabiliscono strutturano articolazioni topo‐
all
I giardini vengono fruiti in tre differenti modi: l’attraversa‐
mento, che si declina in una forma di loisir e in una funzionale
allo sviluppo di percorsi alternativi a quello perimetrale della
piazza, la sosta e il gioco. Per quanto riguarda la sosta, che avvie‐
ne attraverso l’utilizzo dell’arredo preposto ma anche sul prato o
su strutture non dedicate, sembra anch’essa esplicarsi in due for‐
me diverse: quella del relax, della lettura del giornale e quella
della sosta prolungata per necessità, per l’indisponibilità di un
altro luogo in cui stare o stare con gli altri, per il consumo di al‐
colici, ecc. I giardini presentano una tipologia di visitatori varie‐
gata: persone anziane, immigrati, abitanti del quartiere che por‐
tano a passeggio il cane, mamme con bambini di diverse etnie.
I giardini ospitano alcune attività sportive e ricreative. Essi
sono ad esempio luogo di allenamento per giocatori di cricket di
differenti nazionalità («la Repubblica» 2008a); in essi si pratica
inoltre il tai‐chi mattutino. Oltre ad attività organizzate e artico‐
late, se ne svolgono altre più spontanee: sul lato perpendicolare a
via Carlo Alberto due canestri vengono molto utilizzati da bam‐
bini e giovani di varia età e provenienza.
Sul lato opposto del giardino si trova l’area giochi per bambi‐
ni. Di forma rettangolare, è delimitata da uno steccato basso e da
una rete protettiva con un solo ingresso, è circoscritta da sentieri
194 Vincenza Del Marco
b/n sata
poco frequentati e generalmente utilizzati solo per accedere allo
spazio giochi. Si configura perciò come riservata e protetta. Lun‐
00 fre
go il perimetro interno sono collocate delle panchine, le uniche
2
sedute dell’area. È frequentata da italiani e da membri di altre
0x ura
etnie che popolano il quartiere, non esclusivamente adulti che
4
1 s
accompagnano bambini. Generalmente i bambini di diverse etnie
s
a 3 m bro
giocano gli uni accanto agli altri ma non insieme, così come i ge‐
z z o m to
nitori che li accompagnano non parlano fra di loro; chi sosta nelle
Bo mat men
sedute preposte – chi si siede al di fuori di esse tende a segmen‐
tare un proprio spazio di gruppo o individuale – lo fa insieme ad
all
Il modello sociale che sembra affermarsi è dunque quello di
prossimità spaziale/tolleranza, vicinanza/indifferenza, un model‐
lo che, più facilmente osservabile nell’area giochi, si ripete nel
resto dei giardini. Così i gruppi di ragazzi che utilizzano i cane‐
stri presenti nel giardino sono generalmente omogenei quanto a
etnia, ecc., anche se naturalmente si danno delle eccezioni. Ana‐
logo modello è stato osservato nell’ex Caserma Sani, dove merca‐
to dell’abbigliamento e aule universitarie convivono, ma senza
alcun reale rapporto di scambio.
3. I portici
Quella dei portici è una tipologia architettonico‐urbanistica “im‐
portata” a Piazza Vittorio dalla città di Torino, prima capitale del
Regno. In una relazione presentata nel 1885, Francesco Grispigni
individuava nei portici un elemento in grado di mantenere il
movimento a prescindere dalle condizioni meteorologiche e di
ovviare alla mancanza di grandi arterie, all’epoca ancora in co‐
struzione, e ai conseguenti problemi di circolazione e di caldo.
Ma i portici sembrano comunque essere una tipologia elabo‐
rata per la riproduzione di un modello di monumentalità estra‐
neo alla città di Roma. Ce ne sono soltanto in piazza della Repub‐
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 195
b/n sata
blica, piazza dei Cinquecento, piazza Augusto Imperatore, pres‐
so la Galleria Colonna e sul Lungotevere.
00 fre
Secondo Mignella Calvosa (2004, pp. 120‐121):
2
xmodello rarchitettonico
a
4 0Il che per nulla si addiceva al clima, alle abitudini, allo stile di vita
u dei portici riprendeva un linguaggio
1 s s
a m ro le città di provenienza regolari e monotone e che erano
3 m bdavano
di Roma, ma che tentava di essere gradito a immigrati che ricor‐
o zz to nto impianto
quanto mai estranei al resto di Roma, che si presentava come un
for esti
provviso su meraviglie architettoniche e artistiche inimmaginabili.
all
Anche secondo Giovannetti (1986, p. 76) quello dei portici a Ro‐
ma è un nodo problematico:
La questione dei portici segna i primi venti anni di costruzione
della capitale più di quanto le effettive realizzazioni non lascino
trasparire.
Ma la funzione enunciata da Grispigni di luogo in cui far conflui‐
re il movimento urbano sembra ancora attuale e costituisce una
chiave di lettura importante, dal momento che i portici sono sì
luogo di sosta ma fondamentalmente di congiunzione e attraver‐
samento.
Massimo Bruno (2004, p. 194), in un testo della Soprintenden‐
za, a proposito della recente opera di recupero osserva che:
Con il Comune di Roma si è individuata nei portici, che costitui‐
scono uno spazio “filtro” a mediazione tra pubblico e privato, la
base di partenza di una progressiva valutazione della piazza Vit‐
torio.
Analogamente Bertetti (2008, p. 161) individua i portici continui
come antesignani del marciapiede, il quale
196 Vincenza Del Marco
b/n sata
si presenta come istanza di sintagmatizzazione che riconnette
spazi individuali privati – case, botteghe – in un ambiente urba‐
00 fre
no continuo e condivisibile.
2
0x ura
Se i portici possono essere genericamente considerati come un’i‐
4 s di piazza Vittorio quali sono gli elementi che
stanza di sintagmatizzazione, è interessante andare ad analizzare
nel 1caso specifico
s
a m b ro
3 mvengono così articolati, soprattutto in relazione al fatto che sotto i
o zz to ngli t o
portici si susseguono i negozi presenti da molti anni e quelli de‐
B ma me (2004, p. 127‐128):
immigrati, che appaiono, come osserva Mignella Calvosa
for esti
al l tutti uguali, con gli stessi identici banchi e pannelli, la stessa il‐
luminazione e la stessa modalità di disposizione della merce, pe‐
raltro scarsissima e uguale in ogni negozio della zona, pur secon‐
do le diverse categorie merceologiche.
I portici presentano differenti tratti di discontinuità, alcuni in
corrispondenza delle vie che confluiscono nella piazza, altri in
corrispondenza di strutture architettoniche. Uno di questi è si‐
tuato fra via Emanuele Filiberto e via Conte Verde, in cui a parti‐
re dal 1971 e fino al 2005, ci sono stati i resti di un edificio abbat‐
tuto per gravi carenze strutturali, attualmente in fase di smantel‐
lamento e riedificazione, su lotto di proprietà della Società “New
Esquilino s.r.l.” e su progetto di Giorgio Tamburini.
L’edificio, destinato all’Enpam (Ente Nazionale Previdenza e
Assistenza Medici), rientra nel più generale progetto di riqualifi‐
cazione di piazza Vittorio Emanuele II. Esso è concepito per co‐
niugarsi armonicamente con la piazza, mediante lo stile neo‐otto‐
centesco, l’altezza, uguale a quella dei palazzi limitrofi, e la pre‐
senza di portici3.
3
Vedi «il Corriere della Sera» (2005), «la Repubblica» (2005), «il Messaggero»
(2005a).
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 197
b/n sata
Presto, quindi, in tale tratto verrà riarticolata una continuità,
attraverso la rievocazione di modelli stilistici del passato. Legge‐
00 fre
re l’efficacia di queste forme eclettiche nella contemporaneità
2
delle pratiche di fruizione della piazza potrebbe risultare partico‐
0x ura
larmente significativo, anche alla luce del rapporto fra spazi in‐
4
1 s
terni ed esterni dell’edificio. La struttura destinata all’Enpam
s
a 3 m bro
ospiterà parcheggi, un foyer, sale per conferenze e riunioni, una
z z o m to
biblioteca, bar mensa, oltre ad uffici per centinaia di impiegati;
Bo mat men
nella sua articolazione potrebbe costituirsi come un nuovo spot
non correlato alla vita degli spazi pubblici della piazza, nono‐
all
Un altro tratto di discontinuità è presente fra via Mamiani e
via Napoleone III, dove si collocano un muro di cinta e la chiesa
di S. Eusebio.
Quanto agli esercizi commerciali, i negozi cinesi, poco frequen‐
tati, presentano uno spiccato regime di visibilità secondo l’asse
interno/esterno. Le vetrine, quando non collocate lungo corridoi
di accesso ai negozi, più che come spazio di esposizione di merce
esibita, si configurano come trasparenza.
L’effetto di estetizzazione e contemporaneamente di asetticità
e spersonalizzazione della merce è massimo: i prodotti di fattura
industriale e di basso profilo sono presenti in pochi esemplari e
vengono adagiati su scarni scaffali o su busti e manichini in locali
poco frequentati dagli avventori.
Essi si collocano principalmente sul lato della piazza perpen‐
dicolare a via Conte Verde, nella parte porticata, e su quello per‐
pendicolare a via Mamiani. Negli altri due lati sono collocati in
prevalenza esercizi commerciali di italiani, alcuni dei quali pre‐
senti da diversi anni. Tale organizzazione potrebbe farci pensare
a un’articolazione della piazza in due aree distinte seppur conti‐
gue, definite da una delle due diagonali. Ma così non è. L’artico‐
lazione sintagmatica dei portici non condiziona quella dei
giardini, all’interno dei quali è presente una determinata struttu‐
198 Vincenza Del Marco
b/n sata
ra con propri sviluppi. Essa si inserisce invece in modo comples‐
so in quella delle vie limitrofe, anche per via dei flussi provenien‐
00 fre
ti dalla metropolitana, direzionati dalle indicazioni sotterranee
2
verso le differenti uscite presenti in superficie.
4 0x ura
Gli esercizi commerciali degli italiani si distinguono per le in‐
1 s
segne, che i negozi cinesi in molti casi non hanno, a volte colloca‐
s
a 3 m bro
te sul lato esterno dei portici (come nel caso del Napoleon Hotel,
z z o m to
dei Mobili Grilli, di Pontecorvo), e per un aspetto vintage. Il fran‐
Bo mat men
chising non ha preso piede se non in una profumeria e sotto i por‐
tici c’è uno degli ingressi dei Magazzini Allo Statuto, luogo di
all
I portici, però, non si qualificano soltanto in base ai negozi o
agli ingressi degli edifici rispetto ai quali si costituiscono come
non‐interni, ma anche in base agli accessi che vi si aprono, rispet‐
to ai quali si caratterizzano come non‐esterni.
Spazi pedonali, i portici presentano una pavimentazione, una
copertura e una struttura modulare di vuoti. Tali differenti ele‐
menti si articolano inoltre in una gerarchia a cui si associa un’as‐
siologia. I portici di piazza Vittorio si iscrivono nella forma geo‐
metrica di un rettangolo, e organizzano la curvilineità degli archi
che configurano una molteplicità di accessi, tutti uguali ma che
portano in punti diversi. Essi presentano una copertura variega‐
ta, in alcuni tratti con volte a botte, in altri a crociera, in altri an‐
cora a cassettoni, che nessuno sembra mai notare, anche se in
caso di pioggia vengono utilizzati come riparo. La pavimenta‐
zione, anche questa ornata, sembra invece assolvere a una fun‐
zione che non è solo quella di superficie di calpestio. Realizzata
negli anni trenta disponendo pezzi di marmo multicolore a ven‐
taglio, a bullettato genovese, dopo il restauro, nel tentativo di
preservarla da danneggiamenti per un uso non appropriato, il
Municipio e la Soprintendenza hanno distribuito un apposito
pieghevole per bivacchi («il Corriere della Sera» 2001).
A proposito del recupero della pavimentazione dei portici
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 199
b/n ata
Bruno (2004, p. 195) osserva che
0 fres
[…] la progressiva realizzazione del progetto di recupero, che di
0
2 a
volta in volta, a seconda dei casi, ha comportato la ricostruzione
x
4 0 r un “approccio diverso” dei fruitori passanti
di interi moduli e/o la reintegrazione di singole “tessere” marmo‐
u
s
ree, ha determinato
1 con il “pavimento”, non più usato come discarica di oggetti (lat‐
s
3 m r o
a m o bluogo da rispettare e salvaguardare.
tine di birra, immondizia e altro), ma al contrario sentito come
z z o t
Bo mat menTuttavia
r
fo est i la funzione estetica, passata l’attualità del restauro,
sembra essere meno rilevante rispetto a quella pratica, con con‐
all
seguenti segni di un uso poco accurato.
I portici sono affiancati, sul lato esterno, da marciapiedi spes‐
so ingombri (ad esempio in prossimità dell’angolo con via Fosco‐
lo troviamo i tavolini di un bar e un’edicola, all’angolo con via
Machiavelli, sui lati destro e sinistro, dei cassonetti e un bidone
per la spazzatura, nel tratto fra via Machiavelli e via Buonarroti
un’altra edicola e un ingresso della metropolitana, all’angolo con
via Buonarroti, sui lati destro e sinistro dei venditori ambulanti,
all’angolo con via Leopardi due cassonetti, all’angolo con via del‐
lo Statuto un’altra edicola, ecc.) o da posteggi per autoveicoli.
L’utilizzo dei portici è favorito in corrispondenza degli attraver‐
samenti pedonali contrassegnati dalle apposite strisce.
Ad essere scoraggiato al di fuori degli spazi contrassegnati è
quindi anche il raggiungimento del marciapiede in basalto che cir‐
conda i giardini (non lo è invece quello degli ingressi preposti).
I portici sono dunque in grado di configurarsi come un attan‐
te e come tale di intervenire nei programmi narrativi dei soggetti
che percorrono la piazza. Dormitorio, luogo di commercio ambu‐
lante e di cartomanti, di sosta e di attraversamento, i portici pre‐
sentano dei tratti plastici che si costituiscono come mediazione
fra interno ed esterno, pubblico e privato.
I portici di piazza Vittorio sono stati oggetto di una riscrittura
200 Vincenza Del Marco
b/n sata
portata avanti su più fronti. Su quello della pavimentazione, di
cui abbiamo già parlato, su quello dell’illuminazione, realizzata
2 00 fre
nel 2003 mediante lanterne a goccia, su quello dei consumi, me‐
diante la collocazione di mercatini con bancarelle situate in gaze‐
0x ura
bo, ma anche mediante manifestazioni come Gonfaloni d’artista
4
1 s s
(«la Repubblica» 1999), quando vi sono stati esposti pannelli arti‐
a 3 m bro
stici4.
z z o m to I portici vengono però configurati come luogo in cui la fun‐
Bo mat men zione di dormitorio, ricondotta al degrado, deve essere ridise‐
for esti
gnata, relegata al regime dell’invisibilità; i suoi segni vengono
considerati come disturbo, stabilendo così una gerarchia e un’at‐
all
tribuzione di valore alle differenti pratiche di fruizione.
4. Conclusioni
Nella contemporaneità gli spazi del consumo vengono spesso
individuati come motori della riqualificazione, motivo di attra‐
zione, fulcri che generano e convogliano flussi.
L’Esquilino è stato oggetto di una riqualificazione che è passata
anche per la valorizzazione di strutture che offrissero e struttu‐
rassero consumi di varia natura: culturali come nel caso dell’Am‐
bra Jovinelli o della Casa dell’Architettura, legati al turismo
come nel caso dell’albergo Radisson, esplicati in un fluido e mol‐
teplice scambio come nel caso del mercato.
Il moltiplicarsi dei negozi cinesi è stato ampiamente criticato,
sia da parte dell’amministrazione che da parte degli abitanti, e
visto come un problema a cui dover porre un rimedio. In tal sen‐
4
Uno di Gioacchino Pontrelli che rielaborava una veduta della piazza in ver‐
sione futuribile e l’altro di Paolo Fiorentino che rappresentava la lotta di un
principe e un drago sullo sfondo dell’Acquario, la Stazione Termini e la Por‐
ta Magica.
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 201
b/n sata
so viene auspicata e promossa una diversificazione degli esercizi
commerciali.
2 00 fre
Tale diversificazione non dovrebbe però essere condotta a fa‐
vore di un target di fruitori che ricercano consumi di un certo
0x ura
profilo, o coltivano il gusto per l’estetizzazione delle merci ed in
4
1 s s
particolare dei prodotti di culture altre.
a 3 m bro La facilità di accesso che la piazza esprime plasticamente in
z z o m to
quanto apertura, ampiezza inserita in un ordine geometrico ben
Bo mat men
definito fondato sull’ortogonalità e che offre in quanto luogo
pubblico gratuitamente fruibile, dovrebbe essere valorizzata con
all
l’interscambio culturale.
La piazza nella sua storia ha affidato la sua centralità al mer‐
cato e lo ha fatto con successo, nonostante il degrado che ha por‐
tato al suo spostamento. Ora la piazza non esprime centralità, è
uno spazio aperto a flussi e percorsi pluridirezionali che con dif‐
ficoltà si incontrano, seppur incanalati dai portici. I giardini
esprimono una centralità soltanto quando essa viene inscritta in
occasione di specifiche manifestazioni; tale centralità spesso però
non viene intesa e fruita in modo interculturale ma è tale solo per
una determinata comunità. Per il resto i giardini non fanno che
esplicare la loro funzione, e in più, trovandosi in un luogo in cui
è presente il disagio sociale, offrono un posto in cui sostare a chi
non saprebbe altrimenti dove stare.
La centralità della piazza dovrebbe essere affidata a spazi di
promozione culturale e scambio fruibili e accessibili in modo
fluido, la cui risemantizzazione sia continua, legata ora ad una
cultura, ora ad un’altra, così che la rete dell’intercultura possa
avere dei nodi ma anche conservare una pluridirezionalità. Per
questa ragione dovrebbero esserci dei luoghi deputati, in cui si
possa partecipare ad eventi o attività legati alla propria cultura,
sapendo però di poter partecipare anche ad iniziative di altre cul‐
ture. Inoltre dovrebbero essere valorizzati i percorsi che portano
202 Vincenza Del Marco
b/n sata
agli spot della riscrittura di cui si è detto qui in apertura, in modo
che il quartiere con le sue vie, non debba essere considerato da
00 fre
chi viene da altre zone come un posto in cui passare velocemente
2
per sfuggire al degrado o alle proprie paure.
4 0x ura
1
s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 1. I portici di piazza Vittorio Fig. 2. I portici di piazza Vittorio
Fig. 3. Il marciapiede intorno ai giardini Fig. 4. L’area giochi dei giardini
di piazza Vittorio di piazza Vittorio
Portici e giardini. Spazi pubblici a Piazza Vittorio 203
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 5. Attività ludiche nei giardini di Fig. 6. I lavori in corso del palazzo
piazza Vittorio dell’ENPAM
Fig. 7. Immagine Satellitare di piazza Vittorio (© Google Earth)
n
Pierpaolo Mudu
b sat a
/
00 fre
Le soglie delle trasformazioni urbane:
2
0x ura
immigrazione e ordine all’Esquilino
1 4 s s
a m b ro
3 m0. Premessa
o zz to nNegli
t o ultimi quindici anni l’Esquilino ha ricevuto un’attenzione
B ma me speciale rispetto ad altre aree della città ed è stato spesso al cen‐
for esti che investono dinamiche di controllo e segregazione, in partico‐
1
all lare degli immigrati, la cui presenza sembra mettere in questione
l’ordine sociale e la costruzione degli spazi e dei tempi che ne
sono parte “integrante”. Una legislazione che limita l’attività de‐
gli immigrati (per esempio, gestione di internet center, carico e
scarico di merci, possibilità di cucinare certi cibi) è solo la punta
visibile di una più fitta trama di discriminazioni, resistenze e po‐
litiche in atto. Da pochi decenni, una serie precisa di scelte politi‐
che, immobiliari, sta cercando di fare entrare l’Esquilino dentro
al cosiddetto “centro” della città. Un centro che si vuole dedicato
in modo egemonico a turismo, commercio, servizi e residenze
per i più ricchi. La trasformazione del centro storico è stata pre‐
potente e aggressiva. La pesante speculazione immobiliare degli
anni settanta (Sonnino 1974), la svendita del patrimonio abitativo
da parte del comune e degli enti pubblici a partire dagli anni ot‐
tanta; infine, le restrizioni sul traffico con la creazione della Zona
a Traffico Limitato (ZTL), da cui l’Esquilino è rimasto escluso,
hanno ulteriormente diviso il centro tra un dentro e un fuori
1
Il sindaco di Roma Veltroni dichiarò che: «[…] teniamo moltissimo all’Esqui‐
lino, su cui abbiamo investito tanto, come non è stato fatto in nessun altro
quartiere della città» (Vitale 2004).
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 205
b/n sata
(Dang Vu 2008). In questo contesto, caratterizzato da un forte e
preciso modello di costruzione sociale, l’Esquilino rappresenta
00 fre
da vent’anni una diversa possibilità, basti pensare alle attività
2
gestite dagli immigrati cinesi o dal Bangladesh (Mudu 2007a): i
0x ura
grandi marchi commerciali della globalizzazione sono assenti, il
4
1 s
commercio è polverizzato in centinaia di piccoli imprenditori in‐
s
a 3 m bro
vece che in negozi in franchising, l’associazionismo è molto attivo,
z z o m to
la gerarchizzazione classista degli immigrati più difficile,
Bo mat men
l’attività e la circolazione giornaliera continua nelle strade ri‐
mandano ad un uso insolito dello spazio pubblico (Mudu 2003;
all
di conflitto riconosciuto. La gestione di questo conflitto è avve‐
nuta con una serie di politiche discriminatorie particolari, che, in
quanto per lo più pensate come soluzioni di breve periodo, con il
preciso obiettivo di eliminare o spostare il più velocemente pos‐
sibile il problema degli immigrati, si trovano poi ad essere conti‐
nuamente reiterate, con tutte le variazioni possibili, fino a
quando non saranno superate certe soglie che riguardano la con‐
centrazione degli immigrati e l’arresto del “degrado”. L’Esqui‐
lino si trova allora in una posizione che potremmo definire
“vulcanica”, ovvero di risalita delle pratiche e dei discorsi che
riguardano l’immigrazione a Roma, e non solo. Lo studio dell’E‐
squilino offre la possibilità di ricercare i mutevoli confini e le vo‐
lubili concessioni della tolleranza politica rispetto all’immigra‐
zione straniera a Roma e, nello specifico, di indagare le soglie
evocate, quelle perseguite e create dai discorsi e dalle pratiche
rispetto alle trasformazioni di un’area che ha avuto, dagli anni
novanta, come protagonisti tanti immigrati ed immigrate dalla
Cina, dal Bangladesh e da molti altri Paesi. A partire da queste
soglie si districano quelle traiettorie che, in processi difformi, co‐
stituiscono l’Esquilino contemporaneo.
206 Pierpaolo Mudu
/n ata
1. Metodologia
b s e attenzioni
0di migrazioni
Scegliendo di interessarsi all’evoluzione
e di uno spazio sociale
2 0
posto all’incrocio f r politiche di diversa
0x ura
scala, non si può che adottare un orientamento multidisciplinare,
4
1 s s
che rifiuta decisamente sia i confini tra le “discipline” che le for‐
o zz to nnitari), definizioni superficialmente lontane nella loro oggettività
t o
B ma me re (integrazione), compongono un pacchetto di investigazione
(Chinatown), processi sociali “naturali” che bisogna solo misura‐
b/n sata
a vista, dei muri, delle vetrine, degli androni dei palazzi, dei car‐
telloni si fa esigenza concreta di incontro e comunicazione, oltre
00 fre
che testimonianza plurilinguistica. Con una analogia musicologi‐
2
ca, dovremmo forse fare un’analisi che si può definire “agogica”,
0x ura
in cui si scandagliano tutte le modificazioni dell’andamento ge‐
4
1 s
nerale delle trasformazioni urbane apportate con scelte, decisio‐
s
a 3 m bro
ni, eventi, proposte e attuazione di leggi, che rendono l’esecuzio‐
z z o m to
ne dei rapporti di potere, delle divisioni di classe, un’interpre‐
Bo mat men
tazione continua ma piena di “accelerando” e “ritardando”, di
“muovendo” e “stringendo”, di cesure e stacchi. Al di là di que‐
all
re la materialità simbolica delle trasformazioni e riscritture della
città. La città è simile al linguaggio nella sua oggettività, nel suo
essere un oggetto che viene ricevuto dagli individui e modificato
(Lefebvre 1996). Non esiste però una sintassi condivisa dai vari
attori che la modificano. Bisogna allora muoversi su due piani
che si intersecano: partire dalla città per ricavarne un testo e par‐
tire dal testo per valutare la città. Tutto ciò tenendo in conto che i
discorsi non sono semplici proiezioni di meccanismi di potere e
che l’articolazione di potere e sapere avviene tramite i discorsi in
quanto elementi tattici nel campo dei rapporti di forza (Foucault
1978). Ugualmente lo spazio non è una semplice proiezione di
meccanismi di potere e per questo l’Esquilino attrae il governo
del territorio verso i luoghi dove andare a costruire discontinui‐
tà, soglie, che possano rappresentare delle pratiche politiche, vin‐
centi, esemplari ed esportabili, collegabili ad altre più lontane.
L’Esquilino si è sviluppato negli ultimi anni ponendo non solo
discontinuità locali, ma soprattutto soglie globali di passaggi e
paesaggi. A partire da queste soglie di trasformazione si sono
cominciate a generare nuove regole di controllo; e a partire da
queste soglie si districano quelle traiettorie che in modo diverso
costituiscono l’Esquilino contemporaneo e ci permettono di fare
analisi più complesse rispetto a quelle binarie che si sono affer‐
208 Pierpaolo Mudu
b/n sata
mate in molti discorsi. Se ci accontentassimo delle dicotomie, per
esempio pubblico/privato, etnico/non‐etnico, italiano/non‐italia‐
00 fre
no, tradizionale/non‐tradizionale, stanziali/nomadi, perderemmo
2
completamente di vista le varie dinamiche che hanno agito con
0x ura
tempi e luoghi diversi in questa parte dello spazio di Roma. Un
4
1 s
certo andamento dicotomico è proprio di molti dispositivi politi‐
s
a 3 m bro
co‐sociali che hanno la necessità di selezionare, classificare e “iso‐
z z o m to
lare” per poter segregare. Questi dispositivi semplificano, asciu‐
Bo mat men
gano, tratteggiano aspetti che alla fine devono risultare contrad‐
dittori per poter essere chiusi in un’unità ordinabile. Un’unità,
for esti un ordine, una normalizzazione che sono il risultato di una mi‐
all
riade di azioni multi‐scalari di diversa natura.
2. Esquilino: periferia del centro o centro delle periferie?
In uno studio sulle trasformazioni dell’area di Termini, l’Isfort
riprende la definizione dell’Esquilino come “la periferia del cen‐
tro e il centro della periferia” (Mostallino 2009). Lo strano destino
dell’Esquilino, in parte simile ad altre aree urbane collocate nei
pressi di stazioni ubicate nel centro cittadino, è quello di rappre‐
sentare un territorio anomalo, di contatto, di confusione, innova‐
zione e conflitto (Samgati 2006). Come è noto il rione, caratte‐
rizzato da una griglia regolare completamente diversa dal resto
del centro storico, era stato progettato per accogliere gli impiega‐
ti statali, in aumento a Roma alla fine del diciannovesimo secolo.
Questo rione con palazzine di cinque piani ruota intorno alla
piazza Vittorio Emanuele II, circa 180 per 300 metri, su cui si af‐
facciano i palazzi con un originale porticato (Insolera 1993). Dal
momento della sua costruzione fino alla prima guerra mondiale
l’Esquilino assolse il suo compito di ospitalità degli impiegati
sviluppando altresì una serie di attrazioni popolari: mercato,
spettacoli, negozi (Pecoraro 1986).
Un evento apparentemente semplice, collocato in un preciso
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 209
b/n sata
momento, ha portato una serie complessa di effetti. Si tratta dello
spostamento nel 1902 (e fino al 1925) del mercato ortofrutticolo,
00 fre
che si teneva a via dei Cerchi, presso viale Manzoni, e del conse‐
2
guente sviluppo “satellitare” di un commercio al minuto a piazza
0x ura
Vittorio (Scarnati 2009). Nel Pasticciaccio di Gadda, pubblicato nel
4
1 s
1946 ma ambientato nel 1927, il funzionario di polizia durante un
s
a 3 m bro
interrogatorio chiedeva ad un ricco abitante di via Merulana:
z z o m to
“Come mai, con tanti mezzi, vivevano là tra queli bottegari ti‐
Bo mat men
gnosi, negozianti in ritiro, commendatori da millecinquecento ar
mese?” (Gadda 2005, p. 84). I quartieri alti erano Ludovisi, Prati, i
for esti Parioli e l’Aventino. Dall’armistizio del 1943, questo rione, in
all
particolare piazza Vittorio, era diventato il centro di ogni traffico
cittadino, in particolare per chi veniva dalla Tuscolana, o addirit‐
tura dai Castelli. Grandi magazzini, abiti da sposa, abiti su misu‐
ra2, ed il mercato nella piazza, celebrato da De Sica in Ladri di
biciclette nel 1948, rendevano quest’area una delle più movimen‐
tate della città. Così la descrive Salvatore Carrubba nell’intro‐
duzione ad un suo romanzo del 1954:
Il lavoro che mi accingo a dare alla stampa, aveva come titolo ori‐
ginario “Piazza Vittorio” dall’omonima piazza romana, dalla quale
ho tratto lo spunto iniziale del romanzo.
Mi è sembrato infatti interessante il movimento che negli anni
dal 1943 al 1945 si era determinato in quell’angolo della città di
Roma, ove avevano riparato alcuni profughi improvvisati riven‐
duglioli, e con loro, a guisa di micidiali parassiti, rigattieri e le‐
noni, con certa merce informe, lercia e miserevole, come
l’ambiente nel quale si muoveva.
Era un affanno febbrile, un traffico disordinato, caotico, turbo‐
lento, che aveva qualcosa di rivoluzionario e di altamente dram‐
matico. Erano le stesse arterie della città, che pulsavano in quella
2
La maggior parte dei negozi di abiti da sposa nel rione e diversi altri negozi
erano di proprietà di famiglie ebree romane cui si aggiunsero dopo il 1967
gli ebrei tripolini cacciati dalla Libia (Samgati 2006).
210 Pierpaolo Mudu
b/n sata
zona di sangue impuro, ma pulsavano egualmente, poiché una
sola cosa importava: sopravvivere al disastro della guerra (Car‐
00 fre
rubba 1954, p. 7).
2
0x ura
Con una lettera pubblicata nel dicembre 1946, gli abitanti dell’E‐
4
1 s sdenunciando una condizione periferica: “Gli abi‐
squilino e del Celio si lamentavano per i collegamenti non buoni
a m ro
3 mtanti della parte inferiore del quartiere [Esquilino] e della popola‐
con il centro,
b
o zz to nusufruire delle costosissime camionette o debbono prendere due
t o
tissima zona del Celio per recarsi al centro della città o debbono
B ma me mezzi di trasporti pubblici facendo un lunghissimo giro” («Mo‐
for esti mento Sera» 1946). Ma già negli anni cinquanta l’Esquilino assu‐
all meva una posizione diversa, meno periferica: “Piazza Vittorio
non è né una piazza completamente popolare, né piccolo borghe‐
se” (Mida 1959). Gli anni cinquanta sono il decennio del sacco di
Roma, della SOGEIM, dei palazzinari, delle borgate e delle ba‐
racche, del superamento dei due milioni di abitanti (Mudu
2006b). “[…] Roma si è tanto estesa e piazza Vittorio si può dire
oggi una piazza centrale, ben ubicata; anche se un luogo più di
passaggio che il vero centro di un quartiere, come sarebbe logico
che fosse, e come era forse negli intendimenti di chi realizzò il
piano regolatore di quel tempo” (Mida 1959). Torniamo breve‐
mente al mercato. Durante il fascismo, durante e dopo la guerra
fino agli anni Sessanta, il mercato rimase per la vendita al det‐
taglio con banchi mobili e ceste (Scarnati 2009), mentre intorno a
via Principe Amedeo c’era l’ingrosso. Nel 1971 una legge che proi‐
biva la vendita della carne all’aperto fu all’origine della trasfor‐
mazione dei banchi da mobili a fissi (Pecoraro 1986). Un cambia‐
mento che fissa una cesura rispetto al passato: “[…] perché il
mercato la vivifica e la riscalda, la rende inimitabile e tanto mo‐
vimentata, ma poi il pomeriggio, quando il mercato scompare
quasi dissolvendosi, la piazza sembra che stenti ogni volta a ri‐
trovare un tono […]” (Mida 1959). Negli anni settanta l’anello dei
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 211
b/n sata
banchi del mercato si cristallizzava dunque intorno ai giardini.
L’ Imperatore di Roma, nell’omonimo film di Nico d’Alessandria,
00 fre
nel 1988 si andava “a bucare” proprio a piazza Vittorio, in mezzo
2
ai banchi del mercato. Dalla fine del 2001 con lo spostamento
0x ura
all’interno delle ex caserme, fortemente voluto dal comune, il
4
1 s
mercato viene declassato a mercatino rionale. L’apertura della
s
a 3 m bro
metropolitana nel 1980 fissa un nodo fondamentale di traffico tra
z z o m to
il centro e la periferia che si aggiunge ai passaggi dei tram per e
Bo mat men
dalla Prenestina e delle ferrovie vicinali per e dalla Casilina.
In questo contesto, la promozione, ovvero il tentativo di pro‐
for esti mozione dell’Esquilino come parte del centro, è avvenuta con
all
passaggi comuni al resto della città ma con eccezioni importanti
legate a dinamiche di diversa natura: lontane, per quanto riguar‐
da le migrazioni; di movimento, legate alla presenza della stazione
Termini e alla necessità di far circolare migliaia di persone per tre
quarti della giornata; locali, per la non buona qualità delle costru‐
zioni. Questa “promozione” è un’azione di forza, parte di un ge‐
nerale ridisegno del centro della città perseguito con tenacia sicu‐
ramente dalla fine delle prime giunte di sinistra nel 1985 (Mudu
2007). È vero che fenomeni di gentrificazione già esistevano, ma il
fatto nuovo è che negli anni ottanta, e poi in modo massiccio ne‐
gli anni novanta, il Comune si fa parte attiva nello svuotamento
popolare del centro storico. All’Esquilino nel 1951 erano stati
censiti circa 62 mila abitanti, nel 2001 19 mila. Uno svuotamento
minore rispetto ad altri rioni del centro storico con una territoria‐
lizzazione di immigrati stranieri (circa il 24% dei residenti nel
2008). Alla fine degli anni ottanta i cinesi residenti a Roma erano
circa mille, mentre erano approssimativamente 10 mila nel 2008
(di cui il 10% all’Esquilino). Se consideriamo le attività degli Im‐
migrati, troviamo che l’Esquilino svolge un ruolo fondamentale
all’interno delle attività economiche gestite dai cinesi in alcuni
settori, per esempio il commercio al dettaglio, le sedi delle ditte
di import‐export, l’abbigliamento, le gioiellerie e le farmacie, ma
212 Pierpaolo Mudu
b/n sata
secondario in altri, per esempio il commercio all’ingrosso, la ri‐
storazione e gli alberghi (Mudu 2007). Per quanto riguarda gli
00 fre
immigrati dal Bangladesh (circa 12 mila persone a Roma nel
2
2008, di cui il 6% all’Esquilino), oltre che al Pigneto‐Tor Pignatta‐
0x ura
ra, nella zona della Marranella, le presenze più rilevanti sono
4
1 s
proprio all’Esquilino, con una maggiore concentrazione di attivi‐
s
a 3 m bro
tà lungo via Principe Amedeo (Mudu 2007). All’inizio del secolo
z z o m to
l’Esquilino ospitava attività economiche gestite da immigrati di
Bo mat men
20 nazionalità diverse (Mudu 2003).
Se vogliamo essere scrupolosi, nell’analizzare le trasforma‐
for esti zioni degli ultimi venti anni dobbiamo riconoscere la fine di
all
quella dicotomia centro‐periferia che aveva fatto da perno nelle
analisi e pratiche politiche a Roma dagli anni Cinquanta (Mudu
2006b). Questo dualismo non è più accettabile in termini analitici
perché tutta la metropoli può ospitare dinamiche di periferizza‐
zione. Nello spazio delle grandi capitali neo‐liberiste, l’Esquilino
rappresenta un’anomalia per la presenza commerciale e per la
vita continua nelle strade che rimanda ad un uso dello spazio
pubblico che nelle attuali città globali le forze egemoni avversano
profondamente (Mudu 2003). Lo stesso spazio privato, domesti‐
co, delle abitazioni è profondamente cambiato, date le nuove
presenze, lo sfruttamento dei canoni in nero e il nuovo sovraffol‐
lamento, ed è trasceso nello spazio pubblico. La visione dicoto‐
mica riporta immediatamente al problema del degrado dell’E‐
squilino rispetto al resto del centro. Il degrado viene presentato
come l’attraversamento improvviso di una soglia di presenze so‐
ciali intollerabili.
3. Soglie: concentrazione etnica e degrado
All’Esquilino le soglie evocate sono tante. Le mitiche soglie di
concentrazione degli immigrati, il punto di non ritorno del de‐
grado, il ristabilimento dell’ordine della piazza e del mercato con
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 213
b/n sata
il suo trasloco e il suo inquadramento, l’annuncio regolare della
chiusura dell’ultimo negozio “italiano”, la morte della tradizio‐
00 fre
ne, l’ultima rissa, l’ennesimo negozio cinese che fa traboccare
2
ogni residua goccia di tolleranza. Uno dei luoghi comuni dei di‐
0x ura
scorsi sull’immigrazione è la condanna della concentrazione et‐
4
1 s
nica. Il demografo Golini scriveva così in un suo articolo pub‐
s
a 3 m bro
blicato sulla prima pagina del Messaggero: “Non esistono prove
z z o m to
certe né definitive conclusioni scientifiche, ma l’esperienza di al‐
Bo mat men
tri paesi europei dimostra che quando gli immigrati stranieri su‐
perano la soglia dell’8‐10% della popolazione totale, allora le
all
2000). Affermazione subito raccolta dall’economista Sylos Labini
che sulla Repubblica comincia un suo articolo così: “Sostiene il
demografo Antonio Golini che quando in un paese gli immigrati
si avvicinano al 10% della popolazione le tensioni xenofobe di‐
ventano acute. È una relazione empirica ma – sono d’accordo –
ha una rilevanza pratica anche da noi” (Sylos Labini 2000). Le
tensioni xenofobe più frequenti e intense a Roma hanno comin‐
ciato a verificarsi nel rione dell’Esquilino nel centro di Roma
quando la popolazione immigrata non raggiungeva il 5% del to‐
tale. L’opinione su questa soglia, e i suoi confini, muta con il
tempo ma purtroppo persiste (la incontriamo per esempio in Di
Luzio 2006). Anche la letteratura la riprende: “L’Esquilino ormai
appartiene a loro. I negozi non sono più gli stessi. È rimasta una
merceria, all’inizio di via Principe Eugenio, con gli scaffali di un
tempo, il metro, il bancone di vetro che mostra bottoni e scam‐
poli di stoffa, qualche negozio di abiti da sposa, qualche bar e
poco altro. Ma il confine italiano, la vera dogana tra Roma e Chi‐
natown, è segnato da Fassi, solo un poco più in là, sullo stesso
marciapiede” (Ricciardi 2006, p. 10)3. Dai discorsi traspare il fatto
3
Pochi mesi fa su un quotidiano distribuito gratuitamente: “[la nuova deli‐
bera sulle attività tradizionali] non porterà da nessuna parte, se prima non si
crea un tavolo e non si trova un’intesa con la comunità cinese, che nel rione
214 Pierpaolo Mudu
b/n sata
che queste soglie di concentrazione, fittizie ma costruite come ve‐
rità, sembrerebbero essere state superate, oltrepassate.
00 fre
L’ “invasione” in sé non garantisce politiche di dispersione (con
2
l’eccezione dei Rom). È stato quindi necessario attivare un altro
0x ura
dispositivo, quello del degrado, nonostante negli anni settanta,
4
1 s
prima cioè che cominciasse la migrazione straniera, l’Esquilino e
s
a 3 m bro
piazza Vittorio fossero già considerati degradati e abbandonati. È
z z o m to
necessario dunque operare una decostruzione dei discorsi usuali,
Bo mat men
diventati egemonici in molti ragionamenti politici e nella stampa,
in cui si fa riferimento all’idea secondo la quale il degrado urba‐
for esti no dell’Esquilino è connesso con i più recenti flussi migratori.
all
Questo non è in alcun modo confermato dall’analisi delle fonti e
delle ricerche di cui ora disponiamo. Le informazioni raccolte ar‐
rivano poi a sfidare proprio il concetto normalmente usato di de‐
grado urbano (Mudu 2003).
4. Soglie: il “degrado” e la “tradizione”
Cosa riferivano le cronache dei quotidiani prima dell’arrivo del‐
l’immigrazione straniera? Un esempio: “Carenze di illuminazio‐
ne pubblica, assenza di vigilanza pomeridiana e notturna, insuf‐
ficiente servizio della Nettezza Urbana, proliferare dei fenomeni
delinquenziali e di prostituzione. Secondo i commercianti di piaz‐
za Vittorio la situazione di degrado non è più sostenibile tanto
che hanno inviato un esposto al sindaco […] 54 negozianti hanno
firmato l’esposto […] chiedono il controllo della prostituzione
maschile e femminile ‘che già dalle 18 circonda il cantiere della
metropolitana al centro della piazza’ “ («il Messaggero» 1979).
Negli ultimi 40 anni le tipologie di vendita degli esercizi com‐
gestisce 850 negozi su 1250. Mentre altri cento sono in mano ad altre etnie”
spiega Leonida Fassi (che ha aperto due punti vendita in Corea del Sud e
negli Stati Uniti)” (Nencha 2009a).
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 215
b/n sata
merciali che si affacciano su piazza Vittorio non sono cambiate in
modo cospicuo (si veda la Tabella 1). Sono cambiati gli esercenti,
00 fre
che nel 2009 sono cinesi nel 47% dei casi.
2
0xTipologia radegli esercizi commerciali di piazza Vittorio tra il
4
Tabella 1.
1 s u
3 m bro s
1974 e il 2006
a
z o m to Tipologia degli esercizi commerciali 1974 1995 2009
z
Bo mat men
Rivendita di articoli vari (giocattoli, elettrodomestici,
12 14 10
vernici)
for esti
Laboratori, artigiani, officine (stagnaro, oreficeria,
5 7 5
rammendi)
all
Generi alimentari (alimentari, pasta, vini) 1 1 3
Locali pubblici (pizzeria, gelateria) 10 6 7
Servizi vari (barbiere, pulizia tappeti, banca) 4 4 4
Articoli di abbigliamento (pelletteria, articoli regalo) 33 29 43
Totale 65 61 72
Elaborazione basata su Girardi et al. (1974), Naddeo (1996) e rilievo a vista nel
giugno 2009.
Già negli anni settanta i locali pubblici sono più diradati, l’area si
spegne per vari motivi, che vanno dalla speculazione ai cantieri
per la metro, dalla concentrazione dello spaccio all’abbandono
dei grandi luoghi pubblici progettati in precedenza (acquario,
teatro, giardini ecc.) («il Messaggero» 1990). A ciò si aggiungono
i crolli, tra il 1985 e il 1986: “[…] nello spazio di un anno, dal 2
aprile 1985 al 14 maggio 1986 tre crolli, sei sgomberi, transenna‐
menti […]” (Lampugnani 1987), prima dell’avvio di una nuova
fase4 di arrivo degli immigrati stranieri. I processi di concentra‐
zione etnica si sono inseriti in dinamiche innestate dalla specula‐
4
Altri crolli si verificarono il 9 ottobre del 1991 (la rampa di scale di un pa‐
lazzo in via Rattazzi) e il 29 novembre del 1993 (due piani di un palazzo a
via Carlo Alberto, poco prima di piazza Vittorio).
216 Pierpaolo Mudu
b/n sata
zione immobiliare. Di fatto, nei discorsi ufficiali il degrado è il
presupposto, il dispositivo, per politiche di separazione. La se‐
00 fre
gregazione simbolica, non statistica, dell’Esquilino comporta po‐
2
litiche di sorveglianza e controllo preferenziali rispetto a qua‐
0x ura
lunque altra parte della città (Vitale 2004) e il ritorno di proposte
4
1 s
politiche di tipo etnico a favore degli “italiani”. Per esempio la
s
a 3 m bro
Regione ha finanziato nel 2004, con 2 milioni di euro, solo le atti‐
z z o m to
vità dei commercianti italiani “per fronteggiare gli stranieri”
Bo mat men
(Venturini 2001). L’egemonia del messaggio di lotta alla concen‐
trazione, all’autosegregazione, alla ricostruzione sul suolo roma‐
all
progressista Walter Veltroni a rinunciare alla scorta di polizia
sotto la sua abitazione privata perché “Gli agenti che stanno sot‐
to casa mia è meglio che vadano a dar man forte ai loro colleghi
dell’Esquilino”. E così l’Esquilino è meta dei controlli polizieschi
su base etnica (per es. «Corriere della Sera» 1998; Lippera 2004;
«il Messaggero» 2005).
L’Esquilino è uno spazio di articolazione delle politiche ur‐
banistiche e di controllo dell’immigrazione: si trasferisce la legge,
o meglio tutta la dimensione giuridica e coercitiva, in una serie di
dispositivi urbanistici, e si trasferiscono discorsi precisi su concen‐
trazione e degrado nel controllo delle traiettorie degli immigrati
tramite il noto dispositivo della “tradizione”, un’invenzione pro‐
dotta da un insieme di pratiche che si propongono di inculcare
delle norme di comportamento ripetitive nelle quali è implicita la
continuità con un passato opportunamente selezionato (Hob‐
sbawm e Ranger 1984). Ecco come la Delibera n. 5 del 14 febbraio
2003 del Comune di Roma definisce le attività tradizionali:
Per attività tradizionali si intendono quelle operanti da quindici
anni, nello stesso genere merceologico, in uno dei seguenti setto‐
ri: abbigliamento, casalinghi, mobilifici, gioiellerie, ottico, profu‐
merie, dischi e libri, calzature, cartolerie, prodotti eno‐gastrono‐
mici tipici locali, pubblici esercizi […] limitatamente alla ristora‐
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 217
b /n ata
zione tradizionale art. 5 della legge n. 287/91, generi alimentari,
panifici, nonché tutte le attività artigianali tradizionali.
0 freuna s soglia temporale di quindici anni
0
x2 ra
Viene quindi specificata
0
che coincide con l’arrivo dei primi immigrati residenti, nel 1988.
4 ssu
1
Per le attività viene prescritta una tipologia che grosso modo ri‐
a m b ro
3 mglia geografica di origine dei prodotti non è definita.
corda quella degli anni settanta (si veda Girardi et al. 1974), la so‐
o zz to ntoNel 2009 l’intervento legislativo è stato reiterato ed è stata ap‐
B ma me provata dal Consiglio comunale (35 voti favorevoli, nessuno con‐
for esti
trario e quattro astenuti) la Delibera del comune di Roma n. 10
del 5 febbraio 2009, che prevede un piano di intervento per la tu‐
all tela e la riqualificazione del commercio e dell’artigianato all’Esqui‐
lino. Tra le altre decisioni viene “consentito il mutamento mer‐
ceologico per l’apertura di attività tradizionali”. Ope legis viene
fissata l’esistenza di attività “tradizionali” (per esempio commer‐
cio o ristorazione) romane, monolitiche, popolari, presenti da se‐
coli al servizio degli abitanti veraci. All’Esquilino, come nel resto
della città, le trame di sviluppo del commercio o delle cucine et‐
niche, la costruzione della “popolarità si dispiegano in ben altre
forme offrendo chiari indizi critici sulle trasformazioni delle tipo‐
logie di vendite, della ristorazione, della migrazione dei cibi, delle
ibridazioni delle offerte gastronomiche” (Mudu 2007b). Tutte
queste iniziative legislative indicano la ricerca di una esclusione
legalizzata che viene consapevolmente portata avanti5. In questo
vortice di delibere per determinare le tradizioni giuste si vogliono
formare identità, piuttosto che esprimerle. D’altra parte, gli im‐
migrati sfoggiano delle identità che sono formate in spazi trans‐
locali, transnazionali, piuttosto che radicate univocamente (Ap‐
padurai 1996).
5
Per Roberto Cantiani, presidente vicario della commissione capitolina
Commercio si tratta di inasprire le norme in particolare per gli internet point
e i call center (Nencha 2009b).
218 Pierpaolo Mudu
b/n sata
L’altra soglia fondamentale nella fabbricazione artificiale del‐
la tradizione è quella linguistica, il passaggio da un supposto
00 fre
originale monolinguismo ad un nuovo, intollerabile, multilingui‐
2
smo. Nelle strade e nel mercato del quartiere Esquilino sono vi‐
0x ura
sibili oltre 1500 scritte in lingue altre dall’italiano: ne sono state
4
1 s
contate 24, variamente presenti su insegne di negozi, menù dei
s
a 3 m bro
ristoranti, manifesti ecc. (Barni 2006). Pochi anni fa l’assessore al
z z o m to
commercio del Comune di Roma ha affermato: “gli ideogrammi
Bo mat men
dovranno sparire e comparire scritte in italiano alte 30 centimetri.
Solo sotto, e più piccole, si potranno aggiungere scritte in inglese
all
nelle relazioni di potere e l’Esquilino, agli occhi di chi esercita il po‐
tere politico, non rappresenterebbe che una resistenza periferica.
In sintesi il richiamo alla “tradizione” è uno dei dispositivi
scelti per fermare il “degrado”, dove il degrado è costruito con
una operazione basata non su avvenimenti effettivi ma su una
chiara politica discriminatoria e classista. Il richiamo alla tradi‐
zione è un potente espediente per mobilitare anche chi si batte, a
partire da ben altre considerazioni, contro le logiche speculative
del mercato. La tradizione, ovvero la costruzione e l’uso della ca‐
tegoria “tradizione”, sembra rivelarsi come una politica che
guarda al passato non riuscendo ad interpretare il presente. La
tradizione diviene un espediente tattico per creare una succes‐
sione laddove non esiste più, una continuità laddove tutte le
condizioni per assicurarla sono cambiate.
5. Conclusioni
L’Esquilino è il rione più popoloso del centro storico di Roma.
Dalla fine degli anni settanta ha rappresentato una zona di pre‐
senza (si pensi all’offerta alberghiera e di pensioni) e poi negli
anni novanta di presenza e residenza degli immigrati stranieri.
Dagli anni settanta, l’Esquilino è diventato il territorio preferito
Le soglie delle trasformazioni urbane: immigrazione e ordine all’Esquilino 219
b/n sata
per le ipotesi di trasformazione, intervento, restauro e demoli‐
zione, per i piani e i progetti, per i concorsi di riqualificazione
00 fre
(Girardi et al. 1974; Pecoraro 1986; INHES 2006). Ipotizziamo che
2
le soglie delle trasformazioni consentite siano legate ai rapporti
0x ura
di forza e alle condizioni che si attribuiscono i protagonisti dei
4
1 s
possibili cambiamenti. Questo ci permette di capire perché l’E‐
s
a 3 m bro
squilino sia diventato un luogo privilegiato di emersione di di‐
z z o m to
scorsi sugli immigrati e un luogo di pratica obbligata di soluzio‐
Bo mat men
ni, azioni, resistenze, repressioni, incentivi, elargizioni, aperture
e chiusure. Ancora più importante è l’emersione delle strutture
all
cano di fissare un modello di società che si collochi in uno spazio
ben circoscritto di attività di produzione e consumo e rivelano
così non solo l’attivazione di dispositivi di controllo e repressio‐
ne, ma anche la ricerca di dispositivi attivi che riguardano la pro‐
duzione economica e simbolica, con il richiamo alla tradizione.
Intorno all’Esquilino troviamo una moltitudine di discorsi che
nella loro cronologia sminuzzata girano intorno ad alcuni punti
chiave: concentrazione, degrado, tradizione; una serie di discorsi
accompagnati da atti giuridici, presenze politiche, lettere sui
giornali, interventi di polizia, controlli dei vigili urbani. D’altro
canto le migliaia di traiettorie, per la maggior parte di immigrati,
che si coagulano all’Esquilino generano un intervento, una tra‐
sformazione scoordinata, disincronizzata, apparentemente babe‐
lica, che solleva il fondato sospetto che anche il resto della città
non si caratterizzi in senso monolinguistico, come uno spazio
privo di migranti e improntato a un tranquillo equilibrio sociale.
Di conseguenza, non possiamo non porci il dubbio, con tutte le
sue implicazioni e responsabilità, che l’esistenza della città, il suo
aspetto fondante, sia proprio quello di uno spazio di concentra‐
zione di traiettorie migranti.
220 Pierpaolo Mudu
b / n ta
Ringraziamenti
a per prima
suna
Devo ringraziare Ilaria Tani
0
avere riconosciuto diversi nodi
e
0 fr a Anna Rocchetti
da sciogliere presenti in versione del testo. Ricono‐
2
x ra
scenza la devo anche per avermi fornito una
0
su
buona prospettiva di via Principe Amedeo.
4
1
3 m bro s
a
z o m to
z
Bo mat men
for esti
all
n
b sata
/ Ilaria Tani
00 fre
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici
2
0 x rae sociali: riflessioni sull’Esquilino *
1 4 ssu
a m b ro
3 m0. Premessa
o zz to nL’idea
t o che la lingua sia una componente fondativa della città è
B ma me una costante della riflessione occidentale a partire almeno dal
for esti modello aristotelico, in cui città e linguaggio sono assunti come
all
termini complementari e costitutivi della naturale politicità del‐
l’essere umano (Politica 1253a), che proprio in quanto animale
parlante è “urbano” e “sociale” (Volli 2008b, p. 4). Nel Novecen‐
to, accanto ai fondamentali studi di Labov sulla stratificazione
sociale della lingua inglese nella città di New York (1966), un de‐
ciso richiamo ad ampliare gli studi linguistici in questa direzione
è venuto da Halliday per il quale “la città è un luogo di discorsi:
è costruita con la lingua, e da questa tenuta insieme. Non solo i
suoi abitanti spendono parecchie delle loro energie comunicando
l’un l’altro, ma nelle loro conversazioni essi riaffermano e rimo‐
dellano continuamente i concetti di base attraverso cui viene de‐
finita la società urbana” (Halliday 1983, p. 175). Un insieme di
edifici non è dunque sufficiente a costituire una città, se non in‐
tervengono strette interazioni tra i parlanti, che assumono la città
non solo come sfondo ma anche come oggetto dei loro discorsi
(Franceschini 2001, p. 21). Ciò non significa però che la città sia
una “comunità parlante”, nell’accezione idealizzata di questa
espressione, risultante dalla combinazione di tre concetti distinti:
*
Il testo ripropone, con lievi modifiche, la relazione presentata al convegno
internazionale La città come testo. Scritture e riscritture urbane (Torino 19‐20
maggio 2008) e già pubblicata negli Atti a cura di M. Leone (2009).
222 Ilaria Tani
b/n sata
gruppo sociale, rete di comunicazione, popolazione linguistica‐
mente omogenea. È evidente l’inadeguatezza di questa defini‐
00 fre
zione rispetto al contesto urbano contemporaneo: uno spazio lin‐
2
guisticamente eterogeneo, polifonico e potenzialmente conflit‐
0x ura
tuale, non solo dal punto di vista endolinguistico (relativo cioè
4
1 s
alle variazioni della lingua nei diversi quartieri e nei diversi strati
s
a 3 m bro
sociali), ma anche, e oggi anzi soprattutto, dal punto di vista eso‐
z z o m to
linguistico (per la presenza di una pluralità di lingue, molte delle
Bo mat men
quali non europee). La città si presenta oggi come una realtà plu‐
rilingue, al tempo stesso motore di unificazione e standardizza‐
all
ciaggio e creolizzazione linguistica (Calvet 1994).
Uno dei grandi temi del dibattito contemporaneo sulla città è
appunto costituito dalla frammentazione e dalla perdita di coesio‐
ne dello spazio sociale e linguistico innestata dai processi di im‐
migrazione e nomadismo, che hanno coinvolto l’Italia in generale
e Roma nello specifico in tempi relativamente recenti, comunque
in ritardo rispetto ad altri contesti europei. Le migrazioni met‐
tono in questione l’idea della città come un insieme organico
nonché la serie di mitologie legate allo sviluppo dei nazionalismi
europei degli ultimi due secoli: la stanzialità e la sedentarietà, il
mito delle origini (cfr. Attili 2007, p. 19), l’omogeneità linguistica
come strumento ed espressione della comunità sociale. La civitas
è oggi piuttosto uno spazio frazionato e composito al suo inter‐
no, attraversato da frontiere e confini sociali e linguistici. E la cre‐
scente presenza di varietà linguistiche esogene nello spazio urba‐
no viene percepita da una mentalità monolingue ancora molto
diffusa, come un riaffiorare della minaccia di Babele, rappresen‐
tazione estrema della diversità come incomunicabilità, funzionale
alla ideale delimitazione dell’urbs‐civitas come forma organica e
spazio comunicativo peculiare.
La zona di piazza Vittorio Emanuele II, nel quartiere romano
dell’Esquilino, rappresenta un’area esemplare per riflettere sull’i‐
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 223
b/n sata
dea di confine sociale e linguistico‐culturale, nelle sue trasforma‐
zioni e relazioni con la città. Si tratta infatti di un’area centrale (è
00 fre
parte del I Municipio, che comprende tutto il centro di Roma), in
2
cui però l’organizzazione sociale dello spazio e soprattutto i mo‐
0x ura
di di viverlo appaiono per molti versi tipicamente periferici. Con
4
1 s
un bel chiasmo, piazza Vittorio è stata definita “centro delle peri‐
s
a 3 m bro
ferie” per gli immigrati e “periferia del centro” per i romani
z z o m to
(Vando 2007), l’unico “quartiere globale” della città, che mette
Bo mat men
alla prova la nostra capacità di cittadini di confrontarci con l’alte‐
rità ma anche la tenuta e i limiti degli strumenti concettuali delle
for esti nostre discipline e dei loro reciproci steccati. Nell’impostare la
all
ricerca sull’Esquilino, condotta nell’ambito dell’unità di Roma‐
Sapienza, è parso innanzitutto necessario interrogarsi sugli stru‐
menti metodologici più adeguati all’analisi e all’interpretazione
di un contesto sociale e linguistico particolarmente complesso. A
tal fine si è ritenuto perciò opportuno dedicare una prima fase al‐
la ricognizione dei principali studi sociolinguistici sullo spazio
urbano, e in particolare al modello del linguistic landscape che nel
corso degli ultimi anni ha assunto una crescente rilevanza nelle
ricerche sul plurilinguismo. In questa sede tenterò di dar conto
sinteticamente dei principali spunti metodologici che emergono
da queste direttrici di indagine, per poi illustrarne le possibili li‐
nee di applicazione al contesto indagato.
1. Fisionomia e immagine del paesaggio linguistico
Nell’ambito della sociolinguistica gli studi sulla città si sono svi‐
luppati lungo due fondamentali linee di ricerca. La prima, legata
al nome di Labov, assume la città come uno spazio di variazione
sociale e linguistica e al tempo stesso come un fattore di unifica‐
zione e standardizzazione degli atteggiamenti e delle valutazioni
sociali nei confronti degli usi linguistici propri e altrui. Qui la cit‐
tà è assunta come luogo di osservazione privilegiata delle dina‐
224 Ilaria Tani
b/n sata
miche del mutamento linguistico che, per l’addensarsi di una
moltiplicità eterogenea di parlanti, hanno maggiore possibilità di
00 fre
dispiegarsi e di rendersi visibili. Manca però una specifica rifles‐
2
sione sullo spazio urbano e sulla sua strutturazione linguistica e
0x ura
comunicativa. Una seconda linea di studio, più recente e legata
4
1 s
alla lezione di Halliday, privilegia invece lo studio dei discorsi
s
a 3 m bro
sulla città, considerati come azioni con cui i cittadini costruiscono
z z o m to
e danno forma verbale alle diverse rappresentazioni dello spazio
Bo mat men
cittadino (Mondada 2000, p. 72; D’Agostino 2007, p. 159)1. Pur mo‐
strando una decisa consapevolezza della specificità della dimen‐
for esti sione urbana, quale fattore esplicativo e interpretativo dei pro‐
all
cessi comunicativi e linguistici, nonché della rilevanza dei feno‐
meni di coesistenza, contatto e conflitto tra lingue negli attuali
contesti urbani, gli studi dedicati al “parlare della città” condivi‐
dono con quelli relativi al “parlare in città” un’attenzione presso‐
ché esclusiva al linguaggio parlato.
Gli usi scritti delle lingue nello spazio cittadino sono invece
oggetto di un ulteriore indirizzo della sociolinguistica urbana,
relativamente recente, incentrato sull’analisi di una varietà di te‐
sti verbali – privati e pubblici, spontanei e pianificati – visibili su
muri, insegne e cartelli. Questo insieme di messaggi viene oggi
definito “paesaggio linguistico”, con un’espressione che serve a
sottolineare in particolare la visibilità delle lingue e la loro salien‐
za nella costruzione simbolica dello spazio pubblico (Backhaus
2007, p. 4). Il riferimento allo spazio dell’esperienza visiva come
ambito di raccolta dei dati e l’adozione di strumenti e metodi di
tipo rappresentazionale e cartografico per l’elaborazione delle in‐
formazioni collocano questo indirizzo della sociolinguistica
all’interno di un variegato insieme di scienze sociali accomunate
dal ricorso privilegiato al piano visuale dell’esperienza sia come
1
Esempi di sociolinguistica della città in Italia sono le ricerche di Klein a
Napoli (1995), di D’Agostino a Palermo (2006), ma anche, sebbene in una di‐
versa prospettiva disciplinare, le indagini di Portelli su Roma (2007).
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 225
b/n sata
oggetto che come metodo di ricerca (Pezzini 2008, p. 6).
Il concetto di linguistic landscape emerge alla fine degli anni
00 fre
settanta nell’ambito della pianificazione e della politica lingui‐
2
stica in contesti bilingui e plurilingui, ma è con un saggio di
0x ura
Landry e Bourhis del 1997 che tale espressione viene introdotta
4
1 s
ufficialmente negli studi sociolinguistici, per individuare un fat‐
s
a 3 m bro
tore specifico nell’ambito del contatto e della vitalità delle lingue,
z z o m to
distinto da altri criteri di analisi (come scuola, media, reti sociali).
Bo mat men
Il paesaggio linguistico è costituito dal “linguaggio dei segnali
stradali, dei cartelloni pubblicitari, delle targhe di strade e di
all
(Landry, Bourhis 1997, p. 24), cioè dagli usi linguistici percepibili
visivamente nello spazio pubblico. E dal momento che questi usi
della scrittura appaiono con una particolare densità negli agglo‐
merati urbani, il linguistic landscape tende a risolversi nel cityscape
(Gorter 2006b).
Come spesso accade, anche in questo caso la novità importata
dalla cultura anglosassone potrebbe dirsi più apparente che rea‐
le: l’oggetto di studio delimitato dalla nuova etichetta sembra in‐
fatti per certi versi coincidere con quanto siamo stati abituati a
definire “scritture esposte”, cioè con le realizzazioni della scrit‐
tura in luoghi pubblici (muri, monumenti, pareti), dotate di fun‐
zioni comunicative e informative (Petrucci 1986)2, oppure con i
2
Come ricorda Maturi (2006, p. 244), le scritture esposte possono essere ana‐
lizzate non solo dal punto di vista comunicativo (modalità della relazione tra
emittente e ricevente) e informativo (rapporto dato/nuovo realizzato lingui‐
sticamente attraverso dimensioni quali ordine delle parole, focalizzazioni,
struttura tema/rema), ma anche sul piano propriamente linguistico come
rappresentazioni delle forme fonetiche sottostanti e delle lingue o varietà di
lingua utilizzate; e inoltre dal punto di vista del contenuto (ambiti tematici
attestati dalle scelte lessicali) e della forma (colore, forma e dimensioni dei
caratteri), di cui si occupa propriamente la grafica. Uno studio esemplare
delle scritture esposte in una prospettiva socio‐semio‐linguistica è quello
diretto da Lucci (1998) sulla città di Grenoble.
226 Ilaria Tani
b/n sata
cosiddetti “sistemi semiologici di supplemento” (Choay 1969),
espressione che accorpa in un’unica categoria elementi verbali –
00 fre
nomi di strade, cartelli e insegne commerciali – e non verbali –
2
sistemi di illuminazione e arredi urbani3. Diversamente da questi
0x ura
ultimi, tuttavia, gli studi sul paesaggio linguistico non si occupa‐
4
1 s
no dei segni linguistici dal punto di vista della loro efficacia e
s
a 3 m bro
funzionalità comunicativa nello spazio urbano, ma li analizzano
z z o m to
come testimonianza delle lingue presenti in un dato territorio,
Bo mat men
cioè come indicatori del repertorio linguistico cittadino: l’insieme
delle scritture nello spazio pubblico costituisce una traccia della
all
diverse. Rispetto alle ricerche sulle scritture esposte, decisivo per
la delimitazione dell’oggetto di indagine e dunque per la specifi‐
cità di questo campo di ricerca è il riferimento alla veduta d’in‐
sieme dei segni verbali disseminati su una determinata area
abitata, intesa come uno scenario linguistico complesso. È tale ri‐
ferimento che giustifica, in particolare, il ricorso al termine “pae‐
saggio”4.
3
Per Choay i sistemi semiologici di supplemento rivestirebbero per “la leg‐
gibilità della scena urbana” una importanza inversamente proporzionale alla
capacità semantica dei sistemi semiologici di costruzione (edifici, strade,
piazze, giardini ecc.), cui spetterebbe dunque una funzione primaria nella
costruzione del senso urbano. Per una critica diretta a quest’ultima posizione
si veda Mangano (2008, p. 157). Diametralmente opposta alle considerazioni
di Choay sui rapporti tra architettura e scrittura è anche la posizione di Zen‐
naro (2004), la cui analisi grafica, relativa alla dimensione formale delle iscri‐
zioni nella Roma classica e umbertina, evidenzia come le scritte (ufficiali) su
muri ed edifici ricorrano con più frequenza nei casi in cui la forma architet‐
tonica è già di per sé eloquente, contribuendo così alla costruzione di “un
artefatto comunicativo completo ed esauriente”.
4
L’espressione inglese linguistic landscape viene variamente resa in italiano
ora con “panorama” ora con “paesaggio” linguistico. Entrambi i termini rin‐
viano alla capacità di abbracciare con lo sguardo una porzione complessa
della realtà e al tempo stesso alla rappresentazione pittorica, fotografica, ecc.
della stessa realtà. Ma mentre il primo porta con sé una connotazione esteti‐
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 227
b/n sata
Come ricorda infatti Besse (2008), “il paesaggio appartiene al‐
l’ordine del visibile”, implica cioè un rapporto di tipo visivo ed
00 fre
estetico con il mondo. Dal punto di vista antropologico‐genetico
2
questo modo di riferirsi al mondo appare “legato alla dimensione
0x ura
stanziale dell’essere umano”, che “per prima crea un dentro e un
4
1 s
fuori e conseguentemente la distinzione tra vivere e vedere, tra vi‐
s
a 3 m bro
cino e lontano, tra visioni conosciute e sconosciute […]. Il nomade
z z o m to
e il raccoglitore non hanno di fronte paesaggi, si orientano dentro
Bo mat men
reti del sentire e non del vedere” (Abruzzese, in Zagari 2006).
E tuttavia, come in altri casi si cerca di ampliare l’idea di pae‐
for esti saggio al di là dell’esperienza visiva, estendendola a suoni, ru‐
all
mori, odori, esperienze di tipo tattile, cioè all’intera gamma delle
relazioni percettive con il mondo, con il suo conseguente dissol‐
vimento nell’idea di ambiente, così in sociolinguistica tale termi‐
ne viene spesso utilizzato in modo generico per riferirsi alla si‐
tuazione linguistica in un dato paese o alla presenza e all’uso di
più lingue in una determinata area geografica. Il paesaggio lin‐
guistico diviene allora sinonimo di espressioni quali “mercato
linguistico”, “spazio” e soprattutto “ambiente linguistico” e il re‐
lativo studio finisce per identificarsi tout court con la cosiddetta
ecologia linguistica (di cui costituisce invece una sottodisciplina),
perdendo così la sua specificità e alimentando l’impressione di
una estensione approssimativa al campo della ricerca linguistica
di termini ambientalistici alla moda, non supportati da un’ade‐
guata elaborazione metodologica e teorica5.
co‐naturalistica e scenografica, privilegiata nella tradizione anglosassone
(landscape), il secondo rinvia anche ad elementi di carattere storico‐culturale,
tradizionalmente valorizzati nella corrispondente espressione francese (pay‐
sage) (cfr. Mela, Belloni, Davico 1998, p. 131). Trattandosi della visibilità delle
lingue storico‐naturali si è preferito perciò rendere sempre il termine inglese
con l’italiano “paesaggio”.
5
Anche “ecologia linguistica” è una nozione estremamente controversa
all’interno degli studi linguistici. Il suo ambito di riferimento è lo studio e la
228 Ilaria Tani
b/n sata
Al contrario, secondo Gorter (2006b) e Backhaus (2007) per la
delimitazione del paesaggio linguistico è importante conservare
00 fre
il riferimento, proposto da Landry e Bourhis (1997), alla visibilità
2
delle lingue nello spazio pubblico, escludendo altri usi linguistici
0x ura
non scritti e non esposti. La dimensione visiva è infatti un fattore
4
1 s
decisivo del legame privilegiato che i segni verbali esposti intrat‐
s
a 3 m bro
tengono con lo spazio, al quale attribuiscono significato, ricavan‐
z z o m to
done al tempo stesso la propria semanticità (indessicalità); inoltre
Bo mat men
è nello spazio visivo che il segno linguistico esercita la sua forza:
per mezzo della lingua in un certo senso il gruppo marca il terri‐
all
spazio urbano (simbolicità) (cfr. Millet 1998, p. 39).
Quest’ultimo punto appare particolarmente rilevante nella
prospettiva sociolinguistica. È evidente infatti che la componente
linguistica dei messaggi scritti nello spazio pubblico fornisce in‐
nanzitutto indicazioni sulla composizione sociolinguistica di una
determinata area abitata. Ma, accanto a questa funzione pro‐
priamente informativa, il paesaggio linguistico svolge anche una
funzione simbolica, giacché la competizione per la visibilità delle
lingue fa parte della rappresentazione del potere, del conflitto e
della solidarietà tra gruppi diversi (cfr. Volli 2005, p. 8). Mentre
dunque agisce come l’indicatore più evidente e immediato dello
status delle comunità linguistiche insediate in un certo territorio,
e dunque della vitalità etnolinguistica oggettiva (valutabile in mo‐
do quantitativo), il paesaggio linguistico influenza la percezione
soggettiva della propria e dell’altrui vitalità etnolinguistica, con‐
tribuendo così ad orientare la quantità e la qualità dei possibili
contatti tra i diversi gruppi e la formazione delle rappresentazio‐
difesa della diversità lnguistica, sollecitato dalla crescente minaccia di estin‐
zione che incombe su tante lingue del mondo. Per un quadro recente delle
questioni in gioco si rinvia in particolare a Cuzzolin (2003) e Dressler (2003) e
più in generale ai vari saggi contenuti nel medesimo volume dedicato a que‐
sto tema.
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 229
b/n sata
ni sociali esocentriche ed egocentriche (Landry, Bourhis 1997).
Se dunque la percezione, intesa come strumento di lettura
00 fre
dello spazio urbano, è al centro degli studi sul paesaggio lingui‐
2
stico, in gioco non può essere soltanto l’occhio e l’osservazione
0x ura
del ricercatore esperto, ma anche l’esperienza che dello spazio
4
1 s
linguistico urbano fanno i diversi abitanti e le diverse immagini
s
a 3 m bro
della città che ne risultano. Il problema delle differenze percetti‐
z z o m to
ve e quello del rapporto tra sapere esperto e sapere diffuso sono
Bo mat men
alcune delle questioni che emergono nella città contemporanea e
che lo studio del paesaggio linguistico dovrebbe consentire di
all
Con la distinzione tra dimensione informativa e dimensione
simbolica dei segni verbali nello spazio pubblico si ripropone in‐
fatti nell’ambito degli studi linguistici una polarizzazione analo‐
ga a quella che attraversa in generale gli studi sul paesaggio,
presi in una costante oscillazione tra una accezione oggettiva ed
una accezione soggettiva del termine, inteso ora come parte di
una realtà osservabile e conoscibile (fisionomia), ora come perce‐
zione o rappresentazione emotivamente ed esteticamente conno‐
tata del reale (immagine) (cfr. Gorter 2006a)6.
Questa distinzione ha evidenti ricadute sul piano epistemolo‐
gico e metodologico: la posizione soggettivistica esalta il ruolo
costitutivo dello sguardo, quella realistica assume il visibile come
traccia di qualcosa di non direttamente accessibile alla vista ma
che in qualche modo si rivela nella esteriorità e che l’osservatore
esperto può cercare di conoscere. Nel primo caso emerge l’esi‐
genza di un incontro tra discipline territoriali e discipline socio‐
psicologiche che si sostanzia nella adozione di metodi di indagi‐
ne narrativa, necessari alla comprensione del senso e del valore
prospettico di un territorio per una molteplicità di soggetti indi‐
6
Per un’analisi della doppia accezione del termine paesaggio (come carattere
o fisionomia e come percezione o immagine) in riferimento al testo della Con‐
venzione europea del paesaggio, del 2000, cfr. Priore (2006) e Socco (2007).
230 Ilaria Tani
b/n sata
viduali e collettivi (cfr. Mela, Belloni, Davico 1998); nel secondo
caso le discipline territoriali si trovano a doversi confrontare con
00 fre
analisi di tipo strutturale e tipologico, necessarie ad una più arti‐
2
colata comprensione della forma di un territorio, che per la sua
0x ura
ineludibile valenza storica e sociale sollecita una adeguata assun‐
4
1 s
zione di strumenti semiotici e culturali (Socco 2007).
s
a 3 m bro Lo studio del paesaggio non può comunque ridursi alla con‐
z z o m to
siderazione esclusiva dell’una o dell’altra prospettiva. Nel primo
Bo mat men
caso, infatti, il rischio è quello di rincorrere rappresentazioni dello
spazio potenzialmente infinite, non solo relative a ogni abitante o
all
mutamenti nel tempo, nel passaggio ad esempio da una genera‐
zione all’altra, in conseguenza del mutamento dei ritmi di vita e
degli spostamenti. L’esito sarebbe cioè l’esasperazione del sog‐
gettivismo o del relativismo nella percezione del paesaggio. Nel
secondo caso, la ricerca di criteri oggettivi porta ad affidare lo
studio del paesaggio ad esperti, dotati di competenze specialisti‐
che e rigore metodologico, il cui parere si rivela però spesso in
conflitto con il vissuto e l’opinione comune degli abitanti.
Analoghi problemi metodologici sorgono anche all’interno
degli studi sul paesaggio linguistico: anche in questo caso da un
lato si tratta di registrare oggettivamente le lingue usate nello
spazio pubblico, dall’altro di interpretare la funzione simbolica
della loro presenza e gli effetti sul piano sociale e cognitivo che
ciò produce sugli abitanti di una certa area urbana; il che ripro‐
duce anche in quest’ambito una potenziale frattura tra sapere
esperto e senso comune.
2. Le lingue di piazza Vittorio, tra aperture e conflitti
L’area dell’Esquilino costituisce un significativo banco di prova
per i problemi metodologici legati allo studio del paesaggio lin‐
guistico, ma anche per una riflessione sul concetto di periferia
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 231
b/n sata
culturale. Quartiere multietnico per eccellenza (assieme al Pigne‐
to), la zona di piazza Vittorio testimonia in modo esemplare la
00 fre
crescente presenza nel nostro paese di nuove forme di plurilin‐
2
guismo (ben distinte da quelle storicamente attestate nello spazio
0x ura
linguistico italiano e specificamente romano, cfr. De Mauro 1970
4
1 s
e 1987), il cui valore simbolico appare in un certo senso potenziato
s
a 3 m bro
dal contrasto con l’architettura umbertina che caratterizza que‐
z z o m to
st’area come una delle più rappresentative delle trasformazioni
Bo mat men
di Roma nel periodo post‐unitario. Il disegno a maglie quadran‐
golari, espressione dei valori di omogeneità, ordine, funzionalità
for esti posti alla base del progetto del rione7, destinato ad accogliere i
all
numerosi dipendenti pubblici provenienti dalla ex capitale pie‐
montese, si trova ormai da vari anni sottoposto ad un pressante
processo di riequilibrio socio‐politico e di reimmaginazione della
città (cfr. Del Marco e Mudu in questo volume), sollecitato dalla
presenza di un elevato numero di cittadini stranieri, appartenenti
a una duplice tipologia: immigrati (stabilizzati) e migranti (solo
in transito)8. Questa nuova composizione sociale del territorio
viene perlopiù percepita come fattore di disgregazione di una
presunta omogeneità sociale e di destrutturazione dello spazio
urbano, anche perché i gruppi immigrati non appaiono compati‐
bili con nessuna delle due principali linee di rilancio della città
oggi praticate: quella tecnocratica e quella cultural‐simbolica (cfr.
7
Approvato con il piano regolatore presentato da Viviani nel 1873 e realizza‐
to in gran parte nel corso degli anni ottanta dell’Ottocento.
8
Come ricorda Attili (2007, p. 142) la vicinanza della stazione Termini carat‐
terizza presto il quartiere come “un luogo di arrivo, di passaggio, di metic‐
ciato. Un luogo di incontro temporaneo”, determinando anche l’apertura di
un numero consistente di alberghi. Dalla seconda metà degli anni ottanta del
Novecento si registra però un forte incremento di popolazione straniera,
proveniente in particolare dalla Cina, e poi soprattutto dal Bangladesh, dalle
Filippine e dall’Africa sub‐sahariana. Questi nuovi residenti vanno a riempi‐
re un vuoto abitativo prodotto da un processo di spopolamento del centro
storico verso altre zone della città, avviato sin dai primi anni cinquanta.
232 Ilaria Tani
b/n sata
Guidicini 2003; Longworth 2007). Per questo l’Esquilino è oggi
spesso definito come un quartiere in bilico, ma anche come un la‐
00 fre
boratorio politico e sociale dell’esperienza urbana contemporanea.
2Negli ultimi anni la zona è stata oggetto non soltanto di inter‐
0x ura
venti di riqualificazione da parte dell’amministrazione cittadina
4
1 s
(spostamento del mercato dalla piazza alla caserma Pepe, riuso
s
a 3 m bro
della caserma Sani come sede universitaria, hotel Radisson, par‐
z z o m to
cheggio multipiano, Casa dell’architettura), ma anche di un cre‐
Bo mat men
scente interesse scientifico, in particolare nell’ambito della socio‐
logia (Mudu 2003 e 2006a; Di Luzio 2006; Bracalenti et al. 2009),
all
(Vedovelli 2002; Bagna, Barni 2006)9. Le ricerche condotte in que‐
st’ultimo campo, sebbene numericamente inferiori rispetto a quelle
registrate in altre discipline, costituiscono una novità significati‐
va sul piano metodologico, rappresentata dall’elaborazione tec‐
nica degli strumenti di analisi del paesaggio linguistico e dalla
applicazione del modello ad un contesto particolarmente com‐
plesso.
Gli studi sul paesaggio linguistico, precedenti e successivi alla
loro ufficiale istituzionalizzazione da parte di Landry e Bourhis
(1997), hanno generalmente prestato scarsa attenzione a contesti
urbani caratterizzati da forme di convivenza e contatto tra lingue
diverse legate a fenomeni migratori recenti. Per lo più sono state
indagate aree urbane storicamente contrassegnate da un alto
grado di plurilinguismo e attraversate da conflitti politici e socia‐
li, in cui il fattore linguistico gioca un ruolo importante (ad es.
Bruxelles, Montréal, Gerusalemme, ma per una ricognizione dei
casi di studio si veda Backhaus 2007). Oppure sono stati indagati
gli effetti della crescente diffusione dell’inglese sui diversi pae‐
9
Più recentemente Gorter (2009) è tornato ad analizzare il paesaggio lingui‐
stico dell’Esquilino assieme a quello di altre tre aree di Roma (Centro storico,
Trastevere, Termini), riprendendo sostanzialmente le linee della ricerca di
Bagna e Barni (2006).
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 233
b/n sata
saggi linguistici e sulle complesse relazioni tra lingue ufficiali e
lingue minoritarie (Gorter 2006c). Nel caso poi specifico di Roma,
00 fre
gli studi in questo settore (di numero comunque esiguo e non ri‐
2
feriti esplicitamente alla categoria del paesaggio linguistico) si
0x ura
sono concentrati da un lato sul “nuovo bilinguismo” indotto dalla
4
1 s
globalizzazione, rappresentato dalla incidenza della lingua ingle‐
s
a 3 m bro
se in insegne commerciali, targhe di edifici pubblici, quali musei e
z z o m to
monumenti, cartelloni e manifesti pubblicitari (Griffin 2004)10,
Bo mat men
dall’altro sul “vecchio plurilinguismo”, cioè sulla presenza e la
tenuta del dialetto e della varietà romana e giovanile d’italiano,
all
1998 e 1999)11.
La ricerca sulle lingue dell’Esquilino (Bagna, Barni 2006), con‐
dotta tra il 2004 e il 2005 nell’ambito dell’Osservatorio linguistico
permanente dell’italiano diffuso tra stranieri e delle lingue immigrate in
Italia (Vedovelli 2004), si muove invece nello specifico contesto
teorico e metodologico degli studi sul paeaggio linguistico. L’o‐
biettivo dichiarato è quello di indagare il grado di visibilità delle
lingue immigrate e migranti12, inteso come indice della loro vita‐
10
La ricerca, condotta su 17 strade di diverse aree della città, ha evidenziato
nel ricorso all’inglese la prevalenza di fattori di prestigio rispetto ad esigenze
di comunicazione internazionale.
11
In questa prospettiva le scritture esposte spontanee sono assunte come
“specchio del parlato”. Obiettivo di queste ricerche è pertanto lo studio delle
forme fonetiche sottese agli usi scritti, la percezione ingenua e irriflessa delle
varietà usate dai parlanti nativi, le forme di enunciazione mistilingui.
12
Questa distinzione, proposta da Bagna, Machetti, Vedovelli (2003), ricalca
quella relativa alle presenze straniere, stanziali o in transito. Le lingue dei
migranti, gruppi composti da poche persone e scarsamente coesi, difficil‐
mente si rendono visibili, mentre quelle degli immigrati, costituiti in gruppi
consistenti dal punto di vista numerico e in via di radicamento in un certo
territorio, hanno maggiori possibilità di entrare in contatto con le lingue par‐
late sul territorio di accoglienza e dunque di contribuire alla formazione di
un nuovo spazio plurilinguistico.
234 Ilaria Tani
b/n sata
lità13, e il grado di apertura/chiusura della comunicazione tra dif‐
ferenti gruppi linguistici, sulla base dell’ipotesi che la presenza
00 fre
delle nuove lingue sia in grado di modificare lo spazio linguistico
2
italiano e di contribuire al rafforzamento della diversità linguisti‐
0x ura
ca che da sempre caratterizza il nostro paesaggio linguistico.
4
1 s
Gli strumenti adottati sono quelli dell’approccio visuale, sia
s
a 3 m bro
per la raccolta dei dati, sia per l’elaborazione delle informazioni.
z z o m to
Per quanto riguarda il primo punto, in generale gli studi sul pae‐
Bo mat men
saggio linguistico devono molto all’incremento e alla diffusione
della fotografia digitale (il cui ruolo nello sviluppo di questo in‐
for esti dirizzo è paragonabile a quello che il registratore portatile ha
all
esercitato per l’elaborazione degli studi sulle varietà del parlato
negli anni sessanta del Novecento). Nel caso specifico della ricer‐
ca sull’Esquilino, grazie all’aiuto di fotocamere digitali collegate
a computer palmari è stato possibile catturare tutte le tracce lin‐
guistiche visibili all’interno del trapezio compreso tra via Giolitti,
viale Manzoni, via Merulana e via Cavour, riconducibili ad una
articolata tipologia testuale (costituita da insegne, opuscoli, ma‐
nifesti e annunci commerciali, messaggi personali, menu ecc.),
censite in un arco temporale delimitato14. Questi testi sono poi
stati classificati sulla base di una serie di variabili: lingue utilizza‐
13
La vitalità di una lingua e la sua capacità di affermarsi sul territorio di‐
pendono da molti fattori, tra i quali naturalmente è decisivo l’utilizzo che ne
viene fatto nei diversi momenti della vita sociale. A questo proposito vale la
pena ricordare che tra i differenti usi di una lingua (quotidiano, religioso,
culturale e scientifico, amministrativo, diplomatico, ecc.) quello commerciale
è uno dei più poveri, dal momento che ricorre alla massima semplificazione
e standardizzazione lessicale e sintattica (cfr. Barbina 1998, p. 53).
14
La rilevazione è stata condotta nell’ottobre del 2004 (nell’arco di cinque
giorni), prima della introduzione da parte dell’assessorato al commercio del
Comune di Roma delle norme relative alla dimensione delle scritte nelle in‐
segne commerciali e alla loro traduzione in italiano. Una seconda rilevazione
di controllo è stata svolta nell’aprile del 2005, per “verificare la portata di
questo intervento di politica linguistica” (Bagna, Barni 2006, p. 27).
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 235
b/n sata
te; unità lessicali; genere testuale; localizzazione; dominio d’uso;
contesto. Si è quindi proceduto al trattamento delle informazioni
00 fre
nella forma di una “mappatura” e di una “rappresentazione car‐
2
tografica” (Bagna, Barni 2006, p. 2) delle lingue censite, la cui vi‐
0x ura
sibilità e vitalità viene così focalizzata nella dimensione statica e
4
1 s
georeferenziata.
s
a 3 m bro Delle 24 lingue registrate nel rione di piazza Vittorio, alcune
z z o m to
presentavano un elevato numero di occorrenze: cinese, bengali, e
Bo mat men
naturalmente italiano e inglese; altre erano attestate da una sola
occorrenza: urdu, farsi, portoghese, polacco e ucraino; in posi‐
all
russo, l’arabo, il rumeno, ma anche lo spagnolo, il francese, il te‐
desco, il punjabi, il coreano e il giapponese; scarsamente rappre‐
sentate infine l’albanese, il tagalog, il turco.
L’analisi quantitativa del paesaggio linguistico ha consentito
di evidenziare un fenomeno rilevante della immigrazione recen‐
te: la mancanza di corrispondenza tra visibilità linguistica e cul‐
turale da un lato e consistenza numerica del relativo gruppo
etnico dall’altro. Ad esempio il tagalog è risultato decisamente
sottorappresentato, sebbene la comunità filippina alla data del 31
dicembre 2004, secondo i dati forniti dal Comune, costituisse
numericamente il secondo gruppo straniero tra i residenti nel I
Municipio15, e addirittura il più consistente in assoluto se si con‐
15
Con 2.122 unità, numero di poco inferiore a quello del primo gruppo costi‐
tuito dai cittadini del Bangladesh, pari a 2.154 unità. Riporto qui i dati relati‐
vi al 2004, forniti dal Comune di Roma, utilizzati nella ricerca di Bagna e
Barni (2006), perché è di quest’ultima che qui stiamo discutendo. D’altra par‐
te ciò che interessa in questa sede non sono gli aspetti prettamente numerici
di quella ricerca ma l’impostazione metodologica. È opportuno comunque
ricordare che per quanto riguarda il numero degli stranieri residenti nel
Comune di Roma, gli ultimi anni hanno registrato un incremento significati‐
vo passando dai 223.879 registrati nel 2004 (pari al 7,9% della popolazione
totale) a quasi 270.000 stranieri censiti all’inizio del 2008 (pari al 10% della
popolazione totale) (Comune di Roma, 2008).
236 Ilaria Tani
b/n sata
sidera l’intera superficie del Comune16. Viceversa la lingua cinese
appariva la più rappresentata sebbene il relativo gruppo etnico17
00 fre
fosse numericamente inferiore a quello dei bengalesi e dei filip‐
2
pini. Il che dimostra come la vitalità e la forza di una lingua non
0x ura
sia determinata dal numero dei parlanti, in valori assoluti e rela‐
4
1 s
tivi alla totalità della popolazione, ma dipenda soprattutto dal
s
a 3 m bro
tipo di attività lavorativa prevalente. Altri fattori che possono na‐
z z o m to
turalmente incidere sono poi l’eventuale partecipazione alla vita
Bo mat men
politica della città, la possibilità e la capacità del gruppo di gesti‐
re proprie istituzioni educative e culturali e di accedere linguisti‐
for esti camente e culturalmente allo spazio dei media. Dal punto di
all
vista informativo, la visibilità della lingua nello spazio pubblico
riflette dunque soprattutto la forza economica, politica e cultura‐
le del gruppo linguistico. Dal punto di vista simbolico, i differen‐
ti gradi di visibilità delle lingue influiscono certamente sulla
forza dei legami sociali all’interno della relativa comunità lingui‐
stica e sulle rappresentazioni identitarie interne, ma soprattutto
sulla rappresentazione del potere e dello status di quella comuni‐
tà e dunque sugli atteggiamenti e i comportamenti degli altri
gruppi nei suoi confronti e sulla quantità e qualità dei possibili
contatti tra parlanti lingue diverse.
Oltre alla presenza delle lingue nell’area dell’Esquilino, la ri‐
cerca ha anche indagato il loro relativo grado di dominanza e di
autonomia, attraverso la valutazione dell’incidenza di forme
d’uso monolingui, plurilingui e mistilingui nei testi censiti, indi‐
cative della chiusura e dell’apertura comunicativa tra le diverse
comunità linguistiche. I dati quantitativi non solo confermavano
la preponderanza del cinese nel paesaggio linguistico del quar‐
tiere (con 483 testi su un totale di 851 testi censiti), ma ne eviden‐
ziavano anche l’autonomia in un rilevante numero di testi (197),
16
Con 27.335 unità, seguito dai romeni, con 24.996 unità.
17
Con 1.194 unità nel I Municipio e 7.930 nell’intero Comune.
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 237
b/n sata
il cui monolinguismo segnala la scelta di “privilegiare specifiche
fasce di pubblico/parlanti/clienti” da parte di una comunità lin‐
00 fre
guistica “forte, compatta, chiusa nei suoi usi linguistici” (Bagna,
2
Barni 2006, pp. 31‐32). Per il resto veniva riscontrata però una
0x ura
netta preferenza per il plurilinguismo, rilevato nella maggior
4
1 s
parte dei testi raccolti: 457, contro 277 testi monolingui.
s
a 3 m bro La ricostruzione scientifica e oggettiva del paesaggio lingui‐
z z o m to
stico dell’Esquilino, condotta attraverso la raccolta sistematica e
Bo mat men
l’elaborazione cartografica delle scritture esposte, ci presenta
dunque una fisionomia caratterizzata da un sostanziale plurilin‐
for esti guismo e da una notevole apertura comunicativa tra i diversi
all
gruppi.
Tuttavia la percezione diffusa del quartiere e delle relazioni
socioliguistiche al suo interno è ben diversa. Come osserva Van‐
do (2007, p. 86), l’immagine che di questo territorio viene gene‐
ralmente fornita dai suoi stessi abitanti è quella di una stratifica‐
zione di “mondi”, che scivolano l’uno accanto all’altro, spesso
ignorandosi, mondi che evitano cioè “l’incontro, temendo lo
scontro o l’incomunicabilità”18. E questa percezione diffusa di
estraneità è legata anche alle nuove e diverse forme di appro‐
priazione linguistica dello spazio. Come sottolinea Halliday
(1983, p. 184), le persone si sentono minacciate dal fatto che altri
significhino in modo diverso da loro, “il problema non si pone a
livello di un diverso sistema vocalico, ma piuttosto di un diverso
sistema di valori”.
Questa rappresentazione di indifferenza o di esplicita conflit‐
tualità trova espressione piuttosto nel modo in cui la vita nel
quartiere viene rappresentata nella narrativa, basti pensare al
fortunato racconto di Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un
ascensore a piazza Vittorio (2006), in cui ciascun personaggio più
L’assenza di scambio tra i diversi gruppi dell’Esquilino resta una costante
18
anche delle ricorrenti rappresentazioni giornalistiche (cfr. il recente articolo
Esquilino, la città parallela, «Corriere della Sera», 05/09/2008).
238 Ilaria Tani
b/n sata
che “una serie contigua di luoghi (stanze, appartamenti, scale,
ascensori, piazze, via, giardini, ristoranti, bar, botteghe)”, abita
00 fre
differenti “sfere discorsive”, intraducibili e potenzialmente con‐
2
flittuali (cfr. Demuru in questo volume)19.
4 0x ura
Anche in questo caso si ripropone dunque il problema di una
1 s
divergenza tra sapere esperto e sentire comune, tra realtà perce‐
s
a 3 m bro
pita e rappresentazione scientificamente elaborata. Un contrasto
z z o m to
in parte dovuto anche alla metodologia di ricerca utilizzata negli
Bo mat men
studi sul paesaggio linguistico. Il metodo visuale e cartografico
infatti porta a ridurre la città, anche dal punto di vista linguistico,
all
e poligoni (Bagna, Barni 2006, p. 8), che non riesce a dar conto
della complessità delle interazioni socio‐linguistiche e dei reci‐
proci atteggiamenti tra i diversi gruppi di parlanti. Un orienta‐
mento che, come ha dimostrato Farinelli (2006), ha le sue radici
storiche nella vittoria del paradigma formale su quello sostanzia‐
le. Tale passaggio presuppone lo sgombero di ogni concreto es‐
sere umano dal piano della rappresentazione, organizzata con gli
strumenti della geometria euclidea, e l’assunzione di uno scarto
tra la conoscenza, intesa come attività ideale e rappresentaziona‐
le condotta da soggetti estranei all’oggetto indagato, e sapere si‐
tuato, quale attività riflessiva fondata sulle forme del vissuto e
dell’appartenenza.
Ma, come ha osservato Mondada (2000), l’analisi delle imma‐
gini della città richiede di considerare le diverse rappresentazioni
prodotte dai differenti attori che la abitano, la attraversano, la
studiano, i cui differenti sguardi possono contribuire nel loro in‐
19
Risponde ad una esigenza analoga di osservazione di diversi punti di vista
sul quartiere la raccolta di storie di vita dell’Esquilino a firma Samgati
(2006), che però registra forme di quotidianità molto meno conflittuali di
quelle messe in scena da Lakhous. L’area di piazza Vittorio continua peral‐
tro ad alimentare la scrittura narrativa su Roma: si veda, da ultimo, Tomma‐
so Pincio, Cinacittà, Einaudi.
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 239
b/n sata
sieme alla conoscenza e al miglioramento dello spazio urbano. E
nell’area di piazza Vittorio convergono molteplici tipologie so‐
00 fre
ciali e svariate modalità di vita (lavorative, di studio, abitative):
2
dagli abitanti stanziali e di vecchia generazione, agli immigrati di
0x ura
più lontano insediamento a quelli degli anni più recenti, agli stu‐
4
1 s
denti, ai turisti, ai commercianti (sempre meno romani e sempre
s
a 3 m bro
più stranieri), “forme diverse di consumatori metropolitani”, tutti
z z o m to
caratterizzati da differenti livelli di plurilinguismo (cfr. D’Ago‐
Bo mat men
stino 2007, p. 163). L’analisi qualitativa di queste diverse prospet‐
tive potrà servire a misurarsi con un decisivo problema semio‐
all
della esperienza che se ne fa” (Violi, Tramontana 2006, p. 110), a
come si costruisce cioè l’immagine coerente, unitaria, organica di
un luogo, di un quartiere e, soprattutto, a chi appartiene questa
immagine (cfr. Pezzini in questo volume).
Se si assume l’idea che la città non esiste come agglomerato di
edifici e di lingue, ma esiste nei discorsi dei parlanti (Halliday
1989) e che la rappresentazione di uno spazio è sempre filtrata
da valori sociali e culturali, dagli stili di vita, da visioni del mon‐
do, dalla memoria storica di un singolo, di una famiglia o di
un gruppo sociale, occorrerà considerare non solo il moltipli‐
carsi delle immagini della città e del quartiere ma anche le possi‐
bilità di una loro ricomposizione in un progetto di spazio
comune. Se infatti la frammentazione si accompagna ad un’as‐
senza di comunicazione tra individui e tra gruppi sociali può ri‐
sultarne un processo di perdita di senso della città, per lo meno
di alcune sue parti che appariranno come spazi destrutturati e
periferici, in quanto tali contrapposti ad aree simbolicamente for‐
ti e centrali.
La ricerca di una integrazione e il mantenimento di un costan‐
te dialogo tra rappresentazione esperta e percezione comune del
paesaggio linguistico (quest’ultima indagabile attraverso l’analisi
delle produzioni discorsive e narrative) può servire ad orientare i
240 Ilaria Tani
b/n sata
processi di strutturazione linguistica del rapporto dei parlanti tra
loro e con lo spazio urbano e contribuire in modo significativo
00 fre
alla comprensione di una città che appare sempre più lontana da
2
vecchie forme di isomorfismo linguistico, culturale e territoriale
0x ura
(Appadurai 2001).
4
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 1. Via Principe Eugenio
Formazioni e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino 241
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Figg. 2.‐ 3. Al mercato
242 Ilaria Tani
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 4. Via Carlo Alberto
b/n sata
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna
0 0Italiano e lingue immigrate
f re
2
x ra nei nuovi panorami linguistici *
0
4 ssu
1
a m b ro
3 m0. Introduzione
o zz to nIl presente contributo ha l’obiettivo di discutere gli esiti del con‐
t o
B ma me tatto linguistico nei cosiddetti “panorami linguistici urbani”, in
for esti particolare prendendo in considerazione il contesto italiano, do‐
all
ve la dialettica tra l’italiano e le lingue immigrate rappresenta la
principale e più visibile novità dell’ultimo decennio. Partiremo
quindi dall’analisi della condizione attuale dell’italiano e delle
sue dinamiche di contatto con i nuovi soggetti / attori linguistici,
in particolar modo nei contesti urbani, cioè le lingue immigrate,
che, in città come Roma, hanno cambiato il volto di alcuni quar‐
tieri e rioni. Secondo infatti le ricerche svolte nell’ambito del lingui‐
stic landscape (Landry, Bourhis 1997; Shohamy, Gorter 2008), la
disciplina che si occupa dei panorami linguistici, proprio i conte‐
sti urbani risultano essere i catalizzatori di fenomeni di contatto
linguistico che vanno ad evidenziare scelte linguistiche dei singo‐
li gruppi (quindi scelte dal basso, bottom‐up) o riflettono precise
scelte di pianificazione linguistica (cioè dall’alto, top‐down). Come
vedremo la situazione italiana è caratterizzata da uno squilibrio,
una ambiguità, dettata dalla condizione sociolinguistica italiana,
sottoposta da una parte a rimodellamenti proprio in seguito al‐
l’ingresso delle lingue immigrate, e, dall’altra parte, da una pre‐
valente riflessione su questioni linguistiche legata alla volontà di
Università per Stranieri di Siena, Centro di Eccellenza della Ricerca ‐ Osser‐
*
vatorio Linguistico permanente dell’italiano diffuso fra stranieri e delle lin‐
gue immigrate in Italia.
244 Italiano e lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani all’Esquilino
b/n sata
non vedere / sentire le lingue degli altri, o, nel momento in cui
sono visibili, di adottare provvedimenti per nasconderle.
2 00 fre
0x ura
1. Il quadro di riferimento
4
1 s s
a m b ro
3 m1.1. Il destino linguistico della società italiana
o zz to nalla italianizzazione e le forme del nuovo plurilinguismo italiano,
t o
Il destino linguistico della società italiana si gioca oggi tra la spinta
B ma me un neoplurilinguismo, che ha rimesso in discussione l’idea che,
for esti con la diffusione della lingua italiana secondo moduli unitari so‐
all prattutto nei decenni a partire dal secondo dopoguerra, l’assetto
idiomatico nazionale avesse raggiunto una stabilità tutta centrata
sulla espansione progressiva dell’italiano standard a scapito dei
dialetti1. Tale sviluppo non si è prodotto se non parzialmente: chi
poteva ipotizzare (se non, addirittura, auspicare) la semplifica‐
zione del nostro spazio linguistico, storicamente configurato in
termini tripolari, strutturato cioè intorno ai poli dell’italiano e
delle sue varietà, dei dialetti e delle loro varietà, delle lingue del‐
le minoranze di antico insediamento entro la Penisola, è stato
ampiamente smentito, proprio perché l’ingresso delle lingue im‐
migrate ha innescato una nuova dinamica che ha portato all’in‐
serimento di un quarto polo entro lo spazio linguistico nazionale:
quello, appunto, costituito dalle lingue immigrate. Tale conside‐
razione ha portato di recente a riconoscere anche nel contesto ita‐
liano una condizione di “superdiversità linguistica” (Barni, Ve‐
dovelli in stampa). Il concetto di “superdiversità”, introdotto da
Vertovec (2006, 2007) indica una situazione di diversità in cui la
pluralità e diversità di elementi è talmente notevole da oltrepas‐
sare quanto storicamente avvenuto in quel contesto, che viene a
1
Per l’ipotesi dell’azione di una dinamica di neoplurilinguismo entro la so‐
cietà italiana rimandiamo a Vedovelli (2007, 2008, in stampa).
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna 245
b/n sata
caratterizzarsi perciò come novità eccezionale. La superdiversità
linguistica appare essere la condizione normale dei contesti che
00 fre
tradizionalmente erano esenti dai flussi di immigrazione, e che
2
ora si vedono caratterizzati da nuovi assetti idiomatici in conse‐
0x ura
guenza dell’ingresso delle lingue immigrate, e da dinamiche e
4
1 s
tensioni sociolinguistiche mai prima esperite a livello di comuni‐
s
a 3 m bro
tà linguistica.
Bo mat men
guardando a questa ridinamizzazione degli assetti dello spazio
linguistico nazionale, e alla portata del fenomeno, a fronte del
for esti quale, però, sia le linee prese dalla ricerca scientifica, sia gli at‐
all
teggiamenti della politica istituzionale (soprattutto in ambito sco‐
lastico) hanno assunto un atteggiamento che possiamo chiamare
negazionista, o perlomeno riduzionista. In quali termini è presto
detto. Il problema della lingua degli immigrati in Italia si pone
oggi entro un complesso di questioni linguistiche nazionali più
ampio e articolato, che chiede alle prospettive sociolinguistiche
un contributo non tanto su uno specifico oggetto, ma su un qua‐
dro più ampio, nel quale le questioni linguistiche migratorie non
fanno altro che catalizzare una serie di dinamiche che ci spingo‐
no a parlare oggi dell’esistenza di una terza questione della lingua
per l’Italia, dopo la prima dei secoli passati, e la seconda succes‐
siva all’unità nazionale.
Come è stato già sottolineato (Barni, Villarini 2001), gli immi‐
grati hanno posto una nuova “questione della lingua”, che è stata
letta innanzitutto nei termini acquisizionali del loro rapporto di
apprendimento con la lingua italiana. Tale visione, sia pur neces‐
saria nella fase iniziale degli studi, ha costituito la condizione di
possibilità proprio per promuovere la nascita di una compiuta
linea di ricerca scientifica sulla materia, la linguistica acquisizio‐
nale: ciò non toglie che oggi appaia parziale, perché di fatto
guarda a una sola “faccia della luna”, appunto quella del rappor‐
to di apprendimento con la lingua di riferimento del loro conte‐
246 Italiano e lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani all’Esquilino
b/n sata
sto di vita. Le cose, però, proprio su questo punto cominciano a
complicarsi, innanzitutto perché tale contesto non è solo fatto
00 fre
dall’italiano, ma anche ed estesamente dai dialetti e da tutte le
2
loro varietà, soprattutto in aree non secondarie della Penisola.
0x ura
Poi, dato che guarda solo al rapporto degli immigrati stranieri
4
1 s
con la lingua italiana, acquisita negli spontanei rapporti di socia‐
s
a 3 m bro
lità o appresa nei corsi di lingua, trascura la condizione delle loro
z z o m to
lingue di origine, sia negli adulti, sia nei loro figli nati o arrivati
Bo mat men
piccoli in Italia. Che fine fanno queste lingue? Ignorarle, soprat‐
tutto negli atti normativi istituzionali, non significa che non esi‐
for esti stano e che non facciano sentire i propri effetti sulle dinamiche
all
idiomatiche generali della nostra società.
Ecco, allora, la necessità di una ricognizione sulla questione
non più solo della lingua italiana per gli immigrati stranieri, ma
delle lingue – italiano e lingue immigrate in contatto fra di loro.
1.2. Lingue immigrate vs. Lingue dei migranti
Per spiegare la rivoluzione linguistica in atto una delle distinzio‐
ni che abbiamo dovuto prevedere e considerare si basa sulla dif‐
ferenza tra il concetto di “lingua immigrata” e quello di “lingua
dei migranti”, la prima intesa come la lingua che ha assunto un
carattere di stanzialità e visibilità su un territorio, e quindi è po‐
tenzialmente più in contatto con le altre varietà presenti (Bagna,
Machetti, Vedovelli 2003), la seconda, intesa come la lingua di
gruppi non stanziali e fluttuanti su un territorio e quindi po‐
tenzialmente priva delle condizioni per un suo radicamento. La
distinzione nasce dall’analisi di dati quantitativi: sono ormai più
di 4 milioni i residenti di origine straniera sul territorio italiano
(Caritas 2008), un numero in crescita se si considerano gli effetti
delle sanatorie e il tasso di natalità. Da una parte il dato quantita‐
tivo ci fornisce esclusivamente una serie di elenchi dei Paesi di
provenienza e del numero di presenze, dall’altro possiamo inter‐
pretare questi dati in chiave linguistica: se i primi cinque Paesi
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna 247
b/n sata
residenti (il 50% di tutti gli immigrati in Italia) sono Romania,
Albania, Marocco, Cina, Ucraina, quali conseguenze possiamo
00 fre
prevedere per le lingue che questi gruppi parlano? Non esiste
2
una corrispondenza automatica tra Paese di provenienza e lingua
0x ura
parlata, non esiste una scelta automatica nemmeno in relazione
4
1 s
alle decisioni di mantenimento della lingua di origine rispetto
s
a 3 m bro
all’adesione della lingua del paesi di arrivo, non esiste un quadro
z z o m to
di riferimento normativo in relazione alle lingue di origine e al‐
Bo mat men
l’apprendimento dell’italiano. Tutti questi fattori, non scelte, non
assunzioni di responsabilità di fronte a una società che anche lin‐
all
di analisi, di interpretazione per rispondere alle seguenti doman‐
de: quante sono le lingue immigrate? quanti le parlano (quanti le
dimenticano / le rifiutano)? come sono parlate (e scritte)? chi le
insegna e chi le apprende? Assunta quindi la presenza di un nucleo
di lingue in grado di radicarsi sul territorio, per rilevare quante
sono occorre indagare il territorio, interrogarlo, mapparlo in tutte
le sue forme. Allo stesso modo vanno rilevati i locutori e il loro
livello di competenza, con la fluttuazione che le autodichiarazio‐
ni possono causare e la necessità quindi di modelli interpretativi
affidabili. Manca inoltre un progetto di mantenimento delle lin‐
gue immigrate, con la paradossale conseguenza che alcune delle
lingue immigrate sono oggetto di percorsi universitari, ma non
di percorsi nella scuola, per sviluppare competenze bilingue, in
cui le lingue di origine e l’italiano trovino un pieno equilibrio.
La questione della lingua per gli immigrati stranieri in Italia
deriva anche dall’assenza della prospettiva linguistica dalle ri‐
cerche generali sulle questioni dell’immigrazione straniera in Ita‐
lia, dove è prevalsa una prospettiva di impianto sociologico, o
dove le ricerche linguistiche (il primo studio è di Vedovelli 1981)
non sono entrate per molto tempo nel dibattito sull’immigra‐
zione e sulle conseguenze della presenza di lavoratori stranieri
(con le loro famiglie) in Italia.
248 Italiano e lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani all’Esquilino
b/n sata
2. Descrivere e mappare lo spazio linguistico italiano e
modelli interpretativi
2 00 fre
Il quadro delineato definisce i contorni di un paesaggio dai con‐
0x ura dello stesso più difficoltosa. Pertanto,
fini non netti, anzi costantemente fluttuanti che quindi rende l’a‐
nalisi 4e l’interpretazione
1 s s
a o del cambiamento dovuto alle lingue immigrate,
3 msotto la brspinta
per analizzare i cambiamenti dello spazio linguistico italiano, che
m
zz to nassume
o ogni giorno di più nuovi contorni, modellati da spinte
o t
B ma me ve, è necessario individuare nuovi modelli e approcci di ricerca.
interne ai singoli gruppi di locutori ed esterne, le scelte normati‐
r
fo esti L’obiettivo è infatti dotarsi degli strumenti più adeguati per rile‐
all vare l’influsso delle lingue immigrate, il ruolo dell’italiano di
contatto, il nuovo assetto linguistico nazionale. Le implicazioni
in vista di una possibile politica linguistica riguardano il sistema
formativo, la posizione e il ruolo dell’educazione linguistica (di‐
battito ampiamente presente anche in paesi coinvolti da più
tempo da flussi migratori, con scelte però formative ben definite,
quali Canada, Australia, Francia ecc.); l’italiano per gli immigrati,
diritto‐dovere; la riflessione sulle competenze linguistiche degli
italiani, il rapporto con le politiche linguistiche europee e le “sfi‐
de” europee (v. documento Una sfida salutare, 2008).
Di fronte all’esigenza di affrontare la questione linguistica, i
modelli di analisi che parlano di un “mercato globale delle lin‐
gue” (Calvet 2002; Maurais 2003) dove le lingue vivono rapporti
di forze diverse, ma rispondenti agli stessi principi di un merca‐
to, quindi con sviluppi diversificati a seconda della qualità /
quantità di investimenti, a seconda delle politiche da cui ven‐
gono interessate, e dei panorami semiotici / linguistici urbani,
cioè l’analisi di come vengono rimodellati i contesti urbani (e non
solo) a seconda dei rapporti dinamici che si creano tra le lingue,
esercitano una particolare attrazione come modelli in grado
di rispondere a sistemi di compresenze e relazioni di lingue sem‐
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna 249
b/n sata
pre più complessi. Il modello del “mercato globale delle lingue”
ha infatti avuto particolare rilievo nell’interpretare la condizione
00 fre
dell’italiano nel mondo (De Mauro et al. 2002) così come l’analisi
2
dei panorami linguistici permette di comprendere i rapporti tra
0x ura
le lingue, e di conseguenza i gruppi, presenti in un territorio. La
4
1 s
visibilità delle lingue attraverso le scritte plurilingui presenti
s
a 3 m bro
in un determinato territorio è alla base del concetto di linguistic
z z o m to
landscape (LL) elaborato da Landry e Bourhis (1997) e svilup‐
Bo mat men
patosi sempre di più negli ultimi anni, grazie all’apporto delle
scienze geografiche e all’evolversi delle tecnologie informatiche
for esti (Gorter 2006d; Shohamy, Gorter 2008; Barni, Extra 2008; Shoha‐
all
my, Ben Raphael, Barni in stampa). Una rapida ricognizione del‐
le più recenti ricerche di LL mette in evidenza il fatto che sono i
contesti urbani a risultare più interessanti, a livello quantitativo e
qualitativo e pertanto più significativi per una lettura e interpre‐
tazione delle dinamiche linguistiche che in essi si sviluppano2.
Tale dato, già rilevato in contesti più tradizionali di compresenza
di minoranze ufficiali su un territorio, quindi di analisi del LL ai
fini anche di gestione del governo di quelle aree, ha assunto un
sempre maggior peso anche in quei contesti coinvolti da inse‐
diamenti più o meno recenti di tipo immigratorio.
3. Le metodologie
L’approccio del linguistic landscape rappresenta uno dei piani del‐
la ricerca, quello degli usi linguistici esibiti nei contesti di comu‐
nicazione sociale, che abbiamo definito come “visibilità statica”
delle lingue. Le lingue immigrate lasciano tracce nei panorami
linguistici urbani tramite le insegne, i manifesti, le scritte, crean‐
2
Il dato è confermato anche dalle relazioni presentate su questi temi all’in‐
terno del convegno LPLL, Language Policy and Language Learning Confe‐
rence, svoltosi a Limerick, giugno 2009.
250 Italiano e lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani all’Esquilino
b/n sata
do un ambiente plurilingue dove, come vedremo, anche i testi
mistilingui hanno uno spazio notevole. Tale piano è complemen‐
00 fre
tare ad altri nei quali i parametri di osservazione utilizzati ri‐
2
guardano la presenza di parlanti delle lingue immigrate, e quindi
4 0x ura
il loro peso demografico e la loro localizzazione (aree di residen‐
1 s
za, quartieri) e le loro dichiarazioni d’uso, gli atteggiamenti e le
s
a 3 m bro attitudini linguistiche e gli usi e gli atteggiamenti dei nativi.
Bo mat men
della Ricerca dell’Università per Stranieri di Siena, il grado di pe‐
netrazione delle lingue sul territorio viene misurato in termini di
for esti
‐ presenza delle lingue;
all
‐ vitalità dichiarata;
‐ visibilità / interazione / uso.
Il carattere che contraddistingue le tre dimensioni è la georeferen‐
zialità: tutti i dati raccolti sono georeferenziati, per questo motivo
il terzo modello è, in termini di elaborazione, il più complesso,
ma garantisce anche, a livello quantitavo e qualitativo, un mag‐
giore accesso ai dati linguistici.
Per acquisire dati relativi alla terza dimensione, come è avve‐
nuto all’Esquilino, si utilizzano tre tipi di strumenti: la rilevazio‐
ne fotografica dei testi individuati nello spazio sociale, il loro
trattamento per la creazione di carte del territorio in cui è stata
individuata la loro presenza e l’analisi linguistica dei testi conte‐
nuti. Tutte le operazioni di rilevazione, di analisi geografica e
linguistica sono realizzate su supporto informatico. Il supporto è
rappresentato dal software MapGeoLing 1.0.0, che è strutturato in
una versione PALM, per la raccolta dei dati al momento della ri‐
levazione e una prima immediata catalogazione dei tratti che non
possono essere fissati con una fotografia, e in una versione PC
per l’analisi in sede, successiva alla rilevazione sul campo, del
dato linguistico (Barni, Bagna 2008).
Il programma MapGeoLing 1.0.0 consente prima di tutto di ri‐
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna 251
b/n sata
levare la frequenza delle occorrenze delle tracce delle lingue pre‐
senti in un determinato spazio sociale e in secondo luogo di ana‐
00 fre
lizzarle. Il prodotto finale ottenuto attraverso l’indagine è una
2
carta geolinguistica del territorio oggetto di rilevazione: in essa
0x ura
(ad esempio la pianta di una città o di un determinato quartiere)
4
1 s
sono evidenziati una serie di punti associati ciascuno a delle fo‐
s
a 3 m bro
tografie di testi in cui sono presenti esotismi, collegati al relativo
z z o m to
record contenente l’analisi linguistica del testo. I dati raccolti con
Bo mat men
il MapGeoLing 1.0.0 arricchiscono quindi un Personal Geodataba‐
se che consente una vasta gamma di analisi: ogni record del Geo‐
all
tura del fenomeno del contatto. Non è solo possibile capire quali
e quante lingue sono presenti in un determinato territorio, ma
anche come sono disposte l’una rispetto all’altra, cioè il grado di
interrelazione che ciascuna lingua stabilisce con le altre, o ancora
in quali generi testuali si manifesta maggiormente una identità
linguistica, per quali tipi di comunicazione (ad es., privata, rivol‐
ta solo ai membri della stessa comunità, o pubblica, aperta anche
a persone appartenenti a comunità diverse), in quali contesti e in
quali luoghi viene utilizzata.
L’analisi degli esotismi nel contesto sociale in cui sono attesta‐
ti può aiutarci a comprendere le modalità e il grado di penetra‐
zione di una lingua, la dimensione del suo uso a livello intraco‐
munitario, gli atteggiamenti nei confronti di determinati usi ecc.
Allo stesso modo, in presenza di più lingue, ad esempio l’italiano
o l’inglese o di altre lingue veicolari, si possono evidenziare le
funzioni di tali lingue rispetto alle comunità che le utilizzano, usi
intercomunitari, intracomunitari, esocomunitari.
Il risultato che si ottiene in seguito all’applicazione di questo
modello di analisi è una ricognizione del territorio che evidenzia
la visibilità delle lingue immigrate, visibilità realizzata attraverso
la dimensione scritta di tali lingue: un’insegna, un manifesto, un
menù, una scritta sul muro, per quanto soggetti a possibili e re‐
252 Italiano e lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani all’Esquilino
b/n sata
pentini cambiamenti, definiscono in modo permanente, almeno
nel medio periodo, i rapporti tra le lingue e le comunità che le
00 fre
parlano in un territorio. Ricordiamo infatti che le scritte delle in‐
2
segne, delle vetrine dei negozi, dei cartelloni pubblicitari, all’e‐
4 0x ura
sterno dei luoghi di culto ecc. non rimandano solo ad un univer‐
1 s
so culturale, ma indicano la forza di una comunità che si rende
s
a 3 m bro visibile attraverso l’uso della propria lingua, ovvero il bisogno di
z z o m to identità che i singoli e i gruppi manifestano.
Bo mat men
for esti 4. Il caso Esquilino
all 4.1. L’Esquilino: il paradigma della superdiversità italiana?
Problemi di integrazione degli immigrati sono indubbiamente
presenti anche in Italia, soprattutto in quelle realtà dove la con‐
centrazione supera soglie ritenute da alcuni studiosi di sociologia
come un limite alla percezione del diverso come nemico. Con il
modello di mappatura delle lingue in contatto in contesto migra‐
torio denominato Esquilino dal Centro di Eccellenza senese il ri‐
schio dei conflitti fra culture e gruppi etnici emerge in maniera
vistosa.
Come è noto, l’Esquilino è il quartiere più multietnico della
Capitale: il suo spazio sociosemiotico è contraddistinto da una
babele di alfabeti, suoni, lingue come in poche altre aree italiane.
La stessa struttura portante del quartiere, il mercato, che è il più
importante di Roma, è profondamente cambiata in seguito al‐
l’immigrazione: i banchi sono per lo più gestiti da immigrati, i te‐
sti nelle loro lingue campeggiano sistematicamente nelle insegne,
le merci che si possono trovare sono anche molto diverse da
quelle cui sono abituati gli acquirenti italiani e rispondono alle
esigenze dei molti immigrati.
La mappatura effettuata sulle forme linguistiche della comu‐
nicazione sociale (insegne, manifesti, avvisi ecc.) ha messo in
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna 253
b/n sata
evidenza una notevole pluralità idiomatica: sono 24 le lingue
manifeste all’Esquilino, ma anche questa volta la loro distribu‐
00 fre
zione non è casuale. Le mappe mettono in luce la concentrazione
2
di tale multilinguismo in un’area cittadina comunque ristretta,
0x ura
ma anche la suddivisione del territorio secondo confini i cui tratti
4
1 s
sono dati dai testi nelle varie lingue immigrate, che vengono a
s
a 3 m bro
fungere da veri e propri segnali di territorio. Bagna e Barni (2006)
z z o m to
hanno messo in luce come le scelte multilingui della testualità
Bo mat men
nell’area considerata rispondano a scelte di apertura e inserimen‐
to da un lato, chiusura del gruppo immigrato dall’altro. Le 15 ti‐
for esti pologie di testualità reperite nella comunicazione sociale dell’E‐
all
squilino si collocano entro un continuum giocato fra i poli del
monolinguismo e del plurilinguismo: monolinguismo in lingua
immigrata o in italiano o in una lingua internazionale; plurilin‐
guismo che combina l’italiano, una o più lingue immigrate, una o
più lingue internazionali. Solo apparentemente ci si trova di
fronte a una babele di idiomi senza logica; l’analisi delle mappe
geolinguistiche mostra invece una ripartizione del territorio che
appare segnato da confini che ripetono i confini fra Paesi o grup‐
pi in conflitto, e che tiene separate le diversità politico‐religiose.
Si può dire che le lingue, nella loro effettuale varietà, non ri‐
spondono solo alle esigenze strumentali di comunicazione in un
contesto ad alta densità di persone di origine diversa, ma segna‐
lano anche identità con confini impalpabili ma ben netti. Succes‐
sive indagini realizzate dall’Osservatorio in altre città italiane
(Prato, Firenze, Arezzo, Ferrara, Torino), nelle quali sono stati
analizzati in relazione reciproca i dati rilevati attraverso i tre
modelli di indagine sulla presenza, gli usi e la visibilità delle lin‐
gue, hanno avvalorato l’ipotesi che le lingue, anche se ormai ri‐
conducibili entro lo statuto di immigrate, presentano tratti diffe‐
renziati e dipendenti dalle diverse condizioni di contatto createsi
nel territorio in cui si sono stanziate (Barni 2008; Barni, Bagna in
stampa). Le condizioni e gli esiti del contatto sono vari e dipen‐
254 Italiano e lingue immigrate nei nuovi panorami linguistici urbani all’Esquilino
b/n sata
dono da fattori quali, oltre all’atteggiamento dei parlanti nei con‐
fronti della propria lingua, anche le caratteristiche demografiche,
00 fre
sociali, culturali, linguistiche del territorio in cui si insediano,
2
compreso fra queste anche il tempo di permanenza degli immi‐
0x ura
grati in quel territorio. Giocano un ruolo anche le scelte di politi‐
4
1 s
ca linguistica del Paese ospite: nel caso dell’Italia non si tratta di
s
a 3 m bro
politiche globalmente rivolte al riconoscimento delle lingue im‐
z z o m to
migrate, ma di isolate azioni motivate da specifici orientamenti
Bo mat men
politici.
L’indagine ha confermato che la città di grandi dimensioni,
all
e combinarsi in una vasta gamma di usi. Infatti, i testi presenti
nello spazio di comunicazione sociale all’Esquilino mostrano un
panorama linguistico urbano assai complesso e vario: le scelte
monolingui rappresentate dall’uso di una sola lingua immigrata
o del solo italiano si aprono a innumerevoli possibilità di intrecci
con altre lingue, ampliando il grado di plurilinguismo e di aper‐
tura degli usi linguistici.
Nelle città di dimensioni più ridotte, invece, le lingue dei
gruppi immigrati sono sottoposte a una maggiore pressione da
parte della lingua del luogo. Ne sono un esempio i dati rilevati a
Monterotondo e Mentana, intorno a Roma (Bagna, Barni 2005;
Barni, Bagna in stampa). In questi contesti urbani, pur in presen‐
za di un tasso molto elevato di immigrati stranieri, e di una spic‐
cata volontà al mantenimento degli usi linguistici di origine –
soprattutto della lingua rumena, lingua della comunità immigra‐
ta più numerosa nel territorio – lo spazio di comunicazione socia‐
le è quasi completamente impermeabile alla presenza e alla visi‐
bilità delle lingue. Lo stesso dato è confermato in altre città come
Ferrara, Arezzo, Firenze (Barni, Bagna in stampa): in tutte queste
le lingue degli immigrati sono schiacciate sotto il peso dell’italia‐
no o delle lingue del turismo come l’inglese. Nel caso di Monte‐
rotondo e Mentana, la visibilità delle lingue si è manifestata, e
Massimo Vedovelli, Monica Barni, Carla Bagna 255
b/n sata
comunque in modo molto ridotto, dopo molti anni che la comu‐
nità immigrata si era stanziata sul territorio.
2 00 fre
0x ura
5. Conclusioni
4
I 1 s se analizzati nei diversi contesti urbani mostrano
ro
3 mche differenti forze agiscono sull’assetto linguistico di un territo‐
dati rilevati
a m b
o zz to nsenza di diverse lingue immigrate, soprattutto in Italia dove ogni
t o
rio. Non tutte le città sono permeabili allo stesso modo alla pre‐
B ma me città è caratterizzata dalla presenza di un plurilinguismo storico
for esti e da diverse compagini e combinazioni di gruppi immigrati che
al l agiscono sul territorio con differenti dinamiche di mantenimento
e visibilità delle loro lingue. Nel caso della visibilità delle lingue
nei contesti urbani, la dimensione della città rappresenta uno dei
fattori che la favoriscono. Ma comunque, anche altri fattori lin‐
guistici, extralinguistici e contestuali concorrono alla continua
ricofingurazione, sotto la spinta dell’uso, dello spazio linguistico.
nPaolo Demuru
b sat a
/
0 fre
Abitare punti di vista. Identità,
0
2
0x ura
credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà
4 s
per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous
1 s
a 3 m bro
z z o m 0. Introduzione
t o
o t n
B ma me Negli ultimi anni il rione romano dell’Esquilino è stato al centro
for esti di una serie di discorsi – musicali, letterari, cinematografici, acca‐
all demici – sui temi del multiculturalismo, dell’immigrazione, della
diversità culturale. Senza enfasi alcuna, si potrebbe parlare di
una vera e propria proliferazione testuale, una crescente emersione
di narrazioni e punti di vista che ha contribuito, parallelamente
agli interventi architettonici e alla crescita dei flussi migratori
(Mudu 2003 e 2006a), alla definizione di un’identità e di un valo‐
re propri del quartiere – e, nello specifico, di Piazza Vittorio
Emanuele II, che sembra aver assunto rispetto al termine “Esqui‐
lino” una funzione sineddotica. Si pensi ad esempio al successo ri‐
scosso sulla scena italiana e internazionale dal film‐documentario
L’orchestra di Piazza Vittorio, che racconta la nascita e le successive
evoluzioni della band omonima, composta da musicisti di diver‐
se nazionalità o, ancora, alla raccolta di storie di vite curata dal
collettivo a firma Samgati (2006) e al romanzo di Tommaso Pin‐
cio Cinacittà (2008).
Di fronte a una così cospicua mole di testi e narrazioni, il se‐
miologo è chiamato ad una duplice presa. Se è vero infatti che,
da un lato, è la città con le sue matrici e i suoi corpi a produrre
discorsi e determinare forme e stili di vita, dall’altro non bisogna
dimenticare che essa è anche il risultato delle narrazioni e dei di‐
scorsi che parlano di lei, che “la parlano”, un effetto di senso che
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 257
b/n sata
emerge dall’intersezione e dall’interazione dei linguaggi che la
descrivono, la immaginano, la rappresentano (Marrone e Pezzini
00 fre
2008, p. 8). Si tratta di due livelli inscindibili, che necessariamen‐
2
te devono procedere assieme nell’analisi.
4 0x ura
Al fine di approfondire e integrare lo spettro delle prospettive
1 s
teoriche e metodologiche tracciate dagli studi sull’Esquilino pre‐
s
a 3 m bro
senti in questo volume, ci sembra pertanto opportuno focalizzare
z z o m to
il nostro contributo su questo secondo livello di presa sulla città,
Bo mat men
che con Marrone e Pezzini (2008) potremmo definire “città enun‐
ciata”: spiegata da e dispiegata nei discorsi che al contempo la
all
In particolare, ci soffermeremo qui sul discorso letterario,
prendendo in esame il romanzo dello scrittore algerino Amara
Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2006),
giunto ormai, ad appena tre anni dalla sua pubblicazione, alla
settima ristampa. Beninteso, non è nostra intenzione fornire una
lettura formale ed esaustiva del racconto di Lakhous, dei suoi re‐
gistri stilistici (seppur complessi e variegati) o dei suoi echi inter‐
testuali (Gadda in primis)1. Al contrario, ciò che più di ogni altra
cosa ci interessa è mostrare come Scontro di civiltà ci dica qualco‐
sa di assolutamente rilevante sulle forme dell’abitare e sulle confi‐
gurazioni identitarie che compongono oggi il tessuto sociale e
culturale del quartiere Esquilino.
Ci sembra questo un punto che merita ulteriori chiarimenti,
1
I riferimenti e le allusioni all’opera di Gadda riguardano in particolare Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana, pubblicato per la prima volta in volume
nel 1957 (Garzanti). Oltre alle forme e alle convenzioni di genere (come il
Pasticciaccio, Scontro di civiltà ruota intorno ad un omicidio commesso in un
palazzo del quartiere), allo stile che alterna diversi registri linguistici (italia‐
no e dialetto romano), entrambi i romanzi sembrano fondare la descrizione
della piazza e del quartiere sulle figure del mondo alimentare: se nel primo
sono la porchetta di Ariccia, il timo e il rosmarino a costituire l’universo fi‐
gurativo dell’Esquilino dei primi del Novecento, nel secondo la stessa fun‐
zione è svolta dalle spezie arabe e dai piatti peruviani.
258 Paolo Demuru
b/n sata
dato che tocca direttamente sia la questione della specificità e
della complementarietà del nostro articolo rispetto all’architettu‐
00 fre
ra globale del volume, sia – al livello della teoria generale – quel‐
2
la dello statuto della testualità nell’analisi semiotica delle culture.
4 0x uraAnalizzare un testo come Scontro di Civiltà in relazione alla
1 s
problematica della scrittura e del consumo dei luoghi implica in‐
s
a 3 m bro fatti ragionare insieme:
z o m (i) tosu ciò che il testo – in quanto “modello ridotto” (Lévi‐Strauss
z
Bo mat men(ii) 1962) – ci restituisce della fruizione del quartiere Esquilino;
for esti
sulla sua capacità di “configurarne” (prima) e “rifigurarne”
(poi) interpretazioni e pratiche, per usare due termini cari a
all Paul Ricoeur. Non è un caso, crediamo, che nei suoi studi su
architettura e narratività il filosofo francese ponesse la que‐
stione dell’abitare esattamente in rapporto alla relazione
configurazione‐rifigurazione nel modello delle tre mimesis,
ricordando che ogni abitare è sempre un “abitare riflessivo”,
in cui convivono memorie di costruzioni narrative prece‐
denti (Ricoeur 2008, p. 69). Non solo. Tale riflessività non
appartiene unicamente al tempo della rifigurazione, della
“rilettura” di configurazioni semiotiche date. Rinnovandosi
continuamente in una sorta di moto circolare, essa diviene
altresì in grado di “prefigurare” il nostro rapporto con l’e‐
sterno, emanando “la sua aura di contesto […] esattamente
come un edificio che con il suo stile influenza la percezione
di ciò che gli sta intorno” (Sedda 2006, p. 51). Un po’ come
quando prima del viaggio ci facciamo un’idea previa del
luogo che visiteremo attraverso racconti, romanzi, guide, ri‐
viste.
Ora, tutto ciò non significa pensare il testo come qualcosa di
chiuso e autosufficiente. Al contrario, significa considerarlo come
un punto di stabilità all’interno di processi di natura più ampia
(Violi 2007, p. 188), la cui analisi – da correlare con indagini e ri‐
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 259
b/n sata
flessioni di altro spettro – è tuttavia funzionale alla ricostruzione
stessa della rete di cui è snodo.
00 fre
Il presente contributo è da leggere allora unicamente come un
2
tassello dell’ampia ricerca sull’Esquilino e su Roma condotta in‐
0x ura
sieme dagli autori di questo libro. Tenendo presente questo pun‐
4
1 s
to, ciò che qui proponiamo è un’analisi di Scontro di Civiltà in
s
a 3 m bro
chiave semiotico‐culturale, secondo una prospettiva che affianchi
z z o m to
alla riflessione sull’abitare un’indagine sui temi del conflitto, del‐
Bo mat men
la stereotipia e dell’intraducibilità tra differenti punti di vista
(Bhabha 1994; Lotman 1985).
all
che intendiamo porre al centro della nostra riflessione, che ci
permetterà di approfondire e declinare sul discorso letterario il
problema del rapporto tra spazialità e cultura: la questione della
credenza. La nostra ipotesi è che in Scontro di civiltà siano proprio
credenze di vario ordine – in quanto “tipizzazioni prodotte da
usi discorsivi” (Fabbri e Marrone 2001, p. 271) – a definire (i) da
una parte, la pratica degli spazi e il loro investimento valoriale e
(ii) dall’altra, la relazione con le persone – le alterità – che li abi‐
tano. L’articolo si suddividerà pertanto in due sezioni: nella pri‐
ma ci proponiamo di indagare il punto di vista sullo spazio; nella
seconda, il punto di vista sull’altro.
Prima di entrare nel vivo dell’analisi, occorre tuttavia descri‐
vere rapidamente il nostro oggetto.
1. Breve nota su Scontro di Civiltà per un ascensore a
Piazza Vittorio
Uscito per la prima volta nel 2003 in Algeria con il titolo Come
farsi allattare dalla lupa senza che ti morda, Scontro di Civiltà per un
ascensore a Piazza Vittorio ha riscosso sin dalla sua prima pubbli‐
cazione un inaspettato successo all’interno del panorama edito‐
260 Paolo Demuru
b/n sata
riale italiano. Attualmente è in corso di stampa in Inghilterra,
Germania e Olanda, mentre ad Agosto 2008 sono iniziate le ri‐
00 fre
prese dell’omonimo film (diretto da Isotta Toso). Crocevia di ge‐
2
neri letterari (satira, commedia, noir) e forme linguistiche (ita‐
0x ura
liano, arabo e dialetti si rincorrono vicendevolmente), il romanzo
4
1 s
narra dell’omicidio di un giovane ragazzo romano, Lorenzo
s
a 3 m bro
Manfredini, il cui corpo senza vita è trovato all’interno dell’a‐
z z o m to
scensore di un condomino di Piazza Vittorio. La struttura narra‐
Bo mat men
tiva è piuttosto semplice e schematica: uno alla volta, frequenta‐
tori e inquilini del palazzo – Dandini il romano, Esposito la
for esti napoletana, Marini il milanese, Gonzáles la peruviana, Samadi
all
l’iraniano, Amir Allah il bengalese, Van Marten l’olandese, ecc. –
espongono al commissario Bettarini la propria versione dei fatti,
rimarcando puntualmente e unanimemente l’innocenza e il non
coinvolgimento nella vicenda di Amedeo, protagonista del rac‐
conto e principale sospettato per l’omicidio, sparito da giorni
senza lasciare traccia. Ogni versione costituisce un punto di vista
autonomo e relativamente chiuso sull’accaduto, sulla vita del
quartiere e sulla vera identità di Amedeo (Ahmed, come scopri‐
remo alla fine), rifugiato algerino emblema di una riuscita inte‐
grazione – traduttore di professione, non a caso – e che molti per‐
sonaggi non considerano neanche un “immigrato”, ma “uno del
sud”, come lui stesso ama definirsi.
Ogni capitolo, il cui titolo (“la verità di Parviz Mansoor Sa‐
madi”, “la verità di Benedetta Esposito”) sta a ricordare insieme
la parzialità e la chiusura delle singole deposizioni, è seguito da
un intervento (ululato) di Amedeo che, in una sorta di narrazione
diaristica, racconta del suo passato, dei suoi turbamenti emotivi e
delle proprie impressioni sui personaggi chiamati a deporre.
Dopo aver passato in rassegna le voci di tutti i personaggi, il
libro si chiude infine con la rivelazione dell’innocenza e della ve‐
ra nazionalità di Amedeo, investito da un auto poche ore prima
dell’omicidio di Manfredini e ricoverato d’urgenza. Ad uccidere
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 261
b/n sata
il ragazzo è stata Elisabetta Fabiani, inquilina del secondo piano
alla quale Manfredini aveva rubato il cane (Valentino).
00 fre
In una composizione linguistico‐narrativa in cui risuonano gli
2
echi del Pasticciaccio (e altre gaddiane memorie), l’omicidio e le
4 0x ura
discordie dovute al corretto utilizzo dell’ascensore divengono
1 s
così il pretesto per riflettere sulle compatibilità e sulle incompati‐
s
a 3 m bro bilità tra i diversi punti di vista, orizzonti prospettici in cui il
z z o m to quartiere, la città, l’identità e l’alterità trovano di volta in volta
Bo mat men
una disposizione del tutto peculiare e dove la forza categorizza‐
trice dello stereotipo gioca un ruolo di primo piano.
for esti
all 2. Il punto di vista sullo spazio (ovvero, abitare cosa?)
Descritti in termini generali lo scheletro e la fabula del racconto,
cerchiamo ora di osservarne in profondità, sulla base delle pro‐
blematiche individuate in precedenza, i modelli e le strutture di‐
scorsive.
Per quanto riguarda la questione del punto di vista sullo spa‐
zio, la nostra ipotesi è che ogni singolo personaggio, più che una
serie contigua di luoghi (stanze, appartamenti, scale, ascensori,
piazze, vie, giardini, ristoranti, bar, botteghe), abiti una sequenza
discontinua di sfere discorsive2 (il più delle volte incomunicanti)
delimitate da specifiche credenze – linguistiche, percettive, ali‐
mentari, calcistiche e via dicendo. O meglio, si potrebbe dire che
è esattamente il potere dispositivo3 (Deleuze 1989; Bhabha 1994) di
tali credenze a ridefinire di volta in volta la relazione semiotica –
2
Si intende qui “sfere discorsive” nel senso di Volli (2005, p. 69), ossia am‐
bienti semiotici fortemente normativizzati e retti da forme di sapere e dovere
sedimentate tramite l’uso.
3
Per una riflessione più approfondita sul concetto di dispositivo cfr. § 3. Per
ora basti dire che la credenza funziona come un quadro di coordinate valo‐
riali e affettive culturalmente sedimentate entro cui viene disposta e ricondot‐
ta l’esperienza della città.
262 Paolo Demuru
b/n sata
al contempo pragmatica, cognitiva, estesica e passionale – tra i
singoli attori e i luoghi praticati.
2 00 fre
2.1. Parviz Mansoor Samadi e la valenza percettiva dello spazio
4 0x ura
1 s s
Tale tendenza sembra imporsi in modo netto sin dall’incipit del
ro
3 msuo odio per la pizza:
libro, in cui il cuoco iraniano Parviz Mansoor Samadi dichiara il
a m b
o zz to nto Qualche giorno fa, non erano nemmeno le otto del mattino, seduto
B ma me su un sedile della metropolitana, stropicciandomi gli occhi e lot‐
for esti tando contro il sonno a causa di quel risveglio così mattiniero, ho
a l l visto una ragazza italiana che divorava una pizza grande come
un ombrello. Mi è venuta la nausea e per poco non vomitavo! Gra‐
zie a Dio è scesa alla fermata successiva. Davvero una scena in‐
sopportabile! La legge dovrebbe punire chi si permette di turbare
la tranquillità dei buoni cittadini che vanno al lavoro la mattina e
tornano a casa la sera. Il danno provocato da chi mangia pizza in
metropolitana supera di molto quello causato dalle sigarette. Spero
che le autorità competenti non sottovalutino questa questione e
provvedano immediatamente ad affiggere cartelli del tipo “Proi‐
bito mangiare pizza” accanto a quelli che campeggiano all’in‐
gresso delle gallerie della metro con la scritta “Vietato Fumare!”
(p. 11).
Alla visione4 di una ragazza italiana che divora “una pizza grande
come un ombrello” Parviz prova un forte sentimento di nausea
che degenera nel voltastomaco. La sua esperienza del viaggio in
metropolitana risulta così marcata da questo “incidente estesico”
(cfr. Greimas 1987; Landowski 2004), che il turbamento e la nau‐
sea si trasformano quasi automaticamente in una sanzione cogniti‐
va (e morale) sulla mancanza di cartelli che proibiscano ai viag‐
giatori di mangiare pizza durante la loro permanenza sul treno.
4
Sul ruolo della vista – e in generale, della totalità degli apparati sensoriali –
nel riconoscimento percettivo degli alimenti cfr. Leroi‐Gourhan (1964).
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 263
b/n sata
Ora, ciò che è in gioco qui è la natura “dell’inerenza fenome‐
nologica tra spazio e soggetto” (Panosetti 2008, p. 39), ovvero, del
00 fre
legame5 tra il soggetto e lo spazio praticato, che sembra essere
2 determinato a monte dall’intraducibilità tra le valenze percettive
a 3 m b ro cora Parviz:
z z o m to Che ci posso fare se non sopporto la pizza, gli spaghetti e com‐
Bo mat men pagnia bella […] Mi chiedo perché le autorità italiane continuino
o r
f es t i a negare quello che tutti i medici onesti sanno: la pasta fa ingras‐
sare e causa l’obesità. Il grasso inizia piano piano a ostruire le
all
vene finché il povero cuore non cessa di battere. È accaduto an‐
che a Elvis […] Ho consigliato più volte alla colf Maria Cristina di
evitare la pasta. Quando l’ho conosciuta due anni fa era magra
anche lei, poi si è abituata agli spaghetti e si è gonfiata come una
mongolfiera. Una volta le ho detto: “perché hai abbandonato la
tua cultura d’origine, visto che il riso è il cibo preferito dai filip‐
pini?” (p. 21).
Lo stupore continuo verso la mancanza di autorità esterne (me‐
diche, in questo caso, giuridiche in quello precedente) che sanci‐
5
Sul concetto di legame in quanto “principio di inerenza” cfr. Fontanille
(2008).
6
Secondo le indicazioni di Greimas e Courtés, si intende con mondo naturale
“l’apparenza secondo la quale l’universo si presenta all’uomo come un in‐
sieme di qualità sensibili, dotato di una determinata organizzazione che lo fa
talvolta designare come “il mondo del senso comune” […] La qualificazione
di naturale […] serve a indicare la sua anteriorità rispetto all’individuo: que‐
sto si iscrive fin dalla nascita […] in un mondo significante fatto di natura e
cultura a un tempo. La natura non è dunque un referente neutro, ma è for‐
temente culturalizzata […] e al tempo stesso relativizzata (le etnotassonomie
danno delle visioni del mondo differenti, per esempio). Questo ci porta a
dire che il mondo naturale è il luogo di elaborazione di una vasta semiotica
delle culture” (Greimas, Courtés 1986, voce “Mondo naturale”).
264 Paolo Demuru
b/n sata
scano l’evidenza del male causato dalla pasta e il rimprovero alla
colf Maria Cristina, che – sebbene non sia filippina, bensì peru‐
00 fre
viana, come si scoprirà in seguito – ha abbandonato la sua cultu‐
2 ra d’origine, mettono bene in evidenza il conflitto epistemico tra
4 0x urail punto di vista di Parviz e l’universo percettivo del gusto italia‐
1 s sno, che si presenta come un sistema normativo alieno7, al quale
a 3 m bro egli non riesce assolutamente a conformarsi.
z z o m to E non è un caso che in questa lotta tra l’interocettivo e l’este‐
Bo mat men
rocettivo il disgusto verso i carboidrati faccia il paio con una ten‐
denza in apparenza opposta: l’abuso sistematico di vino, unico
all
mente legato alla sua fruizione di piazza Santa Maria Maggiore:
Ho preso l’abitudine di sedermi tutti i giorni alla fontana di fron‐
te all’ingresso della chiesa di Santa Maria Maggiore per dare il
mangime ai piccioni o per piangere. Nessuno può togliermi il
Chianti dalle mani […] solo le lacrime e queste bottiglie di Chian‐
ti spengono il fuoco della nostalgia. Piango molto e bevo ancora
di più per dimenticare le disgrazie che mi sono capitate.
L’investimento valoriale e la pratica quotidiana di piazza Santa
Maria Maggiore risultano così fondati sull’assunzione sregolata
di vino (Chianti, per precisione), grazie al quale egli riesce a di‐
menticare la disgrazia dell’emigrazione e la lontananza dei pro‐
pri cari. Tuttavia, come nell’esperienza del viaggio in metropoli‐
tana, il risultato è quello di un fallito incontro (se non addirittura
di un completo distacco) tra spazio e soggetto, causato da una
mancata “adesione” (Geninasca 1997) alle sostanze e alle forme
dell’universo alimentare della cultura italiana. Se, nel primo caso,
la disposizione affettiva e il successivo giudizio morale sulla de‐
7
È ciò che Bertrand chiama “orizzonte dossologico”, ovvero, una serie
di figure che – cristallizzandosi in determinate isotopie – costituiscono
uno specifico sistema normativo entro cui si inscrive l’esperienza percettiva
(Bertrand 2000, p. 155).
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 265
b/n sata
regolamentazione dello spazio sorgono dal rifiuto della visione
della ragazza che divora una pizza di inusitate dimensioni, nel
00 fre
secondo sembra invece un processo continuo di “assunzione senza
2 sussunzione” – in cui, in una sorta di chiasma estesico‐passiona‐
a 3 m bro zione e spaesamento, di mancata inerenza con il luogo praticato e,
z z o m to insieme, di parziale ricongiungimento con il luogo d’origine. Ri‐
Bo mat men
congiungimento che si dà invece nella sua interezza quando egli
riscopre e fruisce attivamente fragranze e aromi familiari:
for esti
ognuno di noi ha un luogo dove si trova a suo agio. C’è chi si
al l trova bene in una chiesa, in una moschea, in uno stadio oppure
in un mercato. Io mi trovo bene in cucina […] mi metto subito a
preparare i vari piatti iraniani, come il ghormeh sabzi e il kebab
kubideh, i kashk, badinjan e i kateh. Gli odori che riempiono la
cucina mi fanno dimenticare la realtà e mi sembra di essere tor‐
nato nella mia cucina a Shiraz. Dopo un po’ il profumo delle spe‐
zie si trasforma in incenso, ed è questo che mi fa ballare e cantare
come un derviscio, ahi ahi ahi… Così in pochi minuti la cucina si
trasforma in una trance sufi (p. 20).
L’avversione verso i cibi italiani – che segna profondamente il
suo rapporto con la città – si oppone pertanto al piacere olfattivo
della propria cucina, intesa nella doppia accezione spaziale e ali‐
mentare. Contrariamente a quanto avviene nei casi sopraccitati,
nella pratica della cucina è la completa e indiscussa adesione alle
sostanze e alle forme del mondo naturale iraniano a determinare
l’investimento positivo dello spazio. O meglio, è unicamente nel‐
l’incontro con quelle determinate sostanze (e solo con quelle) che
la cucina si fa propriamente “spazio”, ovvero, “luogo praticato”,
nel senso di de Certeau (1980) – trasformazione che non riguarda
invece le cucine dei ristoranti in cui Parviz lavora, dove è costret‐
to contro la propria volontà a “imparare i segreti della cucina ita‐
266 Paolo Demuru
b/n sata
liana” (Lakhous 2006, p. 20). In questa dinamica di “conversione
metanoietica”, mutamento passionale che coinvolge la totalità
00 fre
dei sensi e dell’essere (Fabbri 2000, p. 125), gli odori e le spezie
2 divengono i pilastri del legame tra lo spazio e il soggetto: la cuci‐
4 0x ura na perde le proprie caratteristiche prospettiche e topologiche e si
1 s s tramuta in una “trance sufi”, in una pratica mistica che è al con‐
z z o m to in un suo successivo commento:
all lega a Shiraz, che non lo ha mai lasciato. È strano, Parviz non vi‐
ve a Roma ma a Shiraz. Allora perché lo costringiamo a imparare
l’italiano e a cucinare all’italiana? La gente parla italiano a Shi‐
raz? Si mangiano pizza, spaghetti, fettuccine, lasagne, ravioli, tor‐
tellini, la parmigiana a Shiraz? (p. 35).
La questione dell’abitare si rivela qui intimamente connessa al tema
dell’appartenenza culturale, di cui “l’adesione percettiva” rap‐
presenta un orizzonte privilegiato. Seguendo i suggerimenti di
Bertrand (2000, pp. 147‐161) sul rapporto tra spazialità e percezio‐
ne, si potrebbe supporre che sia una sorta di “credere percettivo”
ad “orientare” la relazione con lo spazio, a cui vengono di volta
in volta attribuite marche euforiche o disforiche, ed in cui è un
sentire fortemente moralizzato a reggere l’orizzonte prasseologico.
In questo modo, l’abitare risulterebbe fondato su due tendenze
parallele: da una parte, su un’opera di prefigurazione ortodossa e
fortemente stereotipica del sistema alimentare italiano; dall’altra,
sull’individuazione di zone di collisione e intraducibilità tra que‐
sto e le sostanze e le forme del mondo naturale iraniano (ad ulte‐
riore controprova ricordiamo il consiglio che Parviz dà agli italiani
sulla degustazione del caffè, che – sostiene – non si beve con im‐
pazienza e precipitazione, ma con calma e devozione, p. 13).
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 267
b/n sata
Dal procedere congiunto di queste due direttrici prende for‐
ma l’opposizione profonda su cui si fonda l’investimento timico‐
00 fre
passionale dello spazio: l’opposizione tra pubblico e privato, in cui
2
ciò che è pubblico (la metropolitana, la piazza, il bar) è vissuto
4 0x ura
disforicamente, mentre ciò che è privato (la cucina e i suoi odori)
1 s
è avvolto in una crosta di euforia e di (neanche tanto velato) mi‐
s
a 3 m bro sticismo.
z z o m 2.2. Fruizione e valorizzazione degli spazi pubblici e privati
t o
o t n
B ma me Il resoconto delle esperienze percettive di Parviz Mansoor Sama‐
for esti di non rappresenta l’unico momento del romanzo di Lakhous in
b/n sata
soddisfano la sete dei miei occhi e le loro parole riscaldano le mie
orecchie fredde. Mi sembra di tornare a casa, a Lima. Saluto e ba‐
00 fre
cio tutti anche se alcuni non li ho mai visti prima, poi mi siedo
sul marciapiede e divoro i cibi peruviani, il riso col pollo e il lo‐
2
0x ura
mo saltado e il sebice (p. 90).
1 4 s s
La fruizione degli spazi pubblici e la scelta dei luoghi da frequen‐
a m b ro
3 mtare è sottomessa anche qui alle leggi di un sentire nostalgico, al‐
o zz to nuna lingua, certe fisionomie dei volti) in una città che è e rimane
la o
t necessità di ritrovare una parvenza di familiarità (alcuni cibi,
B ma me straniera. Ancora una volta è la comunità d’appartenenza con le
for esti proprie forme di sapere – e sapore – ad indicare percorsi estesici
all e passionali all’interno della maglia urbana. Così Maria Cristina
finisce col disattendere tutti i suoi buoni propositi recandosi ogni
domenica alla stazione Termini per incontrare altri immigrati pe‐
ruviani, di cui spesso non conosce neanche il nome. In questo
contesto, la stazione si presenta come un luogo anonimo e im‐
personale, una soluzione di ripiego in cui dar sfogo ad amarezza
e delusioni e soddisfare brutalmente i piaceri della carne, che
viene puntualmente contrapposto al pensiero felice di un am‐
biente casalingo, di cui poter un giorno godere:
mi immagino di svegliarmi la mattina, portare i miei figli a scuo‐
la, andare al lavoro, abbracciare mio marito di notte e vedere fi‐
nalmente i nostri corpi unirsi su un letto confortevole e non sulla
triste panchina di un giardino pubblico o su un treno abbandona‐
to o sotto un albero nascosto (p. 92).
La valorizzazione disforica degli spazi pubblici – opposta alla va‐
lorizzazione euforica di quelli privati – si presenta pertanto come
un tema ricorrente, che si dispiega e approfondisce col procedere
della vicenda. L’opposizione tra pubblico e privato si precisa
tramite l’equazione pubblico‐non familiare/privato‐familiare, in cui il
termine “familiare” rimanda al contempo all’idea di una “dimora
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 269
b/n sata
fisica” e di una “intimità culturale”, un insieme di abiti e disposi‐
zioni affettive culturalmente sedimentati (Herzfeld 1997) che si
00 fre
scontra con i nuovi regimi di spazialità e le nuove forme dell’a‐
2 bitare. Tale visione si riassume bene nelle parole di Antonio Ma‐
a m ro
3 m bNo, mi dispiace, io non guardo Roma con gli occhi del turista […]
o zz to nto Stamattina
io non vivo nel paradiso dei turisti, ma nell’inferno del caos! […]
B ma me ho aspettato il 70 per mezz’ora al capolinea di via
for esti
Giolitti, vicino a piazza Vittorio. Alla fine sono arrivati tre auto‐
bus uno dietro l’altro. Gli autisti sono scesi senza badare alle pro‐
all
teste delle persone in attesa e sono andati al bar di fronte alla
fermata per sedersi in un tavolo all’aperto, fumare qualche siga‐
retta e spettegolare […] Queste cose a Milano non succedono. Io
sono di Milano e non sono abituato a questo caos. A Milano ri‐
spettare gli appuntamenti è cosa sacra e nessuno osa dirti: “ci
vediamo tra le cinque e le sei”, come capita a Roma molto spesso
(pp. 103‐104).
Non solo la stazione, ma piazza Vittorio e, in generale, l’intero
Esquilino, appaiono come un luogo amorfo e inarticolato8, con
cui risulta difficile “legare” (o si sceglie di non farlo)9. E non
8
Cfr. il saggio di Del Marco in questo volume.
9
La pratica del quartiere si riduce così, nella maggior parte dei casi, a due o
tre luoghi circoscritti e familiari, senza che questo si presenti una sola volta
come un tessuto unitario e coerente. Impressione che sembra trovare con‐
ferma nell’esperienza di Peter, commerciante nigeriano la cui storia di vita è
riportata in Samgati (2006, p 61): “Peter abita proprio sopra il suo mini‐
market, insieme alla numerosa famiglia. Apre il negozio la mattina, torna a
casa a pranzo, riapre nel pomeriggio […] Come afferma in modo perentorio
lui la sera non esce mai, ma proprio mai. Non che non ne avrebbe voglia, ma
si è cristallizzata in lui questa abitudine […] Anche durante il giorno è raro
che Peter si sposti per la città […] Così, la sua esistenza finisce per svolgersi
quasi interamente all’interno di un’unica via”.
270 Paolo Demuru
b/n sata
sembra un dettaglio accidentale il fatto che – in questo mosaico
di voci inquiete – l’unica persona che riesce a fruire positivamen‐
00 fre
te e attivamente il quartiere sia colui che sceglie di farne una
2
nuova casa, che abbandona completamente la propria memoria
4 0x ura
culturale per gettarsi anima e corpo nella lingua e nella cultura
1 s
italiana, fino al punto di lasciare pochi dubbi sulla sua presunta
s
a 3 m bro italianità: Amedeo, traduttore che fa dell’italiano la sua “nuova
Bo mat men
adora camminare (p. 141), che non salta una partita della Roma
all’Olimpico (p. 133) e si dichiara apertamente un “pizzadipen‐
all 3. Il punto di vista sull’altro (ovvero, abitare chi?)
Tutto ciò impone una riflessione sullo stereotipo, inteso come for‐
za categorizzatrice. Non solo per quanto riguarda il rapporto tra
spazialità e attori, ma anche per ciò che concerne più specifica‐
tamente la relazione con l’altro, sia esso algerino, italiano, roma‐
no, o bengalese. Ovviamente si tratta di due ordini di relazione
che, lungi dall’escludersi l’un l’altro, si determinano reciproca‐
mente. Nell’episodio di Parviz Mansoor Samadi, ad esempio,
l’adesione al mondo naturale iraniano, oltre a determinare lo sta‐
tuto dei luoghi, sancisce definitivamente l’impossibilità di assu‐
mere anche in parte l’orizzonte di valori – non solo alimentari –
della cultura italiana. Per dirla con Geninasca (1997, p. 48), le va‐
lorizzazioni timiche, divenute oggetto di sapere e interpretate in
termini passionali, entrano in conflitto con la propria memoria
percettiva, sancendo l’impossibilità di una traduzione tra la cul‐
tura d’origine e la cultura d’approdo.
A questo proposito, Scontro di civiltà sembra indicare due per‐
corsi correlati e coevi entro cui convogliare il resto dell’analisi.
Il primo riguarda ciò che potremmo definire un processo di
“stereotipizzazione discorsiva dell’alterità”. Il romanzo propone
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 271
b/n sata
in tal senso un elenco di testi e tipologie discorsive che vengono
assunti dai singoli attori come modelli e forme attestate di cono‐
00 fre
scenza. Dice ad esempio Benedetta Esposito, portiera napoletana:
2
x ra
4 0[…] chi viene dal Marocco, chi dalla Romania, dalla Cina, dall’In‐
dia, dalla u
1 s s Polonia, dal Senegal, dall’Albania. Tengono religioni,
ro o dentro le tende, mangiano con le mani, si spostano
3 m ball’aperto
abitazioni e tradizioni diverse dalle nostre. Nei loro paesi vivono
a m
o zz to nto sono con i ciucci e i cammelli e trattano le donne come schiave. Io non
B ma me razzista, ma questa è la verità! Lo dice pure Bruno Vespa
for esti
(p. 51).
all
O ancora, Antonio Marini:
basta vedere i film di Alberto Sordi come Il conte Max o Il Marche‐
se del Grillo o Un borghese piccolo piccolo per scoprire il vero volto
dei romani. Sono fieri dei loro difetti e non provano imbarazzo
nell’esprimere la loro ammirazione per la donna che tradisce il
marito o per la persona che non paga le tasse o per il furbone de‐
linquente che viaggia in autobus senza il biglietto […] è questa la
vera natura dei romani (p. 105).
La credenza si costituisce dunque in questo caso attraverso un
“sistema di deleghe” (Saleri e Spinelli 2008) e di simulacri che fun‐
gono da piani di veridizione entro cui inscrivere le identità altre.
Il secondo concerne invece ciò che si potrebbe identificare
come una procedura di “figurativizzazione stereotipica”, ovvero,
un processo di riduzione e classificazione delle figure del mondo
entro griglie di lettura (Greimas 1991) e sensibilizzazione (Bertrand
2000) sedimentate da “usi discorsivi”, dunque da “filtri concet‐
tuali e da stereotipi percettivi determinati dai contesti socio‐
culturali” (Fabbri e Marrone 2001, p. 271). In altre parole, il livel‐
lo figurativo dell’esperienza – e in particolare, dell’esperienza
dell’altro – sembra sottostare alle leggi di un vero e proprio “di‐
spositivo stereotipante” (Lotman, Uspenskij 1973), che dispone e
272 Paolo Demuru
b/n sata
organizza gerarchicamente le valenze percettive e stabilisce le
condizioni d’esistenza dei valori (cfr. Fontanille e Zilberberg
00 fre
1998). Perno di questa operazione sono – come abbiamo visto nei
2 paragrafi precedenti – le sostanze del mondo naturale, o meglio,
a 3 m bro lenza […], l’unica che dal punto di vista semiotico sia immedia‐
z z o m to tamente pertinente”. Citiamo qui due casi esemplari.
Bo mat men
(i) Sostanze foniche, come nell’equivoco semantico tra Parviz e
a l l
[Parviz] guagliò è la parola preferita di Benedetta. Come sapete,
guagliò vuol dire cazzo in napoletano […] In Iran non siamo abi‐
tuati a rispettare i vecchi ed evitare le parolacce. Per questo inve‐
ce di rispondere all’offesa con un’altra offesa come fanno in tanti,
mi limito a una breve risposta: merci […] [Benedetta] Non mi
ricordo esattamente quella parola che dice sempre, forse mersa
o mersis. Insomma, l’importante è che questa parola vuol dire
cazzo in albanese e si usa per insultare la gente (pp. 16‐48, corsivo
nostro).
(ii) Sostanze cromatiche, attraverso cui si abducono le nazionalità:
[…] Non ho ancora perso la testa, sono in grado di distinguere
tra italiani e stranieri. Pigliate per esempio lo studente biondo.
Non c’è dubbio, viene dalla Svezia (corsivo nostro).
Ora, questi dati sembrano confermare quanto accennato in pre‐
cedenza a proposito del rapporto tra adesione percettiva e assun‐
zione valoriale. Lettura e sensibilizzazione del mondo procedono
parallelamente: il riconoscimento delle valenze e il loro orienta‐
mento timico dettano le regole per il fissaggio delle assiologie, il
cui primo risultato è la formazione di determinate sostanze di
contenuto secondo tagli specifici di altre sostanze. Sostanze che,
Identità, credenze e luoghi (comuni) in Scontro di Civiltà per un ascensore… 273
b/n sata
una volta rifigurate, andranno a costituire la base stessa della
credenza e della “affiliazione incondizionata” al proprio orizzon‐
00 fre
te valoriale (Fabbri 2000, p. 125).
2 Seguendo la lettura foucaultiana di Bhabha (1994) proponia‐
4 0x uramo pertanto di considerare il punto di vista sull’altro come un di‐
1 s s
spositivo, nella doppia accezione meccanica e topologica, ovvero,
a 3 m bro come “una forma di manipolazione di oggetti o forze raggiunta
Bo mat men
dole, utilizzandole, ecc.” (Foucault, in Bhabha 1994, p. 108). Il che
significa che il punto di vista funziona al contempo:
for esti
(i) come un apparato – un insieme di regimi (di visibilità, di enun‐
all
ciazione, di soggettivizzazione) e linee di forza (Deleuze 1989);
(ii) come una mappa, un ordine di posizioni sostenuto da tipi di
sapere (Bhabha 1994).
Esso produce insomma una specifica forma di relazione tra sapere
e potere che nega il gioco della differenza, stabilendo forme fisse
di rappresentazione e promuovendo spesso un sentimento di in‐
comunicabilità e di completa estraneità, per cui, come nel caso
della comunicazione linguistica, “le persone si sentono minaccia‐
te dal fatto che altri significhino in modo diverso da loro” (Tani,
in questo volume).
4. Conclusioni
Il continuo stringere la città nella morsa delle griglie culturali ci
sembra uno dei dati salienti del romanzo di Lakhous, grazie al
quale la questione dell’abitare è colta nella totalità delle sue stra‐
tificazioni e nelle sue intime relazioni con i temi dell’immigra‐
zione, della cittadinanza e dell’inclusione sociale. Esplorando la
pluralità dei regimi di significazione che concorrono alla defini‐
zione dello spazio pubblico – configurazioni e morfologie urba‐
274 Paolo Demuru
b/n sata
ne, paesaggi linguistici, pratiche alimentari e religiose, di con‐
sumo, discorsi mediatici –, esso ci invita a riflettere al contempo
00 fre
sia sulla capacità modellizzante di tali sistemi semiotici, sia sui
2
rapporti di forza che determinano le posizioni (di potere e subal‐
0x ura
ternità) degli attori che li “abitano”. Pensiamo ad esempio – per
4
1 s
ciò che concerne la stereotipizzazione discorsiva dell’Esquilino –
s
a 3 m bro
al ruolo svolto dal discorso giornalistico e, in particolare, alla for‐
z z o m to
tuna del termine “degrado”, più volte associato all’uso di im‐
Bo mat men
magini e modelli spaziali/culturali altri, quali suk, casbah, bronx,
chinatown, il cui effetto sembra, come nota Mudu (2003, p. 662),
for esti quello di sottolineare “il fatto che gli immigrati sono stranieri e
all
costruiscono uno spazio non integrato ma alieno”. Il problema si
fa allora politico (e non soltanto semiotico‐culturale) e apre il cam‐
po ad un’analisi dei progetti e degli interventi delle pubbliche
amministrazioni. Come si è agito, ad esempio – di fronte ad un
simile profluvio di discorsi e categorie – per gestire la riconfi‐
gurazione sociale, economica e culturale dell’area di Piazza Vit‐
torio? Come nota Del Marco in questo volume, la riqualificazio‐
ne dell’Esquilino avvenuta nel corso degli ultimi anni – più che
creare integrazione – pare averne frammentato e specializzato
eccessivamente la fruizione, producendo “nicchie” di consumo
(l’Hotel Radisson, il teatro Ambra Jovinelli, la Casa dell’Architet‐
tura) che, nonostante la loro prossimità fisica, funzionano il più
delle volte come strutture monolitiche e autosufficienti10. A que‐
sto riguardo, Scontro di civiltà sembra puntare il dito proprio
sull’assenza di politiche di valorizzazione degli spazi pubblici
coscienti della reale composizione del quartiere, portando l’atten‐
zione del lettore sulla complessità e sull’imprevedibilità del dia‐
logo interculturale.
Si pensi ad esempio al mercato collocato dentro l’ex Caserma Sani, oggi
10
sede distaccata dell’Università la Sapienza.
n PARTE III
b sata
/
2 00 CONFRONTI E RILANCI
f re
4 0x uraA cura di Pierluigi Cervelli
1 s s
3 m
a m o b r o
z z o t
Bo mat men
for esti
all
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
nPierluigi Cervelli
b sata
/
00 urbane. Nove domande
re
Trasformazioni culturali e dinamiche
2 f
4 0x ura
1 s s
a m b ro
3 m1. Panorami
o zz to nLe interviste ad architetti e urbanisti che seguono sono state pen‐
t o
B ma me sate come momento di discussione critica ed eventuale rilancio
for esti della ricerca. Le domande sono state l’occasione per porre agli
all
intervistati tutta una serie di questioni che mi sono sembrate
troppo importanti per avere una sola risposta: la dimensione del‐
la memoria culturale espressa dallo spazio urbano, nelle relazio‐
ni complesse fra passato e contemporaneità; la questione delle
relazioni fra macro‐attori politici e istituzionali che “scrivono” la
città pianificandone l’immagine globale e micro‐attori che la “ri‐
scrivono” abitandola; i fenomeni di privatizzazione dello spazio
urbano, manifestati dall’apparizione delle microfortezze recintate
e sorvegliate, “isole” in cui abita ormai una parte della popola‐
zione, e dalla progressiva riduzione dello spazio pubblico a spa‐
zio di semplice attraversamento; le dinamiche abitative relative
al dispiegarsi dei flussi di popolazione in una città ormai diven‐
tata globale; il ruolo dell’architettura contemporanea, presa nel
gioco fra spettacolarizzazione e ricerca di una qualità, se non di
massa, che possa essere per tutti; i pericoli della zonizzazione et‐
nica della città e dell’esplosione dei conflitti culturali, che potreb‐
bero sopravvenire con le seconde generazioni di immigrati che
sono oggi i nuovi cittadini romani.
Lucidamente, ma non senza passione, gli intervistati hanno ri‐
flettuto su queste questioni complesse e hanno articolato i loro
dubbi assieme alle risposte, con una notevole disponibilità, di
tempo e di energie. Nelle interviste è emersa una enorme atten‐
278 Pierluigi Cervelli
b/n sata
zione rispetto a questi temi, sebbene declinata, com’è naturale,
con accenti e sensibilità differenti.
00 fre
Franco Zagari e Gianni Celestini hanno espresso il punto di
2
vista di due paesaggisti, formatosi a partire da esperienze in
0x ura
progetti complessi di riscrittura urbana e ambientale, anche a
4
1 s
Roma; Roberto Secchi e Piero Ostilio Rossi, quello di due progetti‐
s
a 3 m bro
sti e urbanisti che si occupano da molto tempo di Roma e in par‐
z z o m to
ticolare delle dinamiche urbanistiche legate alla qualità, alla mo‐
Bo mat men
bilità e al ruolo delle infrastrutture; Daniel Modigliani, quello di
un architetto e urbanista che ha diretto per anni l’ufficio di Piano,
all
alle operazioni analitiche e progettuali che hanno prodotto il nuo‐
vo PRG.
In particolare, Zagari si è soffermato criticamente sull’assenza
di segni contemporanei e modificazioni visibili iscritti nell’im‐
magine di Roma negli ultimi dieci anni, sottolineando però come
in realtà sia avvenuta la realizzazione di cambiamenti importanti
nella struttura della città. Comparando alla situazione esistente
gli episodi di riscrittura avvenuti nell’ultimo secolo, ha sottolinea‐
to alcune novità che caratterizzano la città, dedicando particolare
attenzione all’intervento progettuale che ha prodotto il nuovo
Auditorium e ai processi di trasformazione minuta e quotidiana
che sono intervenuti a modificare e rivitalizzare l’Esquilino.
Roberto Secchi si è interrogato sulla relazione fra progetto ar‐
chitettonico e trasformazione effettiva delle forme dell’abitare,
sulla considerazione dei sistemi infrastrutturali, dei percorsi e
della mobilità all’interno dell’impianto generale del PRG, sull’e‐
tica del progetto architettonico e sul potere della pianificazione,
sottolineando l’esigenza e la difficoltà di costruire una reale mixi‐
tè sociale nella città.
Celestini ha riflettuto sulla modificazione delle modalità in‐
terpretative e progettuali alla luce della crescita delle aree urbane
e della trasformazione del rapporto fra città e campagna, e sui
Trasformazioni culturali e dinamiche urbane. Nove domande 279
b/n sata
processi di costruzione di identità, appartenenza e connessione
che possono produrre i sistemi paesaggistici, anche dal punto di
00 fre
vista della considerazione del ruolo di una memoria articolata a
2
vari livelli all’interno del progetto architettonico.
4 0x ura
Modigliani ha messo l’accento sul legame fra caratteri della
1 s
popolazione e gestione del territorio, sulla necessità di uscire dal
s
a 3 m bro
quadro di uno sviluppo urbanistico legato all’inurbamento per
z z o m to
recuperare la città esistente, all’insegna di un rispetto profondo
Bo mat men
per la capacità delle periferie romane di esseri vitali e produtti‐
ve. Allo stesso modo ha operato una critica severa rispetto alle
all
sato, mettendo in primo piano la necessità di rapportarsi con le
concrete esigenze e volontà dei cittadini e insieme la difficoltà di
relazione che questa attenzione implica.
Piero Ostilio Rossi si è soffermato invece sulla possibilità di
leggere sulla base di una molteplicità di livelli scalari la comples‐
sità dei nessi fra insieme e parti che caratterizzano la dimensione
urbana, cercando di evidenziare di volta in volta le relazioni fra
micro e macroinsiemi, a partire dalle quali ha sottolineato, fra le
altre cose, la necessità di una articolazione complessa della rela‐
zione fra centro e periferia. All’interno di una panoramica storica
sulle strategie pianificatorie e sulle loro realizzazioni parziali ha
poi introdotto una riflessione sul policentrismo e sul nuovo Pia‐
no Regolatore soffermandosi, a partire dalla Carta per la Qualità
della città contemporanea del nuovo PRG, sulle relazioni fra
nuove centralità e processi di definizione del valore del patrimo‐
nio esistente.
Da un certo punto di vista un incontro di questo tipo era na‐
turale: una delle chiavi di lettura della ricerca è proprio nel tema
dell’uso da parte dei cittadini di alcune particolari zone della cit‐
tà, di recente o attuale trasformazione, con l’obiettivo di indagare
se e come vi sia stata una ristrutturazione dei percorsi e delle
pratiche di fruizione. L’esito però non è stato scontato e la com‐
280 Pierluigi Cervelli
b/n sata
plessità delle risposte testimonia la ricchezza dei contributi
espressi.
2 00 fre
0x ura
2. Precisazioni
4
1 s s
ro pericoloso, così come il suo alter‐ego “consumo”,
3 mne”. Termine
È necessaria una prima puntualizzazione sul termine “fruizio‐
a m b
o zz to ngata alla presunta passività dei fruitori e dei consumatori, il cui
t o
giacché entrambi contengono una ambiguità di fondo: quella le‐
B ma me massimo potere, di fronte a quello che gli è imposto, sarebbe
for esti quello di chiudersi in casa, non comprare o spegnere il televisore.
all Cito il telecomando, perché è facile ritrovare in una tale conce‐
zione, al fondo di essa, un’idea simile a quella che vedeva i me‐
dia come “proiettili magici”, capaci di penetrare le barriere
mentali e far cambiare qualunque opinione al pubblico, sempli‐
cemente per contatto. Implicitamente, era l’immagine presuppo‐
sta di questo pubblico a legittimare la potenza delle comunica‐
zioni di massa: le teorie “del proiettile magico”, sviluppate negli
anni venti, erano fondamentalmente delle teorie elitarie. Appena
si è cominciato ad indagare empiricamente questa massa, con la
communication research statunitense negli anni sessanta, si è nota‐
to che non era una collezione puntiforme di individui isolati, soli
davanti alla televisione; è stato invece verificato che essa era ca‐
pace di resistenze: rimuoveva i messaggi che poco si confacevano
alle opinioni pregresse e li filtrava attraverso dei leader d’opi‐
nione, esperti “localmente individuati” di volta in volta su temi
specifici. Certo, nei momenti di scarsità di informazioni e di forte
trasformazione (quando mancano i leader d’opinione) i media
potevano contare moltissimo ma l’immagine della comunicazio‐
ne come travaso ipnotico di informazione si era trasformata defi‐
nitivamente in un processo di ascolto, qualcosa che implica le
sottigliezze della fiducia e dell’attenzione. La massa aveva in‐
somma le sue tattiche di ricezione, e filtrava i messaggi in un
Trasformazioni culturali e dinamiche urbane. Nove domande 281
b/n sata
gioco di strategie semiotiche: iscrizione della nuova informazio‐
ne in un contesto che ne mutava il senso, selezione e ricombina‐
00 fre
zione degli elementi sulla base dei propri interessi e delle proprie
2
convinzioni. Di fronte a questa congerie di operazioni di “frui‐
0x ura
zione” l’impostazione iniziale si rovesciava: erano i produttori a
4
1 s
ritrovarsi senza il controllo dei loro messaggi. Il pubblico, privo
s
a 3 m bro
del possesso dei mezzi di comunicazione, opponeva senza sosta
z z o m to
(e talvolta anche senza volerlo) una “guerriglia semiologica” (Eco
Bo mat men
1968). Non è molto diverso quando anche oggi si guardano i di‐
battiti politici come delle telenovelas (ne hanno la lentezza e la ri‐
all
convincere e la ricerca di nuove strategie capaci di trasformare
nel discorso efficace l’immagine che l’interlocutore ha di se stesso.
Questa ricerca è stata impostata anche in questa ottica: in una
accezione ampia e produttiva del termine “consumo”, che non si
limitasse a quella più comunemente in uso, ormai mutuata dal
lessico dei pubblicitari, legata alla fruizione passiva e all’acqui‐
sto. Piuttosto abbiamo inteso il consumo come quello scarto che
si impone fra i prodotti, tanto quelli commerciali in un super‐
mercato quanto quelli “culturali” in una città, e il consumatore
che li riceve. Il modo cioè in cui egli li assimila modificandoli, il
modo in cui “li rimastica” (come diceva Michel de Certeau, che
di questa concezione è forse il teorico fondamentale). Visto così il
consumo è insomma “l’arte di utilizzare ciò che è imposto” (De
Certeau 1980, Pezzini 2006). De Certeau ne ha fatto una semiotica
delle pratiche dello spazio urbano. Se talvolta sembra necessario
rivedere gli strumenti concettuali che ha utilizzato per indivi‐
duare in esse una componente formale (come il concetto di enun‐
ciazione), la sfida teorica e le domande poste restano fondamen‐
tali: come si manifesta la soggettività degli abitanti nella pratica
della città? Come essi iscrivono in essa, percorrendola attraverso
una miriade di tattiche individuali, i discorsi silenziosi che la
rendono abitabile? Come descriverne il senso?
282 Pierluigi Cervelli
/n ata
3. Frontiere urbane
b
0 fres una ipotesi del genere, in questo
Era possibile e utile applicare
0
x2 ra
momento, a Roma? Provando a incrociare dinamiche legate ai con‐
0
sumi culturali e dinamiche abitative, lo ricordiamo, si è deciso di
4 ssu
focalizzare il lavoro su tre luoghi che ci sono sembrati emblema‐
1
a m ro dalla presenza di tentativi di “riscrittura” e
3 mdino, baccomunati
tici della più generale trasformazione in atto nell’ambiente citta‐
o zz to nrideterminazione
t o politica e sociale della città: Piazza Augusto
B ma me della Musica e la zona circostante del Villaggio Olimpico; l’area
Imperatore e il nuovo museo dell’Ara Pacis; l’Auditorium‐Parco
b/n sata
stite da cambiamenti legati alla vita quotidiana e alle modifica‐
zioni della composizione sociale del territorio in modo da far
00 fre
emergere dinamiche che potenzialmente potrebbero interessare
2
anche altre zone della città, soprattutto in vista della costruzione
0x ura
delle centralità previste dal nuovo PRG di Roma, uno degli even‐
4
1 s
ti più importanti degli ultimi decenni per la città, la cui attuazio‐
s
a 3 m bro
ne meriterebbe di essere accompagnata da una serie parallela di
z z o m to
analisi volte ad analizzarne empiricamente l’impatto sulla vita
Bo mat men
dei cittadini, sulla trasformazione dei modi di abitare la città. Su
questo campo varie discipline e punti di vista possono incontrar‐
for esti si: la semiotica è da sempre interessata a queste trasformazioni,
all
almeno sin da quando Eco (1968) metteva lucidamente il dito
nelle piaghe di Brasilia: una città frutto di una pianificazione ra‐
zionale, costruita per eliminare la ghettizzazione sociale e per
produrre una società mista e coesa in cui, appena terminata la
realizzazione, la dinamica sociale ribaltava i disegni dell’inter‐
vento urbanistico ed i terreni accanto ai palazzi maestosi si rico‐
privano di baracche. L’utopia della “città monologica” (come
avrebbe detto Lotman), il cui ordine costruttivo riproduceva un’i‐
dea coerente e controllabile dell’universo, si frantumava nelle
contraddizioni di una serie infinita di tattiche di sopravvivenza e
di strategie di oppressione: un polilogo cacofonico e conflittuale.
4. Trasformazioni
L’organizzazione della società, che lo sforzo progettuale voleva
utopisticamente modificare, aveva ribaltato il progetto, al di là di
qualunque limite in esso si potesse voler vedere. Sulla base di
queste considerazioni avevo provato a fare una riflessione semio‐
tica sulla natura ed il posizionamento delle future centralità, con‐
siderando alcune ipotesi progettuali1 previste dal Piano regolato‐
1
Cfr. Salvagli (a cura, 2005).
284 Pierluigi Cervelli
b/n sata
re di Roma2. Si tratterà di porzioni di edificato di qualità architet‐
tonica molto superiore all’edificato circostante, quello della peri‐
00 fre
feria frammentata e più o meno abusiva, costruite in coincidenza
2
con le reti di trasporto e con gli unici spazi culturali e sociali
0x ura
fruibili a piedi. Esprimevo una preoccupazione: quella che
4
1 s
l’iscrizione delle future centralità nella periferia si limitasse, sen‐
s
a 3 m bro
za trasformare le periferie in città, a inserirvi semplicemente dei
z z o m to
“centri”. Ponevo allora qualche dubbio sulla reale possibilità di
Bo mat men
trasformare la struttura della città, l’insieme delle relazioni fra le
parti che la costituiscono, nel modello policentrico auspicato dal
for esti nuovo Piano. Se infatti le centralità si realizzeranno concreta‐
all
mente come delle “isole” inserite in un mare di frammenti, si ri‐
durranno proprio ad essere dei centri (non è d’altronde questo
che vogliono i costruttori?), e non dei nodi di scambio. In questo
caso, ipotizzavo, l’esito dell’operazione sarà la riproduzione frat‐
tale del modello di città attualmente in crisi. L’altra direzione di
sviluppo, quella su cui ero scettico, è comunque iscritta nel pro‐
getto del Piano: le centralità potrebbero anche portare alla crea‐
zione di un nuovo livello di articolazione urbana che sia interme‐
dio fra quello dei singoli quartieri e quello della città considerata,
ad un livello elementare di complessità, come un unico insieme
composto da due blocchi contrapposti: un centro e una periferia.
In questo senso la città diventerebbe davvero, ad un certo livello
della sua organizzazione, policentrica. In termini un po’ caricatu‐
rali potremmo riarticolare così la questione: vincerà il progetto,
con la sua capacità di modificazione dell’esistente, o vincerà il
contesto (l’insieme di relazioni in cui i nuovi pezzi di città si in‐
seriranno), con la sua capacità di ridefinire il senso dei nuovi
elementi che si porranno al suo interno?
Le mie critiche attribuivano implicitamente più forza al con‐
testo e questo era forse il loro limite maggiore: entrambe le ten‐
2
Cfr. Cervelli (2009).
Trasformazioni culturali e dinamiche urbane. Nove domande 285
b/n sata
denze agiscono in realtà contemporaneamente (come mostra
quello che sta succedendo attorno al nuovo Auditorium). E in real‐
00 fre
tà la domanda è male impostata: considera solo gli elementi esi‐
2
stenti in un sistema chiuso. C’è un elemento di imprevedibilità
0x ura
che caratterizza invece i processi di reale trasformazione, dato
4
1 s
dai nuovi elementi che potrebbero inserirsi in essi.
s
a 3 m bro Non sappiamo insomma cosa succederà e non credo che tutto,
z z o m to
nel bene e nel male, possa dipendere dal Piano regolatore: non si
Bo mat men
tratta di non riconoscere l’importanza del Piano, ma al contrario di
non accettare che esso possa operare meccanicamente nella socie‐
all
Il Piano contiene in sé entrambi gli esiti contraddittori descritti
sommariamente in precedenza poiché esso sembra più prevedere
una serie di condizioni di possibilità per delle trasformazioni po‐
tenziali che implicarle direttamente. Bisognerebbe prendere sul
serio le obiezioni di Bernard Tschumi, proposte nel suo Architet‐
tura e disgiunzione (Tschumi 2005), e cioè l’idea che in maniera un
po’ grossolana potrebbe essere espressa così: non c’è nessuna re‐
lazione meccanica, di causa‐effetto, fra le forme dell’abitare e le
forme definite nel progetto architettonico, ma questo, anziché
svuotare il ruolo dell’architettura o dell’abitare restituisce a en‐
trambi la libertà di arricchirsi reciprocamente, permettendo di
concepirli come processi creativi interagenti. Da ciò deriva che
non c’è nessun fattore che assicuri che a una certa forma archi‐
tettonica si associ necessariamente un certo modo di abitare, o
un certo significato, e dunque il progetto non deve essere finaliz‐
zato alla produzione di qualcosa che sia perfettamente “leggibi‐
le” da parte di chi lo abiterà. Non c’è insomma nessun codice che
possa assicurare una trasmissione di significato perfetta fra l’ar‐
chitettura e l’abitare. Si può dire esattamente la stessa cosa nel‐
l’ottica della semiotica della cultura. Come ha scritto Lotman (in
un saggio significativamente intitolato L’architettura nel contesto
della cultura):
286 Pierluigi Cervelli
b/n sata
Il testo molto raramente è la semplice realizzazione di un codice
(il che distingue le strutture artistiche da quelle linguistiche). Ciò
00 fre
avviene solamente nelle opere degli epigoni, le quali lasciano nel‐
lo spettatore un pesante senso di sterilità. In relazione al codice,
2
0x ura
alla norma, e anche all’invenzione stessa dell’autore, il testo reale
1 4 s s appare sempre come qualcosa di più casuale, qualcosa di sotto‐
posto a imprevedibili deviazioni. In relazione a ciò è opportuno
a 3 m bro soffermarsi sul ruolo dei processi casuali nell’incremento antien‐
z z o m to tropico dell’informazione (Lotman 1998, p. 41).
Bo mat menOvviamente c’è un uso artistico del linguaggio, come dell’archi‐
for esti tettura, per cui valgono le stesse considerazioni, così come c’è
all
un’estetica dell’abitare. La moltiplicazione degli elementi in gio‐
co assicura un dialogo a più voci, il cui risultato è, almeno in par‐
te, imprevedibile:
I rapporti dialogici non sono mai degli accostamenti passivi, ma
rappresentano sempre una concorrenza tra lingue, un gioco e un
conflitto i cui risultati non sono mai prevedibili fino in fondo. L’i‐
dea dell’eterogeneità strutturale, del poliglottismo semiotico del‐
lo spazio abitato dall’uomo dalle macro alle microunità struttura‐
li è strettamente legata al movimento scientifico e culturale della
seconda metà del XX secolo (Lotman 1998, p. 42).
Il progetto semiotico implica però che l’imprevedibile non sia mai
ineffabile, ma semplicemente quello che rimane momentanea‐
mente fuori dal campo dell’analisi, e che si debba almeno tentare
di articolarlo rispetto a quello che è prevedibile. Proprio a partire
da questo mi aveva colpito come, nel nuovo Piano regolatore, fos‐
se assente la considerazione dei cambiamenti introdotti dagli im‐
migrati nella localizzazione della popolazione a Roma: sono tut‐
t’ora convinto che questo sia un limite forte e che proprio analiz‐
zando come i nostri “stranieri interni” usano la città potremmo
trarre utili indicazioni sui cambiamenti che stanno per emergere.
Gli immigrati, se operano talvolta una pidginizzazione della
Trasformazioni culturali e dinamiche urbane. Nove domande 287
b/n sata
lingua, hanno già prodotto una creolizzazione della città. Mi spie‐
go: i pidgin sono lingue ipersemplificate, la cui sintassi è ridotta
00 fre
al minimo, e sono sempre locali, nel senso che si usano in intera‐
2
zioni comunicative minime. Sono le lingue che si parlano ai bam‐
0x ura
bini, o agli stranieri, in cui frequentemente i gesti e l’intonazione
4
1 s
compensano le mancanze morfologiche o sintattiche. Sono lingue
s
a 3 m bro
parlate con i verbi coniugati sempre all’infinito, in cui l’articola‐
z z o m to
zione della temporalità, così come quella modale, è ridotta al mi‐
Bo mat men
nimo. Le lingue creole invece sono lingue ricomplicate, frutto
dell’inserimento di una duplice alterità: “sono lingue che tradu‐
for esti cono sempre un’altra lingua ma sub iudice di una terza. Per
all
esempio nel contatto fra il cinese e il malese, l’esito creolo è dipe‐
so dal ruolo mediatore dell’inglese” (Fabbri 2000, p. 75). Gli im‐
migrati si sono inseriti nella città adottandone modelli sempli‐
ficati, ma complicandola, creolizzandola, ne hanno mostrato la
complessità: sulla base di una lettura contemporaneamente glo‐
bale e locale delle relazioni fra centro e periferia, si sono posti
nella periferia del centro (Bangladesi e Cinesi all’Esquilino e al
Pigneto‐Torpignattara); hanno ricostituito le loro comunità nelle
estreme periferie della città, in tutta l’area regionale che la inte‐
ressa (Rumeni, Albanesi, e Polacchi nei comuni della cintura), o
ancora hanno fatto saltare completamente la relazione fra centro
e periferia per valorizzare solo la relazione fra pieno e vuoto, oc‐
cupando tutti i terrains vagues, le aree intercluse e abbandonate,
i sottopassaggi, i luoghi più impervi dei parchi, i margini delle
stazioni, e le anse dei fiumi (i Rom). Hanno dunque attivato
“questa facoltà di rimotivare l’arbitrario che noi semiologi chia‐
miamo semisimbolica” (ib., p. 78).
E proprio la rimotivazione occasionale della arbitrarietà lin‐
guistica era un aspetto importante completamente al di fuori de‐
gli studi di semiotica dell’architettura sviluppati in Italia negli
anni settanta, che concepivano solo l’arbitrarietà del linguaggio e
per questo cercavano il segno minimale come una via che li por‐
288 Pierluigi Cervelli
b/n sata
tasse al “codice”, inteso come una sorta di pietra filosofale che
permettesse di realizzare l’utopia delle lingue perfette: la traspa‐
00 fre
renza totale della comunicazione, che sarebbe stata assicurata una
2
volta individuati tutti gli elementi del linguaggio dell’architettu‐
4 0x ura
ra, ridotta però ad una lingua semplificata, un alfabeto immobile
1 s
di forme il cui significato era trascendente rispetto a qualunque
s
a 3 m bro opera, fissato esteriormente nella società, nella cultura. Lontano
Bo mat men
fetta, la creolizzazione della città permette nuovi dialoghi.
b/n sata
che, come diceva Baudelaire, sembra presentare insieme le carat‐
teristiche dell’immensità e del movimento. Le interviste hanno
00 fre
navigato a ragion veduta.
2
x ra
0
1 4
6. Le domande
s su
a m b ro
3 m1. Parliamo della mutazione di Roma che è avvenuta in questi ulti‐
o zz to nmi dieci anni. Mi pare siano in atto due tendenze piuttosto diver‐
t o
B ma me che ha tentato una ridefinizione, secondo me necessaria, organi‐
se: da un lato quella riconducibile all’esperienza del nuovo PRG,
b/n sata
banistici tradizionali, e gli urbanisti stessi, in questa dinamica?
00 fre
2. A proposito di questo le pare di poter notare una differenza fra
2
le centralità che si vanno a definire nella città consolidata (penso
0x ura
al sistema delle aree culturali che collega il Foro Italico, l’Audito‐
4
1 s
rium, il Maxxi) e le centralità che sorgeranno nei quartieri perife‐
s
a 3 m bro
rici? Si tratta di interventi riconducibili alla stessa logica o no? Le
z z o m to
pare che la distinzione fra centro e periferia possa essere ridefinita
Bo mat men
sulla base di questi interventi? Quali sono stati i criteri adottati?
all
ne generale? È legata solo al fenomeno, particolarmente evidente,
della costruzione di nuovi monumenti moderni, di architetture
“griffate” legate a quelle che sono state chiamate Archistar oppu‐
re le sembra possa giocare un ruolo in tutto il panorama urbano?
In che modo si pone il ruolo dell’architettura rispetto alla prolife‐
razione della periferia urbana, e alla sua omogeneità (fra perife‐
rie diverse e fra città diverse)?
4. All’interno di questo panorama le sembra che i casi che abbiamo
considerato nella nostra ricerca, l’Auditorium‐Parco della Musica,
L’Ara Pacis e il quartiere Esquilino nella zona di piazza Vittorio
abbiano una loro significatività?
5. Nel PRG mi pare rivesta una grande importanza il riconosci‐
mento di una “storicità architettonica” diffusa in tutta la città – at‐
traverso il concetto di città storica – che mi pare si possa configu‐
rare come una più generale memoria culturale espressa dallo
spazio urbano. Da questo punto di vista, penso anche alle recenti
discussioni attorno al progetto di Renzo Piano all’EUR o alle cri‐
tiche mosse al progetto di Meier all’Ara Pacis, le pare vi siano dei
conflitti attorno a questa memoria? Come si potrebbe concepirla
progettualmente? Le sembra che la considerazione di questa me‐
Trasformazioni culturali e dinamiche urbane. Nove domande 291
b/n sata
moria stia nella ricerca di forme di uniformità o regolarità in cui
la tradizione precedente, o il contesto urbano assestato, funzio‐
00 fre
nino come una specie di norma o che invece sia proprio nelle dif‐
2
ferenze, nell’eterogeneità formale e stilistica, la possibilità di co‐
0x ura
struire dei dialoghi produttivi fra passato e presente e in qualche
4
1 s
modo di aumentare la significatività che nuove e vecchie archi‐
s
a 3 m bro
tetture portano con sé?
z z o m to
Bo mat men
6. È possibile pensare che esista anche una memoria attuale, in
via di costituzione, attorno alle nuove architetture e alle zone di
all
che delle architetture anonime? Penso ad esempio ai casali di
campagna che si trovano lungo il Raccordo Anulare: le sembra
che il paesaggio urbano, che mi pare a tratti di grande fascino, di
cui essi sono elementi costitutivi, sia testimone di un passato
denso sebbene più recente, sia cioè portatore di una sua memoria
culturale e sociale?
7. Le sembra che gli immigrati abbiano avuto, o stiano avendo,
un ruolo autonomo nella attuale mutazione di Roma, anche in
relazione ai fenomeni di riqualificazione – o gentrification – delle
aree “degradate” posizionate al centro della città, come le aree
centrali della via Casilina, o alcune zone del quartiere Esquilino?
Se si tratta di attori rilevanti nelle dinamiche urbanistiche, come
pensa dovrebbero essere considerati operativamente i fattori di
identità/alterità culturale? È possibile evitare una zonizzazione
“etnica” della città, che di fatto mi sembra si sia già manifestata
spontaneamente? Come le sembra si potrebbe evitare che questo
in futuro diventi un problema, soprattutto in relazione all’edili‐
zia residenziale pubblica, come è avvenuto in Francia?
8. Parliamo di flussi di popolazione, a livello stavolta locale: se‐
condo una prima superficiale impressione, desunta dal senso
292 Pierluigi Cervelli
b/n sata
comune, i cittadini italiani si localizzano a Roma secondo un asse
radiale, come se la città si sviluppasse in modo progressivo dal
00 fre
centro alla periferia e come se si fosse sicuri che prima o poi le
2
nuove zone verranno riassorbite dalla città consolidata, secondo
0x ura
il modello dell’espansione degli anni sessanta. Secondo lei sono
4
1 s
rilevabili e visibili delle forme di persistenza legate ai modi di
s
a 3 m bro
posizionarsi dei cittadini in certe zone della città? Le pare sia
z z o m to
possibile correlare questi movimenti alle modificazioni urbani‐
Bo mat men
stiche oppure le sembra che persista una sorta di autonomia re‐
ciproca fra comportamenti abitativi e forma globale della città?
for esti
all
9. Anche a Roma iniziano a diffondersi quartieri privati, spesso
fuori dal territorio comunale, che sembrano costituire una forma
italiana media fra gated communities e “città giardino” senza la
città. Si tratta di aree assimilabili a quartieri borghesi di pregio
ma fuori dalla città, in cui l’inaccessibilità degli estranei pare ave‐
re una certa importanza. Le pare sia in atto, o si sia già manifesta‐
ta, una tendenza alla privatizzazione dello spazio urbano?
b/n sata
Gianni Celestini
00 fre
Macrocosmi e microcosmi urbani
2
0x ura
1 4
1. La strategia messa in atto dal nuovo PRG di Roma prende atto
della s s contemporanea, mi sembra un primo passo
dispersione
a m b ro
3 mimportante: riconoscere che la realtà ha superato di fatto ogni se‐
o zz to npagna. La rivisitazione dell’idea di “centro” è una onesta conse‐
o
parazione ideologica, metodologica e culturale tra città e cam‐
t
B ma me guenza, oltre che un doveroso aggiornamento di categorie inter‐
for esti pretative ed operative. Un fatto estremamente positivo che va
all
nella direzione di uno sforzo “creativo” di immaginazione e pro‐
getto di un nuovo habitat.
L’altra considerazione significativa ed in qualche modo impli‐
cita nella domanda è che quel fenomeno complesso che chiamia‐
mo città (comprendendo dunque periferie e ambiti sub‐urbani) è
un testo con molti autori e molteplici scritture. Non più solo l’au‐
torità pubblica che pianifica, gestisce, tutela, e gli operatori im‐
mobiliari che costruiscono, ma anche comportamenti sociali ed
individuali che con parti distinte di città instaurano nuove rela‐
zioni e nuovi processi di radicamento. Non sempre si tratta di
fenomeni di segno positivo, spesso anzi sono ambigui se non re‐
gressivi. Sono convinto che su questi temi non si debba avere un
“pregiudizio” di tipo morale, né un atteggiamento esasperata‐
mente giudicante. Alcune di quelle forme di insediamento che
potremmo definire spontanee sono espressione di un rapporto
profondo, materiale ed anche psicologico, che le persone hanno
con l’abitare. Gli antropologi studiano questi comportamenti, ne
individuano origini e sviluppi. Chi progetta ha di fronte un altro
aspetto della medesima questione, ovvero come organizzare, da‐
re senso e valore a materiali (comportamenti, bisogni, modelli
estetici) così eterogenei. La storia recente segnala che questo la‐
voro di interpretazione è difficile e che in molti casi ha prodotto
294 Gianni Celestini
b/n sata
risultati molto discutibili.
La periferizzazione della città, osservata dall’angolo critico
00 fre
dell’urbanistica, è una condizione fisica, spaziale e persino psico‐
2
logica caratterizzata dall’assenza di struttura, di coerenza, di for‐
0x ura
ma, di carattere, di centro. Una realtà che sfugge alla rappresen‐
4
1 s
tazione tradizionale del territorio, abituata a leggerne l’articola‐
s
a 3 m bro
zione secondo le figure della discontinuità, dell’eterogeneità, e
z z o m to
del frammento.
Bo mat men
Questi sono anni di crescita incessante delle aree urbane, so‐
prattutto nei loro territori di margine e rurali. Si stima che all’ini‐
for esti zio del XXI secolo circa il 50% della popolazione mondiale vive
all
in insediamenti urbani e che intorno al 2030 questa percentuale
salirà al 60% con uno sviluppo concentrato soprattutto nelle aree
periferiche. Questo fenomeno incide profondamente i processi di
caratterizzazione urbana coinvolgendo la natura della città e del‐
la non‐città, gli ambiti rurali, con forza e radicale trasformazione.
Urbanizzazione della campagna e ruralizzazione della città sono
due volti di uno stesso processo che determina una estensione
del costruito che assume caratteri e forme che non appartengono
più alla “forma urbis” e sono in attesa di una caratterizzazione. E
questo mi sembra proprio il compito del progettista e del pianifi‐
catore: lavorare sulla interpretazione e sulla rappresentazione di
questi nuovi caratteri.
Azzardo una prima valutazione, le “nuove centralità” del
PRG di Roma si stanno costruendo estranee ai contesti nelle quali
si collocano. Mi sembrano satelliti urbani, di varia qualità edili‐
zia, che atterrano in sedimi liberi. Mi sembra completamente as‐
sente una strategia di intervento che costruisce pezzi di città in
forte relazione con i caratteri fisici, morfologici, topografici degli
ambiti rurali che investono.
2. Mi pare, per continuare la riflessione, che vi sia una sostanziale
differenza tra le “centralità” della città consolidata e le “nuove
Macrocosmi e microcosmi urbani 295
b/n sata
centralità”. Le prime sono dei fuochi nei quali si concentrano
quantitativamente e qualitativamente l’energia della città, i flussi
00 fre
materiali ed immateriali, le attività, le funzioni, gli spazi caratte‐
2
rizzati e specializzati in grado di rispondere a domande sociali
0x ura
molteplici e varie. Sono poli, catalizzatori inseriti in un contesto
4
1 s
urbano e sociale riconoscibile come appartenente alla città. Le se‐
s
a 3 m bro
conde, hanno il limite di riprodurre un modello e soprattutto un
z z o m to
sistema di relazioni tra le parti in un contesto nel quale manca, o
Bo mat men
è di natura diversa, proprio la parte che nella città consolidata è
il tessuto urbano.
all
sistemi infrastrutturali abitati) è caratterizzato da un vivace me‐
tabolismo evolutivo, composto da figure prive di chiari confini,
senza un centro riconoscibile ed una netta distinzione tra le di‐
verse parti. Si tratta di una condizione che ormai con una espres‐
sione consumata è stata definita la città diffusa, divenendo og‐
getto di letture interdisciplinari che ne indagano i processi, le
forme e talvolta i valori.
3. Ruolo dell’architettura. In proposito credo si possa offrire al
dibattito un altro punto di osservazione: il paesaggio, o meglio
per citare Bruno Zevi (Zevi, a cura, 1999), “il paesaggio: grado
zero dell’architettura”.
Il “materiale urbano” di cui stiamo discutendo è una entità fi‐
sica dal carattere incerto tra habitat e natura, infrastrutture, in‐
somma domina una grande indeterminatezza spaziale i cui
caratteri derivano molto dalle dimensioni: ambiti spesso irrego‐
lari, talvolta molto ampi ed occupati da usi impropri. In questi
luoghi credo che la priorità sia il progetto degli spazi pubblici li‐
beri, la costruzione di un sistema di relazione, una sorta di “in‐
frastruttura” primaria finalizzata ad inverare in questi luoghi
l’urbanità che vi manca. Al contrario mi sembra priva di efficacia
l’idea di riproporre la “classicità” dello spazio urbano consolida‐
296 Gianni Celestini
b/n sata
to intorno al rapporto piazza‐monumento.
In questo spazio contemporaneo, dove è incerto il tentativo di
00 fre
definizione di limiti, lo spazio pubblico muta di natura e forma e
2
si presta ad assolvere un ruolo diverso da quello assunto prece‐
0x ura
dentemente. Le aree centrali ed i luoghi di “loisir” si spostano
4
1 s
verso le periferie, cosicché questi nuovi territori di vita offrono
s
a 3 m bro
paesaggi al contempo urbani e rurali.
Bo mat men
nuovo; la città ottocentesca già sperimenta questa evoluzione: il
viale rapidamente si espande fino ad integrarsi con gli spazi ver‐
all
sciente del significato civico dell’architettura del paesaggio: i
parchi di Boston e New York sono un esempio di vitalizzazione
della vita pubblica mediante il paesaggio.
Molte esperienze internazionali contemporanee suggeriscono
una continua ibridazione di spazi aperti di diversa natura dando
vita a luoghi dotati di caratteri nuovi e diversi da quelli consoli‐
dati.
I sistemi paesaggistici hanno la forza di modificare radical‐
mente le centralità innervando le aree prive di caratterizzazione,
inglobando le nuove infrastrutture, colmando un deficit di dota‐
zioni, servizi ed attrezzature.
4. I casi di studio affrontati sono certamente emblematici della
complessità e contraddittorietà della attuale condizione.
L’Ara Pacis di Meier è oggetto di importanti sforzi per tra‐
sformarla in un “contenitore” (così si dice in un linguaggio urba‐
nistico a mio parere un po’ desueto) capace di intercettare mag‐
giormente flussi di persone e superare così una scarsa attrattività
per le traiettorie di uso della città.
Diversamente l’Auditorium mi sembra la prova che qualità
dello spazio pubblico e chiari programmi di uso incontrano com‐
portamenti e modi di attraversare, percepire ed utilizzare lo spa‐
Macrocosmi e microcosmi urbani 297
b/n sata
zio urbano emergenti.
Piazza Vittorio, di cui ho un ricordo da studente universita‐
00 fre
rio, è potenzialmente il nuovo centro di una urbanità varia, plu‐
2
rale e “contaminata”, ma anche in questo caso, credo che gli in‐
0x ura
terventi di recupero e sistemazione del giardino e della piazza
4
1 s
non siano stati in grado di interpretare e rappresentare con aper‐
s
a 3 m bro
tura e flessibilità le modalità d’uso e le domande d’identità
z z o m to
emergenti.
Bo mat men
5. Il tema della memoria, in una fase di grande indeterminatezza
all
le. La memoria è invocata come un valore “guida” per il nuovo,
ritenuto incapace di esprimere valori ed identità innovative; è un
facile passepartout per strategie di mercato – basta pensare agli
outlet rigorosamente in stile neoclassico; la sua difesa è conside‐
rata un baluardo per impedire trasformazioni le cui conseguenze
spesso sono distruttive. Dunque è una questione molto delicata.
La memoria è anche la bandiera di autorità, enti, singoli per‐
sonaggi che rappresentano l’espressione di una storia senza mu‐
tazioni. Un modo di guardare alla storia che contempla solo un
atteggiamento filologico del restauro ed esclusivamente mimeti‐
co nel rapporto tra preesistenze e nuovi interventi. Un atteggia‐
mento che colpevolmente favorisce la cattiva qualità. Purtroppo
questo modo di intendere il rapporto con la memoria riguarda
non solo le singole architetture, i monumenti o parti storiche di
città, ma anche i cosiddetti nuovi quartieri con il risultato che
nella città si perpetua la divisione tra una parte – storica – da
mantenere, meglio da ingessare nella quale qualunque muta‐
mento è considerato una violazione dell’identità originaria – ed
una contemporanea priva di qualunque valore identitario a me‐
no di riproporne una immagine “classica” e storica.
Io credo invece che per mantenere la vitalità della città vanno
comprese innanzitutto le dinamiche del suo metabolismo. Nes‐
298 Gianni Celestini
b/n sata
suna città è giunta al suo termine, nel momento in cui una città si
chiude in una gabbia involutiva finisce per produrre patologie
00 fre
autodistruttive.
2
La storicità architettonica di una città non può essere gestita
0x ura
solo attraverso impianti normativi – anche i più restrittivi ed ar‐
4
1 s
ticolati. Quando ad una città vengono sottratte delle idee evolu‐
s
a 3 m bro
tive, la fitta rete normativa tenderà ad alimentare sia posizioni di
z z o m to
monopolio lecite ed illecite, che a risultare inefficace riguardo a
Bo mat men
trasformazioni rilevanti… Torno ad insistere: occorrono idee,
certo di grande rispetto, ma in grado di cogliere le vocazioni di
all
rogeneità stilistica è la strada attraverso la quale costruire un
rapporto attivo con il passato.
Per ragioni evidenti il rapporto tra nuovo e memoria (storica,
figurativa, culturale) è immanente ad ogni azione progettuale.
Personalmente, in ogni progetto è presente una azione interpre‐
tativa di ciò che in questa conversazione definiamo memoria. Es‐
sa talvolta trova espressione nella scelta dei materiali, altre volte
è rintracciabile nel disegno d’insieme: è un punto di vista, una
chiave molto soggettiva e personale con la quale ogni progetto è
una narrazione, racconta una storia, del luogo, delle interpreta‐
zioni e percezioni che di quel luogo nel tempo si sono avute.
6. Registro una apparente contraddizione tra una immagine rigi‐
da, fissa ed astratta che i nuovi insediamenti periferici comuni‐
cano ed un incessante lavorio che gli abitanti compiono per
introdurre degli elementi capaci di comunicare un senso di ap‐
partenenza al luogo.
Insisto, il punto è che la pianificazione e la realizzazione delle
nuove centralità ha considerato i luoghi di sedime privi di qua‐
lunque caratterizzazione. Ma ad una lettura, più attenta, ad uno
sguardo capace di indagare tra le pieghe scopriamo che hanno
delle proprie dinamiche, sono composti da spazi permeabili, at‐
Macrocosmi e microcosmi urbani 299
b/n sata
traversati da morfologie diverse con stratificazioni topografiche a
scale differenti, qualità specifiche che possono costituire il punto
00 fre
di partenza per un processo di rigenerazione.
2
Si tratta di luoghi dove alla componente “naturale” (lo spazio
0x ura
rurale) si sovrappone un ordine sociale, psicologico, affettivo che
4
1 s
sostituisce quello geometrico ed urbanistico.
s
a 3 m bro Ad esempio aggregazioni edilizie incorporano nella dimen‐
z z o m to
sione privata lo spazio pubblico, peraltro assente all’esterno;
Bo mat men
dando luogo ad un arcipelago di organismi edilizi che aggregano
unità minime, sottosistemi spesso perfettamente funzionanti al
all
quelli vicini.
Queste forme insediative riflettono la povertà delle dinamiche
di relazione e di scambio tra i soggetti che partecipano alla co‐
struzione del territorio e all’organizzarsi della società per sottosi‐
stemi, per “minoranze” che operano come “microcosmi”. Un fe‐
nomeno di strisciante privatizzazione dello spazio pubblico che
in qualche caso si esemplifica in quartieri privati con vigilantes a
controllare gli accessi.
Dal punto di vista creativo credo che l’attuale momento rap‐
presenti l’opportunità di sviluppare una sperimentazione per un
progetto di paesaggio in grado di favorire la coesione e proporsi
come un nuovo strato che si sovrappone ai molti strati costruiti
dello spazio antropizzato.
Un progetto di paesaggio dotato di evidenti qualità trasversa‐
li, sensibile al contributo dei diversi saperi, in una accezione mul‐
tiscalare.
Al progetto assegno il compito di narrare e rendere visibili le
molteplici forme attraverso le quali si esprimono le idee di me‐
moria, di identità, di trasformazione delle culture quando incon‐
trano i geogrammi di un dato ambiente.
Non mi riferisco alla invenzione del paesaggio, ad esempio
nella pittura, ma al fatto che il paesaggio è il risultato di una serie
300 Gianni Celestini
b/n sata
di decisioni che si compongono in un certo ordine e che trovano
concreta manifestazione nella immagine che ne è il prodotto.
00 fre
Il progetto agisce sulla stratificazione storica alla base dell’im‐
2
magine paesaggistica, muove dalla topografia dei luoghi per poi
0x ura
trascenderla, interpreta una topografia sociale, interseca temi,
4
1 s
dimensioni, provoca tensioni; genera un campo di forze aperto ai
s
a 3 m bro
diversi flussi degli abitanti, dei comportamenti, delle informa‐
z z o m to
zioni, articola i sistemi più generali in sottosistemi in grado di
Bo mat men
generare nuove relazioni e nuovi movimenti.
Una linea plurale che assume in sé diverse tematizzazioni; per
all
Nelle periferie contemporanee, quella che definiamo armatu‐
ra urbana è spesso assente, oppure estremamente povera e sem‐
plificata: strade, marciapiedi, se si è fortunati illuminazione.
Ciò che domina è un carattere anonimo accentuato dalle co‐
siddette opere di urbanizzazione che inducono ancor di più la
percezione di estraneità rispetto ai luoghi di sedime. Al contra‐
rio, queste, se oggetto di un approccio integrato possono svolge‐
re una funzione attiva di rigenerazione e dare vita a nuove forme
di immaginazione della città, diventare un sistema di orienta‐
mento, favorire un rapporto di appartenenza degli abitanti al
luogo. Occorre lavorare con ciò che si ha disposizione. Ad esem‐
pio l’introduzione di sistemi di drenaggio e di smaltimento delle
acque meteoriche costituiscono una opportunità per rendere più
esplicite le relazioni tra un insediamento e la topografia. Così
come l’impiego di elementi quali pergole, ripari, sedute, illumi‐
nazione, alberature può dare vita a spazi pubblici che rafforzano
le connessioni con il territorio e favoriscono forme di vita comu‐
nitaria tra gli abitanti. La compresenza di diversi registri come
un sistema di coerenza, una gradazione di scale per luoghi tal‐
volta estesi e frammentati.
b/n sata
Daniel Modigliani
00 fre
Le trasformazioni di Roma nel nuovo Piano Regolatore
2
0x ura
Generale
4 s del moderno e dell’urbanistica moderna si ag‐
1. 1Nella cultura
s
a m b ro
3 mgiungono quartieri per risolvere i problemi di una città che cre‐
z o
z to ne sce… Noi siamo però in una condizione in cui la città non cresce,
t
o
B ma me sforma. L’entità della trasformazione è la città esistente: si tratta
dobbiamo invece risolvere il problema della città che si tra‐
al l grammi di crescita della città di Roma dall’unità d’Italia fino ad
oggi si nota che la popolazione ha un andamento crescente con‐
tinuo, a parte i periodi di guerra, e a questo andamento crescente
corrisponde biunivocamente la crescita dell’occupazione del suo‐
lo. Questo è il modello classico dell’inurbamento. La fine di que‐
sto fenomeno si è avuta dalla metà degli anni ottanta: da allora la
popolazione romana è pressoché stabile. L’inurbamento è finito.
Adesso abbiamo una leggera crescita per via degli immigrati e di
un aumento delle nascite, ma si tratta di percentuali poco signifi‐
cative. Dopo 15 anni che la città è in questa condizione, non si
deve pensare ad una ulteriore espansione, ma a fare stare meglio
quelli che già abitano la città. Le aree occupate dall’insediamento
e dall’urbanizzazione sono più che sufficienti, considerando an‐
che i vuoti, le aree intercluse, sottoutilizzate, dismesse. Perché,
allora, pensare ancora all’espansione? Il Piano è per il recupero
della città già presente, l’espansione è in esso un fenomeno mar‐
ginale, e i pochi punti percentuali, in aggiunta allo stock edilizio
esistente, che sono stati impegnati per nuove costruzioni rientra‐
no nell’obiettivo strategico del decentramento. Si devono dunque
spostare funzioni di livello superiore dal centro storico verso la
periferia. Per due obiettivi: per riequilibrare il sistema generale
302 Daniel Modigliani
b/n sata
dell’area metropolitana, aiutando anche tutti i comuni della cin‐
tura, con cui le centralità a rete determineranno un diverso rap‐
2 00 fre
porto, perché si situano a metà fra essi e la parte compatta della
città dentro il Raccordo anulare (e questo attiene alla immissione
0x ura
di funzioni di livello superiore); per introdurre nelle aree esterne
4
1 s s
nuovi luoghi di alta qualità sia per l’architettura che per gli spazi
a 3 m bro
pubblici, che siano il segnale che anche il nuovo può essere bello.
z z o m to
Il centro storico manterrà le funzioni di direzionalità pubblica, di
Bo mat men turismo. Bisogna cercare di farlo funzionare di nuovo, valoriz‐
for esti
zando il suo potenziale ed eliminando quello che costringe il re‐
sto della città ad esserne tributario, come tutte quelle funzioni di
all
livello superiore che potrebbero essere decentrate e non si spo‐
stano per inerzia: le caserme, la Rai, le università (soprattutto la
prima università).
Come saranno strutturate le centralità? C’è spesso, da parte
degli imprenditori, il vizio di pensare al progetto di un nuovo
quartiere aggiuntivo: ma questa è una modalità di crescita della
città in espansione. La differenza fondamentale è invece nelle
funzioni e nella configurazione spaziale. Un quartiere aggiuntivo
ha solo servizi locali: la parrocchia, la scuola, il giardino, il super‐
mercato. Ma per servizi di livello superiore, come attività didat‐
tiche di livello superiore, culturali, sportive (come un posto dove
si svolgano competizioni cui possano assistere 5000 spettatori)
non è sufficiente creare un quartiere aggiuntivo: è necessario in‐
vece un complesso di funzioni che formino un centro. Questo
significa realizzare grandi spazi e fare in modo che i cittadini
possano andarci, cioè creare anche spazi pubblici minori di con‐
nettivo e di percorsi. Ci sarà anche una quota di abitazioni, circa
il 50%, sul modello della città esistente e storica, perché non si sta
facendo un’acropoli di servizi pubblici ma un nuovo pezzo di cit‐
tà specializzata come centralità, un posto dove si possa uscire di
notte, dove ci siano negozi, bar, pizzerie come in tutti i quartieri,
Le trasformazioni di Roma nel nuovo Piano Regolatore Generale 303
b/n sata
ma non solo questo, altrimenti realizzeremmo il solito quartiere ag‐
giuntivo, un’ulteriore lottizzazione, un altro piano di edilizia re‐
2 00 fre
sidenziale pubblica. Questi contenuti funzionali e spaziali, che
credo necessari, possono rendere le centralità molto “vivaci” ed
0x ura
adeguate al ruolo urbano che debbono avere.
4
1 s s
A livello dei macro‐attori della trasformazione mi pare non
a 3 m bro
esistano più sedi politiche di discussione, di passaggio dalla ri‐
z z o m to
vendicazione alla rappresentanza. L’area politica pare muoversi
Bo mat men
sulla base di valutazioni populiste, con una cesura determinata
dalla mancata comprensione della possibilità reale di trasforma‐
all
tesa come capacità di ricondurre ad un territorio comune parti
sociali e imprenditoriali, ma anche una visione di lungo periodo:
gli unici momenti in cui questo è avvenuto a Roma sono stati du‐
rante la giunta Petroselli e nel periodo compreso fra il 1994 ed il
1998. Nel frattempo mi pare si proceda un po’ per inerzia. Meglio
comunque un’inerzia regolata che una deregulation: il Piano sta
tenendo sotto controllo la trasformazione, e questo non succede
in altre città, nelle quali si opera per varianti successive. Dal pun‐
to di vista dei micro‐attori della trasformazione, mi pare che
stiamo assistendo ad una somma di interventi di risanamento
edilizio trascinata dalla domanda di risanamento urbano. Quan‐
do gli abitanti dei quartieri si rendono conto che è arrivata al li‐
mite la possibilità di valorizzazione del luogo in cui abitano con
l’intervento sul proprio patrimonio e che la valorizzazione ha ne‐
cessità di un intervento sugli spazi pubblici allora iniziano a chie‐
dere l’intervento sulla parte pubblica. Talvolta i municipi si
aggregano e si creano rapporti sociali e collettivi, agglomerazioni
di strada e di quartiere, perché si sentono le stesse esigenze. In
passato questo è avvenuto, soprattutto nelle borgate ex‐abusive.
C’è un altro atteggiamento presente però: che tutto quello che è
fuori dal confine della propria proprietà debba essere oggetto di
un intervento pubblico, percepito come dovuto. Il fine è l’incre‐
304 Daniel Modigliani
b/n sata
mento del valore individuale, ma realizzato con soldi pubblici e
attraverso un intervento pubblico. Questa è una deformazione
00 fre
tipica del “popolo senza strumenti”, che chiede al suo “padrone”
2
di fare qualcosa, senza che emerga la volontà di fare autonoma‐
0x ura
mente per le parti comuni. Questo vale anche per l’edilizia resi‐
4
1 s
denziale pubblica: spesso l’utente si mette nella posizione di una
s
a 3 m bro
persona cui tutto è dovuto. Così molti inquilini non pagano
z z o m to
l’affitto e l’Ater non ha soldi neanche per la manutenzione. Le
Bo mat men
case popolari, ex Iacp, Ater e comunali, svolgano una funzione
sociale fondamentale di tipo assistenziale: per chi non può paga‐
all
continua nel tempo. Se si modificano le condizioni che rendono
necessaria l’assistenza ci sono due soluzioni: pagare un affitto a
prezzi di mercato o agevolare l’acquisto di una casa, liberando
così le case per chi ne ha bisogno, senza godere più di un privile‐
gio che pagano tutti. Queste deformazioni si concretizzano in
una iniquità di trattamento pazzesca all’interno delle città. La po‐
litica non ha il coraggio di incidere questo bubbone perché par‐
liamo di grandi numeri di elettori: a Roma parliamo di circa
90.000 alloggi. In Francia e in Olanda, dove c’è un governo degli
alloggi pubblici, la rotazione ordinaria permette che il 5‐6% degli
alloggi si liberino ogni anno per le emergenze abitative (per de‐
cesso, spostamento per lavoro, per superamento dei limiti di
reddito). Se avessimo un tale regime di rotazione ordinaria
l’emergenza abitativa a Roma non esisterebbe. Perché dovremmo
allora costruire case? All’emergenza dell’emigrazione, degli al‐
loggi usati impropriamente, del sovraffollamento, bisogna ri‐
spondere con una logica ordinaria, non emergenziale, altrimenti
si propone immediatamente la speculazione sulle aree pubbliche
da parte dell’industria delle costruzioni.
2. La situazione nella città consolidata è completamente diversa
da quella delle centralità che cresceranno in periferia. In essa le
Le trasformazioni di Roma nel nuovo Piano Regolatore Generale 305
b/n sata
centralità si presenteranno come interventi puntuali, poiché le
possibilità fisiche di trasformare le parti della città sono scarsis‐
00 fre
sime. La città consolidata va migliorata attraverso parcheggi, re‐
2
cupero, miglioramento della viabilità, illuminazione, mezzi pub‐
0x ura
blici. La trasformazione non è però un intervento che riconfigura,
4
1 s
non sono previsti cambiamenti di assetto perché la città è già
s
a 3 m bro
configurata, mentre nella periferia si possono creare dei nuovi
z z o m to
spazi, veri e propri pezzi di città costruiti ex‐novo. Se se ne ha la
Bo mat men
capacità però, altrimenti si producono solo dei “quartierini” ag‐
giuntivi.
for esti
all
3. Oggi viene sempre più spesso a mancare la fiducia nell’archi‐
tettura moderna. L’ideologia del Novecento ha portato al distacco
dalla storia, e questo in urbanistica ha avuto delle conseguenze
disastrose. I nuovi quartieri di Roma (realizzati negli anni Ottan‐
ta), come Tor Bella Monaca, Vigne Nuove, Serpentara, sono tutti
quartieri che inventano forme monumentali, per essere segnali
urbani in periferia. Questi nuovi insediamenti sono stati caricati
di significato figurativo ma per fare questo si sono staccati dalla
storia della città. Si è fatto della residenza un monumento, men‐
tre nella città tradizionale essa è sempre stata tessuto, legante,
connettivo. Le residenze sono state montate come dei pezzettini
di Lego, parafrasando quello che un tempo è stato fatto con le
chiese, con le piazze, con gli edifici pubblici o con le ville private,
ma mai con le residenze. Nelle nostre città storiche l’investimen‐
to nella qualità della città non era diretto alle abitazioni private,
in cui ognuno investiva come voleva, ma sugli spazi e sui servizi
pubblici. Nei nuovi quartieri questo investimento è stato diretto
invece sulle case, su cui si concentrava la domanda, cambiando il
ruolo della residenza. Il montaggio di questi “pezzettini di Lego”
ha prodotto qualcosa di molto diverso: qualcosa che si vede da
lontano, come le torri di Tor Bella Monaca, l’unico segno che si
vede nella periferia della zona est di Roma arrivando dall’auto‐
306 Daniel Modigliani
b/n sata
strada o guardando dai Castelli. Non si vedono più le cupole del‐
le chiese, un servizio pubblico che determinava il paesaggio ro‐
00 fre
mano. Questo modo di costruire la città, soprattutto dal dopo‐
2
guerra in poi, ha ribaltato, sconnesso, la cultura della città storica
0x ura
e imposto modelli moderni come se la storia non avesse il peso
4
1 s
che ha. Quando gli immigrati dalle campagne sono venuti a Ro‐
s
a 3 m bro
ma come muratori hanno costruito le loro case col modello delle
z z o m to
città di provenienza, che avevano in testa, nel modello delle loro
Bo mat men
comunità. Quelle microcittà, che non hanno una forma progetta‐
ta ed esplicita, derivavano però da una lottizzazione ortogonale,
all
al loro interno non ci si perde (mentre ci si perde fra un quartiere
e l’altro). Rispetto profondamente questa forma spontanea di ur‐
banistica implicita perché ha prodotto assetti sociali e un tessuto
economico di una vitalità straordinaria. Questa base diffusa di
cittadini rifiuta l’architettura come prodotto di un altro e vuole
invece fare la propria casa come vuole, come un vestito. Rifiuta
dunque una ideologia dell’architettura imposta da altri negli an‐
ni dell’inurbamento perché c’era una politica per le case pubbli‐
che fatte a migliaia, la cui produzione non poteva essere affron‐
tate senza standardizzazione. Mi pare invece che molti architetti
camminino ancora in un mondo di ideologia della forma che non
trova aderenza nelle realtà. Quando questa riconnessione tra città
ed architettura si ricostituirà allora gli architetti riacquisteranno
il loro ruolo. Qualcuno lo fa già, ma sono pochissimi: le archistar
soprattutto facendo servizi, ma non è una condizione culturale
diffusa, piuttosto un privilegio di alcuni che hanno esercitato una
forte critica rispetto alla loro formazione personale. La presenza
delle archistar non è dunque un male ma non è una soluzione ur‐
bana. Abbiamo dei punti di buona qualità, ma il resto?
4. Quello dell’Esquilino è sicuramente un caso significativo, gli
altri due lo sono meno perché intervengono in contesti talmente
Le trasformazioni di Roma nel nuovo Piano Regolatore Generale 307
b/n sata
predeterminati che il cambiamento non induce alla trasforma‐
zione dell’esistente. L’Auditorium ha rimesso in circolo un pezzo
00 fre
di città ma non è al centro dell’insediamento, piuttosto ne è ai
2
margini: sia del Villaggio Olimpico che del quartiere è Parioli.
0x ura
L’Auditorium non “parla” col Villaggio Olimpico: lì si prova più
4
1 s
fastidio che altro per la presenza di questa nuova struttura. Que‐
s
a 3 m bro
sto anche dal punto di vista dei percorsi: andando all’Audito‐
z z o m to
rium si fa un percorso staccato dalla città circostante, non si entra
Bo mat men
all’interno. Non si tratta dunque di una funzione urbana di livel‐
lo locale, e lo stesso vale per il museo dell’Ara Pacis, che è legato
all
che quello dell’Esquilino è però un fenomeno non tanto di archi‐
tettura quanto di cambiamento di popolazione. C’è stata un’ope‐
razione fondamentale con lo spostamento del mercato che ha
permesso il recupero dello spazio dell’Ottocento, della piazza: un
grande spazio qualitativamente importante, distrutto e inacces‐
sibile perché il mercato di fatto lo “murava”. Poi molti interventi
puntuali di riqualificazione (non ultimo quello su Santa Maria
Maggiore) che bisognerebbe continuare a seguire: penso al recu‐
pero dei portici, la riorganizzazione della nettezza urbana, e c’è
stato anche il recupero dell’acquario romano, un enorme edificio
sottoutilizzato, ora usato in maniera un po’ “privatistica” dall’or‐
dine degli architetti. Ma non ci si è inventati molto, si tratta solo
di pulizia e rimessa in circolo degli edifici pubblici. Tuttavia, il
valore immobiliare si è alzato e chi ha fatto degli investimenti
oculati, i nuovi abitanti cinesi ma non solo loro, ha avuto ricavi
enormi da questa valorizzazione tutta prodotta da investimenti
pubblici. Ci sono ancora sacche di degrado, nella parte di via
Giolitti verso Porta maggiore ad esempio, ma nel complesso il
quartiere ha fatto un salto di qualità enorme. Pur ospitando mol‐
te etnie ha una situazione meno pesante di quello che si potrebbe
pensare ed è una specie di esempio di integrazione, dovuto an‐
che alla regolamentazione del commercio, che ha funzionato.
308 Daniel Modigliani
b/n sata
5‐6. Quando c’è una concentrazione di grandi spazi e monumenti
come a Roma, una tale stratificazione di beni culturali e ambien‐
00 fre
tali, come le parti di agro romano rimaste quasi intatte, il valore
2
storico, che ci ha portato ad affermare che tutta la città è storica,
0x ura
diventa il motore per il recupero. Nel centro storico il patrimonio
4
1 s
c’è e deve essere mantenuto, negli altri luoghi deve essere reso
s
a 3 m bro
visibile, vivo e integrato con la città. Ci sono pezzi di monumenti
z z o m to
romani che emergono circondati da edifici e che perdono il loro
Bo mat men
senso, ci sono bellissime ville dell’Ottocento o viali di impianto
antico che, inseriti in un contesto degradato, non vengono rico‐
all
c’è in periferia, e farlo diventare il centro di quello che si fa, sen‐
za continuare a distruggerlo per un’idea di nuovo, che manca di
continuità e di rapporto col resto della città.
7. Abbiamo anche noi un minimo di zonizzazione etnica, ma non
è la zonizzazione “dura” che c’è in altri paesi. Si tratta piuttosto
di contesti che sono etnici per facilitare la comunicazione, ma an‐
che per “difesa”. Possiamo dire che gli errori commessi negli an‐
ni ottanta con l’edilizia residenziale pubblica, come a Tor Bella
Monaca in Via dell’Archeologia, dove si è creato un ghetto, sono
stati complessivamente recuperati.
8. La privatizzazione è una novità: non è nella cultura urbana ita‐
liana ed è, mi pare, la conseguenza di un mancato controllo del
territorio che porta ad una sorta di difesa collettiva da parte di
chi se la può permettere. La segregazione diventa un costo che si
paga rispetto alla condizione urbana, generalmente assente (ad
esempio nel caso dell’Olgiata). Si tratta di un fenomeno recente
ma consolidato: penso all’Olgiata, a Casal Palocco, all’Infernetto
(in cui la dimensione è individuale ma tutti vivono chiusi in for‐
tezze), come anche, nella zona nord, nei grandi complessi “dei
ricchi” a ridosso del parco di Veio. È anche un fenomeno che si
Le trasformazioni di Roma nel nuovo Piano Regolatore Generale 309
b/n sata
sta producendo attualmente: questa impostazione autosegregan‐
te si ritrova anche in alcune lottizzazioni nuove, ad esempio ac‐
00 fre
canto a Tor Pagnotta, che sono dotate di vigilanza privata.
2
0x ura
9. Non leggo nelle modalità di insediamento una questione di
4
1 s
modello culturale, piuttosto la presenza di una tradizione, la
s
a 3 m bro
mancanza di mobilità sociale, la scarsa dotazione dei servizi, ed
z z o m to
una sedimentazione temporale. In più chi compra ha la speranza
Bo mat men
che il proprio quartiere col tempo migliori.
for esti
all
b/n sata
Piero Ostilio Rossi
00 fre
Le Città di Roma
2
0x una utradizione
ra ormai consolidata, la redazione del
1
Piano
4
1‐2. Secondo
s s di Roma costituisce un’opportunità di rifles‐
Regolatore
a m b ro
3 msione per la cultura urbanistica del nostro Paese e, in genere, l’oc‐
o zz to ncon il Piano del 1909, con il Piano del 1931 (attraverso l’introdu‐
o
casione per la sperimentazione di nuove procedure. È accaduto
t
B ma me zione dello strumento attuativo del piano Particolareggiato) e poi
for esti vato nel febbraio 2008, vi sono elementi di novità, alcuni dei qua‐
ancora con quello del 1962. Anche nel nuovo PRG, quello appro‐
all li possono interessare i temi introdotti dalla prima e dalla secon‐
da domanda.
Sin dagli studi preliminari, una delle parole chiave del nuovo
Piano – un vero e proprio filo conduttore – è stata: “le Città di
Roma”, perché l’idea di città policentrica è alla base delle sue stra‐
tegie; un’idea che scaturisce dalla constatazione che Roma può
essere interpretata come un grande insieme ma anche, e nello
stesso tempo, come un sistema di insiemi. Il PRG ha così assunto
sul piano metodologico l’ipotesi generale che sia possibile indi‐
viduare un insieme che si chiama “Roma”, in cui è rintracciabile
una struttura centrale – che un tempo coincideva sostanzialmen‐
te con la città dentro le mura (il Centro storico) ma che oggi si è
dilatata sino ad inglobare una parte cospicua dei quartieri co‐
struiti nei primi anni del Novecento (la Città storica) – cui fanno
da corona settori urbani più recenti ma ben radicati nella mappa
mentale degli abitanti (la Città consolidata) e settori meno strut‐
turati dal punto di vista urbano, e quindi più fluidi in termini di
tessuti, ai quali corrisponde un’idea di margine periurbano, di
ambiguo passaggio tra la città ed un suo indefinibile intorno (la
Città da ristrutturare). Ma il Piano riconosce che Roma è anche
un sistema che rimanda ad un arcipelago, termine che ritengo
Le Città di Roma 311
b/n sata
definisca meglio di altri questa seconda realtà – una sorta di
doppio – della città. Un insieme di isole nelle quali è possibile ri‐
00 fre
conoscere delle città con i loro centri, i loro luoghi di aggregazio‐
2
ne, le loro periferie interne e le loro sfere di influenza. La strate‐
0x ura
gia del nuovo Piano riconosce questa realtà e la rilancia attra‐
4
1 s
verso l’individuazione e la valorizzazione delle centralità locali e
s
a 3 m bro
delle diciotto centralità metropolitane: (da nord, in senso orario,
z z o m to
Saxa Rubra, Bufalotta, Pietralata, Ponte Mammolo, Polo Tecno‐
Bo mat men
logico Tiburtino, Ponte di Nona‐Lunghezza, Torre Spaccata, Ro‐
manina, Tor Vergata, Ostiense, EUR Sud‐Castellaccio, Acilia‐
all
Maria della Pietà, La Storta e Cesano) proponendo un nuovo mo‐
dello rispetto al passato: quello appunto della Città policentrica.
Io stesso, ancor prima che iniziassero gli studi preparatori per
il nuovo Piano, ho provato ad individuare le diverse città di cui
si compone Roma incrociando una lettura cartografica con i dati
del censimento del 1991 (vedi Fioravanti, Rossi, Balbo, Cellini,
Roma 1999). Ne ho individuato 16+1, nel senso che ho voluto in‐
dicare che una di esse (quella che si snoda fra l’EUR e il mare)
non ha la stessa evidenza delle altre anche perché Roma è sem‐
pre rappresentata in relazione al Grande Raccordo Anulare di‐
menticando che ha invece la forma di una cometa, con una lunga
coda innervata dal sistema di infrastrutture che dal quadrante
meridionale raggiunge Ostia (ferrovia Roma‐Lido, via Ostiense,
via del Mare, via Cristoforo Colombo). Se lei provasse a leggere
Roma non come un continuum ma a disegnarne solo le parti ur‐
banizzate eliminando tutti i grandi vuoti (Villa Borghese, Villa
Ada, il Parco di Monte Mario, il Pineto, Villa Doria Pamphili, la
Valle dei Casali, il grande Parco dell’Appia Antica, il Parco di
Centocelle, il Parco Alessandrino, eccetera, eccetera) e combinas‐
se questa lettura con le sue esperienze quotidiane di cittadino che
vive e si muove all’interno di questo sistema complesso, ricono‐
scerebbe abbastanza facilmente un “sistema di Rome”, ciascuna
312 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
dotata di una propria struttura interna.
In realtà il PRG è partito dall’individuazione di una trama an‐
00 fre
cor più fine: in uno degli studi preliminari che l’Amministra‐
2
zione comunale ha commissionato al CRESME, quello relativo
0x ura
all’individuazione delle microcittà di cui si compone Roma, si
4
1 s
raggiungeva la definizione di intorni spaziali ancor più delimita‐
s
a 3 m bro
ti e quindi molto più numerosi: poco più di 200 in tutta la città
z z o m to
(vedi Capitolium, n. 10, settembre 1999). È un lavoro di grande
Bo mat men
interesse, costruito sulla base di una mappatura di natura carto‐
grafica che lascia emergere la trama del tessuto costruito e che ha
all
ad un campione di cittadini a cui veniva chiesto di denominare e
descrivere l’ambito urbano nel quale vivevano. Così sono scatu‐
rite le microcittà, con i loro nomi, i loro confini e i loro ambiti, un
mosaico fatto di piccole tessere che riproduce una realtà molto
interessante della città.
Di questo studio, io ho fatto un uso molto ampio. Forse lei sa
che, nell’ambito del nuovo Piano, sono stato il responsabile del
gruppo che ha elaborato la Carta per la Qualità della città con‐
temporanea. La Carta per la Qualità è uno degli strumenti gestio‐
nali del nuovo Piano e individua i manufatti di qualità (da qui il
nome) realizzati all’interno della città: noi ci siamo occupati di
quelli relativi alla città del Novecento. Ebbene uno dei criteri del‐
la selezione che abbiamo operato fa riferimento proprio al prin‐
cipio della contestualizzazione di un’opera all’interno di una
porzione di tessuto delimitata e riconoscibile, motivo per cui
manufatti di qualità tra loro comparabile assumono significati e
ruoli diversi – e quindi più o meno rilevanti – in relazione alla
qualità e alla struttura insediativa dell’intorno urbano che li com‐
prende. E i contesti di riferimento di questa indagine sono state
proprio le microcittà del CRESME che sono state assunte come
ambito di riferimento e quindi come unità di senso nella lettura
dei differenti tessuti urbani.
Le Città di Roma 313
b/n sata
Posso quindi dire che gli attori istituzionali – come lei li defi‐
nisce nella prima domanda – abbiano introdotto un interessante
00 fre
elemento di innovazione: una chiave di lettura di Roma capace
2
di individuare a diversi livelli, con diverse grane e con diversi
4 0x ura
vagli, una struttura urbana considerata contemporaneamente
1 s
come una città e come un insieme di città.
s
a 3 mP.C.: bE roimplicitamente si riconosce l’importanza dei microat‐
z z o m tori…
t o
o t n
B ma me Roma negli anni più recenti, le racconto un piccolo episodio. Ac‐
P.O.R.: Per sottolineare come è cambiato il modo di interpretare
r
fo esti canto all’Università di Tor Vergata è stata da poco costruita una
al l nuova chiesa che si chiama di Santa Maria Alacoque. Durante
una passeggiata domenicale in quel lembo di periferia, ho cono‐
sciuto un ingegnere quarantenne che era lì a messa e che abita
non lontano, nel quartiere di Tor Vergata, un insediamento di
iniziativa pubblica realizzato sulla base del secondo Piano per
l’edilizia economica e popolare (PEEP) della città, approvato nel
1987. Abbiamo parlato, mi ha invitato a visitare il suo quartiere e
gli ho chiesto come si trovasse a vivere in quella zona, nella peri‐
feria estrema della città. Mi ha risposto di essere molto contento e
di attendere con molte aspettative la realizzazione della nuova
centralità della Romanina che dovrebbe sorgere non lontano dal
luogo in cui abita. Ho continuato chiedendogli se non si sentisse
lontano dalla città – lo ricordo perché le sue risposte mettono in
discussione la categoria stessa di “periferia” che noi siamo soliti
applicare – ma il mio interlocutore ha risposto di no, anche per‐
ché, ha aggiunto, “lavoro per una società che ha la sua sede nella
zona della Rustica e quindi mi è molto comodo usare il Raccordo
Anulare per andare al lavoro, ma utilizzo il Raccordo anche per
raggiungere i centri commerciali, per i miei acquisti”. “Ma non
sente – questa è stata la mia successiva domanda – il bisogno di
andare qualche volta in centro? Dove va la domenica?”. “Certo,
314 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
mi ha risposto, quando ne ho voglia vado in città: vado a Frasca‐
ti”. Per lui dunque la città è a Frascati, non a via del Corso.
00 fre
Due osservazioni: la prima è che si vanno definendo mappe
2
mentali della città che non considerano più il Centro (con l’ini‐
0x ura
ziale maiuscola) come il luogo centrale di Roma: la stratificazione
4
1 s
del tessuto urbano e la qualità dei suoi monumenti, l’accumula‐
s
a 3 m bro
zione delle funzioni, la scena urbana come teatro degli avveni‐
z z o m to
menti, la tangibile presenza del passato – che caratterizzano il
Bo mat men
Centro delle città italiane – non costituiscono più elemento indi‐
scutibile di attrazione. La concentrazione e l’accessibilità delle
all
su ogni altro valore.
La seconda osservazione riguarda il Raccordo Anulare che ha
perso da tempo il ruolo di arteria di connessione tra le radiali che
si dipartono dal cuore della città (le vecchie “strade consolari”)
per assumere una funzione molto più complessa: l’armatura in‐
frastrutturale di una realtà periurbana che si snoda lungo il suo
tracciato – o meglio: a partire dal suo tracciato – e che rappresen‐
ta un nuovo e ulteriore elemento di complessità della struttura‐
città (vedi “Gomorra” n. 9, 2005, numero monografico dedicato
appunto al GRA). L’ingegnere di cui prima parlavo si muove in‐
fatti lungo il Raccordo non solo per andare al lavoro, ma anche du‐
rante il tempo libero. Nel Dipartimento della Sapienza di cui
faccio parte – il DiAR, il Dipartimento di Architettura – stiamo
appunto lavorando ad una ricerca su questo tema, sulla base di
un’ipotesi che assume il GRA come la main street di una nuova
realtà urbana di cui è necessario studiare la struttura, i margini e
le differenti configurazioni in relazione alle connessioni con le
altre reti.
b/n sata
P.O.R.: Una premessa. Come lei sa, solo l’EUR, con alcuni limiti e
con le sue particolarità – non dimentichiamo che fu progettato
00 fre
nel 1936‐1937 per costituire, dopo l’Esposizione del 1942, la nuo‐
2
va testata dell’espansione della città verso il mare – è riuscito a
0x ura
costituirsi come una nuova centralità: il suo mix di funzioni (re‐
4
1 s
sidenziali, direzionali, commerciali, per il tempo libero), la forte
s
a 3 m bro
dotazione infrastrutturale (la più importante delle quali è la me‐
z z o m to
tropolitana) e la generosa dotazione di parchi e giardini hanno
Bo mat men
costituito, nella città del Novecento, l’unica reale alternativa al
centro antico della città. Quel modello è stato assunto come rife‐
all
per la realizzazione della gran parte delle nuove centralità me‐
tropolitane. Forse è questa la scommessa più forte che il Piano
intende affrontare: moltiplicare il sistema dei Centri (ancora con
la maiuscola) per realizzare una città con reti efficienti e nodi
complessi, una città, appunto, policentrica.
Il PRG del 1962 prevedeva la realizzazione dell’Asse Attrez‐
zato, un sistema direzionale strutturato come un nuovo centro
lineare della città, compreso tra Pietralata e Centocelle e con con‐
nessioni con il sistema Cristoforo Colombo‐EUR, basato essen‐
zialmente sul trasporto su gomma e quindi sulla mobilità indi‐
viduale. Dall’idea di un centro lineare, si è passati, vent’anni
dopo, al Sistema Direzionale Orientale (lo SDO), cioè ad un si‐
stema discreto formato da quattro centri: Pietralata, Tiburtino,
Casilino e Centocelle; ma né il primo né il secondo sono stati rea‐
lizzati, o meglio, ne è stato costruito un solo frammento: il com‐
plesso di piazzale Caravaggio che faceva parte di un nucleo di‐
rezionale che, attraverso la Tenuta di Tor Marancia, doveva
collegare gli uffici della Cristoforo Colombo con il sistema Asse
Attrezzato‐EUR; uno dei tanti frammenti di progetti incompiuti
che costellano la realtà urbana di Roma e che oggi appare come
un incomprensibile salto di scala rispetto al tessuto circostante e
ai grandi spazi aperti sui quali si affaccia.
316 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
La mancata realizzazione di un sistema direzionale non ha
certo annullato la forte domanda di terziario, ha semplicemente
00 fre
fatto in modo che questa domanda si dislocasse, negli ultimi
2
quarant’anni, in maniera diversa e non pianificata nella città se‐
0x ura
condo strategie che oggi si definirebbero random, casuali, e co‐
4
1 s
munque estranee ad un’idea generale del sistema‐città. Alla base
s
a 3 m bro
di una realtà urbana di cui si riconosce oggi la natura potenzial‐
z z o m to
mente policentrica, ci sono anche gli effetti di quello che può es‐
Bo mat men
sere considerato il maggior fallimento della cultura urbanistica
romana: il non essere riusciti ad attuare un effettivo spostamento
for esti del centro direzionale della città verso est, una strategia che ha
all
attraversato tutti i principali progetti urbani che hanno interessa‐
to Roma (lo stesso Piano del 1931 lo prevedeva) ma che è rimasta
sempre puntualmente inattuata.
P.C.: Mi pare interessante la questione dei salti di scala legata ai
livelli degli insiemi urbani di cui parlavamo…
P.O.R.: Si deve riconoscere che c’è nel nuovo Piano Regolatore
una capacità di riconoscere nella città una complessità di sistema
che non è mai esistita prima. Però tutto questo è in potenza, il
Piano non è la città reale, è un progetto per realizzare un insieme
di
idee e ci sarà sempre uno scarto fra il progetto e la sua realiz‐
zazione, se non altro perché quest’ultima è molto diluita nel
tempo e, nel tempo, le condizioni cambiano; quando il Piano non
possiede flessibilità e capacità di adattamento genera appunto
progetti interrotti. Potrebbe essere utile leggere la Roma contem‐
poranea come il risultato di una lunga serie di progetti incom‐
piuti, come quadro d’unione di frammenti, di differenti e talvolta
opposte idee di città. A partire dai due Piani ottocenteschi, quel‐
lo del 1873 (peraltro mai approvato in via definitiva) e quello
del 1883 per arrivare a quello, molto importante, del 1909 (di
Edmondo Sanjust di Teulada per la Giunta Nathan), e poi ancora
Le Città di Roma 317
b/n sata
al Piano del 1931 (il Piano del fascismo) e infine a quello tormen‐
tato e controverso del 1962. Nessuno si è mai compiutamente rea‐
00 fre
lizzato nelle sue strategie. Pensi che più di 700.000 persone vivo‐
2
no a Roma in quartieri costruiti abusivamente rispetto al PRG
0x ura
vigente al momento della loro attuazione. Forse il Piano del 1909
4
1 s
è quello che ha più inciso sulla città reale, e in fondo il nuovo Pia‐
s
a 3 m bro
no ne prende atto includendo nella Città storica i quartieri realiz‐
z z o m to
zati in base alle sue previsioni, ma pensi che già nel 1925‐26 fu
Bo mat men
progettata una Variante, che pur non diventando legge, ne mo‐
dificò in parte la struttura. Insomma, si potrebbe costruire una
all
frammenti di strade, progetti lasciati a metà.
Un Piano deve essere in grado di assorbire le complessità di
sistema, il mutare degli attori, la diversità dei modelli insediativi,
la trasformazione dei paesaggi. Il Piano è l’armatura di una pos‐
sibilità, la sua concreta attuazione spetta poi alle realtà politiche,
sociali, economiche che agiscono nella città che è il luogo stesso
del conflitto; direi anzi che la città si realizza attraverso la com‐
posizione di conflitti, con il prevalere di una mentalità o di una
forza sulle altre, di una realtà sociale rispetto ad un’altra; per ten‐
tativi ed errori.
P.C.: Il conflitto può essere annullato solo con un regime forte‐
mente autoritario…
b/n sata
economiche – e sono diventate quindi il grande tema, forse il più
importante, della forma che Roma assumerà nei prossimi 20 an‐
00 fre
ni. Si vedrà se l’ipotesi del Piano genererà riequilibrio territoriale
2
e qualità urbana; il passaggio non è semplice e ha bisogno di
0x ura
strategie forti.
4
1 s
Un primo elemento di crisi è certamente rappresentato dal
s
a 3 m bro
cambiamento dell’Amministrazione comunale. Il nuovo assesso‐
z z o m to
re all’Urbanistica ha dichiarato di non avere intenzione di smon‐
Bo mat men
tare il meccanismo delle centralità ma di ritenere che esse for‐
niscano indicazioni un po’ troppo generiche e che abbiano quindi
all
re la specificità di ciascuna di esse. È una linea che può essere
condivisa anche perché negli ultimi anni lo sviluppo di un ciclo
edilizio straordinariamente espansivo, il più lungo dal dopo‐
guerra ad oggi, ha fatto ingenuamente ritenere che lo sviluppo
stesso fosse senza limiti, per cui abbiamo registrato continui ten‐
tativi di far prevalere nelle centralità le cubature degli edifici re‐
sidenziali (conflitti, appunto…), mentre l’obiettivo non è costrui‐
re ancora nuove case (anche se l’esperienza ci ha insegnato che
non si possono costruire luoghi centrali della città senza edifici
residenziali), ma creare strutture urbane in grado di porsi come
nuovi condensatori sociali. La scelta per esempio di realizzare
nella centralità di Tor Vergata la “Città dello sport”, un’attività
fortemente caratterizzata, andava in quella direzione; oggi però
quell’ipotesi sta incontrando grandi difficoltà di carattere finan‐
ziario. L’Amministrazione Alemanno sembra comunque condi‐
videre il ruolo strategico che il nuovo Piano affida alle centralità
e si è riservata di introdurre varianti per lavorare sulle differenze
piuttosto che sull’omologazione. È un’ipotesi da verificare.
C’è un altro punto. Elio Piroddi – docente di Urbanistica nella
Facoltà di Ingegneria della Sapienza – ha presentato, in un semi‐
nario di un paio di anni fa, un’interessante mappa tratta da un
tesi di Dottorato in Tecnica urbanistica, che individua quelli che
Le Città di Roma 319
b / n ta
lui chiama “asteroidi”, 37 agglomerati di funzioni terziarie, …
s a
P.C.: Si tratta di agglomerati che fanno parte delle centralità?
0
0 fr e
2
P.O.R.: Dei 37 nuclei censiti, ben 23 sono a carattere commerciale,
0di x essi, ucome
ra la nuova Fiera di Roma, il centro commer‐
gli altri sono destinati ad attività ricreative, espositive e ricettive.
4
1
Alcuni
s s
a m b ro
3 ml’interno delle nuove centralità, altri no. Piroddi li chiama “aste‐
ciale della Bufalotta o quello di Cinecittà Est, sono localizzati al‐
o zz to nroidi”, proprio perché, per il modo con cui sono realizzati e con‐
t o
B ma me figurati, non hanno nessuna capacità di instaurare un rapporto
r
fo esti
con l’intorno urbano di cui fanno parte. Sono localizzati in modo
da essere facilmente accessibili con l’automobile – si attestano
P.C.: Era esattamente questa la mia preoccupazione…
P.O.R.: Non posso che essere d’accordo con lei perché se così fos‐
se il progetto sarebbe fallito, non si possono costruire isole all’in‐
terno di un sistema di isole…
P.C.: Cioè un’isola dentro i frammenti…
b/n sata
nel quale si colloca. Alla base c’è un’importante questione di ca‐
rattere progettuale che riguarda il rapporto fra centralità e tessuti
00 fre
urbani e che mi sembra completamente ignorata: la possibilità di
2
intervenire in termini di ricostituzione di paesaggi. Sono convinto
0x ura
che solo una stretta collaborazione tra urbanistica, architettura e
4
1 s
scienze del paesaggio possa oggi produrre soluzioni capaci di
s
a 3 m bro
ridefinire la configurazione di quei tessuti periurbani che prima
z z o m to
ho definito fluidi, per indicarne la natura ambigua di margine tra
Bo mat men
città diffusa e campagna. Credo che solo recuperando e interpre‐
tando in termini di paesaggio le specificità dei luoghi – l’orogra‐
all
che la dotazione infrastrutturale, i caratteri degli insediamenti e i
modi della loro percezione – si possano innescare quei processi
di rigenerazione urbana che rappresentano un’altra delle strate‐
gie fondanti del nuovo Piano. Basta osservare una carta geologi‐
ca del territorio di Roma per leggere distintamente le differenze
morfologiche tra le tessiture che lo strutturano: le valli e i pianori
con andamento nord‐sud del quadrante occidentale, il sistema
lineare della pianura alluvionale del Tevere e dell’Aniene, le fra‐
gili fenditure in direzione nord ovest‐sud est e poi est‐ovest del
quadrante orientale. Una sorta di articolata scrittura orografica
che suggerisce un’attenzione per i caratteri dei luoghi e una ca‐
pacità di ascolto ben maggiore di quanto siano state sino ad ora
applicate nel disegno della città. La qualificazione dei sistemi pe‐
riferici attraverso le centralità (non uso la parola riqualificazione
perché si riqualifica solo qualcosa che un tempo era dotato di
qualità), passa quindi, secondo me, attraverso la riconfigurazione
di paesaggi, anche perché nei tessuti della “Città da ristruttura‐
re” il Piano prevede la possibilità della demolizione/ricostru‐
zione. Va ricordato peraltro che il nuovo Piano individua cinque
grandi ambiti strategici che costituiscono delle unità di senso per
gli interventi di strutturazione della città: tre sono elementi linea‐
ri, il corso del Tevere e dell’Aniene, l’asse nord‐sud tra il Foro
Le Città di Roma 321
b/n sata
Italico e l’EUR e il grande sistema naturalistico del Parco dell’Ap‐
pia Antica; due sono invece elementi anulari, le Mura Aureliane
00 fre
e la cintura ferroviaria. Anch’essi, in qualche modo, domandano
2
di essere interpretati come unità di paesaggio.
4 0x ura
A causa della loro localizzazione, molte centralità sono chia‐
1 s
mate a definire una forma di relazione con lembi non ancora edi‐
s
a 3 m bro
ficati di campagna romana; anche per questo sono convinto che
z z o m to
la questione debba essere affrontata in chiave di architettura del
Bo mat men
paesaggio e il non averlo fatto sino ad ora rappresenta un limite
della nostra cultura progettuale. Il progetto di un insediamento
all
stema di relazioni fra i singoli oggetti e di questi con il luogo che li
accoglie: è appunto la configurazione di un nuovo paesaggio.
3. P.C.: C’è lo spazio per un’architettura “di massa” che sia anche
di qualità?
P.O.R.: Se è vero che convivono in ciascuno di noi un’idea gene‐
rale di “Roma” e un sistema di città nella città, allora credo che
una buona politica nei confronti dell’architettura debba agire su
due differenti livelli che derivano proprio da questa duplicità. Il
primo è costituito dalle grandi opere, quelle che accolgono i ser‐
vizi rari ed eccezionali della città (l’Auditorium, ad esempio), il
secondo è quello che, a una diversa scala, genera identità e quali‐
tà diffusa negli intorni urbani di minori dimensioni: nelle diverse
“città di Roma”, nei singoli quartieri, fino alle microcittà di cui
abbiamo parlato prima. Ciascuno di questi ambiti ha bisogno di
interventi che distribuiscano la qualità dell’architettura nella vita
quotidiana, elevando la qualità dei modi di vivere: penso alle
scuole, alle attrezzature di uso pubblico, ai parchi, ai giardini, ai
tessuti residenziali.
Da questo punto di vista, sono convinto che a Roma ci sia sta‐
to un punto di svolta, che può essere fatto risalire al 1990, all’an‐
no dei Campionati del mondo di calcio, che ha rappresentato
322 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
uno dei punti più bassi per quanto riguarda l’attuazione di poli‐
tiche relative all’architettura e al progetto urbano in genere (vedi
00 fre
Ciucci, Ghio, Rossi 2006). Dopo quella data, una serie di circo‐
2
stanze come l’elezione di Francesco Rutelli in base alla nuova
0x ura
legge sull’elezione diretta dei sindaci (1993), il fatto che questo
4
1 s
mandato assicurasse una serie di strumenti operativi che prima
s
a 3 m bro
non esistevano – la continuità amministrativa, ad esempio – han‐
z z o m to
no determinato le condizioni per una diversa concezione del ruo‐
Bo mat men
lo dell’architettura nella configurazione della città cui ha fatto da
cornice e da sostegno finanziario il Grande Giubileo del 2000.
all
stenuta da un sistema comunicativo‐mediatico che le ha proposte
anche in funzione di un rilancio della città a livello internaziona‐
le e questa strategia ha permesso di realizzare non solo il nuovo
Auditorium di Renzo Piano (che ha avuto lo straordinario merito
di riconciliare i romani con l’architettura moderna), ma anche il
Museo dell’Ara Pacis, la chiesa di Dio Padre Misericordioso a
Tor Tre Teste (entrambi di Richard Meier), il MAXXI (il Museo
delle Arti del XXI secolo) di Zaha Hadid e il MACRO di Odile
Decq, che sono ormai prossimi alla conclusione dei lavori; prima
ancora era stata costruita la Grande Moschea di Paolo Portoghesi
che ha rappresentato un intervento di grande rilievo sia dal pun‐
to di vista culturale che politico. Aspettiamo ora la nuova Stazio‐
ne Tiburtina di Desideri e la “Nuvola” di Fuksas, cioè il nuovo
Centro Congressi dell’EUR. Come vede, solo alcuni sono inter‐
venti riconducibili all’Amministrazione comunale, ma tutti pos‐
sono essere collocati in questa nuova politica della città. È però
doveroso riconoscere sia il ruolo propulsivo che le amministra‐
zioni di centrosinistra hanno avuto per la città dal punto di vista
della cultura architettonica sia la loro capacità di aver saputo
pensare Roma come una delle capitali culturali del mondo ed
aver quindi attuato politiche coerenti in questa direzione. Un in‐
dicatore positivo dei risultati di queste politiche è costituito dal
Le Città di Roma 323
b/n sata
fatto che gli architetti stranieri di maggior prestigio abbiano ri‐
cominciato, dopo molti anni, a costruire a Roma; per molto tempo
00 fre
infatti la nostra città è stata completamente esclusa dal circuito
2
internazionale dell’architettura; non c’erano occasioni, i concorsi
0x ura
pubblici non avevano procedure affidabili… Da questo punto di
4
1 s
vista considero molto negativamente il fatto che Alemanno, ap‐
s
a 3 m bro
pena eletto sindaco, abbia proposto di demolire il Museo dell’Ara
z z o m to
Pacis di Meier, salvo poi fare subito marcia indietro. È il sintomo
Bo mat men
inquietante di una cultura avversa al Moderno.
Per quanto riguarda il secondo livello, quello della qualità dif‐
all
sistematiche sono state attuate solo per quanto riguarda la quali‐
ficazione degli spazi aperti con il programma “Centopiazze” e
altre iniziative dello stesso genere, in particolare i programmi di
manutenzione urbana finanziati con i fondi del Giubileo. È vero
che interventi di qualità sono stati attuati nella cintura più perife‐
rica della città: a Casalbruciato, a Torre Spaccata, a Decima, a Tor
Bella Monaca, a Torrenova, a Settecamini, al Villaggio Breda, alla
Borgata Finocchio – solo per citarne alcuni – ma in uno dei settori
più fragili, più bisognosi di manutenzione e quindi meno stabili
(quello degli spazi aperti, appunto) di quanti confluiscono nel
progetto urbano. Credo che questo secondo livello delle politiche
urbane vada perseguito con forza e consapevolezza molto mag‐
giore di quanto non si sia fatto negli ultimi anni; i primi segnali
lanciati dalla nuova amministrazione di Alemanno non sembra‐
no però confortanti anche perché l’impressione di molti, me com‐
preso, è che il centrodestra abbia vinto le elezioni di Roma senza
aver messo a punto un progetto generale – un’idea di città – sen‐
za una strategia urbana che vada al di là della sicurezza e della
manutenzione delle strade che sono state le sue parole d’ordine
in campagna elettorale.
Quello che mi preoccupa di più, però, è che non si manifesti
una domanda sociale di qualità urbana, di una città bella; c’è piut‐
324 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
tosto l’accettazione di una città banale e, insignificante, purché
funzioni. Una rassegnazione sociale. Sembra che la domanda di
00 fre
qualità si rivolga solo alle abitazioni, come se ognuno ritenesse
2
importante solo la qualità del proprio alloggio.
0x ura
1 4
P.C.: Questo mi pare assolutamente in linea con un fenomeno più
s s
generale di privatizzazione dello spazio pubblico, noi viviamo in
a m b ro
3 mcittà in cui l’accento è messo sullo spazio interno, della casa…
zz to nP.O.R.: Sono d’accordo con lei… Ricordo di aver letto anni fa su
o
o t
B ma me in sostanza: “Mentre l’alloggio appartiene all’abitante, la facciata
una guida all’architettura moderna di Parigi un frase che diceva
r
fo esti di una casa appartiene alla città”. È cioè un tema di carattere
all pubblico perché il suo disegno conforma lo spazio urbano e
quindi, è un problema che riguarda tutti.
P.C.: Come se la facciata fosse una sorta di membrana fra lo spa‐
zio interno e l’esterno…
P.O.R.: In un certo senso è il modo in cui gli abitanti si presenta‐
no (rappresentano) all’interno della città, e poiché la città è co‐
struita in larga parte da tessuti residenziali, cioè da case, la man‐
canza di domanda sociale di cui prima parlavo rappresenta un
problema culturale rilevante.
Aggiungo una considerazione: proprio perché una delle stra‐
tegie del piano è la (ri)qualificazione delle periferie, è necessario
prevedere anche processi diffusi di trasformazione. La Carta per
la Qualità della città contemporanea del nuovo PRG, cui prima
ho accennato, contiene oggi circa 1300 opere: più o meno una
metà si trova nei Municipi centrali, e cioè il I, il II, il III e il XVII,
mentre l’altra metà è diffusa nei Municipi periferici. In particola‐
re, essa permette di individuare quei manufatti che conferiscono
identità e qualità ai tessuti inseriti nella “Città da ristrutturare”,
cioè proprio in quei settori in cui si dovrà operare anche attraver‐
so ipotesi di demolizione/ricostruzione e il primo passo per ope‐
rare in questo senso è proprio quello di distinguere le opere si‐
Le Città di Roma 325
b/n sata
gnificative da quelle prive di interesse. Bisogna rifiutare il prin‐
cipio, assai diffuso, secondo il quale tutto ciò che è costruito negli
00 fre
anni recenti è automaticamente privo di valore o si colloca comun‐
2
que al gradino più basso di ogni gerarchia di giudizi. Il nostro
0x ura
principale sforzo è stato infatti quello di separare, per selezionare
4
1 s
quei manufatti cha hanno rilevanza qualitativa negli ambiti ur‐
s
a 3 m bro
bani di cui fanno parte, soprattutto nella periferia. Vedremo co‐
z z o m to
me la nuova Amministrazione gestirà questo strumento decisa‐
Bo mat men
mente innovativo.
all
in via di costituzione, attorno alle nuove architetture e alle zone
di nuova espansione?
P.C.: Una memoria del presente dunque…
P.O.R.: Possiamo dire così.
326 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
8. P.O.R.: Penso che ciascuno di noi abbia una doppia visione
della città, cioè un’immagine mentale di Roma nel suo insieme
00 fre
ed una della Roma in cui vive, abita; questa seconda credo che
2
sia più forte, più radicata. Un esempio cinematografico. In Caro
0x ura
diario, Nanni Moretti, al tempo abitante di Roma nord, zona Pra‐
4
1 s
ti‐Delle Vittorie, arriva nei suoi giri in Vespa – pensi un po’ – alla
s
a 3 m bro
Garbatella, compiendo una specie di gita fuori porta; quando
z z o m to
giunge a Spinaceto, entra in un mondo a lui sconosciuto, in un
Bo mat men
altrove. Ricorda i suoi pensieri? “Spinaceto, un quartiere costrui‐
to di recente… Viene sempre inserito nei discorsi per parlarne
all
che si chiamava ‘Fuga da Spinaceto’… e allora, andiamo a vedere
Spinaceto…” . Per lui è un’altra città. Il mio amico Mauro, che
abita a Roma sud, dalle parti di via Ostiense, non ha invece la
minima idea di come arrivare da piazza Mazzini a Monte Mario,
perché per lui quella è una città diversa. Si muove con conoscen‐
za analitica del territorio nella “sua” città, ma considera qualcosa
di estraneo le altre.
Ma come ci figuriamo la città nel suo insieme? Credo che un
primo “segno”, forse il primo riferimento per definire la struttura
di Roma, sia l’asse nord‐sud costituito dal Tevere. Nella mia map‐
pa mentale – l’accennavo prima – Roma ha la forma di una co‐
meta ma non credo che questo modo di rappresentarsi la città sia
molto comune: per la gran parte dei romani, a sud la città finisce
con l’EUR, il resto, fino al mare, è vuoto. Il riferimento del fiume
però è importante per tutti. Il secondo elemento di struttura è la
stella, il sistema radiale delle strade consolari che costituisce la
bussola per orientarsi: ad ovest, l’Aurelia, a nord, la Cassia, la
Flaminia e la Salaria, poi la Tiburtina, e poi ancora, ad est, la Pre‐
nestina e la Casilina, a sud est Tuscolana e Appia e infine, verso
il mare, la Cristoforo Colombo la via del Mare e l’Ostiense. Se
dovete andare a Fiumicino: la Portuense. Dov’è il centro di que‐
sta città? A parte la convenzione per cui l’origine del sistema
Le Città di Roma 327
b/n sata
stradale è al Campidoglio, secondo me, per molti dei romani il
punto centrale è il Colosseo, forse anche per il suo preminente
00 fre
valore iconografico…
2
0x ura
P.C.: Dunque, secondo lei, è un centro puntuale?
4
o zz to nCorso.
t o In questa ipotetica mappa, aggiungerei però un altro se‐
B ma me direzione est‐ovest, tra il Tuscolano e l’Aurelio e uno nord‐sud,
gno molto importante: la x della Metropolitana, con un braccio in
al l do la risposta alla domanda: “Dove si trova il centro della città?”
sarebbe: nel punto di incontro delle due linee della metropolita‐
na, cioè alla Stazione Termini. Infine, per tutti gli abitanti di Ro‐
ma, vera Forma Urbis della città contemporanea, il grande cer‐
chio del Raccordo Anulare, il confine, il limes di Roma. Per tutti
la forma della città è quella, è il Raccordo Anulare…
P.C.: Fa da cornice…
P.O.R.: Sì. Mi è capitato di arrivare a Roma, in aereo, di sera, da
Bari e quindi da sud est: il Raccordo, in quel tratto in gran parte
illuminato, appare in tutta la sua forza di forma geometrica rac‐
chiusa. Un disegno a scala geografica. Il serpente del fiume, la
stella, la croce e il cerchio, permettono di concettualizzare il dise‐
gno di Roma.
Per tornare alla sua domanda, Roma è strutturata sulle sue
radiali e tutti siamo abituati ad utilizzarle come sistema di rife‐
rimento, tanto che pochi romani conoscono le strade anulari, for‐
se sarebbe meglio dire: le controradiali, poiché non si richiudono
a formare anelli chiusi. Roma invece ha un interessante sistema
di segmenti anulari, sia sul versante orientale che su quello occi‐
dentale; ho ripercorso di recente una di queste strade, lunga ben
32 chilometri che partendo dalla Bufalotta, proprio all’altezza
328 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
dell’Ikea, permette di arrivare fino al quartiere di Fonte Lauren‐
tina, sulla via omonima e, con qualche piccola deviazione, rag‐
00 fre
giunge anche la Pontina. È una strada bellissima, che attraversa
2
realtà e paesaggi molto diversi fra loro. A Roma infatti le strade
0x ura
anulari sono il luogo della narrazione. Le radiali – prenda ad
4
1 s
esempio la Tiburtina, la Prenestina o la Tuscolana – sono i luoghi
s
a 3 m bro
ove si addensa l’effetto‐città, con la sua densità di funzioni e di
z z o m to
abitanti, con la continuità del costruito, con la congestione dei
Bo mat men
flussi; per questo le anulari, incrociando solo per punti la città più
densa, permettono di leggere una realtà urbana più complessa in
for esti cui i tessuti residenziali più congestionati si alternano alle aree
all
agricole, i complessi archeologici ai parchi, i capannoni indu‐
striali agli spazi aperti con un susseguirsi inatteso di palazzine,
giardini, capannoni, aree in abbandono, orti, ferrovie, depositi,
casali, torri, intensivi, ruderi, filari di alberi, ville, sottopassi …
Fig. 1. Le Centralità Metropolitane del nuovo Piano Regolatore di Roma
Le Città di Roma 329
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 2. Le 16 città di Roma pubblicate nel 1999 nel libro Per un progetto urbano.
Dal governo della sosta ad una strategia per Roma, a cura di F.R. Castelli e M. Tosi
330 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 3. La coda della cometa tra l’EUR e il mare
Fig. 4. Le microcittà di Roma nello studio del CRESME
Le Città di Roma 331
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 5. Il sistema delle radiali e il Grande
Raccordo Anulare
Fig. 6. La chiesa di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste
(© Andrea Jemolo)
332 Piero Ostilio Rossi
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 7. Il Parco Guido Rossa a Settecamini (© Andrea Jemolo)
Fig. 8. Mappa mentale di Roma: il serpente del
fiume, la stella delle radiali, la croce della Metro,
il cerchio del Grande Raccordo Anulare
b/n sata
Roberto Secchi
00 fre
Etica del progetto e trasformazione dell’esistente
2
0x ura
1 4
L’intervista con Roberto Secchi si è sviluppata unitariamente attraver‐
s s
sando le questioni sollevate dalle domande sottoposte e articolandosi in‐
a 3 mtorno ba rtre o temi che per Secchi sono centrali: la relazione fra progetto
z z o m architettonico e trasformazione effettiva dell’esistente e delle forme del‐
t o la considerazione dei sistemi infrastrutturali, dei percorsi e
o t n
B ma me della mobilità all’interno dell’impianto generale del PRG, l’etica del
l’abitare,
all Progetti e trasformazioni urbane
Il primo spunto di riflessione che mi offrono le domande del que‐
stionario è relativo alla sorte dei quartieri di edilizia residenziale
pubblica costruiti con la legge 167: ricordo l’esito di questa ope‐
razione, il cui obiettivo era la messa in opera di un progetto so‐
ciale inclusivo, volto a superare il concetto di quartiere operaio
attraverso la produzione di una mixité sociale, che avrebbe do‐
vuto caratterizzare i nuovi insediamenti, in modo da evitare fe‐
nomeni di ghettizzazione. Ero agli esordi della mia attività didat‐
tica alla facoltà di Architettura di Roma e Mario Fiorentino, tito‐
lare della cattedra alla quale portavo il mio contributo, organizzò
un seminario di studi sulle grandi realizzazioni dei nuovi model‐
li di residenza sperimentati in quegli anni, come la grande corte
di Rozzol Melara a Trieste, il quartiere del Gallaratese a Milano,
il quartiere Zen a Palermo, i quartieri di Vigne Nuove e Corviale
a Roma. Tra luci ed ombre si esaltavano le grandi dimensioni dei
nuovi insediamenti, tese a contrastare la dissoluzione e la fram‐
mentazione della forma urbana nella polverizzazione degli inse‐
diamenti largamente prodotta dallo sviluppo dell’abusivismo e
la stanchezza del ripetersi del mix di edilizia sovvenzionata,
334 Roberto Secchi
b/n sata
agevolata e privata con i corrispettivi tipologici di case in linea e
palazzine che aveva caratterizzato la pratica progettuale dei pro‐
00 fre
grammi di edilizia pubblica dell’epoca.
2
Ricordo che il direttore dello IACP, Petrangeli, di fronte alle
0x ura
preoccupazioni manifestate da alcuni circa le capacità di questi
4
1 s
insediamenti di produrre fenomeni di autentica aggregazione so‐
s
a 3 m bro
ciale tra strati di popolazione a reddito e condizioni sociocultura‐
z z o m to
li diverse, mostrò, dati alla mano, come molti quartieri progettati
Bo mat men
nella prospettiva del mix sociale fossero tornati in pochi anni ad
una omogeneità sociale opposta all’intenzione pianificatrice, per
all
progressiva saturazione degli alloggi da parte di cittadini dello
stesso ceto sociale. Le strategie del social housing sono difficili da
attuare nell’ambito del mercato. I fenomeni di isolamento sociale
si sono spesso comunque riprodotti: circostanza che fa davvero
riflettere sul potere della pianificazione in generale e sull’effi‐
cacia delle strategie fin qui sperimentate nel quadro di un’e‐
conomia di mercato. A contrastare la riproduzione di fenomeni
di ghettizzazione valgono soprattutto le strategie di infrastruttu‐
razione urbana atte a creare una dinamica di rigenerazione dei
valori immobiliari e di riqualificazione degli ambienti urbani.
Ho vissuto da vicino la fase dei provvedimenti legislativi che
hanno portato alla generazione dei “progetti complessi”, perché
impegnato in molte redazioni progettuali nell’ambito delle leggi
degli anni Novanta per la Riqualificazione urbana e per il Recu‐
pero urbano, a partire dalla legge regionale della Lombardia Bot‐
ta Ferrarini, all’articolo 18 della legge 203 per la realizzazione di
abitazioni per le Forze dell’ordine, che fu associata ad un ambi‐
zioso progetto di riqualificazione urbana di aree soggette a de‐
grado, sino alle più recenti leggi del 1992 e del 1993, ai Contratti
di quartiere. Tutti questi progetti miravano alla realizzazione di
forme stabili di integrazione degli obiettivi (riqualificazione e/o
recupero urbano e nuova costruzione), delle attività (residenziali
Etica del progetto e trasformazione dell’esistente 335
b/n sata
e non residenziali), dei destinatari (sempre per realizzare mix so‐
ciali ben proporzionati), dei soggetti operatori (pubblici e privati
2 00 fre
per realizzare la necessaria sinergia economica nella crescente
depauperazione delle finanze delle amministrazioni locali). Que‐
0x ura
sti programmi prevedevano negoziazioni politiche e sociali con
4
1 s s
gli attori della realizzazione, nel tentativo di considerare in misu‐
a 3 m bro
ra maggiore le variabili che intervengono nel percorso che va
z z o m to
dalla progettazione alla realizzazione e di evitare, possibilmente,
for esti
zione dei piani è però diventata troppo spesso foriera di varia‐
zioni che hanno finito per tradire gli stessi obiettivi generali e la
all
qualità delle soluzioni previste nel piano.
Un limite di questo genere di programmi e delle realizzazioni
che li hanno seguiti sta nel loro porsi accanto e non tra gli inter‐
stizi dei tessuti – per lo più spontanei e abusivi – che dovrebbero
riqualificare, con il risultato di confermare nella struttura la figura
dell’arcipelago cui è riconducibile la città dello sprawl romano.
Ma il limite più grande consiste nel fatto che essi non seguono il
progetto di infrastrutturazione urbana di area vasta; il progetto
della loro localizzazione è risultato subordinato al meccanismo
di offerta di aree da parte di privati – che devono cedere parte
dell’area in cambio della destinazione d’uso del PRG e pagare un
contributo straordinario aggiuntivo a quello degli ordinari oneri
di urbanizzazione, scontabile anche in opere infrastrutturali.
P.C.: Mi viene in mente da questo punto di vista che forse la me‐
tafora biologica della città, piuttosto che quella macchinica, po‐
trebbe essere adatta a definire questi cambiamenti. Come se la
città, una volta messi in campo i progetti, rispondesse con delle
“proprietà emergenti”, reagisse con dinamiche proprie ai pro‐
getti di trasformazione…
R.S.: Sono d’accordo. C’è qualcosa di irriducibilmente individua‐
336 Roberto Secchi
b/n sata
le ed unico che caratterizza ogni città e ne definisce in qualche
modo l’evoluzione. Un’impronta genetica che affonda le sue ra‐
2 00 fre
dici nelle profondità della storia, non solo della storia della sua
geografia fisica e nella tradizione delle sue rappresentazioni sim‐
0x ura
boliche, ma nella storia delle sue dinamiche economiche. Qualco‐
4
1 s s
sa che tende a riemergere comunque facendo giustizia delle
a 3 m bro
astrazioni dei piani e dei progetti che non sappiano farsene in‐
z z o m to
terpreti, che vogliano imporre modelli estranei.
Bo mat men
La storia dei piani regolatori di Roma illustra questa circo‐
stanza. I piani hanno orientato le dinamiche solo quando innesta‐
for esti ti sui processi in atto; sono visibili le loro tracce ed i loro effetti
all
parziali, ma la città sembra seguire ingiunzioni più forti che pro‐
vengono da dati – o vizi se si vuole – originari.
Il nuovo Piano regolatore punta ora al policentrismo, ma non
mi sembra che l’idea delle nuove centralità urbane abbia un suf‐
ficiente respiro territoriale misurato sulle identità e diversità del‐
le aree del territorio metropolitano, che sia costituito da fondo un
criterio di definizione del concetto stesso di centralità, che si sia
ragionato abbastanza sulla questione del centro di una città e del‐
la particolarità di Roma Capitale senza centro – come acutamente
recita il titolo di un ottimo libro recente di Vieri Quilici (2007).
Non sarà male ricordare che Roma si è costituita nella tensione
tra le due polarità del Vaticano e del Campidoglio a partire dal‐
l’avvento della Cristianità e che dalla sua proclamazione come
Capitale del Regno d’Italia ha stentato assai a fondare sulle tracce
dell’antichità la sua identità di capitale europea moderna.
Mobilità e policentrismo
Dalle domande che poni mi pare emerga una lettura sostanzial‐
mente positiva delle Centralità che vedi soprattutto collegate a
un piano di incremento del trasporto pubblico e dell’accessibilità.
Indubbiamente il problema della mobilità a Roma è assoluta‐
Etica del progetto e trasformazione dell’esistente 337
b/n sata
mente prioritario ed è superfluo ricordare che il rapporto tra tra‐
sporto pubblico e trasporto privato è paurosamente sbilanciato a
00 fre
favore del secondo con le ricadute che tutti i cittadini subiscono
2
quotidianamente. Una politica di reale decentramento di attività
0x ura
di scala metropolitana nel territorio del Comune di Roma e della
4
1 s
sua Provincia è effettivamente necessaria e non può che essere
s
a 3 m bro
pensata insieme con una nuova rete di infrastrutture.
Bo mat men
del nuovo PRG si è sostanzialmente piegato all’articolazione del
decentramento amministrativo all’interno del territorio comuna‐
all
L’articolazione amministrativa del territorio corrisponde all’idea
di estensione democratica del governo urbano.
Era del tutto naturale che ogni municipio vedesse nella attri‐
buzione di una nuova centralità un’opportunità di sviluppo del
proprio territorio ed un’occasione per migliorarne le prestazioni,
offrendo ai propri cittadini una qualità della vita migliore. Ma è
davvero sensato pensare di poter fondare tante nuove centralità
in grado di creare gravitazioni alternative all’attuale Centrocittà?
Bisognerebbe che esse avessero una forza tale da superare co‐
me attrattori la modesta dimensione dei confini municipali o
quella delle microcittà descritte da Bellicini, per ospitare funzioni
di valenza territoriale perlomeno a scala metropolitana, uniche
ed esclusive. Si rischierà che esse diventino ciò che sono già stati
gli insediamenti residenziali di iniziativa pubblica – un’illusoria
strategia di pianificazione urbana fondata sulla distribuzione dei
pesi urbanistici attribuiti alla residenza, mentre si trascuravano le
necessarie strategie di integrazione infrastrutture‐territori. La
mia idea è invece che una Centralità debba avere una valenza
fortemente identitaria legata alle risorse individuali e speciali di
un territorio, tesa anche ad una esaltazione della sua vocazione,
non nell’ottica del quartiere, piuttosto nell’ottica urbana o addi‐
rittura in quella dell’ area metropolitana.
338 Roberto Secchi
b/n sata
Se si va a vedere nel dettaglio, inoltre, sono ben poche – nono‐
stante i proclami – le nuove centralità pensate a partire dai nodi
00 fre
infrastrutturali del trasporto pubblico. Bene o male continuano a
2
restare “appese” al GRA, senza che su questo siano stati previsti i
0x ura
necessari provvedimenti.
4
1 s
Ancora una volta la separazione delle competenze istituziona‐
s
a 3 m bro
li e delle discipline nega alla città la possibilità di strategie inte‐
z z o m to
grate, quando è evidente – nel caso specifico – che proprio il
Bo mat men
GRA può essere pensato come l’elemento catalizzatore di nuove
opportunità di riorganizzazione complessiva del territorio urba‐
for esti no e metropolitano. Il GRA non è stato neanche considerato tra
all
gli ambiti strategici della città, quando avrebbe dovuto costituire
una delle leve principali della sua pianificazione.
Mi pare che in realtà proprio sul problema mobilità, si debba
delineare un elemento di critica al Piano. Il GRA è uno dei perni
del funzionamento urbano: sia considerando le conurbazioni svi‐
luppate attorno ad esso sia considerando le dimensioni del traffi‐
co che lo attraversano. Il ruolo di questa grande infrastruttura è
fortemente mutato nel corso degli anni, su di esso si sovrappon‐
gono flussi su tragitti di lunga percorrenza con destinazione le
autostrade, a flussi di media percorrenza per tragitti di scambio
tra settori urbani e addirittura flussi necessari alla circolazione
interquartiere. L’esito è la congestione e la saturazione. Da auto‐
strada quale doveva essere nel momento del suo concepimento,
nel 1946, posizionata a circa dieci chilometri di distanza dalle ul‐
time propaggini della città, nel momento della sua realizzazione
definitiva, nel 1970, il GRA era già ai bordi della città. Oggi la ne‐
bulosa dello sprawl di Roma è invece ampiamente al suo esterno,
ma il GRA continua ad essere l’unica grande connessione tan‐
genziale di raccordo tra tutte le strade radiali che dal Centrocittà
irradiano il territorio del Comune e della provincia di Roma. La
città ed il suo territorio devono il loro funzionamento a questa
infrastruttura ormai prossima al collasso. È urgente ripensare le
Etica del progetto e trasformazione dell’esistente 339
b/n sata
reti della mobilità di Roma e rivedere ruolo e qualità del GRA in
un nuovo sistema integrato, plurimodale e fortemente impronta‐
00 fre
to al riequilibrio del rapporto tra trasporto pubblico e trasporto
2
privato.
4 0x ura
Oggi bisogna pensare all’inserimento urbano e paesaggistico
1 s
del Gra in una nuova visione: quando attraversa gli insediamenti
s
a 3 m bro
esso offre l’opportunità della realizzazione di veri e propri nuovi
z z o m to
grandi spazi pubblici nell’evocazione del modello ottocentesco
Bo mat men
del boulevard, percorso dal mezzo di trasporto pubblico, quando
attraversa i grandi vuoti urbani dei parchi e delle aree di riserva
all
parkway che rende finalmente fruibili i grandi parchi (solo sulla
carta) cui si devono accompagnare i circuiti minori di adduzione
agli insediamenti e soprattutto gli itinerari tesi a valorizzare i
numerosissimi siti di interesse archeologico, architettonico, pae‐
sistico della campagna romana.
Il sistema direzionale romano e gran parte della grande di‐
stribuzione in questi ultimi vent’anni si sono ormai localizzati
“spontaneamente” intorno al grande anello. L’Asse attrezzato e
lo SDO sono vani ricordi, i veri assi attrezzati della città sono og‐
gi sul GRA e sull’asta che collega i Centri direzionali storici e
simbolici Campidoglio, Campidoglio II, EUR, Castellaccio, attra‐
verso l’autostrada Roma Fiumicino ed il fascio infrastrutturale
delle ferrovie metropolitane nella direzione dell’aeroporto e del
mare.
Temo che le nuove Centralità assomiglieranno molto ai vecchi
quartieri prodotti con la legge 167, che occuperanno grandi spazi
vuoti con grande consumo di suolo. Questo perché non si inte‐
grano ai tessuti preesistenti, ma si pongono semplicemente ac‐
canto ad essi. I costruttori chiedono di fare residenze e centri
commerciali e se l’ente pubblico non ha finanziamenti e possibili‐
tà di intervento bisogna barattare opere pubbliche con aumenti
delle cubature. Ora si pensa persino ad erodere altro suolo all’A‐
340 Roberto Secchi
b/n sata
gro romano per realizzare l’edilizia sociale invece di densificare
nei luoghi ove è già assicurata l’accessibilità.
00 fre
P.C.: Proprio rispetto ad alcune microcittà già esistenti nelle aree
2
0x ura
periferiche …siamo sicuri che il modello con cui si abitano questi
1 4
luoghi sia la città? A me pare che si tratti di comunità ma che in
s s
qualche modo vi siano dei tratti più tipici di un paese che di una
a 3 mcittà… bro
z z o m R.S.:
t o Ho anch’io la medesima impressione. In queste zone sono
o t n
B ma me centri
poche le attività non residenziali di livello urbano. Con i loro
r
fo esti qualche ufficio pubblico e/o privato, centralità così concepite non
commerciali, qualche gruppo di servizi alla persona e
all sono in grado di realizzare alcun policentrismo. Le nuove centra‐
lità dovrebbero essere progettate secondo il principio della diver‐
sificazione in ragione delle diverse risorse ed identità dei territori
di insediamento, in numero minore, in prossimità di importanti
nodi scambio della mobilità e caratterizzate dalla presenza di at‐
tività che coinvolgano interi settori urbani, che si dispieghino, o
abbiano influenza, sull’intera regione metropolitana.
Così come vanno configurandosi lasceranno sopravvivere la
sinergia tra città dell’abusivismo e città legale che abbiamo già
abbondantemente sperimentato. Senza che ci sia né una vera
emancipazione verso uno standard di vita urbana imperniata su‐
gli spazi pubblici delle comunità di proprietari insediati nei nu‐
clei abusivi ormai sanati, né la realizzazione dell’auspicata mixité
sociale e funzionale, come nel caso di Torre Angela e Tor Bella
Monaca – vedi al riguardo le belle pagine di Walter Tocci di
Avanti c’è posto (Tocci, Insolera, Morandi 2008).
Certamente la città dovrebbe garantire possibilità di scelta, al‐
ternative, opportunità; altrimenti le microcittà che si costituiran‐
no continueranno a testimoniare non tanto l’evoluzione demo‐
cratica risultato della coesione sociale, quanto strategie di difesa
di gruppi sostanzialmente emarginati dalla vita pubblica. I nuovi
Etica del progetto e trasformazione dell’esistente 341
b/n sata
quartieri non si sprovincializzeranno, torneranno ad essere paesi,
col “baretto” e col “tipo da baretto”.
00 fre
La mixité, nonostante tenda poi ad autolimitarsi per le ragioni
2
suddette, è importante e credo che dobbiamo attivare dei proces‐
0x ura
si che producano mixité piuttosto che segregazione.
4
1 s
Ormai abbiamo una città che è un arcipelago di enclaves, di
s
a 3 m bro
isole spesso dotate di vigilanza privata, con lo spazio pubblico
z z o m to
che si sta riducendo progressivamente perché spesso è solo quel‐
Bo mat men
lo condominiale, chiuso dentro un recinto, o uno spazio dedicato,
allo sport, al benessere, alla musica, al commercio, ecc. – in qual‐
all
uno spazio di passaggio, che ha perduto il suo valore di spazio
pubblico, privo di simboli che non siano quelli spia del degrado e
della privazione. Negli interstizi di questo spazio si annidano
comunità discriminate per riuscire in qualche modo a sopravvi‐
vere, come era una volta nelle rovine, attorno alle ferrovie, alle
aree industriali dismesse e agli spazi interclusi lasciati incolti in
attesa di rendita.
L’etica del progetto
Vorrei dire ancora qualcosa sui processi progettuali visti dal lato
del progettista sempre alle prese non solo e non tanto con le vi‐
sioni urbane dominanti quanto con normative e procedure, qual‐
cosa che riguarda il passaggio dal PRG e dai suoi strumenti at‐
tuativi al progetto edilizio. Il piano ha una sua dignità ed una
sua coerenza, ma nella fase del passaggio all’attuazione manife‐
sta spesso le sue smagliature e la sua astrattezza. La stagione del‐
la cosiddetta urbanistica contrattata, la stagione della concer‐
tazione, ha lasciato dietro di sé non poche delusioni. Quando si
fa concretamente la costruzione edilizia delle singole parti si ridi‐
scute con l’operatore e si va talvolta ad una concertazione che
può avere esiti molto negativi e può portare a discostarsi, a volte
molto, dalle intenzioni della pianificazione generale e di quella
342 Roberto Secchi
b/n sata
attuativa. Si tratta di un elemento di crisi decisivo: obiettivi e so‐
luzioni non sono disgiungibili, le forme nelle quali si progettano
00 fre
le soluzioni degli obiettivi programmati sono decisive per
2
l’effettualità del piano. I disegni devono far parte di un piano at‐
0x ura
tuativo (piano particolareggiato o Programma complesso) in
4
1 s
modo vincolante senza che la pratica della concertazione e delle
s
a 3 m bro
varianti conduca alla fine a tradire gli stessi obiettivi del Pro‐
z z o m to
gramma e del piano. La concezione della relazione tra il “cosa” e
Bo mat men
il “come” è assolutamente centrale.
Anche per questo il campo prevalente dei miei interessi è
all
bito di riflessione. Ogni architettura propone in qualche modo, in
mille forme diverse, questo dilemma: credo che facendo una scel‐
ta o un’altra si rischi di essere prescrittivi, o viceversa più aperti
al cambiamento. L’architettura detta i comportamenti, per lo me‐
no li condiziona, la costruzione urbana condiziona i futuri svi‐
luppi e la fenomenologia delle trasformazioni. Ne va delle “vite
degli altri”. Si possono favorire le condizioni perché si agisca con
maggiore o minore libertà, si possono imporre comportamenti e
prescrivere modi di vita che solo la trasgressione potrà riscattare.
È ormai arcinoto che Architettura o Rivoluzione? è un falso dilem‐
ma, ma si può concedere che il progetto architettonico ed ancor
più il progetto urbano possano favorire più o meno il cambia‐
mento e le libertà. In realtà non si riesce a produrre direttamente
un cambiamento, ma piuttosto a creare delle condizioni più o
meno favorevoli perché qualcosa accada. Edgard Morin ci ha in‐
dicato un percorso molto chiaro di valutazioni dei nostri com‐
portamenti ricordandoci la nostra triplice essenza, in quanto
umani, di individui, membri di una società ed esemplari di una
specie. Ci ha raccomandato di tenere insieme queste tre diverse
sfere senza sacrificarne alcuna. Farle coesistere come distinte in
unità dinamiche, aperte e non pacificate. Tutta la storia ed in par‐
ticolare il XX secolo hanno mostrato con chiarezza quali orrori
Etica del progetto e trasformazione dell’esistente 343
b/n sata
siano stati prodotti ogni qual volta si sia fatto prevalere qualcuno
dei tre aspetti che ci caratterizzano come individui, come società
00 fre
e come specie, prevaricando ed annullando gli altri. Queste linee
2
di pensiero possono efficacemente applicarsi al progetto architet‐
0x ura
tonico e al progetto urbano sia dal punto di vista dei destinatari
4
1 s
che dell’autore dei progetti.
s
a 3 m bro Quando penso alla riflessione sull’etica del progetto penso
z z o m to
con commozione al lavoro di Giovanni Michelucci e del suo al‐
Bo mat men
lievo Leonardo Ricci. Figure isolate e di straordinario spessore,
che hanno posto problemi difficili, affrontando il dibattuto rap‐
all
zio urbano. Interpreti lirici della casa e della città come spazio
che accoglie e favorisce l’incontro. Penso anche al lavoro altret‐
tanto importante sulla disgiunzione di Bernard Tschumi, che si
sofferma sulla possibilità di trovare soluzioni attraverso la ge‐
stione del conflitto.
Ho una visione ancora umanistica della nostra attività, credo
che essa debba attraversare questa disgiunzione per mezzo di ri‐
composizioni parziali, transitorie, non permanenti, e persino con‐
traddittorie. Credo che si tratti anche di strategie di vita e di
programma. Vedo con dispiacere l’architettura contemporanea
farsi interprete dell’esigenza di rappresentare e celebrare la fase
storica della globalizzazione, rendendosi subalterna alla dimen‐
sione onnicomprensiva e dominante del mercato, dedicandosi ai
grandi eventi ed alla produzione di una simbologia aggiornata
alla età estrema della tecnica e della comunicazione.
Ben consapevole di incorrere nel patetico, oso dichiarare l’e‐
sigenza di restare legati all’idea che l’architettura, pur agendo
all’interno del compromesso con il potere necessario alla sua rea‐
lizzazione, debba tentare di produrre spazi dell’abitare che of‐
frano l’opportunità di migliorare le condizioni dell’esistenza.
Che senso avrebbe progettare se non per un mondo migliore?
L’alternativa è ricavarsi un ruolo tecnico ignorando la funzione
344 Roberto Secchi
b/n sata
sociale che ci è stata assegnata?
Forse la mia è una concezione un po’ retrò, ma credo che ci si
00 fre
debba misurare con questi problemi, altrimenti si finisce nell’a‐
2
strazione. Ricordo comunque che non è vero che basti suggerire
0x ura
un uso perché l’uso si realizzi. Si è dunque chiamati a interpreta‐
4
1 s
re senza sapere. L’uso previsto si può concretizzare molto tempo
s
a 3 m bro
dopo la realizzazione, ma chi progetta non lo sa. Oggi si sta fa‐
z z o m to
cendo molto sul tema del movimento, dello scorrere del tempo,
Bo mat men
ma spesso il movimento ed il tempo sono in qualche modo sol‐
tanto rappresentati. Si è parlato di società liquida e gli architetti
for esti rincorrono la liquidità in architettura, spesso con forme fluide,
all
ricorrendo alle geometrie frattali ed alla topologia, così come ne‐
gli anni trenta si ricorreva alle forme dell’aeronautica ed alla na‐
valità, disseminando di oblò e di ponti, antenne e prue le archi‐
tetture. Oggi come allora, si tratta spesso di un approccio epider‐
mico, teso a rappresentare il tempo, non a farne sostanza concet‐
tuale dei processi creativi e dell’organizzazione dello spazio
nell’obiettivo della corrispondenza alla mutevolezza della vita.
Già in un mio scritto ho richiamato le parole di Luigi Pirandello
su la “pena della forma”, quella di essere così e di non poter es‐
sere altrimenti, nonostante la vita spinga al cambiamento. L’ar‐
chitettura non può esimersi dal produrre forme che abbiano du‐
rezza, pesantezza, solidità, durabilità. L’adattività, la flessibilità,
la mutevolezza, non possono per l’architettura che essere limita‐
te. Siamo confitti in questo evidente ossimoro: la necessità di in‐
staurare spazi e, assieme, instaurare possibilità di cambiamento.
b/n sata
Franco Zagari
2 00 fre
Il punto di vista del paesaggio
0x ura
1 4
1. Non so rispondere, perché in questo decennio ho lavorato per
s s
lo più fuori di Roma; non ho potuto per questo motivo mantene‐
a m b ro
3 mre l’impegno della direzione dell’Inarch Lazio, che molto oppor‐
o zz to ndedicato
o in crescendo alla Mediterranea di Reggio Calabria; in‐
tunamente è passata a Livio Sacchi, e il mio insegnamento si è
t
B ma me somma il mio punto di vista è quello di un normale cittadino me‐
for esti tropolitano. Con due eccezioni, significative riguardo a quei
all
soggetti di cui lei parla che agiscono da attori fra pubblico e pri‐
vato, un piano per la riqualificazione dei parchi dell’Eur il cui
processo sembra non abbia mai fine (per EUR spa e Comune di
Roma, con ABDR et al.) e uno studio per il grande Parco del
quartiere Talenti (per la Mezzaroma spa in convenzione con il
Comune di Roma). Queste esperienze sono state per me molto
interessanti ma rischiano di restare istanze accademiche per il
continuo spostarsi della scena e del luogo del confronto, la man‐
canza di scelte certe in tempi certi. Devo subito dire che concordo
con la sua introduzione, che ora ha il sapore di un bilancio es‐
sendo cambiata amministrazione, anche se devo dire che ho vis‐
suto questo periodo con un crescente disagio, che mi preoccupa
esprimere a fronte del grande nulla che sembra sia seguito. Quel‐
lo che mi sembra è che Roma negli ultimi dieci anni abbia del tut‐
to mancato, o non voluto, una affermazione di caratteri nella
trasformazione della città, una immagine visibile di un’epoca
della sua storia, o meglio che questo non sia avvenuto né nel
paesaggio né nell’architettura. Si potrebbe dire che oggi si im‐
ponga una scelta culturale formalmente discontinua, che il carat‐
tere stia in uno stile, in una serialità di eventi, insomma che si sia
desiderata esplicitamente anche una percezione non corale delle
nuove qualità di centralità. Una generale afasia. Per limitarsi al
346 Franco Zagari
b/n sata
paesaggio l’esperienza romana è molto lontana da quella euro‐
pea, si è imposta una filosofia che privilegia giustamente gli
00 fre
aspetti ambientali ma tutti in termini quantitativi. Per il patrimo‐
2
nio è stato decretato (da chi?) per i parchi una sorta di decoro ru‐
0x ura
stico agropastorale, per l’arredo urbano il trionfo di cataloghi
4
1 s
eclettici con il recupero di pavimentazioni e lumi parastorici. Io
s
a 3 m bro
ricordo positivamente solo pochi episodi, essenzialmente le tra‐
z z o m to
sformazioni dell’Ostiense e proprio dell’Esquilino e dell’intorno
Bo mat men
dei due poli di eccellenza su cui lavora il vostro gruppo Prin,
l’asse dei musei che dall’Auditorium va fino al quartiere delle
all
che se può essere interessante per il lettore che il mio studio sia
stato espulso da questo luogo proprio in forza della sua promo‐
zione, perché il canone di affitto in una sola soluzione si è molti‐
plicato cinque volte). E come nuove centralità, a parte questi casi,
potrei parlare solo dell’Aeroporto di Fiumicino e della Porta di
Roma.
Eppure sono accadute cose molto importanti, come il saldo
fra la città e il mare sull’asse dell’autostrada di Fiumicino, una
“missione divina” di fatto portata a termine senza un disegno,
dopo che se ne parlava da ottanta anni. Dopo gli episodi dell’Au‐
ditorium, della Nuvola, dell’Ara Pacis, dei ponti della Musica e
della Scienza, e il costruendo Maxxi, pochi segni percepibili negli
ultimi dieci anni. Neanche come vegetazione, illuminazione, ar‐
redo. Eppure Roma capitale ha una tradizione, almeno in questo.
Si pensi a quanto si sia appoggiata l’immagine della capitale po‐
stunitaria al Pincio, ai portici di piazza Vittorio con (l’allora) bel
giardino romantico, a Villa Borghese e, soprattutto, agli ottanta‐
mila platani che hanno marcato in qualche modo un carattere
diffuso nella città. Il Vittoriano, gli sventramenti, il sistema ar‐
cheologico dei fori e le borgate sono il vero volto della Roma del
primo Novecento, mentre in parallelo si svolge più in sordina la
grande avventura dei quartieri popolari, Monte Sacro, Garbatel‐
Il punto di vista del paesaggio 347
b/n sata
la, San Saba, da Giovannoni a Sabatucci a Pìrani. Ma la storia deve
un risarcimento al molto paziente e dispotico lavoro di Raffaele
00 fre
De Vico, con il quale ha fatto i conti perfino Piacentini, un gigan‐
2
te forse rimasto in un’entropia un po’ provinciale ma certamente
0x ura
un genio, che imprime alla città un carattere decisivo dagli anni
4
1 s
venti ai sessanta, che da Villa Glori al Parco dell’Eur progetta,
s
a 3 m bro
realizza e mantiene un sistema invidiabile di parchi pubblici, cui
z z o m to
si aggiungono grandi episodi come la città universitaria e la pri‐
Bo mat men
ma falsa partenza dell’EUR fino all’ultimo capolavoro di regia
con la realizzazione proprio dei parchi dell’EUR in occasione del‐
all
In quanto a riscritture, in questo decennio ne ho subite due
atroci, che riguardano due mie opere: la distruzione di Villa Leo‐
pardi, condanna a morte di un’opera pubblica che funzionava
perfettamente dopo 12 anni di vita senza alcun motivo che sia
stato reso noto e la vandalizzazione di piazza Montecitorio da
parte dell’Ufficio Città storica.
In questo periodo gli urbanisti hanno comunque svolto un de‐
licato compito, drenare una forte domanda edilizia cercando di
difendere alcune sacche di resistenza di un paesaggio di qualità
come quello dell’Agro, ancora presenti in profondità in quartieri
iperpopolati. Non è poco, se non si è affermata un’immagine for‐
se si è prodotta una assenza che esprime una volontà critica del
moderno, un allegro ben temperato.
2. Non mi sembra che le nuove centralità abbiano suscitato una
grande discussione, grandi concorsi, né che abbiano rivelato gio‐
vani talenti. Vi è stata poca informazione. L’impressione è che
siano operazioni decantate in un ambito troppo ristretto e rima‐
ste al margine del circuito europeo.
3. Difficile rispondere serenamente, perché il livello medio dell’e‐
dilizia pubblica e privata è molto basso, ma se anche a Parigi,
348 Franco Zagari
b/n sata
Berlino, Londra, perfino a Barcellona, questi ultimi dieci anni
hanno mostrato nella media una produzione non esaltante, pos‐
00 fre
siamo visitare e rivisitare quelle città con grande interesse.
2
La recente edizione del premio Inarch ha riconosciuto alcune
0x ura
eccezioni, come la Biblioteca Hertziana, ma nel complesso è stata
4
1 s
deludente.
s
a 3 m bro
z z o m to
4. Certamente. L’Auditorium, con tutti i suoi difetti (la foresta
Bo mat men
pensile molto meno audace delle premesse) è un progetto straor‐
dinario, che ha un’ottima interfaccia con il contesto e con il pub‐
all
interruzione dalla fase di concorso alla realizzazione sugli esterni
e sull’urbanistica, perché la paternità di ogni idea è certamente di
Renzo Piano. Il progetto nasce come una forte intuizione urbani‐
stica, un parco pensile e una grande cavea restituiscono all’uso
pubblico quattro dei cinque ettari occupati dalla nuova struttura,
il Villaggio Olimpico è richiamato a una funzione di quartiere
moderno dall’apertura in profondità del focus dell’Auditorium,
mentre la materia dei due colli sovrastanti di Villa Glori e dei Pa‐
rioli viene trascinata in continuità a occupare tutto il nuovo spa‐
zio. Solo i tre gusci aleggiano su questo paesaggio semplice e pri‐
mario, metafore di strumenti musicali nell’intenzione di Piano,
prontamente chiamati i “bagherozzi” dall’ostilità degli architetti
romani, antipatia che in principio fu molto forte. La cosa che fu
meno digerita è la sequenza graduale in crescendo fra le tre sale,
una forma molto simile in tre dimensioni diverse, e l’indifferenza
apparente fra i gusci e i corpi sottoposti, e ancora l’ostentata ba‐
nalità dei dettagli degli spazi esterni e delle recinzioni. Questa è
invece è a mio parere la grandezza della lezione di Piano che ha
interpretato il rapporto fra la funzione e il luogo come motivo di
ispirazione: la riverberazione di una serie di relazioni già tutte
presenti nel paesaggio, accolte, citate, ripetute, nelle quali si stac‐
cano tre soli segni icastici.
Il punto di vista del paesaggio 349
b/n sata
L’Ara Pacis è stata tormentata in ogni modo da critiche vio‐
lente sulla sua inadeguatezza rispetto alla ubicazione. È vero
00 fre
il contrario. Opera forse non fra le migliori di Meier, forse in‐
2
feriore alla ottima prova della chiesa di Tor Tre Teste, è pur sem‐
0x ura
pre l’opera di un maestro contemporaneo, che ha riaperto una
4
1 s
vicenda urbanistica sorda, anche se giustamente rivalutata nel
s
a 3 m bro
linguaggio, con la capacità di una perfetta aderenza al luogo, alle
z z o m to
sue scansioni, sequenze, allineamenti, colori, vibrazioni. Tutto ciò
Bo mat men
che è aneddotico, descrittivo, didattico è stato evitato. Il nuo‐
vo spazio si rapporta alla storia del luogo stabilendo un dialogo
for esti fra una nuova storia e quanto preesiste e quanto ancora preesi‐
all
steva a quanto è stato distrutto creando il mausoleo di Augusto.
È interessante nel suo rapporto fra interni e esterni, ed è acco‐
gliente, non a caso è diventato uno dei musei più visitati della
città.
All’Esquilino sull’onda etnica, l’invisibile e poderosa iniziati‐
va della comunità cinese e di altre comunità immigrate minori e
del rilancio di Termini, l’amministrazione ha saputo innescare
una politica che ha veramente riscritto il quartiere. L’Esquilino
era diventato uno slum e creava una forte instabilità di tutti i
quartieri confinanti. Quartiere nato dopo l’Unità per gli impiega‐
ti dei nuovi ministeri, era un complesso edilizio speculativo mol‐
to povero, con una scena urbana cupa e spoglia. Tante attività
pubbliche e private lo hanno portato a sfruttare a pieno la sua
posizione strategica nella città.
5. La scrittura di Piano e di Meier è una scrittura contemporanea,
piuttosto estranea alla ricerca della scuola romana, ma certamen‐
te non indifferente alla memoria dei luoghi. Nei loro progetti in
ogni segno si intuisce l’esperienza maturata in infinite realizza‐
zioni. Questo aspetto, non compreso, ha spesso immiserito il di‐
battito in una critica di sapore protezionista e autarchico. Ma so
di essere in assoluta minoranza in questa mia opinione.
350 Franco Zagari
b/n sata
6. Sì, da Accattone di Pier Paolo Pasolini, a La dolce vita e Roma di
2 00 fre
Federico Fellini e all’Eclisse di Michelangelo Antonioni, il Confor‐
mista di Bernardo Bertolucci, a Caro Diario di Nanni Moretti, il
0x ura
cinema sembra essere la caverna platonica che registra come do‐
4
1 s s
cumenti popolari gli elementi costitutivi del paesaggio urbano
a 3 m bro
romano. L’immaginario collettivo degli ultimi cinquanta anni è
z z o m to
stato raccolto da Ciriaco Campus nella sua opera La pressa, che
Bo mat men
comprime immagini negative o positive con lo stesso tempo e lo
stesso rumore.
for esti
all
7. Le cose non vanno male nel caso delle comunità di prima im‐
migrazione. I problemi sono nelle città nomadi, formate da co‐
munità la cui integrazione è a volte difficile.
8. Il mercato non anticipa, segue. Mi spiego, Roma è piena di
quartieri obsoleti sotto ogni punto di vista costruiti nel secondo
dopoguerra. Proprio una riscrittura per demolizione e ricostru‐
zione di grandi comparti potrebbe indurre una benefica riqualifi‐
cazione. Un esempio? Il quartiere che affaccia sulla ferrovia fra
piazza Zama, via Appia e via Tuscolana…
9. Qui si aprirebbe un nuovo file, che ci porterebbe molto lonta‐
no. La ibridazione fra pubblico e privato è in principio una ric‐
chezza, la riduzione radicale dello spazio a una dimensione tutta
privata o tutta pubblica è positiva solo se è frequentemente alter‐
nata e ben motivata. I sobborghi americani tipo Truman Show
sono una regressione della città a uno stato difensivo paranoide,
l’affermazione del ceto sociale e la conseguente difesa di uno sta‐
to di privilegio tende a formare delle isole esclusive, il cui primo
presupposto è una drastica riduzione della complessità, e con es‐
sa della libertà.
n
Orazio Carpenzano
b sata
/
00sulle testate edilizie cieche
re
Spazialità latenti. Una ricerca progettuale
2 f
4 0x ura
1 s s
a m b ro
3 mIl più importante fenomeno cui può indurre una ricerca proget‐
o zz to ntuale sulle testate edilizie cieche, è forse il gioco di uno scambio
t o
B ma me sono una presenza urbana incomunicante dove possiamo coglie‐
del limite tra spazialità oppositive. Le facciate mute degli edifici
b/n sata
vuoto d’immagine, anche un’assenza di qualità nel ritmo dell’e‐
dificato della metropoli contemporanea. Questo significa per noi
2 00 fre
accostarci ad uno spazio diverso, che ci porta a misurare, anche
solo visivamente, i rapporti di posizione con gli strati “verticali”
0x ura
della metropoli, ma soprattutto ad implicare i sensi nell’esperien‐
4
1 s s
za dello spazio contemporaneo, cioè contattare progettualmente
a 3 m bro
le interrelazioni tra le arti.
Bo mat men
connessione, della mutazione e della comunicazione legandosi
strettamente all’uso pieno e concreto delle nuove tecnologie nella
for esti composizione architettonica e nella progettazione urbana. Dun‐
all
que… un’idea/strumento indicativa per ogni facciata; la scelta di
precisi riferimenti; l’individuazione dei loro elementi logici, fa‐
cendo risalire le soluzioni lungo le strade dell’astrazione o della
costruttività. I risultati migliori sono quelle architetture che han‐
no trovato un senso legandosi ad un’idea/programma di tra‐
sformazione utile, in cui si vede agire un vigoroso processo dia‐
lettico che coinvolge tipi e siti, giudizi e segni, l’idea di nuovi
centri d’emergenza visuale e al contempo di elementi di forte fra‐
granza funzionale capaci di rigenerare il corpo di quelle architet‐
ture mutilate cui il nuovo si attacca come parassita o cercando un
rapporto simbiotico, cioè di reciproco vantaggio, non solo con gli
edifici ma anche e soprattutto con lo spazio urbano.
Implicare i sensi nell’esperienza di queste spazialità latenti vuol
dire contrattare con gli organi della percezione le interrelazioni
tra le arti, le quali oggi non si dovrebbero strutturare più in ma‐
niera da corrispondere biunivocamente ai sensi umani e non
tendere più a venire coltivate o esercitate a seconda che la vista,
l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto siano alternamente sollecitati.
Grazie all’esperienza delle avanguardie, abbiamo imparato a ri‐
cavare molta conoscenza dai processi di “rappresentazione men‐
tale” del mondo e le reti culturali contribuiscono oggi ad aumen‐
Spazialità latenti. Una ricerca progettuale sulle testate edilizie cieche 353
b/n sata
tare molto questa opportunità. In questo tipo di progetti la ricerca
può sviluppare un disorientamento sensoriale per carpire il mi‐
2 00 fre
stero dell’impermanenza del reale e l’infinita pluralità dei modi e
degli influssi che correlano le dimensioni architettoniche. Il bi‐
0x ura
dimensionale si unisce alla terza, quarta e quinta dimensione nel‐
4
1 s s
lo spazio stereoplastico di un diaframma architettonico.
z z o m to
proprio quella che permette l’interazione necessaria a rigenerare
Bo mat men
la forma stessa proprio osservando il rapporto oggetto/spazio in
questo caso, murazione/vuoto. Questo quadro permette di ride‐
for esti finire la trilogia percezione‐azione‐progetto in un’ottica innovativa.
all
È interessante come l’apporto sensoriale, nella cognizione e
nella ricerca architettonica possa suggerire modalità e forme che
lavorano contro l’esaltazione dell’immutabile, perché i processi
sensoriali sono il presupposto dell’azione e contemporaneamente
ne fanno anche parte. E di questo, tanta parte dell’architettura
non vuole prendere atto, soprattutto quell’architettura che resta
algida nei confronti della presenza umana, attenta soprattutto al
suo design, troppo autoreferente, quasi autistica.
Ciò che è interessante osservare è che questa “indifferenza” è
presente anche in tanta architettura contemporanea orientata
all’aspetto, le cui forme, paradossalmente “embriologiche” pun‐
tano a sollecitare stimoli esperenziali cognitivi separati dal “cor‐
poreo”. Quando il flusso, i colori, le proporzioni sono contattati
dai nostri corpi allora, possiamo notare come la nostra azione
(nel senso in cui si diceva prima) può modificarne le textures, i
movimenti, le forme: la distanza tra architetture reali e spazio
astratto si riduce moltissimo (per inciso… mi chiedo… accorciare
la distanza tra spazio e corpo non è una ricerca affascinante?)
specialmente quando l’interazione spazio‐temporale generata
dalla mobilità che cerca direzioni, gioca un ruolo importante non
solo nella conformazione del corpo (forme delle architetture in‐
354 Orazio Carpenzano
b/n sata
terne/esterne) ma anche nello sviluppo delle sue funzioni, nelle
sue capacità adattive.
2 00 fre
Le questioni sollevate dalle affermazioni di Merleau‐Ponty
circa il rapporto tra sensorialità e sapere astratto, in cui si ricono‐
0x ura
sce il ruolo fondamentale della nostra presenza corporea, della
4
1 s s
percezione tattile, nelle conoscenze geometriche utili all’architet‐
a 3 m bro
tura, ci dicono che l’aspetto più importante delle nostra espe‐
z z o m to
rienza esistenziale è l’abilità di percepire. Questa idea, decisiva
Bo mat men
per noi, deve sviluppare a fondo l’importanza della connessione,
della mutazione e della comunicazione. Il progetto dovrà sempre
all
un modello alternativo alla trasformazione totale della città o per
parti formalmente compiute; dovrà necessariamente mutare pro‐
fondamente poiché con rapidità inaudita è stata cambiata signifi‐
cativamente la nostra facoltà di strutturare la rappresentazione
della realtà; dovrà finalmente accettare un paesaggio non per
forza di cose ottenuto da radicali modificazioni, ma da modi di‐
versi di riconoscere e mettere a sistema i suoi componenti. Un
paesaggio urbano composto, non solo di luoghi di memorie e di
celebrazioni delle sue storie ma anche di nuovi dispositivi archi‐
tettonici in grado di provocare accostamenti inediti e nuove oc‐
casioni di produzione di senso.
b/n sata
Alessia Maggio
00 fre
La presenza muta delle cose
2
x del seminario
0Le
Presentazione racieche di degli
progettazione Architettura in perfor‐
1 4
mance. s u
superfici edifici della metropoli contem‐
s
a m b ro
3 mporanea, diretto da Orazio Carpenzano all’interno del Dottorato di Ri‐
zz to nto
cerca in Architettura‐Teorie e Progetto della Sapienza Università di Roma
o
B ma me La facciata è un piano di incontro tra articolazione interna e di‐
o r
f es t i mensione urbana, filtro e diaframma che scherma il privato e il
pubblico e li relaziona. […] un filtro che necessiti di uno spessore
all
che schermi la dimensione affettiva ed antropologica, le valenze
psicologiche dell’interno rispetto all’esterno (C. Dardi 1980).
La facciata è una superficie di mediazione; ma quando questa nel
contesto di una metropoli viene privata dei suoi stessi significati
sembra interrompere quel dialogo nel quale ha innestato relazio‐
ni e resta una presenza muta nel contesto.
Le facciate che definiamo mute, silenti o cieche denunciano,
un processo interrotto, una mancanza, un’impossibilità di com‐
pletamento, dinnanzi al quale l’involucro edilizio resta impoten‐
te anche se la città le accoglie metabolizzando la loro presenza in
molti modi.
Il seminario Le superficie cieche degli edifici della metropoli con‐
temporanea, si appropria di queste realtà contemporanee ponen‐
dole al centro di un dialogo di ridefinizione e rifunzionalizza‐
zione, attuabile attraverso gli strumenti della progettazione urba‐
na e della composizione architettonica. Il compito assegnato ai
dottorandi è quello di individuare nel tessuto della metropoli
romana quelle facciate prive di trattamenti materici o bucature,
superfici mutilate nella loro essenza; dunque, piani che divengo‐
no spunto per attuare un innovativo processo di restituzioni e di
riscritture architettoniche.
356 Orazio Carpenzano
b/n sata
L’invito alla progettazione di queste superfici si lega alla ne‐
cessità di rivitalizzare e dare nuovi significati a quegli spazi d’om‐
00 fre
bra della città che per motivi diversi rimangono in stato di abban‐
2
dono e di degrado; la caratteristica di questi spazi limite è quella
0x ura
di rappresentare un piano, una superficie verticale dove il contat‐
4
1 s
to con il contesto si attua attraverso una soglia, una membrana
s
a 3 m bro
che vorrebbe divenire parlante. Un vincolo progettuale è rappre‐
z z o m to
sentato dalla necessità di evitare esercizi puramente decorativi
Bo mat men
che non avrebbero permesso di eseguire un lavoro di configura‐
zione delle qualità inespresse finalizzato all’identificazione di
all
Il seminario si è svolto attraverso l’individuazione e la scelta
delle facciate cieche (che secondo una prima stima, solo nel qua‐
drante urbano Ostiense risultano essere circa il 2% della superfi‐
cie edificata). I dottorandi hanno individuato per ciascun tema
un titolo esplicativo del concept con cui hanno affrontato e svolto
il progetto sulla superficie muta:
‐ Francesca Barone, Urban Pore (Fig. 1)
‐ Giuditta Benedetti, Giardino Verticale‐San Lorenzo (Fig. 2)
‐ Alessio Bonetti, Lo spettatore generoso, ovvero, l’altra faccia dello
specchio (Fig. 3)
‐ Filippo Cerqua, TetrisTown (Fig. 4)
‐ Antonino Di Raimo, Sistema di terapia epidermica per strategie ur‐
bane (Fig. 5)
‐ Cristina Dreifuss, Virus ‐ Spazio nella città (Fig. 6)
‐ Raffaella Gatti, Il palcoscenico in verticale. Scenari urbani per il tea‐
tro (Fig. 7)
‐ Maja Gavric, Urban Tubes (Fig. 8)
‐ Luca Incerti, Struttura® (Fig. 9)
‐ Eun‐Jeong Kim, Labirinto verticale, come una promenade (Fig. 10)
‐ Anna Maria Loiacono, Una meridiana nel contesto urbano (Fig. 11)
‐ Alessia Maggio, Stanze Urbane. Funzionalità urbane alternative
(Fig. 12)
Spazialità latenti. Una ricerca progettuale sulle testate edilizie cieche 357
b/n sata
‐ Marco Marrocchi, Neur‐IX. Pelle Mutante (Fig. 13)
‐ Majid Shahbazi, Network. Library of war (Fig. 14)
00 fre
‐ Vincenzo Tattolo, San Lorenzo studio rec (Fig. 15)
2
0x ura
I diversi contesti e le diverse soluzioni progettuali concorrono a
1 4
restituire funzione e parola ai piani muti della realtà urbana di‐
ventando s s
testimonianza della necessità di riunire arte, nuove
a 3 m br o
tecnologie e architettura all’azione interattiva del city‐user con‐
m
zz to ntemporaneo.
o
o t
B ma me
for esti
all
Fig. 1
358 Orazio Carpenzano
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
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Fig. 2
Fig. 3
Spazialità latenti. Una ricerca progettuale sulle testate edilizie cieche 359
b/n sata
2 00 fre
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a 3 m bro
z z o m to
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for esti
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Fig. 4
Fig. 5
360 Orazio Carpenzano
b/n sata
2 00 fre
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a 3 m bro
z z o m to
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Fig. 6
Fig. 7
Spazialità latenti. Una ricerca progettuale sulle testate edilizie cieche 361
b/n sata
2 00 fre
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a 3 m bro
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for esti
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Fig. 8
Fig. 9
362 Orazio Carpenzano
b/n sata
2 00 fre
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a 3 m bro
z z o m to
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Fig. 10
Fig. 11
Spazialità latenti. Una ricerca progettuale sulle testate edilizie cieche 363
b/n sata
2 00 fre
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a 3 m bro
z z o m to
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for esti
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Fig. 12
Fig. 13
364 Orazio Carpenzano
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
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a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 14
Fig. 15
n PARTE IV
b sata
/
2 00 FRA LOCALE E GLOBALE
f re
4 0x ura
1 s s
3 m
a m o b r o
z z o t
Bo mat men
for esti
all
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
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a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
b/n sata
Adriana Magro, Moema Rebouças
0 0 frLa città ai piedi:
e
2
x ra
una ricerca fra i bambini di Vitoria in Brasile 1
0
4 ssu
1
a m b ro
3 m0. Introduzione
o zz to nto Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo,
B ma me
r
fo est i un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l’intenzione di si‐
gnificare qualcosa… che cosa? Se stessa, una cosa è contenta d’es‐
a l l sere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di signi‐
ficare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano se
stesse e nient’altro (Italo Calvino, Palomar, 1983, p. 117).
Questa indagine trae spunto dalle meditazioni di Palomar2, il
personaggio calviniano che rompe le barriere fisiche del suo am‐
biente circostante e osserva – in modo tutt’altro che comune – le
cose che lo circondano (che gli sembra si muovano desiderando
di essere guardate), senza preoccuparsi di sceglierne alcuna, di
escludere, di fare gerarchie o preferenze. Cosicché, dinnanzi a
lui, il mondo contemplato si fa anche contemplatore.
Seguendo un simile approccio, non esiste dunque alcuna pos‐
sibilità di vedere le cose soltanto da fuori; è invece dalla cosa os‐
servata che nascono le domande e – in un certo senso – anche il
percorso di questa indagine, che mira ad esplicitare quelle stesse
domande, impedendo alle cose di rimanere chiuse in se stesse.
Proponiamo, quindi, un percorso di studio in cui è proprio la co‐
sa osservata a presentarsi a noi.
Un percorso in cui si inserisce la ricerca intitolata La città che
vive in me, in riferimento alla città brasiliana di Vitoria e alle tante
1
Il testo è stato adattato in italiano da Mariarosa Bova.
2
Palomar è il personaggio e il titolo del libro di Italo Calvino (1983).
368
Adriana Magro, Moema Rebouças
b/n sata
Vitoria immaginarie che bambini e adolescenti hanno costruito
attraverso il loro quotidiano, e hanno poi materializzato in alcu‐
00 fre
ne produzioni artistiche.
2
La nostra analisi, pertanto, non è limitata ai soli edifici citta‐
0x ura
dini e ai materiali utilizzati per durare nel tempo, né alle tracce
4
1 s
di circolazione urbana – come strade, piazze e marciapiedi – ma
s
a 3 m bro
anche e soprattutto ai differenti modi di appropriazione dello
z z o m to
spazio della città e delle cose che in essa abitualmente si trovano;
Bo mat men
così, da un’unica realtà cittadina – nel nostro caso Vitoria – pren‐
dono forma differenti “paesaggi”, mentre le cose abituali si tro‐
all
gini e gesti – manipolata e plasmata dalle condizioni di vita e
dalle pratiche quotidiane che abitano gli spazi urbani; pratiche
che coinvolgono gli abitanti e “oltrepassano” gli stessi limiti delle
varie costruzioni architettoniche, per arrivare a disegnarne altre,
nuove, transitorie e immaginarie, derivate dall’esistenza umana
in questi spazi sociali.
La città che vive in me è un progetto che mira a dare visibilità
alla città che vive in ognuno di noi, riflettendo sul nostro inseri‐
mento, come cittadini, nella dimensione scenica della città. Gli
elementi che hanno stimolato le prime discussioni tra noi ricerca‐
tori (e poi tra noi e i ragazzi coinvolti nelle attività proposte), sono
stati i seguenti: la città che vogliamo, la città che non vogliamo, e
la città che vive in noi.
Abbiamo offerto i laboratori nelle scuole come una sorta di
“provocazione”, in risposta abbiamo ottenuto la produzione di
alcune opere artistiche che poi il gruppo di ricerca ha analizzato,
considerandone gli aspetti plastici e figurativi, al fine di esplici‐
tare cosa e come si articola il discorso di cui si fanno carico. L’in‐
teresse principale era, insomma, indagare come il tema della città
si manifesta nei discorsi (non solo verbali, ma anche visivi e pla‐
stici) di bambini e di adolescenti. Ciò richiede che il lettore assu‐
ma un particolare punto di vista, cercando di cogliere come un
La città ai piedi: una ricerca fra i bambini di Vitoria in Brasile 369
b/n sata
disegno, un dipinto, un oggetto d’arte (o altre produzioni plasti‐
che) si presenta e quali sono i valori e le idee in esso presenti, o
00 fre
meglio inscritte. Non solo. Questa produzione plastica è conside‐
2
rata anche come prodotto di un soggetto inserito in un contesto
0x ura
socio‐culturale; la sua lettura, pertanto, include necessariamente
4
1 s
anche questo contesto.
s
a 3 m bro Il progetto di indagine si basa sulla semiotica della scuola di
z z o m to
Parigi, di cui abbiamo utilizzato gli strumenti metodologici e
Bo mat men
concettuali per l’analisi delle produzioni raccolte.
Nella prima fase del progetto ci sono stati incontri nelle scuo‐
all
prire persone e quartieri della città reale, nella seconda fase, in‐
vece, abbiamo concentrato l’attenzione sui laboratori, conside‐
randone due aspetti fondamentali come oggetto di analisi: da un
lato i diversi prodotti artistici creati da quanti hanno partecipato
alla ricerca, dall’altro le relazioni sociali che si erano formate
all’interno degli stessi laboratori, e che hanno avuto come effetto
la produzione di tante “scuole” (tante quanti i rapporti tra ragaz‐
zi non appartenenti alla stessa classe, e tra questi e i cittadini
aderenti all’iniziativa) nella/della stessa scuola.
Il presente articolo, dunque, è anche la presentazione del per‐
corso della pratica artistica che ha coinvolto bambini e adolescen‐
ti di una scuola, impegnati nell’utilizzo di vari materiali messi a
disposizione dalla scuola stessa (es. colori, colla, pasta modellan‐
te), tra i quali figuravano anche delle scarpe, usate come materia‐
le di partenza per le loro creazioni artistiche. Queste ultime, una
volta terminate, sono diventate il nostro oggetto di analisi. Di se‐
guito descriviamo le varie fasi dell’indagine e alcuni dei risultati.
1. Un laboratorio non solo artistico
Abbiamo iniziato il nostro lavoro domandando ai ragazzi come
camminavano, dove camminavano, che cosa vedevano nella loro
370
Adriana Magro, Moema Rebouças
b/n sata
città, e cosa, tra quanto avevano visto e vissuto, piaceva loro op‐
pure no. Successivamente, per dare forma concreta alle loro af‐
00 fre
fermazioni, abbiamo offerto a ciascuno dei fogli colorati da met‐
2
tere sul pavimento per tracciarvi sopra il contorno dei loro piedi;
0x ura
questi disegni sono stati per i ragazzi il supporto e lo strumento
4
1 s
iniziale per scrivere e disegnare (Fig. 1) ciò che piaceva loro, o
s
a 3 m bro
meno, della loro città.
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 1. I bambini del laboratorio disegnano una città
immaginaria dentro il contorno del loro piede
Nei disegni dei piedi ciascuno ha proiettato il suo mondo: per
alcuni le dita rappresentavano colline e cielo, e il tallone terra e
mare; mentre in altri casi l’intera superficie proponeva scene di
vita quotidiana, scene di interni o di interesse sociale (Figg. 3,
3a). Nel primo insieme di disegni – i piedi sui quali venivano di‐
segnati gli aspetti positivi e/o gradevoli della città – abbiamo
avuto varie risposte, molte delle quali hanno indicato la scuola
come uno spazio privilegiato; questo ci ha permesso di far emer‐
gere la categoria semantica di cultura. In un numero minore – ma
non meno importante – di casi ci sono stati riferimenti alla natu‐
ra, con scritte del seguente tipo: “Mi piace l’odore di pesce” e “Mi
piace il mare”. In questo primo insieme, più in generale, viene
La città ai piedi: una ricerca fra i bambini di Vitoria in Brasile 371
b/n sata
espressa la congiunzione del soggetto con il suo oggetto di valo‐
re, la città.
00 fre
Un secondo insieme, invece, raccoglieva i disegni dei piedi con
2
i quali i ragazzi hanno espresso cosa non gli piaceva: l’immondi‐
0x ura
zia è stata ricordata in sette frasi, ma è stata soprattutto la violen‐
4
1 s
za che ha segnato il discorso di ragazzi e ragazze. Così, in questo
s
a 3 m bro
insieme, le due categorie sopra indicate – cultura e natura – sono
z z o m to
rappresentate e valorizzate in modo differente: la natura viene
Bo mat men
ora associata alla spazzatura, mentre la cultura alla violenza, pre‐
sentandosi entrambe come disforiche e oggetti in cui il soggetto
for esti enunciatore si trova in uno stato di disgiunzione con i suoi og‐
all
getti di valore (le bellezze della città). Oltre alla cultura e alla na‐
tura, dall’analisi dei disegni è emersa anche una terza categoria:
la socializzazione. I punti di riferimento sono stati i disegni relativi
alla partecipazione a feste religiose e familiari, che hanno ribadi‐
to l’importanza di questo aspetto nella vita della città.
2. Alcuni esempi
Dopo aver costruito, attraverso le informazioni sopra riportate,
una “mappa” dei percorsi dei vari disegni‐piedi, del loro cam‐
mino tra quanto la città offriva di piacevole o meno, abbiamo
chiesto ai ragazzi di scegliere, tra le tante tipologie di scarpe
messe a disposizione, quelle che preferivano in base all’aspetto
estetico, o alla comodità, oppure ancora all’adattabilità in base ai
possibili cambiamenti del tempo. Ciascuno ha poi acconciato o
arricchito la propria scarpa come riteneva più opportuno rispetto
alle domande poste all’inizio del laboratorio (la città voluta, quel‐
la non voluta e quella interiore). Il risultato di questo lavoro è
stata la realizzazione di quasi un centinaio di “situazioni‐scarpe”.
Tra i vari modelli, ogni ragazzo/a ha scelto quello più adatto al
“montaggio di pezzi” che aveva in mente per parlare della città.
Infatti, nel frattempo, avevamo messo a loro disposizione diversi
372
Adriana Magro, Moema Rebouças
b/n sata
materiali (come spago, nastri colorati, bottoni, piccoli giochi di
plastica…) per completare la costruzione – o meglio la ricostru‐
00 fre
zione – delle scarpe che avevano scelto. In seguito, per l’analisi, è
2
stata selezionata una scarpa per ciascuna delle tipologie più ri‐
0x ura
correnti; per la tipologia riferita ai personaggi inventati, si è scel‐
4
1 s
ta la scarpa visibile nella Fig. 2 sotto riportata.
s
a 3 m bro
z o m to
z
Bo mat men
for esti
all
Fig. 2. Scarpa maschile marrone con gli elementi che i
bambini hanno inserito per trasformarla in un viso
In questo caso il mezzo utilizzato per la preparazione del perso‐
naggio di fantasia è stata una scarpa maschile, classica, marrone.
Questa scarpa ha la suola di colore nero e la tomaia in pelle mar‐
rone con cucitura a vista nella parte superiore. Il lavoro svolto
dal soggetto è stato – come si vede – quello di mettere delle lun‐
ghe strisce di stoffa sul bordo anteriore della scarpa, come se
quest’ultima fosse un viso e quelle i capelli. Tra la punta della
scarpa dove sono stati applicati i “capelli” e lo spazio in cui abi‐
tualmente si infila il piede, sono stati installati due occhietti finti,
rossi e bianchi, e dei frammenti di carta a mo’ di ciglia. Per rap‐
presentare il naso, invece, è stato usato un piccolo alligatore ros‐
so, di plastica, con la coda messa in direzione della bocca rappre‐
La città ai piedi: una ricerca fra i bambini di Vitoria in Brasile 373
b/n sata
sentata dall’apertura della scarpa opportunamente modificata
per dotarla di piccoli denti. La costruzione del viso è stata poi
00 fre
completata con l’applicazione delle orecchie e di pezzetti di tes‐
2
suto fissati dietro i capelli, dai quali pende un ragno giocattolo
0x ura
messo come orecchino.
4
1 s
In questo lavoro, dunque, vi è stato l’utilizzo di diversi mate‐
s
a 3 m bro
riali: pelle, plastica, carta, cotone e pasta modellante. La figura
z z o m to
mostra le quattro dimensioni di un formante plastico: cromatica,
Bo mat men
eidetica, materica e topologica (Greimas 1991). Come afferma Ana
Claudia de Oliveira, le prime due dimensioni, cromatica ed eide‐
for esti tica, sono fatte di “materiais, técnicas e procedimentos que lhe
all
dão uma corporeidade3“ (2004, p. 119). La dimensione topologi‐
ca, che si riferisce allo spazio, organizza le tre dimensioni prece‐
denti (cromatica, materica e eidetica).
La scarpa artistica prima descritta (Fig. 2), con il suo colore mar‐
rone, offre un contrasto con il bianco dei denti e il rosso degli oc‐
chi, producendo – come effetto di senso – un sentimento di paura
o pianto. La posizione della bocca aperta, insieme ai colori e alle
caratteristiche degli occhi, sembrerebbe confermarlo. La scelta del
tipo di scarpa, inoltre, suggerisce la presenza di tratti maschili.
Secondo Oliveira “toda construção de sentido é contextuali‐
zada4“ (2004, p. 119); inoltre, se è vero come scrive l’autrice che
“as formas‐cores agem como codificadoras de mundos”5, si pos‐
sono considerare quest’ultime come un autonomo linguaggio di
forme apprese a partire dalla sensibilità e attraverso un “modo
de olhar que possibilitam o reconhecimento de seus efeitos de
sentido6“ (Oliveira 2004, p.119). In base allora a tutti i formanti
plastici di cui sopra abbiamo parlato, si può dire, per la scarpa
della Fig. 2, che si tratti di un viso africano?
3
“materiali, tecniche e procedimenti che le danno una corporeità”.
4
“Ogni costruzione di senso è contestualizzata”.
5
“Le forme‐colori agiscono come codificatrici di mondi”.
6
“Modo di guardare che permette il riconoscimento dei loro effetti di senso”.
374
Adriana Magro, Moema Rebouças
b/n sata
Si ipotizza di sì, considerato anche che lo stesso oggetto foto‐
grafato di profilo presenta un’ulteriore caratteristica: la promi‐
00 fre
nenza della bocca, l’allungamento della linea delle labbra oltre
2
quella degli occhi (Fig. 2a).
4 0x ura
1
s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 2a. Profilo della scarpa/viso
In un altro lavoro (Fig. 3) viene invece rappresentato un momen‐
to di integrazione sociale, come anticipato nel paragrafo prece‐
dente. L’originaria struttura del sandalo è stata indebolita, elimi‐
nando completamente la tomaia e lasciando soltanto l’appoggio.
La sinuosità della forma di questa scarpa con zeppa alta, attira lo
sguardo dell’osservatore come in un andirivieni, dal basso a sini‐
stra verso l’alto a destra e viceversa.
Nella scena rappresentata risulta evidente il contrasto tra un
effetto di senso di armonia da un lato (gli alberi fioriti sulla cima
della collina e le margherite di argento) e un effetto di caos
dall’altro, dovuto al mix di auto, animali e persone.
La scena, vista dall’alto (Fig. 3a), rappresenta una possibilità
di integrazione nella città tra il caos del traffico, la natura armo‐
nica, i passanti e gli abitanti.
La città ai piedi: una ricerca fra i bambini di Vitoria in Brasile 375
b/n sata
2 00 fre
4 0x ura
1 s s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat men
for esti
all
Fig. 3. Scarpa con la zeppa. Attraverso gli elementi colorati i
bambini hanno rappresentato una scena quotidiana della città
Fig. 3a. La scarpa/città vista dall’alto
In essa si ritrova la presenza di un’altra categoria semantica
emersa dai discorsi degli studenti, vale a dire quella della sociali‐
tà: come si vede nella foto sopra, infatti, gli uomini occupano le
estremità opposte del supporto‐scarpa, sistemati in una posizio‐
ne di simmetria e di equilibrio, posizione che tra l’altro risulta
376
Adriana Magro, Moema Rebouças
b/n sata
meta dei percorsi ordinati delle macchine presenti nello spazio
centrale. L’effetto di direzione e di ordine dei due sensi di mar‐
00 fre
cia, prodotto dalla posizione delle piccole vetture, è però spezza‐
2
to dalla macchina rossa con le ruote bianche (la prima in alto a
0x ura
destra, Fig. 3a) l’unica che prende la direzione opposta ignoran‐
4
1 s
do il flusso delle altre vetture. La presenza poi di un insolito ca‐
s
a 3 m bro
vallo arancione rafforza il senso di equilibrio dell’intera
z z o m to
composizione: messo nel fondo del pendio contribuisce, infatti, a
Bo mat men
bilanciare il peso della fascia alta della scarpa dove si trovano al‐
beri e fiori. Le bambole, usate per rappresentare le donne della
all
un anello a mo’ di corona; un altro anello è posto al collo della
bambolina situata nella parte alta della scarpa. I personaggi di
sesso maschile, invece, indossano semplicemente abiti di pasta e
solo uno di loro, messo al fondo della pista, porta sul capo una
corona. Sembra proprio che l’anello venga usato dai bambini per
riprodurre un senso di distinzione sociale, sia per donne che per
uomini (è fatto indossare, difatti, ad entrambi come una “coro‐
na”).
3. Riflessioni conclusive
In questa parte della ricerca La città che vive in me abbiamo osser‐
vato come il percorso di attività di tanti io‐individuali diventi un
percorso che parla soprattutto, e più in generale, di interi gruppi
sociali. La città è stata “vista” attraverso gli occhi e le creazioni
artistiche dei giovani che hanno partecipato al laboratorio. Eric
Landowski parla di “modi di presenza del sensibile” e afferma:
“Il mondo oggetto è esso stesso un mondo sensibile il cui mo‐
do di presenza, in relazione a noi, condiziona la maniera con la
quale viviamo, e, di conseguenza, il nostro grado di disponibilità
davanti ad esso in quanto luogo di emergenza potenziale di un
La città ai piedi: una ricerca fra i bambini di Vitoria in Brasile 377
b/n sata
senso” (in Oliveira, a cura, 2004, p. 106)7. La proposta di guarda‐
re la città, pensando a quello che piace e non piace di lei produce,
00 fre
insomma, un significato che va oltre il giudizio critico, riguar‐
2
dando il senso di essere e di fare città. Nell’ambito del progetto La
0x ura
città che vive in me, possiamo dire – continuando con Landowski –
4
1 s
che il regime di presenza in questa città che siamo e viviamo ordi‐
s
a 3 m bro
na il regime di senso. La presenza e il senso aprono pertanto un
z z o m to
luogo di riflessione, in un movimento a spirale che è rivolto a noi
Bo mat men
e che, a nostra volta, noi trasformiamo nella misura in cui vivia‐
mo la città e ne facciamo esperienza.
for esti
all
Testo originale: “o mundo objeto é ele mesmo um mundo sensível cujo
7
modo de presença em relação a nós condiciona a maneira como vivemos e,
por conseguinte, nosso grau de disponibilidade diante dele enquanto lugar
de emergência potencial de um sentido”.
b/n sat a
Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
0 0 fre
Fra Roma e Dubai. La città glocale 1
0 x2 ra
1 4 ssu
a 3 m bro
0. Introduzione
z z o m spetto agli oggetti presi in considerazione nel resto della ricerca
o
In questo saggio ci proponiamo di operare un salto di scala ri‐
t
o t n
B ma me (Auditorium, Ara Pacis, quartiere Esquilino). Vorremmo in altri
for esti termini ragionare non tanto sulle trasformazioni puntuali del tes‐
all
suto cittadino bensì sulle trasformazioni sistemiche della città. In
tal senso si può dire che considereremo Roma come una “globali‐
tà di senso” e metteremo in relazione questa globalità locale con la
globalità globale, vale a dire con i fattori generali che stanno tra‐
sformando le città e le metropoli del globo.
Per non dare tali fattori per scontati e per non rischiare di as‐
solutizzare le dinamiche trasformative che coinvolgono Roma
abbiamo deciso di mettere il nostro oggetto in relazione con un
altro – un altro spazio, un’altra città – che può aiutarci a far
emergere meglio le relazioni significative e il senso delle tra‐
sformazioni della città. Tale città altra è Dubai, una metropoli che
abbiamo scelto sia perché abbiamo avuto modo di lavorare pre‐
cedentemente su questo oggetto sia perché, come vedremo, si
configura apparentemente come molto diversa da Roma e dun‐
que offre un termine di confronto non banale e non scontato.
Procederemo dunque, nella terza parte del nostro lavoro, ad
1
Il saggio è stato pensato e discusso insieme. La stesura è stata ripartita fra i
due autori come segue. Franciscu Sedda ha scritto: Introduzione, Teoria (I.1.1.
e I.1.2.), i paragrafi III.1., III.2., III.3., Dubai (da II.1.1. a II.1.5.), e all’interno
delle Conclusioni il paragrafo 1. Pierluigi Cervelli ha scritto: Storia (da I.2.1.
a I.2.5.), il paragrafo III.4., Roma (da II.2.1. a II.2.5.) e all’interno delle Con‐
clusioni il paragrafo 2.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 379
b/n sata
un’analisi distinta ma parallela delle due città e poi, confrontan‐
done i risultati, cercheremo di cogliere le dinamiche generali che
2 00 fre
le coinvolgono valutandone similarità e differenze. Attraverso
l’accostamento di Roma e Dubai, in altri termini, definiremo e
0x ura
specificheremo un livello comune di analisi, un livello che si po‐
4
1 s s
trebbe riassumere fin d’ora nella frase “Quali trasformazioni a
a 3 m bro
livello globale impattano sulle città costringendole a cambiare?
z z o m to
Come tali trasformazioni globali trasformano le singole città?”.
Bo mat men
È evidente da questi pochi spunti iniziali che sia la relazione
fra trasformazioni puntuali del tessuto cittadino di Roma e le tra‐
all
ma e Dubai come singolarità da un lato e le trasformazioni glo‐
bali dall’altro lato, mettono in luce il problema della relazione fra
dimensione micro e dimensione macro dell’analisi.
Senza addentrarci in un complesso excursus metodologico in
materia possiamo dire che il problema si pone su due livelli a lo‐
ro modo incrociati: uno riguarda chiaramente la distanza e la fo‐
calizzazione dello sguardo dell’analista rispetto al suo oggetto,
l’altro è dato dalle differenti pertinenze che emergono da quella
che è in apparenza la stessa materia (l’Ara Pacis, l’Auditorium,
l’Esquilino non sono forse “Roma”? E Roma e Dubai non sono
forse esse stesse componenti attive di quel “mondo” da cui ven‐
gono trasformate?) una volta che la si interroghi diversamente,
cercando di cogliere uno specifico livello di relazioni significative
piuttosto che un altro (indagare le trasformazioni di un quartiere
di Roma rispetto ad un altro non è la stessa cosa che indagare le
trasformazioni di Roma rispetto a quelle di Dubai ecc.).
In buona sostanza il nostro “oggetto” emerge dall’incrocio e
all’incrocio fra due fattori: uno sguardo sensibile e una buona co‐
struzione del corpus d’analisi. Detto in altri termini, una giusta
distanza e un giusto orientamento dello sguardo analitico sono
necessari tanto quanto una buona identificazione del materiale
su cui operare analiticamente. Entrambi i fattori determinano
380 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
l’oggetto e il risultato dell’analisi.
Un’altra cosa che vale la pena dire, e ipotizzare, è che dal
00 fre
nostro punto di vista, come nel rapporto fra parti e totalità2, le
2
relazioni micro‐macro prendono la forma di un moto intellet‐
0x ura
tuale circolare e perpetuo: le trasformazioni micro sono frammenti
4
1 s
di trasformazioni macro e le macrodinamiche di trasformazione si dan‐
s
a 3 m bro
no a vedere solo attraverso la loro effettuazione e effettività a livello
z z o m to
micro.
Bo mat men
Ciò peraltro lascia invariata e tutta da sviscerare l’annosa
questione dell’isomorfismo verticale, ovvero come l’incassamento
for esti di relazioni di un dato livello dentro livelli superiori non ripro‐
all
duca piattamente il micro nel macro (e viceversa) ma crei piutto‐
sto effetti di disgiuntura e difformità3.
È proprio l’inestricabilità del rapporto parte/tutto, micro/macro,
locale/globale che ci ha portato a indagare i fenomeni metropoli‐
tani attraverso l’idea del glocal e a considerare i processi urbani
attuali come testimonianza di complessi processi di glocalizzazio‐
ne, vale a dire processi in cui bisogna ponderare e comprendere
la contemporanea articolazione di fattori globali e locali, di livelli
di comunanza e differenza, di fenomeni di omogeneizzazione e
eterogeneizzazione.
Per meglio preparare la nostra analisi abbiamo dunque rite‐
nuto opportuno affrontare un excursus teorico‐storico su quelle
che abbiamo provato a definire città glocali. Questo saggio dun‐
2
L’importanza di tale questione per una semiotica delle culture è stata sotto‐
lineata in Sedda (2008).
3
Giusto per fare un esempio molto estremo e sintetico, che svilupperemo
meglio internamente alla nostra analisi, che una città appaia “ordinata” o
“sicura” (o caotica e pericolosa) è certo effetto dell’insieme del suo apparire
architettonico e delle pratiche che rendono vivo e significativo lo spazio cit‐
tadino, e tuttavia difficilmente si potrebbe dire che ogni singolo edificio o
ogni singola azione di ogni singolo cittadino rispecchino i valori attribuiti
all’insieme. Anche per ciò è importante ricordare quanto le narrazioni e il
potere intervengano nel definire il senso dello spazio.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 381
b/n sata
que è anche un tentativo di analizzare l’emersione della città glo‐
cale come uno dei principali attori delle relazioni geopolitiche e
00 fre
culturali transnazionali.
2
Per rendere conto di tutto ciò si è scelto di seguire un percor‐
0x ura
so diviso in quattro tappe. La prima – Teoria e storia della città glo‐
4
1 s
cale – rintraccia le logiche semiotiche e le stratificazioni storiche
s
a 3 m bro
che fanno emergere, a livello sociale così come nella nostra con‐
z z o m to
sapevolezza, quell’oggetto che definiamo “città glocale”. Centrali
Bo mat men
in tal senso risultano le articolazioni e modulazioni del rapporto
globale/locale e parte/tutto, internamente alla città, fra le città, fra
all
La seconda tappa – Le città, le relazioni glocali, il potere – instau‐
ra un confronto con alcune delle più importanti teorizzazioni in
merito alla città e alla globalizzazione e cerca di mostrare come il
fenomeno della città glocale aiuti a focalizzare una logica più
complessa, sfumata, dinamica. Una logica fatta, ad esempio, di
località doppiamente globali e di nuove forme di perifericità. Una logi‐
ca che riguarda allo stesso tempo il divenire delle città e il farsi
della società contemporanea.
La terza tappa – Due studi di caso: Dubai e Roma – si sofferma
infine, come già abbiamo detto, sull’analisi delle due città. Come
vedremo da entrambe le analisi emerge il ruolo decisivo delle
molteplici soggettività che abitano la città e la costringono a tra‐
sformarsi. In particolare sembra che, seppur con forme e quantità
diverse, siano i flussi migratori ad essere il vero “attore globale”
di questa scena. Consapevolmente o meno, il migrante in fuga
dalla sua “località” diviene il fattore globale (il “fattore G”) delle
relazioni metropolitane (e non solo).
Ultimo ma non meno importante, come mostreremo nella
quarta tappa, ovvero nelle conclusioni, emerge chiaro come la cit‐
tà divenga il luogo in cui si gioca una cruciale partita politica,
quella partita che abbiamo definito la gestione politica della diver‐
sità. In particolar modo attraverso la costruzione delle “maggio‐
382 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
ranze” e delle “minoranze”, delle “centralità” e delle “periferi‐
cità”, le pratiche politiche svelano il loro tentativo di orientare le
00 fre
trasformazioni del corpo metropolitano, spesso purtroppo susci‐
2
tando forme di allarmismo ed emergenza sociale che divengono
4 0x ura
la scusante per una “gestione del diverso” che si risolve in nuove
1 s
forme di ghettizzazione e repressione.
s
a 3 m bro
z z o m to
Bo mat menI. Teoria e storia della città glocale
for esti
all 1. Teoria
1.1. Divenire città dentro una rete di città
La città si individua. E lo fa principalmente in due modi: si fa spa‐
zio definito che si distingue da uno spazio altro che la circonda, o
si dà come nome4, vale a dire come spazio dai confini non perfet‐
tamente delimitati ma che si auto‐identifica attraverso il possesso
di una memoria, in quanto presenza nelle trame della cultura e
della storia.
Questo meccanismo lo si vede molto bene, quasi estremizza‐
to, nel confronto fra Dubai e Roma, le due città che prenderemo
in seguito come studi di caso sul rapporto fra città, glocal, rela‐
zioni internazionali. L’esistenza di Dubai è fortemente debitrice
dell’opposizione che definisce la città come uno “spazio popola‐
to”, uno spazio umanizzato e antropizzato, che si staglia contro
uno spazio disabitato, fisicamente altro. Dubai, una città con po‐
chissima storia, con una scarsissima memoria, che tuttavia si in‐
dividua nettamente, prepotentemente. Una città “da zero”5, ov‐
4
La distinzione fra “città come spazio delimitato” e “città come nome” si tro‐
va abbozzata in Lotman (1985, p. 225).
5
Cities from Zero è il titolo di un recente volume che tratta specificamente di
Fra Roma e Dubai. La città glocale 383
b/n sata
vero cresciuta da poche decine di migliaia al milione e mezzo di
abitanti in pochissimo tempo, cresciuta sopra e contro una tabula
00 fre
rasa. Dubai contro il deserto, il pieno contro il vuoto, la cultura
2
opposta alla natura. Dall’altro lato c’è Roma, una città la cui in‐
0x ura
dividuazione è molto più legata alla sua identificazione cultura‐
4
1 s
le, alla sua esistenza storica, piuttosto che ad una semplice, evi‐
s
a 3 m bro
dente, immediata, circoscritta delimitazione spaziale.
Bo mat men
zione, si incrociano e rafforzano a vicenda, ma la logica della de‐
limitazione e quella della nominazione ci mostrano aspetti diversi
all
E tuttavia il punto è che questo spazio locale della città, una
volta messo in relazione con un’alterità fisica o culturale, una
volta messo in relazione ad altro, definisce in sé una globalità. Si
individua come uno spazio popolato, come una specifica memo‐
ria che quel dato nome tiene insieme lungo il tempo, lungo la se‐
rie delle sue trasformazioni. La città, colta a questo livello, non è
più semplicemente un insieme eterogeneo di elementi, ma ritro‐
va una sua unità interna. Una unità (quantomeno) per differenza,
come distinzione dallo spazio altro, dalle storie altre.
È qui che emerge tutta la glocalità del meccanismo spaziale e
cittadino in particolare. La città per esistere come globalità deve
mettersi in relazione con un’alterità (un altro spazio, un’altra cit‐
tà). Nel momento in cui questa relazione si stabilisce la città gua‐
dagna la sua interna globalità e al contempo si localizza. Essa
infatti, proprio in quel momento, si rivela nuovamente come loca‐
lità: nient’altro che una località in relazione con un’altra località,
presa dentro un meccanismo globale che ingloba, eccede e costi‐
tuisce entrambe.
Doppio movimento di incrocio, il locale che nasce dal globale
quelle città‐fenomeno che sono passate in pochi anni dalla quasi totale inesi‐
stenza al protagonismo planetario.
384 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
e viceversa. Non a caso si potrebbe anche dire, senza temere il
paradosso, che la città per esistere in quanto località deve passare
00 fre
attraverso un doppio processo di globalizzazione. Essa infatti deve
2
riconoscerci come qualcosa di più che una semplice somma delle
0x ura
parti e degli elementi che la compongono e deve situarsi rispetto
4
1 s
a qualcosa d’altro che se stessa. Vale a dire, deve situarsi dentro
s
a 3 m bro
uno spazio più globale, uno spazio che è di più della presenza di
z z o m to
due termini e che è invece il meccanismo della loro messa in re‐
Bo mat men
lazione6. La città scopre di essere un nodo dentro una rete di città,
unica e diversa dentro una serie comune. Singolare e plurale al
for esti contempo. La città diviene città attraverso questo doppio movi‐
all
mento locale e globale al contempo.
Se ciò che a volte chiamiamo “la località della città” sembra
essere la stessa cosa di ciò che definiamo come “la globalità della
città” è proprio perché stiamo sempre parlando di una fonda‐
mentale glocalità. Stiamo parlando di città glocali che formano i
nodi di una rete.
1.2. Lo spazio e la soggettivazione
C’è un secondo meccanismo che fa della città un dispositivo in‐
timamente glocale. Si tratta di un movimento di incrocio fra due
dinamiche: una riguarda la spazialità e l’altra il vissuto fenome‐
nologico dei soggetti.
Abbiamo parlato dell’opposizione fra la città – lo spazio archi‐
tettonico, reso abitabile dall’uomo e per l’uomo – e il suo esterno,
il suo altro. Ebbene, questa opposizione può essere considerata
come una delle radici della soggettività, o ancor meglio, della po‐
tenzialità di soggettivazione dell’essere umano.
Secondo Jurij Lotman infatti, non solo la coscienza umana è in‐
timamente spaziale, ma è allo spazio, e allo spazio cittadino in par‐
6
Abbiamo sviluppato questo ragionamento in forma più generale in Sedda
(2004).
Fra Roma e Dubai. La città glocale 385
b /n ata
ticolare, che si lega un fondamentale meccanismo di significazione:
0 fres
La duplicazione del mondo nella parola e quella dell’uomo nello
0
2 a
spazio formano il dualismo semiotico di partenza (Lotman 1992a,
x
4 0 r
p. 85, tr. nos.).
u
s
1altri termini,
s dal punto di vista della semiotica della cultura,
3 m
In
a m duplicazione, r o
z o b o meglio, di moltiplicazione reiterata dell’oggetto che
ogni sistema di significazione deve possedere un meccanismo di
z o t
Bo mat mencostituisce il suo significato (Lotman 1992a, p. 84). E mentre la
o r
f es t i parola si incaricherebbe di moltiplicare “il mondo” formandolo
dentro le sue trame, le relazioni spaziali moltiplicherebbero
al l “l’uomo”. Sarebbe cioè la divisione dello spazio in sfere che esi‐
gono condotte differenti – come accade chiaramente, ad esempio,
nel rituale – che fa prendere coscienza al soggetto del proprio
corpo e della possibilità di agire in modi diversi. Si tratta di una
minimale e primigenia apertura dello spazio della cultura e della
libertà, definite proprio in quanto possibilità di scelta fra alterna‐
tive (Lotman 1992b 1993). È evidente dunque come l’esperienza
cittadina, l’esperienza metropolitana, si offra come un potenziale
modo di soggettivazione differente – e in sé comune – rispetto al
modo di vita rurale, al modo di vita extra‐cittadino. Tuttavia, e al
contempo, ogni singola esperienza metropolitana porta in nuce
una sua specifica declinazione e piegatura di questa soggettività
metropolitana, insinuando così una costante differenza dentro
l’apparente comunanza. La città infatti non è semplicemente la
parte dell’universo dotata di cultura rispetto ad un esterno “in‐
colto” – o considerato tale da chi si sente “cittadino” – rispetto al
quale si aprirebbe lo spazio della cultura e dell’elaborazione del‐
la soggettività: in quanto essa “copia tutto l’universo” (Lotman
1992a, p. 84) la città riproduce sia il proprio che l’altrui, l’interno
e l’esterno, l’ordine e il disordine, il familiare e l’estraneo, il civile
e il barbaro e così via. Per dirla diversamente: “il mondo creato
dall’uomo riproduce la sua idea della struttura globale del mon‐
386 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
do” (Lotman 1987, p. 38). Il meccanismo che da qui si diparte è
quello di una moltiplicazione di spazi – di spazi di senso – che pro‐
00 fre
liferano gli uni dentro gli altri, finendo fatalmente per sovrap‐
2
porsi. Dalla città nel suo insieme fino al singolo oggetto architet‐
0x ura
tonico e più giù ancora, si assiste a una sorta di frattalizzazione
4
1 s
della strutturazione spaziale. La città diviene così, contempora‐
s
a 3 m bro
neamente, un insieme organico e il luogo di manifestazione di una
z z o m to
ineliminabile eterogeneità strutturale. Un dispositivo in cui glo‐
Bo mat men
balità e località si incrociano e riproducono ad ogni livello. Per
questo, come vedremo, lo spazio cittadino è uno spazio di prolife‐
for esti razione di soggettività contrastanti e al contempo una continua im‐
all
perfetta sintesi del mondo. Il punto è indagare la forma di queste
relazioni plurali, capire come ogni volta si crea una concordanza
discordante fra esperienze locali e globali, come i vari flussi glo‐
bali – che spesso sono semplicemente i flussi che provengono da
altre località, o da altre logiche – si incrociano nella città compo‐
nendo figure uniche. Come se si trattasse di tappeti differenti fat‐
ti sempre con gli stessi fili (o quasi).
La città dunque è un fenomeno globale ma si realizza, nello
spazio e nel tempo, sempre localmente: “[…] la storia della città è
la storia di diverse forme di organizzazione dello spazio. Non
esiste LA città, ma LE città soltanto” (Cacciari 2004, p. 51). Al
contempo però, mentre le sue realizzazioni sono locali e plurali,
il suo meccanismo di funzionamento è unitario. La città riprodu‐
ce sempre un’idea di globalità, è sempre una traduzione del co‐
smo, una forma locale che al suo interno riproduce l’eterogenei‐
tà, la complessità, le contraddizioni dell’insieme.
Ma questa glocalità non basta. Essa viene raddoppiata dalla
presenza dei corpi, dalla loro pratica dello spazio. L’esperienza
frammentaria che il soggetto ha dello spazio, il suo farsi soggetto
attraverso e grazie l’eterogeneità delle strutturazioni spaziali, la
sua presa costantemente incompleta della città lo portano a do‐
ver istituire immaginariamente, attraverso i prodotti della cultu‐
Fra Roma e Dubai. La città glocale 387
b/n sata
ra, la città come globalità, come “referente immaginario globale”
(Greimas 1976). Estensione che si fa spazio, spazio culturale –
00 fre
reale e immaginario – vissuto dall’uomo e per l’uomo.
2
x ra
0
1 4
2. Storia
s su
a m b ro
3 m2.1. Nuove geografie, nuove frontiere, nuove città
o zz to nVedere New York dal basso, esattamente sotto i binari della me‐
t o
B ma me tropolitana che attraversa il Queens, non lascia meno affascinati
for esti dello sguardo posato dall’87° piano dell’Empire State Building.
a l l La metropoli sembra frantumata in una molteplicità di “comuni‐
tà cellulari”, che costituiscono delle microcittà che si susseguono,
e attraverso cui si slitta, passando semplicemente da una fermata
all’altra della metropolitana. La microcittà messicana appare lungo
la strada principale, dove si mescolano chioschi e santerie, cibi
pronti e verdure crude, spray santificanti, unguenti di guarigio‐
ne. Affollatissima nonostante il rumore assordante dovuto all’al‐
ta frequenza dei treni, brulicante di bambini e famiglie. Come
tutti i passanti anche l’insegna dell’unico ristorante cinese che
incontro parla in spagnolo. Nei giardini delle case unifamiliari
disposte nelle strade laterali madonne in legno e cognomi greci
ricordano che questo spazio ha uno spessore sociale visibile, che
la comunità che fa oggi la microcittà si è stratificata sui luoghi di
una precedente migrazione.
Basta spostarsi di qualche fermata per arrivare “in un’altra
città”, stavolta affollata esclusivamente da abitanti cinesi, a parti‐
re dagli uomini dal sorriso rassicurante rappresentati sui cartel‐
loni pubblicitari fino ai pochi mendicanti. In questi casi, come
con i volantini distribuiti per la strada, chi non conosce la lingua
cinese per cogliere un minimo di significato può ricorrere solo
alle immagini. Più che quello architettonico e spaziale è il confine
linguistico (e culturale) ad essere ancora una volta immediata‐
388 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
mente visibile, e a segnalare che al bilinguismo tipico di molte
zone di New York si è sostituita, come nuova monolingua, il ci‐
00 fre
nese: non solo nelle insegne dei negozi, nei menu dei ristoranti,
2
ma persino nell’intestazione della chiesa e nei cartelli stradali.
4 0x ura
Una nuova Chinatown? Piuttosto qualcosa di ancora diverso,
1 s
che pare irriducibile alla precedente microcittà messicana, al
s
a 3 m bro
Queens nel suo complesso, a New York nella sua totalità e alla
z z o m to
stessa Chinatown interna a Manhattan, che ha inglobato Little
Bo mat men
Italy, i cui festoni tricolori e la presenza massiccia di ristoranti
italiani sembrano segnalare la sparizione delle persone, piuttosto
all
presenza perduta. Il panorama globalizzato che si disegna non
pare all’insegna della mescolanza ma piuttosto della coabitazio‐
ne: microinsiemi contigui disegnano una globalità che è costitui‐
ta essenzialmente dalla possibilità di accelerare la sperimenta‐
zione di una alterità, che non si ibrida. Essi definiscono spazi
linguistici indipendenti, reciprocamente intraducibili, costituen‐
do la città come macchina globale della compresenza di una serie
di apparenti “pure località”. Occorre chiedersi: si tratta di una
convivenza? E soprattutto: quali geografie possono rendere visi‐
bili queste nuove frontiere in cui il Messico, dentro gli Stati Uniti,
confina con la Cina? Quali immagini possono spiegare la strana
relazione fra l’insieme e le sue parti per cui una proliferazione di
flussi individuali, singolari, appare alla fine come un assemblag‐
gio che, sebbene discontinuo, possiede una sua unitarietà?
2.2. Metafore della città
Sulle molte metafore della città prodotte nella cultura europea
dal rinascimento in poi, studi letterari, urbanistici e geografici si
sono soffermati una infinità di volte.
Mi propongo di considerarne un numero ridottissimo (quelle
contenute in Ingersoll 2004 e Pavia 2002). Si tratta di rappresen‐
tazioni metaforiche che sembrano fuoriuscire in maniera eviden‐
Fra Roma e Dubai. La città glocale 389
b/n sata
te dalla dimensione dell’abbellimento, tesa a decorare un discor‐
so precostituito, tecnico‐scientifico, autonomo da esse. Piuttosto
00 fre
mi sembrano macchine per pensare e interpretare il rapporto fra
2
unico e molteplice, fra elementi atomici e forma complessiva, che
0x ura
pare essere, soprattutto oggi, una delle relazioni costitutive delle
4
1 s
città globali.
s
a 3 m bro La mole delle riflessioni già prodotte rende impossibile, se
z z o m to
non superfluo, l’obiettivo di una trattazione esaustiva: il proposi‐
Bo mat men
to è al massimo di produrre qualche nota a margine che ci ricon‐
duca agli attuali processi di radicale modificazione degli assetti
for esti urbani, per cui il discorso sulla città sembra non parlare più la
all
lingua del progresso ma quella della catastrofe.
2.3. La città casa
Iniziamo dalla metafora, celeberrima, dovuta a Leon Battista Al‐
berti, che paragonò la città ad una grande casa: “la città è come
una grande casa e la casa è come una piccola città7“. Microcosmo
e macrocosmo sono in essa non solo compatibili, ma perfetta‐
mente sovrapponibili: l’insieme, ossia la città, e le sue componen‐
ti minime, le case, riproducono la stessa forma. È l’immagine ras‐
sicurante di un certo numero di insiemi commensurabili connessi
serialmente: su scala più ampia le vie funzionano come grandi
corridoi. Questa organizzazione assicura non solo la finitezza
dell’insieme rispetto all’elemento atomico, ma anche la possibili‐
tà di uno sguardo che lo percorra completamente e lo conosca
sino a possederlo in tutte le sue parti. La metafora costruisce co‐
lui che guarda la città come un soggetto epistemico competente,
addirittura onnisciente. Forse ancor più eloquente, da questo
punto di vista, è l’immagine della città‐corpo, “La città antropo‐
morfica”, messa su carta da Francesco Di Giorgio Martini nel
1480. La città è iscritta dentro il corpo di un giovane uomo e rap‐
7
Cit. in Pavia (2002, p. 17).
390 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
presentata attraverso di esso: al suo centro, in corrispondenza del
ventre, la piazza principale in cui si distingue una chiesa (che si
00 fre
trova al posto del cuore) e sopra la testa la fortezza di alloggio
2
del signore della città. Al di là della simbologia legata esplicita‐
0x ura
mente alle immagini del potere notiamo come delle mura circon‐
4
1 s
dino il corpo, definendo una cornice al di fuori della quale non
s
a 3 m bro
c’è nulla: l’interno regolato, in cui le parti sono in armonia geo‐
z z o m to
metrica le une con le altre, si correla ad un esterno inesistente.
Bo mat men
L’immagine è strutturata come una mappa che si costruisce arti‐
colando contemporaneamente entrambi i punti di vista attraverso
for esti cui si può ancora osservare la città: lo sguardo in pianta iden‐
all
tifica i confini, il profilo dei monumenti evidenzia gli elementi
principali. Lo sguardo che percorre le immagini può abbracciarle
compiutamente, e tutto quello che incontra si risolve in rapporti
di proporzione e correlazione: le parti del corpo umano stanno
fra loro in relazioni di dipendenza funzionale così come le parti
della città stanno fra loro in relazioni di gerarchia politica e socia‐
le. Contenente e contenuto, il corpo costruito della città ed il cor‐
po umano dell’abitante, sono ancora perfettamente isomorfi. Le
relazioni urbanistiche che strutturano l’insieme costruito sono
omologate così alle relazioni che costruiscono la struttura sociale,
e le relazioni fra parti del corpo fungono da commutatore, attra‐
verso la proporzione geometrica, fra forma dell’espressione ur‐
banistica e forma del contenuto politico‐sociale. L’aspetto interes‐
sante sta nella corrispondenza fra le due forme sociali descritte
dalle metafore: quelle di società chiuse in se stesse, ordinate e
perfettamente coerenti.
2.4. La città isolato
Nel 1600, quando le dimensioni di Parigi e Londra superano i
600.000 abitanti, avviene una rottura fondamentale nella storia
urbanistica europea. Fino al 1500, solo due città europee, Parigi e
Napoli, superavano i 200.000 abitanti e solo altre due, Venezia e
Fra Roma e Dubai. La città glocale 391
b/n sata
Milano, i 100.000 (Pavia 2002). Molti trattati sulla forma di go‐
verno, come ha mostrato Michel Foucault, si riempiono di norme
00 fre
urbanistiche (Foucault 2001, pp. 171‐174) poiché emerge la con‐
2
sapevolezza politica delle “malattie urbane” che la città rinasci‐
0x ura
mentale ancora non conosceva: rivolte, epidemie, inquinamento,
4
1 s
criminalità. Daniel Defoe, mescolando fascino e paura descriveva
s
a 3 m bro
Londra in questo modo: “il suo aspetto è ingigantito in maniera
z z o m to
disordinata e confusa, al di fuori di ogni forma fissa, anzi in for‐
Bo mat men
ma sconnessa e diseguale”. Alcuni studi urbanistici segnalano
che anche le metafore manifestano questo cambiamento: l’abate
for esti Laugier “teorizzerà l’esigenza di trattare la città come una fore‐
all
sta” (Pavia 2002, p. 18). La metafora della foresta mi pare segnali
un cambiamento di modello, una modificazione strutturale: l’in‐
terazione globale fra gli elementi che compongono le grandi città
produce risultati ormai irriducibili all’organizzazione degli ele‐
menti atomici. Secondo Pavia, l’abate Laugier sosteneva l’esigenza
di creare dei sentieri riconoscibili dentro la città, di evitare quella
perdita di visibilità e riconoscibilità che si accompagnava all’au‐
mento dimensionale e di popolazione.
Sta di fatto che nel secolo successivo le vie delle città, per la
prima volta in Europa, cominceranno ad essere nominate siste‐
maticamente (Hamon 1989) e sarà possibile coglierle simulta‐
neamente attraverso una rappresentazione fedele, che rispetti le
connessioni e le dimensioni reciproche. L’idea di una mappatura
precisa dei sentieri, ossia delle relazioni di distanza e prossimità
fra i singoli elementi, e dei percorsi, potrà essere effettuata solo
modificando radicalmente il punto di vista dell’osservatore. La
loro rappresentazione richiederà un salto di scala tale da com‐
portare una rottura radicale dello sguardo: la rivoluzione della
rappresentazione cartografica che si imporrà nel secolo successi‐
vo (con straordinaria precisione nel caso della carta di Roma rea‐
lizzata da G. Battista Nolli nel 1748). Si tratta del perfeziona‐
mento delle vedute a volo d’uccello che durante l’epoca romana
392 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
e poi nel Rinascimento si erano affermate inventando una visione
della città che non era mai esistita e, fino ad allora, senza equiva‐
00 fre
lenti nella percezione naturale (de Certeau 1990).
2
Sempre seguendo la ricostruzione di Pavia notiamo che in se‐
0x ura
guito anche le modalità di intervento urbanistico opereranno un
4
1 s
notevole salto di scala: con la pianificazione di Barcellona dovuta
s
a 3 m bro
a Cerdà le vie diventeranno “trascendentali” e l’unità di riferi‐
z z o m to
mento supererà definitivamente quelle della casa o del singolo
Bo mat men
edificio per passare all’isolato; a Parigi invece la ristrutturazione
hausmanniana opererà per grandi viali, i boulevards, secondo
all
te edilizie scandite dalla ripetitività uniforme dei palazzi” (Pavia
2002). Pare dunque che il problema in questa fase sia stato quello
di disboscare la foresta, di tracciare dei percorsi e costruire degli
orizzonti per lo sguardo, attraverso la definizione di una nuova
unità minima di riferimento, l’isolato o la sequenza di edifici, at‐
torno e all’interno della quale tracciare confini e sentieri alberati.
Quello che mi pare sia possibile sottolineare a partire da questi
accenni8 è come ricompaia in maniera sistematica una relazione
8
Ci sarebbe ovviamente moltissimo ancora da dire, ad esempio sulle inno‐
vazioni, talvolta radicali, come quelle presenti nelle metafore utilizzate da le
Corbusier, che parlò di “architetto‐medico” (che opera col bisturi) e di città‐
macchina, o sulle persistenze delle “immagini” linguistiche messe in gioco:
ormai all’inizio del novecento, ritroviamo l’isotopia naturale, attraverso la
metafora della foresta, quando nella riflessione urbanistica diventerà centra‐
le l’attenzione all’igiene: le demolizioni mirate, ipotizzate per permettere il
passaggio dell’aria e della luce nei quartieri medievali di Roma, verranno
chiamate da G. Giovannoni (1932) “diradamenti”. Anche la metafora corpo‐
rea è rimasta nel linguaggio comune, ad esempio nell’uso del termine “arte‐
ria” in riferimento alle strade più ampie e importanti. La presenza di confi‐
gurazioni spaziali, astratte, all’interno del livello semantico del linguaggio
pare uno degli aspetti più interessanti da approfondire analizzando i proces‐
si traduttivi fra organizzazioni spaziali, in questo caso urbane, e discorsi so‐
ciali e politici.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 393
b/n sata
fra forma globale della città (l’insieme delle relazioni fra elementi
locali e connessioni globali), forma di governo politico del terri‐
00 fre
torio e metodi di rappresentazione. Questo ha conseguenze pro‐
2fonde sul presente e sulle attuali forme di vita urbana e di inter‐
4 0x uravento politico nelle metropoli. Il salto di scala sembra attualmen‐
1 s
te aver assunto dimensioni planetarie: la visione oggettivante è
s
a 3 m bro divenuta satellitare, e, oltre che di collegamenti, essa necessita di
Bo mat men
formazioni. Quale configurazione urbana ha reso necessaria una
tale ristrutturazione degli apparati di osservazione?
for esti
all
2.5. La città territorio
Credo che ancora una volta le metafore possano rivelarci qual‐
cuno dei segreti delle città: considererò ora quelle che trovo in
due testi recenti, Sprawltown, di Richard Ingersoll9 (2004) e Planet
of Slums, di Mike Davis (2006). Ingersoll si sofferma esplicitamen‐
te sull’esigenza di nuove metafore della città, introducendo il
concetto di sprawltown. Egli sottolinea come nell’analisi dell’orga‐
nizzazione spaziale della città contemporanea si noti una sorta di
effetto‐dispersione, per cui il territorio fra le città pare divenuto
luogo di una nuova e peculiare forma di diffusione dell’urbano.
La particolarità dello sprawl starebbe, per Ingersoll, nella natura
dell’urbanizzazione, che si attua per elementi puntuali e non più
per masse dense: lo spazio fra i singoli elementi aumenta all’au‐
mentare dell’estensione dei singoli insiemi urbani, che finiscono
col congiungersi attraverso la frammentazione dell’edificato, che
non si concentra più lasciando degli spazi verdi al suo esterno
9
Ingersoll traccia un panorama sulle conurbazioni che si sono sviluppate
negli Stati Uniti a partire dagli anni sessanta ed ormai sono diffuse anche in
Europa (nella pianura italiana ed in Olanda, ad esempio). Si tratta di vasti
agglomerati di territorio che si presentano come spazi infrastrutturati, estesi
centinaia di chilometri ma urbanizzati solo puntualmente.
394 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
ma “colonizza” puntualmente anche le aree di campagna. Siamo
di fronte ad un imponente salto di scala, tale per cui l’insieme di
00 fre
riferimento è ormai quello di un territorio.
2
Mike Davis opera un passaggio se possibile ancora più radi‐
0x ura
cale interessandosi alla creazione su scala planetaria di “conur‐
4
1 s
bazioni” (estese anche nel raggio di 5‐600 chilometri), presenti
s
a 3 m bro
soprattutto nei paesi di recente sviluppo e del “terzo mondo”,
z z o m to
caratterizzate da un aumento esponenziale di popolazione urba‐
Bo mat men
na in pochi decenni e da una espansione orizzontale, in preva‐
lenza incontrollata e in condizioni di grande povertà. L’aspetto
all
dirittura transnazionali, come quella continua che si sviluppa fra
Shangai ed Osaka: dalla città‐regione urbanizzata si passa alla
ipotesi di un territorio superstatale dal punto di vista economico
e transnazionale da quello politico. A proposito di questi nuovi
insiemi superurbani, ormai attori delle relazioni internazionali,
Davis parla di “crescita in stile supernova” e di “deflagrazione
delle città” (Davis 2006, p. 14). Va inoltre ricordata un’altra os‐
servazione di questo autore (Davis 2006, p. 47) che conferma la
metafora “cosmica” utilizzata, e che mi pare particolarmente im‐
portante perché lascia emergere gli abitanti della città, i cui corpi
sembrano partecipare di una stessa dinamica: “milioni di lavora‐
tori temporanei e di contadini disperati gravitano intorno ai mar‐
gini di quelle capitali mondiali del supersfruttamento che sono
Surat e Shenzen. Questi nomadi del lavoro sono privi di radica‐
mento sia in città sia in campagna e spesso passano l’intera vita
in una sorta di moto browniano fra le due realtà (corsivo mio)”.
Il filo rosso semantico, l’isotopia, che percorre entrambe que‐
ste metafore è quello dell’esplosione estesa su scala planetaria.
Tanto nel concetto di dispersione quanto nell’immagine della su‐
pernova vi è l’idea di una proliferazione incontrollata che si svi‐
luppa in molteplici direzioni e con intensità diverse, producendo
frammenti che si “depositano” a distanze diverse. Sembrano com‐
Fra Roma e Dubai. La città glocale 395
b/n sata
prensenti e proporzionali forze che si muovono in direzioni op‐
poste: centripete e attrattive dal punto di vista degli spostamenti
00 fre
della popolazione, disgregative dal punto di vista delle forma‐
2
zioni urbane. La loro interazione produce espansione urbana su
0x ura
grande scala in termini di consumo del territorio e su piccolissi‐
4
1 s
ma scala per quello che riguarda le dimensioni degli edifici, fino
s
a 3 m bro
a divenire, in molti casi, una proliferazione di baracche. La rela‐
z z o m to
zione fra insieme ed elementi puntuali non è più nell’ordine di
Bo mat men
una corrispondenza: né elementare, atomica, come quella postu‐
lata nella città rinascimentale, né frattale, fra insiemi complessi
all
rati di edifici, isolati, nello sviluppo della Parigi o della Barcello‐
na ottocentesca.
Quello che mi pare fondamentale è che, a partire dalle rifles‐
sioni dei due autori, non sembra sia più possibile isolare singoli
elementi urbani di dimensioni tali da permettere di concettualiz‐
zare l’insieme a cui appartengono e da essere sufficientemente
manipolabili per agire su di esso. La domanda che si pone ci ri‐
conduce all’inizio del nostro discorso: come operare nel momen‐
to in cui le città hanno addirittura infranto i confini fra gli stati?
II. Le città, le relazioni glocali, il potere
1. Quantità e qualità
La città si sta globalizzando in senso quantitativo e qualitativo.
Nel primo senso, come riportato da Davis (2006, p. 11), la po‐
polazione urbana del mondo (3,2 mld di persone) ha ormai supe‐
rato quella rurale e “le città rappresenteranno praticamente tutta
la futura crescita demografica, il cui picco dovrebbe essere tocca‐
to nel 2050 con circa dieci miliardi di persone”. L’esperienza ur‐
396 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
bana sta cioè diventando quantitativamente dominante e il ritmo
di crescita delle popolazioni che vivono in città sembra tratteg‐
00 fre
giare futuri scenari metropolitani per la quasi globalità della po‐
2
polazione mondiale.
4 0x ura
Nel secondo senso l’esperienza urbana‐metropolitana diviene
1 s
qualitativamente globale. In senso sociologico questa globalizza‐
s
a 3 m bro
zione delle città si evidenzia nella loro “interconnettività funzio‐
z z o m to
nale” (Sassen 2000), nelle interdipendenze reciproche sempre più
Bo mat men
strette, tale per cui la vita sociale di una città – in particolare la
vita produttiva ed economica – dipende direttamente da ciò che
all
Non solo, l’interconnessione fra le città rende il vissuto metro‐
politano politicamente e culturalmente dominante. Politicamente
in quanto è nella metropoli e dalla metropoli che si sviluppano
le politiche e i poteri – così come le contro‐politiche e i contro‐
poteri – che più sembrano capaci di incidere sui vissuti della to‐
talità della popolazione mondiale. Culturalmente in quanto l’im‐
maginario contemporaneo, in particolare quello televisivo, fin dal
suo nascere, appare come una costante traduzione dell’esperien‐
za metropolitana all’interno degli spazi immateriali dei media. I
grandi media di massa affondano le radici della loro nascita e il
senso della loro esistenza nella vita quotidiana delle grandi me‐
tropoli e in un certo senso sembrano esserne al tempo stesso lo
specchio e la prosecuzione (cfr. Abruzzese 1995).
2. Livelli di realtà: globalità e differenza
Le città, nella loro interdipendenza, sembrano dunque costituire
uno specifico livello di realtà, come se questa rete di città fosse una
sorta di macro‐città che avviluppa il globo. Molto spesso del resto
la retorica giornalistica, e a volte anche la vulgata sulla globaliz‐
zazione, ha alimentato l’idea che città come New York e Londra
siano più “vicine” fra loro che non con i loro rispettivi sobborghi,
Fra Roma e Dubai. La città glocale 397
b/n sata
come se ci fosse fra di loro non solo una prossimità fisica dovuta
alle connessioni aeree ma anche una comunanza di stili di vita,
00 fre
sensibilità, interessi che le lega più profondamente fra di esse che
2
con il loro territorio circostante. Idea certo affascinante ma che
0x ura
sottovaluta due questioni. La prima è la differenza e la pluralità
4
1 s
interna alle singole città, quella differenza che le rende ogni volta
s
a 3 m bro
uniche. La seconda è la difficoltà con cui tale metafora può essere
z z o m to
generalizzata: essa infatti non regge nel momento in cui si pro‐
Bo mat men
vano a mettere in connessione città con storie, lingue, modelli di
vita ben più distanti e distinti da quelli rappresentati da New
for esti York e Londra. Fino a che punto si può parlare dei rapporti fra
all
Mumbai e São Paulo, fra Shangai e Città del Messico, così come
si parla di una vicinanza fra Londra e New York?
Per questo ci pare interessante parlare di un livello di esperienza
globalizzante che taglia trasversalmente le città del pianeta, crean‐
do una sorta di atmosfera comune, di sentimento di familiarità, di
similarità di gusti e di esperienze possibili, senza che tale livello
esaurisca la complessità della vita culturale reale. La possibilità di
muoversi fra metropoli diverse e ritrovarvi gli edifici delle stesse
archi‐star, le sedi delle stesse multinazionali, le stesse firme della
moda, gli stessi Dj’s ad animare le varie notti del globo e così via
esemplificando, non esaurisce certo l’offerta del vissuto metropo‐
litano, l’intima complessità che ogni metropoli si porta dentro.
La differenza riemerge costantemente. Dall’interno delle diver‐
se città, composti ogni volta singolari di vissuti e storie differenti
– su cui torneremo – così come col loro esterno. La stessa espe‐
rienza “rurale”, lo stesso “intorno” della città non è certo omo‐
geneo. Il rapporto fra Roma e le città, i paesi, la campagna circo‐
stanti non è certo omologabile con quello che intercorre fra Dubai,
la cultura beduina e il deserto che circonda la città degli Emirati.
Come è stato scritto, appena ci si allontana dagli aeroporti,
dagli hotel di lusso o dai mall, ovvero dai grandi hub del capita‐
lismo transnazionale, e ci si addentra nella città, la differenza
398 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
riprende il sopravvento (cfr. Tomlinson 1999). A dire il vero, per‐
sino i luoghi dell’apparente logica omologante sempre più spes‐
00 fre
so mettono in scena la diversità, o meglio una qualche diversità,
2
purché sia capace di colpire il visitatore. Alberghi come il Burj al
0x ura
Arab, resort come il Royal Mirage o mall come il Mall of the Emira‐
4
1 s
tes, con la sua fantasmagorica pista da sci, rendono l’esperienza
s
a 3 m bro
di Dubai straniante fin dentro i luoghi del consumo globale.
Bo mat men
ogni città fatalmente si porta appresso il senso della diversità si
rende evidente e percepibile in modo quasi immediato. Questo
for esti senso “naturalizzato” diviene un potente serbatoio di stereotipi
all
della diversità metropolitana – la pioggia di Londra, l’umidità di
Dubai – fino al punto da far sparire la mutabilità dell’esperienza
interna a ogni singolo luogo (il sole ogni tanto spunta anche a
Londra e anche a Dubai a volte fa freddo).
La stessa idea di una rete globale di città, del resto, non conduce
ad una idea omologante, quanto piuttosto ad una visione sistemica
complessa. Ogni rete infatti è tale perché i suoi punti sono in una
forma di rapporto e dipendenza reciproca e dunque la loro mes‐
sa in relazione fa della rete qualcosa di più dei singoli punti che la
compongono. E tuttavia ogni punto che compone la rete, e senza
i quali essa non esisterebbe, è inevitabilmente locale e localizzato.
Da questo punto di vista – e senza perdere quella possibilità
di parziale appartenenza ad un piano di realtà globale a cui ab‐
biamo accennato – ogni città appare come il luogo di concretizza‐
zione e composizione singolare di quei flussi translocali di uomi‐
ni, capitali, idee, immagini, tecnologie che percorrono il globo
(cfr. Appadurai 1996b).
Fra Roma e Dubai. La città glocale 399
b/n sata
3. Una località doppiamente globale: un mondo a por‐
tata di mano
2 00 è connessa
Ogni città dunque f re alla globalità – ovvero, a ciò che
0x ura
eccede quel singolo luogo – proprio in quanto è spazio popolato,
4
1 s
abitato, attraversato da soggettività (o oggettività) la cui esisten‐
s
a m ro
3 mtà (o boggettività)
za, il cui senso e valore, è debitore di più di un luogo. Soggettivi‐
z z o t o
la cui peculiarità esistenziale è esattamente
Bo mat menpropri interessi economici, le proprie fedeltà comunitarie, le pro‐
questo essere fra più luoghi. Soggettività che hanno come compito
primario quello di gestire e articolare i propri confini identitari, i
b/n sata
abitabile, immaginabile come fosse un insieme a portata di mano
e di esperienza, come se fosse pur sempre il luogo in cui si nasce
00 fre
e cresce, in cui ci si riconosce, è in questa compresenza che si spri‐
2
giona la forza delle grandi città glocali.
4 0x ura
L’esperienza metropolitana glocale è dunque l’esperienza di una
1 s
località doppiamente globale. Globale in quanto immagine ed espe‐
s
a 3 m bro
rienza del mondo, per quanto questa globalità sia una imperfetta
z z o m to
e parziale traduzione dell’insieme; globale in quanto vissuta e
Bo mat men
percepita in sé come referente globale della propria esistenza
corporea, situata, intessuta di passioni e di memoria.
all
un doppio gioco – un gioco di individuazione ma anche di ascri‐
zione a sé di un ruolo e una identità planetaria – sembra oggi far‐
si sempre più consapevole. Molte città infatti non si limitano ad
essere in pratica una sintesi del mondo come succede in luoghi
come Dubai dove si stima la presenza di persone da tutti gli Stati
del mondo. Esse assumono questo ruolo anche a livello di auto‐
rappresentazione. Vale a dire si descrivono e si comunicano co‐
me città‐mondo. Questa riflessività performativa, agita attraverso
molteplici formazioni culturali e molteplici forme di comunica‐
zione, è evidente a Dubai laddove i servizi – da quelli legati al
lusso a quelli di tipo medico – vengono ascritti a un “world‐class
level” e in più punti la città si racconta come luogo in cui il mon‐
do si ritrova in piccolo. Queste traduzioni della globalità nella
località non sono ovviamente omogenee o innocenti: anzi, tradi‐
scono, o lasciano intravedere, l’idea di globalità che quel luogo
propone o auspica. Nella pratica di autorappresentazione così
come nelle altre pratiche di vita la città glocale si dà come inglo‐
bamento e deformazione coerente della totalità a partire da una
specifica storia e una specifica geografia.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 401
/n ata
4. Dalla periferia alla perifericità
b
0 fres
A partire da queste riflessioni, possiamo innanzitutto notare che
0
2 avere
le stesse città sembrano moltiplicarsi e frammentarsi: uno stesso
xpare a investito le zone urbane valorizzate positi‐
0
processo
r
u Le prime si trovano sempre più spesso
4 e sle speriferie.
vamente
1
a m b ro
3 mtrofi, in un generale processo di sradicamento del centro valoriale
fuori dalla città consolidata, talvolta nel territorio di comuni limi‐
o zz to nda quello fisico (cfr. Ingersoll 2004, Petti 2007, Davis 2006). Esse
t o
B ma me centri
si presentano come unità autonome, inaccessibili agli estranei:
for esti
residenziali privati di edilizia di pregio, dotati di servizi,
strade esclusive, vigilanza privata.
all Rispetto a queste dinamiche Mike Davis (2006, p. 39) ha posto
una questione fondamentale: “la necessità di ripensare la perifera‐
lità”. Questa domanda è inserita in una densa analisi comparati‐
va su scala globale dei processi di espansione degli slum nelle
metropoli contemporanee. Davis ne mostra la crescita esponen‐
ziale soprattutto nei paesi più poveri, e ne individua la multi‐
formità, la compresenza di più tipi di “abitare marginale”, di cui
colpiscono la regolarità e la ricorrenza in contesti diversi. Gli
stessi tipi possono essere ritrovati anche a Roma, sebbene su sca‐
la molto ridotta e perciò quantitativamente meno tragica, se svi‐
luppiamo un panorama diacronico sulle forme di trattamento dei
diversi e di posizionamento dell’esclusione. Considerando solo
l’ultimo secolo e mezzo ritroviamo un corrispettivo degli abitanti
a pagamento dei marciapiedi che oggi affollano Dheli nei mura‐
tori immigrati dalle regioni dell’Italia centrale, impegnati a suo
tempo nell’espansione edilizia della città appena divenuta capitale
(Insolera 1993). Gli slum delle città africane hanno la loro corri‐
spondenza nei baraccamenti sorti subito dopo la prima guerra
mondiale (Racheli 1979), in cui abitava fra il 6% ed il 15% della
popolazione romana. La deportazione degli abitanti poveri del
centro storico durante il fascismo nei nuovi quartieri esterni alla
402 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
città può essere accostata ai fenomeni avvenuti a Pechino, a
Seoul, e durante le dittature militari a Santiago del Cile e a Bue‐
00 fre
nos Aires. Analogamente esistono tutt’ora processi di insedia‐
2
mento in ex zone di pregio andate in rovina accostabili al
0x ura
fenomeno delle “abitazioni di seconda mano” di São Paulo o di
4
1 s
Lima. Assistiamo infatti ad una singolare “slumizzazione pun‐
s
a 3 m bro
tuale” delle zone “abbandonate” del centro della città, dovuta a
z z o m to
fenomeni frequenti di speculazione sugli affitti, che si traduce
Bo mat men
nella coabitazione forzata, nell’eccessivo affollamento degli ap‐
partamenti, nel riuso speculativo di cantine malsane. Con minore
all
zone ex‐borghesi10 si sono trasformate in slum “a macchia di leo‐
pardo”, a volte in maniera talmente puntuale da coincidere col
singolo appartamento o col singolo edificio11, e così da essere in‐
visibili dall’esterno. Lo stesso si può dire per la proliferazione
delle baracche dentro e sotto la città, nelle anse dei fiumi, sotto le
autostrade e all’interno dei parchi urbani in cui c’è minore possi‐
bilità di essere notati e segnalati alla polizia. A partire da questi
10
Ci riferiamo al quartiere Esquilino, nel primo municipio: un quartiere co‐
struito per la borghesia ministeriale del governo nazionale trasferita a Roma
dal nord Italia subito dopo la creazione dello stato unitario.
11
Generalmente si abita in 3 o 4 una stanza di 12‐16 mq, a volte più famiglie
abitano nello stesso appartamento dividendo una stanza ciascuna e mi è ca‐
pitato di vedere appartamenti di 65 mq abitati da 8‐10 persone (e di sentire
parlare anche di appartamenti di 55 mq abitati da 15 persone). In questi casi
non solo le condizioni igieniche sono precarie per il sovraffollamento ma
anche la sicurezza degli abitanti diminuisce molto perché si è costretti, ad
esempio, ad asciugare gli indumenti in cucina appesi al soffitto, esponendosi
a rischi di incendi. Questo è dovuto alle forme di speculazione abitativa, per
cui un appartamento di 3 camere in questa zona può costare anche 2400 euro
di affitto al mese, ma è stato anche l’unico modo in cui degli immigrati pove‐
ri hanno potuto permettersi di abitare in una zona centrale della città neces‐
saria per svolgere lavori di piccolissimo commercio ambulante o comoda per
dedicarsi ad attività di vendita di fiori, di accessori di abbigliamento o di
scarpe, di ristorazione.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 403
b/n sata
fenomeni possiamo ipotizzare che localizzazione e forma della
periferia cambino perché, situate in una logica processuale, sono
00 fre
esito delle relazioni mobili e dei rapporti di potere che coinvol‐
2
gono il territorio che la città interessa, esteso oggi a vaste porzio‐
0x ura
ni di mondo, e le condizioni politiche di accessibilità ad esso. I
4
1 s
luoghi di insediamento non sono casuali ma frutto di una sotter‐
s
a 3 m bro
ranea e continua battaglia per trovare spazio, per escludere e
z z o m to
controllare. Anche le forme di controllo sembrano in rapida mu‐
Bo mat men
tazione. Il recente e bellissimo film La zona, di Rodrigo Plà, pare
mostri molto bene proprio come anche nei centri esclusivi è suf‐
for esti ficiente l’inserimento di un elemento estraneo affinché si tra‐
all
sformino in spazi della paura, dell’insicurezza, dell’orrore.
Tutto questo dal nostro punto di vista si inserisce in una ri‐
flessione più generale sulle forme della disciplina e del controllo.
In una memorabile riflessione Gilles Deleuze (1990, 234) no‐
tava come Michel Foucault abbia descritto le “società disciplina‐
ri”, sviluppatesi prevalentemente fra il XVIII ed il XIX secolo,
come caratterizzate da
grandi ambienti di internamento […] [in cui] l’individuo non fa
che passare da un ambiente chiuso all’altro, ognuno con le sue
leggi: prima la famiglia, poi la scuola […], poi la caserma […], poi
la fabbrica, di tanto in tanto l’ospedale, eventualmente la prigio‐
ne, l’ambiente di internamento per eccellenza. […] Foucault ha
analizzato molto bene il progetto ideale dell’ambiente di inter‐
namento, particolarmente manifesto nella fabbrica: concentrare,
ripartire nello spazio, ordinare nel tempo; comporre nello spazio‐
tempo una forza produttiva che dia un risultato superiore alla
somma delle forze elementari. Ma Foucault era anche consapevo‐
le della brevità di questo modello (Deleuze 1990, p. 236).
Alle società disciplinari, dice Deleuze riprendendo Foucault con
una metafora straordinaria, sono succedute le società del controllo,
in cui “i controlli sono una modulazione, qualcosa come un calco
404 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
autodeformante che cambia continuamente, da un istante all’al‐
tro, o qualcosa come un setaccio le cui maglie divergono da una
00 fre
zona all’altra” in cui il “differimento illimitato” pare abbia sosti‐
2
tuito l’internamento generalizzato (Deleuze 1990, p. 236)
4 0x ura
Quanto affermato da Deleuze e Foucault ci pare valga oggi
1 s
per la dinamica che investe molte metropoli, in cui la perifericità
s
a 3 m bro
sociale e culturale pare legata non semplicemente alla colloca‐
z z o m to
zione in uno spazio marginale ma piuttosto alla privazione dello
Bo mat men
spazio, ad una sorta di costrizione al nomadismo e allo sposta‐
mento continuo12.
for esti A partire da questa nuova forma di provvisorietà strutturale
all
possiamo ipotizzare che una nuova logica abbia sostituto quella
sottesa alle grandi strutture di contenimento, i cui ultimi esem‐
plari sono stati, almeno a Roma, alcuni grandi quartieri‐dormi‐
torio, con un forte tasso di povertà e criminalità, degli anni 70‐80.
Rispetto a un modello di spazio basato sulla divisione della città
in parti rigidamente differenziate e scollegate fra loro, da cui
tendenzialmente non si doveva uscire mai13 quello attuale sembra
un modello di città in cui non si deve poter entrare. Chi è marginale
diviene così insituabile, stretto costantemente in una morsa di
confini. È questo cambiamento qualitativo radicale, che vede le
grandi città globali attraversate costantemente da un differenzia‐
12
Come notava Denis Bertrand, oggi la periferia è costituita da coloro che
non hanno nessuno spazio. I provvedimenti del nuovo sindaco di Roma,
Alemanno, che, appena eletto, ha immediatamente fatto staccare gli allacci
dell’acqua e della luce al campo Rom più grande della città, il casilino 900, e
disposto che non fosse più possibile parcheggiare al suo interno i furgoni
con cui i rom lavorano recuperando il ferro, non mirano forse, con la stessa
logica, ad un allontanamento volontario? Nessun campo a Roma, inoltre,
anche quelli attrezzati al di fuori del raccordo anulare, è dichiarato essere un
luogo definitivo di insediamento e ai Rom sgomberati dai campi al centro
della città sono state date delle aree sosta solo temporanee.
13
Mi permetto di rinviare ad un mio contributo: abbiamo cercato di riflettere
sul concetto di “spazio disciplinare” in Cervelli (2008).
Fra Roma e Dubai. La città glocale 405
b/n sata
le di potere che si tramuta in un differenziale di posizione, che
rende ormai impossibile pensare le città come somma o come
00 fre
moltiplicazione di un elemento minimo. Ma il differenziale di ac‐
2
cesso non cessa di produrre costantemente proprietà semantiche
0x ura
emergenti nel passaggio dall’elemento atomico all’insieme globa‐
4
1 s
le. Per questo le città si presentano attualmente come uno dei più
s
a 3 m bro
potenti laboratori di osservazione delle tecniche di gestione delle
z z o m to
relazioni fra una serie di minoranze marginali e una massa mag‐
Bo mat men
gioritaria che si autorappresenta come compatta e coesa: le città
globali permettono cioè di rilevare i meccanismi, economici poli‐
for esti tici e semiotici, che dichiarando di operare per eliminare una
all
marginalità non fanno altro che produrla. Contemporaneamente
queste città lasciano però trasparire i metodi con cui questi mec‐
canismi possono essere superati, i modi in cui i “marginali”, esa‐
sperando gli stessi meccanismi di costruzione di invisibilità e di
movimento costante che vengono loro imposti, non cessano di
aggirarli.
III. Fra Dubai e Roma
1. Dubai
1.1. Introduzione
Dubai è letteralmente esplosa in questi ultimi anni. Da minuscolo
villaggio di pescatori e commercianti, quale era fino agli anni
sessanta, è divenuta oggi uno dei nodi più rilevanti dell’eco‐
nomia mondiale dei flussi. È il suo dinamismo impetuoso, di cui
daremo alcuni esempi, ad averla fatta passare dalla periferia al
centro del sistema delle relazioni economico‐sociali globali appa‐
rentandola ad altre, ben più famose, metropoli. L’attenzione cre‐
406 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
scente che oggi gli si riserva sembra farne uno di quei luoghi pri‐
vilegiati per riflettersi e riflettere sulle dinamiche del presente e
00 fre
su ciò che potrebbe riservarci il futuro.
2
0x ura
1.2. (Ri)articolazioni del potere
4
1 s s
ro
3 mdepositate nella cultura italiana parrebbe che Dubai vada assimi‐
Se volessimo seguire questa trasformazione a partire dalle tracce
a m b
o zz to nAncora nel 1970, infatti, la principale enciclopedia italiana, il Di‐
t o
lata a quelle “città da zero” di cui si parla molto di questi tempi.
B ma me zionario Enciclopedico Treccani, non riservava alcuna voce a Dubai.
for esti Un vuoto di sapere che corrispondeva però solo parzialmente ad
all uno spazio fisicamente vuoto, quanto piuttosto a una specifica
gerarchia delle relazioni di potere. Non a caso, solo quattro anni
dopo, ovvero dopo l’indipendenza e la costituzione degli Emirati
Arabi Uniti (EAU) nel 1971 e dopo la crisi petrolifera mondiale
del 1973, persino un’enciclopedia per ragazzi L’Enciclopedia Riz‐
zoli per Ragazzi, dedicava spazio a Dubai, indicando in 57.469
unità la sua popolazione e sottolineando la tendenza “cosmopoli‐
ta” della città, già allora definita “la più importante” e il “mag‐
gior centro commerciale” dello Stato appena nato.
Questi veloci esempi ci lasciano intuire una doppia dinamica.
La prima è quella di un vertiginoso aumento demografico (in
termini percentuali molto più che in valori assoluti): Dubai è
passata infatti da poche migliaia di abitanti negli anni sessanta
ad una cifra attuale che oscilla sul milione e mezzo di unità (la
versione italiana di Wikipedia riporta il dato aggiornato al di‐
cembre 2006 di 1.370.714 abitanti).
La seconda è il cambio di centralità o la riarticolazione delle
reti di relazioni all’interno della quale Dubai si trova. Dubai in‐
fatti, la cui esistenza è attestata da almeno 150 anni prima della
costituzione degli EAU, svolgeva fin da lungo tempo il ruolo di
porto e snodo commerciale fra Iran e Yemen, fra Arabia Saudita
e India. Dubai si presenta quindi fin dal suo sorgere, in particolar
Fra Roma e Dubai. La città glocale 407
b/n sata
modo grazie al commercio di perle e alla presenza dello scalo por‐
tuale, come una città mercantile inserita in una rete di flussi e
00 fre
rapporti translocali (Kazim 2000, pp. 176‐184). Pur nella sua mo‐
2
desta dimensione essa occupava già allora una sua peculiare cen‐
0x ura
tralità. E tuttavia questa centralità era tale all’interno di uno spa‐
4
1 s
zio globalmente periferico. Posta ai margini del vasto spazio co‐
s
a 3 m bro
loniale britannico Dubai era un piccolo centro dentro una grande
z z o m to
periferia; o ancora, in termini ulteriormente sfumati, Dubai oc‐
Bo mat men
cupava il centro di una periferia della periferia. Come si vede,
già qui, le geografie della centralità e della perifericità si compli‐
all
l’architettura delle reti, più o meno lunghe, dentro le quali si po‐
sizionano e acquistano il loro ruolo le singole città. Questo dop‐
pio gioco è in atto anche nella nuova centralità di Dubai. Essa
infatti partecipa da un lato di quello spostamento di asse nell’e‐
conomia globale che ha fatto parlare di una nuova via della seta,
vale a dire una rinnovata centralità dell’area che comprende e
collega Medio Oriente, India e Cina. Dall’altro lato Dubai appare
come un nodo dentro una rete globale. Dubai infatti si è imposta
come un hub finanziario, commerciale e turistico. Nella borsa di
Dubai si giocano partite i cui effetti si estendono in tutte le mag‐
giori città ed economie del pianeta. La zona di libero scambio di
Jebel Ali (JAFZA) attrae investimenti e imprese da tutto il globo.
I vertiginosi progetti e investimenti immobiliari annodano nello
spazio della città interessi finanziari internazionali. Il porto di
Dubai continua ad essere centrale nel commercio e nella movi‐
mentazione di importanti materie prime. I flussi turistici, econo‐
mia emergente della zona, rendono vivida e percepibile la
propensione di Dubai a farsi hub globale. A questo si somma, po‐
tentissima, la quantità di lavoratori immigrati che popolano la
città: questi immigrati portano con sé e riversano nella città le
memorie e le attese delle loro appartenenze, saturando così lo
spazio cittadino di potenziali conflitti di fedeltà ed interessi.
408 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b / n ta
1.3. Flussi globali, spazi locali
0 e sa
Come si vede, dunque, molto più che per le sue quantità – si trat‐
0 fr
ta di una città, ricordiamolo, che ha comunque solo un milione e
2
0x ura
mezzo di abitanti – Dubai si presenta interessante per le sue qua‐
1 4
lità. Dal punto di vista demografico essa appare infatti come una
s s
via di mezzo fra l’emersione da zero di nuove città, un po’ come
a m b ro
3 msta accadendo in Cina, e la trasformazione di piccoli villaggi, un
o zz to ntempo centrali solo su scala locale, in nuove centralità nazionali o
t o
B ma me masse di uomini dal circondario, come avviene ad esempio nelle
internazionali, capaci di attirare al loro interno (o ai loro bordi)
b/n sata
terno di alcuni importanti cantieri non solo hanno obbligato lo
stesso governo a prendere pubblicamente in carico la situazione
00 fre
e promettere più tutela per i lavoratori ma hanno portato a visi‐
2
bilità le contraddizioni insite in un modello che mette insieme gli
0x ura
eccessi dell’autocrazia con gli eccessi del capitalismo (cfr. Davis
4
1
2007).
s s
a 3 m bro Alcuni dei conflitti sociali insiti dentro la città si ritrovano
z z o m to
nell’organizzazione del suo spazio, benché tale spazio stesso si
Bo mat men
presti a essere colto da punti di vista differenti. Proviamo ad
esemplificare velocemente.
all
to prossima, colta da un ipotetico sguardo dall’alto, ad un arcipe‐
lago in cui ad isole di ricchezza e sfarzo architettonico si affian‐
cano i quartieri e i luoghi di vita di quelle masse di immigrati che
reggono la grande macchina sociale dei divertimenti e dei con‐
sumi. Si tratta ovviamente di spazi la cui permeabilità è variabile:
dalle gated communities per i ricchi, alle aree di libero scambio, ai
quartieri popolari a prevalenza indiana o iraniana – dove domina
il commercio al dettaglio – la tenuta o l’attraversabilità dei confi‐
ni si modifica notevolmente.
Ad uno sguardo dall’interno sembra invece di assistere ad un
gioco prospettico fra una scena e il suo backstage. Rapiti dalle fan‐
tasmagorie architettoniche, rivolti con il naso all’insù, difficil‐
mente si percepisce l’oltre o l’affianco. Per il ricco local o per il
turista occidentale le distese di case abitate dagli immigrati che
riempiono lo spazio fra i luoghi del lusso scompaiono alla vista o
appaiono come puri luoghi di attraversamento. La maggioranza
quantitativa si fa così minoranza politico‐sociale, oppure si fran‐
tuma in così tante comunità etniche, professionali, familiari da la‐
sciare l’impressione di un vuoto di soggettività collettiva. Il corpo
maggioritario della città aleggia su di essa come fosse un fanta‐
sma oppure appare ingabbiato dentro una rigida gerarchia. Una
gerarchia che è al contempo economica, etno‐culturale, spaziale.
410 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b / n ta
1.4. Una New York mediorientale?14
0 frea sDubai. a
In questi ultimi anni le riviste di tutto il mondo hanno dedicato
una crescente 0attenzione I reportage dalla città e sulla
2
0x ura
città si sono concentrati sugli aspetti stupefacenti e per certi versi
4
1 s s
esotici del luogo. Alberghi a sette stelle, intere città costruite sul‐
ro
3 mnutile dire che le analogie più abusate sono state quelle fra Dubai
l’acqua, piste da sci nel deserto, il grattacielo più alto del mondo. I‐
a m b
o zz to nprio si volesse giocare il delicato e rischioso gioco della compara‐
t o
e Las Vegas o addirittura fra Dubai e Disneyland. Eppure, se pro‐
B ma me zione, si dovrebbe prendere seriamente in considerazione la possi‐
for esti bilità di accostare Dubai – o meglio, la dinamica di trasformazione
all di Dubai – alla New York fra fine settecento e fine ottocento.
Nel 1790 New York contava 30.000 abitanti, un secolo dopo la
sua popolazione ammontava a 3 milioni e mezzo15. Nel 1890 “poco
più del 74% della popolazione bianca di New York era costituito
di immigrati o di figli di immigrati e solo il 18% di ‘nativi’ e figli
di genitori nati entrambi negli Stati Uniti” (Cartosio 2007, p. 41). I
bianchi americani erano il terzo gruppo etnico dopo tedeschi e
irlandesi ed erano seguiti a ruota da russi, britannici e italiani.
Questa esplosione demografica e questo afflusso di immigrati si
accompagnavano al mutamento di ruolo di New York e degli
Stati Uniti dentro lo scenario globale. Una nuova area dominante
– legata allo spazio euro‐atlantico – andava emergendo nel mon‐
do e dentro lo stesso spazio “occidentale”. E da questo spazio oc‐
cidentale, o comunque prevalentemente da esso, masse di
immigrati si riversavano a New York in cerca di una possibilità di
lavoro. Le cronache raccontano di una città caotica, sporca, rumo‐
14
Devo questa domanda e questo spunto all’acutezza e alla sensibilità di Ma‐
rina Canestri.
15
La cifra si riferisce alla così detta Greater New York nata dall’accorpamento
amministrativo del 1898 di Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Richmond
(Staten Island).
Fra Roma e Dubai. La città glocale 411
b/n sata
rosa. Ai primi stupefacenti grattacieli si affiancavano le tenement‐
houses: “Case malsane e sovraffollate, in quartieri poveri e bruli‐
00 fre
canti d’individui, i tenements costituiscono la cifra più vera e più
2
largamente condivisa della vita urbana delle metropoli statuni‐
0x ura
tensi della seconda metà del secolo. Nel monumentale rapporto
4
1 s
prodotto nel 1865 dal Consiglio per l’igiene e la salute pubblica
s
a 3 m bro
risulta che 480.368 delle oltre settecentomila persone residenti a
z z o m to
New York, circa il 68% della popolazione cittadina, viveva in
Bo mat men
15.309 tenements che non rispondevano ai requisiti minimi di abi‐
tabilità” (Cartosio 2007, p. 42).
for esti Non sono solo questi dati demografici e urbanistici a far ap‐
all
parire lo spettro di una comparazione possibile. Ciò che colpisce
e intriga – pur nelle evidenti differenze – è che la New York (e gli
Stati Uniti) di inizio e metà ottocento sono al contempo una
emergente potenza commerciale di scala mondiale e un luogo
praticamente privo di arte. Un misto di ricchezza e puritanesimo,
in cui l’arte – e con esso la rappresentazione del nudo – hanno
all’inizio ben poco spazio quando non sono esplicitamente politi‐
camente proibiti (oltre che essere moralmente deprecati).
La riflessione meriterebbe più approfonditi e puntuali scavi
ma colpisce che a Dubai, dall’interno dello stesso spazio cittadi‐
no, emerga come “centralità” valoriale un trittico costituito dal
potere politico, dal commercio e dalla finanza.
Questa centralità simbolica è inscritta infatti nelle Emirates
Towers – la cui rima con le Twin Towers di un tempo non va
esclusa o sottovalutata – che la portano in memoria già nel loro
nome e nella loro posizione di confine, al limite fra la parte vec‐
chia della città e l’inizio della Sheik Zayed Road, la lunghissima
autostrada, dedicata al padre fondatore degli Emirati Arabi Uni‐
ti, che partendo dal cuore di Dubai arriva fin dentro il cuore
dell’altra capitale, Abu Dhabi. E tuttavia essa è rafforzata da una
più intima geografia semiotica. Le Emirates Towers infatti instau‐
rano due importanti dialoghi semiotici, fino a comporre un trittico
412 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
(e dunque a svelarci un polilogo). Il primo è con la gigantografia
dei due “Padri della Nazione” appena sotto di esse. La “gemmel‐
2 00 fre
larità” unisce e salda le due torri con i due corpi, quello dello
Sceicco Zayed e dello Sceicco Maktoum, i due principali fondato‐
0x ura
ri degli Emirati. C’è un’analogia plastica fra questi due corpi si‐
4
1 s s
mili ma diversi che si parlano, uno girato verso l’altro, e le due
a 3 m bro
torri, anch’esse simili ma diverse (anche nell’altezza) e soprattut‐
z z o m to
to una rivolta verso l’altra. Voluta o no, questa correlazione è de‐
Bo mat men
positata nelle trame dello spazio, e può essere attivata da un
qualsiasi sguardo attento. Il secondo dialogo, sull’altro lato, è con
for esti The Gate, come viene chiamato quella sorta di grande e moderno
all
arco di trionfo che è la sede della Borsa di Dubai e più in genera‐
le del Dubai International Financial Center (DIFC). Insomma il cuo‐
re finanziario della città e di quella borsa ormai assurta a prota‐
gonista nel panorama globale. Basta provare a mettersi sulla
piazza, dietro l’arco e a guardarvi attraverso, per vedere le Emi‐
rates Towers. Una delle pubblicità del DIFC porta all’estremo
questo meccanismo: fingendo una prospettiva impossibile (o solo
parzialmente possibile) “incornicia” per intero le Emirates Towers
e come se non bastasse fa apparire sullo sfondo, al vertice di que‐
sto triangolo, il World Trade Center, il primo grattacielo di Dubai.
Insomma, il potere politico e il potere economico affiancando le
due torri le rendono spazio di traduzione fra i due domini: una tra‐
duzione sotto il segno del consumo e del lusso (le torri ospitano
alberghi, ristoranti e negozi di altissimo livello). Del resto, come
ha sintetizzato proprio lo sceicco Maktoum, fondatore della città:
“Tutto ciò che è bene per i commercianti è bene per Dubai”16. Il
commercio come linguaggio di traduzione fra politica e finanza. Non
solo. In assenza dell’arte, in assenza di un comune linguaggio sui
diritti umani e/o sociali o su una stabile e condivisa piattaforma
16
“What’s good for the merchants is good for Dubai”, riportato in Molavi
(2007, p. 103).
Fra Roma e Dubai. La città glocale 413
b/n sata
di valori etici e morali il commercio si pone a Dubai di fatto, at‐
tualmente, come l’unico vero linguaggio di traduzione fra “oriente” e
2 00 fre
“occidente”.
Questo parallelismo fra Dubai e New York, questi spunti, non
0x ura
sono analiticamente esaustivi e ovviamente non hanno alcuno
4
1 s s
scopo predittivo. Sono tuttavia un invito a non banalizzare – per
a 3 m bro
ignoranza o moralismo – situazioni sociali complesse. Forse Du‐
z z o m to
bai non assolverà mai, nel quadro geopolitico globale, il ruolo
Bo mat men
svolto a suo tempo e fino ad ora da New York. Ciò che resta ve‐
ro, tuttavia, è che difficilmente la si può comprendere riducendo‐
for esti la a qualcosa di simile a Las Vegas. La complessità interna, il suo
all
vorticoso dinamismo, la sua interconnessione con lo spazio glo‐
bale fanno di Dubai una emergente metropoli “orientale” cosmopoli‐
ta, densa di originalità e di conflitti irrisolti.
1.5. Una città‐mondo
Avviandoci a concludere queste poche note su Dubai proviamo a
ragionare velocemente su alcuni nodi socio‐politici che la riguar‐
dano.
Il primo punto è la questione dell’isomorfismo fra città, territo‐
rio, potere. C’è infatti una apparente corrispondenza assoluta fra
popolazione della città e popolazione dell’emirato. Molto più che
davanti ad una città‐stato qui pare di trovarsi davanti ad una cit‐
tà che è, dal punto di vista antropico, tutto lo Stato. È interessan‐
te notare che questo isomorfismo sarebbe rotto da due sogget‐
tività molto particolari: le residue forme di cultura beduina che
popolano il deserto e gli immigrati privi di cittadinanza che pur
popolando lo spazio della città non sono ricompresi (politica‐
mente) in essa. E tuttavia l’invisibilità, l’inesistenza semiotica, di
queste soggettività lascia credere che città, popolazione, territorio
coincidano effettivamente e totalmente. Il vuoto del deserto, del
resto, fa di Dubai un potente esempio di pieno assoluto. A tutto
414 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
ciò si somma, come ricordato da Davis, il fatto che il detentore
del potere dinastico, lo Sceicco, è anche il proprietario dell’intero
2 00 fre
territorio, e dunque anche della “città” in esso contenuta. Non si
tratta di una pura metafora astratta ma di una reale compenetra‐
0x ura
zione fra potere e territorio: potere di controllo e potere di inve‐
4
1 s s
stimento. Un segno di ciò è la concomitante invisibilità del potere
a 3 m bro
politico e della criminalità. Entrambi sembrano praticamente ine‐
z z o m to
sistenti. Un altro segno è il fatto che uno dei principali immobi‐
Bo mat men
liaristi che investe nella città, che costruisce la città, che possiede
la città è lo Sceicco stesso attraverso aziende che sono statali e
for esti personali al contempo. Potere sulle persone, sul territorio e sulle
all
cose sembrano coincidere. Anche questo isomorfismo tuttavia
è probabilmente imperfetto, incrinato da forze più o meno poten‐
ti. Incrinato da quelle stesse forze che potentemente lo costitui‐
scono: ad esempio la morale religiosa e gli imperativi capitali‐
stici. Due forze che si confrontano e scontrano, o forse si acco‐
modano e rinforzano, dentro lo spazio cittadino.
Questa compenetrazione, questo incastro di poteri, soggettivi‐
tà, ideologie già di per sé complesso, è reso complicato dalla dif‐
ficile articolazione delle categorie di nazione e Stato in una realtà
come quella degli Emirati Arabi Uniti. Gli EAU appaiono al con‐
tempo come uno Stato fatto di Stati (i singoli Emirati) e come la
“nazione” che ha riunito i diversi Emiri, le diverse dinastie/tribù,
in un progetto comune, di cui i padri fondatori e la bandiera, co‐
piosamente riprodotti ed esposti, sono testimonianza e prova.
È forse a causa di questa indeterminatezza – Cos’è Dubai?
Una città? Una Dinastia? Una nazione? Uno Stato? Uno Stato nel‐
lo Stato? Un nodo dentro la rete dei flussi di uomini e capitali che
percorrono il globo? – che questa città mediorientale, per quanto
piccola, sembra svolgere alla perfezione il ruolo di una città‐
mondo. Abbastanza isolata e definita fisicamente da apparire un
mondo finito (benché in tumultuoso divenire), abitata da persone
da ogni luogo della terra, impossibile da rinchiudere con certez‐
Fra Roma e Dubai. La città glocale 415
b/n sata
za dentro le categorie politiche occidentali, essa sembra trovarsi a
suo agio dentro un ruolo e una identità “globale”. Tanto da valo‐
00 fre
rizzare esplicitamente questo suo tratto all’interno della comuni‐
2
cazione – prevalentemente in quella commerciale – che essa indi‐
0x ura
rizza a se stessa e a chi vi abita.
4
1 s
Due esempi su tutti possono essere indicativi e al contempo
s
a 3 m bro
svelare l’intima glocalità di questa città‐mondo.
z z o m to Il primo è il grande centro commerciale Ibn Battuta che ha
Bo mat men
come slogan: “The World Under One Roof” (Il Mondo sotto un
unico tetto)17. La cosa interessante è che questo “mondo” è ap‐
all
ancora il mondo mussulmano che il grande viaggiatore arabo (da
alcuni definito “il Marco Polo arabo”) visitò fra il 1325 e il 1354:
dall’Africa settentrionale all’India, spingendosi anche nella Rus‐
sia meridionale e arrivando fino alla Malesia e alla Cina.
Lo spazio del centro commerciale è così diviso in sei zone
(“courts”): Andalusia, Tunisia, Egitto, Persia, India e Cina. Ed ec‐
co come viene esplicitato il loro senso: “These [six] courts strong‐
ly project the historical and cultural richness of this Arabian
icon’s life, serving as inspiration to all those who visit”.
Per capire meglio il rapporto fra città, mondo, glocalità – ovve‐
ro come il “mondo” sotto il tetto di casa varia di casa in casa –
vale la pena spostarsi velocemente al secondo esempio. Si tratta
del faraonico progetto di Dubailand, una nuova “città nella città”
che dovrà sorgere in quella che oggi è la periferia desertica di
Dubai. Eccola nelle parole di Mohammed Al Habbai, Amministra‐
tore Delegato di Dubailand: “Dubailand is the world’s most am‐
bitious tourism, leisure and entertainment project”. O ancora: “… a
17
Lo slogan era ancora sicuramente in uso sul finire del 2007. A conferma
dell’impostazione “mondiale” valga comunque l’attuale frase d’apertura della
descrizione del mall sul sito dello stesso: “Ibn Battuta Mall, the world’s largest
themed shopping mall is revolutionizing the retail and entertainment expe‐
rience in Dubai” (da www.ibnbattutamall.com ‐ febbraio 2008).
416 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
World‐Class project…” (www.dubailand.ae ‐ febbraio 2008)18.
La cosa più notevole è che Dubailand è già in vendita, è un
00 fre
modellino plastico, è sui giornali, è online, è sulla bocca di tutti,
2
eppure non esiste. Ben poco vi è di ciò che ci dovrà alla fine esse‐
0x ura
re (nel 2015, o nel 2018, o chissà quando). Ancor più stupefacente
4
1 s
tuttavia è che avventurandosi nel deserto, ad un certo punto, si
s
a 3 m bro
viene accolti dalle gigantesche scenografie di cartapesta che vi
z z o m to
danno il benvenuto (e poi l’arrivederci) proprio a Dubailand. Si
Bo mat men
tratta di scenografie dietro le quali, attorno alle quali, altro non
c’è se non deserto. E tuttavia, fra la scenografia di benvenuto e di
all
tografie vi espongono il “mondo” di Dubailand, il mondo rac‐
chiuso dentro questa città dentro la città. Ecco gli spaccati di
mondo (che saranno resort, spa, hotel tutti a tema) che si succe‐
dono: Asia, Africa, Andalusia, paesaggio senza nome 1 (un composto
di giganteschi strumenti musicali e hotel, forse una sorta di città
della musica), paesaggio senza nome 2 (con richiami all’Egitto, alla
cultura araba, ad uno skyline contemporaneo che potrebbe essere
la stessa Dubai), America, Latino, Europa.
Si potrebbe riflettere a lungo su questo strano mondo, sull’im‐
magine del mondo che salta fuori da questa concatenazione di sce‐
nografie che sono a loro volti mondi, continenti, civiltà, storie,
tutti riassunti attraverso icone più o meno comprensibili, più o
meno oscure. Si potrebbe riflettere a lungo su ciò che c’è e ciò che
non c’è, e su come ciò che c’è si sovrappone o entra in conflitto.
Giusto per fare un esempio: dove finisce l’Europa e inizia l’An‐
dalusia (questa Andalusia che ritorna anche qui, come nell’Ibn
Battuta Mall)?
Si tratta ovviamente di geografie immaginarie, qui più che
mai sospese sul limite fra ciò che esiste e ciò che non esiste, fra
ciò che esiste per una cultura e ciò che esiste per tutte le altre, fra
18
Vedi: www.dubailand.ae.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 417
b/n sata
ciò che esiste oggi e ciò che esisterà domani.
Resta un fatto ed una evidenza. Il mondo si rifrange in molte‐
00 fre
plici modi e forme nella città‐mondo. La città‐mondo lo traduce e
2
lo deforma. In questo doppio gioco la traduzione deformante la‐
4 0x ura
scia intravedere le sue interne coerenze e così, oltre a parlarci del
1 s
mondo, ci parla di come la località in cui il mondo si rifrange,
s
a 3 m bro vede il mondo, fa mondo.
z z o m to
Bo mat men2. Roma
for esti 2.1. Una città‐frontiera?
al l Crediamo che Roma possa fornirci qualche esempio sulla dina‐
mica delle relazioni glocali, considerando le diverse modalità in‐
sediative di alcune comunità immigrate, che sembrano eviden‐
ziare delle forme di regolarità. Il caso di Roma è interessante
perché la città si è globalizzata in modo molto veloce ed in tempi
recenti (è oggi abitata da persone appartenenti a 182 comunità
nazionali diverse, ma questa presenza si è resa visibile solo negli
ultimi 15 anni).
Le comunità immigrate potrebbero dunque aiutarci a capire
quali dinamiche e quali conflitti si innescano quando una città
diventa globale. Le analisi dei flussi di popolazione evidenziano
infatti delle sintassi riconoscibili che, secondo alcuni urbanisti
(Pavia 2002, Ingersoll 2004), la città costruita non manifesta più.
Questi dati mostrano invece come sia in atto una nuova zonizza‐
zione legata al modo in cui flussi globali costituiscono nuovi in‐
siemi locali e insieme ispessiscono lo spazio di nuove frontiere
interne, la cui natura è peculiare: non riconducibile alle relazioni
fra comunità precedenti al fenomeno migratorio, né esclusiva‐
mente alla struttura della città precedente alle migrazioni, esse
paiono leggibili sui punti di sovrapposizione fra morfologie spa‐
ziali e forme di vita comunitaria.
418 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
A partire dalle nuove frontiere, fatte di linguaggio e di corpo‐
reità, pare sia possibile affermare che oggi si debba considerare,
00 fre
nelle città globali, una nuova forma di periferia culturale. Possia‐
2
mo in questa ottica distinguere a Roma, almeno tre forme semioti‐
0x ura
che di periferia, e sulla base della relazione fra “forma” generale di
4
1 s
un territorio e modi di situarsi in esso, altrettante letture strategi‐
s
a 3 m bro
che dello spazio urbano. In particolare vorrei sottolineare la dif‐
z z o m to
ferenze fra le comunità bangladese e cinese, che paiono forte‐
Bo mat men
mente concentrate19 e dunque più visibili; quelle polacca, alba‐
nese e rumena, insediate soprattutto fuori dalla città, in alcuni
all
ti, che paiono distribuirsi nel territorio urbano secondo caratteri‐
stiche del tutto peculiari20.
2.2 Periferia interstiziale e concentrazione centralizzata
Se guardiamo la mappa della città attraverso le sue divisioni am‐
ministrative, e le sovrapponiamo percorsi e forme di concentra‐
zione delle comunità immigrate sono subito evidenti una serie di
discontinuità, di molteplici frontiere interne, per cui una esten‐
sione territoriale è diventata uno spazio più volte culturalizzato.
Le comunità cinesi e bangladesi abitano prevalentemente in due
soli municipi21, il primo ed il sesto (su diciannove totali), entram‐
bi localizzati in aree centrali della città, strategiche dal punto di
vista della mobilità e oggi interessate da evidenti fenomeni di
gentrification e riqualificazione, che gli immigrati stessi hanno
contribuito ad attivare. Erano, fino a pochi anni fa, delle isole di
19
Per i dati esaustivi cfr. Cervelli (2009) ed anche i dati ufficiali al 31/12/2007
forniti dall’ufficio statistico del comune di Roma (www.Romastatistica.it/
studieric/StraMun_MFT_Citt_1.xls).
20
Ho ricavato i risultati confrontando i dati statistici relativi alle residenze
divisi per nazionalità e quartieri, con i dati relativi alle presenze totali delle
comunità a Roma e nella provincia.
21
Si tratta delle 19 entità amministrative in cui è divisa la città.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 419
b/n sata
periferia interne all’area centrale: quartieri degradati e insicuri,
oggetto di scarsissimo interesse da parte degli italiani. Un dato
00 fre
emerge con particolare evidenza: nei municipi delle aree consi‐
2
derate si concentrano22 circa il 40% della comunità bangladese e
4 0x ura
circa il 35% della comunità cinese che abitano nell’intero territo‐
1 s
rio comunale23. Cosa rende dunque specifica la modalità insedia‐
s
a 3 m bro tiva di cinesi e bangladesi? La loro è una concentrazione forte‐
z z o m to mente localizzata, che si traduce in una quasi totale assenza negli
Bo mat men
altri municipi24 e che si situa massicciamente in due soli quartie‐
ri25. Due sole comunità dunque, che si presuppone non abbiano
all
22
Il dato è ricavato in base ai dati relativi alle iscrizioni all’Anagrafe cittadi‐
na, dunque si tratta di presenze stabili e durature e si può supporre anche
che il numero totale dei residenti delle comunità su indicate sia maggiore di
quanti hanno acquisito la residenza anagrafica.
23
Sono evidenti fenomeni di concentrazione anche in altre comunità: i ru‐
meni nell’ottavo municipio, gli srilankesi nel ventesimo, entrambi con le
stesse percentuali, intorno al 20% per municipio (e gli egiziani nel quindice‐
simo, in cui si concentra il 10% della popolazione totale residente a Roma).
24
In 9 municipi su diciannove si concentra meno del 2% della comunità Ban‐
gladese; lo stesso accade in 6 municipi su diciannove per i cinesi. Cfr. www.
Romastatistica.it/studieric/StraMun_MFT_Citt_1.xls.
25
All’interno del municipio VI in particolare la concentrazione è visibile nel
quartiere Pigneto‐Torpignattara (compreso amministrativamente in un’unica
zona urbanistica, la 6A), in cui è concentrato circa il 10% del totale della co‐
munità bangladese e di quella cinese. Un fenomeno analogo accade in un
altro quartiere, quello dell’Esquilino (zona 1E del municipio I), dove si con‐
centra ufficialmente più del 12% dei cinesi presenti a Roma e circa il 7% dei
bangladesi. Circa l’11% dei bangladesi risulta inoltre residente a Trastevere
(zona 1B, municipio I), un quartiere storico e turistico dove la gentrification è
avvenuta circa 30 anni fa e buona parte dei residenti stranieri sono cittadini
dell’Europa occidentale o statunitensi, e i prezzi degli alloggi risultano proi‐
bitivi. Il dato si spiega con la presenza di due organizzazioni che si occupano
di assistenza e di tutela degli immigrati, la Comunità di Sant’Egidio ed il
BCII, Bangladesh Cultural Institute of Italy, presso le quali molti immigrati
possono prendere la residenza anagrafica (scelta che si presume sia motivata
dalla mancanza di una residenza stabile a Roma). Anche sulla base di contat‐
420 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
relazioni precedenti al fenomeno migratorio, che presentano le
stesse percentuali di concentrazione e le stesse modalità insedia‐
00 fre
tive. Si tratta fra l’altro di una popolazione residente presumi‐
2
bilmente stabile, dato che è composta omogeneamente da uomini
0x ura
e donne26 e che per sua natura la residenza anagrafica presuppo‐
4
1 s
ne una presenza duratura. Possiamo definire i luoghi abitati da
s
a 3 m bro
questa comunità come una periferia interstiziale, localizzata nei
z z o m to
luoghi, ormai creolizzati, al centro della città, e abitata con una
Bo mat men
logica di inserimento compatto nei vuoti prodotti dalle forme di
valorizzazione sociale e gerarchizzazione fra aree urbane in vigo‐
all
cono, neanche linguisticamente, sul modello degli stati nazionali:
ad una popolazione non segue un’altra, ma piuttosto popolazio‐
ni diverse coabitano, per la prima volta, negli stessi luoghi. Allo
stesso modo, come si può evincere dal saggio di Ilaria Tani pre‐
sente in questo volume e dalle ricerche sociolinguistiche svolte
nella zona dell’Esquilino (municipio I, zona IE), le lingue non si
susseguono, come nelle ipotesi che vedono lingue nazionali suc‐
cedersi geograficamente le une alle altre (già peraltro criticate e
smentite da Saussure all’inizio del secolo scorso) ma coabitano:
nella sola zona dell’Esquilino è stato possibile contare affissioni
in 23 lingue diverse.
ti con la comunità, si potrebbe ipotizzare che queste persone, prevalente‐
mente giovani uomini (su 1269 residenti solo 18 sono donne) vivano nei luo‐
ghi in cui la comunità si concentra, dove si verificano frequentemente feno‐
meni di coabitazione e di sovraffollamento degli alloggi. È comunque suffi‐
ciente percorrere questi quartieri per notare una presenza massiccia di que‐
ste persone, anche sulla base delle loro attività commerciali, delle affissioni e
delle pubblicazioni in lingua.
26
In misura assolutamente paritaria per i cinesi e con una prevalenza di gio‐
vani uomini per i bangladesi, che si riscontra in entrambi i quartieri e pare
dovuta alle attuali caratteristiche dell’immigrazione bangladese.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 421
b / n ta
2.3. Periferia liminare e concentrazione marginalizzata
0 e sa
Le comunità provenienti dall’Europa orientale sono distribuite
0 fr
più intensamente ai margini del territorio comunale e soprattutto
2
0x uin raprovincia emerge in maniera massiccia se
al di fuori di esso, in alcuni comuni della provincia. Il dato della
1 4
concentrazione
confrontato scon
27
B ma me comunità immigrate confrontando i dati della distribuzione delle
for esti tre comunità considerate con la comunità ucraina, che, per la sua
all
distribuzione sul territorio potrebbe essere, almeno in via prov‐
visoria, assunta come “gruppo di controllo”. Il confronto mostra
come i cittadini rumeni e albanesi siano molto più concentrati
degli italiani nel territorio provinciale e massicciamente meno
concentrati in quello comunale, mentre i cittadini polacchi resi‐
denti nel territorio provinciale sono poco più concentrati degli
italiani28: il 49,43% dei residenti rumeni ed addirittura il 57,83%
dei residenti albanesi abitano nei comuni della provincia di Ro‐
ma; per quanto riguarda la comunità polacca, il 35, 64% degli ap‐
partenenti abita nei comuni della provincia di Roma, rispetto al
totale dei residenti nel Lazio. Se confrontiamo i dati con le pre‐
senze riscontrabili nei comuni di maggiore insediamento pos‐
siamo inoltre notare che questa “dispersione” è in realtà una con‐
centrazione marginalizzata, che si traduce in una distribuzione
sviluppatasi con una logica di aggiunta alla città esistente: coin‐
Per i dati ed i comuni fare riferimento alla tabella A.
27
C’è da dire anche che le comunità rumena e polacca sono principalmente
28
concentrate nel territorio del comune della provincia di Roma rispetto al totale
dei loro appartenenti residenti (con una concentrazione superiore a quella
dei cittadini italiani) mentre la comunità albanese risulta distribuita in ma‐
niera significativa sul territorio regionale, in maniera più decisa che non i
residenti italiani.
422 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
volge infatti i comuni posti nella cintura attorno alla città29. Si
tratta dunque di una periferia liminare, il cui sviluppo pare legato
00 fre
alla rappresentazione di un territorio centralizzato in cui i confini
2
hanno un forte significato. Questa localizzazione riprende alcuni
4 0x ura
tratti della modalità insediativa degli italiani immigrati negli an‐
1 s
ni 50 e 60 (Berlinguer, Della Seta 1976), ma interessando l’area
s
a 3 m bro attuale di influenza della città, pone di fatto il nuovo confine del‐
z z o m to la regione metropolitana.
Bo mat men2.4. Dispersione acentrica, periferia polverizzata
for esti Consideriamo ora un’ulteriore forma periferica, costituita dai
all campi abitati da rom e sinti (prevalentemente provenienti dal‐
l’europa orientale). Queste comunità non abitano in quartieri
precisi, tuttavia si distribuiscono piuttosto omogeneamente nella
città. I dati disponibili, dell’agosto del 200830, sono parziali a cau‐
sa delle difficoltà di rilevamento e fortemente instabili a causa
dei frequenti sgomberi, degli spostamenti “spontanei” e dei rim‐
patri “volontari” (che prevedono la concessione di una piccola
somma economica ed il cui aumento è stato occultato dai media
italiani31). Secondo i dati circa 6000 persone vivono nei 30 campi
gestiti dall’autorità comunale (talvolta poco meno degradati di
quelli spontanei), mentre 4179 vivono in 133 campi spontanei che
si sviluppano come nuclei di baracche e/o tende, o riutilizzando
edifici abbandonati e ruderi archeologici, distribuiti in 18 muni‐
29
Sulla base dei dati relativi al mercato del lavoro possiamo ritenere che l’at‐
tività lavorativa della maggior parte di questi immigrati si svolga infatti a
Roma. Cfr. Caritas (2008).
30
I dati sui campi spontanei abitati attualmente da rom e sinti sono stati for‐
niti dall’Arci‐Karin. Per i campi ufficiali faccio riferimento ai dati presenti in
Caritas (2008). Devo un ringraziamento particolare ad Andrea Masala, che è
il responsabile del progetto, per l’aiuto e le informazioni. Per l’analisi dei
dati è stato fondamentale l’aiuto di Marianna Onano.
31
Solo BBC World ne ha mostrato le immagini.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 423
b/n sata
cipi su 19, con l’esclusione del solo III municipio, dunque anche
nella parte più centrale e storica della città. A differenza di quelli
00 fre
gestiti dal comune i campi spontanei sono privi di acqua, luce, e
2
servizi igienici ed il contatto con le strutture assistenziali e me‐
0x ura
diche è scarso o nullo. Le loro dimensioni sono ridottissime: la
4
1 s
maggior parte è abitata da una o due famiglie (da 5 a 30 perso‐
s
a 3 m bro
ne). Solo 8 campi su 133 sono abitati da più di 100 persone e uno
z z o m to
solo ha 300 abitanti. In 125 campi dunque abitano 2818 persone.
Bo mat men
Sembra dunque possibile parlare di una struttura insediativa “a
polvere”, come l’ha definita efficacemente Leonardo Piasere
all
cro‐campi sempre più piccoli e nascosti32 si è avuta dopo che il
governo italiano attualmente in carica ha avviato un censimento
di rom e sinti, di fatto su base etnica, che prevede la raccolta delle
impronte digitali degli abitanti (all’inizio in forma volontaria),
bambini compresi, anche in assenza di reati. Considerando i luo‐
ghi33 scelti per la costruzione degli accampamenti possiamo con‐
cludere che la loro modalità di insediamento nel territorio
urbano si basa su una strategia di costruzione dell’invisibilità:
come già rilevato in altre occasioni (Piasere 1999), rom e sinti si
rendono invisibili nel momento in cui la repressione verso di loro
è massima e invece ricompaiono quando la situazione è più tran‐
quilla. Siamo dunque di fronte a una terza forma: una periferia
polverizzata che si basa su un modello acentrico e stratificato di
territorio in cui ci si può spostare velocemente e si può fingere di
essere scomparsi.
32
I circa 60 campi abusivi del 2006 si sono più che raddoppiati e la popola‐
zione di ognuno è drasticamente diminuita. Cfr. Caritas (2006 e 2008).
33
Si tratta di sottopassaggi abbandonati, argini dei fiumi Tevere ed Aniene,
piste ciclabili isolate, camminamenti sotto i ponti e lungo le strade tangen‐
ziali, edifici abbandonati, luoghi difficilmente accessibili interni ai parchi
pubblici.
424 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b / n ta
2.5. La città molteplice
0 e sa
Si delinea così un nuovo panorama: una sorta di città molteplice
f r
0 esponenziale,
in cui gli elementi che si muovono dentro e fuori di essa sembrano
2
aumentati
0 x ra e tanto che
in maniera tanto da divenire incontrol‐
1 4città pare
s uoggi lo stesso spazio globale
labili contemporaneamente, il territorio di influenza
3 della
o s dei flussi di movi‐
z a mmmento tracciati dai suoi abitanti. Emerge così una nuova dimen‐
o b r
o z to nterritorio urbano sulla base di appartenenze in cui la dimensione
t
sione politica legata alle condizioni diversificate di accessibilità al
all bili che, sottoposte ad una dinamica intersoggettiva, si rendono
visibili impedendo, o almeno complicando, ogni forma tradizio‐
nale di tracciatura.
Da questo punto di vista occorre considerare l’interazione fra
livello politico e processi di spazializzazione: alle logiche semio‐
tiche sottese alle dinamiche abitative delle comunità considerate
sembra necessario correlare una dinamica di produzione discor‐
siva dei confini analizzabili nei termini delle autodescrizioni
modellizzanti che una comunità culturale produce per stabilire le
differenze fra se stessa e tutto quello che percepisce e vuole defi‐
nire come alterità.
IV. Conclusioni
1. La gestione della diversità
Qual è dunque il senso di due città come Roma e Dubai una vol‐
ta che le si provi a cogliere nel loro insieme e non nei loro infiniti
Fra Roma e Dubai. La città glocale 425
b/n sata
dettagli interni?
Ciò che qui possiamo fare è provare a vedere quale è il senso
00 fre
che emerge nel momento in cui mettiamo in parallelo Roma e
2
Dubai e ci domandiamo come la globalizzazione e la globalità34
0x ura
impattano su di esse.
4
1 s
La prima cosa da notare è che nei nostri due casi il “mondo”
s
a 3 m bro
in quanto agente che cambia in profondità lo spazio urbano si
z z o m to
presenta principalmente sotto le vesti dei flussi migratori.
Bo mat men
Il fattore comune, il fattore globale che riscontriamo in due
città così diverse, quello che mette in moto nuove pratiche così
for esti come nuovi discorsi, ci pare essere infatti la presenza di questi
all
corpi “stranieri”. Questi corpi pur provenendo da altre località,
decisamente situate, spesso fortemente circoscritte, si presentano
nello spazio metropolitano come i rappresentanti del globale o
della globalizzazione. In fuga da guerre e povertà, da climi im‐
pazziti e sogni repressi, effetto e causa delle dinamiche del capi‐
talismo transnazionale, questi corpi appaiono al cittadino co‐
mune come il segno di una globalizzazione imperante e ingo‐
vernabile, per non dire minacciosa, insensata.
L’impatto del mondo su queste metropoli – che è poi esatta‐
mente ciò che le rende tali, che le fa divenire qualitativamente
città‐mondo – le costringe dunque a cambiare.
Da un lato ne muta di fatto la condizione. Dubai non sarebbe
una nuova centralità globale se non fosse luogo di approdo di
migliaia di lavoratori da tutto il mondo orientale (principalmen‐
te) e meta di turisti da tutte le parti del globo. Roma non conti‐
34
Robertson e White (2004, p. 15) distinguono fra “globalizzazione” e “globa‐
lità”: la prima farebbe riferimento principalmente al processo tecnico‐econo‐
mico che ha portato all’interconnessione e all’impressione di omogeneizza‐
zione del globo, la seconda invece avrebbe a che fare con la dimensione cul‐
turale, ovvero con l’interpenetrazione delle diversità, così come con l’aspetto
riflessivo che questo comporta, ovvero la percezione del globo come una
totalità.
426 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
nuerebbe ad essere una città‐mondo – come è stata per lungo
tempo nella sua storia – senza i flussi turistici transnazionali e la
00 fre
presenza di nuovi cittadini immigrati che ne mutano le geografie
2
interne, le mappe della centralità e della perifericità e tuttavia ne
0x ura
riconfermano il cosmopolitismo così come la potenza simbolica e
4
1 s
attrattiva.
s
a 3 m bro Dall’altro lato questa presenza costringe la città, e in partico‐
z z o m to
lar modo chi detiene il potere (quello politico e giuridico, ma an‐
Bo mat men
che quello culturale), a agire su di essa per gestire la diversità.
Nella maggior parte dei casi infatti l’aumento di diversità interno
all
e gli universi di valori consolidati.
Ciò che va tenuto ben presente è che il fatto di “agire” non
implica necessariamente un “fare qualcosa per cambiare”. Come
la semiotica strutturale mostra (Greimas 1983) al fare trasformatore
che cerca di modificare uno stato del mondo per ottenerne un al‐
tro diverso si affianca un altro tipo di fare, vale a dire quello che
interviene davanti al cambiamento per far sì che esso non si pro‐
duca. Si tratta, in altri termini di un fare trasformatore conserva‐
tivo, quel fare che viene messo in opera davanti alla spinta ete‐
rogeneizzante del tempo, dei cambiamenti sociali ecc., per far sì
che un dato stato del mondo non si modifichi ma rimanga il più
possibile lo stesso. Basterebbe pensare, per fare un esempio bana‐
le ma molto concreto, a tutte le azioni che compiamo quotidia‐
namente per far sì che la nostra casa si mantenga “in ordine”,
ovvero in un dato ordine (potrebbe anche trattarsi ad esempio di
un “disordine confortevole, progettato, organizzato”).
In generale dunque possiamo dire che l’impatto della diversi‐
tà sullo spazio metropolitano costringe ad una ristrutturazione e
riarticolazione dello spazio stesso, vale a dire a una sua messa in
forma attraverso una pluralità di donazioni di senso. Trasforma‐
zioni architettoniche e scelte urbanistiche, certo; ma anche ridefi‐
nizioni giuridiche, riscritture culturali, narrazioni politiche che
Fra Roma e Dubai. La città glocale 427
b/n sata
entrando nel corpo della città la modificano per divenire altra,
per adattarsi o far esplodere il cambiamento, o per farla rimanere
00 fre
così com’è o come si vorrebbe che fosse.
2
In definitiva l’insorgere, o il risorgere, della diversità inter‐
0x ura
namente al corpo sociale che costituisce (e si costituisce attraver‐
4
1 s
so) lo spazio cittadino manda in pezzi al contempo il senso della
s
a 3 m bro
comunità acquisito così come la città in quanto “referente globale
z z o m to
immaginario” consolidato. Attenzione, parlando di “senso della
Bo mat men
comunità” non intendiamo banalmente una nostalgica idea di
comunanza e omogeneità (benché la nostalgia per un passato di
for esti comunanza sia spesso un effetto a posteriori del frantumarsi del
all
corpo sociale) ma piuttosto una determinata e provvisoria, e tut‐
tavia condivisa, articolazione dei conflitti. Anche dal punto di vi‐
sta della città in quanto “referente globale immaginario” bisogna
essere molto cauti: a venir meno non è soltanto uno stereotipo
della città o una serie di luoghi comuni su di essa. A incrinarsi è
anche la percezione abituale e vissuta del tessuto cittadino: l’arti‐
colazione dei suoi confini interni, la riconoscibilità della memoria
inscritta nei luoghi, la gerarchizzazione valoriale degli spazi, ov‐
vero il significato che ciascuno di essi aveva acquisito fin quasi
ad apparire ovvio e naturale.
Certo è che in questo gioco uno dei momenti forti di attrito sta
proprio nel rapporto fra le strutturazioni del corpo sociale e i
cambiamenti effettivi della città da un lato e l’autodescrizione
che di tutto ciò danno degli attori privilegiati dotati di “potere”.
In altri termini l’attrito si crea fra le spinte prodotte dalla diversi‐
tà e il tentativo del potere di usare le descrizioni della città per
incanalare le spinte che arrivano dal basso, per orientarne lo svi‐
luppo, per gestire – in modo più o meno creativo e coraggioso –
la diversità.
A Dubai ad esempio, al tumultuoso sviluppo urbano e archi‐
tettonico della città, alla strabordante presenza di immigrati –
l’80% della popolazione – fa da contraltare una società per più
428 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
versi bloccata: il corpo sociale è fortemente gerarchizzato35 e ap‐
pare composto, a ben guardare, da blocchi sociali quasi imper‐
00 fre
meabili (in particolar modo in pubblico) definiti da un misto di
2
appartenenza etnica, di ceto e di classe, tale per cui la mobilità
0x ura
sociale è abbondantemente ristretta. Lo stesso accesso alla pro‐
4
1 s
prietà privata da parte dei non locals è impedito o in qualche modo
s
a 3 m bro
limitato. Ciononostante Dubai si autodescrive come luogo in tu‐
z z o m to
multuoso divenire e dalle opportunità uniche, praticamente ac‐
Bo mat men
cessibili a tutti.
Roma si presenta molto più fluida dal punto di vista sociale e
all
dunque il cambiamento e la ridefinizione dell’identità – è indefi‐
nitamente sospeso: “La città eterna” appunto, in cui il passato, la
sua messa in scena, sembra contare ancora di più del suo presen‐
te e del suo futuro. Ma come dicevamo non si tratta solo di luo‐
ghi comuni. La stessa diffidenza verso l’innovazione architettoni‐
ca, verso la trasformazione del tessuto urbano con l’inserimento
di elementi moderni, come è accaduto in modo eclatante con
l’Ara Pacis di Meier, è sintomatica del complesso rapporto della
città con se stessa. Ancor più profondamente: le recenti dichiara‐
zioni del primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, secondo cui
l’Italia non è una “società multietnica” e l’epiteto di “città africa‐
ne” scagliato contro le grandi metropoli (Milano in primis) per
indicarne il presunto degrado, è indicativo dell’insofferenza della
diversità da parte del potere politico dominante. In tal senso le
metropoli, le città come Roma, più che il luogo di sperimentazio‐
ne sociale, per quanto complessa, di nuove forme di convivenza,
diventano i luoghi su cui sperimentare nuove forme di repres‐
35
Nella vulgata comune (potremmo anche chiamarla “categorizzazione folk”) i
tre grandi blocchi principali per segmentare la popolazione di Dubai sono i
Locals (ovvero gli emiratini), gli Expats (ovverdo gli immigrati “occidentali”),
e poi tutti gli altri, vale a dire la grande massa di immigrati senza nome e per
lo più senza cittadinanza e con scarsi diritti (cfr. Hari 2009).
Fra Roma e Dubai. La città glocale 429
b/n sata
sione e ghettizzazione. L’autodescrizione statica, la costruzione
di un modello di sé impermeabile alla diversità, diventa al con‐
00 fre
tempo fattore di autopercezione semplificata tanto quanto orien‐
2
tamento all’azione contro la diversità.
4 0x ura
Ma ciò che realmente colpisce è il modo in cui la gestione del‐
1 s
la diversità coinvolge la costruzione delle maggioranze e delle mino‐
s
a 3 m bro
ranze.
z z o m to Mentre a Dubai gli immigrati non occidentali sono di fatto la
Bo mat men
stragrande maggioranza della popolazione essi sono – attraverso
la ghettizzazione spaziale, la spoliazione di diritti di cittadinan‐
all
za” semiotica. La loro presenza maggioritaria viene gestita in
diversi modi. In primo luogo trasformando questa maggioranza
in un fantasma invisibile, o un’ombra sfuggente, che aleggia sulla
città senza potersi rendere effettivamente visibile. È come se gli
immigrati vivessero “nel retro”, fossero dietro le quinte. E in ef‐
fetti così spazialmente è, dato che è come se alla città lussuosa e
scintillante corrispondesse un’anti‐città, un’anti‐Dubai che sor‐
regge la prima mentre si nasconde. Essa sparisce alla vista men‐
tre è sotto gli occhi di tutti, mentre è sotto quegli occhi impossi‐
bilitati a vedere proprio perché accecati dal lusso e dallo stupore
emanati dalla “Dubai” che si dà potentemente (semioticamente)
a vedere. In secondo luogo questa maggioranza viene trasforma‐
ta in un mosaico di minoranze rinchiuse su se stesse. Si tratta di un
processo di autodefinizione minoritaria che molto spesso avvie‐
ne per la stessa volontà dei singoli, che nel tentativo di proteg‐
gersi dalla violenza dello spaesamento e delle difficili condizioni
di vita ristabiliscono legami comunitari basati sull’appartenenza
religiosa, nazionale, linguistica. Infine questa maggioranza, posta
sotto pressione dal massacrante ritmo di lavoro di Dubai, si
smembra in puri e semplici corpi in lotta per la sopravvivenza in‐
dividuale. La stessa difficoltà delle masse di lavoratori nel campo
dell’edilizia nell’organizzarsi per difendere i propri diritti indica
430 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
quanto sia difficile fare corpo collettivo per opporsi al potere.
A Roma invece la popolazione immigrata è di fatto una mino‐
00 fre
ranza ma viene descritta, e alla lunga percepita, come se fosse
2
una maggioranza pervasiva ed invasiva. Le piccole minoranze di
0x ura
immigrati, in particolar modo se comparate con i numeri di altre
4
1 s
città o società (e qui si può certo pensare a Dubai, ma forse sa‐
s
a 3 m bro
rebbe meglio riferirsi a Londra o a New York), divengono così
z z o m to
una grande maggioranza minacciosa. Tanto più grande e minac‐
Bo mat men
ciosa quanto più invisibile e polverizzata.
La paura si nutre di strani paradossi. Nella percezione quoti‐
all
minoritaria, diviene segno di minacciosa onnipresenza. Il potere
politico dal suo canto, mentre costruisce il senso di una città in‐
vasa da “extracomunitari”, e in quanto tale sempre meno “sicu‐
ra”, scandisce chiaramente che “l’Italia non è una società mul‐
tietnica”. Se si trattasse di constatazioni descrittive si dovrebbe
dire “delle due l’una”: se si è invasi da immigrati allora si è una
società multietnica, se non si è una società multietnica allora non
ci sono così tanti immigrati in giro (o al limite, a voler essere coe‐
renti, non ce n’è neanche uno).
È evidente tuttavia che le due affermazioni contraddittorie
hanno tutt’altra funzione, e tutt’altro tono, che quella descrittiva.
Esse sono assolutamente, decisamente, coerentemente prescritti‐
ve. Prescrivono come percepire la realtà metropolitana che ci sta
intorno, ma soprattutto prescrivono come agire su di essa. È una
chiara gestione della diversità anche quella che vuole fare in mo‐
do che la diversità non ci sia
2. Potere globale e antipoteri locali
Come abbiamo appena visto (§ IV.1.) il rapporto fra autodescri‐
zione culturale e potere politico pare fondamentale. Mi sembra
utile riprendere alcune ipotesi teoriche che credo siano affini
Fra Roma e Dubai. La città glocale 431
b/n sata
alle problematiche che stiamo affrontando. I semiotici della
scuola russa, e Lotman in particolare, che ne è stato il fondato‐
00 fre
re, hanno posto il problema della doppia funzione dei linguag‐
2
gi. Per loro essi sono sempre stati insieme strumenti di infor‐
0x ura
mazione ma allo stesso tempo di autodescrizione: con termine
4
1 s
ancor più specifico, dei “sistemi modellizzanti”. I linguaggi so‐
s
a 3 m bro
no stati considerati cioè come dei sistemi di produzione di mo‐
z z o m to
delli della cultura, per cui qualunque comunicazione può pre‐
Bo mat men
vedere, e generalmente prevede, una descrizione implicita della
cultura che la esprime.
for esti Le culture, nella visione degli studiosi russi, sono costante‐
all
mente impegnate, attraverso la continua produzione di testi, in
un processo di descrizione di se stesse e di rideterminazione dei
propri confini. Questo è possibile solo attraverso un processo
di individuazione e produzione di alterità. L’autodescrizione
ha cioè un valore performativo: nello stesso momento in cui ri‐
definisce l’immagine della cultura a cui si riferisce, costruisce
l’immagine di altre culture, distorcendole fino a farle coincidere
col proprio doppio deformato. La produzione di auto descrizioni
ha inoltre un aspetto dinamico: può portare a una ristrutturazio‐
ne globale dell’immagine che una cultura ha di sé, che si traduce
generalmente nella selezione dei testi e dei tratti che la esprimo‐
no. Ognuna di queste ristrutturazioni modellizzanti produce un
aumento dell’omogeneità e della coerenza interna del sistema
culturale, ne impedisce dunque lo sfaldamento, ma contempora‐
neamente lo impoverisce attraverso una diminuzione netta del‐
l’eterogeneità dell’informazione che circola al suo interno.
È interessante pensare al risultato finale di tutti questi proces‐
si di ristrutturazione selettiva dell’identità: il proprio annulla‐
mento. Una cultura che si rende sempre più coerente tende alla
ripetizione totale, alla sinonimia generalizzata. A partire dagli
studi di semiotica della cultura pare invece che la sua ricchezza
stia solo nella sua capacità di essere contraddittoria: più elementi
432 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
incompatibili è in grado di contenere, più è dinamica e lontana
dall’entropia.
00 fre
Tuttavia, la possibilità di autodefinizione nasce solo dalla co‐
2
struzione di differenze con l’alterità: tanto più esse saranno mar‐
0x ura
cate, più saranno unificanti. Così la differenza radicale si ha
4
1 s
quando l’altro è ridotto ad una massa amorfa priva di definizio‐
s
a 3 m bro
ne: la semplice negazione di se stessi. Quando ad una semiosfera,
z z o m to
una comunità culturale intesa in senso semiotico, questa alterità
Bo mat men
manca, essa se la crea. Lotman indica questi processi come “co‐
struzione del barbaro”, e fa l’esempio dei greci e dei romani: no‐
for esti nostante i barbari fossero composti da un coacervo di popo‐
all
lazioni diverse essi erano considerati un’unica massa indistinta e
balbettante, e non potendo parlare la lingua di chi li descriveva,
si considerava che essi non ne conoscessero alcuna. Lotman ha
però messo in evidenza un altro aspetto di questo fenomeno, re‐
lativo alla costituzione delle marginalità interne ad uno stesso
spazio culturale:
Ogni cultura crea il proprio sistema di “marginali”, reietti, coloro
che non si iscrivono al suo interno e che una descrizione sistema‐
tica e rigorosa esclude. L’irrompere nel sistema di ciò che è extra‐
sistematico costituisce una delle fondamentali fonti di trasfor‐
mazione di un modello statico in un modello dinamico (Lotman
1994, p. 21).
Le forme abitative che i dati e l’analisi permettono di evidenziare
si configurano come tattiche di resistenza a questo tipo di pro‐
cessi. Assumendo e portando all’estremo le forme della margina‐
lizzazione spaziale esse ne mettono in questione gli esiti fino,
talvolta, a rovesciarne i risultati. La marginalizzazione vissuta
diventa, nelle mani delle comunità immigrate, il mezzo stesso
per sottrarsi alla logica dell’esclusione creando un proprio spazio
di autonomia mettendo in atto delle forme di antipotere proprio
nella pratica della città.
Fra Roma e Dubai. La città glocale 433
b/n sata
Con una notevole capacità di semplificare e complessificare
strategicamente la gamma delle relazioni urbane le comunità
00 fre
bangladesi e cinesi hanno riarticolato localmente la relazione fra
2
centro e periferia e si sono poste nella “periferia del centro” della
0x ura
città; esasperandola all’estremo, le comunità rumena, albanese, e
4
1 s
polacca hanno individuato dei luoghi dove fosse possibile rico‐
s
a 3 m bro
stituirsi come comunità; facendone completamente economia,
z z o m to
per valorizzare solo la relazione fra pieni e vuoti urbani, i rom
Bo mat men
hanno rifiutato l’imposizione del nomadismo e sono rimasti do‐
ve volevano.
all
grate, non accettando la marginalità e simulando la propria invi‐
sibilità, evidenziano nodi critici e contraddizioni della città con‐
temporanea.
434 Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli
b/n sata
Tabella A ‐ Concentrazione dei cittadini stranieri nel Lazio per principali paesi di
provenienza (mia elaborazione su dati Caritas 2006)
00 fre
2 % % % % %
0x ura
Provenienza Italia Lazio PR. RM. Roma PR.-RM. L.-PR.
L/I PR/L R/PR PR-R/PR L-PR/L
14 s s
Residenti tot. 59.131.287 5.493.308 9,29 4.013.057 73,05 2.747.689 68,47 1.265.368 31,53 1.480.251 26,95
a 3 m bro
z o m to
Albania 375.947 18.389 4,89 11.344 61,69 4.784 42,17 6.560 57,83 7.045 38,31
z
Bo mat men
Romania 342.200 76.055 22,23 62.020 81,55 31.362 50,57 30.658 49,43 14.035 18,45
for esti
Polonia 72.475 19.036 26,27 16.492 86,64 10.614 64,36 5.878 35,64 2.544 13,36
all
Ucraina 120.070 11.673 9,72 8.613 73,79 6.207 72,07 2.406 27,93 3.060 26,21
Egitto 65.667 8.031 12,23 7.708 95,98 6.462 83,83 1.246 16,17 323 4,02
Cina 144.885 8.877 6,13 8.144 91,74 7.364 90,42 780 9,58 733 8,26
Bangladesh 49.575 9.820 19,81 9.332 95,03 8.927 95,66 405 4,34 488 4,97
% L/I perc. residenti nel lazio su totale italia (stessa nazionalità)
% PR/L perc. residenti in provincia di roma su totale lazio (stessa nazionalità)
% R/PR perc. Residenti a roma su totale provincia di roma (stessa nazionalità)
% PR‐R/PR perc. residenti in provincia di roma (esclusa roma) su totale provincia
% L‐PR/L perc. Residenti nelle altre province del lazio (esclusa roma) su totale residenti
lazio (stessa nazionalità)
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n
b sata
/ Gli Autori
4
l’Università
1 s u
s
sulle “Lingue immigrate in Italia”, del Centro di Eccellenza della Ricerca
a m b ro
3 mdelle lingue immigrate in Italia. Tra le sue pubblicazioni, La competenza
‐ Osservatorio linguistico permanente dell’italiano diffuso fra stranieri e
o zz to nquasi‐bilingue/quasi‐nativa.
t o Le preposizioni in italiano L2 (Milano, Franco
B ma me menti (Milano, Franco Angeli, 2008).
Angeli, 2004); con M. Barni e D. Troncarelli ha curato Lessico e apprendi‐
for esti
all
M B è professore associato in Didattica delle lingue moderne
ONICA ARNI
presso l’Università per Stranieri di Siena, dove dirige il “CILS” (Certifi‐
cazione di italiano come lingua straniera). Ha pubblicato con T. De
Mauro, M. Vedovelli e M. Miraglia, Italiano 2000. Indagine sulle motiva‐
zioni e sui pubblici dell’italiano diffuso fra stranieri (Roma, Bulzoni, 2002);
con C. Bagna e D. Troncarelli, Lessico e apprendimenti (Milano, Franco
Angeli, 2008); con G. Extra, Mapping linguistic diversity in multicultural
contexts (Berlin, Mouton de Gruyter, 2008); ha curato inoltre con F. Giu‐
liani, Il logos nella polis. La diversità delle lingue e delle culture, le nostre iden‐
tità (Roma, Aracne, 2008).
MARIAROSA BOVA è dottoranda in Scienze della Comunicazione presso la
Sapienza Università di Roma, dove collabora con la cattedra di Semioti‐
ca. Si occupa di semiotica dello spazio e arte contemporanea, metropoli,
architetture espositive e consumi culturali.
ORAZIO CARPENZANO, architetto, professore di Composizione architetto‐
nica e urbana nella Facoltà di Architettura “Ludovico Quaroni” della
Sapienza Università di Roma, presidente della Commissione Cultura
della Facoltà, membro della Giunta del Dipartimento di Architettura
nell’Ateneo Federato delle Scienze Umane dell’Arte e dell’Ambiente e
del Collegio Docenti del Dottorato di Composizione Architettonica‐
Teorie dell’Architettura.
456 Gli Autori
b/n sata
GIANNI CELESTINI è professore associato in Architettura del paesaggio
presso la “Mediterranea” di Reggio Calabria, dove svolge attività di in‐
00 fre
segnamento e di ricerca applicata sui temi del progetto dello spazio pub‐
blico urbano e del paesaggio. È autore di numerosi progetti, per concorsi
2
0x ura
e per interventi urbani su commissione. Fra le sue ultime pubblicazioni:
14
“Paesaggio geografico”, in Il secolo breve (1908‐2008). Rovine e ricostru‐
s s
zioni (Reggio Calabria, Centro Stampa Ateneo, 2009).
a 3 m bro
z z o m to
PIERLUIGI CERVELLI insegna Scienze semiotiche presso la Facoltà di Scien‐
Bo mat men
ze della Comunicazione della Sapienza Università di Roma. Si occupa di
periferie urbane, flussi migratori e città globali. Oltre a vari saggi ha
for esti
pubblicato La città fragile (Roma, Lithos, 2008) e ha curato, con I. Pezzini,
Scene del consumo (Roma, Meltemi, 2006).
all
VINCENZA DEL MARCO è dottoranda in Scienze della comunicazione
presso la Sapienza Università di Roma. Svolge attività didattica e di ri‐
cerca in ambito semiotico. Si occupa di forme brevi audiovisive e del
rapporto fra immagini e nuovi media.
PAOLO DEMURU è dottorando in Discipline Semiotiche presso l’Istituto
Italiano di Scienze Umane e l’Universidade de São Paulo (Brasile). Si oc‐
cupa di Semiotica della Cultura e Sociosemiotica. Oggetto della sua tesi
di dottorato è la storia del calcio brasiliano nei suoi rapporti con il pro‐
cesso di costruzione dell’identità e degli stereotipi nazionali.
MAURIZIO GARGANO è ricercatore presso la facoltà di Architettura dall’U‐
niversità degli Studi di Roma Tre dove insegna Storia dell’Architettura.
Nella sua attività di ricerca – confluita nella pubblicazione di vari saggi
su riviste o volumi collettivi – si è occupato prevalentemente dei rappor‐
ti tra architettura e città e degli effetti della produzione della trattatistica
e della manualistica di architettura nella progettazione architettonica.
ALESSIA MAGGIO, architetto, è dottoranda in Architettura‐Teorie e Pro‐
getto alla Sapienza Università di Roma, dove svolge attività di ricerca in
particolare sul rapporto tra spazio e architettura.
Gli Autori 457
b/n sata
ADRIANA MAGRO è dottoranda presso l’Università Federale di Espírito
Santo in Brasile, svolge attività di ricerca nel laboratorio di “Pratiche di
00 fre
Educazione Sociale” e al centro di Sociosemiotica (PUCS di São Paulo,
CNRS di Parigi). Attualmente si dedica allo studio del materiale didatti‐
2
0x ura
co nell’arte presso il laboratorio “Arte Scuola”, nello Stato di Espírito
1
4
Santo in Brasile.
s s
a 3 m bro
DANIEL MODIGLIANI, nato a Roma nel 1945, si è laureato in urbanistica
z z o m to
con Ludovico Quaroni. Libero professionista per più di venti anni, ha
Bo mat men
lavorato per il pubblico e per il privato in urbanistica ed architettura.
Dal 1994 dirigente del Comune di Roma, ha condotto all’approvazione i
for esti
piani attuativi di recupero delle periferie romane sia quelli tradizionali
sia quelli innovativi. Dal 2001 responsabile dell’Ufficio del Piano Rego‐
all latore, ha condotto il nuovo piano all’approvazione nel 2008.
PIERPAOLO MUDU si occupa di geografia urbana e della popolazione, e
di esposizione al rischio. Ha svolto la sua attività di ricerca presso la
Sapienza Università di Roma e poi in Inghilterra, negli Stati Uniti, in
Francia, in Corea del Sud. Attualmente lavora con il centro Ambiente
e Salute del WHO‐EURO. I suoi articoli sono stati pubblicati in diver‐
si libri e su riviste come «ACME», «Antipode», «Geojournal», «Urban
Geography».
ELISA PARDINI si è laureata nel 2006 all’Università di Roma Tre, è iscritta
all’albo degli architetti in Italia e all’ARB in Gran Bretagna, ha lavorato
nello studio Fuksas a Roma dal 2007 al 2008, attualmente svolge la sua
attività a Londra presso lo studio Foster+Partners.
ISABELLA PEZZINI è professore straordinario di Scienze semiotiche presso la
Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Ro‐
ma. Il suo ultimo libro si intitola Immagini quotidiane. Per una sociosemiotica
visuale (Roma‐Bari, Laterza, 2008). Di recente ha curato con Gianfranco
Marrone Senso e metropoli. Per una semiotica posturbana (Roma, Meltemi,
2006) e Linguaggi della città. Senso e metropoli II (Roma, Meltemi, 2008).
MOEMA REBOUÇAS, dottore di ricerca in Comunicazione e semiotica, è
Professora adjunta al Dipartimento di formazione degli insegnanti, uni‐
458 Gli Autori
b/n sata
versitari e post‐laurea dell’Università Federale di Espírito Santo in Bra‐
sile, e svolge la sua attività di ricerca al centro di Sociosemiotica (PUCS
00 fre
di São Paulo, CNRS di Parigi). Si dedica, in particolare, allo studio della
semiotica visiva.
2
0x ura
14
LEONARDO ROMEI è dottore di ricerca in Scienze della comunicazione alla
s s
Sapienza di Roma; ha sviluppato, presso l’ESCoM della FMSH di Parigi,
a 3 m bro
il sito archiviosemiotica.eu; è attualmente docente di Semiotica all’ISIA di
z z o m to
Urbino. Si è occupato, in saggi e interviste, di arte, progettazione, archivi
Bo mat men
digitali e nuovi media.
for esti
PIERO OSTILIO ROSSI, ordinario di Composizione architettonica e urbana
nella Facoltà di Architettura “L. Quaroni” della Sapienza. È Coordinato‐
all re del Dottorato di Ricerca in Architettura. Teorie e Progetto. Per l’edi‐
tore Laterza ha scritto Roma. Guida all’architettura moderna di cui sono
state pubblicate tre edizioni (Roma, 1984, 1991 e 2000) e La costruzione del
progetto architettonico (Roma, 1996). Per Donzelli, il libro a più voci Roma.
Dieci anni di una capitale (Roma, 2003) e per Electa Roma. La nuova archi‐
tettura (Milano, 2006), con Giorgio Ciucci e Francesco Ghio.
ROBERTO SECCHI è professore ordinario di Composizione architettonica e
urbana, dirige il Laboratorio di Teorie e critica dell’architettura contem‐
poranea del Dipartimento di Architettura della Sapienza Università di
Roma, presso il quale svolge la sua attività di ricerca e di progettazione
prevalentemente nel campo del progetto urbano, ha pubblicato e curato
numerosi volume della collana “Tracce” nella quale molti aspetti delle
problematiche dell’architettura contemporanea sono indagati alla luce
di itinerari genealogici delle modernità.
FRANCISCU SEDDA, attualmente vicepresidente dell’Associazione italiana
studi semiotici, è ricercatore presso l’Università Tor Vergata di Roma.
Fra i suoi lavori Tradurre la tradizione (Roma, Meltemi, 2003), la cura del
volume Glocal (Roma, Sossella, 2004) e della raccolta di saggi di Jurij
Lotman, Tesi per una semiotica delle culture (Roma, Meltemi, 2006). Porta
avanti insieme all’Università PUCS di São Paulo (Brasile) un progetto
internazionale di studio semiotico della città.
Gli Autori 459
b/n sata
ILARIA TANI è ricercatore di Filosofia e Teoria dei linguaggi presso la Fa‐
coltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Ro‐
00 fre
ma. Ha pubblicato il volume L’albero della mente. Sensi, pensiero, linguag‐
gio in Herder (Roma, Carocci, 2000) e diversi saggi sulla storia delle teorie
2
0x ura
linguistiche e su specifici aspetti teorici e metodologici della ricerca so‐
1
4
ciolinguistica.
s s
a 3 m bro
MASSIMO VEDOVELLI è professore ordinario di Didattica delle Lingue
z z o m to
Moderne e Rettore dell’Università per Stranieri di Siena. È coordinatore
Bo mat men
della linea di ricerca “Lingue immigrate in Italia” e di un progetto FIRB
(2009‐2012) sullo spazio linguistico degli emigrati italiani. Tra le sue più
for esti
recenti pubblicazioni: Guida all’italiano per gli stranieri (Roma, Carocci,
2002), L’italiano degli stranieri (Roma, Carocci, 2002); con T. De Mauro T.,
all M. Barni, M. Miraglia, Italiano 2000. Indagine sulle motivazioni e sui pubbli‐
ci dell’italiano diffuso fra stranieri (Roma, Bulzoni, 2002); ha curato inoltre
il Manuale della certificazione dell’italiano L2 (Roma, Carocci, 2005).
UGO VOLLI è professore ordinario di Semiotica del Testo presso l’Uni‐
versità di Torino, dove dirige il Centro Interdipartimentale di Ricerca
sulla Comunicazione. Tra le sue aree di ricerca vi sono la filosofia della
comunicazione, la semiotica della pubblicità, dei nuovi media, dei testi
religiosi, della città. Tra le sue più recenti pubblicazioni Semiotica della
pubblicità (Roma‐Bari, Laterza, 2003), Laboratorio di semiotica (Roma‐Bari,
Laterza, 2005), Lezioni di Filosofia della comunicazione (Roma‐Bari, Laterza,
2008).
FRANCO ZAGARI, architetto, paesaggista, è ordinario di Architettura del
paesaggio all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, dove è coor‐
dinatore del dottorato in Parchi, giardini, assetto del territorio. È autore
di saggi e libri (fra cui Questo è paesaggio. 48 definizioni, Roma, Mancosu,
2006; Giardini, Roma, Mancosu, 2009) e progetti realizzati in Italia e all’e‐
stero. Primo Premio europeo Gubbio 2009.
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Finito di stampare nell’ottobre 2009
con tecnologia print on demand
presso il Centro Stampa “Nuova Cultura”
P.le Aldo Moro, 5 ‐ 00185 Roma
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Per ordini: ordini@nuovacultura.it
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