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La religiosità misterica nella Magna Grecia è intimamente connessa alla

presenza di un vasto corredo di culti iniziatici. Queste forme di religiosità


sono a volte osmotiche ed altre volte contrastanti con la stabile cosmologia
olimpica. I famosi e misteriosi "goeti", ad esempio, (purificatori e
guaritori) collegati a culti molto antichi, sembrano evocare fortemente
l'idea di uno sciamanesimo primordiale comune a tutta l'area pan­
ellenica. Questi esseri, a metà stradafra il mago e il sacerdote, vantavano
spessofiliazioni divine, ed esiste tutta una cosmogonia primordiale che ne
giustifica le potenzialità misteriche e salvifiche.
Il testo si sofferma sulle "prescrizioni" formali, suf "comportamenti"
pitagorici, così come abbondantemente riportati da Giamblico e da
Proclo, e sulla loroformulazione attraverso i "symbola" che ne occultano
il senso, spesso dietro una apparente semplicità etica.
Viene quindi specificamente riesaminato il simbolismo di Mnemosine,
in una chiave eminentemente pitagorica, ricordando la funzione che
Diogene Laerzio (che rinvia a sua volta ad un testo perduto di Polystore)
fa assumere alla dottrina del sangue, come veicolo animico, e a quella
del "soffio" o respiro, come elemento vivificatore e animatore del sangue
stesso. Ciò richiama tutta una serie di termini, spesso affrettatamente
tradotti in passato, che ipotizzano un'articolata metodologia realizzativa,
basata anche sulle tecniche del respiro e sul "refrigerio dell'anima"
soccorsa da tale respiro "fresco" a causa di Mnemosine.

Nuccio D'Anna si è occupato di simbolismo, dottrine spirituali e storia delle religioni. E'
membro della Società italiana degli Storici delle Religioni. I suoi scritti hanno toccato in
modo particolare il mondo classico sul quale, fra i molti altri, ha scritto: Il Neoplatonismo
(1989); Il dio Giano (1992), La Disciplina del Silenzio. Mito, Mistero ed estasi nell'antica
Grecia (1995); Il divino nell'Ellade (2004); Il Gioco Cosmico. Tempo ed eternità nell'antica
Grecia (2006); Mistero e profezia. La N egloga di Virgilio e il rinnovamento del mondo
(2007); Publio Nigidio Figulo. Un pitagorico a Roma (2008).
Ha anche esaminato alcune correnti mistico-estatiche del Medio Evo in La Sapienza
nascosta (2001); Il Segreto dei Trovatori (2005); Il Santo Graal. Mito e realtà (2009); Il
Cristianesimo celtico (2010).
Da anni studia le dottrine orientali occupandosi in modo specifico della spiritualità indù e
dei suoi rapporti con la cultura europea, in particolare quelli esistenti fra il Neoplatonismo e
alcune forme del Vediinta indiano. Collabora con prestigiose riviste di studi storico-religiosi
italiane e internazionali.

€ 26,00 ,[[]],
Nuccio D'Anna

DA ORFEO
APITAGORA
Dalle estasi arcaiche all'armonia cosmica

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In copertina: Il tripode delfico, con tori, cavalli e leoni, ritrovato a Metaponto e attual­
mente al Staatliche Museen di Berlino (metà del VI sec. a.C.).

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Simmetria edizioni - associazione culturale
Via Muggia 10- 00195 Roma

Te! 06-37351335

E-mail: injo@simmetria.org

Grafica e impaginazione: P. T. Benedetti

Finito di stampare nell'equinozio d'inverno 2010


presso la tipografia Stampa Editoriale srl

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degli autori, in altri casi, sono parziali riproduzioni di opere note e pubblicate in più siti;
per le stesse è stata richiesta autorizzazione e qualora ciò non fosse stato possibile l'editore
è a disposizione per regolare le spettanze di eventuali aventi diritto, al momento ignoti.
Indice

Presentazione ........................... ................................................... . . . ..


. . ... . . ...... . pag. 7

PARTE PRIMA
L'ORFISMO E LA LIBERAZIONE DAL CICLO DELLA NECESSITÀ

l. Correnti spirituali arcaiche..... . ........ ... .. . . .... .. . .


. . .... . . ..... ........ . ..... . . . ... . . . pag. 1 7
"
2. "E Orfeo venne,.figlio di Apollo . . . ................................................... pag. 3 1

3. L'Uovo cosmico .. ..... ............... ........................... ...... . .. .. . .


.. . .. . . .. . ... ... ...... . pag. 57
.

"
4. "Zeus nacque per primo, per ultimo Zeus dalla vivida folgore ... .... .
. ..

. . . . . . . . ............ . . . . . . ........... . . . . . .................... . . ......................... . . . ....... . . . . . ..... ............. pag. 68

5. Il sacrificio di Dioniso .... . ... . ... ... .... . ........ .. .. . . .............. ........ pag. 77
. . . . . . . . .. . .. . . .. .

6. Il ciclo della necessità e i rituali di liberazione............................... pag. 98

PARTE SECONDA
KOSMOS E PERFEZIONE ARMONICA

l. Climaterium delle civiltà .. . . . ..... . . .. ..... .... . . ...... . .


. . .. ... . . .. .... . . .. . . ..
. . .. ..... .... pag. 1 23

2. Pitagora ............................................... .............................................. ... pag. 1 30


. .

3. Le radici spirituali . .. ........ ....... .. ...... .... ......... ................. ........ . pag. 1 48
. . .. . . . .. .. . ..

4. Il Pizio ........ . . . . . . . . ........ . . . . . . . . . . . . . . . . ........ . . . ....... ................. . . . .......... . . .. . . . . . ... pag. 1 67

5. Mnemosyne e le tecniche meditative ............... ....... .. ... ................ pag. 1 85 . . . .

6. I princìpi del reale . .


. . ............ ..... . . . . . . .... . . . . ...... . . .
. .. . . ... .. . . ..... . ..... . . . . .. pag. 1 95
.. .. .. .

7. L'armonia delle sfere ... .......... . . . . ..................... ............ . . . . . . . . . . ....... ....... pag. 224
Presentazione

di Claudio Lanzi

Molti aspetti della disciplina e della metafisica pitagoriche, così


come riportate dagli allievi diretti o indiretti della scuola di Cro­
tone qualiforse si consideravano i neoplatonici Proe/o e Giamblico,
traggono vita e ispirazione dalle preesistenti filosofie e religiosità
d'ordine orfico. In questo testo si dimostrano efficacemente tali tesi
sulla base di un vastissimo apparato documentale e presentando
alcune conclusioni del tutto originali o, comunque, scarsamente
analizzate in Italia.
La religiosità misterica nella Magna Grecia è intimamente connessa
alla presenza di un vasto corredo di culti iniziatici. Queste forme
di religiosità sono a volte asmatiche ed altre volte contrastanti con
la stabile cosmologia olimpica. I rappresentanti dei culti misterici
hanno avuto, nel passato come fino ai nostri giorni, esponenti credi­
bili e "imbonitori" a vario titolo, messi in ridicolo molto spesso dai
rappresentanti di una cultura ufficiale. /famosi e misteriosi "goeti",
ad esempio, (purificatori e guaritori) collegati a culti molto remoti,
sembrano evocare fortemente l'idea di uno sciamanesimo primor­
diale comune a tutta l'area pan-ellenica. Questi esseri, a metà strada
fra il mago e il sacerdote, vantavano spesso filiazioni divine ed esiste
tutta una cosmogonia primordiale che ne giustifica le potenzialità
misteriche e salvifiche. Basti pensare ai culti relativi ai Dattili Idei
(i "forgiatori ", gli esperti nel/ 'arte del metallo) che, secondo alcuni
sono alla origine dell 'istruzione dello stesso Orfeo.
Nel testo di Nuccio D 'Anna si fa grande attenzione alla divisione fra
diverse cultualità, cercando di evitare i riduzionismi che portano a

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vedere qualsiasi misteriosofia primordiale presente ne/l 'El/ade come
riferentesi esclusivamente alla Demetra eleusina. Ed è proprio in tale
contesto che viene testimoniata una fitta presenza di asceti vaganti di
tradizione orfico-apollinea, (alcuni inseribili forse in vere e proprie
confraternite, altri con un modus operandi assolutamente eremitico)
che guarivano, consigliavano, purificavano città e persone, trae­
vano responsi, ma soprattutto mantenevano la loro ascesi e il loro
isolamento dal mondo, vagando da una parte all'altra della Grecia
e delle regioni limitrofe.
In questo volume viene più volte citato il papiro di Derveni (vicino
ali 'attuale Salonicco), scoperto nel1962, contenente un particolare
testo orfico da cui è possibile trarre una cosmogonia assai diversa da
quella classica. Assai interessanti risultano le numerose considera­
zioni semiologiche sul significato del nome di Orfeo (dal "solitario ",
ali ' " orfano ") ad indicare una condizione di tipo misteriosofico, pro­
pria dell 'essere chiamato con questo nome; in questa chiave diventa
illuminante l 'excursusfilosofico e semiologico che D 'Anna propone
fino ad arrivare ai "bukoloi " così importanti nella tradizione augu­
stea attraverso i versi di Virgilio. In tale contesto i miti che narrano
la fine di Orfeo narrati da Eschilo e ripresi più tardi da Virgilio e
Ovidio parlano di una tradizione in cui il suono creatore espresso dal
canto di Orfeo permane benefico e illuminante, nonostante provenga
dalla sua testa mozzata che transitando dalfiume Ebro "feconda " il
mondo con la sua parola divina.
Anche l 'universale simbolismo dell 'uovo assume nel/'orfismo una
funzione particolare connessa al "tempo" e alle numerose cosmo­
genesi orfiche; ed è interessante ricordare come lo stesso Aristotele
parli del "vento" cosmico come attributo caratterizzante dell 'uovo
orfico. Questo uovo ritorna nel più volte citato papiro di Derveni
richiamando la luce ierofanica e il concetto stesso di "Phanes", al
centro della figura circolare perfetta, il grande sole di un "tempo
anteriore al tempo ".

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Non si può prescindere, in questa analisi da un confronto e uno
scambio fra dottrine orfiche e dionisiache. Il testo ne pone in evi­
denza assai più i contatti e le osmosi filosofiche e religiose piutto­
sto che i contrasti; pone inoltre in luce il progressivo passaggio da
una "normale " civiltà di re-sacerdoti, ad una in cui la misteriosofia
orfico-iniziatica diventa l'unico mezzo realizzativo e reintegrativo.
A tale proposito vengono richiamati il Cratilo, il Fedone e le Leggi
di Platone, e mostrato come la ripresa, da parte del grande filosofo,
di una dottrina orfica influenzi poi tutta la storia della filosofia occi­
dentale. Parliamo di quella dottrina relativa al corpo come "tomba
dell 'anima" dove il percorso del myste è teso a svincolarsi da tale
prigione e presentarsi come essere rinnovato spiritualmente e sciolto
da tale legame.
Partendo dall 'analisi delle cosmogonie più arcaiche e dal primor­
diale smembramento del fanciullo-Dioniso, viene inoltre mostrata
la funzione della contrapposizione fra i Cureti (i famosi guerrieri
danzanti "scelti " da Giove per il mantenimento del ritmo celeste)
e i sette Titani (antichi signori "decaduti ", testimoni di un prece­
dente ordine sacro), nell 'aspetto più "sciamanico " del mito dioni­
siaco. Acquistano perciò un particolare valore entrambe le versioni
della fine del dio : quella relativa alla dispersione delle membra e
quella relativa alla loro "bollitura ", in parallelo al mito orfico che
si avvale di una analoga dispersione delle parti del corpo. Troviamo
inoltre numerose varianti sulla fine del cuore del dio. Per alcuni
viene posto sul tripode di Delfi, per altri sarà sepolto a Libetra, ai
piedi dell 'Oiimpo, custodito dalle Muse. Anche i giocattoli del dio
(la palla, l'astragalo, il rombo, lo specchio, la trottola, le "mario­
nette ", ecc.) assumono nuovi significati soprattutto alla luce di alcuni
recenti ritrovamenti a Fayyum (Papiro di Gurob del/l sec. a.C.),
dove appare chiaro come l'azione dei Titani sia tesa a sconvolgere
l 'ordine creato da Zeus, dileggiando quei simboli dell 'ordine celeste.
Assai interessante è l'analisi che questo testo propone sugli ambienti

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dei medici traci della scuola di Zalmoxis, che sembrano precedere la
diffusione dell 'Orfismo e che, ben lontani dalla medicina ippocratica,
proponevano una terapia che congiungeva sempre la purificazione
del corpo a quella dell 'anima, in una continua osmosi tra magia e
ritualismi di tipo estatico.
Fondamentale, a questo proposito, è la funzione iniziatica di Mne­
mosyne, i cui significati si estendono a coprire le ragioni stesse del
percorso post mortem, e costituiscono contemporaneamente la vera
e propria chiave di volta del passaggio salvifico del myste. Appog­
giandosi su un esteso apparato documentale, D 'Anna ci conduce a
considerare lajunzione "fisiologica" dellafonte fredda, Mnemosyne,
la fonte della memoria, ponendo in evidenza i passi di vari autori in
cui il respiro diventa una tecnica per "espiare le antiche colpe" e
per liberare l'anima "rinfrescando/a". A tal proposito è importante
sia la citazione di Aristotele (De Anima) che alcune espressioni del
più volte citato Papiro di Derveni che conservano, con buona proba­
bilità, memoria dell 'esistenza di concezioni collegate alla funzione
liberatoria delle tecniche del respiro. Altrettanto importante risulta
l 'analisi che viene fatta sul significato del soffio e dello pneuma. Sia
nella Grecia orfica come più tardi nella Magna Grecia pitagorica
esisteva indubbiamente un uso del respiro quale supporto della medi­
tazione, dell 'ascesi e della guarigione secondo modalità assai simili
a quanto proposto nelle dottrine estremo orientali.
A partire dalla metà del testo, si iniziano ad analizzare alcuni dei
principali aspetti delle dottrine ascetiche del/ ' orfismo (dali ' asten­
sione dai cibi animali alla metempsicosi, dottrina in realtà comple­
tamente estranea alla religiosità olimpica).
Il passaggio dall 'orfismo al pitagorismo viene preceduto da una
disamina cosmologica e da un inevitabile confronto con le dot­
trine orientali, ponendo innanzitutto in evidenza come, sei secoli
prima di Cristo, in tutto il mondo siano sorti personaggi e "scuole"
che" riordinano" le antiche leggi, ripristinano e sistematizzano i riti,

IO
secondo uno schema straordinariamente vasto (vengono ricordati i
miti e le tracce storiche relative a Numa, Confucio, Lao Tzu, Zara­
tustra, ecc.).
In Grecia dopo il tempo mitico di Dioniso, di Orfeo e, a latere, dello
stesso Pitagora, arriveranno il monismo di Parmenide e la specula­
zione di Eraclito, particolarmente vicina, quest 'ultima, ali 'orfismo
e ad una dimensione filosofica polivalente. Ciò provocò sia a lui
come a Pitagora, accuse pesanti di sviluppare [ ' "arte dell 'inganno "
(Diogene Laerzio ). Ma, nello stesso tempo, la politica aristocratica
alla quale si rifaceva Pitagora accentuò le critiche di Eraclito assai
legato agli arcaici principi dei re-maghi dei tempi mitici delle poleis
greche, in cui il "contatto " diretto ed estatico con la natura divina
non transitava attraverso metodologie o filosofie ascetico-iniziatiche.
L'insegnamento di Pitagora ha creato comunque una ventata straor­
dinaria in tutto il mondo classico. Le "vite ", oltre a descrivere i suoi
innumerevoli viaggi corrispondenti ad un numero inimmaginabile
di iniziazioni ricevute, ne proclamano le origini orfico-apollinee e
in alcuni casi operano una vera e propria deificazione. Nel testo di
Nuccio D 'Anna si riassumono efficacemente le principali "dinastie "
ipotizzate dagli agiografi e si giunge ad un denominatore comune
in cui il rapporto Orfeo-Pitagora appare in tutta la sua straordi­
naria potenza spirituale. Ci si sofferma a lungo su quel coacervo
di maestri-maghi-shamani di cui abbiamo accennato all ' inizio e
che gli allievi della scuola crotoniate spesso proposero come suoi
insegnanti, altre volte come suoi allievi (dallo straordinario Fere­
cide, autore di una delle più straordinarie cosmogonie, al misterioso
Aglaophamos).
Negli studi sul/ 'orfismo-pitagorismo non sono separabili l'aspetto
filosofico da quello mistico-religioso. È questo forse l'alveo più com­
pleto nel quale il termine "scienza sacra " trova giusta collocazione.
Caratteristica del pitagorismo è la differenziazione gerarchica dei
vari gradi sapienziali, tutti compresi in quella sacralità iniziatica in

Il
cui non è divisibile il sacerdote dal sapiente, dall 'uomo di autentica
scienza. A suffragio di tale tesi è determinante il brano di Porjirio in
cui si parla della iniziazione che Pitagora riceve a Creta, nell 'antro
Ideo, da parte di Morgo. In tale brano si evocano riti arcaici che
sicuramente erano patrimonio dell 'Ellade primordiale e soprattutto
si pone in evidenza come, all 'origine dei culti orjici e pitagorici ci
fossero i misteriosi "Dattili Idei " che attraverso una "pietra di ful­
mine " o "pietra celeste " purificano l 'iniziando. I misteri di Morgo,
di cui parla Porjirio con grande lucidità, dovevano essere pervenuti
in qualche modo fino a lui attraverso una stabile "catena inizia­
fica ", e una cosa che appare subito straordinaria è la somiglianza
di determinate liturgie arcaiche con altre ritrovabili nelle cultualità
primordiali di altre tradizioni. Il testo si sofferma poi lungamente
sulle "prescrizioni " formali, sui "comportamenti " pitagorici e sulla
loro formulazione attraverso i symbola che ne occultano il senso,
spesso dietro una apparente semplicità etica.
Viene quindi specificamente riesaminato il simbolismo di Mnemosyne
in una chiave eminentemente pitagorica, ricordando la funzione che
Diogene Laerzio (il quale rinvia a sua volta ad un testo perduto di
Polyistore) fa assumere alla dottrina del sangue, come veicolo ani­
mica, e a quella del "soffio " o respiro, come elemento vivificatore
e animatore del sangue stesso. Approfondendo tale teoria si scopre
un utilizzo del "pneuma freddo " che secondo Filolao, stabilisce la
salute (Ygheia), e l 'equilibrio del ciclo vitale in tutte le sue valenze
materiali e spirituali. Ilfatto che Alessandro Polyistore richiami una
tal dottrina, in cui l'anima acquista forza e si riposa su se stessa, e in
cui i "ra[?ionamenti " sono considerati "soffi " dell 'anima, richiama
tutta una serie di termini, spesso affrettatamente tradotti in passato,
che ipotizzano un 'articolata metodologia realizzativa basata anche
sulle tecniche del respiro e sul "refrigerio dell 'anima " soccorsa
da tale respiro "fresco " a causa di Mnemosyne. Suggerisce inoltre
D 'Anna, appoggiandosi a Erwin Rhode, Louis Gernet e Jean-Pierre

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Vernant, che l'espressione "prapìdes " invece dell 'usuale e accade­
mico "potenza del suo spirito " ha il significato di "diaframma " .
E quindi, richiamando altri testi che sicuramente incuriosiranno il
lettore, si giunge a formulare una struttura operativa metodologico­
pratica, vicina a quelle tecniche rituali richiamate dagli Yoga-sutra
e dagli altri testi fondamentali della cultura de/ lontano Oriente.
Il saggio di Nuccio D 'Anna termina con un capitolo dedicato alla
sapienza numerica dei pitagorici. Si passa dal senso della geometria
all'uso del numero quali strordinari mezzi di rappresentazione e vei­
coli di conoscenza della dimensione cosmica. L'ascolto dell 'armonia
delle sfere era un modo per penetrare nel mistero della creazione
diventandone parte attiva e riversando l 'armonia percepita in ogni
atto celebrato sulla terra. Un tema su cui riflettere.

Nota dell'Autore.

Per poter giungere alle conclusioni che presentiamo ci siamo avvalsi dell'aiuto di
importanti studiosi e di vari specialisti che hanno mostrato una benevolenza d' altri
tempi per il nostro lavoro. È impossibile elencare tutti questi amici, ma ci sia permesso
di ringraziare almeno il prof. Giovanni Casadio, ordinario di Storia delle Religioni
presso l 'Università di Salerno, senz' altro lo studioso italiano che meglio conosce
l'orfismo.

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PARTE PRIMA

L'ORFISMO E LA LIBERAZIONE DAL CICLO


DELLA NECESSITÀ
l. Correnti spirituali arcaiche

L'orfismo appare all'alba della civiltà ellenica come una sorta di


organismo fluido e non strutturato su basi rigidamente gerarchiche,
ma già ben delineato nei suoi elementi mitologici e rituali'. La sua
straordinaria diffusione che arrivò a toccare con forza anche le colonie
della Megàle Hellàs e i lontani insediamenti greci nel Mar Nero e
sul Ponto, fa da corona a quella di tutta una serie di consorterie di
vario tipo che hanno percorso il territorio ellenico agli inizi della sua
storia. Fortemente caratterizzati da una precisa base misteriosofica
e da un forte radicamento spirituale questi organismi si articolavano

Resta indispensabile Orphicorum Fragmenta, collegit O. Kem, Berlin 1 922 (rist.


Weidmann, Dublin/Ztirich 1 972), cui vanno aggiunti i nuovi frr. commentati da A
Bemabé, Nuovi.frammenti orfici e una nuova edizione degli Op<ptKa, in M. TortoreIli
Ghidini - A Storchi Marino - A Visconti (curr.), Tra Orfeo e Pitagora, Napoli 2000,
pp. 43-80. Cfr. anche P. Scarpi (cur.), Le Religioni dei Misteri, l, Milano 2002, pp.
349-437; G. Colli, La sapienza greca, I, Milano 1 978, che si raccomanda per il
personalissimo commento. Nonostante il tempo trascorso resta importante W. K.
C. Guthrie, Orpheus and Greek Religion, London 1 935 (tr. fr. Paris 1 956). Cfr. R.
Bohme, Orpheus. Der Siinger undseine Zeit, Bem-Mtinchen 1 970 (cheperò azzarda
tesi personali molto problematiche soprattutto quando ritiene di trovare tracce di
orfismo in Omero e in Esiodo); C. Segai, Orpheus. The Myth ofthe Poet, Baltimore
1 989 (tr. it. Torino 1 995). Segnaliamo una vera e propria enciclopedia orfica (pp.
1 800) con esauriente bibliografia, curata da A Bemabé- F. Casadesùs, Orfeo y la
tradici6n 6rfica. Un reecuentro, 2 voli., Madrid 2009 che conclude alcune importanti
raccolte di studi: Orfismo in Magna Grecia. Atti del XIV Convegno di studi sulla
Magna Grecia, Napoli 1 975; J. Warden (cur.), Orpheus. The Metamorphoses ofa
Myth, Toronto-Buffalo-London 1 982; Ph. Borgeaud (cur.), Orphisme et Orphée.
En l'honneur de Jean Rudhardt, Genève 1 99 1 ; A Masaracchia (cur.), Orfeo e
l 'Orfismo, Roma 1 993; L. Brisson (cur.), Orphée et l'Orphisme dans l'antiquité
gréco-romaine, Paris 1 995. La "Revue d'Histoire des Religions" ha dedicato un
intero fascicolo a L' orphisme et ses écritures, 2 1 9, 2/2002 (contributi di C. Calarne,
A Bemabé, L. Brisson, Ch. Riedweg, J. Rudhardt e J.-M. Roessli)

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in confraternite guerriere, corporazioni di vasai, fabbri-sciamani,
tessitori, medici, danzatori, veggenti, asceti solitari, estatici apollinei,
tiasi dionisiaci, cantori sacri e persino aedi che rivendicavano una
ascendenza "omerica". In una sua famosa ed equilibrata analisi nella
quale l'orfismo veniva studiato come la confluenza e il coronamento
delle molteplici correnti settarie attraverso le quali si manifestò molta
parte di quelle forme religiose magmatiche fiorite nell'età arcaica,
Martin Persson Nilsson ("L'orfismo riassume le molteplici correnti nelle
quali sotto forma diversa si espresse l'agitata religiosità dell'età arcaica
e ne costituisce il coronamento"2) stabiliva che questa varietà di sistemi
"religiosi" si trovava ordinata quasi sempre attorno ad una base che può
genericamente essere definita "iniziatica" e si esprimeva in forme non
coerenti, organizzate su basi molto vaghe, ma che articolavano l'arcaica

2 Così M. P. Nilsson, Religiosità greca, Firenze 1 963, p. 38. Più articolato Id. ,
Early Orphism and Kindred Religious Movements, i n "Harvard Theological
Review", 28, 1935, pp. 1 8 1 -230. La tesi è stata ripresentata in Id., Geschichte der
Griechischen Religion, 2 voli., Miinchen, 1 955, I, (''Der Orphizismus und ve1Wandte
Strijmungen"), pp. 678-699, e riecheggiata da L. Gemet, Encore l 'orphisme: un
mythe ?, in "Annales. ESC", 1 3, 1 958, pp. 178 e sgg. Cfr. O. Kem, Die Religion
der Griechen, 3 voli., Berlin 1 926- 1 938, II, cap. V ("Orakel, Wundermiinner,
Theologen"); W. Wili, Die orphischen Mysterien und der griechische Geist,
in "Eranos Jahrbuch", XI, 1 944, pp. 6 1- 1 06; W. Burkert, Orpheus und die
Vorsokratiker. Bemerkungen zum Derveni-Papyrus und zur pythagoreischen
Zahlenlehre, in "Antike und Abendland", 1 4, 1 968, pp. 93- 1 1 4; Id., Orphism and
Bacchic Mysteries, Berkeley 1 977; R. Parker, Early Orphism, in A Powell (ed.),
The Greek Wor/d, London-New York 1 995, pp. 483-5 IO. Più problematico A D.
Nock, Orphism or Popular Philosophy ?, in "Harvard Theo1ogical Review", 33,
1 940, pp. 30 1 -3 1 5 , che riprende le tesi di R. Pettazzoni, poi rimodulate anche da G.
Thomson (Aeschylus and Athens, London 1 94 1 ), sull' orfismo come "religione (?)
popolare". Ma sono tesi obsolete come quelle che farebbero sorridere un indianista
al quale si volesse dire che le molte correnti yoghiche che hanno percorso l'India
sono "eccentriche" o frutto di una "religiosità popolare" rispetto al rituale vedico
e ai culti dovuti alle sue innumerevoli divinità.

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società ellenica secondo modelli simbolici che in età storica riusciranno
ad essere conservate solamente nei molti mitologhemi.
Per capire questo complesso fenomeno che coniugava senza difficoltà
ascesi, veggenza, purificazione ed estasi bisogna forse ricordare i casi
emblematici, ma molto estesi sul territorio, dei Bacchidi, delle Sibille,
degli iatromanti, dei numerosi profeti ed estatici che fra l'VIII e il VII
secolo hanno percorso la Grecia e sui quali per primo portò l'attenzione
Erwin Rohde. Si tratta di tutta una serie di straordinari personaggi dalla
fenomenologia religiosa incerta, ma che rivelano con ogni evidenza l'esi­
stenza di variegate categorie di ispirati, "posseduti" dagli dèi, veggenti,
incantatori, oracoli e purificatori la cui attività profetica non può essere
ricondotta a quella dei numerosi centri oracolari o ai santuari del culto
poliade che caratterizzerà la religiosità ellenica fino al tramonto. Era
una forma di spiritualità che si continuava accanto alla normale vita
rituale e ai sacrifici della religione olimpica e non ne costituiva affatto
un elemento eversivo o marginale - esattamente come in India dove i
vari tipi di yoghi e di asceti vaganti non si sono mai presentati come
un'alternativa al culto vedico. L'influenza di questi estatici sembra essere
stata rilevante, persino in grado di toccare in profondità le stesse città,
spesso capace di ripristinare con i loro cerimoniali di purificazione un
ordine sociale ritenuto alterato dall'affioramento di miasmi, morbi e
malattie collettive. Molti di questi personaggi erano profeti, incantatori,
indovini e purificatori che si vantavano di poter guarire malattie, allon­
tanare malanni collettivi, evocare spiriti, manipolare i metalli, purificare
persone possedute o luoghi infestati da inquietanti presenze'.
Una leggenda riportata da Diodoro Siculo (V, 64, 4) assicurava
addi rittura che Orfeo era stato allievo di alcuni di questi strani

3 1. Pollard, Seers, Shrines and Sirens, London 1 965, pp. l 06- 1 1 6; W. R. Halliday,
Greek Divination, London 1 9 1 3, pp. 95 e sgg. Per capire il mondo nel quale si
muovevano maghi, stregoni, taumaturghi, purificatori e medici può essere utile
A. Bemard, Sorciers grecs, Paris 1 99 1 .

19
incantatori ed evocatori, quelli scaturiti dall'ambito misteriosofico
che si riconosceva nel mito di quegli esseri primordiali che erano gli
enigmatici Dattili Idei:
"Essi, che erano degli sciamani (y6rrraç). esercitarono gli incantesimi
e si dedicarono alla pratica delle iniziazioni e dei culti misterici
[... ]. In questo torno di tempo anche Orfeo, che per dote naturale
si distingueva nella poesia e nel canto,fu loro seguace e per primo
introdusse tra i Greci le iniziazioni e i culti misterici "4•
(tr. P. Scarpi)
I Datti li Idei erano creature dalle molteplici competenze che la
leggenda identificava con i Kouretes, i giovani armati considerati i
fondatori della danza guerriera, della caccia, della pastorizia e dell'a­
picultura, tutte Arti che nella Grecia più antica facevano parte del
patrimonio iniziatico della funzione guerriera. Si raccontava che
erano nati quando Rea per mettere al mondo Zeus nel suo sforzo
appoggiò le mani sul terreno del monte Ida e perciò le 5 fanciulle e i
5 fanciulli generati con quel gesto furono chiamati "le Dita dell'Ida".
Le molteplici abilità di questi straordinari esseri divini riflettono un
tempo arcaico molto vicino ad aspetti rilevanti dello sciamanesimo,
quelli che verosimilmente resero i Dattili Idei in una delle loro
forme la proiezione mitica dell'arte del fabbro-sciamano. La cosa
dà consistenza mitico-rituale alla tradizione raccolta da Diodoro
Siculo che li considera i "patroni" degli incantesimi e dei misteri.
Almeno tre di questi esseri divini, infatti, scaturiscono proprio da un

4 Sui misteriosi "goeti" (contemporaneamente evocatori, purificatori, maghi e


taumaturghi) assimilabili ad una forma crepuscolare di sciamanesimo greco,
resta indispensabile W. Burkert, TOHI:. Zum griechischen Schamanismus, in
"Rheinisches Museum", CV, 1 962, pp. 36-55, che sviluppa al meglio alcune
tesi pionieristiche di K. Meuli, Scytica, in "Hermes", 70, 1 935, pp. 1 2 1 - 1 77.
Le ipotesi di Dodds su quelle che chiama impropriamente le "origini del
puritanesimo" (?) se accettate per intero rischiano di portare verso una sorta di
pan-sciamanesimo ellenico.

20
sostrato sciamanico legato alla metallurgia e alla maestrìa del fuoco
e nel proprio nome conservano addirittura il significato stesso della
funzione demiurgica che erano stati chiamati a compiere: Acmonte
era il "fabbro", Damnameneo "l'incudine" e Chelmi il "ferro" o "il
coltello" dell'artigiano-metallurgo. Secondo alcuni miti che forse
hanno alimentato anche aspetti importanti dei misteri di Samotracia,
furono proprio le 5 fanciulle Idee ad iniziare Orfeo ad un culto della
Madre Terra sul quale resta ormai solo qualche esile traccia, ma che
proprio questo suo rapporto con l'orfismo spinge a distinguere netta­
mente da quello molto conosciuto della Demeter dei Misteri di Eleusi
cui hanno pensato troppo frettolosamente alcuni studiosi, quasi che in
Grecia il culto della Madre Terra dovesse coincidere solo e soltanto
con quello della Demetra eleusina5•
La multiforme attività della variegata congrega di personaggi e tauma­
turghi che percorreva instancabilmente l'Ellade per molti aspetti
appare slegata dalla religione olimpica così come, d'altronde, quella
delle consorterie che si sono sviluppate accanto a questi personaggi e
spesso li sostenevano. Lo stesso sviluppo dei racconti leggendari che
ad un livello mitopoetico ne giustificavano le finalità suggeriscono
l'esistenza di metodologie estatiche piuttosto diffuse presso questi
organismi para-religiosi. E tuttavia non sembra possibile individuare
in questa loro forma di religiosità magmatica e persino tempestosa un
preciso sistema tecnico-realizzativo o metodi regolari e strutturati di
ascesi, non emerge nulla di organico o codificato e tutto indica che ci

5 Lo studio più attento del problema, accanto alle puntuali indicazioni di P.


Boyancé (Eleusis et Orphée, in "Revue des Ètudes Grecques", 89, 1 975, pp.
1 95-202), resta quello di F. Graf, Eleusis und die orphische Dichtung Athens
in vorhellenistischer Zeit, Berlin-NewYork 1 974 (con la ree. di R. Turcan in
"RHR", 1 891 1 976, pp. 20 1 -203), che illumina su un problema ampiamente
discusso, ma la cui portata non appare rilevante per comprendere aspetti che
nell 'orfismo emergono solo in modo marginale. Molto scettico sui rapporti
Eleusi/orfismo restava giustamente Giovanni Pugliese Carratelli.

21
troviamo di fronte ad una sorta di religio secunda poco ordinata, ma
molto diffusa e radicata, fiorita ai margini sia del culto olimpico sia
delle misteriosofie "ufficiali" e "statuite", esse stesse sopravvissute ad
un passato che ormai sembrava confinare solo con il mito6• D'altronde,
appare sempre più probabile che gli stessi celeberrimi misteri di
Eleusi, Samotracia, Lemno, Andania o alcune delle diversificate
correnti che esaltavano un Dioniso prò-pole6s (''dei dintorni della
città", il cui culto appare poco organizzato e affidato a singoli fedeli
"posseduti" che affollavano i borghi e le campagne elleniche), non
facevano altro che ordinare e riadattare forme soteriologiche un tempo
molto diffuse e variamente strutturate che probabilmente in questo
complesso misterico hanno trovato il "luogo" di confluenza. La stessa
frammentarietà e la sostanziale inorganicità di queste correnti di
asceti, estatici e "posseduti" documenta il carattere crepuscolare della
loro spiritualità ed è probabile che ormai essi costituissero la mera
sopravvivenza di un retaggio molto antico e perpetuassero una condi­
zione che il richiamo costante a stati di tipo estatico, profetico e purifi­
catorio lascia relegare in un passato di tipo "primordiale". La notevole
consistenza di questo fenomeno e il tipo stesso di radicamento sacrale
aveva convinto Dario Sabbatucci addirittura ad ipotizzare, con argo­
mentazioni essenzialmente prive di ogni attenzione per le molteplici
e variegate correnti di estatici e con una terminologia inappropriata,
l'esistenza di un "misticismo greco" che nella sua congettura doveva
prendere consistenza solo a partire dall'orfismo, dai misteri eleusini

6 Alcuni elementi di riflessione su questa dicotomia si trovano in P. Leveque,


Religion poliade et sectes, in "Kemos", X, 1 977, pp. 233-240. Su li 'orfismo come
"setta" (ma la dizione resta impropria assieme a quella che vorrebbe indicare una
tutta ipotetica "religione orfica"), cfr. W. K. C. Guthrie, Orphée et la religion
grecque, cit., pp. 227-228. Più in generale vd. M. L. Freyburger-Galland, Sectes
religeuses en Grèce, in M. L. Freyburger-Galland -G. Freyburger--J. C. Tautil,
Des sectes religeuses en Grèce et à Rome dans l'Antiquité paienne, Paris 1 986,
pp. 1 9- 1 6 1 .

22
e da un non meglio definito culto della Grande Madre7•
Il profondo dinamismo e la forza diffusiva delle più antiche misterio­
sofie indirizza a cogliere anche la ratio complessiva caratterizzante
l'orfismo all'alba della civiltà ellenica "classica", la sua capacità di
convogliare verso quella che comunque appare come una organica
tradizione spirituale le molteplici esperienze estatiche dei tanti
profeti, indovini, oracoli e purificatori itineranti che in nel tempo
arcaico percorrevano instancabilmente il territorio della Grecia8•
Nella sua complessità morfologica l'orfismo appare come una tradi­
zione con caratteristiche ben definite che Louis Gernet precisava in
questi termini: ". . . è una forma di vita religiosa alla quale si accede
mediante iniziazioni private, ha i propri libri, prescrive l'ascetismo
perché è orientata verso l'aldilà, è segnata dal pessimismo sull'esi­
stenza terrestre e dalla certezza che bisogna sfuggire alla catena delle
reincarnazioni. Si oppone sotto tutti i punti di vista al pensiero reli­
gioso e alle attitudini religiose dei Greci che a noi sono più familiari"9•
Sono alcuni di quegli elementi essenziali che si trovano elencati in
una sorta di breve sintesi anche nel Papiro di Derveni (col. VI, 1-1 1),
un importante testo orfico recentemente scoperto:

7 Cfr. D. Sabbatucci, Saggio sul misticismo greco, 2" ed. , Roma 1 979, che
sopravvaluta una peraltro poco definita "mistica della grande madre" e ignora
totalmente gli estatici apollinei e le variegate correnti di invasati e posseduti che
hanno attraversato il culto dionisiaco. D 'altronde, questo modo di affrontare i
problemi teso a semplicizzare tutto e a scartare quello che non è assimilabile a
tesi precostituite, è tipico di tutti i suoi libri.

8 Per delineare questo fenomeno può essere utile, anche se come al suo solito
troppo cerebrale, la relazione di D. Sabbatucci, Criteri per una valutazione
scientifica del "mistico-orfico " nella Magna Grecia, in Orfismo in Magna
Grecia, cit., pp. 34-47.

9 Così L. Gernet, Eneore l ' orphisme, ci t., p. 1 79 e sgg. Jean-Pierre Vernant


assicurava che esistono parecchie lezioni di Louis Gernet che studiavano
l ' orfismo attentamente poi trascritte dai suoi all ievi, ma non esiste alcuna
pubblicazione di questo patrimonio.

23
[. . .]preghiere e sacrifici placano le anime
L 'incantesimo dei magi ha il potere di allontanare i demoni
Che sono di ostacolo alle anime. I demoni che sono loro di
ostacolo
Sono ostili alle anime; è per questo motivo che i magi compiono
Il sacrificio, come se pagassero il fio. Nei
Riti sacri versano acqua e latte, donde appunto fanno
Anche libagioni. [ . . .]
(tr. P. Scarpi)
Nell'area geografica che si estendeva dalle immediate regioni del nord
della Grecia fino al vasto territorio occupato dalle popolazioni traco­
daciche è attestata la presenza di sofisticate misteriosofie incentrate
nella figura di Zalmoxis, il misterioso personaggio spesso presentato
dagli autori greci come una vera e propria prefigurazione di Orfeo che
le fonti daciche conosciute da Platone definiscono "nostro re e dio".
Erodoto sapeva che fra i Geti era usuale la pratica ascetica accom­
pagnata da forme di castità e di ritiro in solitudine e assicurava che
i Geti erano conosciuti come "i più valorosi e i più giusti fra i Traci"
(4, 93). Secondo Dimiter Detschew il nome di Zalmoxis poggia sulla
radice indeuropea *zalmos, "scudo, protezione" che si adatterebbe
bene all'area semantica dal cui sostrato spirituale sono emersi il "dio"
e il "re-prete" indicati dalle fonti di Platone10• È il complesso erme­
neutico che convinceva un linguista della perizia di Paul Kretschmer
a spiegare il nome di Zalmoxis come composto attorno al suffisso -xis
che ricondurrebbe allo stesso ambito semantico dell'avest. xshaya-,
"signore", "re", per cui Zalmoxis sarebbe propriamente il "signore­
re degli uomini", esattamente come spiega Platone nel Carmide. Il
contesto dottrinale, i racconti, le pur scarne notizie sulle cerimonie
sacre, tutto sembra indicare che Zalmoxis possa essere stato l'Ar­
chegeta cui si è riferito un intero ambiente misteriosofico con forti

IO Così D. Detschew, Die thrakischen Sprachreste, Wien 1 957, p. 1 75 .

24
caratterizzazioni iniziatiche nelle quali un ruolo molto importante
avrebbero avuto i rituali di "morte e rinascita". Da questo mondo poco
conosciuto di asceti e solitari che quasi sicuramente ha preceduto la
stessa diffusione dell'orfismo e secondo molti studiosi ne ha costituito
la remota ambientazione, emergono anche quei "medici traci della
scuola di Zalmoxis" cui accennava con sicurezza Platone (Charm.
V, 156 d), una categoria di medici-purificatori che curavano l'anima
e il corpo con Errroòat, (''epodi"), formule sacre forse a carattere
cosmogonico' '. Secondo una tipica concezione della medicina arcaica
che in Grecia continuò ad essere praticata ben oltre la vittoria della
scuola medica di lppocrate, la loro recitazione si effettuava mentre
contemporaneamente veniva somministrato al malato un cpapJ.laKov,
(''farmaco"), una pozione composta forse da erbe terapeutiche che

11 Su Za1moxis cfr. F. Hartog, Zalmoxis: le Pythagore des Gètes ou l'autre de


Pythagore ?, in "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di
Lettere e Filosofia", VIII, 1 978, l , pp. 1 5-42; Z. Petre, "Zalmoxis, roi et dieu ".
Autour du Charmide, in "Dacia", LI, 2007, pp. 47-73; J. Coman, Zalmoxis et
Orphée, in "Bulletin Institut d' Archeologie Bulgare", 1 6, 1 950, pp. 1 77- 1 84;
Id., L'immortalité chez !es Thraco-Géto-Daces, in "Revue de l ' Histoire des
Religions", 1 98, 1 98 1 , pp. 243-278 (i due testi riprendono parte di Id., Orphée,
civilisateur de l'humanité, Paris 1 939, la breve brochure (pp. 54) estratta da
"Zalmoxis" e pubblicata nella coli. "Cahiers de Zalmoxis" edita da P. Geuthner,
e Id., Zalmoxis, un problème gete, un saggio più piccolo estratto da "Zalmoxis",
2, 1 939); W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge
(Mass.), 1 972, pp. 1 56- 1 59; M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis Khan, Roma 1 975,
cap. II; P. Alexandrescu, La nature de Zalmoxis selon Hérodote, in "Dialogues
de l' Histoire Ancienne", 6, 1 980, pp. 1 1 3- 1 22. La relazione di C. Fiore, Aspetti
sciamanici di Orfeo, in A. Masaracchia, Orfeo e l'Orfismo, cit., pp. 409-424,
appare senza prospettive interpretati ve proprie ed è solamente ripetitiva delle
analisi di K. Meuli e R. E. Dodds lette attraverso Mircea Eliade. Ha negato
un rapporto Orfeo-sciamanesimo F. Graf, Orpheus. A Poet among Men, in
J. Bremmer (cur.) lnterpretations of Greek Mythology, London-Sidney 1 987,
pp. 80- 1 06, che però, basandosi su lontane e non decisive assonanze, ipotizza
una impossibile derivazione dell ' orfismo dai rituali di iniziazione guerriera
deli' Eliade arcaica.

25
dovevano agire non solo a livello fisiologico12•
La complessa tradizione che emerge da questi dati aiuta a dare forte
rilievo alla diffusa credenza che raccontava di un Orfeo proveniente
dalle più remote regioni traco-daciche13• In realtà, si tratta di regioni
raggiungibili senza insormontabili difficoltà dai viaggiatori greci che
comunque dovevano risultare molto familiari al mondo culturale e
commerciale della penisola. Le frequentazioni attente con il mondo
traco-dacico sono documentate anche da tutta una serie di pittografie
che illustrano la ceramica greca con traci abbigliati nei loro costumi
tradizionali che per di più spesso appaiono in un contesto rituale
complessivo tipicamente orfico. La loro presenza nei manufatti mostra
una vicinanza con la quotidianità del mondo ellenico talmente sicura
che non sempre può essere riscontrata nel rapporto della Grecia con
altre culture. Lo stesso Euripide (Aie. 968; Ipsip. frr. l, 3, 9) non esita
a fare di Orfeo un aedo itinerante "venuto dal Nord" secondo una
radicata tradizione seguita anche dal più tardo Ovidio (Metam. X,
62) che rappresenta Orfeo come un Rhodopeius vates e lo associa
alla tipica catena di vette del paesaggio montuoso della Tracia. Sono
simboli derivati chiaramente dal sostrato religioso delle popolazioni di
quelle lontane terre specie là dove il Cantore solitario veniva accostato
al Rodope, il monte considerato dalle popolazioni daciche una vera e
propria immagine dell axis mundi e alcuni elementi della loro mito­
'

logia sembrerebbero collegarlo persino con un orientamento polare,


cosa che dà uno spazio dottrinale molto preciso alle leggende greche
sulle origini "nordiche" del famoso cantore.
Nelle sue analisi sui dipinti "orfici" delle ceramiche ritrovate nella

12 Sui rituali arcaici che hanno fecondato la medicina ellenica precedente la


"riforma" di lppocrate, cfr. N. D'Anna, La Disciplina del Silenzio. Mito, mistero
ed estasi nell 'antica Grecia, Rimini, Il Cerchio 1 995, cap. II.
13 Cfr. A. Bernabé, Viajes de Orfeo, in A. Bernabé- F. Casadesùs, Orfeo y la
tradici6n 6rfica, cit., p. 6 1 .

26
Magna Grecia, Margot Schmidt ha provato che l'origine nordica di
Orfeo non era una vaga rappresentazione di alcuni originali poeti
o un nebuloso e barbaro racconto leggendario poi ellenizzato da
zelanti mitografi, ma costituiva parte di un patrimonio spirituale, forse
persino con risvolti dottrinali, che si era formalizzato in una presenza
molto viva prolungatasi nella pittura vascolare. Alcuni vasi "italioti",
infatti, raffigurano addirittura Orfeo attorniato da Traci dipinti con la
testa sollevata verso il cielo, gli occhi chiusi ed estasiati dal suo canto
mentre tutt'intorno si elevano fumi di incenso circondati da vaschette
d'acqua zampillante14• Con ogni probabilità l'ignoto artista ha voluto
richiamare in questa necessariamente breve sintesi pittografica uno di
quei famosissimi rituali di purificazione sui quali insistono con forza
tutte le fonti elleniche, qualche traccia dei quali può essere ritrovata
anche in quelle Laminette che annotano "l'acqua viva" della Fonte
che sgorga da Mnemosyne alla quale l'iniziato deve attingere durante
il suo viaggio nell'aldilà. Ne emerge un "paesaggio iniziatico" con
al centro Orfeo e quei Traci danzanti che nel mito di Orfeo "venuto
dal nord" costituivano il primordiale corteo dei suoi fedeli. Si tratta
di una ambientazione i cui lineamenti mitici dovevano risultare ben
conosciuti a tutti coloro che erano stati a contatto con quei purifi­
catori orfici che percorrevano instancabilmente le città elleniche.
Non solo, ma la particolarità di questo "paesaggio iniziatico" per la
sua importanza rituale illumina "dall'interno" anche sulle autentiche

14 Cfr. M . Schmidt, Orfeo e l'Orfismo nella pittura vasco/are italiota, i n Orfismo


in Magna Grecia, cit., pp. 1 05- 1 38 e tavv. 1 -6, che riarticola il precedente
Id., Bermerkungen zu Orpheus in Interwelts- und Thrakerdastellung, in P.
Borgeaud, Orphisme et Orphée, cit., pp. 3 1 -50. Utile anche l'excursus di A.
F. G. Alessio Gavarretta, Diffusione diacronica dell 'iconografia di Orfeo in
ambiente occidentale, in Orfeo e l'Orfismo, cit., (pp. 399-407), p. 402 e tavv.
III, IV, V, che nelle pitture di Orfeo con guerrieri Traci di alcuni vasi italioti del
IV secolo annota la presenza di due strumenti rituali orfici, la conchiglia per
attingere l'acqua e la vasca marrnorea per le purificazioni.

27
finalità iniziatiche che hanno dettato la composizione dei graffiti e
gli scritti di alcune celebri Laminette auree. In questa prospettiva,
infatti, appare evidente che la recitazione di quelli che appaiono come
veri e propri inni o canti sacri non era finalizzata solamente alle
prospettive di salvezza che dovevano aprirsi all'anima del defunto
nell'oltretomba, ma traduce in termini di "morte e rinascita" anche il
medesimo "percorso rituale" contemplato in vita dal myste che si era
sottoposto alle iniziazioni orfiche1 5•
Per molti aspetti le forme di religiosità dell'Ellade arcaica incentrate
attorno alle numerose consorterie strutturate su misteriosofie formate
da silenziosi contemplativi e da estatici vaganti che interagivano
profondamente con le molteplici correnti di asceti presenti fra i Geti
e, più in generale, con quei Solitari che le sparute fonti ci dicono
caratteristici dell'intera area traco-dacica, mostrano un panorama
sorprendentemente vicino a quello rinvenibile anche all'altro estremo
orientale del mondo indoeuropeo. Nell'India vedica, infatti, le svariate
tecniche di uno yoga non strutturato scolasticamente distinguevano
molte metodologie ascetiche, e le complesse forme di estasi non erano
state ancora organizzate in un coerente sistema quale poi sarà quello
dello yoga "classico" di Patanjali. Il Rig Veda X, 136, 3-5 descrive un
tipo speciale di asceta, un Muni, un "solitario" dai "capelli lunghi"

15 Ha cercato d i dare sign ificato a questo aspetto della recita delle Laminette
Ch. Riedweg, Poésie orphique et ritual initiatique, in "Revue d ' Histoire
des Religions", 2 1 9, 2002, pp. 459-48 1 . Per la fenomenologia del processo
di trasfigurazione delineato in alcune Laminette, così vicino a rituali di tipo
iniziatico, cfr. P. Scarpi, Diventare dio. Deificazione del defunto nelle lamine
auree dell 'antica Thurii, in "Museum Patavinum", V, 1 987, pp. 1 97-2 1 7 . Un
testo tibetano che sembra indirizzato all 'anima del defunto, ma viene recitato
regolarmente durante la meditazione di una particolare classe di asceti del
buddhismo lamaista è il conosciutissimo Bardo TiMo/. D' altronde, l ' uso di
accompagnare il defunto con testi che recitano inni sacri indirizzati ai santi e
strutturati in modo da raffigurare una elevata condizione spirituale si è conservato
anche in molte altre tradizioni.

28
(o "intrecciati" = keshrn), "rivestito di vento" [cfr. quegli asceti orfici
che secondo Aristotele usavano aspirare il "soffio" che vivifica il
cosmo], che "vola per l'aria", è "la cavalcatura di Vayu", "beve con
Rudra la bevanda (= soma) dalla coppa", nel cui corpo "entrano gli
dèi". Durante le estasi l'anima del Munì può abbandonare il corpo,
permettere all'asceta di andare "dal mare d'Occidente al mare del
nord", persino indovinare con facilità i pensieri degli uomini. Non
solo, ma questi diffusi Munì estatici si affiancavano a tutta una serie
multiforme e variegata di consorterie composta da solitari e da asceti
fra le quali emerge con forza per i l rilievo sociale e per l'impor­
tanza spirituale quella dei Vratya studiati da Jacob Wilhelm Hauer,
R. Choudhary e Samarendranath Biswas16• Si tratta di una speciale
confraternita di giovani guerrieri-maghi vaganti, armati di lancia,
bastone ed arco, rivestiti di pelli di ariete che all'alba dell'invasione
indoeuropea del sub-continente pare addirittura precedessero le
armate delle popolazioni vediche. La loro particolare fenomenologia
religiosa convinceva Hauer a parlare di questi straordinari giovani
guerrieri ed iniziati come "sìvaìtìsche Bacchanten"17• I Vratya si
preparavano ai loro compiti rituali mediante un ritiro purificatorio
della durata di un anno nella solitudine più estrema, praticavano
arcaiche tecniche respiratorie ed erano capaci di elaborare una
dottrina sul rapporto macrocosmo-microcosmo che sembra essere
molto vicina alle teorie sul macrantropo quali si trovano formulate
in alcuni testi orfici (fr. 21a Kern; Papiro di Derveni, ecc.) e sul cui

16 J . W. H auer, Der Vratya. Untersuchungen iiber der nichtbrahmanische Religion


altindiens, I, Stuttgart 1 927. Cfr. S. Biswas, Die Vratyas und die Vratyastomas,
diss., F. Univeritat Ber! in 1 955; R. Choudhary, Vratyas in Ancient India, Varanasi
1 964.

17 Così J . W. Hauer, op. cit., pp. 1 89-240. La particolare definizione di Hauer


permette di accostare i Vratya ad alcuni aspetti del contesto sacrale analizzato
da M. Di Marco, Dioniso ed Orfeo nelle Bassaridi di Eschilo, in A. Masaracchia,
Orfeo e /'Orfismo, cit., pp. 1 0 1 - 1 53.

29
significato avremo da tornare.
Da queste antiche tradizioni che tuttavia vantavano correntemente e
con forza la sua presenza, Orfeo emerge come un asceta solitario che
qualche mito riconduceva persino ad alcuni aspetti del culto, molto
diffuso nelle campagne greche, di un enigmatico Dioniso "barbaro"
e alle complesse forme di spiritualità che vi si legavano. Ritorneremo
su queste ascendenze mitiche che comunque i testi mostrano molto
spesso contraddittorie e variamente diversificate. Per adesso è suffi­
ciente rilevare che all'alba della civiltà ellenica Orfeo appare come
l'Archegeta di una speciale forma di misteriosofia che si appoggiava
ad uno stile di vita caratterizzato da un rigido ascetismo e da una
avversione per i sacrifici cruenti assolutamente inusuale nella religione
olimpica, con aspetti tecnico-rituali che Strabone (VII, 67) accostando
Orfeo, Zalmoxis e le rispettive tradizioni di taumaturghi, purificatori
e asceti solitari, non temeva di paragonare al bios pythagoreios. È una
locuzione che appare scelta con speciale attenzione e diventa alta­
mente indicativa per le connessioni che introduce con un movimento
che anche Platone considerava sotto molti punti di vista molto vicino
al sostrato simbolico e rituale che aveva arricchito l'orfismo.

30
2. "E Orfeo venne,jìglio di Apollo. . . "

Le radici sacre dalle quali scaturisce la figura di Orfeo sono complesse,


a volte persino contraddittorie. Una quantità di testimonianze lo asso­
ciano ad importanti divinità del pantheon ellenico come Apollo o
Dioniso, ma le indicazioni che conducono al culto apollineo sembrano
essere le più decisive e comunque quelle con più forza caratterizzante.
I legami di Orfeo con il dio Apollo si trovano chiaramente formulati
nelle tradizioni, fra le molte altre, conservate in Eschilo, Euripide,
Simonide, Apollodoro e persino nel più tardo Igino che addirittura in
Astr. II, 7 riferisce la tradizione secondo cui lo stesso Apollo avrebbe
insegnato ad Orfeo nella Pieria, la patria delle divine Muse, l'arte di
suonare la lira e, anzi, sarebbe stato proprio il famoso cantore tracio a
portare a sette, il numero sacro del culto apollineo, le corde di questo
celebre strumento del dio della luce celeste. Lo ps-Eratostene (c. 24)
riteneva che era stato lo stesso Orfeo ad attribuire il nome di Apollo
ad Helios, "il più grande degli dèi" appartenente al vecchio mondo
pre-omerico, nel probabile intento di indicare in Apollo l'epiclesi
della luce cosmica più vicina alla dimensione teofanica del divino,
alla sua essenza "provvidenziale" e forse come il dio che costituiva
il cuore stesso del nuovo ordine celeste descritto da Omero. In una
lunga tradizione rimodulata anche in molte raffigurazioni vascolari
Orfeo è stato considerato con sicurezza l'AnoÀÀrovoç ETaipov, "il
compagno di Apollo", ma è soprattutto negli scritti di un theologos
come Pindaro che verrà testimoniata con chiarezza questa particolare
connessione: "Orfeo venne, figlio di Apollo l signore della lira, padre
dei canti" (Pyth. IV, 176); "nato da Apollo", "dalla lira dorata", "inviato
da Apollo", "ÉPCÙI!Evoç di Apollo", "padre dei canti", ecc. Pindaro è un
poeta particolare che tutta una tradizione affermata con forza e mai
smentita ha sempre considerato un aedo sacro e un cantore apollineo.

31
Profondamente radicato nella religione olimpica della quale nei suoi
componimenti spesso rivela gli aspetti più elevati, conosceva "dal di
dentro" i risvolti più profondi dell'orfismo tanto da fare ipotizzare con
ragionevole sicurezza che fosse molto vicino a questo movimento o
almeno ad alcuni suoi importanti rappresentanti 18• Come si vede, le
attribuzioni che sono state trascritte sono solamente alcuni dei tanti
epiteti che riconducono lo straordinario cantore tracio alla spiritualità
del dio di Delfi, ai molti estatici che si richiamavano al suo culto e alle
sofisticate ed ampie competenze del dio della luce e dell'ordine celeste.
Tuttavia, c'è tutta una ricerca storiografica che si è compiaciuta di
differenziare l'orfismo e il pitagorismo attraverso supposte rigide
connessioni con quelle che erano ritenute in modo acritico le
rispettive divinità di riferimento cultuale, Orfeo al dio Dioniso e
Pitagora ad Apollo. In realtà, pur appoggiandosi ad alcune formu­
lazioni o espressioni contenute in una serie di frammenti, spesso si
tratta di tesi costruite a tavolino, farraginose, stiracchiate, derivate
da materiali compositi che molto spesso indirizzano i testi riadat­
tando alcune prospettive emerse nella filologia romantica, quella
che ha trovato come propri rappresentanti principali Friederich
Nietzsche ed Erwin Rohde ai quali si aggiungerà, con più dottrina
e profondità culturale, Robert Eisler che però nella sua monu­
mentale Weltenmantel und Himmselzelt del 1910 (scritta prima del
successivo Orphisch-dionysische Mysteriengedanken an der chri­
stlichen Antike, 1925), aveva mostrato di non avere dubbi sui legami
di Orfeo con Apollo. Tuttavia, questi schemi precostituiti hanno

18 Tanto da essere considerato un "iniziato ai misteri orfici" (così G. A. Rizzo,


Echi d'orfismo nella poesia greca dell 'età classica, Bronte 1 930, pp. 1 39 e
sgg.). Secondo J. Duchemin (Pindare poète et prophète, P aris 1 955, pp. 322 e
sgg.) Pindaro mostra chiaramente di conoscere e di condividere i fondamenti
della spiritualità ortica. Cfr. anche M. A. Santamarìa, Pindaro y el orfismo, in
A. Berna bé- F. Casadesùs, Orfeo y la tradici6n (Jrfica, ci t., (pp. l l 6 1 - 1 1 84), pp.
1 1 63- 1 1 79.

32
trovato un seguito numeroso e acritico presso parecchi studiosi, ma
non hanno né possono avere alcun valore assoluto in una religione
come quella ellenica dove le figure divine agiscono nell'ambito di
competenze che spesso non sono rigidamente separate e, nonostante
le rilevanti diversità di attribuzioni, si intrecciano facilmente fra di
loro come mostra il caso tipico di Apollo e Dioniso nel santuario di
Delfi. Né il sostrato essenzialmente misteriosofico, molto complesso
e variegato, dal quale emerge l'orfismo ammette una sua riduzione
a schemi astratti, rigidamente contrapposti ad altre forme di miste­
riosofia fiorite nell'Ellade e tali da somigliare agli steccati divisori,
insormontabili e persino dogmaticamente incasellati ai quali ci ha
abituati la moderna critica storico-positivistica costretta a ciò dalle
stesse sue esigenze espositive.
Per la stessa base iniziatica sempre rivendicata con attenzione, e
per gli stessi valori di riferimento culminanti nella trasfigurazione
del myste, la fenomenologia dell'orfismo non può essere accostata
a quella dei "posseduti" del dio Dioniso che si gettavano sul toro
per divorarne le carni crude, né i purificatori orfici possono essere
assimilati alle folle di donne danzanti e inebriate dal dio del vino
che invadevano il contado e le città elleniche secondo il modello
mitico immortalato nelle Baccanti di Euripide. Al contrario, l'iniziato
orfico sempre così orgogliosamente itinerante e solitario presenta
tratti molto prossimi a quelli degli asceti apollinei che purificavano,
guarendole, le persone malate, allontanavano dalle città i miasmi e
possedevano tecniche estatiche molto elaborate. È in tale contesto che
trova significato il radicamento "apollineo" di Orfeo. Non si tratta,
com'è evidente, di una sorta di leggendaria dipendenza formulata
con aspetti "umani" che tenderebbe a rendere illustre un famoso
personaggio mitico "disceso dal Nord", ma della sua appartenenza
ad una precisa tradizione che rivendicava anche alcune delle sofisticate
articolazioni caratterizzanti il culto apollineo e la sua complessiva

33
ambientazione rituale19• Sono tutte testimonianze che assicurano il
radicamento dell'orfismo nell'ambito di una delle forme spirituali più
profonde della vita religiosa ellenica e lo rendono non una sorta di
"religiosità popolare" antitetica al mondo degli dèi olimpici, come
ipotizzavano Raffaele Pettazzoni e George Thomson che addirittura
introdussero la totalmente inadeguata dizione "religione orfica"20,
ma una raffinata forma di misteriosofia che doveva condurre alla
palingenesi dell'iniziato. Il Papiro di Berlino, vv. 1-5, riassume questa
tradizione molto stabile in una sintesi che ne precisa i vari risvolti:

19 Un' attenta analisi dei rapporti di Orfeo con Apollo aveva già fatto R. Eisler,
Weltenmantel und Himmselzelt, 2 voli., Miinich 1 9 1 O, II, pp. 689 e sgg.,
successivamente contraddetta in Id., Orphisch-dionysische Mysteriengedanken
in der christlichen Antike ("Vortrage der Bibliotek Warburg", 2), Lepzig 1 925,
dove indulge anche sull ' idea troppo fissa degli studiosi del tempo che sulla
scia dei libri di Vittorio Macchioro e soprattutto del l ' erudito ed influente
A. Boulanger (Orphée. Rapports de l 'orphisme et du Christianisme, Paris
1 925) credevano di potere stabilire un rapporto molto prossimo fra orfismo
e Cristianesimo. Il tema serpeggia anche in J. Carcopino, De Pythagore
aux Apotres, Paris 1 954. Su questi aspetti è ritornato M. Herrero, Orfismo
y Cristianismo, in A. Bernabé- F. Casadesùs, Orfeo y la tradici6n 6rfica,
cit., pp. 1 527- 1 574. Cfr. anche E. lrwin, The Song of Orpheus and the New
Song of Christ, in J. Waerden (cur.), Orpheus, cit., pp. 5 1 -62. Sulla presenza
preponderante di un sostrato "mistico-estatico" di tipo apollineo nei testi orfici
cfr. anche W. K. C. Guthrie, Orphée, cit. , pp. 54-55; M. L. West, The Orphic
Poems, Oxford 1 983, pp. 1 50 e sgg. Come ha dimostrato P. Levèque (Apollo
et l' Orphisme à Olbia du Pont, in Tra Orfeo e Pitagora, cit., pp. 8 1 -90),
persino nei testi orfici ritrovati ad Olbia del Ponto la presenza apollinea appare
preponderante rispetto a quella dionisiaca, quest'ultima desunta solamente
dal fatto che il myste viene chiamato bacchos.

20 Parlare di "religione orfica" sarebbe come fantasticare vanamente su li' esistenza


di diverse "religioni" ali ' interno della spiritualità ellenica. Si commetterebbe
lo stesso errore di chi volesse favoleggiare di una "religione yoghica" per
l ' India, una "religione esicasta" per l ' Oriente Ortodosso, una "religione
sufica" per l ' Islam, una "religione taoista" per la Cina classica e una "religione
benedettina" per il Cattolicesimo.

34
"Orfeo era figlio di Eagro e di Calliope la
Musa, poi il re delle Muse Apollo lo
ispirò, per cui posseduto dal dio
compose gli inni che Museo, corretti pochi versi,
mise in forma scritta " .
(fr. 4 9 Kern) 21

Karoly Kerényi riteneva che il nome Op<pcuç, Orfeo, scaturiva


dallo stesso radicale da cui si è formato il termine op<pav6ç. Da
parte sua, nel suo celebre Dictionnaire étymologique de la langue
grecque Pierre Chantraine riconduceva l'etimologi a del nome
del cantore tracio ad "un derivato in -av6ç di un nome tematico
*op<poç, supposto in tre glosse di Eschilo" che appartiene al tipico
contesto espressivo che comunica un'idea di "privazione" applicata
alla situazione dell'orfano. Il termine Op<pEuç sembrerebbe perciò
riconnettersi all'indoeur. *orbho-, gr. *op<po-, lat. orb-us, armen. orb,
-oy, "orfano", tutto un ambito semantico che ci porta ad un Orfeo
quale "il solitario", }"'appartato", "il privato", molto prossimo al tipo
del "separato dal mondo" di quell'asceta itinerante che ha sempre
caratterizzato la fenomenologia del movimento orfico22• Che questi

21 Tr. it. di P. Scarpi (cur.), Le Religioni dei Misteri, I, cit., p. 38 1 . Da cfr. con la
lunga Test. 94 Kem (in Diodoro Siculo, IV, 25, 2-4), che elenca molti tratti della
leggenda orfica, ma menziona un inverosimile viaggio di Orfeo in Egitto dove
avrebbe studiato "fin dal l 'infanzia le tradizioni teologiche". È la tesi tipica di
alcuni autori greci che, come Diodoro, consideravano l'Egitto la fonte di ogni
sapienza e credevano impossibile che il "barbaro" tracio Orfeo potesse diventare
un maestro spirituale.

22 Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, P aris 1 968,


p. 829; K. Kerényi, Pythagoras und Orpheus. Aufsiitze zur Geschichte der
Antike und des Christentums, Ziirich 1 950, che riprende O. Kem, Orpheus. Eine
religionsgeschichtliche Untersuchung, Ber l in 1 920, pp. 1 6 e sgg. L'esegesi
di R. Bohme, Der Name Orpheus, in "Minos", 1 7, 1 98 1 , pp. 1 22- 1 33, tenta
altre vie e sposta la sua attenzione verso ipotetici termini di una mai provata e

35
significati siano essenziali è dimostrato anche dal fatto che possono
essere ritrovati anche nell'etimo del nome del padre "umano" del
celebre vate-cantore, Eagro, Oiaypoç (da aypt6ç, "che vive nei campi",
si ha l'omerico "selvaggio"). In Crat. 394 Platone rende 'tO ayptov con
"selvatichezza", mentre 'ta aypta indica "le fiere". Il trace Eagro, il
famoso sposo della Musa Calliope che aveva dato il proprio nome al
fiume Ebro che attraversava le regioni traciche (frr. 245-247 Kern),
sarebbe perciò "colui che vaga [solitario] nei campi", "il selvatico".
È un'esegesi attenta al simbolismo coperto da Orfeo che sostanzia
con forza anche quei veri e propri suoi prolungamenti affiorati nella
poesia elegiaca o nei componimenti pastorali fioriti nel periodo
imperiale come conferma, fra altri, un famoso passo di Virgilio che
descrive la sua ambientazione tracica: "solus Hyperboreas glacies
Tanaimque nivalem l arcaque Riphaeis numquam viduata pruinis ... "
(Georg. IV, 517-518; cfr. Ovidio, Metam., X, 73).
Molto probabilmente il nome di Orfeo era un epiteto, una qualifica­
zione, un appellativo, un'aggettivazione che designava una funzione,
delineava un modus essendi di tipo misteriosofico. Come nel caso
del Buddha, l"'Illuminato", del vedico Muni, il "solitario-silenzioso",
o del Jina, "il Vittorioso", anche il nome di Orfeo scaturiva dalle
attribuzioni tipiche di un tipo particolare di asceta itinerante e soli­
tario. Alle origini molto probabilmente il termine sottolineava il suo
status, ne precisava la condizione di pienezza estatica dalla quale
ben presto il termine "Orfeo" sembra essersi svincolato fino a perso­
nificarne tutti i caratteri essenziali. Dalla realtà spirituale sottesa

troppo vaga origine micenea (pa7t-rro, pa1t-rrov, ecc.) che però collocherebbero
l' orfismo in impossibili ambiti culturali. Totalmente fuori da ogni contesto
etimologico, e ormai abbandonate da tutti gli studiosi, le ipotesi di G. Curtius
(secondo cui il termine "Orfeo" si collegherebbe con ! ' "oscurità" dell' Ade,
come nel caso del dio infero "Orphos", della ninfa dell'Averno "Orphne", ecc.),
e di R. Eisler ( Orpheus, the Fisher, London 1 92 1 ) che vedeva in "Orfeo" un
,

"pescatore".

36
da questi Solitari è nata una complessa tradizione nella quale si
riconosceva tutta una categoria di asceti vaganti che usavano vivere
in solitudine e solo la confusione fra la funzione spirituale e il perso­
naggio che doveva trasmetterla, tipica di una Grecia "illuminata"
nella quale sembrava trionfare il razionalismo sofistico più estremo,
ne ha fatto solamente il nome di una personalità al limite fra il mito
e la storia. La famosa frase di Cicerone (Nat. deor. I, 107) intesa a
rassicurare i lettori suoi contemporanei che "il poeta Orfeo non è
mai esistito" trova qui, in questa dimensione spirituale che a poco
a poco è diventata una vera e propria tradizione molto vitale, la sua
spiegazione più veritiera.
D'altronde, questa attenzione verso un'intera comunità di asceti
solitari e itineranti dà consistenza alla realtà altrimenti evanescente
di quella che ancora al tempo di Platone si presentava ovunque come
una sorta di quasi-confraternita di XPTJ<J!lOÀ6yot, "indovini, oracoli
e purificatori", nonostante il discredito nel quale ai suoi tempi era
caduto il movimento che il fi losofo ateniese non teme di registrare
con impietosa attenzione. È il caso per es. del celebre passo di
Resp. II, 364e, là dove Platone sottolinea il carattere di scaltri e
improvvisati imbroglioni dei tanti pseudo-asceti e purificatori che
convincevano i creduloni di essere in grado con le loro cerimonie
di fare espiare i peccati dei viventi e dei defunti purché venisse
pagata una adeguata somma23• Teofrasto aggiunge che esisteva addi­
rittura tutta una categoria di pseudo-orfeotelesti ai quali ogni mese
si accostavano i soliti superstiziosi accompagnati da moglie e figli

23 Cfr. P. Boyancé, Platon et !es cathares orphiques, in "Revue des Ètudes


Grecques", 1 942, pp. 2 1 7 e sgg.; Id., Le eu/te des Muses chez les philosophes
grecques, rist. P aris 1 972, pp. IO e sgg . , A. Masaracchia, Orfeo e gli "orji.ci "
in Platone, in Id., Orfeo e l'Or.fismo, cit., pp. 1 73- 1 97; A. Bemabé, Platone e
l 'orji.smo, in G. Sfameni Gasparro (cur.), Destino e salvezza tra culti pagani e
gnosi cristiana. Itinerari storico-religiosi sulle orme di Ugo Bianchi, Cosenza,
1 998, pp. 37-97; W. K. C. Guthrie, Orphée, cit. pp. 1 76 e sgg.

37
pagando regolarmente purché potessero accedere a sacrifici purifi­
catori e ad improbabili misteri salvifi c i (Test. 207 Kern). Il testo del
periodo giudaico-ellenistico conosciuto come Testamento di Orfeo
studiato da Chr. Riedweg conferma che l'uso di chiedere denaro
per prestare la loro opera da parte di questi indovini e pseudo­
purificatori era assolutamente "normale" e si è continuato sino al
tempo dell'impero24•
Tuttavia Platone ricorda (Gorg. 493a) che al di sopra di questa molti­
tudine di impostori esistevano degli autentici sapienti orfici da lui
sovente chiamati gli "antichi theologoi" appartenenti ad "antiche e
sacre tradizioni le quali ci rivelano che la nostra anima è immortale"
(Epist. VII, 335a). Si tratta di tutta una categoria di asceti per i quali
Platone dichiara un inusuale rispetto (''quegli Antichi che erano più
sapienti di noi e vivevano più vicini agli dèi"; Phil. 16d) e sui quali
ritorna in molti punti delle sue opere con il medesimo apprezzamento
positivo. Fra costoro Platone ritiene che si possa annoverare anche
"un uomo illustre (KOf.l\!'6<; civilp), un Siculo o un Italico". È un'e­
.

spressione che sembra voler parlare a lettori che conoscevano bene i


fondamenti dottrinali che sostanziavano i riferimenti di Platone. Si è
trattata con molta verosimiglianza di una tradizione familiare ai dotti
del V secolo ellenico che si era prolungata durevolmente nelle colonie
della Magna Grecia in modo tanto profondo da permettere di parlare
di purificatori ed iniziati orfici con un ril ievo che altrove sembra
impossibile trovare. E tuttavia l'esatta identità dell'illustre personaggio
menzionato da Platone continua a sfuggire e la critica moderna tende
ad identificarlo con il filosofo agrigentino Empedocle (o al più con
Filolao considerato il tipico rappresentante della cosiddetta Schola
italica25). Ma forse sarebbe opportuno astenersi dall'identificarlo con

24 Cfr. C. Riedweg, Judische-hellenistische lmitation eines orphisches Hieros


Logos, Miinchen 1 993, pp. 47 e sgg.
25 P er capire cosa intendevano i Greci con questa espressione è utile M. M. Sassi,

38
uno dei personaggi da noi conosciuti a causa della complessità di
una tradizione che in quanto tale si esprimeva raramente attraverso
il valore speculativo dei singoli affi l iati. Come si vede, la peculiarità
essenziale di questi "sapienti" (cro<poi) o "antichi theologoi" di cui
parla ancora Platone consisteva nel richiamarsi all'insegnamento del
mitico Orfeo che agli occhi dei suoi numerosi fedeli continuava alcuni
aspetti mistico-realizzativi caratteristici del culto apollineo. Erano
"uomini illustri e sapienti", sophoi e theologoi per i quali diventava
naturale ammettere di far parte di una veneranda tradizione che,
pur vagamente strutturata, attraverso le celebri cerimonie sacre li
trasformava in "Puri" iniziati, una eletta cerchia alla quale dichiara di
appartenere con sottile orgoglio e consapevolezza l'anima del myste
orfico in due Laminette auree di Thurii: "vengo Pura dai Puri", ÉK
Ka[fu]prov Kafupa.
Tutta una solida consuetudine culturale prolungatasi fino ai canti
delle consorterie degli apollinei bukoloi, alla poesia pastorale del
mondo ellenistico e all'elegia dell'età imperiale romana ha sempre
posto Orfeo al centro di selve incontaminate, in una condizione di
pura armonia, oppure in ambientazioni quasi parusiache che l'elegia
romana assimilava volentieri a quelle della mitica Arcadia o all'im­
macolata vita primordiale dei veggenti, degli Oracoli e dei Fauni del
mondo italico. Persino Virgilio chiede che "sit Tityrus Orpheus" (Egl.
VIII, 55), ossia che il "pastore" [= iniziato, qui tipizzato come un
"tityrus", che Servio nel suo commento a Virgilio traduce dal dialetto
dorico come l"'ariete", forse con una allusione al travestimento rituale

La .filosofia 'italica '. Genealogia e varianti di una formula storiografica, in A.


C. Cassio-P. Poccetti, Forme di religiosità e tradizioni sapienziali in Magna
Grecia, ci t., pp. 29-53, che fa giustizia di molte assurdità che circolano da troppo
tempo in ambienti para-culturali. Cfr. pure Id. , Alla ricerca della.filosofia italica.
Appunti su Pitagora, Parmenide e l 'orfismo, in Un secolo di ricerche in Magna
Grecia, Atti del XXVl/l° Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Napoli 1 989,
pp. 23 1-264.

39
del quale anche Virgilio parla in altre Egloghe], l'appartenente alle
confraternite dei bukoloi debba partecipare della stessa dimensione
spirituale cui fa riferimento la tradizione che si richiama ad Orfe<Y6• I
poeti spesso ne esaltano la maestrìa compositiva perché il Vate tracio
è sempre stato considerato il fondatore del canto aureo, "il più grande
nella scienza dei misteri e nella teologia" (Test. 94 Kern, in Diodoro,
IV, 25, 3), il maestro della musica liberatrice che ripristina l'equilibrio
del cosmo e ne "interpreta" le armonie primordiali, l'artefice della
"forma musicale" che la lira apollinea, considerata il simbolo stesso
del cosmo, poteva intonare per ritmare il suono originario, riportare il
mondo alla sua perfezione iniziale e così rendere concreto e "vivente"
il grido con valore rituale che secondo la tradizione omerica lo stesso
Apollo aveva lanciato al momento della nascita: "Datemi la lira diletta
e l'arco ricurvo l e negli oracoli annuncerò agli uomini il volere di
Zeus" (Inno ad Apollo delfico, 129-1 30).
Orfeo veniva correntemente considerato anche come lo scopritore
dell'alfabeto e il patrono della poesia sacra, degli inni, dei peana e
di quelle cosmogonie che verosimilmente dovevano essere recitate
durante le cerimonie iniziatiche. Euripide (Alc. 962-971) addirittura
lascia intendere l'esistenza di tavolette trace nelle quali sarebbero
state trascritte formule incantatorie attribuite ad Orfeo la cui reci­
tazione doveva guarire dal la malattie e dai malanni. La notizia è
interessante perché testimonia l'esistenza di Hieroi Logoi (oppure di

26 Su questi aspetti del mondo pastorale antico-italico, cfr. N. D'Anna, Mistero


e Profezia. La IV egloga di Virgilio e il rinnovamento del mondo, Lionello
Giordano, Cosenza 2007, pp. 1 23- 1 48. In un attento suo studio G. Casadio, l
Cretesi di Euripide e l 'ascesi orfica, in V. F. Cicerone (cur. ), "Atti del V Convegno
Nazionale di Studi sulla ' Didattica delle lingue classiche' , tenuto a Foggia nel
1 987", 2 voli., Foggia 1 990, II, (pp.278-3 1 0), pp. 28 1 e sgg., ha mostrato che
boukolos è un termine tecnico scaturito da una ambientazione misterica spesso
riconducibile all'orfismo e addirittura emerge con un suo rilievo rituale, e forse
persino con un sottofondo iniziatico, in un paio di Inni orfici: I, l O e XXXI, 7
(ivi, p. 288 e sgg.).

40
semplici composizioni, frasi e invocazioni rituali) non appartenenti
al più conosciuto corpus teo-cosmogonico, ma aventi solamente
finalità purificatorie e taumaturgiche. Il Papiro di Derveni (col. VII,
2-4), dichiara con chiarezza che la lettura di speciali componimenti
poetici articolati su suoni, lemmi e parole segrete aveva un ruolo
fondamentale nei rituali:

" [. . .] un inno che dice parole conformi a verità e giustizia; infatti


si celebrava un atto di culto
con la poesia. E non è possibile sciogliere il significato recondito
delle parole, anche se sono state pronunciate. È unaforma di poesia
inconsueta
ed enigmatica per gli uomini . . . .
"

(tr. P. Scarpi)

Alcidamante (Test. 1 23 Kern) spiegherà che Orfeo ricevette diretta­


mente dalle Muse la conoscenza delle lettere dell'alfabeto e trasmise
agli uomini l'arte della composizione poetica e gli arcana spirituali
veicolati dalla scrittura. Ora, le Muse fuoriescono dalla tradizione
apollinea della quale andranno a personificare alcune "specializza­
zioni tecniche" quali il canto, la tragedia, la commedia, gli inni sacri,
la musica creatrice (flauto, lira, danza) e le conoscenze d'ordine astro­
nomico, esprimono la maestrìa evocativa che queste arti suppongono.
L'abitudine degli antichi poeti di invocare le Muse per ottenere
l'ispirazione non era un espediente per abbellire i loro scritti o una
concessione agli usi del tempo, ma procedeva da questa dimensione
sacra, intendeva prolungare nel canto poetico una determinata forza
creativa, inverava una potenza, trasformava una semplice motiva­
zione individuale nella rappresentazione di un archetipo divino.
L'aedo diventava il semplice veicolo espressivo di una realtà spiri­
tuale che lo trascendeva. L'arte della scrittura trasmessa dalle Muse
ad Orfeo rivela di essere non un semplice elemento di civiltà, ma

41
un veicolo di pienezza sapienziale che invera nel mondo umano la
"lingua degli dèi", l'essenza più arcana della sfera celeste nella quale
rivelavano la loro potenza evocativa i canti e gli inni sacri. Riformula
al proprio livello il significato creatore e trasformante della stessa
"parola divina":

"L'alfabeto l 'introdusse per primo Orfeo, che l 'aveva appreso


dalle Muse come precisa l 'iscrizione sul suo sepolcro:
Delle Muse i Traci l 'allievo qui posero, Orfeo,
che Zeus alto sovrano col fulmine ignoto uccise,
il.figlio d'Eagro, d'Eracle maestro,
che agli uomini scoprì le lettere e la sapienza " (ypajljlULU Kai
cro<piT)V).
(tr. P. Scarpi)

Si tratta di una tradizione sul significato dei fonemi, dei suoni e delle
parole che considera il linguaggio non uno strumento comunicativo
basato su formule espressive derivate dall'esperienza o scaturite
dalla variabilità del flusso della vita, ma il veicolo di una rivelazione
divina che in quanto tale ha reso la lingua un veicolo sacro e la recita
delle varie cosmogonie una vera e propria salmodìa tesa ad inter­
pretare il sostrato spirituale della creazione universale. La formu­
lazione scritta di queste antiche composizioni diventava perciò non
la semplice trascrizione senza alcun valore del pensiero di questo
o quel mitografo, quanto la cristallizzazione in un testo sacro di
una vera e propria "forma divina" che solo gli iniziati potevano
comprendere nella loro reale portata trasformante. Tutta la durevole
tradizione che ha sempre attribuito alle comunità orfiche l'esistenza
di testi scritti, gli speciali Hiéroi Logoi che dovevano essere recitati
durante le cerimonie sacre, trova qui la propria ragione. Siamo
davanti a quel "sacrificio della parola" le cui tracce Paolo Scarpi
riteneva di rinvenire anche nel Papiro di Derveni (col. VII, 2-3) che

42
mostra persino forme di articolazione della parola e dei nomi delle
cose che poi troveranno un rilievo dottrinale importante nel Cratilo
di Platone27 e la cui vitalità risulta testimoniata con forza anche
da una nutrita serie di pittografie vascolari e dalla stessa esegesi
neoplatonica.
In una religione come quella olimpica che non aveva mai conosciuto
Fondatori o Riformatori di qualsiasi tipo e non aveva mai posseduto
qualcosa che somigl iasse ad un canone di scritture nelle quali
custodire l'equivalente di una rivelazione divina, l'esistenza di questi
Hiéroi Logoi nei quali veniva cristallizzato il complesso sistema
dottrinale e cosmogonico orfico costituiva una assoluta diversità
rispetto alle abituali consuetudini religiose di quel popolo che molto
probabilmente toccava anche gli aspetti rituali e affondava le proprie
radici nella convinzione che la recitazione del testo sacro era uno
dei veicoli più adeguati della rivelazione divina e idoneo come pochi
altri a trasmettere i simboli che ne rappresentavano }"'essenza"
più profonda. Una testimonianza conservata da un commentatore
di Euripide (Test. 82 Kern, in ad Eur. Aie. 965 e sgg.) addirittura
assicurava che, come presso molti popoli di tradizione arcaica presso
i quali si sono conservati simboli identici fi no alle soglie dell'età
moderna, questi Hiéroi Logoi orfici erano stati incisi in alcune
"tavolette" custodite sul monte Haimos che delimitava l'estremità
settentrionale della Tracia, l'alta cima che faceva da controparte al
Rodope, la montagna che nel simbolismo orfico ricordato per es. da
Ovidio, ha sempre avuto un ruolo molto importante. Le connessioni
simboliche stabilite dal mito sono molto precise: i venerandi Hiéroi
Logoi nei quali si trova formulata la dottrina scaturiscono dalla

27 Su questi aspetti della fonnazione dei tennini e dei fonemi è utile W. Burkert,
La genèse des choses et des mots. Le Papyrus de Derveni entre Anaxagore et
Cratyle, in " Ètudes P hilosophiques", 25, 1 970, pp. 443-455. Cfr. anche J. B.
Gould, The Ambiguity of"Name " in Plato s Cratylus, in "Philosophical Studies",
34, 1 978, pp. 223-25 1 .

43
sapienza custodita al centro del cosmo, nell'axis mundi.
A questi antichi simboli si collega anche quella particolare poesia
elegiaca latina che rappresenta Orfeo come l'archegeta del le
primitive confraternite di poeti e di cantori-pastori le cui condi­
zioni di vita nelle foreste e negli antri più nascosti si ritenevano
simili non a quelle di esseri selvaggi, lontani dalla civiltà e in stato
di perenne selvatichezza, ma ai veggenti, agli indovini, ai cantori,
ai profeti primordiali e a tutta quella variegata consorteria di Fauni
ed Oracoli per i quali la lingua latina aveva il compito di svelare
la volontà divina, era il supporto oracolare di un mondo ancora
immacolato i cui segni rivelavano un unico linguaggio, parlavano
la stessa lingua degli dèi. Questi personaggi erano conosciuti anche
per la loro particolarità di radunarsi attorno al culto sviluppatosi
in vicinanza dei numerosi santuari di un poco conosciuto Apollo
Pastore che enigmaticamente si troverà come riferimento costante
nei bukoloi dell'età augustèa, nei componimenti di uno straordinario
poeta-vate come il Virgilio delle Bucoliche e persino nelle pitture
di alcune catacombe romane che, cristianizzandone il significato,
hanno sottolineato il valore simbolico imperituro di questa antica
figurazione divina che traeva i propri simboli e la stessa struttura­
zione formale dall'orfismo28•
In una lunga tradizione che non è mai cambiata il solitario Orfeo ha
goduto di uno status particolare, legato ai primordi e ad una umanità
"originaria", perfetta, mentre tutta una letteratura ne ha celebrato il
singolare legame con l'armonia celeste prodotta dal suono della sua

28 Il problema si trova studiato in N. D'Anna, Mistero e Profezia, cit., pp. 1 23 e


sgg.; Id., Tlzeatrum Mundi. Culto apollineo e confraternite pastorali a Roma,
in "Atrium", XII, 3/20 IO, pp. 1 1 9- 1 30. Cfr. J. Duchemin, La lzoulette et la lyre.
Reclzerclzes sur /es ori[?ines pastorales de la poesie. l. Hermès et Apo/lon, Paris
1 960, i cui risultati erano stati presentati come Id., Dieux pasteurs et musiciens:
Hermès et Apollon, in "Comptes-Rendus de l' Academie des lnscriptions et
Belles-Lettres", 1 04, l , 1 960, pp. 1 6-37.

44
lira e con i ritmi inalterati di una natura paradisiaca. Seguendo una
tradizione ampiamente seguita da tutti gli esegeti antichi Atenagora
riferisce che, come Omero aveva indicato gli elementi fondamentali
della religione tradizionale in due poemi che costituiranno le basi
della "teologia" olimpica, anche Orfeo era considerato un theologos
che aveva "scoperto" i nomi degli dèi, ne aveva raccontato la storia
mitica e rivelato la loro essenza più autentica:

"Orfeo perprimo scoprì i nomi degli dèi, ne espose attentamente


la nascita, raccontò le gesta di ognuno di loro ed ebbe il
privilegio di elaborare una veritiera theologia ".
(fr. 5 7 Kern)

La cosa più sorprendente è che questo passo di Atenagora aiuta


finalmente a configurare con esattezza il ruolo di quegli enigmatici
npù.>tot 9wÀoyiJcravn:ç;, "i primordiali theologoi" sui quali si era
soffermato nella sua delineazione della cosmogonia orfica anche i l
grande Aristotele (Metaph. A 983b27; fr. 2 5 Kern). Nella prospettiva
emi nentemente speculativa dello Stagirita questi "primordiali
theologoi " formavano una categoria di "antichi" m itografi e
cosmologi universalmente stimati dai filosofi greci che grazie ad
Aristotele e a Platone escono dalle nebbie dell'indeterminato e
acquistano una loro personalità storica accanto ad Omero ed Esiodo
quali cantori di quei mitologhemi che costituivano l'impalcatura
architettonica che sostanziava molti dei variegati aspetti della più
antica religione ellenica. D'altronde, le stesse strutture speculative
di alcuni pensatori presocratici (Talete, Anassimandro, Anassimene,
Eraclito, Parmenide, ecc.), tutti designati sbrigativamente dalla
storiografia moderna come "filosofi naturalisti", lungi dall'essere
il risultato di semplicioni che hanno cominciato a balbettare un
coerente pensiero logico-discorsivo, molto spesso mostrano di
scaturire da una dimensione cosmogonica nel la quale l'arché sul

45
quale si soffermano evidenzia un principio creativo che nel loro
sistema tende a razionalizzare arcaici mitologhemi che affondavano
le proprie ragioni in una prospettiva cosmica. Non solo, ma la stessa
esistenza di questi theologoi mostra tutto un sostrato originario non
riconducibile facilmente alla religione olimpica e fa emergere un
antico fondamento della spiritualità ellenica del quale le dottrine
orfiche sembrano aver costituito una componente di primaria impor­
tanza che dava forte rilievo ad una ambientazione iniziatica rimasta
lontana dalla sfera luminosa degli dèi omerici29• È a questo arcaico
mondo che sembrano potersi ricondurre tutti quei racconti indicati
da Eudemo (fr. 150 Wehrli), l'allievo di Aristotele che in una sua
allora celebre Storia della theologia elencava le teogonie greche
attribuite ad Orfeo, Omero, Esiodo, Acusilao, Epimenide e Ferecide
assieme a quelle dei B abilonesi, dei Magi persiani e dei Fenici di
Sidone, secondo un'attitudine comparativistica tendente ad esaltare
le tradizioni spirituali dei popoli di venerata cultura che poi trionferà
nel periodo i mperiale e con molta forza nei dottrinari del tardo
neoplatonismo.
I molteplici ruoli di Orfeo ne hanno sempre fatto un personaggio
complesso, ma è la sua musica che lo hanno reso un unicum assoluto
fra i tanti Aedi che hanno attraversato l'Ellade del tempo arcaico. Si
pensava che il suono della sua lira fosse in grado di "interpretare"
il tessuto spirituale del mondo e, in una prospettiva parusiaca, di
ripristinare antichi equilibri alterati. Il suono della lira del Vate tracio
aveva persino incantato le divinità e i terribili custodi degli Inferi,
domato Cerbero, provocato la sospensione delle pene di Tantalo,
Issione e Sisifo, affascinato Hades e Persefone. Era riuscito a pene-

29 Cfr. U. Bianchi, Per la storia della teologia dei Greci: la 'Teogonia 'di Esiodo,
in La coscienza religiosa de/ letterato pagano, Genova 1 987, pp. 9-26; Id.,
Teologia e Teodicea. Tra espressione e testimonianza, in Testimonianza religiosa
e forme espressive, I, Perugia 1 989, pp. 307-3 1 7.

46
Berlino, Staatliche Museen, tripode bronzeo del VI secolo con tre ippocampi
che sovrastano tre tori (da Metaponto)
Napoli. Museo Naz. Statuetta in bronzo di un Dioscuro, IV sec.
trare nell'Ade e a tentare di "salvare" l'anima della sposa Euridice
dalle pene degli Inferi. E tuttavia il suo tentativo fallisce perché
Orfeo temendo che l'anima della donna che stava accompagnando
fuori dall'Ade fosse stata trattenuta dalle potenze infernali si gira per
guardare indietro, ma il gesto contravviene proprio al divieto fattogli
di fissare lo sguardo verso gli dèi infernali. A causa di questo atteg­
giamento non conforme al rituale di "discesa agli Inferi" il tentativo
non riesce e il Vate ritorna nel mondo degli uomini privo dell'amata30•
La "discesa all'Ade e la resurrezione" delineata nel percorso di Orfeo
ha uno schema-base che si trova curiosamente anche in altre culture.
Nell'area siberiana, per es., gli sciamani di ogni tempo e latitudine
si sono adoperati sempre e senza problemi per recuperare l'anima
dei fedeli portandosi nell'aldilà. I l "ritorno" dell'anima accompa­
gnata dallo sciamano si conclude con l'uscita definitiva dal mondo
delle tenebre e con la riuscita positiva dell'itinerario di salvezza. E
tuttavia nel racconto ellenico, nonostante la benevolenza divina e la
forza persuasiva delle sue arti, Orfeo deve abbandonare Euridice al
suo oscuro destino di ombra senza luce, lo stesso destino che veniva
prospettato alle anime che non potevano essere iniziate ai rituali orfici,
i "dormienti" e gli "ignoranti" dei testi platonici e di alcuni frammenti
di Eraclito. Secondo lo ps.Eratostene (Test. 1 13 Kern) dopo il ritorno
dal suo sfortunato viaggio nell'Ade l'addolorato Orfeo ascende il
monte Pangeo in Tracia per onorare il dio Apollo nella sua particolare
epiclesi di Helios, il dio della luce "salvifica" e trasformante, e da
quel momento in questo luogo particolare e carico di profondi segni

30 Il racconto era conosciuto già molto prima che Virgilio lo rendesse immortale.
Cfr. I. Heurgon, Orphée et Eurydice avant Virgile, in "Mèlanges d' Archéologie
et d'Histoire", 49, 1 932, pp. 6-60; E. Norden, Orpheus und Eurydike, in
"Sitzungberichte Preussische Akademie der Wissenschaften", Berlin 1 934,
pp. 626-683 (= Id., Kleine Schriften, Berlin 1 966, pp. 468-532); C. M. Bowra,
Orpheus and Eurydice, in "Classica! Quarterly", 46, 1 952, pp. 1 1 3- 1 26 ; C.
Segai, Orpheus, cit., pp. ! 55 e sgg.; W. K. C. Guthrie, Orphée, cit., pp. 4 1 -43.

47
ogni mattina continuerà ad elevare i suoi Inni incantatori in onore del
divino Helios-Apollo31•
Quando Orfeo intonava il canto sui ritmi della sua straordinaria lira
placava le tempeste della natura e ordinava agli animali di "ritornare"
allo stato originario antecedente all'ispessimento materiale succeduto
alla caduta dell'anima umana nello scorrere temporale, quando gli
animali potevano comunicare liberamente fra di loro e con il mondo
degli uomini, uno status di pienezza che il simbolismo traduceva con
le note espressioni "il lupo stava con gli agnelli" e "il leone con le
tigri", due immagini adoperate in una celebre locuzione di Ovidio per
significare la congiunzione degli opposti e il ritorno alla perfezione
iniziale. D'altronde, questo tema così tipicamente orfico non è rimasto
confinato nel patrimonio dei poeti o dei mitografi, è invece diventato
popolarissimo fra gli artisti ed è stato immortalato in una moltitudine
di mosaici e di pittografie vascolari disseminate dalla Britannia alla
Gallia, all'Italia, alla Grecia. La sua presenza ha percorso la cultura
antica ben oltre la prima conversione dell'Impero al Cristianesimo, ha
toccato in modo consistente la speculazione degli ultimi neoplatonici e
si ritrova quale elemento figurativo non transeunte e ormai pienamente
"convertito" persino in alcuni sarcofagi cristiani di Roma e di Ostia
Antica come evidente auspicio "parusiaco" per l'anima del defunto32•

31 Il tentativo M. L. West (Tragica VI. ltem 12. Aeschylus ' Lycugeia, in "Bulletin
of the Institut of Classica) Studies", 30, 1 983, pp. 63-82) di prefigurare un
abbandono di Orfeo del culto di Dioniso e una sorta di sua conversione a quello
di Apollo-Helios è poco convincente e pare emergere solo da categorie mentali
tutte moderne derivate probabilmente dal dualismo Dioniso-Apollo introdotto
da F. Nietzsche.

32 Per il tema di Orfeo e gli "animali pacificati" dal suo canto nell' arte antica,
cfr. H. Stem, Les débuts de l'iconographie d'Orphée charmant !es animaux,
in "Mélanges de numismatique, archéologie et d'histoire offerts a J. Lafaurie",
Paris 1 980, pp. 1 57- 1 64. Sulla persistenza di un Orfeo "incantatore" anche
nel l ' iconografia cristiana, P. Testini, Il simbolismo degli animali nell 'arte
figurativa paleocristiana, in L 'uomo di fronte al mondo animale nell 'Alto

48
Simone di Ceo (fr. 27 Diehl) assicurava che quando Orfeo scandiva il
suono della sua lira ed elevava il suo canto gli uccelli volteggiavano
sul suo capo e i pesci danzavano sulle superficie delle onde azzurre.
Il simbolismo sotteso da questo racconto è molto interessante perché
il "canto degli uccelli" e la "danza dei pesci" presso molte tradizioni
dell'umanità simbolizzano sempre la "lingua degli dèi" e la sapienza
divina33, come a dire che il suono della lira di Orfeo riportava il mondo
alle stesse condizioni "edeniche" degli inizi, quando le divinità, gli
uomini, gli animali e l'intera creazione si trovavano "naturalmente"
accanto ed ogni sacrificio cruento era reso assurdo da questa stessa
comunanza, non era gradito agli dèi, alterava l'equilibrio e l'armonia
che reggeva il mondo divino in quel tempo-senza-tempo, originario.
Fra l'altro, questi aspetti indicano con sufficiente chiarezza non solo
che gli orfici derivavano l'orrore per il sangue dalla contemplazione
di un mondo primordiale puro, limpido e "innocente", ma ci intro­
ducono allo stesso significato originario dei rituali di purificazione
che sostanziavano completamente la loro vita ascetica e molti aspetti
delle cerimonie sacre. Attraverso il tanto celebrato bìos orphikòs, la
rigida proibizione dei sacrifici cruenti, il vegetarianismo e i rituali
iniziatici recuperavano la stessa condizione "edenica" degli inizi,
riacquisivano la purezza e la perfezione primordiale quale poteva
essere riscontrata nell'innocenza del "Dioniso-Fanciullo" prima della
sua uccisione, quella vera e propria immolazione compiuta dai Titani

Medioevo, II, Spoleto, 1 985, pp. 1 007- 1 07 8 ; M. Chicoteau, The 'orphic '
Tablets Depicted in a Roman Catacomb (c. 250 A.D.) ?, in "Zeitschrift fi.ir
Papirologie und Epigraphik", 1 1 9, 1 997, pp. 8 1 e sgg. Un 'attenta presentazione
del movimento orfico alle soglie del Cristianesimo ha fatto G. Casadio, Aspetti
della tradizione orfica all'alba del Cristianesimo, in La tradizione. Forme e
Modi (''Studia Ephemeridis Augustinianum", 3 1 ), 1 990, pp. 1 85-204.
33 Sull'importanza del simbolo deli' uccello-anima neli' orfismo e sui suoi fondamenti
escatologici resta importante R. Turcan, L' fime-oiseau et l 'eschatologie orphique,
in "Revue de I ' Histoire des Religions", 1 55/ 1 , 1 959, pp. 33-40.

49
che hanno sparso il suo sangue su un mondo ancora "innocente".
Nella prospettiva orfica quest'atto empio e sacrilego ha assunto
tutti i connotati di un sacrificio primordiale capovolto le cui finalità
appaiono solo quelle di un vero e proprio pervertimento dell'arcaico
equilibrio cosmico e divino. Conone esprimerà lapidariamente questa
realtà originaria precedente l'uccisione del Divino Fanciullo dicendo
che "[Orfeo] era così abile a meravigliare e ad incantare con il canto
che le fiere, gli uccelli, gli alberi e le pietre lo seguivano inebriati" (fr.
45, Jacoby; Test. 1 1 5, Kern).
Nella metopa del tesoro dei Sicioni a Delfi è stata raffigurato un perso­
naggio su una nave mentre suona la cetra posto di fronte ai due Dioscuri
unanimamente considerati le divinità protettrici dei navigantP4• Una
iscrizione indica chiaramente chi è l'enigmatico suonatore di cetra,
Op<paç;, "Orfeo" (Test. l , Kern). La metopa attesta con nettezza che già
nel VI secolo il mito di Orfeo che assieme agli altri Eroi della Grecia
partecipava alla spedizione degli Argonauti faceva saldamente parte
del patrimonio culturale degli Elleni tanto che alcuni suoi momenti
potevano essere immortalati dagli artisti e dai costruttori dei templi.
Orfeo aveva preso parte a questa famosa spedizione su indicazione del
centauro Chirone che aveva annunciato: "Se porteranno con loro Orfeo
potranno sfuggire alle Sirene". Chirone era stato l'archegeta di un gran
numero di Eroi da lui iniziati all'arte della guerra, del canto eroico
e della danza guerriera; era la proiezione mitica del maestro-guida
delle confraternite guerriere che in epoca arcaica avevano arricchito la
vita spirituale ellenica, ma la cui struttura fortemente iniziatica si era
prolungata anche in alcune città dell'epoca storica. La sua vicinanza
con Orfeo è altamente indicativa e prefigura il tipo stesso di ambienta­
zione "eroica" nella quale dovrà operare Orfeo assieme agli altri Eroi
durante la spedizione degli Argonauti.

34 Lo studio più pertinente resta quello di P. de la Coste Messelière, Au Musèe de


Delphes, Paris 1 936, pp. 1 95 e sgg.

50
Pindaro nella sua IV Pitica (vv. 176 e sgg.) aggiunge che Orfeo aveva
potuto partecipare a questo straordinario viaggio cui erano stati invitati
tutti gli Eroi più celebri dell'Ellade come inviato del dio Apollo. È
così che in quella che resta una delle sue imprese più celebri, Orfeo
scongiura col suono della sua lira gli effetti nefasti del canto incan­
tatorio delle Sirene35, placa i litigi fra i marinai, li protegge costante­
mente e con la sua musica scandisce persino la cadenza dei remi il cui
movimento per tal via perde il suo carattere di fatica umana e viene
ricondotto agli stessi ritmi che scandiscono l'armonia cosmica. Grazie
al suono della lira di Orfeo l'impresa degli Argonauti si trasfigura in
un evento che si svolge nell illud tempus e diventa un mito di fonda­
'

zione e di incivilimento. La navigazione assume il carattere di un


evento archetipico perché la nave affronta il mare in una sfera fuori dal
tempo, "a-cronica", tutto si svolge in una dimensione non materiale, in
un iter imaginalis e pre-formale che trasforma gli Eroi dell'impresa
in protagonisti di un evento dal carattere quasi cosmogonico. Silio
Italico, che in molti punti della sua opera riprende pedissequamente
Virgilio o almeno le tradizioni scaturite dalle confraternite dei bukoloi
che hanno alimentato l'opera dello scrittore latino, aggiunge che in
principio la nave Argo si rifiutava di solcare il mare e solo il canto
di Orfeo consentì alle acque del mare di raggiungere l'imbarcazione
permettendo così, finalmente, che si cominciasse la spedizione. Come
si vede, la tradizione è unanime nel ritenere che il canto aureo di Orfeo
era in grado di riportare nel mondo una perfezione e una armonia

35 A. Bottini - P. G. Guzzo, Orfeo e le Sirene al Getty Museum, in "Ostraka",


II, 1 993, pp. 43-52. Cfr. P. Pucci, The Song of Sirens, in "Arethusa", XII,
pp. 1 2 1 - 1 32; A. Bottini, Forme di religiosità salvifica in Magna Grecia. La
documentazione archeologica, in Tra Orfeo e Pitagora, cit., (pp. 1 27- 1 37),
pp. 1 35- 1 36; M. Bettini L. Spina, Il mito delle Sirene. Immagini e racconti
-

dalla Grecia ad oggi, Torino 2007, pp. 65-73 ; L. Breglia Pulci Doria, Le Sirene.
Il canto, la morte, la polis, in "Annali dell' Istituto Orientale di Napoli. Arch.
St.Ant.", IX, 1 987, pp. 65-98.

51
simile a quella che veniva attribuita agli "inizi" e che l"incantamento"
scaturito dal suono della sua lira non solo scongiurava ogni disordine
e fugava ogni male, ma restituiva anche la "pienezza" ad un cosmo
immacolato. Ancora una volta, e all'interno di una ambientazione
"parusiaca" conseguente al canto di Orfeo, affiorano le medesime
condizioni di equilibrio originario attribuite all'Iperboreo Apollo, il
dio della lira, della perfezione, degli oracoli, della misura, della luce
primigenia, della musica e dell'armonia cosmica, il dio che secondo
Scitino (fr. 14) "armonizza in una sola cosa inizio e fine, e il suo plettro
è il raggio luminoso del sole". Qui Apollo modula lo stesso strumento
musicale che si ritrova non casualmente nelle mani della statua che
riproduce ]"'Orfeo stante" del gruppo fittile di origine tarantina (ora
al Getty Museum) raffigurante tre personaggi: Orfeo che con il plettro
intona il suono della sua lira e neutralizza la portata incantatoria del
canto delle due Sirene che gli stanno di fronte. La prima delle due
Sirene è stata "fermata" dall'artista mentre ancora intona il suo canto
ammaliatore e la seconda mentre col suo dolore ammette la sconfitta
e rivela l'impossibilità di contrastare gli effetti liberatori della musica
di Orfeo36• Secondo una celebre affermazione del sacerdote di Delfi
Plutarco ("[Apollo èll 'Essere [che] è Uno come l'Uno è l'Essere"; de
E delph., 393 B), Apollo è la Fonte divina che ricompone ad unità la
manifestazione universale, il principio unitario nel quale si compone
la molteplicità dell'essere cosmico personificata dalla moltitudine degli
dèi, la scaturigine veritiera di quel suono creatore che il canto di Orfeo
introduce nella vita degli uomini e nei ritmi naturali.
Una conosciutissima tradizione resa immortale da Virgilio (Georg.
520 sgg.) e da Ovidio (Metam. XI, l sgg.) ricorda che Orfeo morì

36 Seguiamo A. Bottini, Forme di religiosità salvifica in Magna Grecia, cit., p.


1 36. Sulla complessità dei mitologhemi delle Sirene, cfr. anche M. Giangiulio,
Appunti di storia dei culti, in "Neapolis. Atti del XXV Convegno di studi sulla
Magna Grecia del 1 985", Taranto 1 986, (pp. l O 1 - 1 54), pp. 1 1 6 e sgg.

52
ucciso dalle donne trace rese folli dall'invidia. Qualche secolo prima
Eschilo aveva annotato in una sua tragedia che questo delitto ebbe
origine dalla rabbia suscitata in queste donne quando osservarono
l'assidua frequenza prestata da Orfeo al culto del dio Apollo-Helios
sul monte Pangeo in Tracia al suo ritorno dall'Ade, un culto che
molto probabilmente comportava anche purezza di costumi e forti
convinzioni etiche37• Invasate e rese folli dall'ira (forse una forma di
"possessione" frequente fra i fedeli del Dioniso onorato nel contado
traco-dacico) perché il giovane Cantore ignorava l'area religiosa alla
quale facevano riferimento, le donne squartarono il corpo dell'Aedo,
ne mozzarono la testa e la gettarono nel fiume Ebro. Tuttavia, la testa
mozza non smetterà di profetare e anche quando trasportata dal fiume
finalmente sarà giunta nell'isola di Lesbo non smetterà di "parlare" e,
anzi, continuerà ad intonare epodi, ad elevare inni agli dèi e a pronun­
ciare oracoli. Come ricorda Ovidio (''in lapidem rictus serpentis
apertos l congelat et patulos, ut erant, indurat hiatus"; Metam. XI,
59-60), quando il capo mozzato si trovava ancora abbandonato sulla
riva del fiume un serpente tentò di morderlo, ma l'intervento di Apollo
trasformò il rettile in pietra. Il particolare riportato da Ovidio non
è secondario e non è neanche il solito abbellimento poetico "quasi­
barocco" di uno strano racconto. Al contrario, qui sembra essere stato
ripreso, riadattato e riformulato in una prospettiva oracolare il noto
mito di fondazione del santuario di Delfi, quando Apollo uccise il
serpente Pitone e sostituì le vecchie divinità che avevano custodito
quel sacro luogo. Nel racconto ovidiano la pietrificazione del serpente
assume il carattere di una azione soteriologica tesa ad evidenziare il
noto simbolismo che illustra il mistero della pietra quale cristallizza­
zione del divino suono creatore. Il suo racconto "spiega" il simbolico
dualismo musica-pietra. Il gesto di Apollo permetterà l'esistenza di

37 Cfr. C. Macaccini, Considerazione sulla morte di Orfeo in Tracia, in "Prometheus",


2 1 , 1 995, pp. 24 1 -252.

53
un caput orphicum la cui funzione nel proprio ambito riprende quella
"universale" di Delfi: la testa mozza del profeta che eleva canti ed inni
diventa un sacro omphalos che annuncia il volere degli dèi.
Nonostante le condizioni del racconto rivelino una situazione molto
frammentaria non si tratta di un cervellotico aneddoto appartenente alla
preistoria incolta dell'Ellade, ma di un arcaico mito ormai frammentario
qui sopravvissuto a livello residuale, ma che trova corrispettivi quasi
identici nello sciamanesimo siberiano, nella Scizia e persino in alcune
leggende antico-germaniche38• La leggenda ci dà una precisa indica­
zione sulle basi oracolari attribuite dagli antichi alle profezie orfiche
e mostra che il suo sostrato più essenziale emerge dalla stessa sfera
di religiosità che ha generato quello che Karl Meuli, Dodds, Mircea
Eliade, Walter Burkert et alii ritenevano potesse configurare lo sciama­
nesimo greco. Attraverso il ruolo dei versi incantatori e delle profezie
annunciate dalla testa mozza di Orfeo prima di tutto affiora il valore
della "parola divina" così profondamente connessa a Mnemosyne, la
madre della Musa Calliope, "colei che ha la bella voce". È il contesto
oracolare registrato anche dalla ceramica. In una kylix del V secolo a.
C. ora ospitata a Cambridge si trova dipinta una testa di Orfeo che fissa
un giovane seduto su una pietra con in mano una tavoletta e nell'altra lo
stilo che traccia sulla tavoletta particolari ypajljlUta (= "graffi", "segni
scritturati") mentre la voce di Orfeo fuoriesce dalla testa mozzata39•

38 Cfr. G. Dimitrokallis,l.a tete coupée d'Orphée. Re-examinationet re-interpretation


d 'un mythe ancien, in Actes du Congrès lnternational d'Ètudes Classiques de
Cavo/a (Grèce), 2 voli., Athènes 2002, Il, pp. 3 1 9-330; M. A. Santamaria, La
muerte de Orfeo y la cabeza profética, in A. Bemabé- F. Casadesùs, Orfeo y
la tradici6n 6rfica, cit. , (pp. 1 05- 1 36), pp. 1 25- 1 26; W. Deonna, Orphée et
l 'oracle à la tere coupée, in "Revue des Ètudes Grecques", 38, 1 925, pp. 44 e
sgg.; J. Doerig, La tete qui chante, in Ph. Borgeaud, Orphisme et Orphée, cit.,
pp. 6 1 -64.

39 Cfr. M.-X. Garezou, Orpheus, in Lexicon /conographicum Mythologiae Classicae,


VII, l -2, Ziirich-Miinchen 1 994, (pp. 85-88; pp. l 00- 1 0 l ), p. 88, n. 70.

54
Fra l'altro, questa raffigurazione della kylix documenta un ruolo rituale
del testo scritto che dà significato alla fondamentale funzione degli
hiéroi logoi attribuiti agli orfici da tutte le fonti antiche, qui addirittura
interpretati come equivalenti ai divini oracoli prima annunciati dalla
testa mozza di Orfeo, poi interpretati da un "giovane" (= iniziato) e
infine cristallizzati in una serie di sacri "segni".
Il secondo aspetto è costituito dallo strano ruolo di Ebro, il fiume della
Tracia che prende lo stesso nome di Eagro, il padre "umano" di Orfeo
e percorre il mondo fecondandolo con la "parola divina" proferita dalla
straordinaria reliquia. La stessa isola di Lesbo dove secondo tutte le
tradizioni si era finalmente fermata la testa mozza, non è certo una
scelta casuale. Già a partire da un periodo molto antico Lesbo godeva
fama di essere uno dei centri più importanti per l'insegnamento delle
forme più arcaiche della musica ellenica assieme a Mantinea, dove non
casualmente andrà a studiare il pitagorico Aristosseno, e soprattutto
a Sparta dove la musica e il canto poetico guerriero reso celebre dalle
composizioni del poeta Tirteo non si limitava ad una semplice forma
d'arte, ma andava a toccare il modo stesso di ritmare i movimenti
delle armate spartane e il combattimento degli invincibili suoi opliti40•
Lesbo era l'isola dei poeti e dei vati qui organizzati in heterie e in
thiasi, le sacre confraternite maschili e femminili che coltivavano il
canto e il suono creatore cristallizzatosi in quelle che ai moderni critici
appaiono come semplici produzioni poetiche, ma che in realtà molto
spesso erano composizioni scaturite dalla sfera del sacro. Nella cultura
ellenica Lesbo rimarrà sempre l'isola della poesia sacra, della musica
trasfigurante e del canto creatore ed è perciò naturale che la testa di
Orfeo trovasse qui il proprio rifugio e qui si insediasse per profetare.
Attraverso l'oracolo della testa mozza il racconto evidenzia anche

40 Indicazioni utili in A. Gostoli, Terpandro e lafunzione etico-politica della musica


nella cultura spartana del VII secolo, in B. Gentili-R. Pretagostini, La musica
in Grecia, Roma-Bari 1 988, pp. 2 3 1 -237.

55
le funzioni spirituali personificate dai "genitori" di Orfeo. La Musa
Calliope "dalla bella voce" veicola il mistero della divina Memoria
che abolisce il divenire e, palesandosi in parole e ritmi, consente di
annunciare il mistero del mondo, mentre Eagro è il solitario al quale è
dato di conoscere l'"essere" del cosmo, la scaturigine delle competenze
profetiche e oracolari che rendono Orfeo in grado di percepirne il
significato e di "cantarlo" agli uomini. La testa mozzata dalle donne
trace a causa del culto reso da Orfeo ad Apollo spiega quello che
Walter Otto chiamava l"'essere del mondo". Il suo canto supera ogni
funzione meramente divinatoria, interpreta il mistero dell'esistenza,
annuncia il farsi del cosmo, intona una cosmogonia, svela un intero
destino. La funzione di questo caput omphalicum che vaga sul fiume
fino a raggiungere il mare e poi finisce il proprio percorso nell'isola
di Lesbo consente ad Orfeo di superare il semplice status del soli­
tario estatico o iniziatore come i tanti purificatori dell'Ellade arcaica
e assume gli stessi connotati che hanno fecondato l'attività oracolare
dei santuari apollinei.

56
3. L'Uovo cosmico

È impossibile trovare nella cosmogonia orfica un elemento dottrinale


o un filo conduttore che in qualche modo possa aiutare a ricondurre ad
unità le diverse e inorganiche versioni che gli scrittori antichi ci hanno
conservato. Lo stesso Papiro di Derveni che costituisce un documento
unico perché ci dà un testo autentico e "diretto" del mondo orfico, e
probabilmente contiene cosmogonie originarie non mediate dal filtro
degli interpreti, per quanto si può comprendere è solo un ampio fram­
mento di dottrine molto articolate. E tuttavia al centro del complesso
sistema mitologico dell'orfismo il simbolo dell'uovo pare avere assunto
una portata che va oltre una semplice narrazione mitica e tocca aspetti il
cui simbolismo può rinvenirsi anche in altre parti del mondo, in Egitto,
nella Celtide, fra i Fenici, i Cananei, in India, in Cina, in Giappone, fra
i Bambara, i Dogon, gli Incas, ecc. Tutta una serie di testimonianze
che in Grecia toccano i più diversi autori (da Damascio a Proclo, da
Ermia ad Achille commentatore di Arato, fino all'Inno VI, ecc.) e
le raffigurazioni vascolari, menzionano l'uovo quale simbolo fonda­
mentale dell'orfismo posto alle origini dello stesso farsi del cosmo41•

41 Contrariamente a quello che potrebbe sembrare, g l i studi s u questo importante


simbolo orfico sono l imitati. Cfr. A. Olivieri, L 'uovo cosmico degli orfici, in
"Memorie R. Accademia Arch. Lett.", Napoli 1 920, pp. 297-334; P. Boyancé,
Une allusion à l'oeuj orphique, in "Mélanges Ècole Française de Rome", 52,
1 935, pp. 95- 1 1 2 ; W. K . C. Guthrie, Orphée et la religion grecque, cit., pp.
1 09- 1 1 1 ; K. Kerényi, Pythagoras und Orpheus, ci t., pp. 59 e sgg . ; R. Turcan,
L 'oeuforphique et /es quatre éléments, in "Revue de l'Histoire des Religions",
1 96 1 , pp. 1 1 -23; M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. l 03 e sgg., che accanto
ali 'uovo analizza anche il valore cosmogonico dei simboli deli' acqua e del tempo
di cui si parla nel Papiro di Derveni. Un'analisi che tocca ambiti diversificati e
a volte si porta persino oltre il segno, si trova in P. G. Guzzo, Il corvo e l'uovo.
Un 'ipotesi sciamanica, in "Bollettino d'Arte", 67, 1 997, pp. 1 23- 1 28.

57
In alcune tombe della Beozia Dioniso ha in mano un uovo a significare
non solo l'immortalità, ma anche il valore di resurrezione che questo
simbolo assume. In alcuni corredi funerari sono stati trovati oggetti
che riproducono uova con il probabile intento di richiamare le finalità
sacre di questo simbolo. Non si ha la certezza che questi corredi così
particolari appartengano a sepolture di iniziati orfici, ma non esistono
motivazioni contrarie di un qualche peso e tutto lascia pensare che ci
troviamo davanti a testimonianze di simboli tipicamente orfici (magari
utilizzati autonomamente e senza tenere più conto della loro originaria
appartenenza alla tradizione del Cantore tracio), che qui attestano senza
ombra di dubbio un loro fondamernto rituale42•
Plutarco, Damascio, Proclo, Ieronimo, Ellanico, Atenagora et alii ci
dicono che dallo scomporsi di questo uovo si origina il cielo e la
terra, le due modalità di manifestazione cosmica che su un piano
mitico simbolizzano i due princìpi antologici illustrati dai neoplatonici
nelle loro riflessioni sulle dottrine orfiche, le "forme formanti" del
reale, gli archetipi creativi del mondo ed è perciò naturale che in una
sorta di dimensione principiale l'uovo rappresenti il "germe" costi­
tutivo dell'intera manifestazione universale e diventi il simbolo stesso
della totalità. Achille, un tardo commentatore di Arato, spiega questa
dottrina nei seguenti termini: "la forma che noi diamo allo sfero gli
orfici dicono che è simile a quella dell'uovo. Lo stesso modo di essere
che ha il guscio nell'uovo, il cielo l'ha nell'universo, e come l'ètere
sta attaccato al cielo tutto intorno, così la membrana sta attaccata
all'uovo" (lsagoge ad Arato, Phaen. 4; fr. 70 Kern). Nelle sue linee
essenziali questo mito orfico, così come è commentato da Damascio
(frr. 54 e 60, Kern) quando si sofferma sui suoi aspetti noetici e addi­
rittura presenta l'uovo come il "principio paterno" della sua triade

42 Cfr. A. Bottini, Archeologia della salvezza. L ' escatologia greca nelle


testimonianze archeologiche, Milano 1 992, pp. 64-85.

58
intellettuale4\ è straordinariamente simile a quello indù nel quale
il Brahmanda è covato dal cigno Hamsa sul le Acque primordiali.
Quando la sua separazione in due parti permetterà l'emergere di due
emisferi l'uno d'oro e l'altro d'argento si avrà finalmente l'origine
del cielo e della terra. Lo stesso Proclo (in Tim. 30 C-D) coniugando
aspetti mitologici e spiegazioni dottrinali, addirittura tende a quasi­
personificare il "germe" da cui trae la propria vita l'intero cosmo e
dirà che ". . . come ]"'essere vivente" contiene già distinte tutte quelle
caratteristiche che nell'uovo erano in germe. . ."; ". . . proviene dall'uovo
primigenio nel quale è in germe l "essere vivente'". E Damascio
sostanzialmente conferma questa visione complessiva dell'uovo come
"potenza generatrice": "Poiché Orfeo affermò: poi mégas Chronos,
il Gran Tempo per mezzo dell'Etere divino formò l'uovo splendente
di luce" (fr. 70 Kern). Non si tratta di una forma primitiva e quasi
ingenua di speculazione, ma della formulazione nei termini di un
pensiero mitopoetico di uno dei simboli più diffusi dell'umanità che
pone al centro della vita universale una "potenza autocreatrice" o
un Essere Primordiale dalla cui forza o attività generante si origina
il mondo. Aristofane definisce quest'uovo cùov D7tTJVÉf.ltoV, "l'uovo
allevato dai venti", l'"uovo del vento", un'espressione ben conosciuta
anche da Aristotele (Hist. Anim. 6, 2, 559b, 20) e da Luciano (De
sacrif. 6) per significare un'azione autogeneratrice, un principio di vita
permeato della stessa sostanza aerea che informa il vento in quanto
simbolo del "soffio di vita". Sul piano simbolico l'espressione "uovo
del vento" serviva per esprimere l'autosufficienza di un uovo che non
abbisogna di "apporti" esterni per diventare fertile, ma trovava in
se stesso la capacità di dare la vita. Proprio per questa sua vitalità
autocreante l'uovo orfico è considerato una potenza generatrice dalla
quale si origina l'esistenza senza bisogno di alcun apporto e che, per

43 Sul valore del l ' interpretazione di Damascio, cfr. L. Brisson, Damascius et


l 'Orphisme, in Id. , Orphée et l'Orphisme, cit., pp. 1 57-209.

59
usare una nota espressione aristotelica, ha il proprio principio vitale
nella stesso "soffio" cosmico che lo permea, quel "vento" ricordato
anche da Aristotele come un attributo ineliminabile e caratterizzante
dell'uovo orfico. Siamo davanti alla rappresentazione simbolica di un
"germe creativo" originario, il "punto" iniziale nel quale si coagulano
tutte le possibilità creatrici del ciclo che sta per manifestarsi e dal
quale il cosmo si genera come una man ifestazione di tutte le sue
potenzialità e nella quale andranno via via ad individuarsi tutte le
infi n ite potenzialità creative comprese nell'uovo cosmico, il "punto
inespresso" dal quale fluisce l'universo come una sorta di "corpo di
apparizione" le cui linee essenziali possono essere ricondotte agevol­
mente al macrantropo dell'Inno riportato dallo ps.-Aristotele e dal
Papiro di Derveni sul quale torneremo subito.
Nella stessa Grecia anche Anassimandro sembra avere avuto ben
presente nel proprio sistema speculativo un simbolo quasi identico.
Lo ps. Plutarco (A 10 DK, r. 1 1) ci dice che in conseguenza di un
movimento interno che ne determina il dinamismo e la stessa vitalità,
dall'inespresso a1tf:tp ov (il "principio" e il "senza limite" secondo
l'i nterpretazione di Aristotele) "per separazione" (il verbo usato è
anoKpivEcrfut, "separare", "secernere", "staccarsi", "distinguere") si
origina il y6Vlf10V, un "seme" o "germe" che è generatore del caldo e
del freddo o, come dice Aet. 5, 19, 14, dell'umido e del secco, i princìpi
originari costitutivi del reale. La somiglianza straordinaria del y6vt!lOV
con l'uovo germinato dal Chronos o dalla Nyx della cosmogonia
orfica è evidente persino nella strutturazione espressiva che intende
esprimere un'autogenerazione e conclude verso una dualità iniziale e
creativa. Studiosi come O. Gigon e, ancor più, F. M. Cornford hanno
potuto persino fare notare come l'intera costruzione anassimandrea
non faccia che razionalizzare tutta una serie di sacre speculazioni
sulla genesi del mondo di cui quella orfica è certamente la più nota ed

60
articolata, ma le cui tracce possono rinvenirsi almeno fino ad Esiodo44•
Secondo la teo-cosmogonia orfica, che fa riferimento ad una struttura
narrativa di tipo genealogico utilizzata ampiamente da Esiodo e molto
probabilmente risale alle narrazioni degli antichi mitografi del tempo
pre-omerico cui accennano Platone e Aristotele, l'uovo si è originato
da un inespresso Chronos principiate la cui potenza creativa gli Hiéroi
logoi ordinano attorno ad Adrastea, "colei che fissa le leggi divine" (fr.
105 Kern), i Bt:aJloi, "i regolamenti" precedenti ed anteriori all'ordina­
mento cosmico, ossia il sostrato divino pre-formale che struttura ed
alimenta le stesse leggi fisiche che emergeranno come una loro sostan­
ziale aggettivazione e nella realtà della vita cosmica si formalizzano
fino a diventare i VOflot, le "leggi" stabilite dalla celeste Adrastea per
reggere l'attuale corso della manifestazione universale45• Secondo altri
frammenti si riteneva che in principio, nell'illud tempus delle origini,
quando il tempo non scorreva e dunque il divenire non aveva la forza
condizionante e dissolvente che poi dovrà assumere per l'intrinseca
necessità legata al suo stesso scorrere, non c'era Chronos, ma Nma6ç,
la Nyx Hieré, la "Notte Sacra", la "potenza universale inespressa"
che Aristofane chiamerà "Nutrice degli dèi" (fr. 106 Kern), "colei
che dà vita agli oracoli" perché custodisce }"'essere" del mondo, la
madre primordiale che ancora Aristofane considera la generatrice
dell"'uovo pieno di vento" (fr. l Kern), un'espressione la cui artico­
lazione rivela un'attenzione tutta speciale per la "vitalità" o il "soffio
cosmico" che, come il "soffio di vita" nell'uomo, alimenta la potenza
creativa dell'uovo e ne precisa la forza autogenerante. Questa "potenza

44 Cfr. O. Gigon, Der Ursprung der griechischen Philosophie, Base! 1 945 , pp.
77 -78; F. M. Comford, Principium Sapientiae. The Origins ofGreek Philosophical
Thought, Cambridge 1 952, p. 1 63 (ma vd. l'intera analisi pp. 1 59-224).
45 Cfr. L. Brisson, Chronos in Column Xl/ ofthe Derveni Papyrus, in A. Laks - G .
W. Most (edd.), Studies o n the Derveni Papyrus, cit. , pp. 1 49- 1 65 ; Id. , La.figure
de Chronos dans la théogonie orphique et ses antécédents iraniens, in Mythes
et représentations du temps, Paris 2005, pp. 39 e sgg.

61
inespressa" era chiamata anche Euphroné, "la Benevola", un epiteto
che emerge da un contesto primordiale e, come in molti rituali indù
nei quali viene evidenziata l'ambiguità delle varie figurazioni divine,
ne evoca l'attitudine e la virtualità creatrice, la "madre del giorno"
dalla quale verrà a configurarsi il creato. È la dimensione positiva di
quell'altro suo aspetto, quello considerato pericoloso per l'ordinaria
esistenza degli uomini che veniva espresso con l'aggettivazione di
"Terribile", una definizione che serviva a "precisare" e a fermare
l'immagine di "oscuro abisso" e di terrificante "potenza vitale" che a
volte il mito sembra assegnarle, specie quando la Notte viene rappre­
sentata su un carro tirato da quattro cavalli neri seguito dal corteo
delle tremende Furie e dalle oscure Parche, le figlie della Notte che
ogni Elleno era abituato a temere e a considerare pericolose perché
esaltavano la dimensione oscura del mistero della vita che solamente
attraverso il rituale si riusciva a veicolare facendola diventare un
aspetto dell'ordine olimpico.
Il Chronos orfico spesso assume caratteri che lo fanno somigliare ad
una divinità somma. Proclo parla di un "Chronos che non invecchia,
la cui sapienza non perisce" (fr. 72 Kern), lo stesso Chronos che
Damascio (fr. 54 Kern) ricorda come parte essenziale della dottrina
propria alla teologia rapsodica, un Tempo posto come "unico principio
di tutte le cose", secondo la definizione molto precisa dello stesso
Damascio (fr. 60 Kern). E saranno ancora Ieronimo ed Ellanico a
conservare memoria di un Chronos quale principio cosmogonico, quel
Chronos ayftpaoç (= tempo che non invecchia, identico a se stesso,
immoto) raffigurato in vario modo, ma sempre concepito come il
generatore degli esseri: "Costui era Chronos ayftpaoç, padre di Etere e
di Chaos. Secondo queste forme teologiche il Tempo, questo Dragone,
genera la sua triplice discendenza: l'Etere umido, l'illimitato Chaos
e l'Erebo oscuro" (fr. 54 Kern). La possibilità di creare traendo da se
stesso tutte le virtualità germinative fa di questa particolare figura
divina un essere primordiale androgino, un sovrano principio cosmo-

62
gonico che un passo di Atenagora (Legat. pro Christ. 294 C) raffigura
quale Dragone-sposo di Adrastea/Ananke, contemporaneamente sua
"figlia" e "moglie", che per ciò stesso può generare gli archetipi dai
quali fluiranno i germi costitutivi del cosmo. In tal modo gli attributi
del mito assegnati frequentemente a un Chronos ay�paoç; e 1tf:ptÉXOV
("perfetto", "compiuto") ci indicano quello che il dio è in se stesso,
nella sua inalterata dimensione pre-creativa, configurano un tempo
"a-cronico" simile sotto molti punti di vista allo Zervan akarana
della tradizione zervanita dell'Iran miticamente raffigurato come un
sovrano androgino che la speculazione successiva potrà tradurre come
lo stesso principio generativo di ogni cosa.
A questa rappresentazione Ferecide (fr. 7 A 8 DK) aggiunge un parti­
colare importante che forse può aiutarci a capire alcune connessioni
legate ai primordi del mondo: dal seme di Chronos si coagulano il
"fuoco", l"'acqua" e lo pneuma, non un irrilevante "vento", ma il
"soffio vitale" che permea il mondo, il "respiro" che ne ritma la vita,
l'equivalente sul piano cosmico del "soffio" che articola l'esistenza
umana. In una forma di arcaica mitopoiesis Ferecide sta visibilmente
raffigurando le due potenze primordiali (''fuoco" e "acqua") quali
modalità creative dalle quali si dà origine al mondo e che potranno
attuare la loro potenza di manifestazione solo attraverso l'azione del
"soffio", lo pneuma che ne vivifica l'azione fecondante. È lo stesso
"soffio" che secondo alcuni frammenti già esaminati viene "aspirato"
dal cosmo per consentire la vita e la creatività dell'uovo primigenio.
Da questo Chronos sovrano e dall'"ordine" celeste che nell illu d '

tempus delle origini ne statuiva la condizione di immota condizione in


una esistenza "fuori-dal-tempo", "a-cronica", fluisce Fanes (<Dav11ç;),
un "essere di luce", l'EK<patvw (''colui che porta la luce", oppure che
"è sostanziato di luce"), un sostantivo costruito sul verbo <patvw, "far
brillare", "manifestare", che esplicita la qualità primaria attribuita a
Chronos, l'arte di "far brillare" o di "manifestare" un cosmo "splen­
dente" perché Chronos è colui che ha voluto che tutte le cose potessero

63
apparire e si rendessero manifeste (fr. 61 Kem)46• Perciò Fanes (o anche
Eros come altrove è chiamato con una dizione che, ancora, tende a
cogliere la natura bisessuata e autogeneratrice del principio cosmico
qui simboleggiato e la sua forza trasfigurante) è non solo "colui che
splende", lo "splendore senza misura" (phaos askopon), la luce primi­
genia che si svela, inonda la creazione e si dilata verso tutte le dire­
zioni dello spazio, "la luce improvvisa, tanto splendente dal corpo di
Fanes immortale" (fr. 86 Kem)47, ma anche il "Primo che appare" (fr.
75 Kern) e in quanto tale è il "Primo Vivente", colui che è "celebrato
come femmina e padre" (frr. 8 1 e 98 Kern), lo "splendore divino"
che da se stesso trae i primigeni elementi creativi del cosmo. La sua
natura androginica e bisessuata rivela una potenza autogenerante e
creatrice, e perciò viene posto al centro di un processo cosmogonico
che da un iniziale tempo immoto si coagula in una "luce splendente"
dalla quale si genera la vita del creato e si originano le innumerevoli
differenziazioni nelle quali si articola, come il riverbero della luce
di un prisma, l'intera manifestazione cosmica. Perciò Fanes è detto
anche Protogonos, "il primo generato", il Primigenio, il Principio
vivente che trae da sé, svela e dà significato all'ordine sul quale il
mondo regge la propria esistenza. In un suo insuperato studio Ugo
Bianchi ha analizzato tutte le fonti che descrivono questo straordinario
Protogonos e ne ha seguito la presenza nei diversi ambiti dei mitolo­
ghemi ellenici stabilendo con chiarezza che prima di tutto è l'archetipo
di ogni cosa esistente proiettato creativamente verso un mondo che la
sua natura bisessuata contiene simbolicamente in modo inespresso. Il
Protogonos è perciò anche sorgente o produttore di vitalità e fecondità,

46 Cfr. W. K. C. Guthrie, Orphée et la religion grecque, ci t., pp. 1 1 3- 1 20; R. Turcan,


Phanes, in Lexicon lconographicum Mythologiae Classicae, Ziirich 1 98 1 -98,
VII, l , 1 994, pp. 363-364.

47 Un articolato studio del fr. 86 ha fatto I. Avanzini, ll.fr. 86 K: una nuova ipotesi,
in A. Masaracchia (cur.), Orfeo e l'Orfismo, cit., pp. 93-99.

64
è contemporaneamente il demiurgo e l'artefice dell'ordine cosmico da
lui generato facendolo scaturire dal suo stesso essere, l'autore della
distinzione della dimora celeste da quella degli uomini, colui che è
posto al centro del creato e perciò può separare i l dominio divino
da quello umano, divide il "cielo" e la "terra''48• È anche "l'illustre
Erichépaios", il "Datore di vita" (fr. 81 Kern), che si riteneva avesse
istituito lo sképtron, il sacro bastone simbolo di autorità, lo strumento
sacro che rendeva Fanes-Protogonos-Erichépaios colui che dovrà
essere il "Primo" a regolare il movimento del creato, il suo gover­
natore, l'Eros cosmogonico. Secondo Claude Calarne, la forza e la
simbolica tensione trasfigurante evocata in quest'ultima personifica­
zione "divina" così caratterizzante dell'orfismo, da un punto di vista
estatico può essere compreso solo se lo si colloca nella prospettiva
della reintegrazione dell'adepto, verso l'unità49• E poiché lo sképtron
rappresenta anche l'axis mundi attorno cui si srotola l'intera esistenza,
questo mito sembra volere indicare una delle modalità attraverso cui
gli orfici spiegavano l'origine del cosmo, la sua struttura equilibrata
attorno ad un punto o asse originario e il suo stesso compimento che
si dovrà attuare in virtù dell'inevitabile conclusione dovuta al movi­
mento rotatorio che ne regola l'esistenza.
I l fatto che la cosmogonia orfica, pur nelle sue diversificate e non
sempre assimilabili redazioni, spesso presenta una struttura espli­
cativa sulle origini del mondo prossima, ma non assimilabile a quella

48 U. B ianchi, Protogonos. Aspetti dell 'idea di Dio nelle religioni esoteriche


dell 'antichità, in "Studi e Materiali di Storia delle Religioni", 2 8 , 1 957,
pp. 1 1 5- 1 33 ; M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. 2 1 1 -2 1 6; G . Sca1era
McClintock, I...n Teogonia di Protogono nel Papiro di Derveni. Una interpretazione
dell 'orfismo, in "Teologia e Filosofia", Il, 1 988, pp. 1 39- 1 49.
49 Così C. Calarne, Eros initiatique et la cosmogonie orphique, in Orphée et
l'Orphisme, cit., pp. 227-247. Cfr. W. K. C. Guthrie, Orphée et la religion
grecque, pp. 1 1 1 e sgg. Secondo una tavola riprodotta da Martin West, Eros
non appare menzionato né nel Papiro di Derveni nè in Ieronimo.

65
resa celebre da Esiodo che, d'altronde, a sua volta riflette anche consi­
stenti elementi Vicino-Orientali rimasti molto forti anche all'interno
della religione olimpica50, sembra indirizzare verso lo stesso sostrato
mitico-rituale dal quale ha tratto consistenza il più remoto retaggio
ellenico, quello che si fa fatica a ricondurre alla religione olimpica
quale si trova codificata nei poemi omerici. Accanto alle divinità
olimpiche, senza minimamente confondersi con i loro culti e quasi a
completarne la prospettiva soteriologica, in queste antiche specula­
zioni cosmologiche affiorano anche i molteplici aspetti delle numerose
correnti mistiche ed estatiche che hanno inciso profondamente nel
corpo vivo della spiritualità ellenica e non ne costituiscono affatto,
come ha invece preteso con troppa fretta qualche studioso, una specie
di presenza esotica, estranea all'Ellade e perciò "non-ellenica" o più
semplicemente "popolare".
L'orfismo è certamente la più rappresentativa di queste molteplici
correnti misteriosofiche che nell'età arcaica, come mostrava Martin

50 Cfr. il ricco Ribichini-Rocchi-Xella (curr.) La questione delle influenze Vicino­


Orientali sulla religione greca, Roma 200 l , che comprende tutte le relazioni di
un importante Convegno internazionale tenutosi a Roma e riprende, estendendole
notevolmente, le analisi contenute nel pionieristico Eléments orientaux dans la
religion grecque ancienne, Paris 1 960. Sulle cosmogonie orfiche cfr. l 'articolato
L. Brisson, Orphée. Poèmes magiques et cosmologiques, Paris 1 993. Rapido
resumé in R. Sorel, Les cosmogonies grecques, Paris 1 994, pp. 57-99. Importanti
indicazioni in M. L. West, Graeco-Oriental Orphism in the Third Century B.
C., in D. M. Pippidi, Assimilation et résistence à la culture gréco-romaine dans
le monde ancien, Bucarest-Paris 1 976, pp. 223 e sgg. Cfr. anche R. Mondolfo,
Intorno al contenuto dell 'antica teogonia or.fica, in "Rivista di Filologia e di
Istruzione Classica", 9, 1 93 I , pp. 439 e sgg.; Id., Nota sulle cosmogonie or.fiche
e sul contenuto dell 'antica teogonia, in E. Zeller-R. Mondolfo, La .filosofia dei
Greci, ci t., I, I , pp. 224 e sgg.; 230 e sgg. In un suo erudito resumé G. Casadio
(Adversaria orphica et orientalia, cit., pp. 300 e sgg.) ha aggiunto ulteriori
elementi sui simboli tipici della cosmogonia orfica, ma non estranei al mondo
vicino-orientale. Su questi aspetti cfr. M. L. West, Early Greek Philosophy and
the Orient, Oxford I 97 I , pp. 2 8 e sgg.

66
Nilsson, hanno percorso instancabilmente il territorio della Grecia.
In un'epoca in cui l'Ellade cominciava ad abbandonare l'esperienza
mitico-cosmogonica che come mostrava Esiodo aveva caratterizzato
gli inizi della propria esistenza, e si avviava a sperimentare quella
particolare forma di "illuminismo" fiorito fra il V e il IV secolo su
un territorio ristretto, l'orfismo sembra riprendere antichi temi perpe­
tuando nel pieno del tempo classico il "pensiero mitico" che di quelle
esperienze era stato il veicolo di espressione. Gli orfici si caratte­
rizzavano non solo per la capacità di possedere tecniche estatiche e
purificatorie, ma anche perché quelle tecniche presupponevano un
sistema speculativo che rivelandosi secondo una "architettura" mitico­
sacrale, esprimeva tuttavia una percezione cosmica del divino e il
suo rivelarsi al myste che aveva saputo rompere l'imperio del "ciclo
della generazione", l'inesausta corrente che trasporta gli esseri viventi
autoconsumantisi in un turbinìo senza mèta e senza significato. Nella
sua complessità morfologica, l'orfismo si presenta come un movimento
che si affianca ai misteri, alle numerose corporazioni iniziatiche dei
mestieri e delle Arti e alle confraternite guerriere che nell'Ellade
arcaica costituivano il supporto attraverso cui il simbolismo racchiuso
nelle figurazioni divine e nel culto loro dovuto, si rivelava sia in un
complesso rituale di "morte e rinascita", sia nel mito che ne costituiva
la "spiegazione" dottrinale e il supporto meditativo.

67
4. "Zeus nacque per primo, per ultimo Zeus dalla vivida
folgore . . . "

L'ambientazione fortemente misteriosofica dell'orfismo dà significato


anche alla complessa dottrina sullo scorrere del tempo che in sé svela
lo sfondo dal quale derivano le speculazioni sul "ciclo della gene­
razione" nel quale ogn i uomo si trova a vivere incatenato ad una
incessante serie di vincoli e di condizionamenti, e ne riconduce il
complesso svolgimento ai cicli di "morte e rinascita" dell'intera vita
universale che fa da sottofondo alla dottrina orfica sul rapporto uomo­
mondo. Nel fr. 21a Kern (in ps.Aristotele, de mundo, 40 1 a 27-b7)
questa dottrina viene esposta nell'ambito di una prospettiva particolare
che identifica il cosmo e i suoi ritmi con un inusuale Zeus bisessuato
la cui strutturazione mostra non solo la sua totale estraneità allo Zeus
sovrano della religione olimpica, ma anche una scaturigine miste­
riosofica molto caratterizzata. Qui Zeus appare come un androgine
originario, un essere di luce o "celeste" autosufficiente e contempora­
neamente "principio", "manifestazione" e "fine" dell'universo. Nella
sua essenzialità il frammento traccia la figura di un Macrantropo
nella cui complessa articolazione ogni aspetto della vita universale
riceve significato e dalla quale trae la propria ragion d'essere51 • La
sua immagine è la raffigurazione mitopoetica dell'Uomo Primordiale
presente in molte tradizioni dell'umanità, l'arcaico Proto-Typus dal

51 Seguiamo A. Olerud, L 'idée de Microcosmos et de Macrocosmos dans le


Timée de Platon, Uppsala 1 95 1 , pp. 1 1 4- 1 28, che sviluppa le analisi di R.
Reitzenstein - H. H. Schaeder, Studien zum antiken Synkretismus aus Iran und
Griechenland, Leipzig-Berlin 1 926, pp. 72 e sgg.; pp. 94 e sgg. Cfr. anche R.
Reitzenstein, Altgriechische Theologie und ihre Quellen, Leipzig-Berlin 1 927,
pp. I l e sgg.; O. Weinreich, Eine orphische Ewigkeitsformel, in "Archiv fiir
Religionswissenschaft", 1 8, 1 9 1 5 , pp. 603 e sgg.

68
quale per autogenesi, come lascia intendere significativamente anche
la sua natura bisessuata ed androgine, si originano i princìpi primi, gli
archetipi, le "forme formanti" che precedono il corporeo e si svelano
nel cosmo e nelle sue molteplici modalità di manifestazione.

"Zeus nacque per primo, per ultimo Zeus dalla vividafolgore;


Zeus è la testa, Zeus il mezzo; tutto si è prodotto da Zeus;
Zeus è la base della terra e del cielo stellato;
Zeus fu maschio, Zeus immortalefufanciulla pronta alle nozze;
Zeus è il soffio di tutte le cose, Zeus è l 'impeto del fuoco
instancabile.
Zeus radice del mare; Zeus, sole e luna;
Zeus è re, Zeus dalla vivida folgore, il sovrano di tutte le cose;
dopo aver nascosto ogni cosa, li riportò di nuovo alla luce gioiosa
del cuore sacro, compiendo opere terribili " ( = �p!JEpa pÉçrov) .

Lo straordinario di questo frammento è che la parte essenziale della sua


dottrina si trova già spiegata in un testo orfico conservato da Platone
("Il dio, come dice anche il palaios Logos, "l'antico Logos", è colui che
possiede il principio, il mezzo e la fine di tutti gli esseri, va dritto al
suo scopo muovendosi secondo la propria natura"; Leg. 715 c), ripresa
in un Inno riportato da Porfirio (apud Eusebio, Prep. Evang. III, 9 = fr.
168 Kern) ed è contenuta quasi per intero nel Papiro di Derveni dove
in alcuni punti viene ripetuta persino la stessa terminologia e l'identica
struttura narrativa52• Questo Papiro è stato ritrovato nel 1962 in Grecia
nei pressi di Salonicco ed è formato da ventitrè colonne nelle quali
viene interpretata in chiave simbolica una sofisticata teo-cosmogonia

52 Cfr. M . L. West, The Orphic Poems, cit., p. 1 0 1 . Può risultare illuminante


l' approccio di G. Ricciarelli Apicella, Orfismo e interpretazione allegorica, in
"Bollettino dei Classici", ser. III, l , 1 980, pp. 1 1 6- 1 30, che però seguitando una
purtroppo ormai consolidata abitudine letteraria tende a confondere allegoria e
simbolismo.

69
forse legata a un rituale che qui "riassume" tutto un complesso
simbolico precedentemente ricostruito dagli studiosi con difficoltà e
solamente attraverso esili frammentP3• Nel suo libretto sull'orfismo
Louis Moulinier ha tentato di minimizzare la portata di questa dottrina
e ha trasformato arbitrariamente il testo greco Zeuç J.!Écrcra, "Zeus
il mezzo", in un povero e senza alcun significato "Zeus è nel loro
milieu", soffermandosi solo sull'immagine finale del passo platonico
di Leg. 7 1 5 c, quella che raffigura colui che va in rovina se ignora il
dio che nel suo procedere diritto è accompagnato dalla giustizia (". . .
dopo poco tempo paga il pesante fio alla giustizia e manda in rovina
se stesso, la sua casa e la sua città"; Leg. 7 1 5 c)54. Ma la sua è solo
una cattiva esegesi che orienta i passi e i frammenti secondo quelle
tesi negativistiche precostituite a tavolino ereditate da U. Wilamowitz-

53 M. S. Funghi, Una cosmogonia orfica nel Papiro di Derveni, in "La Parola del
Passato", 34, 1 979, pp. 1 7-30. Cfr. A. Lask and G. W. Most (curr.), Studies In the
Derveni Papyrus, Oxford 1 997; S. Colabella, Sul Papiro di Derveni, in Orfeo
e l 'Orfismo, cit., pp. 67-75; W. Burkert, Der Autor von Derveni: Stesimbrotos
Tispi -rsM:-r<i:lv ? , in "Zeitschrift fiir Papyrologie ind Epigraphik", LXII, 1 986,
pp. 1 -5 ; M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. 94- 1 26; L. Brisson, Orphée
et l 'Orphisme, cit., pp. 4 1 6-4 1 9 ; A. Magris, Cielo e destino nella riflessione
presocratica, Torino 1 978, pp. 85- 1 39. Più in generale, è utile F. Graf, Dionysian
and Orphic Eschatology. New Texts and Old Questions, in Carpenter-Faraone
(curr.), Masks of Dionysos, Ithaca/London 1 993, pp. 239-258.

54 L. Moulinier, Orphée et l 'orplzisme à l 'époque classique, Paris 1 955, p. 77.


Quando apparve questo libro il Papiro di Derveni non era stato ancora scoperto,
cosa che può scusare alcuni dei troppi errori delle ipotesi formulate dell'autore.
Moulinier segue pedissequamente Linforth, ma ha trovato un tardo continuatore
in L. J. Alderink, Creati011 and Salvation in Ancient Orplzism, Chico (Ca.)
1 98 1 , pp. 65 e sgg., che addirittura definisce l ' orfismo una sorta di "family
resemblance" (p.20). Alderink è stato severamente recensito per giusta causa
da G. Casadio, Adversaria orplzica. A proposito di un libro recente su/l 'orfismo,
in "Orpheus", 8 , 1 987, pp. 3 8 1 -395. Si può aggiungere che se Moulinier e
Alderink avessero studiato le opere di Reitzenstein, Olerud, Widengren, Ronnow,
Wikander e Weinreich nelle quali questi testi orfici si trovano studiati con ampia
dottrina comparativistica, avrebbero evitato molti inutili svarioni.

70
Moellendorff e da l. M. Linforth. Qui addirittura il Moulinier cerca
di nascondere con arte maldestra il valore tutto orfico di quell"'antico
Logos" (quasi sicuramente da rendere come una "veneranda tradizione
spirituale") alla cui autorità fa riferimento Platone per spiegare una
dottrina sul cosmo ormai diventata poco usuale nel mondo filosofico
della Grecia del suo tempo. Su queste formulazioni ipercritiche intese a
negare la stessa esistenza dell'orfismo e ridurlo ad una sorta di astratto,
povero e insignificante "parametro culturale" che incomprensibilmente
avrebbe percorso la storia spirituale ellenica, si sono già soffermati
severamente Ugo Bianchi, Henri Jeanmaire, Martin Nilsson, Louis
Gernet e Giovanni Casadio che ne hanno mostrato la sostanziale
infondatezza e hanno provveduto a demolirne le basi di riferimento e
lo stesso impianto complessivo con puntigliosa e rara attenzione alla
realtà dei documenti pervenuti55•
Nel Papiro di Derveni non solo viene mostrata la centralità di quello che
uno scolio a questo passo platonico delle Leggi continua a presentare
come "Zeus è il principio, Zeus è il mezzo, tutto è l'opera di Zeus.
Zeus è la radice della terra e del cielo stellato", ma qui addirittura Zeus
inghiotte il Protogonos (l"'essere primigenio" che contiene in sé tutte
le possibilità della manifestazione universale) perché con questo gesto
archetipico che sembra tradurre in termini mitici un probabile rituale
di trasfigurazione e di liberazione dal divenire (nel v. 1 5 dell'Inno
riportato da Porfirio si fa cenno addirittura alle "vie degli dèi celesti",

55 U. B ianchi, Orfeo e l 'orfismo all 'epoca classica, in "Studi e Materiali di


Storia delle Religioni", XXVIII, 1 957, pp. 1 5 1 - 1 56; Id., L' orphisme a existé,
in "Mélanges d'Histoire des Religions offerts à Henri-Charles Puech", Paris
1 974, pp. 1 29- 1 37 . Cfr. anche i molti rilievi annotati da H. Jeanmaire, Orphée
et /'orphisme à l'èpoque classique, in "Revue d' Histoire des Religions", 1 5 1 ,
1 957, pp. 93-97; l a reprimenda di M . Nilsson apparsa in "Gnomon", 28, 1 956,
pp. 1 7-22, e quella di L. Gemet, Encore l'orphisme: un mythe ?, in "Annales.
ESC", 1 3, 1 958, pp. 1 7 8- 1 80. Ulteriori critiche alle tesi negativistiche in G .
Casadio, Adversaria Orphica. A proposito di un libro recente sull'orfismo, cit.,
pp. 38 1 e sgg.

71
&wv oùot oupavtwvwv, come una delle tante realtà più rivelatrici
della vita del cosmo "corpo di Zeus"), gli sarà finalmente consentito
di "assumere" i germi creativi contenuti nel Protogonos e diventare così
il principio, il mezzo e lo scopo di ogni cosa, l'archetipo dell'esistente.
Come si vede, questi aspetti primordiali del mito conservati secondo
uno schema quasi identico in Platone, in Porfirio e nel Papiro sono stra­
ordinariamente prossimi al testo riprodotto da Otto Kern e mostrano
chiaramente come le dottrine ivi esposte contengano un aspetto essen­
ziale della cosmogonia ortica e non ne costituiscono affatto aspetti
minori e "periferici".
Non solo, ma le modalità con le quali sono congegnati i due finali vv.
8-9 di questo straordinario fr. 21a Kern (e tenendo presente che essi
concludono la raffigurazione di un Macrantropo, della sua "vita" e dei
suoi ritmi), sembrano spingere a concludere con Richard Reitzenstein
che qui ci troviamo di fronte alla memoria di un insegnamento sui
cicli cosmici molto simile a quelli che per es. in quel tempo vigoreg­
giavano in Iran o in India, quegli stessi che poi in Grecia trionferanno
prima con Eraclito e alcuni pre-socratici, poi con il pitagorismo e con
Platone. Più precisamente, l'Inno esprime l'idea fondamentale che il
mondo, "corpo di Zeus", nasce per una sorta di autogenesi divina, si
configura nella moltitudine degli enti corporei, vive nei loro ritmi,
si sviluppa secondo una serie di cicli o successioni temporali qui
sottolineate dal ruolo rivelatore del sole e della luna, ossia gli astri
che "regolano" la scansione del tempo, viene poi "assorbito" nell'in­
distinzione originaria (''dopo aver nascosto ogni cosa"), per rinascere
finalmente a nuova vita56.
I versi conclusivi di questo straordinario Inno assumono una speciale

56 Sul tema sono utili G. W. Most, The Fire Next Time. Cosmology, Allegories
and Salvation in the Derveni Papyrus, in "Joumal of Hellenic Studies", 1 1 7,
1 997, pp. 1 1 7- 1 35 ; F. Graf, Dionysian and Orphic Eschatology. New Textes and
Old Questions, in T. H. Carpenter -- C. A. Faraone (curr.), Masks of Dionysus,
lthaca-London 1 993, pp. 239-258.

72
importanza anche riguardo ad un altro problema. Volendo prospettare
prima la distruzione del cosmo ("compiendo opere terribili") e poi il
suo rinnovamento (''li riportò di nuovo alla luce gioiosa l del cuore
sacro"), sembrano insistere con particolare cura sul fatto che la rige­
nerazione cosmica si colloca a partire dal "cuore luminoso" dell'intera
manifestazione, un "cuore" che non può essere altro che una sorta di
"centro" creativo del mondo, una sede originaria che per analogia con
l'organo umano elargisce la vita e ne pulsa le modalità di esistenza.
È lo stesso jlEcrcr61h:v tO"OjlEÀijç 7tUVTT]t, il "centro eguale in tutte
le sue parti" (= "a forma di cerchio", "centro perfetto") sul quale si
intrattiene il Papiro di Derveni al r. 41, con tutta probabilità da iden­
tificare all'umbilicus mundi la cui nozione percorre alcuni importanti
miti apollinei. Questo umbilicus mundi splendente e lucente sembra
ricordato ancora nel r. 43 del Papiro di Derveni quando accenna al
"grande sole, che è un bene per i mortali" posto a fecondare e ad
arricchire la nuova creazione, una "sede solare" per molti aspetti
riconducibile alla stessa mitica Ogygia o alla "Terra della luce", la
Syria dei testi omerici.
La teoria di un tempo ciclico ritmato su un "eterno ritorno" che qui
emerge con forza sembra potersi accostare a quei passi delle opere
platoniche che hanno conservato dottrine similari, ma la cui origine
può essere riferita quasi sicuramente all'orfismo. In Phaedr. 248c-
249b Platone riprende una dottrina ciclica che anche i critici moderni
concordemente ritengono di origine ortica (fr. 20 Kern; Colli 4), nella
quale l'uso di un vocabolario tecnico (nEpt68ou = "periodicamente";
"ali dell'anima"; ecc.) si accompagna alla descrizione di una durata
temporale amministrata dall'ortica Adrastea (= le "leggi" e i ritmi
primordiali dai quali si è originato l'ordine del cosmo) e scandita dal
numero tre (''terzo giro di mille anni", "tre volte di seguito", "tremil­
lesimo anno"). In questi passi del Fedro è notevole anche l'attenzione
posta ad un ciclo di diecimila anni (che forse corrisponde, arroton­
dando, anche alla quantità di anni trascorsi dalla catastrofe di Atlantide

73
fino al tempo di Platone, un particolare ciclo temporale al quale si fa
cenno nel Timeo) quale cifra essenziale di un computo che dovrebbe
segnare il punto di "ritorno" dell'anima al "luogo donde è venuta" dopo
quello che altrove Platone, seguendo sicuramente gli orfici, definisce
il suo "esilio". A questa spiegazione di un tempo ciclico che dovrebbe
dare significato all'intera struttura teo-cosmogonica che regge la storia
del mondo, Proclo aggiunge quella che viene da lui presentata come
una vera e propria dottrina ciclica tipicamente orfica:

"Il theologos Orfeo dice che ci sono state tre razze. La prima
fu la razza d 'oro prodotta da Fanes, poi la razza d'argento
che fu governata dal potente Kronos e al terzo posto c 'è la
razza dei Titani che secondo Orfeo fu composta da Zeus con
le membra dei Titani ".
(in Remp. 2, p . 74 Kroll; fr. 140 Kern)

È una "storia" del mondo che avrebbe avuto inizio da Fanes, si è


continuata sotto la sovranità di Kronos e avrebbe trovato la propria
conclusione con l'empia azione dei Titani che uccidono il Fanciullo
divino, un sacrificio pervertitore che chiude il tempo mitico e schiude
alla piena sovranità di Zeus. La particolare concatenazione delle ère
che si srotolano a partire da una iniziale "Luce splendente" (Fanes)
conferma la sostanziale "orficità" del racconto e fa vedere che non
hanno corrispondenza alcuna con il mito ben più conosciuto delle
cinque razze esiodee. Esiodo, infatti, tratteggia un iniziale "immoto"
regno aureo di Kronos quasi estraneo qualitativamente al divenire delle
successive quattro età e fa cominciare il tempo e la durata umana solo
dopo l'avvento di Zeus, il sovrano divino del nuovo ordine cosmico,
lasciando che le quattro età si sviluppino tutte all'interno del regno di
Zeus. Tuttavia Proclo altrove aveva esposto questa dottrina "orfica"
in una formulazione più complessa e aveva elencato sei primordiali
sovrani del cosmo:

74
"Orfeo ha insegnato che i re degli dèi che hanno presieduto tutte le
cose sono secondo il numero perfetto, Fanes, Nyx, Urano, Kronos,
Zeus e Dioniso. Phanes per primo istituì lo skeptron e regnò per
primo in quanto illustre Erichepaios; secondo regnò Nyx che aveva
ricevuto lo skeptron da suo padre ; in terzo luogo Urano che lo
ricevette da Nyx; quarto Kronos che si dice aveva fatto violenza a
suo padre ; quinto Zeus che lo tolse a suo padre per prendeme il
posto; e dopo di lui il sesto, Dioniso " .
(in Tim. III, 1 68, 17-25; fr. 1 07 Kern)

Si tratta di una elencazione particolare che assimila due pure potenze


creative (Fanes e Nyx, "lo Splendore" e "la Notte", la "luce" e le
"tenebre") a due divinità nel tentativo di delineare non tanto delle
personificazioni divine, quanto condizioni primordiali di esistenza,
intere "epoche del mondo" con i suoi cicli alternati i cui l ineamenti
essenziali sembrano esplicitare quanto lo stesso Proclo afferma nell'in
Remp. II 74, 26 (= fr. 140 Kern) e nell'in Cratyl. 396 b (= fr. 101
Kern). Non solo, questo racconto addirittura mostra l'importanza
di Dioniso nel disegno complessivo di questa vera e propria "storia
universale del mondo pre-formale" ed evidenzia una sorta di struttura
teleologica orientata su Dioniso. D'altronde, è proprio la sua centralità
nel la nuova epoca prospettata dal racconto a dare un significato
escatologico al sovvertimento dei Titani e alla loro empia azione
sacrificale. Uccidendo il Fanciullo e scagliando i pezzetti del suo corpo
verso le sette direzioni dello spazio (il centro più le sei direzioni) i
Titani impediscono che Dioniso possa diventare il sovrano della
sesta età divina e perciò sovvertono il corso della teogonia, arrestano
la "storia celeste" indicata da Zeus. I l fatto che questo racconto
scaturito con ogni evidenza dalla tradizione orfica57 ponga come

57 L'origine orfica di questo testo di Proclo è data per acclarata da M. P. Nilsson,


Geschichte der griechischen Religion, cit., II, p. 649 :"La prova che può dedursi

75
primo sovrano un essere necessariamente androginico ed in se stesso
"indeterminato" nelle sue fattezze esteriori come Fanes, una pura "luce
splendente", potrebbe significare anche che in questo frammento si
siano conservati eventi appartenenti all'illud tempus delle origini, al
"tempo-non-tempo" anteriore alla stessa esistenza delle genealogie
divine e precedente una qualsiasi rappresentazione del farsi del cosmo,
quando l'esistenza universale sembrava doversi sviluppare attraverso
l'interazione di alcune pure potenze creatrici, "luce" e "tenebre",
"fuoco" e "acqua", "aria" e "terra", ecc .. Considerata l'estraneità di
questa successione divina alle altre recitazioni teo-cosmogoniche
conosciute, è anzi probabile che questo racconto affondi le proprie
ragioni nei mitologhemi cantati da quei pratoi theologesantes di cui
parlava Aristotele, quel sostrato di estatici molto vario costituito da
mitografi, cantori, physikoi e cosmologi la cui vicinanza con l'orfismo
e con il mondo della misteriosofia non è possibile negare.

dalla teoria della sesta età del mondo riferita a Dioniso è decisiva per quanto
riguarda la concordanza di fondo dell'orfìsmo originario con la tradizione che
poi si ritrova fino ai tempi ultimi deli 'antichità".

76
5. Il sacrificio di Dioniso

Nonostante la varietà e le sostanziali diversità delle tante cosmogonie


che gli scrittori antichi hanno preservato in frammenti e formula­
zioni diverse58, la tradizione orfica ha sempre considerato con una
certa continuità, quale elemento essenziale per spiegare la forma­
zione dell'uomo, il mito dello smembramento di Dioniso Fanciullo.
Si tratta di un racconto fondamentale per comprendere l'orfismo e,
pur datoci da fonti varie e spesso tarde, serpeggia in molti autori con
una sostanziale coerenza strutturale che non si ritrova in altri miti
orfici59• Secondo una solida tradizione, certamente la più diffusa e
nelle sue linee generali mai messa in dubbio quale mito fondante
dell'antropogonia orfica, da un rapporto incestuoso di Zeus con la

58 Il tentativo di M . L. West di ricostruire un "archetipo narrativo" dal quale


sarebbero derivate poi, per una sorta di progressiva articolazione e di "quasi­
specializzazione", tutte le versioni a noi giunte delle cosmogonie orfiche non
è stato accolto dagli studiosi. Una critica impietosa delle tesi di M. L. West ha
fatto L. Brisson, Les théogonies orphiques et le papyrus de Derveni, in "Revue
d'Histoire des Religions", 202, 1 987, pp. 389-420, che si affianca a quella di
G. Casadio, Adversaria Orphica et Orientalia'' in "Studi e Materiali di Storia
delle Religioni", 52, 1 986, pp. 29 1 -322.

59 Secondo H. Jeanmaire, Dioniso, Torino 1 95 1 , p. 402, "il mito della ' passione'
e dello smembramento di Dioniso ebbe una parte centrale ed eminente nella
rivelazione contenuta negli scritti orfici". Resta importante l ' ampio e per certi
aspetti decisivo excursus di A. Bemabé, La toile de Pénélope. A-t-il existé un
mythe orphique sur Dionysos et !es Titans ?, in "Revue d'Histoire des Religions",
2 1 9, 2002, pp. 40 1 -433, che riporta anche un nutrito gruppo di testi. Cfr. G.
Casadio (Adversaria Orphica, cit., pp. 39 1 e sgg.), che mostra brillantemente
contro critici non benevoli l ' ampia diffusione dei temi orfici e la loro forza di
penetrazione nella cultura ellenica. Vd. anche il suo precedente Id., Adversaria
Orphica et Orientalia'' in "Studi e Materiali di Storia delle Religioni", 52, 1 986,
pp. 29 1 -322.

77
figlia Kore/Persefone si origina il dio Dioniso. La sua nascita suscita
la gelosia di Hera, moglie del re Zeus. Accecata dall'ira perché il
suo divino sposo vuole imporre quel Fanciullo come proprio erede e
futuro sovrano degli dèi ("Ascoltate, o dèi. Ecco colui che vi do come
Re"; fr. 208 Kern), Hera chiede ai sette Titani di uccidere Dioniso ("E
in sette smembrarono tutte le membra del fanciullo"; fr. 210a, Kern)
e così i mpedire che si potesse realizzare la regalità del Fanciullo e
il futuro ordine celeste prospettato da Zeus. I Titani cospargono di
gesso bianco i propri corpi (altrove si insiste sull'uso della cenere,
forse come cenno residuale di una cerimonia sacra dai connotati pre­
olimpici) e portano alcuni giocattoli, i crepundia di Firmico Materno
(lo specchio, l'astragalo, la palla, la trottola, il rombo, le "marionette",
ecc.) per attrarre l'attenzione del Fanciullo. Riusciti finalmente a
circuire la vigilanza dei suoi guardiani, i famosi Kouretes intenti a
danzare armati attorno al loro protetto, i sette Titani uccidono Dioniso,
ne smembrano il corpo in innumerevoli pezzettini e li disperdono
minuziosamente verso le direzioni dello spazio. Secondo Wilhelm
Nestle come attribuzione caratterizzante di questa sua condizione
sacrificate capovolta il Fanciullo assume l'epiclesi di una divinità
intera, Zagreus, "lo Squartato".
Considerato i l ruolo fondamentale dei Titani, Marcel Detienne
suggerisce che il corpo del Fanciullo fosse stato spezzettato in sette
parti, uno per ogni suo torturatore, secondo un simbolismo sette­
nario che ritorna in alcuni aspetti dei rituali orfici e forse anche in
quello strano graffito di un rettangolo suddiviso in sette quadratini
riprodotto nel verso della seconda tavola d'osso scoperta a Olbia del
Ponto. Euforione, Callimaco e Clemente Alessandrino assicuravano
che le membra spezzettate non erano state disperse, ma gettate in un
calderone per esservi bollite. Il particolare è rivelatore. Non si tratta
di un particolare poco rilevante, ma del cenno ad una precisa azione
sacrificate che stando alle complesse analisi di E. A. S. Butterworth
documenta la continuità almeno fino all'alba della storia ellenica, di

78
culti pre-olimpici dai fondamenti chiaramente sciamanici ereditati da
un tempo molto antico. Nel suo studio Butterworth individua almeno
tre culti di antichi clan nella Grecia del XIV-XIII sec. a. Cr. dai chiari
caratteri sciamanici: quello dei Pelopidi, quello della stirpe di Perseo e
per ultimo quello che racconta le gesta del ghenos di Bellerofonte. Ai
nostri fini il culto più interessante per alcune indubitabili similitudini
col contesto che stiamo esaminando è quello dei Pelopidi, là dove il
mito di Pelope presenta tutti i caratteri di un rito iniziatico di rigene­
razione a sciamano: prima, smembramento con la sostituzione di un
osso, poi bollitura, infine rapimento temporaneo in cielo ad opera di un
dio Poseidon innamorato e pochissimo accostabile all'omerico fratello
di Zeus60• Questi aspetti sciamanici sono stati preservati con le stesse
finalità rituali anche presso le popolazioni della Scizia, fra gli abitanti
di alcune contrade poste a nord della Grecia e persino in molte tribù
germaniche del periodo delle invasioni dell'Impero. L'articolazione
del racconto orfico e la stessa complessità del rituale accennato così
vicino a quello dei Pelopidi, escludono o rendono secondarie molte
considerazioni sulla cosiddetta "cucina del sacrificio" elaborate da
Marcel Detienne che spesso ama ridurre aspetti rituali e sacrificali
fondamentali a mere forme culinarie di quella che a lui appare come
una sorta di "setta puritana alternativa" al mondo olimpico. Nel caso
dell'uccisione del Fanciullo lo strano sacrificio di bollitura e poi di
arrosto delle parti del corpo compiuto dai Titani può avere un suo
significato rituale non immaginando una sorta di "esistenza parallela"
di culti alternativi, ma considerando ancora la funzione pervertitrice
di quell'uccisione: il rituale "invertito" segna un capovolgimento dei
normali usi sacrificali del mondo olimpico e introduce un elemento
di vera e propria sovversione del cosmo ordinato sul quale regna Zeus

60 Cfr. E.A.S.Butterworth, Some Traces of the Pre-0/ympian World in Greek


Literature and Myth, Berli n 1 966, pp. 65-97, e soprattutto pp. I 35- 1 73 (cap.IV,
"Shamanism").

79
e che avrebbe dovuto "ereditare" Dioniso.
Dopo la dispersione delle parti del suo corpo solamente il cuore del
Fanciullo potè essere raccolto dalla virginea Pallade Athena che lo
porta all'addolorato Zeus, il dio sovrano del nuovo ordine divino
che ormai ha sostituito definitivamente quello antico sul quale aveva
regnato per ultimo il vecchio Kronos. Irato per l'inenarrabile scempio
e il terribile misfatto Zeus punisce i Titani incenerendoli con la sua
folgore. In un'altra versione conservata dai neoplatonici Proclo (ad
Tim. 35 b) e Olimpiodoro (fr. 2 1 1 Kern) non sarà Athena, ma Apollo
a radunare le membra sparse del divino Fanciullo oppure a racco­
gliere il suo cuore e a collocare la sacra reliquia significativamente
a Delfi, l'omphalos della civiltà ellenica. Callimaco (fr. 643 Pfeiffer)
preciserà che i resti del Fanciullo furono deposti da Apollo sul tripode
delfico nel punto esatto in cui la Pizia era chiamata ad annunciare gli
oracoli del dio, mentre lo ps-Eratostene (Test. 1 1 3 Kern) si scosta un
pò da ambedue le tradizioni e spiega che saranno le Muse a racco­
glierne le membra e a seppellirle a Libetra. Strabone assicura che in
questa cittadina edificata ai piedi dell'Olimpo su una altura chiamata
monte Libetrio si trovava una fonte d'acqua fluente chiamata Libetra
dagli straordinari poteri taumaturgici e considerata da sempre un
supporto di rivelazione delle Muse: era il veicolo privilegiato della
loro presenza e delle "virtù" elargite dalle nove divine sorelle. Persino
Virgilio (Egl. VII, 21) celebrerà questo famosissimo santuario legato
al culto apollineo nel quale usavano confluire i devoti di Orfeo e che
ancora ai suoi tempi era conosciuto come uno dei centri sacri della
tradizione orfica le cui tracce possono essere seguite almeno fino al
tardo periodo imperiale.
Da uno strano miscuglio di terra contenente la cenere dei Titani
fulminati da Zeus nascerà l'attuale umanità. È una "antica dottrina",
come ha cura di precisare Plutarco: "Questa dottrina sembra essere
più antica. Infatti i racconti sui patimenti e sullo smembramento
di Dioniso e le azioni empie dei Titani contro di lui e il fatto che

80
sono stati fulminati dopo aver consumato il delitto, sono un racconto
enigmatico che allude alla rinascita. Ciò che è in noi è irrazionale,
disordinato, violento, non divino e demonico gli 'Antichi' lo hanno
chiamato Titani, cioè quelli che sono stati puniti e devono espiare. . ."
(de esu carn. I, 7, 558-561). A questo quadro fosco sulla natura umana
Olimpiodoro aggiunge un particolare i cui contorni rimandano con
sicurezza alle forme con le quali si esprimevano alcuni rituali scia­
manici: "dal denso fumo dei vapori (EK -rt)ç; Ut'tUÀllç; nov U'tJ.HOV) che ne
erano scaturiti si formò la materia da cui ebbero origine gli uomini"
(fr. 220 Kern), cui fa eco anche un poeta di corte come Euforione: "Sul
fuoco, sopra la coppa, gettarono il divino Bacchos" (fr. 1 3 Powell).
L'intera specie umana sarà segnata per sempre dalla colpevole eredità
degli assassini del Fanciullo e dovrà patire le terribili conseguenze di
quell"'antica natura titanica" ben conosciuta anche da Platone (Leg.
III, 701C; fr. 9 Kern), un'antica "punizione" (KwÀamç;) che però ogni
uomo potrà espiare attraverso forme di culto centrate non casualmente
sulla purificazione dell'anima e sulla sua liberazione dalle catene del
corpo che la imprigionano perché assomma i n sé tutti gli aspetti
negativi della materia e dell'incessante divenire.
L'infelice racconto raffigura una scena assolutamente i nusuale
nel pantheon oli mpico e tutti i protagonisti sembrano emergere
da un retaggio molto antico, sicuramente da un sostrato religioso
pre-omerico. L'elenco dei sette Titani più importanti di quell'anti­
chissimo mondo, assieme a quello delle loro sette sorelle (Themis,
Thetis, Mnemosyne, Teia, Dione, Foibe e Rhea) si trova in Proclo (in
Tim. 40e = fr. 1 14 Kern). Svincolati da ogni prospettiva teogonica di
tipo esiodeo, essi appaiono come i signori di un ordine sacro ormai
scomparso che reggendosi su sette "pilastri" divini suppone una
diversa sistemazione del quadrante celeste e della stessa via Solis
che ne scandiva i ritmi. Sono i patroni di un ordinamento cosmico
che verrà sostituito da quello retto dai dodici dèi dell'Olimpo. Gli
stessi nomi di questi antichi "pilastri del cosmo" sono significativi

81
di una realtà tratteggiante un mondo antichissimo che affiora solo in
alcune frammentarie cosmogonie: Ouranos (da un probabile radicale
*var-, "coprire") è "colui che copre" la terra e forse raffigura lo stesso
"cielo notturno"; Okeanos è "l'origine del tutto" o "di tutti gli dèi"
(così Omero); Ceo è "lo sphairos", la sfera celeste" (Igino, Fab. 140
lo definisce "polo cosmico"); Crio è "l'ariete celeste"; Iperion "quello
di sopra"; Giapeto ha un ruolo importante nell'origine del genere
umano perché è proprio dalla sua unione con l'oceanina Climene che
nascerà Prometeo, padre di Deucalione e dunque "fonte" dell'umanità
succeduta al diluvio, e Kronos è l'ultimo rampollo di questa stirpe,
il giovane sovrano che avrà il compito di stroncare questo ciclo e
aprirne un altro che condurrà al regno di Zeus e all'ordine celeste
tutelato dagli Olimpici. I nomi dei Titani mostrano chiaramente che
in essi affiora il mondo di quegli "antichi dèi" di cui parlava Esiodo
(Theog. 1 32-1 34) scaturiti sotto tutti i punti di vista da una dimensione
reo-cosmogonica ormai poco compresa nell'Ellade storica. Non solo,
ma il fatto stesso che queste forme divine assieme alla loro ambienta­
zione mitologica sembrano sconoscere qualsiasi rituale o cerimonia
sacra, neanche di tipo esorcistico tesa a preservare l'ordine olimpico,
può trovare una sua spiegazione solamente nel loro essere delle pure
"potenze cosmogoniche" e non divinità da temere o da onorare che
accompagnano la vita degli uomini. Nel loro insieme riflettono non
un'articolazione del pantheon, ma la condizione primordiale di un
antico cosmo, uno status dell'esistenza forse connesso anche a quello
strano rilievo di Esiodo intento a fare notare come prima dell'appa­
rizione del padre Ouranos esistesse solo la realtà sulla quale regnava
Gaia, la Terra primigenia ed autogenerante, la dimensione primitiva
dell'essere ben presente anche nella teogonia orfica: "come dice il
theologos, di nascosto aveva generato Ouranos" (fr. 1 14 Kern).
Il mondo dei Titani è una realtà divina sopravvissuta solo margi­
nalmente al trionfo della religione olimpica e spesso la sua stessa
esistenza ha costituito una sorta di elemento caotico e di disordine

82
rispetto alla nuova armoniosa realtà costruita attorno ai dodici dèi più
"giovani" sulla quale ora regna l'olimpico Zeus61 • Nella loro natura
disordinata si è realizzata la maledizione di Ouranos lanciata quando
il figlio Kronos, l'ultimo e il più giovane dei Titani, evirò il padre
con il suo celebre falcetto sostituendolo così nel governo del cosmo.
Nel mondo primordiale la parola non è un puro fiatus vocis, ma una
potenza quasi-empirica, una forza che agisce concretamente sulla
realtà ed in questo caso trasforma il contenuto del terribile anatema
scagliato da Ouranos contro i suoi figli ribelli in una componente
perversa ed incancellabile dell 'essere più profondo dei Titani.
Atenagora (fr. 57 Kern) riporta un frammento di un probabile Inno
che mostra come già la loro nascita sia stata il frutto di una sorta di
vendetta e perciò la loro stessa esistenza è diventata potenzialmente
un elemento sovvertitore:

"Gaia, la signora, generò i.figli maschi di Urano,


quelli che portano anche il nome di Titani,
perché lafecero pagare al grande Urano stellato ".
(tr. P. Scarpi)

Esiodo riconduce il loro nome ad un significato di "colpa", "pena",


"vendetta" (ticnv; cfr. tivro, "espiare", "pagare un'azione indegna") e
spiega: "col tendere troppo in alto il braccio (= nmtv6vmç = "tendere
in alto il braccio" = "prevaricare"), avevano commesso nella loro
follia un terribile misfatto e in futuro ci sarebbe stata la vendetta
= ticnv" (Theog. 209-2 1 0). Si tratta di un'etimologia particolare,

61 Gli antichi racconti sui Titani sono stati raccolti anche da I. M. Linforth, The Arts
of Orpheus, Berkeley-Los Angeles 1 94 1 , pp. 33 1 -334. Cfr. anche A. Bemabé,
El mito orfico de Dioniso y los Titanes, in A. Bemabé- F. Casadesùs, Orfeo y
la tradici6n 6rfica, cit. , pp. 59 1 -608. Si può notare che anche in India prima
dell'arrivo dei dodici Adityas è esistito un antico ordine divino retto da sette
divinità il cui capo era Varuna, l'equivalente vedico di Ouranos.

83
rinvenibile anche in Plutarco (de esu carn. 996 a) e Atenagora (pro
Christ. 18, 3-6; fr. 57 Kern), che coniuga il significato del nome di
queste antiche divinità con il contenuto dell'azione compiuta e con
i terribili effetti del loro agire, una connessione causale assoluta­
mente inevitabile perché contenuta nella loro natura prevaricatrice,
nella indomabile prepotenza del loro essere e nelle stesse modalità
di realizzazione della loro esistenza. Secondo una tradizione forse
emersa dal variopinto contesto mitologico dell'orfismo, quando Zeus
sostituisce il vecchio mondo, non potendole annientare, assegna a
queste entità divine una diversa collocazione nell'universo, li pone
nel Tartaro ai confini del mondo olimpico destinato a custodire il
nuovo "ordine" divino: "dietro a lui camminava la severa punitrice
Dike [= la "giustizia" che assicura il nuovo ordine cosmico e l'assetto
divino custodito da Zeus], che vendica tutti i delitti" (fr. 158 Kern). La
memoria dell'antica potenza dei Titani sussiste ancora in alcuni mito­
loghemi che ne annotano una presenza circoscritta ormai ad alcuni
momenti delle più antiche cosmogonie, un ruolo che rivela una loro
presenza ormai crepuscolare, tuttavia diventata sovvertitrice del nuovo
ordine olimpico e nel racconto dell'uccisione del divino Fanciullo
questi esseri hanno il duro compito di affermare una forza tracotante,
ribelle e pervertitrice62•
Secondo una tradizione difficile da verificare i Kouretes danzanti

62 Resta utile l ' approccio di K. Kerényi, Die orphische Kosmogonie und der
Ursprung der Orphiker. Ein Rekonstructionsversuch, in "Eranos Jahrbuch",
1 7, 1 949, pp. 53-78, che ritrova nell'orfìsmo un percorso iniziatico. Nella
sua analisi del "misticismo del complesso orfìco" (una dizione estremamente
fuorviante, ma utile alla tesi dell'autore perché gli evita di addentrarsi nella vexata
quaestio sulla realtà dell'orfìsmo), D. Sabbatucci (Saggio sul misticismo greco,
2" ed., Roma 1 979, pp. 4 1 - 1 26) elenca tutta una serie di elementi mitologici
nei quali egli immagina dualismi dialetticamente contrapposti, fasi varie e
persino fantasiose interazioni fra Esiodo e la teo-cosmogonia orfìca. È il modo
migliore per obbligarsi a non capire le finalità soteriologiche dell'orfìsmo e il
suo radicamento nel mondo della misteriosofìa arcaica.

84
e armati che proteggono senza risultati il Fanciullo erano gli stessi
Dattili Idei che avevano custodito il dio Zeus durante il tempo della
sua prima infanzia e poi erano stati chiamati ad educare alle loro
arti magiche anche il Cantore Orfeo. In questo racconto orfico la
loro funzione ripete, questa volta senza successo, la stessa impresa
da loro coperta alle origini del ciclo olimpico e alla nascita di Zeus
quando custodirono con cura il Fanciullo destinato a diventare i l
r e del nuovo ciclo divino. Louis Gernet pensava che dal punto d i
vista di una sociologia sacra i Kouretes probabilmente incarnavano
l'archetipo mitico delle antiche confraternite guerriere presenti i n
tutto il mondo indoeuropeo e probabilmente l'Inno di Policastro
che ne celebra la danza armata documenta non solo l'esistenza di
confraternite di guerrieri danzanti che si configuravano come la
proiezione nel tempo dei mitici Kouretes, ma anche lo strettissimo
legame con uno Zeus danzante (lontanissimo dallo Zeus olimpico)
considerato il loro Archegeta. La vicenda del Dioniso Franciullo
ucciso dai Titani indica che nell'El lade urbanizzata queste confra­
ternite non potranno più avere un loro ruolo negli ordinamenti
cittadini e continuavano solamente una esistenza molto prossima ad
una sopravvivenza crepuscolare. La stessa incapacità di assicurare
l'incolumità del loro protetto documenta probabilmente che l'anti­
chissima dimensione sacra incarnata da questo tipo di consorterie
era ormai giunta al tramonto.
Il "Fanciullo che gioca" raffigura un archetipo mitico richiamato
da Platone quando accenna al "gioco degli dèi" dal quale si origina
il cosmo che ritorna nella famosa immagine di Eraclito dataci da
Diogene Laerzio (IX, 3), quel la che presenta il fi losofo di Efeso
mentre all'interno del tempio di Artemide gioca ai dadi-astragali
con alcuni "fanciulli". Lo schema verosimilmente riprende un unico
prototipo narrativo che evidenzia i l simbolo della nuova regalità
divina qui interrotta ferocemente, ma la cui condizione di pienezza
e di perfezione originaria da ora in poi si potrà perpetuare solo

85
attraverso i rituali iniziatici. Infine troviamo la métis, ]"'inganno"
che circuisce e "costringe". Non si tratta di un mero espediente
furbesco che agisce solo su un piano "umano" e psicologico, ma di
una vera e propria forza sovrumana scatenata che altera equilibri
sacri e procura prima la morte e poi la dispersione del corpo di
Dioniso verso le sette direzioni dello spazio secondo modalità sacri­
ficati che alterano, capovolgendone totalmente la portata sacra, gli
antichi rituali di "presa di possesso" di un territorio. Con l'uccisione
di Dioniso si annulla il valore contemporaneamente soteriologico,
trasfigurante e parusiaco della sua nascita e viene cancellato defini­
tivamente il nuovo ordine divino che Zeus intendeva fare emergere
attorno al Re-Fanciullo.
Il ruolo di Dioniso in questo racconto è fondamentale. E tuttavia
si fa molta fatica a ricol legarlo al dio della sfrenata esaltazione
che Esiodo e Pindaro chiamano Polyghetes, "colui che dispensa
gioia abbondante"; il suscitatore di quell'ineguagliabile entusiasmo
orgiastico che durante le sacre cerimonie libera da ogni condi­
zionamento; il Lysios, "il l iberatore" che svincola dai limiti del
corporeo; il Mainomenos, "il furioso", "il delirante" di Il. VI, 1 32,
l'evocatore della foll ia di moltitudini di donne che abbandonano
tutto, casa, villaggio, affetti e lo seguono "catturate" dalla frenesia
indotta dalla sua stessa apparizione; il dio che impone l'omofagia e
lo sbranamento dei tori e dei cervi vivi; il dio dei cortei mascherati
che attraversavano inneggiando le città e si incamminavano festeg­
gianti dietro la sua immagine, spesso una maschera o un phallus,
con tutto intorno turbe di devoti cantanti e danzanti fino allo sfini­
mento. D'altronde, i testi che possono indurre ad interpretare tutto il
complesso rituale che contornia il mito dionisiaco in una prospettiva
autenticamente orfica sono veramente pochi e, riprendendo le giudi­
ziose riflessioni di Paolo Scarpi nel suo commento ai frammenti
orfici, solamente due hanno un vero spessore speculativo, quello di
Clemente Alessandrino (Prot. 17, 2-18) e quello di Olimpiodoro (in

86
Phaed., I, 3, 3 -14). La conclusione che ne traeva uno studioso del
valore di Henri Jeanmaire, conoscitore profondo di tutti gli aspetti
del movimento dionisiaco, dei valori mitico-rituali che fecondavano
il culto apollineo e della strutturazione delle confraternite guerriere
elleniche, era che i l mito del Fanciullo-Dioniso ucciso e squartato
dai Titani in sette parti (o in una moltitudine indefinita di pezzettini)
"non include elementi dionisiaci"63•
In realtà, è molto probabile che i l racconto di quello che appare
come la trasposizione di un vero e proprio sacrificio primordiale
del divino Fanciullo perpetui la figura di un Dioniso non assim i­
labile sic et simpliciter al dio del vino o dell'edera, e per capirne i
molti risvolti forse bisognerebbe tornare a valutare con una diversa
prospettiva la figura del Dioniso emerso con forza dopo la decifra­
zione del lineare B. In alcune di queste tavolette, infatti, due prove­
nienti da Pilo e una da Khanià, a Creta, si è trovata la trascrizione
del suo nome, di-wo-nu-so-jo, e quella di un di-we-je-we, "figlio di
Zeus", che conducono senza difficoltà ad un Divo-(s)nysos dal quale
si avrebbe un *(s)nysos = kouros. Sviluppando le analisi l ingui­
stiche di Paul Kretschmer e portando la sua attenzione verso scenari
molto antichi Raffaele Pettazzoni riteneva che "Dionysos darebbe
dunque il kouros, "fi g lio" di Zeus (cfr. i Diòs-kouroi) parallelo al
Kouros cretese adorato dai Kouretes e alla Kore eleusina". È lo
stesso "Fanciullo, figlio di Zeus", un dio-1taiç; i cui tratti essen­
ziali non hanno nul la che possa consentire una sua assimilazione
al dio dal quale è scaturito il movimento dionisiaco propriamente
detto, rappresentato mentre viene iniziato e che è stato illustrato con
inusuale chiarezza sia nell'iscrizione di Torre Nova sia negli affreschi
studiati da G. E. Rizzo e da L. Curtius64• Si potrebbe aggiungere che

63 Ampia discussione sul rapporto dionisismo-orfismo in H. Jeanmaire, Dioniso,


cit., pp. 389-4 1 3 .

64 G. E. Rizzo, Dionysos mystes, in "Atti R. Accademia di Archeologia, Lett. Belle

87
anche la Laminetta di Pherai recentemente pubblicata65, sembre­
rebbe confermare l'importanza di questo "Fanciullo divino" nell'or­
fismo, specie là dove coniuga un "fanciullo" e un "uomo" nel quale
dovrebbe culminare l'iniziazione sacra supposta dal testo. Fra i sacri
akusmata segnalati nell'iscrizione della Laminetta, infatti, appare il
termine Av(ò)ptK€7tatò6{)upcrov che viene così commentato dal suo
curatore P. Chrysostomou: è il "nomen mysticum [. . .] ut compositum
ex aviJp et naie; interpretatum, et {)upcroç"66.
D'altronde, lo stesso termine bacchos che ritorna spesso in testi sicu­
ramente di ambientazione orfica e che G. Pugliese Caratelli et alii insi­
stevano ad accostare a Dioniso e ad un contesto bacchico-dionisiaco67,
ma che si ritrova ripetutamente anche in alcune Laminette auree, può
aver indicato tutta una classe di iniziati non necessariamente connessi
al dionisismo. La sua presenza in ambiti chiaramente orfici come nel
caso della tragedia di Euripide /ppolito (vv. 953 e sgg.) nella quale il
verbo bakcheuein si trova riferito senza dubbio alcuno ai rituali orfici,
poi lo stesso suo uso fatto da Platone che sembra utilizzarlo fuori da
ogni riferimento ad una precisa divinità e spesso solamente per il
valore che assume in se stesso (cfr. il celebre passo di Phaed. 69 c-d:

Arti Napoli", III, 1 9 1 8, pp. 39- 1 02 ; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompeiis.


Eine Einfiihrung in ihr Verstiindnis, Leipzig 1 929, p. 350. Da parte sua M. L.
West (The Orphic Poems, cit., pp. 1 40- 1 75) ha voluto sostenere che il sacrificio
del Fanciullo raffigura una iniziazione sciamanica con aspetti di tipo tribale
riscontrabili in mondi lontani dali 'Europa e dalla strutturazione molto primitiva,
ma la sua tesi si sviluppa su basi etnologiche e sembra trascurare i rituali di
"morte e rinascita" che nelle misteriosofie elleniche costituivano l 'elemento
centrale della palingenesi del! ' iniziato.

65 Si trova in P. Chrysostomou,'H 9�:crouÀt!d] 9�:a 'Ev(o)ùia ij <!>�:paia 9Ea, diss.,


Tessalonica 1 99 1 pp. 376 e sgg.
,

66 lvi, pp. 383 e sgg.

67 Cfr. G. Pugliese Caratelli, Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia civile e
religiosa dei Greci d'Occidente, Bologna 1 990, pp. 390-402.

88
"Molti sono i portatori di tirso, ma pochi i bacchoi"), può suggerire
non una sbrigativa assimilazione dionisimo/orfismo e men che mai
un inesplicabile adattamento al fine di "ellenizzare" il primo ricon­
ducendolo al secondo come ipotizzava Erwin Rohde, ma solamente
che il termine si è svincolato dal contesto originario nel quale era nato
ed è diventato una pura espressione tecnica per indicare gli iniziati, i
"liberati" o i "puri". Come si vede, gli intrecci e le figurazioni divine
del famoso racconto tendono a mostrare non tanto una dipendenza
dal movimento dionisiaco di questo "Fanciullo sacrificato dai Titani",
quanto un affioramento dei medesimi motivi cultuali serpeggianti
nelle tante misteriosofie che ordinavano la regalità sacra, il gioco,
i dadi e la "tavola cosmica" attorno ad un "Fanciullo (= iniziato),
figlio di Zeus", tutta una serie di forme sacre che sostanziavano anche
il complesso e variegato sostrato religioso che all'alba della civiltà
ellenica continuava a fiorire ai margini del culto olimpico.
L'astuzia pervertitrice dei Titani, quel raggiro tortuoso che ha portato
alla morte del Fanciullo, a questa forma particolare di sacrificio
primordiale capovolto e "pervertitore"68 e all'alterazione del nuovo
ordine cosmico poggia su due elementi essenziali: il camuffamento dei
Titani e l'inganno che attira Dioniso con i giocattoli. Imbiancare col
gesso69 il corpo degli assassini ha un profondo significato simbolico

68 Il "sacrificio pervertitore" dei Titani può essere inquadrato all'interno di quel


tipo di "colpa antecedente" teorizzata da U. Bianchi, Péché origine! et péché
"antécédent", in "Revue de l'Histoire des Religions", 1 70, 1 966, pp. 1 1 7- 1 26;
Id., Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salveu.a,
Roma 1 976, pp. 55 -70.

69 Sull 'uso "mistico-rituale" del gesso nei rituali ellenici più antichi cfr. H .
Jeanmaire, Couroi et Couretes, Lille 1 939, p . 355. Una spiegazione dell' uso
del gesso che segue le teorie strutturaliste di M. Detienne si trova in P. Ellinger,
La suie defumée des Titans, in Id., La légende nationale phocidienne, Artémis,
les situations extrèmes et /es récits de guerre d'anéantissement, in "Bulletin de
Correspondance Hellénique", suppl. XXVII, Athènes-Paris 1 993, (pp. 1 47- 1 95),
pp. l 54- 1 6 1 .

89
e la sua conseguenza funesta si avrà con il loro incenerimento dovuto
al fulmine di Zeus. Imbiancandosi, i Titani nascondono la propria
natura, si travestono, scopiazzano esseri divini appartenenti ad un
altro mondo o scaturiti dall'aldilà. Scimmiottano, sovvertendone la
funzione, gli autentici maestri d'iniziazione. Un aspetto particolar­
mente perfido della loro azione è proprio questo "inganno", il perver­
timento di un'azione rituale che non porta alla liberazione del myste,
ad una teogonia, ad una nuova gerarchia divina o ad una parusia, ma
allo smembramento del Fanciullo, alla dispersione delle sue membra
e ad un vero e proprio pervertimento dell'originaria condizione sacra
che impedirà al Fanciullo di diventare i l sovrano dell'ordine divino
prospettato da Zeus.
L'altro elemento di questa azione titanica è l'esibizione di quei
particolari giocattoli il cui elenco sarà preservato anche dal celebre
epigramma di Leonida di Taranto e, con un intento satirico che
impedisce agli autori cristiani di coglierne l'autentico valore sacro,
da Clemente Alessandrino (Protr. 17, 2-18) e da Arnobio (V, 1 9)1°.
Ognuno di essi ha sempre coperto importanti aspetti nelle inizia­
zioni proprio per il simbolismo che si riteneva dovessero veicolare
e nel caso dell'orfismo la loro importanza è testimoniata anche dal
Papiro di Gurob del III secolo a.C. e ritrovato a Fayyum, in Egitto. In
questo testo addirittura il loro valore simbolico si assomma a quell'im­
portante cenno rituale indicato dall'invito a "gettare" nel canestro i
"giocattoli" ricordato dai vv. 28-30:

70 M. Tortorelli Ghidini, l giocattoli di Dionisofra mito e rituale, in Tra Orfeo e


Pitagora, cit., pp. 257-263; M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. 1 65- 1 70.
Per l 'epigramma di Leonida cfr. A. S. F. Gow-D. L. Page, The GreekAnthology.
Hellenistic Epigrams, Cambridge 1 965, pp. 335-336. Sui significati cosmologici
veicolati dal gioco arcaico, cfr. N. D'Anna, Il Gioco Cosmico. Tempo ed eternità
nell 'antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006, pp. 33-40.

90
"getta nel canestro (tiç 'tOV KaÀ.a{}Qv Éll�aÀ.Biv)
trottola, rombo, astragali e specchio " .
(fr. 3 1 Kern? 1

Nelle mani dei Titani i giocattoli capovolgono la loro funzione sacra,


diventano gli strumenti di un'azione pervertitrice, mostrano che i l
loro simbolismo iniziatico è volutamente utilizzato dai Titani per
sovvertire l'ordine voluto da Zeus e, come in tutti i racconti di questo
tipo, trasformano il loro antico ruolo sacro in un mezzo di sovver­
timento. Diventano i veicoli di un inganno che altera gli equilibri
cosmici prospettati dall'eventuale regalità del Fanciullo.
Il ruolo iniziatico dello specchio nelle cerimonie sacre e nelle miste­
rrosofie antiche è ben conosciuto. Si tratta di un simbolismo che già
Platone nel Fedro usava come metafora per indicare l'unità dell'anima
e poi si è continuato senza interruzione fino a Plotino col quale i l
simbolo rivela d i avere anche u n importante ruolo nelle evocazioni
teurgiche del tardo neoplatonismo72• La sua importanza nell'orfismo è
documentata non solo da una moltitudine di raffigurazioni vascolari,
ma anche dai ritrovamenti nel temenos di Olbia del Ponto dove fra i
numerosi specchi rinvenuti se ne trova uno in bronzo che ha avuto
senza dubbio alcuno un ruolo sacro nelle cerimonie orfiche come
provano, fra l'altro, le invocazioni contenute nell'iscrizione che lo
adorna. Nella pisside d'avorio conservata al Museo Archeologico di
Bologna il divino Fanciullo è raffigurato seduto su un trono circondato

71 Cfr. M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. 1 8 1 - 1 82; P. Scarpi (cur. ) Le religioni
,

dei Misteri, cit., I, pp. 404-405 (e il commento pp. 654-657).


72 Cfr. J. Pépin, Plotin et le miroir de Dionysos (Enn. IV, 3, 12, 1 -2), in "Revue
lntemationale de Philosophie", 92, 1 970, pp. 304-320; N. D'Anna, La Disciplina
del Silenzio. Mito, mistero ed estasi nell'antica Grecia, Il Cerchio, Rimini 1 995,
pp. 1 23- 1 49; A. Tagliapietra, La metafora dello specchio, Torino 2008, pp.
1 7-29.

91
dai Kouretes armati che danzano tutt'intorno mentre uno strano
personaggio, forse lo stesso maestro delle iniziazioni, lo osserva in
ginocchio attraverso uno specchio rotondo73. Alle origini lo specchio
era il simbolo della perfezione della sfera celeste, oppure raffigurava
lo splendore del disco solare, e spesso la stessa osservazione dei movi­
menti siderei si faceva attraverso uno specchio sacro che ne doveva
delimitare il valore simbolico74•
A loro volta, la palla, la trottola, il rombo e l'astragalo si ritrovano
in molti altri miti dell'Ellade con un preciso riflesso sacro ed hanno
tutti un evidente significato cosmico, coprono aspetti diversi di un
simbolismo legato, ancora, alla sfera celeste e ai movimenti delle
costellazioni. La palla, proiezione del cerchio nell'ambito del volume,
è l'evidente raffigurazione della sfera cosmica, la stessa "palla" che,
secondo il racconto di Apollonia Rodio (III, 1 3 1-141), Adrastea,
madre di Eimarmene e custode delle "primordial i leggi" (= &crJ.toi)
che regolano l'ordine celeste, aveva dato all'ancor fanciullo Zeus
per farlo giocare nella caverna del monte Ida, l 'arcaico axis mundi
posto a governare il movimento della sfera cosmica. È l'immagine
perfetta di un universo circolare che secondo Platone (Tim. II, 488)
poté essere ottenuto solo dopo che il demiurgo }"'arrotondò al tornio"
smussandone le imperfezioni: riportò i corpi celesti al loro ordinato
cammino circolare dopo i cataclismi delle età primordiali che secondo
Aristotele (Meteor. l , 8, 345a) causarono lo spostamento del corso del
sole dall'originario tracciato sulla via Lattea nei tempi primordiali
a quello attuale. In tutto il mondo indoeuropeo il gioco della palla
assume spesso i caratteri di una lotta fra due giocatori (uno "bianco"
contro uno "nero" che mimano rispettivamente l'emisfero diurno e
quello notturno), un'ordalia celebrata durante le feste solstiziali e in
quelle che festeggiano il rinnovamento annuale.

73 In M. L. West, The Orphic Poems, cit., tav. 5 .

74 Cfr. W. Deonna, Il simbolismo dell'acrobazia antica, Milano 2005, p. 1 29.

92
Da parte sua la trottola raffigura il movimento ciclico del cosmo
attorno ad un asse centrale che ne regola la perpetua rotazione.
La sua struttura essenziale sviluppa quella del cono che è ottenuta
facendo girare attorno ad un asse un triangolo rettangolo. Ne scatu­
risce l'immagine completa della rotazione celeste in un tempo nel
quale i riferimenti polari probabilmente risultavano perpendicolari
all'asse dell'osservatore e costituivano il rinvio principale nell'orien­
tamento rituale. Questo "giocattolo" ha un importante ruolo negli
scritti di Archita di Taranto (la nÀa'tayfl, "plataghé", che ruotando
produceva un suono ritenuto un riflesso di quello supposto nel movi­
mento sidereo) e pare che addirittura Archita poté inventare la vite
e la ruota dentata applicando il principio rotatorio e Io schema di
movimento vagamente elicoidale di questo simbolo alla tecnologia
e agli strumenti del lavoro umano. Tutto ciò mostra la straordinaria
capacità di questo "giocattolo" di conservare un simbolismo cosmico
che dall'orfismo passerà quasi "naturalmente" nel pitagorismo fino a
raggiungere attraverso il Medioevo anche il Rinascimento italiano.
Cercando di spiegarne il significato, Aristotele aveva razionalizzato
come suo solito una sapienza molto antica supponendo addirittura che
Archita ne fosse l'inventore, ma trascurava il fatto che la trottola aveva
già una sua importante funzione simbolica nelle venerande tradizioni
dei cosmologi arcaici e nelle cerimonie sacre orfiche.
I l rombo 75 riprende il simbolismo della spirale e spesso veniva
modellato su una tavoletta forgiata a forma triangolare con un filo

75 Lo studio classico in Italia resta quello di R. Pettazzoni, l Misteri. Saggio


di una teoria storico-religiosa, Cosenza 1 997, pp. 22-44. L'inconcludente
presentazione di D. Sabbatucci apposta a questa nuova edizione del testo sembra
esorcizzare il valore conservato dal libro nonostante il tempo trascorso dalla
sua prima formulazione. Aiuta a spiegare questi aspetti P. Ansovini, L'infinito
nella concezione aritmogeometrica del pitagorismo, in "Annali della Facoltà
di Lettere dell'Università di Perugia", 1 6- 1 7, 1 978- 1 980, pp. 1 95-2 10. Sulla
spirale è utile C. Lanzi, Ritmi e Riti, Roma 2007, pp. 1 35- 1 40.

93
che fungeva da perno rotatorio e sul quale faceva leva l'iniziato per
farlo girare vorticosamente fino ad ottenere un sibilo simile al muggito
del toro. Col suo movimento mulinante il rombo riproduce sul proprio
piano la dottrina dei cicli riadattando le due fasi cosmiche di "espan­
sione" e di "involuzione" alla prospettiva misteriosofica di "morte"
e "rinascita" (o di palingenesi) dell'iniziato. Per queste motivazioni
simboliche il rombo si ritrova nei rituali di molte religioni dell'u­
manità come importante supporto di rigenerazione spirituale.
Infine il racconto fa menzione degli astragali, i dadi fatti di osso o di
pietra che venivano "gettati" sul tavolo dei giochi sacri al momento
del "rinnovamento del tempo". Alcuni esemplari di osso sono stati
ritrovati ad Olbia pontica e non si hanno dubbi sulla loro funzione
rituale. Anzi, nel verso del secondo osso-astragalo di Olbia si trova
graffita l'immagine di un rettangolo diviso in sette quadratini (quanti
sono i Titani che attuano il sacrificio capovolto, oppure i cerchi cosmici
che l'iniziato orfico dovrà ripercorrere nella sua palingenesi iniziatica),
ognuno dei quali porta raffigurato un cerchietto. La forma cubica
dei dadi-astragali è stata sempre considerata dagli astronomi antichi
fino a Keplero e alla scienza seicentesca uno dei simboli più appro­
priati del contesto sacrale coperto da Saturno/Kronos, il re dell'età
aurea, quando il tempo non scorreva e il divino sovrano dei primordi
"misurava" i ritmi del mondo gettando nella "tavola cosmica" i dadi
che simbolizzavano il movimento dei corpi celesti. Ripeteva lo stesso
gesto archetipale che ritorna non casualmente nel cenno alla "gettata
nel canestro" del Papiro di Gurob (vv. 28-30) e nel racconto riferito da
Diogene Laerzio a proposito di Eraclito, quando il taciturno filosofo
considerato molto vicino alla spiritualità orfica a tal punto da essere
l'unico filosofo menzionato nel Papiro di Derveni, un giorno "entrò
nel tempio di Artemide e si mise a giocare con gli astragali-dadi con
i fanciulli" (IX, 3)16• La "gettata" ripeteva gesti ancestral i, il gioco

76 È straordinario come l ' archeologia abbia potuto documentare l 'uso rituale dei

94
dei dadi decretava un'ordalia con valore cosmico, assumeva aspetti
oracolari, interpretava il significato dei movimenti siderei, rivelava
il volere degli dèi, segnava il significato della vita dell'Anno Nuovo
simbolizzato dal Fanciullo Celeste appena nato. Ogni partita mostrava
il legame dell'iniziazione con la dimensione oracolare, interrogava sul
destino, ritmava un intero ciclo sidereo, doveva scandire l'inizio di
un'èra cosmica. È anche per questo che il gioco dei dadi è diventato
uno degli strumenti più idonei e conosciuti della scienza divinatoria
praticata in modo specifico proprio durante la festa del dio dell'età
aurea al quale erano sacri proprio i dadi. Alle origini, questo gioco
era permesso solo alla conclusione dell'anno solare, durante il tempo
del vacuum solstiziale nel quale venivano celebrati i culti dedicati a
Saturno/Kronos, quando i normali rapporti sociali erano alterati in
attesa che iniziasse l'Anno Nuovo ed era perciò lecito interrogare il
destino assegnato ad un "fanciullo"-giocatore.
I l fatto che nel racconto tutti questi simboli celesti vengano adattati a
semplici giocattoli "per attirare il Fanciullo", mostra che il mito orfico
in realtà sta raffigurando non solo il passaggio da uno stadio divino
ormai conchiuso ad un altro, ma anche una condizione nella quale il
Fanciullo che "muore e rinasce" ripetendo l'archetipo celeste con il
suo eterno movimernto ciclico, rappresenta la palingenesi dell'iniziato
ammesso ai sacri misteri. Il simbolismo cosmico di questi "giocattoli"
svela }"'ordine antico" che essi designavano mentre l'uso perverso che
ne fanno i Titani annuncia il tentativo di alterare l'ordine custodito
ora da Zeus.
La prospettiva orfica del "gioco del Fanciullo", quella che Platone
traduce come nmòuiç i]ò ovmv rivela nei termini del simbolismo una

dadi-astragali ali 'interno del tempio di Artemide Efesina mostrando che qui non
si tratta di una astratta leggenda o di una superstizione, ma di un ben preciso
valore simbolico che aiuta a dare il giusto significato anche al mito orfico. Cfr.
D. G. Hogarth, Excavations at Ephesus. The archaic Artemisia, London 1 908,
pp. 1 90 e sgg.

95
vera e propria condizione iniziatica e sembra indicare persino alcune
delle nuove forme assunte dai misteri all'alba della storia ellenica.
Da una regalità cosmica in cui culminava la perfezione di un sovrano
"quasi-divino", solitario mediatore fra il mondo degli dèi e quello
degli uomini, e alla quale si poteva accedere solo in virtù di un sacro
ed esclusivo diritto ereditario, si passa ad una elaborata misteriosofia
che trasfigura l'iniziato e lo proietta in una dimensione celeste. Ne
fa un essere rigenerato il cui status spirituale è assimilabile a quello
eccezionale degli antichi re-maghi. L'arcaica regalità che assommava
in sé anche magia, divinazione e sacerdozio diventa adesso una condi­
zione di "pienezza" conseguibile solamente dall'iniziato orfico dopo
essere giunto prima al culmine di un adeguato processo di purifica­
zione e poi di trasfigurazione interiore.
Anche per questo motivo Platone assicurava che l'universo è il frutto
di un divino gioco che rivela la gratuità dell'esistenza, è un dono,
una pura "rappresentazione cosmica" (= theatrum mundi), e gli stessi
uomini sono "marionette" nelle mani degli dèi, "giocattoli" disar­
ticolati con i quali usano dilettarsi gli dèi, "ombre" proiettate sulle
pareti della "caverna cosmica" alle quali solo gli iniziati possono dare
significato, consistenza e autentica vita. Secondo Platone gli uomini
dovrebbero danzare come "marionette" (= ful>JlaTa; fuUJlUT0-1tOtEW
indica l'arte di "fare giochi di magia"; fuuJlaToç è il "giocoliere"),
assumendo lo stesso "stupore" o "meraviglia" (= fuullaçro, "mi mera­
viglio", "stupisco") che provoca lo spettacolo nello spettatore e ubbi­
dendo all'unico filo, quello centrale che, come il monocordo dell'ar­
caica lira precedente la "riforma" di Orfeo che ne portò a sette le
corde, li collega alla sfera dei cieli, alla dimensione del "puro essere",
al divino. Il ritrovamento in molti siti archeologici di numerose
"marionette" in terracotta con le "membra snodate", così come la
loro menzione in alcuni frammenti che Martin L. West considerava
sicuramente orfici, probabilmente documenta che queste "marionette­
giocattoli" non servivano per un insignificante ed in se stesso assurdo

96
diletto (!) degli iniziati, come ha preteso qualche erudito burlone ed
ignaro della portata dei simboli, ma assumevano un preciso significato
rituale derivato dal simbolismo cosmico spiegato da Platone77•
Presso le civiltà antiche, ma anche in tutto l'Occidente e l'Oriente
tradizionale, i giocattoli sono sempre stati "strumenti rituali" che in
virtù del loro valore simbolico sono risultati alcuni dei veicoli più
adatti per conservare e perpetuare dottrine molto complesse sulla
struttura dell'universo e sui suoi movimenti ciclici.

77 Il simbolo universale della "marionetta" si trova studiato in A. K. Coomaraswamy,


"Paternità spirituale " e complesso della "marionetta " , in Id., Sapienza orientale
e cultura occidentale, Milano 1 988, pp. l 05- 1 3 1 ; M. Eli ade, Corde e marionette,
in Id., Mefistofele e l'Androgine, Roma 1 97 1 , pp. 1 49- 1 75. Sul "gioco cosmico"
neii'Ellade, N. D'Anna, Il Gioco Cosmico, Mediterranee, Roma 2006, pp. 33-40;
pp. 90 e sgg. Per altre aree culturali nelle quali si ripete lo stesso archetipo A. G.
van Hamel, The Game ofthe Gods, "Arkiv ftir nordisk filologi", 50, 1 934, pp. 2 1 8
e sgg. Per la clessidra come "misuratore" celeste vd. i l ricco saggio di S . Young,
An Athenian Clepsydra, in "Hesperia", VIII, 3, 1 939, pp. 274-284. I fondamenti
simbolici del gioco si trovano indicati nei due studi di A. K. Coomaraswamy,
Ula, e Play and Seriousness, in Id., Selected Papers, II, Metaphysics, Princeton
1 977, pp. 1 48- 1 55, e pp. 1 56- 1 58.

97
6. Il ciclo della necessità e i rituali di liberazione

Da questo inganno primordiale, da questo "sacrificio originario", ma


invertito e tale da evidenziare il trionfo della perversione, della frode
e della dispersione dell'essenza divina rivelatasi in Dioniso, il Divo-(s)
nysos, il divino Fanciullo figlio di Zeus, ha origine l'uomo, sintesi da
un lato di un afflato trascendente cui l'anima tende e in quanto tale
rivela la propria natura divina e, dall'altro, di una "colpa" che degrada,
copre e soggioga proprio questa sua dimensione celeste78• È da qui che
scaturisce quella particolare visione orfica dell'uomo, e sulla quale tutti
i commentatori antichi concordano, che concepiva il corpo come una
"tomba" o un disperato "sepolcro" dell'anima, ma arrivava anche ad
una conclusione soteriologica comportante la liberazione dell'anima
dalla "prigione" corporea. E tuttavia l'antropogonia orfica non può
essere studiata fuori del contesto in cui veniva collocata dai suoi stessi
theologoi, i "conoscitori di dio", i "sapienti". Costoro formavano una
speciale categoria di cantori-cosmologi esperti nell'arte di purificare
uomini e città, usi a girovagare continuamente predicando una dottrina
di salvezza alla quale non erano estranee pratiche cultuali definibili
genericamente come espiatorie, basate su un rigido dualismo anima­
corpo che non è agevole trovare nelle altre misteriosofie elleniche. È
ben noto il disprezzo di Platone per quel tipo particolare di indovino e
taumaturgo al quale sovente affibbia l'appellativo di 6p<pwreÀecrrftç,
"orfeoteleste" ( = "iniziato orfico"). Indossando la tradizionale veste di
lino bianco costoro andavano in giro alla ricerca di lauti compensi per

78 Un'utile introduzione all 'antropogonia orfica può risultare lo studio di. D. M.


Cosi, Per una protoantropologia ellenica. Proposte di ricerca, in "Bollettino
dell' Istituto di Filologia Greca. Università di Padova", III, 1 976, pp. 28 1 -29 1 .
Cfr. anche G . Sfameni Gasparro, Critica del sacrificio cruento e antropologia
in Grecia: da Pitagora a Porfirio, I, cit., (pp. 1 07- 1 55), pp. 1 40- 1 55.

98
Vibo Valentia vo sec. : larninetta aurea con inn o a Mnemosine:
" . . . appena sarai venuto a morte andrai alle case ben costruite di Ade,
v ' è alla loro destra una fonte, accanto ad essa svetta un bianco cipresso.
Là discendono le anime dei morti e ottengono "refrigerio" (v. testo) . . . "

a sinistra: tripode di Crotone in una emissione del Vl0 sec.,


propria del periodo dell'anivo di Pitagora nella colonia. A destra:
statere in argento di Metaponto (Vo sec.) con la "spiga eleusina
525 a.C. vaso del pittore Phintias, raffigurante Herakles, Hennes e Alcioneo

Taranto yo sec. Statua in bronzo di Zeus saettante


assicurare una funzione purificatrice che in realtà ormai si era ridotta
ad essere una sorta di sopravvivenza crepuscolare, e spesso solamente
superstiziosa, di forme iniziatiche alle quali un tempo venivano attri­
buiti poteri veritieri e ampie conoscenze spirituali. E tuttavia secondo
Platone, nel cui sistema speculativo sono state conservate anche
molte di quelle venerabili tradizioni di tipo m isteriosofico che egli
usa designare rispettosamente come "antiche", il dualismo anima­
corpo contrassegnava fortemente la specificità dell'orfismo e assumeva
persino una sorta di dimensione espiatoria perché il corpo era consi­
derato la tomba nella quale l'anima si trovava imprigionata a causa di
una specie di "caduta":

"Gli antichi theologoi e i manteis attestano che l'anima è


congiunta al corpo per scontare qualchepena, ed in esso è sepolta
quasi in una tomba " (Cratyl. 400 b-e).

E più dettagliatamente Platone aggiunge:

"Alcuni intendono crro11a (= corpo) come criJila (= tomba)


dell 'anima, quasi vi sia sepolta in questa vita terrena. E poiché
d'altronde per mezzo del corpo l'anima significa (<JT]!laivEt) ciò
che vuoi significare, così anche in questo senso è esatto chiamarlo
criJ!la (= segno). Io peraltro sono convinto che questo nome glielo
abbiano dato Orfeo e i suoi seguaci, e che esso sia stato dato
al!'anima perché vi espii le sue colpe; e che l'anima abbia questo
involucro, immagine di carcere, affinché si salvi (crrotsrrrm). E
finché non abbia pagato il suo debito esso sia per l'anima quello
che il suo stesso nome indica, cioè 'salvezza '(crro11a); non c 'è da
mutarvi nulla, neppure una lettera " (Cratyl. 400 b-e).

Il passo del testo platonico è molto particolare e accanto alla defini­


zione netta del noto dualismo anima-corpo, elenca tutta una categoria
di personaggi che caratterizzavano il modo di essere del movimento

99
orfico e ne rendevano molto particolare la sua diffusione nell'Ellade.
Ma quello che può dare indicazioni sulle dottrine di questo movimento
è la constatazione che attraverso un gioco fonetico che attinge a tutte
le possibilità espressive della lingua greca, Platone riporta quella che
nonostante il dubbio di alcuni sparuti studiosi negazionisti (Linforth e,
in parte, Zuntz; Moulinier e Alderink nei loro libretti si sono limitati
solo a riecheggiare quanto affermato da Linforth) resta una delle dottrine
più caratteristiche e famose dell'orfismo, l'assimilazione del corpo (=
crroJla) ad una "tomba" (= <YJlJla) nella quale l'anima giace sepolta e dalla
quale dovrà liberarsi. Proprio per queste sue caratteristiche "sepolcrali"
il corpo umano può consentire solamente che la vita si sviluppi in una
specie di ciclo sonnambolico nel quale è dato cogliere momenti fuggenti,
irreali rappresentazioni di una vita menzognera: "una volta sentii dire da
un saggio che noi ora siamo morti e che il corpo è per noi una tomba",
ricordava insistentemente Platone (Gorg. 493 A). È la dimensione dell'e­
sistenza condizionata dalla parte meno elevata dell'essere umano che
Platone, ancora, si cura di indicare come "quella parte dell'anima che
è docile e credula" (Gorg., 493 A) alla quale sottostanno i non-iniziati,
"coloro che non sanno", "gli ignoranti", av6rrrot l UJl'lnrrm.
Ma c'è di più. L'articolazione linguistica del passo platonico che
coniuga sapientemente su uno stesso etimo significati, sostantivi e verbi
(m)Jla, crroJla, mwaivEt, tJT)JlUtVTJ, crrotçT)'!at, crroçEtv, ecc-)19 intende

79 Sul valore di questo simbolismo linguistico usato da Platone, cfr. R. Farwerda,


The Meaning of the Word sema in Plato 's Cratylus 400 C, in "Hermes", 1 1 3 ,
1 985, pp. 266-279. Per l a particolare tecnica esegetica dei nomi in Platone
cfr. M. L. Gatti, Etimologia e Filosofia. Strategie comunicative nel "Cratilo "
di Platone, Milano 2006; J. B. Gould, The Ambiguity of "Name " in Plato 's
Cratylus, in "Philosophical Studies", 34, 1 978, pp. 223-25 1 ; G. Rehrenb6ck, Die
orphische Seelenlehre in Platons Kratylos, in "Wiener Studien", 88, 1 975, pp.
1 7-3 1 . R icordiamo che l. M. Linforth (The Arts of Orpheus, cit., pp. 1 47- 1 48)
nella sua cecità anti-orfica arrivava a negare il fondamento orfico di questi passi
platonici, nonostante l'esplicita indicazione del filosofo greco. Forse Linforth
avrebbe voluto che Platone producesse un attestato notarile !

1 00
esprimere la stessa condizione soteriologica sperimentata dal myste
orfico, il corpo vissuto come una prigione o "tomba" dell'anima, il
"luogo" della caduta dell'anima nel ciclo della generazione, il "segno"
di un'intera realtà degradata dalla quale, tuttavia, occorre liberarsi. In
questa prospettiva, le modalità del formarsi di questo tipo di termini,
l'articolazione fonetica e persino le loro forme accentuative tendono
a rivelare il significato delle "forze" divine che vi si rapprendono,
mentre la struttura sintattica che ne esprime il valore semantico segue
regole che trascendono il semplice ordine logico-espressivo e modula
una particolare forma di svelamento del reale, annuncia un evento
teofanico, riconduce all'arcaico mondo delle rivelazioni oracolari e
alla loro intelaiatura espressiva spesso in antico basata sull'enigma.
È lo stesso valore semantico che scaturisce dall'analisi dei termini
Apollon, Apollouon e Apolyon di Cratyl. 405 A7 e B-C80, là dove con
una argomentazione tipicamente orfica Platone spiega che la colpa è
una impurità dalla quale ci si deve liberare attraverso purificazioni
rituali e iniziazioni che "sciolgono" e "separano" l'anima dal corpo
(cfr. Phaed. 67 c-d). La struttura linguistica di questi testi platonici
segue regole che trascendono il semplice ordine logico-esplicativo,
né vi si trova quell"'ambiguità" tutta moderna di cui parla qualche
studioso anglosassone e tutto il contesto semantico sembra piuttosto
modulare una particolare forma di svelamento del divino nella corrente
del divenire. Non annuncia una riflessione sull'uomo, non avanza un'i­
potesi semi-scientifica, non elabora una astratta filosofia su temi antro­
pologici, ma rivela una dimensione simbolica profondamente vissuta
dall'iniziato orfico, evidenzia una sua sofferta esperienza esistenziale,
il "corpo" come "segno significante" di una realtà limitata e tran­
seunte che lega, imprigiona e condiziona l'anima, oscura il suo naturale
slancio verso il divino, spegne ogni anelito verso la trascendenza e
la liberazione a causa della colpa congenita che è insita nella stessa

80 Seguiamo L. Brandwood, A Word lndex to Plato, Leeds 1 976, p. 470.

101
natura umana. Come spiegherà Platone, si tratta di ". . . una specie di
impulso [perverso] connaturato che sorge da antichi crimini non puri­
ficati dagli uomini" (Leg. IX, 854 b), che fa percepire il corpo come
il simbolico "sepolcro" dell'anima dal quale il myste tuttavia dovrà
l iberarsi se vuole riacquisire la propria dimensione celeste. Come si
vede, non si tratta del rigido dualismo che ha considerato il corpo la
creazione maligna di un Essere oscuro nemico irriducibile del Bene ed
in questa forma tenebrosa ha percorso l'Occidente a partire dal mondo
tardo-antico con le sue variegate correnti gnostiche fino a toccare inti­
mamente alcune importanti fi losofie moderne, ma di una struttura
soteriologica che suppone una precisa base iniziatica e i relativi rituali
di liberazione dal ciclo della necessità.
Si può aggiungere che anche la famosa metafora dell'anima che
si veste di un corpo man mano che si allontana dalla dimensione
divina e discende nel mondo materiale attraversando le sfere celesti
può trovare significato in questo particolare ambito di riflessione.
A questo proposito risulta indicativo il fr. 1 26 di Empedocle: "[la
natura] avvolgendo in un chitone [= tunica] di carni ad essi [i
daimones] ignoto . . . ". Si tratta di un testo che secondo gli studiosi
del filosofo di Agrigento ha preservato un sostrato orfico molto
consistente. Qui il chitone indica chiaramente il "rivestimento di
carne" che avvolge l'anima, un "corpo-rivestimento" non assumibile
in alcun modo dai daimones a causa della loro stessa condizione di
esseri "sottili" e "psichici", ma che è lo specifico della natura umana
e, per la sua articolazione che suppone un dicotomia corpo-anima,
sembra addirittura riflettere da vicino la classica dottrina orfica
del corpo quale "rivestimento-prigione" dell 'anima81 le cui linee

81 Cfr. G. Zuntz, Persephone. Three Essays on Religion and Thought in Magna


Graecia, Oxford 1 97 1 , pp. 405 e sgg., dotato di un ricco apparato. Cfr. anche
M.Gigante, L'ultima tunica, Napoli 1 988 (2° ed.), pp. 1 1 - 1 8. Buone riflessioni
sul valore di questo "dualismo" in M. Vegetti, Anima e corpo, in Il sapere degli
antichi, Torino 1 985, (pp. 20 1 -228), part. p. 208.

1 02
essenziali ritorneranno, sviluppate in una prospettiva soteriologica
e con una ampiezza insospettata, nelle speculazioni neoplatoniche
sul corpo quale "veicolo" (6xru.ta) dell'anima. Verso questo sostan­
ziale dualismo dottrinale, d'altronde, indirizzano anche altri celebri
testi antichi che usano l'espressione "vesto per la sepoltura" come
l'equivalente esatto di "seppellisco" (Od. XXIV, 293; Eurip. Med.
1034; Soph. Ai. 1 1 170; Ant. 902-903). Se si segue Richard Seaford
nella sua interpretazione di questi brani, si potrebbe pensare addi­
rittura che la dottrina dell'anima rivestita di un "corpo" (= "abito
= "sepolcro") è proprio quella che ha avuto una sua realizzazione

rituale nelle iniziazioni orfiche, una condizione chiaramente espressa


dal simbolismo della vestizione che, come mostra il fr. dei Cretesi di
Euripide conservato da Porfirio (de abstin. 4, 1 9), obbligava il myste
ammesso alle sacre cerimonie ad indossare un nuovo abito rituale di
lino bianco adorno di simboli solari e stellari come segno esteriore
della sua avvenuta trasfigurazione interiore e della sua liberazione
dal "ciclo della generazione" (fr. 238 Kern)82• L"'uomo nuovo" si è
svincolato dal divenire e può perciò presentarsi nella sua dimen­
sione celeste simbolizzata dall'abito rituale. Come ha fatto notare
brillantemente Giovanni Casadio83, con tutta probabilità rientra in

82 Così R. Seaford, Immortality, Salvation and the Elements, in "Harvard Studies


in Classica! Philology", 90, 1 986 (pp. 1 -26), pp. 1 2 e sgg.; Id., Dionysiac Drama
and the Dionysiac Mysteries, in "Classica! Quarterly", n. s., 3 1 , 1 98 1 , pp. 252-27,
che però accanto ad indicazioni di rilievo accosta inopinatamente l'Inno america
a Demeter, i misteri eleusini, Euripide, il dionisismo e l'orfismo. Non manca
proprio nulla! Cfr. le sempre giudiziose riflessioni di G. Casadio, I Cretesi di
Euripide e l'ascesi orfica, in Continuità e innovazione nella didattica del classico
(V Convegno Nazionale di Studi sulla "Didattica delle lingue classiche", Foggia
1 987), ci t., pp. 278-3 1 O.

83 Seguiamo G. Casadio,Il vino dell 'anima, Roma 1 999, pp. 1 34- 1 43, senz' altro lo
studioso italiano che conosce meglio l ' orfismo che qui utilizza tesi inoppugnabili.
Cfr. anche G. Pugliese Carratelli, Le lamine/te orfiche, cit., p.27; R. Turcan,
Bacchoi ou Bacchants ?, in L 'association dionysiaque dans les societés

1 03
questo contesto orfico di liberazione e di catarsi anche quel passo del
Fedone platonico non registrato da Otto Kern che sembra spiegare
nei particolari la sfera dottrinale che contempla la liberazione dal
"ciclo della necessità":

"catarsi non è dunque come già fu detto nel palaios logos ( "una
antica tradizione ") lo sforzo di tenere separata il più possibile
l'anima dal corpo e ad abituarla a concentrarsi e a raccogliersi
sola in se stessa, a prescindere da ogni parte del corpo e a dimorare
per quanto possibile, in presente e infuturo, sola in se stessa intenta
a liberarsi dal corpo come da catene ? "
"Certo ", rispose.
"E dunque non è questo che si chiama morte, uno scioglimento (lysis)
e una separazione (chorismos) dell'anima dal corpo ? "
"Indubbiamente ", disse.
"Ma scioglier/a, come dicemmo, desiderano sempre e soltanto quelli
che filosofano rettamente. E questo appunto è l'esercizio proprio
dei filosofi, lo scioglimento e la separazione del/ 'anima dal corpo "
(Phaed. 67 c-d).

Che queste forme di distacco scaturiscano dal cuore stesso dell'orfismo


può essere comprovato dal fatto che il dualismo corpo-anima acquista
una rilevante forza simbolica anche nelle tavolette d'osso rinvenute
nel 195 1 ad Olbia sul Ponto, l'antica fondazione milesia di Boriatene,
sul cui sostrato fondamentalmente orfico ormai non si hanno dubbi
nonostante le perplessità avanzate dall'archeologo Laurent Dubois84•

anciennes, Roma 1 986, (pp. 227-246), p. 242. Più deboli le argomentazioni di


C. Gallini, Un dio liberatore, in "Annali Facoltà Lettere e Filosofia. Università
di Cagliari", 1 960, pp. 53 1 -558.

84 L. Dubois, lnscriptions grecques dialectales d'Olbia du Pont, Genève 1 996,


che nonostante gli indubbi meriti sul piano archeologico è stato criticato da tutta
una folta schiera di suoi colleghi.

1 04
Qualche anno prima con dovizia di dati J. G. Vinogradov aveva
dimostrato che queste tavolette coprivano una funzione rilevante
nelle cerimonie sacre e, anzi, la loro stessa manifattura induceva a
considerarle come particolari sortes che dovevano essere estratte da
una KicrTJl85, esattamente come i dadi-astragali ai quali si fa cenno nel
Papiro di Gurob. Alcuni graffiti di queste tavolette documentano non
solo l'identica prospettiva soteriologica e i medesimi valori misterici
(tEÀ.E-rai) annotati da Platone, ma anche la sua persistenza in ambiti
iniziatici molto lontani nel tempo e nello spazio, tali da raggiungere
anche Olbia, una sperduta colonia milesia della Crimea. Le iscri­
zioni fanno emergere persino una chiara accentuazione rituale che
non esclude, ovviamente, una attenzione per la dimensione oracolare
intesa a leggere i segni della "volontà divina", e tocca sia il "percorso"
interiore del myste che la sua stessa trasfigurazione, qui indicata con
una asciutta completezza descrittiva che può riflettere solamente un
autentico rituale sacro di "morte e rinascita": "�ioç, Wvatoç, �ioç -
AÀ.iJ-fu:ta - A Z - �tov [= Apollo ?] 'Op<ptK [oi] (''Vita, Morte, Vita
- Verità - A Z, Dio, Orphikoi")86.

85 J. G. Vinogradov, Zur sachlichen und geschichtlichen Deutung der Orphiker­


Pliittchen von Olbia, in P. Borgeaud, Orphisme et Orphée, cit., pp. 77-86.
86 Così M. Tortorelli Ghidini, Da Orfeo agli Or.fici, in Tra Orfeo e Pitagora, cit, (pp.
1 1 -4 1 ), p. 1 5 ; pp. 27-30. Cfr. M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. 1 7-20; Id.,
The Orphics ofOlbia, in "Zeitschrift fiir Papirologie und Epigraphik", 45, 1 982,
pp. 1 7-29; G. Scalera McClintock, Aletheia nelle tavolette di Olbia Pontica, in
"Filosofia e Teologia", IV, l , 1 990, pp. 73-83; E. Dettori, Testi "or.fici " dalla
Magna Grecia al Mar Nero, in "La Parola del Passato", 5 1 , 1 996, pp. 292-3 1 O; L.
Zhmud, Orphism and Graffitifrom Olbia, in "Herrnes", 1 20, 1 992, pp. 1 59- 1 68.
Sulle prospettive rituali dell' orfismo cfr. E. Di Filippo Balestrazzi, La maschera
e la dea. Or.fismo e riti di passaggio nella religione locrese, in "Rivista di
Archeologia", 1 5 , 1 99 1 , pp. 69-79. Si può rilevare che l ' inusuale insistenza sul
ruolo della "verità" per ottenere la "vera vita" spinge a pensare che il "Dio" cui
qui si fa cenno sia proprio Apollo, il dio della verità e dell'immacolata purezza
spirituale. Cfr. A. von Thimus, Die Harmonikale Symbolik des Altertums, 2

1 05
In una sua attenta analisi di alcune Laminette Walter B urkert
faceva notare che per significare una condizione di "liberazione"
dell' iniziato a volte viene usato il termine avényu.!;tç, un'espressione
che egli accosta al verbo \jruxovtat (="cercare refrigerio", secondo
l 'usuale traduzione) adoperato nella Laminetta di Hipponion (v. 4),
là dove si intende ricordare la "frescura" del myste giunto finalmente
alla "fonte" della vera vita:

"A Mnemosyne è sacro questo (dettato): (per il mystes) quando


sia sul punto di morire.
Andrai alle case ben costrutte di Ade; v 'è sulla destra unafonte,
accanto ad essa si erge un bianco cipresso;
lì discendono le anime ('Jii>xai) dei morti per avere refrigerio
('Jii>xovrm)
A questa fonte non accostarti neppure;
ma più avanti troverai lafredda acqua ('Jii>XP6V uorop) che scorre

da/ lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi i Custodi " .


(tr. G . Pugl iese Carratelli)

Nella Laminetta ritorna con una insistenza tutta particolare una sorta
di quasi-identificazione dell"'acqua fredda" richiesta dal myste per
lenire la propria arsura, allo sgorgare di quest"'acqua" di vita dal "lago

voli., KOin 1 868- 1 876, in parte ripreso, ma formulato con altre prospettive, da
E. Hommel, Untersuchungen zur hebriiischen Lautleher, Leipzig 1 9 1 7, parte I,
che scopri neli' antico alfabeto greco e neli ' articolazione grammaticale l'esistenza
di un sostrato numerico e armonicale in grado di sostanziare la stessa metrica e
il ritmo dei versi. Cfr. anche il cap. sulla lingua greca contenuto in J. Canteins,
Phonèmes et Archétypes. Contextes autour d'une structure trinitarie: A-1-U,
Paris 1 972. L'autore ha poi esteso la sua mirabile indagine anche ad altri mondi
spirituali: Id., La Voie des Lettres. Huit essais sur la symbolique des Lettres dans
le Souphisme, la Kabbala et le Bouddhisme Shingon, Paris 1 98 1 . Per la musica
come "orientamento spirituale", cfr. C. Lanzi, Ritmi e Riti, cit., pp. 239-300.

1 06
di Mnemosyne", la "fonte della Memoria"87• È una raffigurazione
chiaramente derivata dai mitologhemi orfici che non può certo essere
confinata in una sorta di immagine tardo-romantica, ma richiama
con forza paesaggi meta-poetici, simboli sacri che i mystai e gli altri
iniziati designati come bacchoi88 dovevano verosimilmente meditare
durante le cerimonie iniziatiche richiamate da questa Laminetta
(vv. l 5-16):

"quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui anche


gli altri
mystai e bacchoi procedono gloriosi " .
(tr. G . Pugliese Carratelli)

Il rapporto che in alcune Laminette (Hipponion, Petelia, ecc.) viene


stabilito fra il "refrigerio" procurato dall'acqua e la sacra fonte che
sgorga dal lago di Mnemosyne ha convi nto uno studioso come
Giovanni Pugliese Carratelli che l'espressione \lrl>xovmt alluderebbe
ad una sorta di "refrigerio vitale", un significato suggerito dalla
medesima area semantica che si è sviluppat a attorno a 'I")Xro
("vivificare") e a 'I'UX� (''psiche", "anima") secondo un rapporto
etimologico che nell'Ellade si trova ben documentato (cfr. per es.
Etymologicum Magnum, s.v.)89• È il fondamento strutturale che

87 Cfr. G. Scalera McCiintock, Nonfermarsi alla primafonte. Simboli della salvev.a


nelle lamine auree, in "Filosofia e Teologia", 5, 1 99 1 , pp. 396-408. Troppo svelte
le considerazioni di G. Giangrande, Las dos.fuentes en las laminillas òrficas, in
"Minerva", 9, 1 995, pp. 53-56. Sull ' importana di Mnemosyne in questo contesto
dottrinale, cfr. G. Pugliese Carratelli, Tra Cadmo e Orfeo, Bologna 1 99 F, pp.
379-389

88 Sul rapporto fra bacchoi e orfismo cfr. A. Mastrocinque, Orpheos Bakchikos,


in "Zeitschrift ftir Papirologie und Epigraphik", 97, 1 993, pp. 1 6-24. Cfr. . anche
G. Pugliese Carratelli, Le Lamine d'oro orfiche, Milano 200 1 , pp. 65-66.

89 G. Pugliese Carratelli, Le lamine d'oro orfiche, cit., pp. 59-6 1 . Cfr. R. B. Onians,

1 07
sostanzia tutti quei termini che toccano la "vitalità" dell'essere
umano e lo stesso "movimento vitale" dell'anima90• Ora, poiché
avlhlfU�tç e \jruxov'tat poggiano sulla medesima radice, questo
strano "refrigerio" cercato dall'iniziato orfico al quale accenna la
Laminetta convinceva il vecchio, buon Albrecht Dieterich che in
realtà con l'inusuale espressione 'l'uxp6v uòrop (v. 6) che accosta in
modo enigmatico il termine per significare "fresco" (ma costruito
su un fondo etimologico che sostanzia anche la base dalla quale
scaturisce l"'anima") con l"'acqua", si intende molto probabilmente
non una generica ed in sé insignificante "acqua rinfrescante" che
dovrebbe alleviare una inverosimile arsura dell'anima del morto,
ma più esattamente l"'acqua che dà la vita", i l simbolo dell"'anima
che manifesta la sua vital ità", "l'anima che rivive" o ''rinasce". C.
H. Kahn era riuscito a trovare persino un frammento attribuito ad
Eraclito (''per le anime è morte diventare acqua, per l'acqua è morte
diventare terra; dalla terra nasce l'acqua, dall'acqua l'anima si muta
in tutto l'etere"; fr. 35 DK = fr. 226 Kern) fortemente permeato di
orfismo nel quale l'acqua appare come il simbolo del mutamento che
secondo Kahn deve essere interpretato come una chiara allusione
ad "un ciclo mistico di rinascita, come nella dottrina pitagorica"91•
Le espressioni 'lfUXOV'tat e 'lfUXp6v uòrop apparterrebbero alla sfera
della palingenesi dell'iniziato e probabilmente devono essere accostate
alla terminologia di quei medici alessandrini eredi delle antiche

The Origins ofEuropean Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World,
Time and Fate, Cambridge 1 954, tr. it. pp. 1 2 1 - 1 23.
90 Cfr. G. Pugliese Carratelli, Le lamine d'oro "orfiche ", l " ed., Milano 1 993, pp.
28-29; M. Tortorelli Ghidini, Sul v. 4 della laminetta di Hipponion: IJIUXOVtat
o IJIUXOUVtat ?, in "La Parola del Passato", 47, 1 992, pp. 1 77- 1 8 1 ; G. Zuntz,
Persephone, ci t., pp. 370 e sgg .. ; Id., Die Goldlamelle von Hipponion, in "Wiener
Studien", X, 1 976, pp. 1 29- 1 5 1 .

91 Così C. H. Kahn, The Art and the Thought ofHeraclitus, Cambridge 1 979, p.
238.

1 08
scuole mediche siciliane e di quella di Cnido che, come Erasistrato,
avevano elaborato la teoria dello 1tVEU!.Hl \j!UXtK6v e diagnosticavano
la cura delle malattie mettendo in relazione lo 1tVEUj..ta alle funzioni
della \j!UXTJ· Come già in Anassimene ( 1 3 B2 DK) e in Diogene di
Apollonia (64 A19 DK), la \j!UXTJ diventa il principio vitale che non
solo costituisce il veicolo del pensiero, ma anche la base "essenziale"
o il fondamento sul quale andranno ad ordinarsi sia l'intera struttura
del corpo umano che quella dello stesso cosmo92• In realtà, così come
appaiono nelle Laminette, 'l'uxovtat e 'l'uxpov sono termini tecnici
che si riferiscono non ad una inconcludente "anima refrigerata" la
cui formulazione può soddisfare solo alcuni esegeti fermi alla lettera
e poco attenti agli aspetti trasfiguranti della vita spirituale, ma ad
un"'anima rigenerata" oppure, più propriamente, ad un "essere
rigenerato"93• Non solo, ma se si tiene presente che nella fisiologia
pitagorica nella quale sono confluite teorie mediche sul corpo umano
molto antiche e forse addirittura pan-elleniche, il "freddo" è sempre
stato considerato come una delle caratteristiche fondamentali della
\j!UXTJ per il suo appoggiarsi al "freddo" sistema nervoso e ai ritmi
respiratori legati alla circolazione del "soffio freddo"9\ unito al fatto

92 Sul ruolo dello "pneuma caldo", del cardiocentrismo e deli' emocentrismo nella
medicina ellenica, cfr. P. Manuli, Medicina e antropologia nella tradizione
antica, Torino 1 980, pp. 205 e sgg. Sui medici alessandrini eredi della scuola
siciliana e di quella di Cnido cfr. C. R. S. Harris, The Heart and the Vascular
System in Ancient Greek Medicine, Oxford 1 973, pp. 1 78 e sgg.; N. D ' Anna,
La Disciplina del Silenzio, cit., cap. Il.

93 Cfr. A. Dieterich, Nekyia, Leipzig-Berlin 1 9 1 3 , p. 95 .

94 Su questi problemi importanti riflessioni hanno fatto J. Jouanna, Le sou.ffle, la


vie et le froid. Remarques sur lafamille de ljfl)xw d'Homère à Hippocrate, in
"Revue des Ètudes Grecques", 1 00, 1 987, pp. 203-224, e A. Olivieri, Pneuma,
cuore e cervello nell 'Orfismo, in Studi di.filosofia greca. Pubblicazione in onore
di R. Mondolfo, Bari 1 950, pp. 1 9-30. Uno studio impareggiabile su ll' intero
problema della psyche, deli' anima e del pensiero neli' antica Eliade resta quello
di R. B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind,

1 09
che le Laminette collegano in modo indubitabile questi movimenti
dell'anima indirizzati verso la rigenerazione dell'iniziato con la sfera
di Mnemosyne e con la condizione spirituale di "memoria perpetua"
che simbolizza questa forma divina, si può cominciare a intravedere
nelle télétai indicate dal simbolismo di queste Laminette quell'aspetto
"pratico-realizzativo" che W. K. C. Guthrie non era riuscito a trovare
nelle cerimonie sacre da lui studiate. Si tratterebbe di un vero e proprio
rituale di realizzazione spirituale incentrato sul rapporto della \j/UXTl
con Mnemosyne e con i ritmi respiratori che dovevano finalmente
condurre l'iniziato orfico alla fuga dal tempo e allo svincolamento
dalle catene del "ciclo della generazione", a ritrovare finalmente la
propria condizione di un "essere rigenerato".
Ma c'è di più. Nei testi orfici riportati da Proclo (ad Remp. II, 338,
10 = frr. 224 e 241 Kern; in Tim. 42 c-d; 24 e = frr. 210, 215, 228,
229, 235 Kern; cfr. anche Simpl., ad Arist., de coelo, 284 a 14 = fr.
230 Kern), là dove viene affrontato sia il tema dei cicli temporali
che legano l'anima sia quello dell'obbligo che intendeva assumere
l'iniziato orfico di "sfuggire al ciclo della necessità", si accenna
anche a quegli asceti orfici che proprio in virtù di questo dualismo
anima-corpo che incatenava al mondo del divenire, "pregavano di
sfuggire al ciclo e di espiare gli antichi mali". La cosa più interes­
sante è che qui per esprimere il concetto di "uscita dal male" e dare
valore alla liberazione dal "ciclo della necessità" si trova il verbo
UVU7tVI:: U <Jffi. Ora, UVU1tVEU<Jffi è la forma modificata di UVU7tVÉffi,
"prendere fiato", "respirare", un tema verbale che indirizza con forza
verso un rapporto divenire-respiro-liberazione non usuale nella reli-

the Soul, the World, Time and Fate, Cambridge 1 95 1 . Cfr. anche J. Filliozat, Le
sommeil et les reves selon les médecins et les physiologues grecs, "Joumal de
psycologie normale et pathologique", lugl io-sett., 1 947; E. Casadesùs, Metis,
el nous, el aire y Zeus en el papiro de Derveni, i n "Faventia", 1 7 , 1 996, pp.
75-88 (per la cui cortese segnalazione ringraziamo un nostro amico monaco
buddhista).

1 10
gione olimpica e comprensibile nei suoi risvolti "liberatori" solo se
lo si rapporta a metodologie ascetiche intese a svincolare il myste dal
"ciclo della generazione". Sono formule basate sull'azione del respiro
che intendono rivelare la dimensione trascendente di Mnemosyne e il
suo ruolo essenziale nell'abolizione del divenire. Si tratta di allusioni
a vere e proprie forme sacramentali ed "operative" conservate ormai
in forma residuale, ma che per la loro complessità possono essere
accostate solo alle tecniche yoghiche che da sempre hanno percorso
l'India e dove il dualismo che contrappone il samsara (= l'incessante
catena delle trasformazioni) a moksha, (= la "liberazione") informa
tutti i darshana, i "punti di vista" dottrinali che in Occidente si è
abituati ad assimilare, sbagliando, a semplici scuole di filosofia, ma
che in realtà sono vie di liberazione ordinate attorno ad un fortissimo
sostrato soteriologico. Come è evidente, sono dottrine sul divenire
assimilabili sotto tutti i punti di vista al KDKÀoç Tf1ç yavÉm::roç, "il ciclo
della generazione" dei testi orfici, l'espressione tecnica che precisa
un legame e un incatenamento, indica un incessante divenire che,
se vissuto come tale e senza le prospettive iniziatiche di liberazione,
viene a coincidere con una "necessità". Si può aggiungere che una
famosa teoria gnoseologica attribuita ad Eraclito da Sesto Empirico
(adv. math., VII, 129-13 1), ma che sembra essere derivata da un fondo
misteriosofico o addirittura direttamente dall'orfismo come conferma
anche il frammento orfico riportato da Vettio Valente ("'l'anima
degli uomini ha le sue radici nell'etere', e altrove, 'aspirando l'aere
cogliemmo l'anima divina"'; Antol. IX, l = 228 Kern), riteneva che i
dati sensibili giungessero alla ragione umana attraverso la funzione
respiratoria che qui doveva assumere il compito di veicolare }"'intel­
ligenza divina" della quale sarebbe pervasa l'intera manifestazione.
È il contesto soteriologico che finalmente illumina un famoso passo
di Aristotele (de anim. A 410b27-41 1 a2) nel quale vengono riferite
dottrine similari: "È criticabile la dottrina espressa nei versi attribuiti
ad Orfeo. Secondo questa dottrina l'anima proviene dall'universo e

111
penetra negli esseri viventi attraverso la respirazione. I venti [= il
soffio cosmico] le servono come veicolo. Ma la cosa è i mpossibile
nel caso delle piante e di alcuni animali poiché non tutti sono dotati
di respirazione! Cosa sfuggita agli adepti di questa tesi". A parte il
consueto tono razionalizzante e sarcastico di Aristotele per il quale era
cosa naturale pensare che tutti i sistemi speculativi precedenti conte­
nevano un gran quantità di errori che solo il proprio sistema filosofico
sarebbe riuscito ad eliminare95, la struttura complessiva di queste
teorie orfiche preservate nonostante tutte le incomprensioni, appare
tanto più interessante ove si ricordi che anche il Papiro di Derveni ha
conservato con molta probabilità memoria dell'esistenza di concezioni
similari sulla funzione "liberatoria" del respiro. Il Papiro (col. XIV,
rr. 2-7), infatti, attribuisce ad Orfeo un collegamento dello pneuma (=
anima = soffio) con }'"intelletto"= <pp6vT)crtç;, un termine tecnico che
ritroveremo anche nel pitagorismo e che il Papiro di Derveni (XIV,
9-10) riferisce a Zeus in quanto Moira = legge del cosmo:

" . . .Orfeo questo pneuma


denominò Moira . . .
Orfeo infatti
chiamò Mo ira l'intelligenza ".
(tr. P. Scarpi)

95 Il sarcasmo di Aristotele nei confronti delle misteriosofie del i ' antica Ellade
somiglia molto da vicino a quello dei filosofi europei quando cominciarono a
studiare le dottrine indiane senza capirne le finalità soteriologiche. Chi potrà
mai dimenticare i sorrisi di sufficienza degli hegeliani e dei loro sottoprodotti
culturali nei confronti del Vedanta o del Tantra indiano, del Taoismo cinese e poi
del Buddhismo, dello Zen e dello Shintoismo giapponese? Oggi sono i seguaci
di queste tradizioni orientali a sorridere nei confronti di quello che resta delle
povere polveri sparse lasciate dalla filosofia occidentale che nella sua boria
accademica mostra solo di essere totalmente incapace di toccare l'anima degli
uomini e di affrontare il mistero della vita.

1 12
Questo rapporto tutto speciale fra lo pneuma, Zeus e }'"intelletto
divino" rivela il suo valore fondamentalmente antologico nel punto
in cui l'azione del "soffio" può agire sull'"intelligenza" all'interno
dell'"ordine costante" (= Moira) che regola l'intero cosmo96• Si tratta
di antichissime speculazioni sulla funzione dell"'aria" e dello pneuma
in un cosmo vivo, animato, vitale che addirittura viene assimilato
allo stesso sommo Zeus (Papiro di Derveni, col. XV, rr. l -4; XIII,
1 2), e che per la loro peculiarità danno fondamento anche alle even­
tuali radici orfiche di alcune teorie attribuite ad Eraclito da Sesto
Empirico concernenti il significato stesso della circolarità dello
pneuma nell'uomo e nel cosmo.
Accanto a queste tecniche di liberazione basate sul respiro e sulla
sua azione sul pensiero, gli orfici praticavano una dura ascesi con la
quale ritenevano di allontanare gli effetti più deleteri della condizione
umana, vivendo quel rigido bios orphikòs che li rese celebri in tutto il
mondo ellenico e che persino Platone sembrava approvare: ". . . quando
non si osava neppure gustare la carne di bue e agli dèi non si offrivano
in sacrificio animali, ma focacce e frutti intrisi di miele e altre offerte
pure, ci si asteneva dalle carni perché non era conforme alla legge
divina mangiarne e contaminare col sangue l'altare degli dèi. In quel
tempo gli uomini vivevano secondo il bìos orphikòs e si nutrivano di
tutto ciò che non ha vita e si astenevano dagli esseri animati" (Leg. VI,
782 c-d). Era richiesta l'astensione dagli elementi ritenuti più vincolanti

96 Sulle dottrine presocratiche conservate nel Papiro di Derveni cfr. R. Markelbach,


Der Orphische Papyrus von Derveni, in "Zeitschrift fiir Papirologie und
Epigraphie", I, 1 967, pp. 2 1 -32. Per le similitudini col passo di Eraclito, A. V.
Lebedev, Heraclitus in Papirus Derveni, in "Zeitschrift fiir Papirologie und
Epigraphie", 79, 1 989, pp. 39-47; sulla presenza straordinaria di Eraclito nel
Papiro di Derveni , F. Casadesùs, Heràclito y el Orfismo, in A. Bernabé- F.
Casadesùs, Orfeo y la tradicion 6rfica, cit., (pp. 1 079- 1 1 04), pp. 1 093-94,
che riequilibra molte delle pionieristiche, ma troppo sbrigative analisi di V.
Macchioro, Eraclito. Nuovi studi sull 'Orfismo, Bari 1 922.

1 13
(uova, carne, indumenti di lana, ecc.), e tuttavia ilrigido vegetarianismo
oggetto di innumerevoli derisioni da parte dei commediografi di ogni
tempo, era considerato funzionale alla purificazione dell'iniziato e
perciò assolutamente necessario per conseguire il distacco da ogn i
impurità che l'esistenza portava con s é come conseguenza inevitabile
del suo stesso scorrere e, ovviamente, dell'eredità titanica. Se poi
consideriamo il vegetarianismo come il riflesso di una condizione di
innocenza primordiale, il divieto di praticare i tanti sacrifici cruenti
che invece sostanziavano la religione olimpica diventa un evidente
mezzo cultuale per superare aspetti della religione olimpica che in sé
doveva apparire limitata agli occhi di ogni iniziato orfico. Tutto ciò ha
un'importante conseguenza. Il vegetarianismo si svela non come una
sorta di bizzarrìa sentimentaloide da new age, ma come la condizione
stessa di purezza cui tendeva l'iniziato che non solo voleva recidere
i perniciosi effetti "sepolcrali" del corpo (= "tomba"), ma addirittura
doveva ottenere il superamento del la "colpa" insita nella stessa
condizione umana che imprigiona e costringe ogni essere vivente a
sottostare al "ciclo della generazione". Il logico corollario di questo
modo di vedere il rapporto dell'uomo col mondo e col proprio corpo
sarà l'elaborazione della teoria della metempsicosi totalmente estranea
alla religione olimpica così come la conosciamo attraverso Omero, e
tuttavia tanto importante nell'orfismo da restare nella memoria degli
Elleni come uno dei suoi elementi dottrinali più caratteristici97•
La proibizione dei sacrifici cruenti e il vegetarianismo costituivano
due aspetti complementari dello stesso bios orphikòs che induceva alla
ricerca di una purità assoluta ottenuta anche attraverso il "rito mistico"
di cui parla il Papiro di Gurob così singolarmente vicino a quei "riti
liberatori" (À:ucrtot tEÀEtai) ai quali faceva riferimento Platone (Rep. II,

97 Cfr. G. Casadio, La metempsicosi tra Orfeo e Pitagora, in P. Borgeaud, Orphisme


et Orphée, cit., pp. 1 1 9- 1 55, brillante analisi nella quale, fra l 'altro, vengono
riportati tutti i brani utili per un adeguato esame della questione.

1 14
366 a-b). Si pensava che solamente tali "rituali mistici" potevano quali­
ficare profondamente e differenziare in modo completo i tanti tauma­
turghi e i purificatori di città prezzolati e superstiziosi dagli autentici
orfeotelesti, gli "iniziati orfici". Il Papiro di Berlino (44, col. I, 5-9)
addirittura elenca con scrupolosa attenzione quali sono i "sacri riti"
che contrassegnavano la palingenesi orfica: gli iniziali "atti di culto"
(crÉ�TJJ.Ul), le iniziazioni (tEÀEtai), i riti misterici ().l.U<Jt�pta), le purifi­
cazioni (Kafup).loi), la mantica ().laVtEia). Nel suo complesso si tratta di
una fenomenologia religiosa che riconduce tutte le autentiche pratiche
purificatorie orfiche a modalità applicative di quel tipo di sapienza apol­
linea che si esprimeva nella catartica, nella mantica e nella medicina,
le scienze attuate usualmente e con ampiezza da tutti gli estatici legati
in vario modo al culto di Apollo. Questo sostrato dottrinale sostanzia
alcune attribuzioni caratteristiche degli orfici, soprattutto l'abitudine
di definire se stessi Kafupoi, "i puri", un'espressione che si ritrova in
alcune Laminette Auree e che forse costituiva il termine tecnico di una
condizione spirituale vissuta dall'iniziato, come parrebbe confermare,
ancora, l'accenno al "banchetto dei Puri" di Platone (Rep. II, 363 c-d),
quegli 6crtm, "puri" o "iniziati", che ritornano anche per marcare una
contrapposizione con gli av6crtot, i "non puri" o i "non-iniziati" cui fa
allusione anche Olimpiodoro: "Bisogna capire le espressioni orfiche
quando dicono che il 'non-iniziato' dimorerà nell'Ade come se fosse
immerso nel fango" (fr. 235 Kern).
La stessa antitesi fortemente affermata nelle famose Laminette auree
fra Mnemosyne e Lete, la "memoria" e }"'oblio", non è altro che
un aspetto molto particolare di questa ambientazione iniziatica, una
sua raffigurazione simbolica che per es. nella Laminetta di Petelia
(vv. 1 -5) viene delineata come una vera e propria "geografia sacra"
dell'aldilà che l'iniziato si troverà a percorrere98:

98 Cfr. P. Scarpi - D. Cosi -A. Tessier, l doni di Mnemosyne. Studi sulle "laminette
orfiche ' ", in "Museum Patavinum", V, 1 987, pp. 1 93 e sgg.; Ch. Riedweg,

1 15
"Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte,
e accanto ad essa eretto un bianco cipresso:
a questa fonte non avvicinarti neppure.
Ma ne troverai un 'altra, la fredda acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne. Vi staranno innanzi custodi ".
(tr. di P. Scarpi).

Quando il myste orfico deve scegliere una delle due vie che secondo i
mitologhemi gli si apriranno davanti nel suo percorso misteriosofico,
se sceglie la via di sinistra arriva alla fonte di Lete che elargisce
l'oblio, la dimenticanza della propria dimensione più elevata, la perdita
di ogni possibilità di trasfigurazione e di palingenesi, l'immersione in
un nuovo "ciclo della generazione" nel quale l'uomo comune viene
avvolto senza scampo. È un tema che reinterpreta su basi iniziatiche
l'antico mito omerico delle acque di Lete che coprono il defunto con
un oscuro limo e trasformano la vitalità dell'anima in una condizione
di vana ombra. Se al contrario l'iniziato percorre la via di destra
raggiunge Mnemosyne, recupera la "memoria" del fondamento divino
della propria vita, riacquista coscienza dell'essenza divina che permea
l'intera esistenza e informa il suo "essere" più profondo: "si sveglia
alla luce del sole", dichiarano alcune Laminette nel loro linguaggio
simbolico. Le formulazioni espressive delle Laminette e la stessa loro
ambientazione sepolcrale sembrerebbero guidare l'anima di un adepto

lnitiation - Tod - Unterwelt, in F. Graf (cur.), Ansichten griechischer Rituale,


in "Geburtstags-Symposium fiir Walter Burkert", Stuttgart/Leipzig 1 998, pp.
359-398. Utili anche E. Di Filippo Balestrazzi, La maschera e la dea. Orfismo
e riti di passaggio nella religione locrese, in "Rivista di Archeologia", 1 5 ,
1 99 1 , pp. 69-79; R . Janko, Forgetfulness in the Golden Tablets of Memory, in
"Classica! Quarterly", 34, 1 984, pp. 89- 1 00; M. P. Nilsson, Die Quellen der
Lethe und der Mnemosyne, in Id. , Opuscula Selecta, 3 voli., Lund 1 960, III, pp.
85-92; B. Lincoln, Waters oJMemory, Waters oJForgetfulness, in "Fabula", 23,
1 982, pp. 1 9-34, poi in Id., Death, War and Sacrifice, Chicago 1 99 1 , pp. 49-60,
che mostra l 'esistenza di paesaggi mitici simili in altre aree culturali .

1 16
defunto verso la Verità suprema. Tuttavia, è più opportuno pensare
che esse traducono una realtà misterica ed indicano la dimensione di
luce o di "gloria" (cfr. la Laminetta di Hipponion, v. 16) sperimentata
dall'asceta già in vita nel corso delle cerimonie iniziatiche, quando i
sacri rituali ai quali si era sottoposto lo hanno fatto finalmente uscire
da quello che ogni orfico definiva "il cerchio della terribile sofferenza"
oppure dal "circolo della generazione"99• Questa "gloria" ritorna
enigmaticamente anche nella Laminetta d'oro di Thurii ritrovata a
Timpone Piccolo. Nel v. 5 di questa Laminetta si trova l'espressione
Acrn:po7tirr(a) che Paolo Scarpi traduce come "folgoratore celeste".
Erwin Rohde, poi parzialmente anche Dario M. Cosi e lo stesso G.
Zuntz, avevano pensato che l'enigmatico "folgorato" fosse un fedele
orfico colpito realmente da un fulmine e poi onorato dai membri della
consorteria attraverso questa forma di ricordo celebrativo100• Tuttavia
le cose possono essere viste da una prospettiva totalmente diversa.
E poiché qui il termine non è una semplice aggettivazione, ma ha
il valore di un nominativo che regge l'azione della folgorazione, è
naturale pensare che con AcrtEpo1t1)t(a) si intendesse celebrare una
vera e propria epiclesi di Zeus (è }"'immagine di Zeus Folgoratore qual
era suggerita dall'epiclesi", precisava l'attento e sempre meticoloso
Giovanni Pugliese Carratelli nel suo commento alle Lamine). Il suo
uso in una Laminetta dal sicuro valore sacro evidenzia non una tutta
improbabile ed accidentale disgrazia toccata ad un qualsiasi e peraltro
rimasto ignoto fedele, ma la realtà spirituale vissuta concretamente

99 Una erudita presentazione dei fondamenti spirituali che permeano le Laminette


auree ha dato G. Zuntz, Persephone. Three Essays on Religion and Thought in
Magna Graecia, London 1 97 1 . Resta utile la panoramica di E. Dettori, Testi
"or.fici" dalla Magna Grecia al Mar Nero, in "La Parola del Passato", 5 1 , 1 996,
pp. 292-3 10.

1 00 E. Rohde, Psyche. Culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci,


Roma-Bari 1 970, p. 548; D. M. Cosi, L' or.ficofulminato, in "Museum Patavinum",
V, 1 987, pp. 2 1 7-23 1 ; G. Zuntz, Persephone, cit., (pp. 277-393), p. 3 1 6.

1 17
dagli iniziati, la loro identificazione rituale con l'"essenza di luce"
o di "folgore" dello Zeus orfico. Qui acrn:pom)t(a) indica la trasfi­
gurazione celeste dell'iniziato che al culmine della sua palingenesi
sembra avere finalmente assimilato la dimensione "positiva" di quella
divina folgore che alle origini del mito orfico ha incenerito i Titani
e ne ha distrutto la potenza dissolvente. Al termine del suo processo
iniziatico il myste orfico ha "assunto" tutta la forza trasformante della
folgore divina e ne ha tradotto la potenza distruttiva in un elemento
di redenzione che ripristina le condizioni primordiali adombrate dal
mitologhema. È probabile che questi aspetti simbolico-rituali fanno da
controparte anche alle speculazioni intorno al numero sette sulle quali
si sofferma quello strano poemetto intitolato la Lira, ma del quale si
fa menzione in uno scolio a Virgilio scoperto nel 1925 e conservato
in un solo manoscritto:
"Dicunt tamen quidam liram Orphei cum VII cordisfuisse, et coelum
habet VII zonas, unde theologia assignatur. Varro autem dicit librum
Orphei de vocanda anima Liram nominari, et negatur animae sine
cithara posse ascendere ".
La cosa più interessante è che qui la lira viene considerata il simbolo
stesso dell'universo e lo strumento rituale più idoneo per consentire
all'anima di ascendere i sette cerchi del cielo corrispondenti alle sette
corde della lira, cosa che in una prospettiva di ascensione spirituale
mostra il probabile "percorso" iniziatico del myste orfico al fine di
reintegrarsi nella sua condizione celeste e così abolire i perniciosi
effetti della "caduta" nella materia propiziata dal perverso sacrificio
primordiale consumato dai sette Titani.
Tornando al simbolo delle "due vie" così importante per comprendere
la fenomenologia spirituale dell' orfismo, ci troviamo davanti ad
una condizione iniziatica che con ogni probabilità s i è sviluppata
attorno ad un contesto misteriosofico molto vario, forse addirittura
pan-ellenico dato che un dualismo molto simile a quello tipicamente
orfico Mnemosyne-Lete si ritrova anche in alcune notissime

118
ambientazioni filosofiche, rituali e mitiche:
l . nel Proemio del poema di Parmenide; 1 0 1
2. nella famosa lettera Y del simbolismo pitagorico;
3. nell'esperienza dei pellegrini che entravano all ' interno dell 'antro
di Trofonios a Lebedea per ottenere guarigioni e oracoli;
4. nella discesa di Enea nell'aldilà decritta da Virgilio (" . . . quella
di destra conduce sotto le mura della grande Dite: è la strada
dell 'Elisio. Quella di sinistra è il teatro dei supplizi per i cattivi e
conduce all 'empio Tartaro"; Aen. VI, 54 1 );
5. in Platone, là dove il filosofo descrive quei giudici che, seduti
al crocevia di due vie, "ordinano ai giusti di andare verso destra,
la strada che porta al cielo, e ai criminali di percorrere la strada in
discesa, a sinistra" (Rep. X, 6 1 4 C).

l O l Cfr. W. Burkert, Das Promium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras,
in "Phronesis", 1 969, pp. 1 -30; M. M. Sassi, Parmenide al bivio, in "La Parola del
Passato", 43, 1 988, pp. 383-396. Più in generale, il ruolo delle anime nell' orfismo
è stato studiato da M. L. Violante, Un confronto fra Pbon. 4 e l 'Assioco. La
valutazione delle anime nella tradizione orfica, in "Civiltà Classica e Cristiana",
5, 1 98 1 pp. 3 1 3-327.
'

1 19
PARTE SECONDA

KOSMOS E PERFEZIONE ARMONICA


l. Climaterium delle civiltà

La straordinaria importanza del pitagorismo all'interno del mondo


religioso e culturale ellenico, e la stessa sua incredibile capacità di
toccare in profondità anche molte altre tradizioni lontane dalla civiltà
greca, lascia perplesso il ricercatore che non abbia ben presente il
complesso sistema spirituale che ne sostanziava il dinamismo. Non
si tratta solo delle pur notevoli conoscenze scientifiche che però di
per sé sono insufficienti per giustificare questa capacità di permeare
aspetti importanti di tradizioni lontane dal pitagorismo come l'lslam
e il Cristianesimo, ma di tutto il contesto dottrinale che ne segnava
la specificità. E tuttavia per un periodo di circa duemila anni temi
pitagorici "convertiti" si ritrovano ampiamente nel Cristianesimo. Il
suo simbolismo numerico e le sue figure geometriche hanno arric­
chito enigmaticamente la mistica e le sue formulazioni espressive,
poi l'arte, la speculazione, le scienze, le definizioni cosmologiche dei
dotti medievali. La sua presenza nel Rinascimento italiano è talmente
onnipervadente che si fa persino fatica a delimitarne la presenza e
l'influenza nelle varie arti e nella riflessione di filosofi, teologi e scien­
ziati illustri. Le cosmologie formulate in questo periodo sono tutte
pervase dalle prospettive pitagoriche sull'ordine sidereo, sul ruolo
del "fuoco" celeste, sul movimento degli astri, sulla concezione della
sfera cosmica e sulla stessa infinità dell'universo. Nell'Islam, poi, il
pitagorismo ha avuto una funzione talmente importante da arrivare
a permeare non solo le arti cortesi come in tutta la contemporanea
Europa cristiana, ma ha persino costituito il sostrato primario sul
quale si sono costruiti alcuni testi sufi esclusivi e circolanti in ambienti
èlitari molto chiusi, come quelli del circolo degli iniziati "pitagorici"
supposto dalla cosiddetta Enciclopedia dei Fratelli della Purità.
Questa forza persuasiva così penetrante può aiutarci a capire una

1 23
particolarità non secondaria della vita del fondatore del movimento.
Quella che tutti i critici e gli esaltatori di Pitagora chiamavano la
sua polymathia non può essere ridotta ad una sorta di sapere enci­
clopedico del tipo che poi trionfò con Aristotele. Essa procedeva
da una personalità che assommava in sé i caratteri del theios anèr,
)"'Uomo divino" dei primordi dell'Ellade incapace di esaurire la cono­
scenza nell'ambito di alcune discipline para-scientifiche, ma intento a
fecondare con la propria sapienza divina i fondamenti della metafisica,
dell'ascesi, della cosmologia, della gnoseologia, della psicologia, della
medicina, dell'etica e del la sfera sociale. La comunità pitagorica
organizzatasi attorno a questa straordinaria figura di "Uomo divino"
fuoruscito da un passato che sembra confondersi con il mito, non è
stata solo capace di elaborare una dottrina politica fra le più feconde
del mondo antico, ma ha costruito attorno ai postulati rituali che in
ogni tempo i pitagorici hanno considerato fondamentali, un complesso
sistema scientifico in grado di adattare alle varie discipline i fonda­
menti sacrali che sostanziavano il movimento e poi, svincolato dalle
sue radici simboliche e dottrinali, doveva arrivare fino alle soglie
dell'età moderna fecondandone persino alcune forme di speculazione.
Non è un caso che Pitagora sia stato quasi contemporaneo di altri
grandi riformatori che nel le rispettive tradizioni fra il VII e il
VI secolo hanno operato verso una serie di riadattamenti tesi a
trasformare le stesse basi di un arcaico mondo religioso sopravvivente
da una quantità di secoli di cui spesso riusciva persino impossibile
avere memoria. Questo è il tempo nel quale in India si assiste al
contemporaneo floruit del Buddha, del Jina e di quella varietà inde­
finita di asceti itineranti dalla cui spiritualità scaturiranno le prime
Upanishad, quelle fondate su una esperienza cosmico-estatica del
divino e su una metafisica che ha comportato la reinterpretazione dei
venerandi testi sacrificali Brahmana nella prospettiva di un "sacrificio
interiore", quello poi divenuto l'aspetto più evidente dell'attività rituale
e contemplativa delle varie scuole di yoga. In Iran in questo periodo la

1 24
tradizione usa collocare l'apparizione di Zarathustra e pel suo tramite
poté attuarsi una particolare forma di quella che Alessandro Bausani
definiva "restaurazione della religione primordiale" in grado di dare
significato etico ad aspetti rilevanti del pantheon tradizionale che un
tempo avevano fecondato il Mazdeismo. Accanto ai princìpi etici che
lo resero famosissimo, Zarathustra elabora un dualismo antologico
che confinerà in una sfera "oscura" e rigidamente opposta alla Luce
Celeste molte figure divine che ormai avevano perduto la loro rile­
vanza rituale e si erano trasformate in veicoli di forze dissolventi. In
Cina sono attivi Confucio che opera quasi esclusivamente sul piano
etico-sociale, e Lao-Tse che riformula le basi metafisiche della vene­
randa tradizione cinese. Questi due grandi riformatori riadattano su
basi nuove tutto il complesso sistema rituale dell'antica religione ed
elaborano una dottrina metafisica sulla "perfezione degli Antichi"
e sull'armonia originaria del mondo che a volte presenta tratti in
grado di spiegare fino in fondo alcuni aspetti e lo stesso significato
dell'immacolato "ordine celeste" sotteso dal kosmos pitagorico. In
Giappone si ha il riadattamento delle antichissime forme di spiritualità
che si perdevano nel mito delle origini di quelle isole e l'inizio di una
dinastia che rivendica un'ascendenza "solare", ma ormai pienamente
umana. Questi sovrani non solo dovranno incarnare nella storia il
loro retaggio divino, ma avranno il compito di ordinare attorno a
questo asse centrale un nuovo cosmo considerato il riflesso materiale
della perfezione dell'ordine celeste e di quello naturale. In Israele
appaiono, in una continuità e in una costanza che ha dello stupefa­
cente, un numero impressionante di profeti. Saranno essenzialmente
Daniele, Geremia e il Deutero-Isaia ad operare in profondità al fine
di trasformare l'antica religione ancora legata alle radici tribali del
popolo ebraico e incamminare verso un tipo di religiosità dalle forti
connotazioni cosmiche ed etiche. Nella Celtide si sviluppano impor­
tanti movimenti di popolazioni conseguenti alla fine della cultura di
Hallstatt ancora strutturata massicciamente attorno alla supremazia

1 25
della casta guerriera. Questi spostamenti sembrano concludersi nella
più sofisticata cultura di La Tène che "assorbe", portandole a maturità,
le spinte dei popoli delle "tombe a tumulo" e indirizza verso quelle
imponenti ondate migratorie che si concluderanno nella fondazione
di una koiné celtica strutturata su un ordine sacro custodito dalla
casta sacerdotale dei druidi così simile nelle funzioni rituali e nella
dimensione sapienziale a quella indù dei brahmana. A Roma Numa
Pompilio riordina le basi di tutta la struttura religiosa ereditata dal
tempo di Romolo, riforma l'arcaico retaggio indoeuropeo e ne riar­
ticola tutto il complesso sistema cultuale rendendolo in grado di adat­
tarsi ai molteplici cambiamenti imposti dal dinamismo di un popolo
che svilupperà sul piano storico i postulati spirituali compresi nella
propria religione e nella complessa vita rituale.
In Grecia accanto all'impoverimento delle molte forme sacrificati
statuite attorno agli dèi celebrati da Omero impietosamente attaccati
nel corso del tempo da filosofi e razionalisti, emerge i l monismo
di Parmenide, il fi losofo, il politico e il medico "figlio di Apollo
Oulios" delle iscrizioni di Velia102, la cui forma speculativa assume
sempre connotati profetici nonostante venisse conservata in un testo
scritto assolutamente inusuale nelle nascenti scuole fi losofiche elle­
niche. La sua convinzione che i sensi (spesso considerati la causa
dell"'erronea opinione dei mortali"), erano ingannevoli rispetto alla
sfera conoscitiva rivelantesi come verità e puro "essere" che trovava
solamente nell'Uno il suo significato, oppure quella sua caratteristica
attitudine medica secondo cui bisognava ridare la salute non solo al
corpo e all'anima, ma anche a quel vero e proprio "corpo sociale"
che è la società (perciò fu anche un famoso legislatore che intendeva

1 02 Cfr. M. Gigante, Parmenide i i medici nelle nuove iscrizioni di Velia, in "Rivista


di Filologia e di Istruzione Classica", 1 967, pp. 487 e sgg.; J. Benedum - M.
Michler, Parmenides Uliades und die Medizinschule von Elea, in "Clio Medica",
1 97 1 , pp. 295-306; V. Nutton, The Medicai School of Velia, in "La Parola del
Passato", 1 970, pp. 2 1 1 -225.

1 26
guarire i "mali sociali"), ne fa un prolungamento di quel mondo di
ispirati e veggenti che, come i pitagorici, intendevano riadattare,
ridando loro pienezza di significato, le arcaiche forme di spiritualità.
Il suo libro appare profondamente permeato da un simbolismo ben
radicato nella misteriosofia, in grado di trasformare una semplice
esposizione filosofica nell'indicazione di un percorso quasi-iniziatico
che i suoi discepoli dovevano assimilare accanto a tutto un sistema
di sacre rappresentazioni. Diogene Laerzio assicura che Parmenide
era stato allievo del pitagorico Aminia il quale gli aveva insegnato
l'arte dell'hesykia (= "silenzio", "quiete"): "fu seguace del pitagorico
Aminia, figlio di Diochete, uomo povero, ma eccellente e di grande
valore [. . .]. Da Aminia fu avviato all'arte del silenzio (=f1cruxtav; IX,
2)". Quando Aminia morì, Parmenide fece addirittura edi ficare un
tempio al suo maestro per onorarne la memoria. Da questi dati Peter
Kingsley deduce che non si tratta di un semplice aneddoto edificante
che illumina sui buoni sentimenti di Parmenide e sui suoi rapporti con
la filosofia pitagorica, ma del documento inoppugnabile che descrive
non solo la severa vita ascetica di Aminia (qui interpretata come una
semplice "povertà" di famiglia), ma anche un aspetto del suo inse­
gnamento, quello che riguardava l'arte di concentrarsi e di ottenere
stati di "silenzio sacro" o di "quiete mentale" che nel mondo della
misteriosofia arcaica era considerato il fondamento esperienziale che
preludeva all'unità interiore e, appunto, alla contemplazione103•
Quasi contemporaneamente si diffonde la speculazione di Eraclito di
Efeso che elabora un sistema centrato sul "fuoco del Logos" ed esalta
una inusuale classe di solitari "Veglianti" che egli oppone rigidamente
e con disprezzo alla massa dei "dormienti" (cfr. frr. B l ; 29; 2 1 ; 26;
73). Con una terminologia scaturita da un contesto iniziatico che quasi

l 03 Così P. Kingsley, Nei luoghi oscuri della saggezza, Milano 200 l , pp. 1 54- 1 55.
Sul ruolo della hesykia nel mondo ellenico è ancora utile E. Koller, Musse und
musische Paideia, in "Museum Helveticum", 1 3, 1 956 pp. 2 1 -28.
,

1 27
sempre molti specialisti hanno riferito senza tentennamenti all'orfismo
o almeno al contesto dottrinale, sacrale e misteriosofico che ne ha
sostanziato l'attività10\ una sua famosa sentenza formula così questo
dualismo: "gli immortali sono mortali [chiusi in un corpo], i mortali
sono immortali poiché la vita degli uni è la morte degli altri, e la morte
degli uni è la vita degli altri" (fr. B 62 DK). E forse qui non è inutile
ricordare che secondo Strabone (XIV, 3), accanto ai legami familiari
con la dinastia dei sovrani-maghi-sacerdoti che aveva regnato ad Efeso,
Eraclito aveva conservato solide relazioni con i venerandi Misteri di
Artemide Efesina che nella propria città continuavano ad attirare una
moltitudine di fedeli e pellegrini nel suo superbo tempio considerato una
delle sette meraviglie del mondo. Alcune testimonianze documentano
persino la sua abituale frequentazione di questo celeberrimo tempio
mentre i ritrovamenti archeologici assicurano un esteso uso rituale degli
astragali/dadi in quel tempio, cosa che conferma quell'immagine di
Eraclito che "gioca ai dadi/astragali con i fanciulli nel tempio" tratteg­
giata da Diogene Laerzio (IX, 3). La cosa è interessante perché per tal
via viene illuminato almeno in parte il significato ascetico di quel suo
austero e sdegnoso stile di vita così singolarmente vicino alla condotta
di un solitario estatico staccatosi dal mondo degli uomini e totalmente
estraneo all'ideale pan-ellenico del libero cittadino impegnato nella
vita della polis. In fondo, è da questa antichissima dimensione rituale
collegata ad Artemide Efesina che si possono comprendere le motiva­
zioni che hanno sostanziano le dure critiche di Eraclito a Pitagora quando
ironizzava sulla sua pretesa di riformare su nuove prospettive dottrinali
le basi "mistico-estatiche" che avevano arricchito gli arcaici Misteri:
"Pitagora, figlio di Mnesarco, ebbe più di ogni altro la capacità di una
osservazione diretta (histoirie) ed elaborò una sua sapienza (sophia), una
'scienza polivalente' (polymathia) e un'arte dell'inganno (kakotechnia)"
(fr. 22B1 29 DK, in Diog. Laert. VIII, 6). La stessa politica aristocratica

1 04 Cfr. 1. Pepin, Jdées grecques sur l 'homme et sur Dieu, Paris 1 97 1 , p. 34.

128
del sodalizio pitagorico non poteva restare estranea alle aspre critiche
di Eraclito perché diventava sempre più evidente che il tipo di ordine e
di gerarchia sociale caldeggiata dai pitagorici disgregava i fondamenti
sui quali si era retto il primato di quei re-maghi (ai quali restava lega­
tissima la famiglia di Eraclito) che nei tempi arcaici dell'Ellade avevano
governato molte poleis e, ovviamente, la stessa Efeso.
Questo fenomeno universale di "riforma" e di "riadattamento" di
antiche forme religiose ha operato in profondità presso le diverse
civiltà e si è quasi sempre strutturato stabilmente anche attorno a caste
sacerdotali di grande autorevolezza che hanno inteso custodire la sacra
"rivelazione" annunciata dai rispettivi Fondatori. I duraturi mutamenti
prodotti da questo evento si dispiegano nella propria interezza dal VII al
VI secolo, il periodo che secondo Karl Jaspers105 ha costituito il cuore
dellikhsenzeit, "il tempo assiale" della storia. Per la sua particolarità
"riformatrice" e per la straordinaria contemporaneità di grandi eventi
e di personalità essenziali nella storia dell'umanità la cui apparizione
ha toccato quasi tutti i popoli di veneranda cultura, questo periodo ha
rappresentato una vera e propria cesura del tempo, un climaterium delle
civiltà, un evento dal carattere epocale che ha segnato l'alba di un nuovo
corso storico, l'inizio di un ciclo universale che ovunque ha trasformato
l'arcaico rapporto mitico-simbolico dell'uomo col mondo. Accanto
all'apparizione del pensiero che i diversi "riformatori" inquadrano
all'interno di particolari metodologie ascetiche e considerano sovente
come uno strumento di salvezza e di liberazione, questo fenomeno
universale ha comportato principalmente il progressivo abbandono delle
antichissime esperienze estatiche scaturite da una sapienza primordiale
e l'inizio di forme nuove di approssimazione alla sfera del sacro, spesso
riformulando e riadattando le più antiche tradizioni dell'umanità fino
ad allora fondate su una percezione cosmica del divino.

1 05 K. Jaspers, Vom Ursprung und Zie/ des Geschichte, Ziirich 1 949, tr. it. Origine
e senso della storia, Comunità, Milano 1 965

1 29
2. Pitagora

Secondo una notizia di Aristosseno (fr. 16 Wehrli, in Porph. v. pyth.


9), Pitagora si sarebbe stabilito a Crotone quando aveva più o meno
quaranta anni106• Questo dato unanimemente accettato dagli studiosi
consente di collocare con una certa sicurezza la nascita del grande
pensatore nell'isola di Samo attorno al 572. Il padre Mnesarco era
sicuramente un membro della ricca borghesia dell'isola. Diogene
Laerzio (VIII, l) suggerisce che fosse stato un incisore di pietre
preziose, ma secondo Neante di Cizico seguito da Giustino (XX,
4, 3) era uno dei tanti commercianti arricchitisi sotto l'amministra­
zione di Policrate quando questi favorì con il suo governo la duratura
supremazia economica di Samo nella regione. La tradizione ricorda
che un giorno Mnesarco si recò al santuario di Delfi per consultare
l'oracolo e la divina Pizia rivelò che il figlioletto che stava per nascere
era in realtà una vera e propria manifestazione apollinea. Eudosso
aggiunge che in seguito a queste indicazioni dell'oracolo Partenide (=
"Vergine"), la madre di questo straordinario bambino, volle cambiare
il proprio nome con quello di Pitiade, la "Pizia", a voler significare che
nel figlioletto Pitagora confluivano due delle attribuzioni più caratteri­
stiche del culto delfico, l'immacolata verità e la virginea perfezione. La

1 06 Il problema delle fonti pitagoriche è molto complesso. Cfr. le attente analisi di


W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge (Mass.),
1 972, pp. 53-83; pp. 97 e sgg.; W. K. C. Guthrie, A History ofGreek Philosophy.
l. The Earlier Presocratics and the Pythagoreans, Cambridge 1 988, pp.
1 46-340; B. Centrone, L'Vlll libro delle 'Vite ' di Diogene Laerzio, in "Aufstieg
und Niedergang der Romischen Welt", Il, 36.6, Berlin-New York 1 992, pp.
4 1 83-42 1 7. Sul valore della testimonianza di Aristosseno cfr. l 'esauriente nota
di M. Timpanaro Cardini, in Pitagorici. Testimonianze e Frammenti, 3 voli.,
Firenze 1 95 8-64, III, 272-278.

1 30
cornice mitica che copre questo evento così ricco di elementi simbolici
sembra intrecciarsi col fatto inoppugnabile che tutta la tradizione
ha sempre considerato Pitagora un personaggio realmente esistito.
Sfrontata dai contorni leggendari che l'hanno arricchita con apporti
di varia natura che, tuttavia, indicano la direzione verso cui bisogna
guardare per capire la sua complessa personalità, la biografia di questo
straordinario personaggio mostra elementi storici molto concreti e,
d'altronde, verificati da una storiografia che nel corso dei secoli non
ha certo risparmiato le critiche più severe ed impietose.
Graham Shipley107 ha mostrato la straordinaria importanza dell'isola
di Samo nei flussi commerciali del Vicino Oriente del VII e del VI
secolo che la resero non solo ricca e florida, ma le permisero anche di
esercitare una notevole vivacità negli scambi culturali con la Persia. la
Caldea, la Siria, la Fenicia, l'Egitto, ecc. Il ruolo dell'isola fu talmente
significativo in quel periodo da rendere possibile il mantenimento di
una robusta flotta capace di controllare molta parte dei flussi commer­
ciali di quella regione del Levante e di ottenere persino una durevole
alleanza con il potente impero persiano. Probabilmente la famosa
leggenda (Porph. v. pyth. 7; Diog. Laert. VIII, 3) secondo cui era
stato proprio Policrate, il signore di Samo, a convincere il faraone
Amasi ad intervenire presso gli impenetrabili sacerdoti egizi perché
ammettessero Pitagora nei loro templi per acquisire la sapienza ivi
custodita, emerge da questo contesto di potenza, prosperità e prestigio
dell'isola. Non solo, ma la stessa straordinaria posizione geografica
di Samo, così vicina ai numerosi piccoli regni dell'Anatolia e tale da
permettere di esercitare un notevole peso su di loro, consentì anche
che potessero diventare vivificanti gli influssi benefici provenienti
dalla non lontana ed importante cultura babilonese Questo particolare
ruolo strategico dell'isola convinse Walter Burkert ad ipotizzare che
la sua vicinanza con civiltà orientali di venerata e antica tradizione

1 07 G. Shipley, A History ofSamos 800-188 B. C., Oxford 1 987.

131
abbia potuto determinare anche contatti significativi con gli estatici e
con quel particolare tipo di iatromanti che sembra abbondassero nelle
regioni frigio-anatoliche giungendo ad influenzare anche da questo
lato in modo non superficiale alcuni aspetti dell'iniziale formazione
spirituale e dottrinale di Pitagora 1 0 8 •
Tuttavia, forti dissapori insorti con Policrate, diventato il tiranno
dell'isola attorno al 532 dopo un periodo di circa sei anni di buon
governo, lo spinsero ad emigrare verso la Mt:yaÀIJ 'EÀÀaç, la Magna
Grecia. Sulla natura di questi dissapori non si sa molto. Policrate,
fra l'altro aveva favorito la creazione di una importante biblioteca
che arricchì Samo, cosa che mostra non tanto la sua eventuale atten­
zione per una generica "cultura", quanto la vicinanza a tutto quel
mondo di antichi dottrinari, theologoi e mitografi dal quale Pitagora
sembrava scaturire. Sulla scìa dell'autorità di Porfirio (v. pyth. 16),
per giustificare la rottura si è preferito pensare a contrasti politici fra
il tiranno di un'isola diventata opulenta e appoggiato dai nuovi ceti
commerciali arricchitisi grazie alle sue aperture verso i Persiani e
tutti i popoli vicini (una classe variamente articolata, ma slegata dal
mondo della vecchia nobiltà latifondista), e l'illuminato esponente di
nuove idee sull'ordinamento cittadino che avrebbe caldeggiato una
innovativa politica aristocratica. In realtà, la gravità dei motivi di
questo contrasto sfugge perché lo stesso intervento di Policrate presso
il faraone Amasi documenterebbe un apprezzamento e una considera­
zione verso Pitagora fondata su considerazioni di tipo spirituale certo
poco usuale in un tiranno che sarebbe stato il suo avversario. Tuttavia
secondo le fonti a noi giunte i dissapori fra le due personalità dovettero
assumere un tale rilievo da non consentire più nessuna riconciliazione

1 08 W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 1 58- 1 59; p. 1 65 . Sul rapporto mondo
frigio/colonie greche cfr. G. Ragone, La fonia, l 'Asia Minore, Cipro, in S. Settis
(cur.), I Greci. Storia, Cultura, Arte, Società, Il/ l , Torino 1 996 (pp. 903-943),
pp. 930-93 1 . Più in generale, per la delineazione degli apporti orientali può
essre utile P. Kingsley, Nei luoghi oscuri della saggezza, cit., pp. 1 7 e sgg.

1 32
e da spingere il filosofo ad emigrare. Porfirio (v. pyth. 16) riferisce che
durante il viaggio dell'esilio Pitagora si recò a Delfi dove compose
una enigmatica "elegia" inneggiante ad uno strano e peraltro scono­
sciuto ''Apollo figlio di Sileno, ucciso da Pitone e sepolto nel tripode".
Probabilmente la formulazione di questa "elegia" e la sua recita sottin­
tendono una sorta di sacrificio propiziatorio nei confronti del dio che
costituirà sempre il fondamento essenziale di ogni riferimento rituale
del suo movimento. Giunto finalmente a Crotone Pitagora vi si stabilì
attorno al 532 (Porph. v. pyth. 16; Iamb. v. pyth. 1 1 ; 28; Diog. Laert.
VIII, 3; Strab. XIV, 632) e qui organizzò il famoso sodalizio che nella
sua breve esistenza intervenne assiduamente nel governo aristocratico
della città riuscendo in un'opera di trasformazione politica di molte
città della Magna Grecia che ha dell'incredibile.
Crotone era già famosa per una sua scuola di medicina pre-ippocra­
tidèa (Erodoto III, 1 3 1 , assicurava che "i medici di Crotone sono i
migliori fra tutti i Greci") il cui richiamo, per i presupposti di tipo
"pneumatico" che ne articolavano la dottrina e per la costante atten­
zione all'equilibrio delle correnti "calde" e "fredde" quali elementi
essenziali per la preservazione della salute, deve aver costituito uno
dei motivi fondamentali della scelta di Pitagora. Come documenta
anche il caso straordinario del medico crotoniate Democede, la
simbiosi con queste scuole di medicina continuò ben oltre la catastrofe
del movimento. Erodoto (III, 1 37; III, 1 25) assicura addirittura che
Democede aveva sposato la figlia del celebre pitagorico Milone, ossia
la nipote di Pitagora dato che Milone era il marito di Muia, la figlia
del grande riformatore, e prima aveva esercitato la sua professione
con successo a Samo al servizio di Policrate, l'avversario di Pitagora
che lo aveva costretto all'esilio. Lo stesso Giamblico ricorda che
alcuni medici pitagorici furono persino richiamati in patria dall'esilio
non molto tempo dopo la rivolta antipitagorica109• Si può aggiungere

1 09 Sulla scuola medica di Crotone e sui medici pre-ippocratidèi vd. P. Prioreschi,

1 33
che Crotone aveva acquisito fra le città elleniche anche la fama di
essere una delle più dotate di atleti vincitori ai giochi olimpici, nono­
stante il suo status di lontana colonia sembrava dovesse condannarla
ad una funzione marginale rispetto alle grandi e prestigiose poleis
della madre-patria. Nel secolo che va dal 588 al 488, infatti, i suoi
atleti ottennero 20 titoli in 26 olimpiche e furono secondi solo ai
30 titoli conseguiti nello stesso tempo dagli atleti dell'invincibile
Sparta. Per un personaggio come Pitagora considerato egli stesso un
medico capace di addestrare atleti, di prescrivere particolari diete
in grado di rafforzare il loro potenziale fisico, di farli vincere ai
giochi olimpici e, come documentano alcuni racconti sulla sua vita,
persino egli stesso attivo partecipante ai giochi e vincitore nelle gare
di pugilato della 48° olimpiade celebrata nel 588, è evidente che un
ambiente così ricco di famose scuole di medicina e di atletica, con
articolate dottrine mediche che poi costituiranno parte importante
della pedagogia, della fisiologia, dell'antropologia e, più in generale,
della dottrina medica pitagorica, questa straordinaria confluenza
doveva necessariamente diventare l'oggetto di una speciale attenzione
e costituire un elemento non secondario della scelta della città che
doveva diventare la sede della propria scuola.
A poco a poco i seguaci di Pitagora riuscirono ad amministrare diret­
tamente Crotone con saggezza fino a trasformarne i vecchi costumi
lussuriosi e a renderla famosa per la sua frugalitas (lustin. XX, 4,
1-12). Dicearco (fr. 34 Wehrli) e Aristosseno (fr. 18 Wehrli) assicurano
addirittura che venne edificato una sorta di edificio con funzione di
"centro politico" staccato dal resto della città, una "cittadella" (il verbo
adoperato è noAisEtv, "edificare un centro della città") dove andarono

A History ofGreek Medicine, Omaha 1 996, pp. 1 6 1 -202. Su li' importanza delle
scuole di atletica di Crotone Chr. Mann, Athlet und Polis im archaischen und
jruhklassischen Griechenland, Gottingen 200 l , pp. 1 73- 1 74. Cfr. anche C. de
Vogel, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Assen 1 966, pp. 232-244.

1 34
a stabilirsi assieme ai propri familiari i discepoli appartenenti all'èlite
che costituiva l'E'tatpEia, l"'hetairia " pitagorica. Qui, in questo
edificio così esclusivo e rigidamente separato dal resto della città,
veniva custodita la sede del Synedrion dove verosimilmente, quando
era necessario, venivano ospitati anche i capi di tutte le comunità
pitagoriche della Megàle Hellàs.
Si dice che anche Catania, Reggio, Imera, Agrigento, Sibari per un
breve periodo, e poi molte altre colonie fossero governate dai pitagorici
che introdussero una serie di leggi scritte la cui consuetudine risulta
certamente poco usuale rispetto alle usuali tradizioni prevalente­
mente orali che resero famoso il movimento. Come documenta ancora
Aristosseno ("Da lui andarono Lucani, Messapi, Peucezi e Romani.
Pitagora eliminò per molte generazioni ogni discordia non solo fra i
suoi discepoli, ma anche fra i loro discendenti in tutte le città dell'Italia
e della Sicilia, sia all'interno sia nei rapporti reciproci"; fr. 17 Wehrli),
a poco a poco quasi tutta la Megàle Hellàs fu "pitagorizzata" tanto da
far pensare che la leggenda del re Numa Pompilio allievo di Pitagora
fosse scaturita da questo sostrato pan-pitagorico che era riuscito ad
estendersi fino a toccare gran parte del territorio italico e forse anche
parecchie colonie della Sicilia1 10• Porfirio (v. pyth. 21) e Giamblico (v.
pyth. 1 29-130) assicurano che le costituzioni aristocratiche delle città
della Megàle Hellàs erano state formulate da pitagorici perché consi­
derati usualmente come i migliori legislatori del tempo, e Giambico (v.
pyth. 166) agg iunge ancora significativamente che in seguito al buon
governo pitagorico tutta l'Italia "si riempì di filosofi", una dizione che

1 1 0 Cfr. P. Panitschek, Numa Pompilius als Schiiler des Pythagoras, in "Grazer


Beitrage", 1 7, 1 990, pp. 49-65. Sull'estensione della presenza pitagorica nelle
colonie dell' Italia, cfr. A. Mele, La Megale Hellas pitagorica. Aspetti politici,
economici e sociali, in Megale Hellas: nome e immagine, "Atti delXXI Convegno
di Studi sulla Magna Grecia", Taranto 1 982, pp. 33-80. Più in generale cfr.
D. Musti, Città di Magna Grecia. II. L'idea di Mey6J.17 'E.Uaç, in "Rivista di
Filologia e di Istruzione Classica", 1 1 4, 1 986, pp. 286-3 1 9.

1 35
nel l inguaggio del neoplatonico Giamblico non può che alludere ad
una straordinaria fioritura di sapienti e di iniziati pitagorici.
La tradizione ha fatto conoscere un impegno e un'attenzione di Pitagora
per la vita politica certo poco usuale presso tutti i filosofi pre-socratici
rimasti sempre ai margini della vita delle varie poleis, ma le cui finalità
diventano intellegibili ove si tenga presente il seguente frammento
di Archita che esalta elementi di costruzione e di armonia sociale
costituenti probabilmente la proiezione esteriore e l'inveramento nella
fattuale vita quotidiana di quello che per i pitagorici doveva essere
}"'ordine" complessivo della manifestazione cosmica: "Un principio
razionale ben equilibrato placa la rivolta e aumenta la concordia [fra le
classi sociali]. Quando lo si applica non c'è sopraffazione, ma equità.
Per suo mezzo ci armonizziamo nei rapporti, e per esso i poveri
ricevono dai ricchi e i ricchi elargiscono ai poveri perché entrambi
hanno fiducia nella giustizia"(Arch. 47 B3 DK). Il fr. di Archita riadatta
in una prospettiva sociale la dottrina sull'equilibrio e sull'armonia
ben radicata fra i pitagorici di ogni tempo che secondo Aristosseno
doveva risalire allo stesso Pitagora: "si deve cacciare con ogni mezzo e
tagliare via con fuoco, spada e con tutti i mezzi, dal corpo la malattia,
dall'anima l'ignoranza, dal ventre l'abbondanza, dalla città i conflitti,
dalla casa la discordia, da ogni cosa l'eccesso" (fr. 17 Wehrli)1 1 1 •
I l successo più famoso, quello storicamente più importante ottenuto
dai pitagorici di Crotone fu la sconfitta della città di Sibari nel 510 i cui

I I I Cfr. A. Barker, Archita di Tarallfo e l'armonia pitagorica, in A. C. Cassio - D.


Musti (curr.), Tra Sicilia e Magna Grecia. Aspetti di interaz.ione culturale nel
IV secolo. Atti del Convegno di Napoli 1987, Napoli 1 99 1 , pp. 1 59- 1 78. Sulla
dottrina dell'equilibrio e delle proporzioni cfr. A. Szabò, La teoria pitagorica
delle proporzioni, in "La Parola del Passato", 26, 1 97 1 , pp. 8 1 -93. Uno dei
testi più attenti sull 'impegno politico del pitagorismo resta il breve K. von
Fritz, Pythagorean Politics in Southern ltaly. An Analisis ofthe Sources, New
York 1 940, che però sorvola con troppa facilità sul sostrato religioso che ha
sostanziato profondamente anche l ' attività politica del sodalizio.

1 36
costumi venivano considerati una sorta di quintessenza della corru­
zione al punto che per dire "lussurioso" si usava i l verbo cru�apisEtv,
"comportarsi da sibarita". La preparazione guerriera richiesta per
questa impresa e la stessa volontà di combattere i sibariti sembrerebbero
contraddire l'abituale ostilità dei pitagorici verso la guerra considerata
non solo empia, ingiusta e fonte di morte, ma anche totalmente dannosa
e contraria alla loro abituale attenzione per i valori ascetici, il distacco
dalle passioni e l'equilibrio nei rapporti politici. E tuttavia, non può
essere trascurato questo aspetto guerriero del bìos pythagoreios cui
accenna, riportando un paio di akusmata, anche Giamblico: "È un bene
morire nello stesso posto riportando ferite nel petto; recarle sul dorso
è un male" (v. pyth. 85); "Occorre combattere non con le parole, ma
con i fatti; il nemico sarà legittimo e sacro se combatterà da uomo ad
uomo" (v. pyth. 232)1 12• In realtà, bisogna ricordare che accanto ai valori
spirituali assolutamente preminenti, i pitagorici coltivavano un tipo di
vita che assommava pasti in comune (= sissizie) secondo una tradizione
che continuava le abitudini comunitarie tipiche dell'educazione dei
giovani guerrieri in uso a Sparta e a Creta; un forte legame cameratesco
che rese leggendaria l"'amicìzìa" fra i membri della confraternita; la
keironomìa, un tipo di danza pirrica che secondo Aristosseno simulava
il combattimento guerriero su moduli ritmici e musicali appartenenti
alla sfera divina che il mito riferiva al centauro Chirone, l'archegeta e
l'educatore dei più importanti Eroi greci; infine un addestramento fisico
che imponeva un'attività atletica giornaliera in grado di coniugare i più
rigidi esercizi con una dieta nella quale la carne aveva un'importante
presenza. cosa, quest'ultima, in evidente contraddizione con il prover­
biale vegetarianismo degli adepti pitagorici. Sono dati che tratteggiano

1 1 2 Seguiamo M. Detienne, Des confréries de guerriers à la societépythagoricienne,


"Bulletin de la Societé E. Renan", I l , 1 962, in "RHR", 1 63, 1 963, (pp. 1 2 1 - 146),
pp. 1 27- 1 3 1 ; Id., Ln cuisine de Pythagore, in "Archives des Sciences Sociales
des Religions", 29, 1 970, (pp. 1 4 1 - 1 62), pp. 7-8.

1 37
una conduzione quotidiana dei membri del movimento molto lontana
dalla fenomenologia delle contemporanee scuole di filosofia e la cui
complessità potrebbe persino configurare all'interno della confraternita
livelli educativi diversi, uno mirato alla gioventù e l'altro più articolato
e più mirato alle esigenze di un organismo teso ad ottenere una elevata
esperienza contemplativa. Come si vede, anche in questi aspetti più
propriamente guerrieri della sua paideia, il pitagorismo perpetuò le
proprie esigenze di riadattamento e di "riforma" del mondo misterio­
sofico dell'antica Ellade e tese ad "assorbire" il sostrato spirituale che
aveva alimentato le arcaiche confraternite guerriere trasponendone le
esigenze di "lotta e vittoria" in una prospettiva ascetica ed iniziatica
nella quale diventavano preminenti i valori etici.
La storiografia classica ha sempre attribuito il merito della straordinaria
vittoria su Sibari, che peraltro si dice fosse stata prevista e annunciata
con molto anticipo da Pitagora (Andron. fr. 6 M), ad un adepto tutto
speciale, quel Milone che durante la battaglia si era presentato sul
campo assumendo le sembianze di Herakles, imbracciando una clava
e indossando una pelle di leone ad imitazione dell'Eroe olimpico1 13•
Si dice che Herakles si fosse abbigliato in questo modo dopo la
memorabile "fatica" che lo aveva obbligato prima ad uccidere il
famoso leone di Nemea e poi a "fermare" in cielo la costellazione che
porta ancor oggi il nome del Leone la cui apparizione probabilmente
ha segnato l'inizio di una nuova epoca del mondo. Tutto indica che
Milone, questo straordinario stratega vittorioso, non fu affatto un
personaggio secondario del pitagorismo crotoniate. Appartenente ad
una delle più potenti famiglie della città, cooptato nel sodalizio da

1 1 3 Cfr. A. 01ivieri, Il pitagorico Milone crotoniate, in Id., Civiltà greca dell 'Italia
meridionale, Napoli 1 93 1 , pp. 85- 1 05 ; E. Ghibellini, La statua di Milone di
Crotone, in "Xenia", 1 6, 1 988, pp. 43-52; G. F. Maddoli, Milone olimpionico
eptaki, in "La Parola del Passato", 47, 1 992, pp. 46-49; V. Visa-Ondarçuhu,
Milan de Croton, personnage exemplaire, in A. Billault (eur.), Hèros et voyageurs
grecs dans l 'occident romain, Lyon 1 997, pp. 33-62.

1 38
Muia, la figlia di Pitagora poi diventata sua moglie e alla quale quando
ancora era una fanciulla era stato affidato il Coro delle Vergini (Porph.
v. pyth. 4)1 14, Milone fu il più famoso atleta dell'antica Grecia essendo

l'unico nella storia di quel popolo ad aver vinto ben 5 giochi olimpici,
10 gare istmiche, 9 nemee e 6 giochi pitici. Era anche un sacerdote del
"divino" Herakles la cui figura nel pitagorismo sarà sempre oggetto
di uno speciale culto che non solo dava consistenza esoterica al mito
di Herakles fondatore della città di Crotone, ma andava molto oltre
la semplice volontà di onorare il famoso Eroe olimpico. Herakles,
infatti, qui era oggetto di una particolare considerazione sacrale che
probabilmente era legata all'antico santuario di Hera Lacina di cui era
sacerdore, ancora, Milone ed è documentata anche da tutta una serie di
monete che raffiguravano un Herakles oikistes come simbolo della città
oppure che associavano Herakles e Kroton1 15• Sono dati che rivelavano
l'esistenza di un culto molto profondo che probabilmente costituiva
parte di quell'eredità rituale e religiosa trasmessa dall'orfismo al

1 1 4 Cfr. Ch. Riedweg, Myia, in Der Neue Pauly, 2000, cl. 569.

1 1 5 Per il culto di Herakles seguiamo M. Detienne, Hérakles, héros pythagoricien, in


"Revue de l'Histoire des Religions", 1 58, 1 960, pp. 1 9-53; sul rapporto Milone­
Herakles, ivi pp. 20-2 1 . Per il mito di Herakles fondatore di Crotone, cfr. M.
Giangiulio, Ricerche su Crotone arcaica, Pisa 1 989, pp. 4 e sgg.; pp. 70-75; pp.
1 85- 1 86; W. Leschhom, "Griinder der Stadt". Studien zu einempolitisch-religiosen
Phiinomen der griechischen Geschichte, Stuttgart 1 984, pp. 28-30; G. Capovilla,
Eracle in Sicilia e Magna Grecia, Milano 1 927, pp. 37 e sgg. La monetazione associa
Herakles con Kroton e a volte con il tripode delfico: SNG, ANS, Bruttium - Sicily,
I, New York 1 975, nn. 37 1 -383 e nn. 334-335; N. F. Parise, Le emissioni monetarie
di Magna Grecia dallafondazione di Thurii alla età di Archidamo, in Storia della
Calabria antica, II, Reggio Calabria-Roma 1 994, pp. 403-4 1 9, figg. 1 3 e 22-23.
Più in generale sono utili G. Genovese, Considerazioni sul culto di Herakles nella
Calabria antica, in "Archeologia Classica", LI, 1 999-2000 , pp. 329-359 (attenta
e puntuale disamina per la cui cortese segnalazione ringraziamo l'Autore); G. F.
Maddoli, l culti di Crotone, in Atti del XXIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia,
Taranto 1 984, pp. 3 1 3-343; A Mele, l culti di Crotone, in Santuari della Magna
Grecia in Calabria, Catalogo della Mostra, Napoli 1 996, pp. 235-238.

1 39
pitagorismo, troppo spesso minimizzata dagli studiosi perché attenti ai
vari risvolti della speculazione pitagorica e non ai suoi elementi sacrali.
In effetti, nel suo componimento Ulixes, Alcidamante (Test. 1 23 Kern)
proclama solennemente l'esistenza di un racconto nel quale "Orfeo,
figlio di Eagro, [è il] maestro di Herakles" (6ç 'HpaKÀfl Eòiòa�Ev). È
una testimonianza letteraria importante che documenta la familiarità e
la diffusione di questo aspetto del culto orfico presso i compositori ed i
poeti e fa da controparte ad una pittura murale di Pompei che raffigura
Orfeo mentre suona la lira ai piedi di una montagna circondato dalle
apoll inee Muse e da un Herakles seduto in ascolto della musica
incantatrice modulata dalla lira del Cantore tracid 1 6 •
Se adesso elenchiamo i fatti che riguardano Milone ne esce fuori
un'immagine tutta particolare, al limitare di una precisa funzione
"quasi-sacerdotale" che sembra indicare in lui la figura "esemplare"
dell'iniziato pitagoricio: cooptato nel movimento dalla figlia di
Pitagora; sacerdote di Herakles; campione olimpico che incarna tutte
le caratteristiche di Herakles; stratega che in battaglia si comporta
come il typus eroico scaturito dal mito di Herakles e dagli schemi di
armonizzazione fisica particolarmente curati dall'eugenetica e dalla
fisiognomica pitagorica; l'incendio della sua casa mentre in essa si
stava svolgendo una "riunione" alla quale aveva parteçipato la quasi
totalità dei pitagorici di Crotone. Del resto, proprio questa numerosa ed
inusuale presenza di adepti spinge a considerare questa "riunione" non

1 1 6 Le tracce di un culto di Herakles nell 'orfismo furono annotate da G. R. Lévy,


The Orientai Origin of Herakles, in "Journal of Hellenic Studies", 1 934, (pp.
40-53), p. 44. Il complesso pittorico che raffigura Orfeo a Pompei è quello
denominato Domus VI, 1 4, 1 8-20; VI, 1 4, 1 2. La pittura murale nella quale
si trovano insieme Orfeo, le Muse in ascolto ed Herakles incantato si trova in
W. Helbig, Wandgemiilden der verschiitten Stiidte Campaniens, Leipzig 1 868,
pl. I O, poi riprodotta in W. K. C. Guthrie, Orphée et la religion grecque, cit.,
p. 33. Le tracce di un importante culto orfico a Metaponto precedente l 'arrivo
del pitagorismo sono state seguite da A Bottini, Archeologia della salvezza.
L'escatologia greca nelle testimonianze archeologiche, Milano 1 992, pp. 64-88.

1 40
un convegno profano, ma una cerimonia sacra alla quale stavano parte­
cipando tutti i responsabili del sodalizio. In questa prospettiva quella
che le testimonianze antiche ci descrivono come la "casa" di Milone
assume lineamenti che corrispondono non alla semplice dimora di
un illustre cittadino crotoniate, ma quelli di un vero e proprio "luogo
di culto", forse la sede dello stesso Synedrion centrale affidato alle
cure di questo straordinario sacerdote di Herakles. Se si guardano le
cose in questa prospettiva diverrà finalmente chiaro perché in questa
"dimora-santuario" erano convenuti senza minimamente sospettare
alcunché tutti gli iniziati pitagorici della Megàle Hellàs. È evidente
che questi aspetti della personalità di Milone procedono dallo stesso
ambito religioso che ruotava attorno al noto culto dell'Herakles pita­
gorico e indicano anche in quale direzione guardare per capire non
solo la leggenda che faceva di Pitagora un famoso atleta che aveva
partecipato alle gare di pugilato dei giochi olimpici, ma anche la stessa
scaturigine sacra dalla quale traevano significato gli esercizi ginnici
che quotidianamente venivano praticati dagli adepti.
Tuttavia, nonostante gli indubitabili successi tra il 450 e il 440 i
pitagorici cominciarono ad essere oggetto di attacchi continui che a
poco a poco toccarono anche le altre colonie della penisola. Polibio
(II, 39, 1-3) riferisce che mentre gli adepti si trovavano nel "luogo di
culto" custodito da Milone un gruppo di rivoltosi incendiò l'edificio
provocando la morte di tutti i convenuti ad eccezione dei due giovani
Archippo e Liside. Testimoni sicuri come Dicearco, Aristosseno e
Aristotele assicurano che Pitagora non si trovava assieme ai suoi perché
si era recato a Metaponto, un'altra città intimamente permeata dai
pitagorici dai forti legami sacri con Apollo e con lo stesso Herakles.
Qui continuò ad operare anche dopo le stragi dei suoi seguaci e
secondo ogni verosimiglianza vi si spense attorno al 500 a.C . Sulla
sua fine fiorirono molti aneddoti benevoli e malevoli1 17, ma con ogni

1 1 7 I frr. di Neante furono raccolti da l. Lévy, Recherches sur !es sources de la

141
verosimiglianza si può accettare la tradizione secondo cui la morte
sopraggiunse mentre era intento ad officiare le cerimonie sacre nel
tempio dedicato alle Muse, cosa che riconduce ancora una volta i l
suo magisterio all'interno d i una cornice apollinea e più precisamente
nell'ambito delle qualificazioni "tecnico-operative" favorite da quel
tipo di ambientazione rituale. Dopo la morte, il tracciato che Pitagora
usualmente percorreva per recarsi ad onorare gli dèi fu consacrato alle
Muse e la sua stessa casa a Metaponto divenne un tempio di Demetra.
Il racconto di Aristosseno sugli ultimi momenti della storia del movi­
mento crotoniate e il ruolo di Milone può aiutarci a svincolare o
a considerare puramente contingenti le cause del disastro da fatti
marginali e di portata sostanzialmente limitata come l'inverosimile
notizia sulle conseguenze tragiche di quello che appare un troppo
esagerato rancore di Cilone perché non ammesso al sodalizio e di
una sua ipotetica alleanza con il quasi ininfluente Ninone, il presunto
allievo di Ippaso (a sua volta considerato per antonomasia il discepolo
infedele di Pitagora), che avrebbe letto un i mprobabile Discorso
mistico nell'assemblea degli Ottimati di Crotone per denigrare il
fondatore della confraternita. Probabilmente si tratta di racconti
successivi all'evento, compilati da estranei al movimento pitagorico
che tendono a trovare comprensibili ragioni di tipo politico per giusti­
ficare una eclissi apparentemente inspiegabile. Secondo la critica
moderna, infatti, supporre la nascita di un "partito" di Cilonidi", forse
costituito dalle famiglie aristocratiche rimaste escluse dal dinamismo
dei nuovi amministratori, è l'unico modo per dare consistenza ad uno
"sfondo sociologico" della rivolta antipitagorica. In realtà, pensiamo
che sarebbe opportuno andare oltre le contingenze e per inquadrare
il significato della rivolta in un ambientazione dottrinale pitagorica e
dare un respiro universale al disastro della loro sede centrale, biso-

légende de Pythagore, Paris 1 927, pp. 60-64. Sulla morte di Pitagora Neante
riporta vaghe notizie tratte dal folklore antipitagorico e spesso senza fondamento.

1 42
gnerebbe considerare con più attenzione quegli aspetti esemplari
che rendono l'incendio di questo "edificio sacro" affidato alla cura
di Milone una sorta di ekpyrosis, un evento "quasi-escatologico" che
conclude definitivamente "col sangue e col fuoco" il particolare ciclo
spirituale cominciato con la predicazione di Pitagora.
La vittoria su Sibari aveva avuto come conseguenza immediata la
supremazia di Crotone su molte colonie elleniche e l'ottenimento di
una generale prosperità documentata dalle monete ritrovate che recano
orgogliosamente i simboli vittoriosi della città e l'astensione di uno
dei simboli sacri di Crotone, il tripode delfico1 18• E tuttavia, i successi
e il potere ottenuto dal governo pitagorico non arrestarono l'odio e i
rancori contro quella strana èlite di contemplativi che vincevano guerre
e amministravano saggiamente le città e così la situazione politica andò
deteriorandosi sempre più fino a sfociare in una rivolta antipitagorica
generalizzata in tutte le colonie dell'Italia meridionale. Si è addirittura
pensato che dopo quel disgraziato incendio la rapida scomparsa nelle
colonie della penisola di comunità pitagoriche organizzate può spie­
garsi solo presumendo che nella "dimora" di Milone si trovavano riuniti
tutti i responsabili pitagorici della Megàle Hellàs. Il rogo sarebbe stato
perciò il frutto di una precisa pianificazione rivoluzionaria estesa ben
oltre l'ambito ristretto dei "Cilonidi" di Crotone. Costoro avrebbero
profittato di quella che appare una speciale congiuntura rituale deca­
pitando il movimento e aprendo così la via al rapido successo dei
rivoltosi anche in tutte le altre città della Megàle Hellàs1 19•

1 1 8 Per la monetazione cfr. il vecchio, ma ancora valido U. Kahrstedt, Zur Geschichte


Grossgriechenlands im 5. Jahrhundert, in "Hermes", 53, 1 9 1 8 (pp. 1 80- 1 87),
pp. 1 85- 1 86. Sulla particolare strutturazione del pitagorismo crotoniate cfr. M .
Isnardi Parente, Pitagorismo di Crotone e Pitagorismo accademico, i n "Archivio
storico per la Calabria e la Lucania", 62, 1 995, pp. 5-25.

1 1 9 Cfr. D. Musti, Le rivolte antipitagoriche e la concezione pitagorica del tempo,


in "Quaderni Urbinati di .Cultura Classica", 65, 1 990, pp. 35-65. Sugli ultimi
pitagorici vd. F. Prontera, Gli 'ultimi ' pitagorici. Contributo per una revisione

1 43
Dopo la distruzione del centro di Crotone databile fra il 459 e i 454,
i pochi pitagorici sopravvissuti alla catastrofe, forse una cinquantina
se vengono computati anche i membri delle colonie della penisola,
si dispersero in tutto il mondo ellenico. Vaghe tradizioni assicurano
che nonostante le persecuzioni e la diffidenza ormai generalizzata
riuscirono a riorganizzarsi momentaneamente a Reggio (lamb. v. pyth.
251), ma ben presto quasi tutti abbandonarono l'Italia disperdendosi
nelle città dell'Ellade dove però non riuscirono più ad avere un ruolo
politico e una proiezione esteriore di qualche consistenza. A Taranto
prima con Archippo e poi col grande Archita che col suo governo fece
acquisire alla città un respiro "quasi-imperiale", il pitagorismo ebbe
uno sviluppo molto forte al punto che persino la commedia di mezzo
cominciò a parodiarne i particolari costumi120• A Fliunte si ebbe una
fioritura di qualche rilievo grazie all'arrivo di Echecrate appartenente
alla cerchia dei primi pitagorici, lo stesso che Platone onorerà nel
Pedone sottolineando in modo particolare il valore e l'importanza
della sua dottrina sull'anima-armonia121 • Ma fu a Tebe con Liside,
qui fermatosi definitivamente dopo un breve soggiorno ad Acaia,
che si poté avere una significativa ripresa della presenza politica dei

della tradizione, in "Dialoghi di Archeologia", 9- 1 0, 1 976-77, pp. 267-332, che


però resta scettico su un eventuale prolungamento della presenza pitagorica
Fliunte e a Tebe (ivi, pp. 29 1 e sgg.).

1 20 Sul quale esiste un grosso testo (ben 650 pp.) che è una sorta di illuminante
enciclopedia "pitagorico-architiana": C. A. Huffman, Archytas of Tarentum.
Pythagorean, Philosopher and Mathematician King, Cambridge 2005. Cfr. anche
il più svelto A. Mele, l pitagorici e Archita, in Storia della società italiana, I,
Milano 1 98 1 , pp. 269-298.

1 2 1 F. Prontera, Echecrate di Fliunte un pitagorico?, in "Atti e Memorie


dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria", 39, 1 974, pp.
3- 1 9; C. A. Huffman, Philolaus of Croto n. Pythagorean and Presocratic. A
Commentary on the Fragments and Testimonia with Interpretative Essays,
Cambridge 1 993, pp. 323-332.

1 44
pitagorici con successi che portarono ad una ricca fioritura anche
economica di questa città, tali comunque da permettere l'assunzione
di importanti ruoli di comando da parte di molti adepti.
Liside era il tipico iniziato pitagorico dottissimo e silenzioso. Il suo
discepolo Spintaro assicura che "al mondo non c'era nessuno che più
sapesse e meno parlasse di Liside". Secondo un passo di Alcidamante
riportato da Aristotele (Rhet. 1398b 18: ''A Tebe i governanti divennero
filosofi e in quel periodo la città fiorì"), Liside riuscì a creare a Tebe
una vera e propria èlite pitagorica che governò per un pò di tempo la
città e alla quale forse si deve quel respiro storico che le fece ottenere
una breve supremazia sulle città greche fino a sostituire il dominio
della vecchia e gloriosa Sparta. A questa speciale èlite appartenne
anche il celebre generale Epaminonda considerato senza tentenna­
menti da Giamblico e da Diogene Laerzio un discepolo diretto di
Liside. La tradizione assicura che per poter sconfiggere i pochi (si
dice solo 600 e, se si accettano le conclusioni di Angelo Brelich sulle
confraternite guerriere spartane, era il numero dei membri di due
consorterie formate da 300 guerrieri ciascuna), ma invincibili opliti
sopravv issuti di quella che un tempo era stata l'armata spartana,
Epaminonda aveva adattato al proprio schieramento militare e ai
movimenti dei reparti sul campo di battaglia parametri derivati dalle
dottrine cosmologiche del pitagorismo. Facendo muovere per la prima
volta nella storia militare ellenica i propri reparti dal lato sinistro,
Epaminonda provocò un moto avvolgente che riuscì ad imbottigliare
i guerrieri spartani i quali non volendo retrocedere come loro uso,
si immolarono tutti sul campo. Come ha dimostrato brillantemente
Pierre Vidal-Naquet, la possibilità di cominciare il movimento avvol­
gente dal lato sinistro suppone una concezione dello spazio quanti­
tativo, omogeneo, senza particolari diversità sacre ed eguale in tutti
i punti tipico della geometria pitagorica che perciò non distingue
qualitativamente la destra dalla sinistra e non valorizza le implica­
zioni rituali dello spazio sacro ritenute così importantie nel tempo

1 45
arcaico. Questa nuova visione che portò alla vittoria di Epaminonda
si contrappone alla tradizionale valutazione pau-ellenica di uno
spazio qualitativo, perciò "definito", disomogeneo negli infiniti punti
che lo compongono che in passato aveva obbligato gli schieramenti
a spostarsi sul campo di battaglia tenendo conto delle indicazioni
rituali e cominciando i loro movimenti dal lato destro ritenuto quello
sacralmente più propizio. Tuttavia, qualche traccia delle antiche forme
rituali era comunque rimasta nel pitagorismo, come documenta quel
detto conservato in uno dei symbola pitagorici che espressamente
ingiungeva l'orientamento rituale tradizionale: "Nei templi si deve
entrare dal lato destro e uscire da quello sinistro" (lambl. v. pyth.,
156). Molto probabilmente ci troviamo davanti alla testimonianza
che all'interno del movimento coesistevano due orientamenti rituali,
quello che continuava le tradizioni ancestrali del popolo ellenico che
forse era addirittura scaturito dal suo retroterra apollineo, e quello
"moderno" derivato dalla concezione di un cosmos circolare, perfetto,
i cui ritmi si sviluppano su un movimento "a spirale" che rende neces­
sariamente tutti i punti di riferimento di una ideale circonferenza
rigidamente equivalenti. Sono proprio queste antichissime esigenze
sacre ad avere indirizzato lungo tutta la storia ellenica i reparti di
opliti secondo direttrici in grado di muoversi su linee rette quasi
sempre disposte attorno ad un orientamento simbolico basato sulla
centralità della direttrice polare122•

1 22 Cfr. P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir. Formes de pensée etformes de société


dans le monde grec, Paris 1 98 1 , pp. 95- 1 2 1 . Vd. anche W. Burkert, Lore and
Science, cit., p. 1 1 6, n. 43. Sul mutamento di tattica militare nel mondo romano
quasi sicuramente derivato da influssi pitagorici, cfr. A. Rouveret, Tite-Live.
Histoire Romaine IX, 40, in A.-M. Adam A. Rouveret, Guerre et sociétés en
-

ltalie au.x V et Nsiècles avant 1.-C., Paris 1 986, pp. 9 1 - 1 20. L'antica preminenza
data al lato destro suppone un orientamento rituale basato su coordinate polari che
dividono lo spazio in modo cruciforme. Il cambiamento indicato dai pitagorici
comporta una spazio circolare nel quale ogni punto della circonferenza ha lo
stesso valore di qualsiasi altro.

1 46
Quando Liside morì i suoi confratelli della Megàle Hellàs si recarono
a Tebe per chiedere il corpo di questo iniziato appartenente alla prima
generazione dei pitagorici e portarlo in Italia dove lo si voleva onorare
nella terra che aveva visto la nascita e lo sviluppo del movimento al
quale aveva appartenuto.

1 47
3. Le radici spirituali

Tuttavia, nonostante la forte presenza sul piano sociale registrata da


tutti i commentatori antichi, l'attività politica rimane solo un aspetto,
il più rilevante da un punto di vista esteriore, ma certo non il più
importante dell'impegno complessivo del movimento pitagorico, il
quale tese anche a riformare alcune correnti mistico-estatiche e a
riadattarne altre che, come l'orfismo, costituivano parte essenziale
della vita rituale dell'Ellade arcaica. Come abbiamo visto, secondo
la tradizione Pitagora aveva appreso tutta la sapienza di gran parte
dei popoli vicini, caldei, egizi, fenici e sarebbe stato persino un
impossibile allievo di Zarata (=Zarathustra). E proprio da Zarathustra
avrebbe appreso che dall'Uno procedono come due prime modalità di
manifestazione cosmica la Luce e le Tenebre, i due princìpi primor­
diali corrispondenti alla celebre coppia pitagorica di opposti che
Aristosseno (fr. 13 Wehrli) tradurrà in una terminologia tipicamente
greca come "padre-luce" e "madre-buio", la diade ( l + l = 2) che poi
la raffigurazione grafica della numerologia pitagorica esprimerà attra­
verso il simbolo dei due ca/culi disposti su una linea retta, i due punti
dai quali si faceva iniziare ogni calcolo e la stessa catena indefinita
delle forme della vita universale123• È lo schema speculativo che Aet.
I, 3, 8 preciserà in una formulazione più complessa: "[Pitagora] pose
fra i princìpi l'unità e la diade indefinita. Di questi due princìpi l'uno
mira alla causa attiva e formale che è la mente divina, l'altro alla causa
passiva e materiale che è il mondo visibile". Questo dualismo che si

1 23 Sulla leggenda del discepolato di Pitagora presso Zarathustra, che però potrebbe
anche significare suoi contatti con alcuni rappresentanti del clero mazdeo, cfr.
H. Dorrie, Pythagoras als SchUler des Zoroaster, in Der hellenistische Rahmen
des kaiserzeitlichen Platonismus, 2 voli., Stuttgart 1 990, II, pp. 458-465.

148
sviluppa come la prima modalità di manifestazione dell'Uno consi­
derato come una specie di principio creativo e di ordine, viene tradotto
da Platone nell'ambito di un altro dualismo antologico espresso come
"finito" e infinito", oppure come "unità" e "molteplicità", i due aspetti
che compongono tutti gli enti e lo stesso cosmo: "Gli Antichi che
erano più sapienti di noi e più vicini agli dèi ci hanno tramandato
questa rivelazione, e cioè che risultando dall'unità e dalla molteplicità
le cose che sono, le cose che sempre furono e saranno, dette 'cose
che sono', portano in sé connaturato il finito e l'infinito" (Phil. 16d).
In realtà questi racconti dei tanti viaggi e degli incontri di Pitagora
con uomini straordinari non sono importanti perché ci dicono quale
improbabile personaggio avrebbe potuto conoscere o il tipo di dottrine
da lui eventualmente apprese, ma essenzialmente perché traducono
in una forma estremamente razionalizzata nella quale trionfa l'agio­
grafia, la convinzione che nell'insegnamento di Pitagora confluiva
l'antica sapienza che aveva sostanziato la vita religiosa di tutti quei
popoli e la certezza che solo lui avrebbe potuto riformularla e riattua­
lizzarne i postulati di fondo124• È probabile che tutto ciò debba essere

1 24 I testi sono stati raccolti, tradotti e ottimamente commentati da M. Timpanaro


Cardini, Pitagorici. Testimonianze e Frammenti, 3 voli., Firenze 1 958- 1 964, che
integra il più vecchio, ma ancora valido e ben strutturato H. Diels - W. Kranz,
Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1 95 1 - 1 952. Sul movimento pitagorico
rinviamo ai classici W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism,
Cambridge (Mass.), 1 972; J. A. Philip, Pythagoras and Early Pythagoreanism,
Toronto 1 966; B. L. van der Waerden, Die Pythagoreer. Religiose Bruderschaft
und Schule der Wissenschaft, Ztirich und Mtinchen 1 979; R. Haase, Neue
Forschungen iiber Pythagoras, in "Antaios", VIII, 1 967, pp. 40 1 -420; J.-F.
Mattei, Pythagore et !es Pythagoriciens, Paris 1 993 (rapida disamina che però
trascura quasi completamente le radici sacre del pitagorismo); L. Zhmud,
Wissenschaft, Philosophie und Religion imfriihen Pythagoreismus, Berlin 1 997;
Ch. Riedweg, Pythagoras. His Life, Teaching and Injiuence, lthaca 2005 (tr.
it. Milano 2007). Una vera e propria enciclopedia pitagorica resta il libro di V.
Capparelli, La Sapienza di Pitagora, 2• ed., Roma 2003. Va capovolta l' ipotesi
di G. Pugliese Caratelli (Da Jung a Orfeo, in "La Parola del Passato", 45,

1 49
inquadrato all'interno di quel climaterium delle civiltà di cui si è detto
che in Grecia se da un lato comportò la laicizzazione quasi completa
della vita, dall'altro diede vita al tentativo di restaurazione tradizionale
e al riadattamento del mondo della misteriosofia tentato da Pitagora.
Un caso a parte è quello del suo rapporto con Ferecide di Siro, lo
straordinario personaggio che figurava come uno dei Sette Sapienti. Si
diceva addirittura che fosse stato proprio lui ad insegnare la filosofia a
Pitagora. Autore di una teogonia che si riteneva contenesse racconti di
eventi divini molto antichi e ormai dimenticati dai mitografi, Ferecide
era un personaggio considerato da sempre vicino agli orfici ed era
opinione unanime che avesse attinto alle loro tradizioni utilizzando
ampiamente nelle proprie opere gli elementi teo-cosmogonici di quegli
antichi racconti. Gli venivano attribuiti anche i soliti poteri eccezionali
comuni ai veggenti e agli estatici del tempo arcaico125• Secondo Platone
(Prot. 343 a-b) la saggezza attribuita ai Sette Sapienti scaturiva dal
centro apollineo di Delfi e probabilmente questo particolare mito
intendeva simbolizzare tutta un'epoca primordiale nella quale la
sapienza sacra si esprimeva anche in conoscenze di tipo taumaturgico
o magico, ed era commista alla veggenza, all'astronomia, all'arte di
dominare i venti, di misurare il tempo e di governare gli stati. Secondo
Aristosseno (in Diog. Laert. I , 1 18) quando Ferecide si ammalò fu
Pitagora ad assisterlo e poi a celebrarne i funerali a Delo, l'isola che

1 990, pp. 1 6 1 e sgg.) secondo cui l' orfìsmo può configurarsi come una sorta di
filiazione pitagorica.

1 25 Cfr. H. S. Shibli, Pherekydes of Syros, Oxford 1 990, pp. 1 22 e sgg.; sulla


teo-cosmogonia di Ferecide, ivi, pp. 1 28 e sgg; W. Burkert, Lore and Scienze,
ci t., p. 1 1 2; U. Pesta1ozza, Alcune osservazioni intorno alla cosmogonia di
Ferecide di Siro, in "Rendiconti dell' Istituto Lombardo", 37, 1 904, pp. 262-274;
L. Breglia, Ferecide di Siro tra orfici e pitagorici, in Tra Orfeo e Pitagora,
cit., pp. 1 6 1 - 1 94, che illustra con rigore i suoi temi cosmogonici; D. L. Toye,
Pherecydes of Syros. Ancient Theologian and Genealogist, in "Mnemosyne",
I, 1 997, pp. 530-560.

1 50
particolare di uno stamnos attico a figure rosse del "pittore della Dokimasia"
rappresentante la morte di Orfeo ucciso dalle donne trace invasate dalla gelosia
(metà del yo sec.):

VI sec: partico lare di un vaso del pittore Tyskiewics raffigurante Herakles (?) e Athena
contro i Giganti. Tema tipico di raffigurazione del "passaggio" fra due ère cosmiche.
Il celebre busto di Pitagora presente nei Musei Capitolini.
Le testimonianze concordano nell' attribuirgli occhi grandi, naso robusto,
labbra carnose e un collo forte da atleta che conferma la sua partecipazione
ai giochi olimpici nelle gare di pugilato. Secondo Eliano (V Hist. , XII, 32)
era uso vestire ali ' orientale con una taenia intorno alla testa, forse annodata
sopra un berretto a strisce di cuoio, spesso con un himation che,
diversamente dall'usuale moda ellenica, gli copriva entrambe
le spalle e !acui fattura aveva la funzione di indicare
anche la classe sociale di appartenenza.
nel rituale apollineo assumeva la simbolica funzione di un riflesso
dell'umbilicus mundi. Ione di Chio (in Diog. Laert. I, 1 19) addirittura
compose per questo strano personaggio un'elegia nella quale accoglieva
pienamente la tradizione che faceva di Ferecide il maestro di Pitagora:

"Così egli insigne per animo virile e per dignità


anche da morto gode con la sua anima una vita beata,
se davvero Pitagora, il più saggio di tutti gli uomini
conobbe e comprese a fondo le sue dottrine . . . ."

È probabile che il racconto dell'insegnamento filosofico impartito da


Ferecide fosse il frutto della solita laicizzazione ed evemerizzazione
di simboli e miti ancestrali, secondo un'abitudine molto diffusa fra i
Greci del V e IV secolo che interpretava la trasmissione di un'antica
sapienza come un semplice rapporto di "scuola" facendolo diventare
un insegnamento astratto e puramente speculativo. D'altronde, la
stessa esistenza di questa "filosofia" di Ferecide appare molto dubbia
perché la tradizione pur attribuendogli unanimemente una teo-cosmo­
gonia, non ci espone nulla di un suo presunto sistema di pensiero né
esistono filosofi che, come fece Aristotele con le filosofie a lui prece­
denti, hanno pensato di delinearne il profilo speculativo. Il suo nome,
d'altronde, non si trova né fra i pensatori pre-socratici sezionati con il
consueto impegno nelle opere dello Stagirita, né fra i molti personaggi
che ruotavano attorno ai tanti maestri o alle scuole filosofiche di vario
tipo che in quel tempo percorrevano le città della Grecia.
In realtà, la straordinaria relazione fra Ferecide e Pitagora sembra
scaturita non da una "scuola di pensiero" o da quella supposta
comunione filosofica fra i due che la consuetudine razionalistica del
nostro tempo ha reso quasi ovvia, ma da un'originaria ambientazione
iniziatica. Attraverso la leggenda di questo "insegnamento" si volle
mostrare ancora una volta la centralità di Pitagora nella storia spiri­
tuale dell'Ellade rappresentandolo come l'erede di uno dei mitici

151
Sette Sapienti, quello più caratterizzato in un ambito di recitazione
teo-cosmogonica e perciò più vicino all'orfismo e alla m isteriosofia
arcaica. È un modo per dire che in lui confluiva "quasi naturalmente"
la sapienza ellenica dell'illud tempus delle origini, ne era l'autentico
erede, era colui che dava consistenza dottrinale ai simboli cosmo­
gonici delle antiche teogonie e per il suo particolare legame con
Apollo lperboreo permetteva di rivendicare un radicamento spiri­
tuale che risaliva fino alle scaturigini del cuore stesso della religione
ellenica. La profondità delle forme di sacralità che emerge dai dati
a noi giunti, mai minimizzate dalla tradizione, permeava tutta la
vita di Pitagora, ne caratterizzava il modo di essere più veritiero ed
era considerata l'autentica fonte dalla quale scaturiva la sua celebre
polymathia, l'onnipervadente sapere in grado di abbracciare tutti i
campi dello scibile che colpiva alcuni dei suoi contemporanei più
famosi, come per es. Senofane di Colofone e il sempre impietoso suo
critico Eraclito di Efeso.
Come testimonierà in molti punti delle sue opere e con più autorità
di tutti Platone, il filosofo che tentò di conservare la parte più antica
del patrimonio spirituale dell'Ellade trasponendolo su un piano
dottrinale e filosofico, tutto il sostrato religioso, mitico e rituale che
arricchisce l'orfismo è connesso intimamente con il pitagorismo126•

1 26 Sui legami del pitagorismo con l 'arcaica religiosità del tempo mitico esiste
una letteratura molto vasta. Qui ci limitiamo ad indicare solo W. Burkert, Craft
versus Sect. The Problem of Orphics and Pythagoreans, in B. E Meyer and E.
P. Sanders (edd.), Jewish and Christian Self-Definition. III. Self-Definition in
the Graeco-Roman World, London l 982, pp. 1 -22; pp. 1 83-1 89; C. H. Kahn, Il
pitagorismo prima di Platone, in W. Leszl (cur.), I Presocratici, Bologna 1 982,
pp. 287-3 1 4 ; P. Boyancé, L'injluence pythagoricienne sur Platon, in Filosofia e
Scienze in Magna Grecia. Atti del VConvegno Studi sulla Magna Grecia, Napoli
1 966, pp. 73- 1 1 3; C. Macris, Pythagore, un maftre de sagesse charismatique de
la fin de la période archaique, in G. Filoramo (cur.), Carisma profetico. Fattore
di innovazione religiosa, Brescia 2003, pp. 243-289. Una rapida disamina si trova
in M. P. Nilsson, Geschichte der Griechischen Religion, I, cit., pp. 699-708.

1 52
Per capire queste relazioni occorre ricordare che Pitagora fu consi­
derato molto spesso e con una sicurezza che lascia stupiti i critici
moderni, una specie di "riformatore" dell 'orfismo e la confusione
fra i due movimenti che a volte emerge con forza nelle fonti (tanto
stretta da convincere qualche studioso del secolo passato, esagerando
più del consentito, a parlare addirittura di "orfeo-pitagorici"), deriva
proprio da questa sostanziale vicinanza spirituale che sostanziava i
commenti dei maestri neoplatonici e convinceva Siriano a scrivere
addirittura un testo dal titolo significativo come Symphoniafra Orfeo,
Pitagora e Platone127• Nell'importante In Tim. III, 169, 8-10 Proclo,
seguendo un insegnamento che forse era corrente fra i neoplatonici
(cfr. Iambl. v. pyth. 146), aggiunge un particolare che aiuta a dare una
cornice sacra a questi rapporti: "Tutte le dottrine segrete trasmesse da
Orfeo in forma esoterica, Pitagora le ha apprese in modo completo
con la sua iniziazione a Libetro in Tracia, quando il suo iniziatore
Aglaophamos gli trasmise la scienza divina, quella che Orfeo aveva
appreso da sua madre Calliope". Abbiamo visto più sopra l'impor­
tanza assunta dal santuario apollineo di Libetro nella tradizione orfica
e l'accostamento che Giamblico e Proclo fanno con l'insegnamento
di Aglaophamos è molto indicativo per capire le connessioni che
la tradizione ha sempre voluto ritrovare nel rapporto di Orfeo con
Pitagora. Va poi ricordato che Aglaophamos è un termine rarissimo e
nella letteratura ellenica appare un paio di volte solamente negli Inni
orfici (XXXI, 4 e LXXVI, 2). Il suo significato sembra essere con
abbastanza sicurezza "colui che ha una fama eccelsa", e probabilmente
personifica una funzione iniziatica che i neoplatonici Giamblico e
Proclo ritenevano di poter attribuire con ovvietà all'insegnamento
di Pitagora e alla sua iniziazione nel santuario di Libetro. Nel testo

1 27 Cfr. M. L. West, The Orphic Poems, cit., pp. 1 9-20; pp. 40 e sgg. Un' attenta
riflessione sul tema aveva fatto M. Nilsson, Geschichte der Griechischen
Religion, l, cit. , pp. 679-680.

153
procliano (modulato pedissequamente sul cenno di Giamblico che
addirittura qualifica Agloaphamos come un telesta, un "iniziatore",
e attribuisce ad Orfeo persino la dottrina sul "numero come essenza
del reale"), Aglaophamos appare come il mediatore di una presenza
divina, }"'iniziatore" nel quale emergono una funzione spirituale e una
precisa tradizione sacra che poi andranno a coagularsi in Pitagora. In
tal modo il movimento pitagorico si trovava ad essere valutato meno
per gli apporti puramente speculativi o scientifici e molto più per il
suo ancoraggio in un ambito iniziatico che agli occhi di Giamblico
e di Proclo costituiva il vero motivo della sua rilevanza dottrinale.
Era da quest'ambito sacrale e simbolico che traevano significato non
transeunte tutte le scienze coltivate dai pitagorici.
In realtà, tutta l'opera di Pitagora appare come una vera e propria
"riforma" delle correnti cosmico-estatiche che avevano prolungato la
spiritualità del tempo mitico e avevano informato le diverse miste­
riosofie elleniche. Il pitagorismo si presenta come un "riadattamento"
delle loro motivazioni più profonde in una prospettiva etica nella quale
l'esperienza del divino non è più la condizione di estatici vaganti o di
solitari asceti appartenenti ad un passato ormai irripetibile. Questa
particolare condizione spirituale viene adesso consegnata ad un movi­
mento che custodisce tutto un rituale fortemente caratterizzato non
solo da aspetti riconducibili alla misteriosofia, ma anche da una solida
dottrina in grado di spiegare il significato dell'uomo e del mondo, un
sistema speculativo tanto articolato da permettere addirittura di essere
considerato da critici solitamente severi come Aristotele, uno dei più
autorevoli fra i numerosi sistemi filosofici che avevano percorso il
mondo ellenico128• Anche per queste motivazioni "para-religiose" e

1 28 Sulla strutturazione rituale delle comunità pitagoriche cfr. W. Burkert, Lore


and Science, cit., pp. 1 27 e sgg . . Dubbioso, ma senza motivazioni concrete, J.
H. Philip, Pythagoras and Early Pythagoreanism, cit., p. 1 44. Sulla filosofia e
su II' importanza di questo famoso termine nel pitagorismo, ha scritto W. Burkert,
Platon oder Pythagoras ? Zum Ursprung des Wortes "Philosophie", in "Hermes",

1 54
"quasi-mistiche" il movimento creato da Pitagora si strutturò su una
base comunitaria molto riservata ed esclusiva con i caratteri pronun­
ciati di una vera e propria confraternita che, come i contemporanei
sodalizi guerrieri sui quali si reggeva l'ordinamento politico-istitu­
zionale di Sparta, culminava in una cerchia interna di 300 adepti
(lamb. v. pyth. 254; Diog. Laert. VIII, 3)129• I contorni sacrali che
senza dubbio alcuno caratterizzano il primo pitagorismo, quel parti­
colare sostrato rituale che convinceva Walter Burkert a coniare l'inu­
suale espressione "comunità pitagoriche di culto", indirizzano verso
una sorta di srmpf:ia, ("hetairia "), un tipo di raggruppamento strut­
turato a metà strada fra l'èlitaria congregazione "politico-guerriera"
e l'esclusiva comunità religiosa con basi iniziatiche del tipo che vigo­
reggiava diffusamente nell'Ellade arcaica.
Questa particolare strutturazione a sfondo iniziatico assunta dal
pitagorismo dovette essere tanto forte da convincere alcuni critici
suoi contemporanei che gli affiliati usavano attribuire a se stessi due

88, 1960, pp. 1 59- 1 77. Bisognerebbe riflettere sul valore della sintesi di philos,
che designa un particolare tipo di iniziato, e di sophia, che rivela il termine ultimo
della condizione spirituale cui aspirava ogni pitagorico. Più che un "amico della
sapienza" come indicava Cicerone (Tusc. Disp. V, 3, 8) che qui segue Aristotele
sempre attento soprattutto alle forme astratte e speculative, forse bisognerebbe
pensare al philosophos come ad un "iniziato che ha conseguito la sapienza",
una dizione che valorizza i contenuti sacri del bìos pytfwgoreios ed è più vicina
alle forme di gerarchia iniziatica assunte dal sodalizio. Qualche elemento utile
di riflessione in C. Riedweg, Pitagora, cit., pp. 1 56- 164.

1 29 Altrove Giamblico (v. pyth. 30) distingue una cerchia "interna" di 600 adepti
crotoniati e dice che i 2000 pitagorici (cfr. Porph. v. pyth. 20) che avevano
abbandonato le loro famiglie vivevano in comune e praticavano forme di culto
nelle quali la persona di Pitagora assumeva caratteri quasi divini. J. A. Philip
(Pytfwgoras and Early Pytfwgoreanism, ci t., pp. 1 40 e sgg.) pensa che in realtà
non si è mai trattato di una sorta di comunismo dei beni, ma della banalizzazione
aneddotica di una potente comunanza di visione del mondo e di destino spirituale.
Si tratterebbe di quell'unità di tradizione che ha caratterizzato profondamente i
philoi pitagorici e li ha resi particolarmente diversi dagli altri Elleni.

1 55
epiteti, qnÀo t e Etatpdot, quasi sicuramente scaturiti dal sostrato
misteriosofico dell'Ellade. I philoi furono i protagonisti di tutta una
aneddotica preservata dagli scrittori greci che ad un livello di mero
folklore esaltava l'indissolubile legame di "amicizia" o di "unione"
che stringeva gli appartenenti a questa classe di iniziati, mentre
gli hetairoi erano ritenuti i componenti della cerchia più elevata e
più vicina all'ideale contemplativo della consorteria, i veri cro<pot, i
"sophoi , i depositari della sapienza custodita dal movimento, quelli
"

che Polibio (Il, 39, l ) e Plutarco (de gen Socr. 583 A) indicano come
i membri più autorevoli dei Sinedri che governavano le città della
Megàle Hellàs. Secondo Porfirio (v. pyth. 9) solamente gli hetairoi
potevano accedere ad un riservatissimo antro (Giamblico, v. pyth. 26,
definisce un importante luogo sacro nel quale convenivano i pitagorici
Didaskaleion che molto probabilmente corrisponde all'"antro" porfi­
riano e secondo lui avrebbe avuto la forma di un emiciclo) nel quale
erano usi ritirarsi per praticare culti molto chiusi ed esclusivi assieme
probabilmente a qualche forma di meditazione cui sembra accennare
lo stesso Giamblico130•
La forma di classificazione sottesa da questi due epiteti "sacri" sembra
marcare differenti stadi o livelli rituali e "realizzativi" e rimodula in
una prospettiva forse più attenta alla dimensione esoterica del pita­
gorismo, la nota distinzione in mathematici e akusmatici che carat­
terizza con ogni evidenza più un modus essendi molto prossimo ai
confratelli di un arcaico mistero che non a quello dei militanti di
uno dei tanti schieramenti politici delle città elleniche. Secondo il
p. Festugière le due categorie di affiliati sulle quali si articolava la
struttura del movimento indicano una differenziazione non di due
impossibili "sette" come qualche sprovveduto ha ipotizzato, ma di veri
e propri livelli conoscitivi, forse una vera e propria gerarchia sacra

1 30 Cfr. E. L. Minar, Early Pythagorean Politics in Practice and Theory, New York
1 979, pp. 1 5-35. Vd. anche sotto, § 5 .

156
sulla quale sembrerebbe essersi strutturata la confraternita. Per le
loro peculiarità questi due ordini possono essere accostati addirittura
agli stadi formativi nei quali erano usi suddividersi in quel tempo le
classi sacerdotali del Vicino Oriente, quelle che avrebbero interessato
Pitagora prima del suo arrivo a Crotone e prima della strutturazione
definitiva del suo movimentoi3 1 •
L'esistenza d i due piani che distinguevano gli adepti a seconda del
loro valore spirituale può aiutare a capire anche quelle esili tradizioni
che accennano ad alcune forme iniziatiche in uso già a partire dal
più antico pitagorismo. Porfirio (v. pyth. 9) assicura che quando si
trovava a Samo, ancor prima dell'esilio e perciò durante gli anni della
formazione, Pitagora usava meditare con i suoi primi seguaci in un
antro, il simbolo della "caverna cosmica". È la raffigurazione di una
condizione rituale molto arcaica che ripete schemi sacri risalenti ai più
remoti tempi megalitici e agli usi degli asceti o di quei solitari puri­
ficatori che un tempo avevano percorso l'Ellade, ma che si ritroverà
con i medesimi significati nell'orfismo, nel dionisismo, in Platone
e fin'anche nel neoplatonismo. Porfirio addirittura scrive un'intera
operetta, il De antro nimpharum nella quale la caverna diventa il
"luogo" della manifestazione dell'Essere universale, la scaturigine di
quella sorta di "Uovo del Mondo" che contiene in potenza tutti i germi
creativi che feconderanno il cosmo, corrispondente sul piano micro­
cosmico al cuore umano quale centro e "luogo di trasfigurazione"
dell'autentica vita spirituale. Lo stesso Porfirio (v. pyth. 17) riferisce
un episodio troppo spesso considerato alla stregua di un aneddoto
agiografico, ma nel quale l'antro (="caverna cosmica") assume un
ruolo fondamentale dall'indubbio valore rituale:

1 3 1 Così A.-J. Festugière, Sur une nouvelle édition du "De vita pythagorica " de
Jamblique, in "Revue des Ètudes Grecques", 50, 1 937, pp. 470-494. Meno
sicuro e con molte perplessità L. Zhumd, Mathematici and Acusmatici in the
Pythagorean School, in K. I. Boudouris (cur.), Pythagorean Philosophy, Athens
1 992, pp. 240-249.

1 57
"Giunto a Creta [Pitagora] si avvicinò ai misteri di Morgo, uno dei
Dattili Idei, dai quali fu anche purificato con una pietra di fulmine.
Fin dall'alba si stese supino vicino al mare e di notte presso un
fiume fu incoronato con ciuffi di lana di agnello nero. Disceso poi
nel cosiddetto antro Ideo avvolto di lana nera trascorse tre volte
nove giorni rituali, fece un sacrificio a Zeus e contemplò un trono
sul quale ogni anno venivano distesi tappeti. Vi incise un epitaffio
dal titolo 'Pitagora a Zeus ' che inizia così: 'Qui giace morto Zan che
chiamano anche Zeus ' ".

Su questo brano aveva portato la sua attenzione Jane Ellen Harrison


che ne aveva evidenziato il valore e aveva creduto di poterlo acco­
stare al fr. 472 dei Cretesi di Euripide132• In questo suo testo Porfirio
elenca una serie di azioni sacre di grande interesse scaturite da un
arcaico rituale di iniziazione che coniuga elementi e simboli diversi,
ma fra questi la presenza dell'antro appare essenziale. Innanzitutto
l'ambientazione è quella dei misteri attribuiti ai Dattili Idei, gli strani
esseri divini ai quali il mito assegnava un ruolo fondamentale anche
nell'iniziazione dello stesso Orfeo e documenta, ancora, il legame
particolare di tipo rituale dell'orfismo con il pitagorismo. Segue la
purificazione con la "pietra di fulmine". Con ogni verosimiglianza si
tratta della classica pietra "caduta dal cielo", il meteorite che in tutte le
tradizioni dell'umanità ha sempre costituito il segno di una particolare
ierofania che trasforma la sede nella quale è caduto l'aerolite e nella
quale viene intronato in uno spazio sacro qualitativamente diverso da
qualsiasi altro luogo esistente al mondo. Nell'ambientazione iniziatica
del testo la purificazione con la "pietra di fulmine" indica una condi-

1 32 Cfr. J. E. Harrison, Themis. A Study of a Social Origin oj Greek Religion,


Cambridge 1 927, pp. 56 e sgg.; A. T. Cozzo1i, Euripide, Cretesi, jr. 472 N. (79
Austin), in Orfeo e l'Orfismo, ci t., pp. 1 55- 1 72; G. Casadio, /Cretesi di Euripide
e l 'ascesi orfica, cit., pp. 278-3 1 0.

1 58
zione spirituale ben precisa, quella accennata anche nella Laminetta di
Thurii (v. 5) ritrovata a Timpone Piccolo dove il tocco del "fulmine"
non è un evento fisico dalle conseguenze tragiche, ma il simbolo di
una esperienza spirituale realmente vissuta dall'iniziato orfico e tale da
designare una sorta di "gloria celeste" conseguita dal myste e rivelata
dall'apparizione della simbolica folgore del re degli dèi.
Le modalità del rituale di questi "misteri di Morgo" illustrate da
Porfirio con inusuale chiarezza prevedono una sorta di gradi o fasi
distinte: la levata all'alba nei pressi del mare forse per contemplare
il sole, l'incoronazione notturna con ciuffi di lana di un agnello nero
presso un fiume (anche alcune Laminette orfiche fanno cenno alla
"corona" del myste, all"'agnello" e all"'acqua che scorre"), la discesa
nell'antro Ideo dove l'iniziato trascorre 3 x 9 giorni (un intero ciclo
lunare) e dove sacrifica a Zeus. Infine la contemplazione del "trono"
con la notazione dei "tappeti distesi ogni anno" che evidenzia un dato
apparentemente poco rilevante, ma in grado di dare al racconto un
tono di concreta e realmente vissuta cerimonia iniziatica perché simili
paramenti sacri fanno parte anche del patrimonio liturgico di altre
culture appartenenti ad universi geografici lontanissimi. La scritta di
Pitagora conclude il rito con il richiamo a "Zan", un probabile epiteto
cultuale di Zeus Ideo col quale l'iniziato sembra doversi identificare. La
stringatezza dell'epitaffio suggerisce che possa costituire il residuo o la
sintesi di qualche particolare hièros logos la cui recitazione verosimil­
mente accompagnava il myste durante la sua "discesa" nell'antro Ideo.
Un celebre racconto di Ermippo (fr. 20 Wehrli, in Diog. Laert. VIII,
40) può completare queste tradizioni quando aggiunge che dopo
essere giunto a Crotone Pitagora aveva scavato un piccolo antro nel
quale era sua intenzione rinchiudersi per un certo tempo. Dopo la
sua riapparizione Pitagora faceva mostra di conoscere alla perfezione
gli avvenimenti che erano successi mentre si trovava dentro l'antro
raccontando, in realtà, tutto quello che la madre aveva avuto cura
di trascrivere durante la sua assenza. Nonostante il tono satirico di

1 59
Ermippo che certo non risparmia il proprio sarcasmo e verosimil­
mente banalizza simboli sacri da lui non compresi, è probabile che
l'aneddoto conservi memoria di antiche tradizioni pitagoriche ben
conosciute all'interno del movimento. Se infatti accostiamo questo
racconto di Ermippo al testo già cit. di Porfirio (v. pyth. 17) e alla
testimonianza di Ieronimo di Rodi (fr. 42 Wehrli, in Diog. Laert. VIII,
21) secondo cui Pitagora era disceso nell'Ade e qui avrebbe addirittura
visto le anime di Omero ed Esiodo tormentate a causa delle cose
inverosimili che avevano scritto sugli dèi, da questi frammenti di
una tradizione ormai incompresa sembrerebbe potersi dedurre l'esi­
stenza di antiche pratiche rituali incentrate sulla discesa nell'Ade che i
continui riferimenti alle divinità infere contenuti in alcune Laminette
confermerebbe nel modo più chiaro. Si è trattato di un filone dottrinale
molto conosciuto anche in ambito popolare tanto che persino la
commedia di Aristofonte (FCG II, p. 280 Kock) arrivò a satireggiare
quella che veniva parodiata come la felice condizione degli iniziati
pitagorici che erano usi banchettare con il re degli Inferi dopo essere
finalmente arrivati nell'Oltretomba133• E tuttavia, nonostante la fram­
mentarietà delle testimonianze e la sostanziale fugace attenzione per
queste forme dottrinali, la loro unitarietà e compattezza espositiva
permette di concludere che un rituale di descensus ad lnferos faceva
parte del patrimonio religioso pitagorico e probabilmente costituiva
un elemento importante della sua vita cultuale. Non solo, ma l'insi­
stenza dei racconti nell'attribuire a Pitagora una attività sacra connessa
ad un antro ci dice che con molta probabilità queste forme di culto
venivano celebrate in un antro almeno da parte di una esigua èlite e
si ordinavano attorno al ruolo di una dèa Madre e alla recitazione di
un hièros logos che non solo ne custodiva la liturgia, ma ne cristal-

1 3 3 Sulla questione cfr. G. Cerri, Cosmologia dell'Ade in Omero, Esiodo e Parmenide,


in "La Parola del Passato", 50, 1 955, pp. 437-467. Molto utile A. Moraglia,
L'oltretomba di Pindaro, in "Rivista di Studi Classici", 1 6, 1 968, pp. l 07- 1 14.

1 60
lizzava la dottrina nonostante la convinzione unanime che Pitagora
non avesse mai scritto nulla134• D'altronde i due dati in se stessi non
sono contraddittori. Pitagora può non aver scritto nulla, ma i rituali
che gli adepti praticavano potevano benissimo essere trascritti in un
breve testo che assumeva i caratteri di un hièros logos sul quale veniva
modulata anche la liturgia durante le sacre cerimonie.
Tuttavia, sarà nelle consuetudini pitagoriche attuate pienamente a
Crotone che emergerà per intero quel bìos pythagoreios sul quale
tanto hanno insistito le fonti. Giamblico, Porfirio e lo stesso Diogene
Laerzio (che qui sembra seguire per intero quanto tramandato da
Timeo e poi conservato all'interno di un quadro etico-filosofico
anche da Platone) elencano una serie di prescrizioni quotidiane alle
quali sottostavano gli adepti, tutto un insieme di regole che non solo
intendevano assicurare un perfetto equilibrio fisiologico ed etico, ma
dovevano introdurre al distacco dal divenire e allo stabilizzarsi in una
condizione di armonia mentale: passeggiate mattutine in solitudine,
meditazione nei templi, visita quotidiana della foreste consacrate agli
dèi, studio comunitario, offerte di incenso dall'insolita frequenza la
cui importanza è documentata anche dalle pittografie della ceramica,
libagioni sacre, banchetti rituali, sacrifici non cruenti, esercizi fisici,
parco cibo, dieta rigidamente vegetariana, lettura di testi indicati dal
più anziano, esame serale delle azioni giornaliere e delle motivazioni
interiori, ecc. Tuttavia, nell'elencazione di Giamblico (v. pyth. 96-98),
la più ampia e coerente fra quelle a noi giunte, emergono soprattutto le
prospettive eminentemente etiche del sodalizio e sembrano volutamente
essere state esclusi i cenni alle tecniche meditative, quelli ai rituali
iniziatici, le spiegazioni sulle cerimonie sacre che quotidianamente
sostanziavano l'attività del sodalizio e tutti i rimandi alla eventuale
dipendenza di queste cerimonie da alcune divinità del culto olimpico
che, come Apollo, saranno particolarmente venerate dai pitagorici di

1 34 Per tutta la questione W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 1 55 e sgg.

161
tutti i tempi. Come vedremo meglio in seguito, sarà quasi per caso,
in sparsi frammenti e vaghe indicazioni che emergeranno alcuni
fondamenti essenziali incentrati nella sfera "pratico-realizzativa" della
spiritualità pitagorica e in grado di armonizzare i ritmi respiratori
con il fondo divino custodito da Mnemosyne. Sono quegli aspetti che
hanno reso il pitagorismo non una semplice scuola di filosofia, ma un
movimento strutturato su solide basi iniziatiche e rituali.
Esisteva anche tutta una serie di symbola o akousmata ("insegnamenti
orali"), quelle "scintille di verità", come li chiama Giamblico (v. pyth.,
162) sulle quali doveva essere regolata verosimilmente la condotta
di vita del pitagorico, ma che contengono anche riferimenti precisi,
anche se ovviamente non dettagliati, al culto reso dai pitagorici ad
Apollo, ad Afrodite, ad Herakles, a Zeus, ai Dioscuri e alle Muse. Un
certo Anassimandro di Mileto detto il Giovane, un famoso commen­
tarore di Omero, aveva scritto una Esegesi dei symbola pitagorici
il cui valore probabilmente aveva potuto conoscere direttamente da
adepti del movimento, ma non è rimasto nulla di quest'opera che
tuttavia la Suda assicura aver avuto un notevole interesse. Giamblico
aggiungeva che questi symbola erano "modi d'espressione incompren­
sibili ai non iniziati e nascondevano sotto i simboli il senso delle loro
discussioni o dei loro scritti. E se questi simboli non si sceverano e
non si esaminano attentamente, e non si comprendono tramite una
seria interpretazione, le cose che in essi si dicono potranno sembrare
risibili e sciocche, non altro che sciocche ciarle. Ma se invece vengono
esplicate nella maniera conforme a questi simboli e, da oscure che
erano si rendono chiare e limpide ai molti, allora appariranno simili
a certi vaticinii e responsi oracolari di Apollo Pizio e riveleranno un
mirabile significato, inspirano un qualcosa di divino a coloro che vi
hanno meditato sù" (v. pyth. 105).
La formulazione di molti symbola sembra seguire uno schema espo­
sitivo "ad enigma" centrato su "domanda e risposta" simile a quello
presente in una grande quantità di racconti mitici del tempo arcaico sui

1 62
quali ha portato l'attenzione Giorgio Colli, e a volte mostrano con ogni
evidenza la presenza di contenuti sacri e persino di dottrine sull'aldilà.
Giamblico addirittura trova naturale meditare questi symbola come
in epoca antica si faceva con gli oracoli e i vaticini apollinei perché
considerati una forma di "rivelazione" divina. Un caso tipico potrebbe
essere quello del symbolon 18 dell'elenco dato da Giamblico (Protr. 21):
E1tl xmvtKl JlTJ Kafu:çou, "non sedere sul moggio". Siccome però xmvtKT)
può indicare anche "il mozzo" o "il cerchietto [= centro] di una corona",
seguendo la traccia fornita da Diogene Laerzio sembra possibile dedurre
un invito a non restare inutilmente al "centro", ma ad abolire ogni cura
per il futuro e a sospendere gli effetti del divenire temporale.
Tutto indica che ci troviamo davanti a residui o a frammenti ormai
senza valore concreto di antiche "memorie" che probabilmente
alle origini dovevano servire come supporti meditativi in qualche
specifico rituale i cui esatti contorni però sfuggono. Se si tengono
presenti le finalità tecnico-realizzative di molti aspetti del pitago­
rismo, sembrerebbe naturale concludere che i symbola e gli akusmata
non erano destinati a restare congelati su un piano esplicativo mera­
mente allegorico senza alcuna influenza sui ritmi interiori dell'uomo,
ma dovevano essere filtrati intuitivamente al fi ne di assimilarne il
contenuto spirituale135• Per usare una efficace immagine di Maria
Timpanaro Cardini, ogni akusma "è propriamente un detto che si
ascolta e ha valore di verità e di suggestione etica non solo per il
concetto che racchiude, ma anche per la forma in cui è espresso. È

1 35 Un elenco di queste "massime" si trova in M. Timpanaro Cardini, Pitagorici,


cit., III, pp. 244-27 1 , che ha premesso un'attenta introduzione ed ha apposto
un ricco commento. Buone riflessioni in F. Vonessen, Die pythagoreischen
Symbole, in "Antaios", 9, 1 968, pp. 284-305. Cfr. anche M. Tortorelli Ghidini,
Semantica e origine misterica dei 'symbola in "Filosofia e Teologia", V, 3, 1 99 1 ,
',

pp. 3 9 1 -395; P. Corssen, Die Schrift des Arztes Androkydes 1tEpi 1tU9ayoptKÙ:JV
<ruJl�6A.wv, in "Rheinisches Museum", 67, 1 9 1 2, pp. 240-263. Attenta disamina
degli akousmata in W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 1 66-207.

1 63
metaforico e simbolico; trae la sua forza persuasiva dal suono e dall'im­
magine evocati dalla parola; ha qualcosa della formuila magica"136•
Tuttavia, gli akousmata forniti nell'elenco di Diogene Laerzio (VIII,
17) e di Giamblico (v. pyth. 82) così come sono giunti a noi sembrano
non tanto formule sulle quali esercitare una speculazione filosofica
o magari da adattare a fini pedagogici secondo prescrizioni di tipo
precettistico, ma istruzioni ormai disarticolate e indicazioni fuoruscite
da un contesto molto più complesso di quanto potrebbe sembrare ove
ci si dovesse fermare a considerazioni semplicemente pedagogiche
fornite da qualche tardo esaltatore del pitagorismo. La stessa interpre­
tazione neoplatonica (alla quale peraltro si limiteranno quasi sempre
gli esegeti tardo-platonizzanti che ne trarranno indicazioni di natura
etica e spesso solamente di tipo superficialmente comportamentale), in
questo caso mostra limiti evidenti e spesso la sua formulazione sembra
scaturire da un sostrato aneddotico che probabilmente ha nascosto o
ignorato altri e ben più importanti elementi dottrinali.
La prospettiva essenzialmente ascetico-contemplativa che emerge
dall'esame della struttura formale del movimento contribuisce a dare
un significato tutto particolare al complesso sistema di pensiero che
ha sostanziato il pitagorismo. Come vedremo meglio in seguito, tutti
i simboli, i numeri o i princìpi primi che ne veicolano i diversi signi­
ficati, presentati sempre come la base dalla quale ha tratto consistenza
la complessa speculazione del pitagorismo, sono concepiti come il
fondamento stesso della dimensione più profonda dell'universo e dei
ritmi attraverso cui si esprime la sua vita. I numeri scaturiscono dal
mondo degli intelligibili, sono "enti" che possiedono una propria auto­
nomia ontologica, puri simboli scaturiti da una dimensione spirituale
che solo la loro successiva degenerazione in astrazioni concettuali ha
fatto diventare meri strumenti di calcolo, segni convenzionali che,
in quanto tali, avrebbero potuto essere scambiati con altri segni ove

1 36 In Pitagorici, cit. III, pp. 240-24 1 .

1 64
fossero risultati più funzionali alle fi nalità di questo o quel ricer­
catore di una Grecia ormai "illuminata". Nel pitagorismo i numeri
si configurano come "forme formanti" del cosmo e degli enti, non
hanno costituito l'oggetto di una speculazione astratta e tesa a dare i
fondamenti ad una scienza puramente empirica. Pur all'interno di un
sofisticato ed indiscutibile apparato esplicativo in grado di attingere
a tutte le risorse della ragione, sono stati presentati sempre come le
"essenze" stesse del reale, i princìpi primi che simili a quelle che
poi saranno le "idee" del sistema platonico, procedono dal "cosmo
intellegibile", il kosmos noetòs, e danno significato alla complessa
articolazione simbolica che intesse l'"essere" del mondo137•
Lo stesso rapporto del pitagorismo con l'orfismo, mai messo in dubbio
dagli Elleni durante tutta la storia culturale della civiltà classica1 38, a
cominciare da Platone (il pensatore senza dubbio più vicino ai pita­
gorici al punto da riprendere e rimodulare nel proprio sistema filo­
sofico molti simboli e strutture cosmologiche attribuite al sodalizio)
fino agli ultimi filosofi neoplatonici del V e del VI secolo d. C. che
anzi ne hanno sempre annotato con cura estrema le vicinanze, le
convergenze e persino le interconnessioni, può essere spiegato solo
come un riadattamento dell'esperienza m itico-estatica propria all'or­
fismo e la sua regolarizzazione verso le nuove forme di spiritualità, di
speculazione e di strutturazione rituale che il pitagorismo ha favorito

1 37 Sulla struttura della matematica pitagorica cfr. B. L. van der Waerden, Die
Arithmetik der Pythagoreer, in "Mathematische Annalen", 1 20, 1 947-49, pp.
1 27- 1 5 3; pp. 676-700; W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 40 1 -48 1 , che
mostra anche le radici sacre della scienza pitagorica.

1 3 8 Cfr. le pacate riflessioni di W. K. C. Guthrie, Orphée et la religion grecque, cit. ,


pp. 24 1 -246. Cfr. anche le indicazioni di M. L. West, The Orphic Poems, cit.,
pp. 40 e sgg.; A. Barbera, Republic 530c-53Jc. Another Look at Plato and the
Pythagoreans, in "American Journal of Philology", 102, 1 98 1 , pp. 395-4 1 0 ;
F. Casadesùs, Orfismo y Pitagorismo, i n A. Bernabé- F. Casadesùs, Orfeo y la
tradici6n 6rfica, ci t., pp. l 053- 1078.

1 65
ed attuato. Se per es. si studiano solamente alcuni dei diversi ambiti
che hanno fortemente caratterizzato ambedue questi movimenti, ci
si accorge che molti elementi mitico-rituali dell'orfismo sembrano
convergere "naturalmente" verso le forme dottrinali che il pitagorismo
ha sistematizzato attorno ad una solida base simbolica:

Orfismo Pitagorismo

apollinismo apollinismo
Orfeo "figlio di Apollo" Pitagora "voce" o "incarnazione" di Apollo
Dioniso prototipo rituale del kouros = fanciullo
canto e musica incantatrice musica trasfigurante
perfezione parusiaca ed originaria armonia delle sfere
estasi arcaica trasfigurazione e metodologie meditative
asceti solitari iniziati
tradizione spirituale confraternita iniziatica
purificazione e incantesimi medicina pitagorica
cosmogonia dottrina del kosmos
mitologia simbolismo sacro
simboli cosmogonici numerologia, numeri = archetipi del reale
vegetarianismo ascesi e proibizione dei sacrifici cruenti
le due "vie" dell'oltretomba simbolismo della lettera Y
discesa nell'Ade per riprendere rituale di descensus ad Inferos
Euridice

1 66
4. Il Pizio

All'interno di questo generale fenomeno di riadattamento delle antiche


forme mistico-estatiche dell'Ellade si colloca con forza non solo l'at­
tività di Pitagora, ma anche l'azione dottrinale, politica e spirituale
di tutto il sodalizio che a lui si richiamava. Legato strettamente come
pochi altri movimenti religiosi al dio Apollo, al culto di questo dio e
alle multiformi tradizioni che ricevevano consistenza dall'omphalos
di Delfi (Aristosseno arriva addirittura ad affermare che "Pitagora
ricevette la maggior parte dei precetti morali da Temistoclea, sacer­
dotessa di Delfi"; fr. 15 Wehrli), il movimento pitagorico ha il proprio
jloruit significativamente quando nell'Ellade anche il Vate-theologos
Pindaro, considerato da molti studiosi come un poeta molto vicino
all'orfismo e comunque come un conoscitore attento delle sue dottrine,
inneggia ad Apollo come al dio che massimamente custodisce la luce
celeste, l'armonia cosmica e la divina conoscenza139•
Già nelle fonti più antiche Pitagora venne correntemente considerato
una manifestazione dell'Apollo Iperboreo e persino Aristotele ritiene
veritiera questa tradizione, nonostante non abbia mai lesinato critiche

1 39 Cfr. St. Anastase, Apollo dans Pindare, Athene 1 975; G. Méautis, Pindare
le Dorien, Neuchiìtel 1 962; H. Lloyd-Jones, Pindar and the Afterlife , in
Pindar, "Entretiens sur l' Antiquité Classique XXXI", Vandeuvres-Genève
1 985, pp. 245-283. Sempre valido il vecchio, buon H. Gundert, Pindar und
sein Dichterberuf, Frankfurt am Main 1 935. Sul rapporto Apollo-Pitagora
cfr. K. Kerényi, Pythagoras und Orpheus, cit., § 3; R. Schottlaender, Apollon
und Pythagoras, in "Zeitschrift fiir philosophische Forschung", l O, 1956, pp.
333-35 1 . Più in generale, M. Giangiulio, Sapienza pitagorica e religiosità
apollinea, in A. Cassio-P. Poccetti (curr. ), Forme di religiosità e tradizioni
sapienziale in Magna Grecia. Atti del Convegno, Napoli 1 994, pp. 9-27, che
delinea con chiarezza i diversi ambiti rituali e dottrinali nei quali si precisa il
rapporto della religiosità apollinea con il pitagorismo.

1 67
o pungenti ironie a molti aspetti della speculazione pitagorica. Il suo
nome veniva ricondotto correntemente ad una base etimologica arti­
colata su I1ufuoç e ayopEDEtv, perciò Pitagora era considerato "colui
che proclama [la verità] del Pitio" (Aristippo IV, A 1 50, in Diog.
Laert., VIII, 2 1), e la tradizione poté presentarlo a volte come un
discendente di Apollo, altre come il veicolo di una rivelazione divina
o la "voce" del dio, altre ancora come la stessa incarnazione di Apollo.
Se si considera la famosa leggenda secondo cui Pitagora non aveva
mai scritto nulla alla luce della tradizione dell'Apollo Pizio, si potrà
facilmente dedurre che da un punto di vista spirituale questa attitudine
può significare solamente che la sua dottrina veniva rivelata come
l'equivalente di un responso oracolare di tipo apollineo: intendeva
interpretare il significato del mondo e svelare il volere degli dèi.
Persino la fondazione della città di Crotone, la colonia achea che
come si è visto diverrà la sede più importante della confraternita e
il cui ordinamento aristocratico acquisì caratteri che ne facevano il
riferimento ideale per ogni pitagorico, si riteneva fosse stata edificata
sotto la protezione di Apollo e perciò in qualche modo assumeva
anche aspetti di una vera e propria città ordinata secondo ordinamenti
"esemplari". È quanto ricorda Giamblico (v. pyth., 52) dicendo che
nel suo discorso tenuto ai giovani Pitagora richiamò puntigliosamente
il ruolo fondamentale assunto alle origini di Crotone dal dio Apollo
nella sua qualità di dio della giovinezza e di protettore delle ondate
migratorie che andarono a fondare le colonie, e la sua promessa di
assicurare al fondatore della città una discendenza durevole140• Nella
sua enciclopedica analisi della sapienza pitagorica Vincenzo Capparelli

1 40 Cfr. M. Giangiulio, Ricerche su Crotone arcaica, Pisa 1989, pp. 79-92; pp.
1 3 1 - 1 60. Più in generale può essere utile M. Isnardi Parente, Pitagorismo di
Crotone e Pitagorismo accademico, in "Archivio storico per la Calabria e la
Lucania", 62, 1 995, pp. 5-25, che però insiste troppo su una pretesa "filosofia"
pitagorica diventata l 'equivalente delle vane speculazioni che percorrono le
Università moderne.

1 68
ha addirittura ipotizzato che il nome della città di Croton possa essere
accostato all'etrusca Cortona l Cyrtonium, alla Cyrtone di Boezia,
alla Cortina o Gortyna di Creta, ecc., una cintura di città ricolle­
gabili ad un sottofondo pre-storico scaturito molto probabilmente dalla
cosiddetta civiltà indo-mediterranea il cui ciclo storico ha preceduto
l'arrivo degli lndoeuropei nel vastissimo arco delle terre che vanno
dall'Europa all'India. Il loro nome riconduce al significato di "recinto",
"luogo chiuso", quasi sicuramente un adattamento ad hoc di un arcaico
omphalos sacro141 del quale ognuna di queste città verosimilmente
riteneva di costituire un riflesso particolare. Da un punto di vista
puramente simbolico si è perciò portati a pensare che Pitagora avesse
stabilito la sede del movimento non casualmente a Crotone, come
troppo spesso alcuni hanno potuto credere, ma mosso dalla precisa
volontà di posizionarsi in una sede che per i suoi legami con il culto di
Herakles e con quello di Apollo si mostrava ricca di sacri rimandi ad
una veneranda autorità spirituale che probabilmente era ritenuta ancora
vitale ed operante anche attraverso le sue famose scuole di medicina e
di atletica. È probabile che agli occhi di Pitagora Crotone costituisse
una sorta di arcaico santuario, un umbilicus mundi dal quale poteva
trarre alimento anche la nuova tradizione che da lui emanava.
È nota la leggenda della "coscia d'oro" di Pitagora che lo fece ricono­
scere da quel particolare estatico e "quasi-sciamano" che fu Abaris
come una indubitabile incarnazione di Apollo lperboreo dopo che
questo straordinario sacerdote apollineo era arrivato in Grecia dal
nord del mondo, dalla mitica lperboride effettuando il suo lungo
viaggio su una freccia, esattamente come è uso fra i rituali di alcuni
particolari sciamani siberiani. Tutta una ricca aneddottica fiorì

1 4 1 V. Capparelli, La Sapienza di Pitagora, cit., p. 5. Sulla storia di Crotone resta


importante M. Giangiu1io, Ricerche su Crotone arcaica, Pisa 1 989. Cfr. anche
A. Mele, Crotone e la sua storia dalle origini all 'età romana, in Omaggio a
Crotone, Crotone 1 992, pp. 1 9-57.

1 69
attorno a questo elemento così caratterizzante e lo stesso Aristotele
nel suo libro sui Pitagorici ricorda che addirittura "una volta mentre
[Pitagora] sedeva a teatro, si alzò e agli spettatori seduti mostrò che la
sua coscia era d'oro" (fr. 191 Rose). Nella sua articolazione simbolica,
morfologica e linguistica l'aurea "coscia" (= !lTJPOç;; cfr. le similitudini
di questo termine greco con la radice da cui si forma il scr. Meru, la
"montagna polare" che nel simbolismo dei Purana assume un impor­
tante ruolo per il tipo di orientamento "polare" introdotto nei rituali
che vi si legano e per la determinazione delle diverse "stazioni" celesti
che il sole va a toccare nel suo percorso sidereo) sembra poggiare
sullo stesso ambito dottrinale che sostanziava l'omphalos delfico e,
ovviamente, rimanda ad alcuni dei diversificati aspetti del culto dell'I­
perboreo Apollo e alla preminenza assegnata ai riferimenti astrali
centrati sul polo. Questa enigmatica tradizione che come poche altre
ha caratterizzato la leggenda di Pitagora, pare essere scaturita da un
fondo religioso molto antico che Pitagora senza dubbio alcuno ha
ereditato dall'orfismo, come mostra questo passo di Euforione (fr. 36
Kern) che fa cenno proprio ad un Orfeo "nato dalla coscia":

"La prima di queste nascite [di Orfeo] è quella dalla madre, la seconda è
quella dalla coscia (EK roti !lTJPOD), la terza accade quando ritorna in vita
dopo essere stato fatto a pezzi dai Titani e dopo che Rhea ne ricompose
le membra. Nella Mepsopìa Euforione riferisce questa versione e sostiene
che Orfeo si trova nell'Ade e il tempo scorre per intero".

Euforione è una fonte autorevole. Scrisse una serie di opere al limite


fra la "teologia" e il racconto mitico che ebbero un ruolo importante
nel trasmettere alle èlites culturali che si formarono attorno all'im­
peratore Augusto molta parte del patrimonio leggendario e misterio­
sofico dell'Ellade. Le sue conoscenze sul mondo orfico erano vaste e
in parte affiorano in molti punti delle Bucoliche virgiliane e nell'elegia
latina del periodo imperiale. La sua influenza sui poeti latini di quel

1 70
tempo fu amplissima e persino le Dionisiache del più tardo Nonno
di Panopolis sono impensabili senza valutare con attenzione il suo
celebre componimento sul dionisismo.
I fondamenti simbolici della strana attenzione alla "coscia d'oro"
sono certamente accostabili a quelli della leggendaria nascita di
Dioniso dalla "coscia" di Zeus con la quale probabilmente si sono
voluti valorizzare contenuti cosmologici identici a quelli contenuti
nella leggenda pitagorica. Questo straordinario simbolo che percorre
con le stesse modalità la leggenda di Dioniso, di Orfeo e di Pitagora
sembra rimandare ad un fondo mitico antichissimo ove si tenga a
mente che anche nell'Egitto antico per le stesse motivazioni simbo­
liche centrate sul polo celeste la costellazione polare della "Grande
Orsa" era chiamata "costellazione della Coscia". Nella sua essenzialità
il richiamo all'enigmatica "coscia d'oro" non è altro che un aspetto
particolare della ben più conosciuta dottrina dell'axis mundi e dell'o­
rientamento "polare" che ha percorso molti cicli mitologici orientati
attorno al culto di Apollo, e ha rimodulato attraverso la nozione di
umbilicus mundi un altro aspetto del simbolismo che considerava la
sede di Delfi una raffigurazione dell'omphalos, un riflesso del "centro
del mondo''142 • È lo stesso simbolismo che ritorna nei testi omerici, là
dove viene ripetutamente fatta menzione della "Terra del Sole", la sede
divina che secondo alcune tradizioni elleniche si trovava in cima alla
"montagna cosmica" posta in una terra a nord del mondo nella quale
Apollo, "splendente come l'oro", era uso risiedere frequentemente.
Giamblico (v. pyth., 25; 33) e Diogene Laerzio (VIII, 13) aggiungono
ancora che Pitagora era considerato un devoto frequentatore del tempio

1 42 Su questi problemi cfr. M. L. Morgan, P/atonie Piety. Philosophy and Ritual in


Fourth-Century Athens, New Haven -London 1 990, pp. l 06 e sgg. Sul rapporto
fra Platone e il pitagorismo cfr. W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 83-96. Per
quanto riguarda le implicazioni e i rnitologhemi che in qualche modo possono
essere rapportati alla leggenda della "coscia d'oro", cfr. A. Dieterich, Nekya,
cit., pp. 38 e sgg.

171
di Apollo Genitore eretto nell'isola di Delo. Si tratta di una famosa
epiclesi apollinea nel cui culto erano totalmente vietati i sacrifici cruenti
e le usuali ecatombi di animali, perciò in modo eminente col proprio
rigorismo rappresentava la dimensione divina di alcuni degli aspetti più
noti e caratteristici del bìos pythagoréios: l'orrore del sangue, il divieto
del sacrifico di animali, la purità rituale assoluta (hagneia), il vegeta­
rianismo, I'apsycha (il nutrirsi di alimenti nei quali "non era stata la
vita"). Sono tutti aspetti che ognuno sul proprio piano riflettevano una
condizione immacolata, la stessa che secondo Empedocle così vicino
al mondo orfico e a quello piatagorico, riteneva fosse appartenuta all'u­
manità delle origini143• Il culto di Apollo Genitore evidenziava così
la scaturigine di quelle che il pitagorismo considerava le ineliminabili
cerimonie di purificazione in grado di veicolare una precisa "qualità"
divina, la stessa che si svelava anche nella perfezione celeste e nell'ar­
monia cosmica.
Un problema a parte è quello che tocca le cosiddette "vite prece­
denti" di Pitagora, una leggenda che ha permesso tutta una serie di
illazioni sulla dottrina della metempsicosi quale patrimonio tipico del
pitagorismo che andava a toccare la stessa esistenza del Fondatore. Il
passo più chiaro e completo che sintetizza tutta la questione è quello
di Eraclide Pontico, un filosofo accademico che Sozione considerava

1 43 Questi aspetti del bìos pythagoreios e l ' ambientazione complessiva che ne


giustifica la forza di espansione, si trovano studiati in G. Sfameni Gasparro,
Critica del sacrificio cruento e antropologia in Grecia. Da Pitagora a Porfirio.
l. w tradizione pitagorica, Empedocle e /'orfismo, in F. Vattioni (cur.), Sangue
e antropologia. V. Riti e culto, Roma 1 987, (pp. 1 07- 1 55), pp. 1 07- 1 34. Per
i l legame di Pitagora con Apollo Genitore, cfr. L. Bruit Zeidman, w pieté
pythagoricienne et /'Apo/lon de Délos, in "Mètis", 1 -2, 1 993, pp. 26 1 -269
(su Apollo Genitore pp. 264 e sgg.); Id., Sacrifices à Delphes. Sur deux
figures d'Apollon, in "Revue de I ' Histoire des Religions", 1 984, pp. 339-367;
M. Detienne, l giardini di Adone, Torino 1 975, pp. 51 e sgg. Sul valore del
vegetarianismo pitagorico resta valido J. Haussleiter, Der Vegetarismus in der
Antike, Berlin 1935, pp. 97- 1 57.

1 72
senza dubbio alcuno un pitagorico o almeno molto vicino al movi­
mento: "Pitagora raccontava che un tempo era stato Etalide, figlio di
Hermes. Poi la sua anima passò in Euforbo e quando Euforbo morì
l'anima passò in Ermotimo. Quando Ermotimo morì passò in Pirro,
un pescatore di Delo. Quando anche Pirro morì passò finalmente in
Pitagora che si ricordava di tutte queste vicende" (fr. 89 Wehli, in Diog.
Laert. VIII, 4). La tradizione di queste "vite precedenti" è stata raccolta
da un gran numero delle fonti a noi pervenute, anche se con qualche
variazione aggiunta dai soliti critici che ironizzavano su tutto, ma che
comunque non tocca il fondamento del problema. La testimonianza
di Eraclide Pontico sembra radunare una serie di racconti di vario
valore, probabilmente ancora circolanti all'interno dell'Accademia, ai
quali tenta di dare ordine per spiegare quella che comunque restava
una delle più celebri dottrine pitagoriche144•
Secondo la tradizione, la durata di ogni incarnazione di Pitagora

1 44 Dopo Erwin Rohde le fonti sono state esaminate da A. Delatte (La vie de
Pythagore de Diogène Lnerce, Bruxelles 1 922, pp. 1 54- 1 59) e più recentemente
da W. Burkert (Lore and Science, cit., pp. 1 3 8- 1 4 1 ). Il problema della
metempsicosi è stato studiato con attenzione da G. Casadio, Ln metempsicosi
tra Orfeo e Pitagora, in P. Borgeaud, Orphisme et Orphée, cit., pp. 1 1 9- 1 55,
che riporta con cura filologica d'altri tempi tutti i brani di qualche interesse
sulla questione. Cfr. anche O. Skutsch, On the Metempsychosis, in "Classica!
Philology", 54, 1 959, pp. 1 1 4- 1 1 6; E. Ehnmark, Transmigration in Plato, in
"Harvard Theological Review", L, 1 957, pp. l e sgg. Nella sua troppo rapida
brochure Karoly Kerényi (Pythagoras und Orpheus, 3" ed. Amsterdam 1 950)
riteneva molto dubbia la presenza della metempsicosi nel pitagorismo. Ne hanno
negato decisamente l'esistenza prima W. Rathmann, Quaestiones Pythagoricae
Orphicae Empedocleae, Halle 1 933, pp. 3- 1 1 ; poi con più dottrina A. Maddalena,
l Pitagorici, Bari-Roma 1 954, pp. 3 1 7-364. Sul problema vd. anche K. von
Fritz, Ecrrpiç EKatÉprofu in Pindar s Second Olympian and Pythagoras ' Theory
of Metempsychosis, in "Phronesis", II, 1 957, pp. 85-89; H. S. Long, A Study
of the Doctrine of Metempsychosis in Greece from Pythagoras to Platon, diss.
Princeton 1 948, che nella sua breve dissertazione (pp. 93) ritiene di poter provare
che è stato Pitagora ad introdurre in Grecia questa teoria. Long è un allievo di
l. Linforth dal quale ha ereditato tutta la caratteristica chiusura anti-orfica.

1 73
avveniva ogni 216 anni. Non si tratta di un numero casuale, ma di una
cifra scaturita dall'aritmosofia pitagorica: 6 x 6 x 6 = 2 16, un numero
che proprio per la sua caratteristica di cubo del 6 appartiene ai solidi
sferici, quella categoria di raffigurazioni alla quale venivano attri­
buite particolari virtù di perfezione e di palingenesi. Come dimostrò
i l vecchio, buon A. Delatte, in questo tipo di calcolo il 6 veniva
considerato una vera e propria "potenza vitale" ('l'uxrocrtç) e perciò
simbolizzava la processione creatrice della serie numerica perché era
ottenuto dalla somma dei primi 3 numeri, quelli con i qual i si dà
inizio ad ogni computo: l + 2 + 3 = 6. Nella Theologia arithmetica
per spiegare che le incarnazioni di Pitagora avvenivano ogni 216 anni
si dice che il valore di questo numero sta nel fatto che le virtù creative
attribuite all'uno, al due e al tre venivano a trovarsi cristallizzate nel 6,
"il numero rigeneratore della vita e insieme 'ricorrente' a causa della
sua natura sferica" (Th. Arith., 52). È una vitalità e una creatività che
il simbolismo pitagorico traduceva attraverso la teoria dell'anima che
reincarnandosi in un ciclo senza fine ne spegneva l'anelito sovranna­
turale e arrestava ogni tensione verso la liberazione dal divenire. Ma
c'è di più. Assieme al 6, 36, 72, 432, ecc., 216 è anche un sottomultiplo
dell'importante numero ciclico 25920 che è la cifra dell'intera durata
della precessione degli equinozi. In effetti, la dodicesima parte di
25920 dà esattamente 2160 (= 216 x 10) che contrassegna un "mese
cosmico" ottenuto attraverso la divisione per 1 2 dell'"anno cosmico"
di 25920. Questo importante numero ciclico "misura" il tempo che
impiega il punto vernale per indietreggiare di l grado in 72 anni fino
a percorrere tutto il cerchio cosmico tornando a O gradi. E poiché il
cerchio cosmico è di 360 gradi, il tempo occorrente è esattamente
quello di 360 x 72 = 25920. Torneremo su questi aspetti della rota­
zione del cerchio cosmico e sulla durata dei cicli celesti che ne deri­
vavano, per adesso basta segnalare il legame fondamentale dei 216
anni delle "vite precedenti" di Pitagora con il simbolismo ciclico così
caratteristico del suo movimento.

1 74
La prima "incarnazione" della lista di Eraclide Pontico è quella di
Etalide145• Figlio del dio Hermes, aveva avuto dal padre il potere di
una memoria prodigiosa che gli permetteva non solo di ricordare
infallibilmente le cose accadutegli, ma anche di conoscere con sicu­
rezza gli accadi menti dell'Oltretomba. Fu sempre considerato un
arciere infallibile e, come il padre Hermes, era un araldo straordi­
nario. Proprio per queste sue caratteristiche di "voce" del dio della
parola e della scrittura poté essere ammesso accanto ad Orfeo fra gli
Eroi che dovevano partecipare alla spedizione degli Argonauti.
Su Pirro si ha solo la notizia del suo mestiere di pescatore a Delo,
un esile indizio che tuttavia ha permesso di ipotizzare che il perso­
naggio possa essere scaturito dal sostrato spirituale molto articolato
che contorniava il culto apollineo146• Da parte sua Ermotimo è uno
straordinario personaggio le cui caratteristiche sembrano collocarlo
al limitare della leggenda e della storicità. Plinio (H. N. VII, 174; cfr.
Plut. De gen. Socr. 22) racconta un aneddoto che lascia intendere
una sua appartenenza ad ambiti misteriosofici molto precisi. Poiché
Ermotimo usava distendersi durante i frequenti esercizi praticati per
permettere alla sua anima di staccarsi dal corpo, la moglie infedele
ne profittò per bruciare il corpo del marito e così impedire che la sua
anima potesse "tornare" e ridare "vitalità" a quell'uomo aborrito.
È molto probabile che il racconto riduca ad un livello di divertente
aneddoto la realtà nella quale operavano quegli iatromanti ed estatici
che percorrevano l'antica Grecia e che spesso ruotavano attorno ai
santuari di apollinei. Se nonostante le fortissime similitudini sostan­
ziali è forse improprio parlare in questo caso di una forma di sciama­
nesimo, è comunque certo che ci troviamo di fronte a tecniche esta­
tiche che intendevano "staccare" l'anima dal corpo e rendere possibile

1 45 Cfr. J. Nishimura-Jensen, The poetic of Aethalides. Silence and poikilia in


Apollonius 'Argonautica, in "Classica! Quarterly", 48, 1 998, pp. 35-65.

1 46 W. Burkert, Lore and Science, ci t., p. l 38 n. ! 04.

1 75
all'anima dello iatromante di effettuare quei "viaggi celesti" sui quali
insistono molti miti che sottendono un importante simbolismo sulla
realtà spirituale e sulla liberazione dal divenire.
La quarta incarnazione della l ista di Eraclide Pontico, forse la più
celebre e rivelatrice che verrà ricordata per la sua importanza da tutte
le testimonianze, è quella di Euforbo, un nome che secondo alcuni
studiosi sarebbe composto da eu + phorbos (da pherbo) col significato
di "colui che [usa] un buon cibo", "il ben nutrito" (eu-phorbìa è }'"ab­
bondanza di nutrimento"), forse come una allusione alla dieta equi­
librata e all'austero stile di vita fortemente caratterizzante i membri
della confraternita pitagorica. Diodoro Siculo (X, 6, l ; cfr. Callim.,
frr. 191 e 59-63 Pfeiffer) considerava Euforbo l'unica veritiera "vita
precedente" di Pitagora. Callimaco addirittura ritiene che fosse stato
il "frigio Euforbo" ad elaborare lo schema-base di alcuni simboli
geometrici fra i quali ricordava lo stesso famoso teorema di Pitagora.
Il padre di Euforbo era un sacerdote di Apollo dal nome Panthoos
mentre la madre si chiamava Phrontis. Omero ricordava che era stato
un eccellente guerriero durante la guerra di Troia e assicurava che era
stato proprio lui a ferire mortalmente Patroclo prima di essere a sua
volta abbattuto dal furioso Menelao. Per quanto stringato, il racconto
omerico permette di collocare Euforbo all'interno di una ambien­
tazione apollinea perché sia il sacerdozio paterno che la sua stessa
partecipazione alla guerra di Troia nello stesso schieramento sostenuto
dal dio Apollo indica con una certa sicurezza una sua appartenenza
all'ambito della religiosità apollinea147•
Nel Lithikà (= Lapidarium), un poemetto apocrifo attribuito ad Orfeo
e reso celebre dalla pubblicazione nel 1876 curata da J. Grossmann, ma

1 47 Seguiamo W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 1 40- 1 4 1 ; K. Kerényi, Pytlwgoras
und Orpheus, ci t. p. 1 9. Cfr. M. Hendry, Pythagoras ' Previous Parents. Why
Euphorbus ?, in "Mnemosyne", 48, 1 955, pp. 2 1 0 e sgg.; Mtih1enstein, Euphorbos
und der Tod des Patroklos, in "Studi micenei ed egeoanatolici", 1 5 , 1 972, pp.
79-90.

1 76
ritenuto molto poco "orfico" da tutti i critici, si trovano elementi mitici
che possono aiutare a capire strutture narrative altrove perdute. Qui
Euforbo viene presentato con i lineamenti di un bellissimo fanciullo
(che è una tipica "ambientazione" apollinea), figlio di Bukolion e
della ninfa Abarbarea. Si diceva che persino Melanippo, uno dei
figli del re Priamo, durante la guerra di Troia si era innamorato di
questo straordinario e bellissimo fanciullo. Cacciatore insuperabile,
Euforbo era diventato un discepolo dell'indovino apollineo Eleno che
gli donò come segno della dignità oracolare una pietra di ofite con la
quale poteva allontanare i serpenti ed esercitare i suoi poteri di guari­
gione trasmessigli dalla madre. Gli straordinari attributi di Euforbo
sono tutti aspetti che emergono da un ambito culturale apollineo: la
giovinezza, la bellezza, l'arte della caccia che in epoca arcaica costi­
tuiva un rituale di iniziazione guerriera, la dimensione oracolare, la
medicina sacra, il potere di cacciare i serpenti che forse riadattava in
una prospettiva taumaturgica un aspetto del mito di fondazione del
santuario di Delfi, quello che narrava l'impresa del dio Apollo intento
ad uccidere il serpente Pitone.
Ma c'è di più. Bukolion, il padre dell'eroe, ha un nome che scaturisce
con ogni verosimiglianza non dai pastori di un mondo idilliaco, ma
dagli iniziati delle confraternite degli apollinei bukoloi che secondo
Joseph Veremans dell'Università di Gand, a Roma ruotavano attorno
a Pollione. In un suo denso l ibretto il prof. Veremans ha dimostrato
che il mondo culturale che si è svelato nei nova carmina di Pollione
e nella sua cerchia poetica assumeva sempre un carattere esoterico,
una sorta di "religione segreta" che mentre valorizzava il più arcaico
mondo rituale latino-italico, affondava le proprie radici nel plato­
nismo, nel pitagorismo e nel simbolismo spirituale che si è rivelato
in queste correnti spirituali nel modo più profondo. Non solo, ma
questo sostrato dottrinale e sacrale dà significato anche all'importanza
assunta dallo stesso Pollione all'interno di questa cerchia di bukoloi,
un'importanza che considerati i pochissimi suoi frammenti letterari

1 77
rimasti potrebbe sembrare persino eccessiva, ma acquista significato
se lo si considera come colui che, all'interno di quella che appare
come una sorta di primitiva confraternita "pastorale", ha rivalutato il
sostrato incantatorio dei carmina, i sacri inni che da sempre hanno
costituito un aspetto fondamentale dei rituali latino-italici. Ed è questo
aspetto da "archegeta" a spiegare l'altra stranissima particolarità legata
sempre alla sua persona, il fatto che quando viene nominato dai poeti
"bucolici" suoi confratelli Pollione è sempre connesso con la mitica
età aurea e con il rinnovamento del mondo. Nella sua essenzialità,
si tratta di una tradizione sacra testimoniata dai canti rituali delle
arcaiche confraternite giovanili legate in modo speciale ai culti
dell'Artemide dorica e di Apollo che si è continuata sino ad un'epoca
relativamente recente soprattutto nelle colonie doriche siciliane. Non
solo, ma questi bukoloi erano conosciuti anche per la loro particolarità
di radunarsi attorno al culto sviluppatosi in vicinanza dei numerosi
santuari di un poco conosciuto Apollo Pastore che enigmaticamente
riproduceva alcune ben conosciute forme estetiche del cantore Orfeo
mentre incanta la natura e si troverà come riferimento costante sia nei
bukoloi dell'età augustèa che in alcuni componimenti di un poeta-vate
straordinario come il Virgilio delle Bucoliche148•
Da parte sua Abarbarea è una madre tutta particolare. In quanto ninfa
appartiene alla sfera divina che autorizza la loro presenza perenne
negli antri, nelle fonti e nei boschi. Da questo mondo nascosto e
primordiale Abarbarea ha potuto ereditare la conoscenza dei segreti
della medicina e delle pietre sacre la cui sapienza poi il figlio tenterà
di trasmettere all'indovino Elena. Il suo nome è un composto che si
articola con ogni evidenza sulla base Abari/bar che riprende con ogni

1 48 Per tutta la questione cfr. N. D' Anna, Mistero e Profezia. La IV egloga di Virgilio
e il rinnovamento del mondo, Cosenza 2006, (IVcap. 2: "Veggenti, Pastori e Muse
Sicule"), pp. 1 23 - 1 48 ; J. Veremans, Eléments symboliques dans la troisième
bucoliques de Virgile, Bruxelles 1 969.

178
evidenza quello del famoso messaggero apollineo Abaris, l'estatico
che proveniva dall'Iperboride ed era giunto in Grecia effettuando su
una simbolica freccia il suo lungo viaggio dai forti caratteri scia­
manici. Non solo, ma nel suo nome la ninfa sembra contenere anche
l'attributo più famoso di Abaris poiché la seconda parte del nome
adatta un facile tema bar/bar per esaltare la sua connessione con
Borea, il Nord, l'Iperboride dei miti apoll inei, la terra originaria
che molte leggende consideravano una sorta di Paradiso perduto, la
"potenza creativa" che come un "Albero della Vita" regge e sostiene
il cosmo. Sono tutti dati che consentono di affermare non solo che la
ninfa Abarbarea presenta tutti i tratti di una controparte femminile
del sacerdote apollineo Abaris l'Iperboreo, ma rivelano nel modo più
chiaro l'appartenenza di Euforbo, questa "incarnazione" di Pitagora
da tutti i critici antichi ritenuta indubitabile, al fondamento spirituale
che sostanziava i rituali di Apollo, alle sue radici nordico-iperboree
e alle molte forme di culto che si erano sviluppate attorno alla figura
di questo straordinario dio della luce e della conoscenza.
Come si vede, l'esame del la complessità dottrinale dei dati che
concernono le quattro "vite precedenti" di Pitagora, così come l'at­
tenzione sempre posta sulla sua straordinaria memoria e su tutto il
contesto "mnemosynico" che quanto prima esamineremo, non auto­
rizza a concludere sulla eventuale realtà delle tanto discusse "incar­
nazioni" di Pitagora. Lungi dall'essere personaggi mitici resi viventi
dall'anima di Pitagora che vi si sarebbe incarnata in un ciclo senza
fine, come afferma con troppa sicurezza la vulgata razionalistica
trionfante in Grecia a partire dal tempo della sofistica e accettata acri­
ticamente da molti studiosi moderni, le "vite precedenti" di Pitagora
appaiono non come "incarnazioni", ma vere e proprie funzioni spiri­
tuali scaturite dalla sfera apollinea (perciò Pitagora era considerato
una sorta di "inviato" del dio Apollo) che di epoca in epoca e seguendo
addirittura alcuni aspetti dei postulati ciclici così caratteristici del
movimento, si svelano nella storia per adempiere un preciso compito.

1 79
Anzi, utilizzando l'ormai ampiamente conosciuta terminologia delle
dottrine buddhiste tibetane, da millenni attentissime nel chiarire il
significato più vero delle teorie reincarnazionistiche, si può affermare
che qui si tratta di vere e proprie essenze spirituali scaturite dal sotto­
fondo apollineo che in Pitagora sembrerebbero emergere nel modo
più compiuto.
È in quest'ambito che può essere ricondotta la vexata quaestio dello
sciamanesimo di Pitagora la cui complessità ha sempre diviso gli
specialisti, ma che alcuni hanno riduttivamente preso in considera­
zione solo per cercare di spiegare le origini della teoria della metem­
psicosi149. In realtà, il problema si è posto principalmente cercando
di dare significato non tanto al sistema dottrinale, quanto alla sua
condizione di "uomo divino" e alle origini degli straordinari poteri
che la tradizione gli ha sempre attribuito: predizione del futuro, divi­
nazione, conformazione speciale dei sensi (che serviva però a dare
un minimo di spiegazione "empirica" alle sue percezioni sovrumane
ormai diventate incomprensibili nell'èra puramente razionalistica
dell'Ellade), dominio sugli animali spesso incantati "orficamente"
dalla sua voce, capacità di "comunicare"con alcuni animali ognuno
dei quali era considerato il veicolo della spiritualità di un determinato
santuario (a Taranto il bue sacro alla dèa Hera, l'aquila di Zeus ad
Olimpia, l'orsa Daunia ad Artemide, ecc.), potere sugli elementi,
discesa nell'oltretomba, ubiquità, reincarnazione, "memoria" delle

1 49 Dopo le ipotesi pionieristiche di K. Meuli e E. R. Dodds, il più attento studioso del


problema è stato W. Burkert, Weisheit und Wissenschaft. Studien zur Pythagoras,
Philolaos und Platon, Niirnberg 1 962, pp. 98- 1 42. Nella successiva versione
inglese del suo libro W. Burkert (Lore and Science, cit., pp. l 20- 1 65) ha rivisto
la propria tesi e ne ha dato una versione più "morbida". Un'attenta analisi della
questione ha fatto A. Maddalena, Pitagora sciamano ?, in "Rivista di Filologia
e di Istruzione Classica", 92, 1 964, pp. 1 03- 1 1 7. Uno studio dei molti aspetti
dello "sciamanesimo" presente nella Grecia pre-olimpica si trova in E. A. S.
Butterworth, Some Traces ofthe Pre-Olimpian World in Greek Literature and
Myth, Berlin 1 966 (c. IV: "Shamanism"), pp. 1 35- 1 73.

1 80
proprie vite passate, conoscenza delle vite precedenti degli inter­
locutori, abolizione del tempo, capacità di accompagnare le anime
nell'aldilà, ricerca della solitudine, rigido ascetismo, astensione dalle
carni, purificazione, proibizione dei rituali cruenti, ecc. La stessa
leggenda della sua discesa nell'Ade su cui si è già fatto cenno appare
come un racconto favolistico che però, anche se ormai a livello di
folklore, ha perpetuato antichissime credenze sull'aldilà comuni anche
all'orfismo, forse anche a molte forme di antiche misteriosofie, e per
la sua stessa strutturazione permette di individuare tracce di un culto
che doveva toccare la sfera degli dèi sotterranei e tutto l'impianto
mitologico che ne sosteneva il culto150• Come si vede, la tradizione ha
riferito a Pitagora tutta una serie di poteri straordinari non apparte­
nenti certo alla fisionomia del filosofo e ricercatore pre-socratico del
tipo reso familiare a tutti gli studiosi di filosofia greca dal manuale
di Eduard Zeller, ma che in molte altre culture hanno costituito l'am­
bientazione "para-religiosa" dei grandi contemplativi e nella vasta
area sciamanica siberiana hanno trovato uno sviluppo amplissimo ed
insospettato. In Grecia questi poteri facevano parte essenzialmente del
patrimonio dei cosiddetti estatici apollinei, quella categori a di straor­
dinari personaggi la cui fenomenologia ha consentito che potessero
essere accostati agli sciamani, ma che possono essere ricondotti anche
a tutto quell'ambito di mistici, di purificatori e di solitari asceti che in
Grecia ne hanno sostanziato la forza, il successo e l'ampia diffusione.
Eraclide Pontico aveva scritto un'opera Sui Pitagorici nella quale
documentava l'attenzione particolare del movimento per la dimensione
sovrannaturale e per gli straordinari poteri che si riteneva dovessero
derivare a quei pitagorici che erano riusciti a seguire fino in fondo
il percorso iniziatico di trasformazione interiore. Si ha anche notizia
di un suo scritto dal probabile titolo Abaris (fr. 75 Wehrli) che forse
esaminava dottrine escatologiche nelle quali la sostanza luminosa

1 50 Cfr. W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 1 55- 1 59.

181
dell'anima assumeva un ruolo preponderante nella prospettiva soterio­
logica e trasfigurante sottesa dall'escatologia pitagorica151• Non solo,
ma l'ostentata attenzione per l'lperboreo Abaris e per l'intero mondo
degli estatici che questo straordinario iatromante rappresenta spinge
a pensare che tali insegnamenti non fossero il frutto di una semplice
riflessione personale dello stesso Pitagora, ma scaturissero dal fondo
sapienziale che sostanziava i l culto apollineo.
In un'altra sua opera ITEpi ti)ç cinvou Eraclide studia addirittura alcune
modalità dell'azione del "soffio" o dello pneuma nell'essere umano
secondo una strutturazione chiaramente derivata dalla scuola medica
pitagorica e tali da ricalcare in più punti quanto espone Alessandro
Polyistore sulla possibilità dell'anima di staccarsi dal corpo. Sono
dottrine che lasciano intendere un'attenzione speciale per tecniche
respiratorie che suppongono una netta separazione dell'anima dal
corpo e forse erano parimenti trattate in un'altra sua opera, il ITEpi
\j/UXTJç (frr. 90-103 Wehrli). Qui l'anima veniva descritta come avente
gli stessi caratteri di "luminosità" e di "splendore" che sostanziano
anche i cieli e gli astri. Pur nella stringatezza dei pochi frammenti,
la particolare formulazione di queste dottrine sull'anima permette
di andare oltre la semplice osservazione medico-fisiologica e certo
non si sofferma su assunti speculativi o meramente aneddotici. Non
solo mostrano di anticipare alcuni elementi dottrinali che poi saranno
essenziali nelle teorie platoniche sull'anima, ma la stessa modalità
espressiva indica un loro forte radicamento in venerande tradizioni
nelle quali dovevano assumere un rilievo fondamentale aspetti ascetici
e "tecnico-realizzativi" tendenti probabilmente al distacco dell'anima
dal corpo (frr. 76-89 Wehrli)l52•

! 5 1 Uno studio di valore su questi frammenti resta quello di P. Corssen, Zum Abaris
des Heraklides Ponticus, in "Rheinisches Museum", 67, 1 9 1 2, pp. 20-47.

! 52 Importante F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles. 7. Herakleides Pontikos, Basel­


Stuttgart 1 969. Cfr. H. B. Gottschalk, Heraclides of Pontus, Oxford 1 980, pp.

1 82
Nell'area traco-dacica e nel vasto mondo delle steppe percorse dagli
Sciti si conosce con certezza la presenza di radicate forme di un
tipo di sciamanesimo che Mircea Eliade, seguendo la morfologia
trifunzionale elencata da George Dumézil, riconduceva con sicurezza
all'area delle divinità "sovrane" e "terribili" (Varuna, Odhin, ecc.)
presenti in tutte le civiltà scaturite dal passato indoeuropeo. Da qui
sarebbero affluite in Grecia spinte consistenti con queste caratteri­
stiche religiose che non sono certo rimaste ai margini della sua vita
spirituale. Pur non dimenticando che lo sciamanesimo nella forma che
si è perpetuata fino ai tempi moderni presenta tutti i caratteri di un
residuo crepuscolare scaturito da una religiosità arcaica forse molto
più ricca ed articolata di quanto appaia attraverso queste sue presenze
residuali, e molto spesso ha assunto i caratteri di una vera e propria
religio secunda, non è pensabile che un tale fenomeno le cui tracce
sono ancora rinvenibili con evidenza in alcune importanti testimo­
nianze, possa essere rimasto ai margini del processo di riadattamento
e di ricostruzione delle antiche forme "mistico-visionarie" dell'Ellade
favorito dal pitagorismo. La stessa esistenza di tutta una categoria
di estatici apollinei somiglianti sotto molti aspetti agli sciamani
che arrivò a toccare con forza anche i territori delle colonie, ha un
valore particolare. La loro capacità di permeare un territorio ampio
e variegato non solo mostra la profondità del culto legato al dio della
conoscenza intellettuale, ma anche la profondità di quel vero e proprio
sostrato mistico-estatico dal quale emergeranno anche molti elementi
caratterizzanti del pitagorismo. L'iperboreo Abaris, Epimenide di
Creta, Aristea di Proconneso, Dexicreone di Samo, Poliarato di
Samo, Cleonimo di Atene, Leonino di Crotone, Formione di Sparta,
Empodotimo di Siracusa, forse gli stessi Empedocle e Parmenide

1 3-36; M. C. Dalfino, La dottrina dell 'anima di Eraclide Pontico e le sue


implicazioni etiche, in "Elenchos. Rivista di studi sul pensiero antico", 1 9, 1 998,
pp. 6 1 -82, l 'unico studio importante su Eraclide esistente in Italia.

1 83
considerati sempre dalle fonti antiche molto vicini al pitagorismo,
mostrano di emergere da un sostrato la cui fenomenologia essenziale
è facilmente accostabile a quella dello sciamanesimo.
Si può aggiungere, cosa enigmaticamente notata poco dagli studiosi,
che almeno tre di questi personaggi, Dexicreone di Samo, Poliarato di
Samo e Leonino di Crotone si trovarono ad operare nella stessa isola
e nella medesima città nelle quali esplicò la propria funzione anche
Pitagora. Se poi si considera la vicinanza geografica dell'isola di Samo
con i solitari iatromanti operanti nelle regioni della Frigia e dell'Ana­
tolia, diventa chiaro come non sia affatto ipotizzabile che il sostrato
sacrale molto arcaico in grado di alimentare le forme spirituali dalle
quali scaturivano questi estatici possa essere rimasto sconosciuto ad
un attento riformatore come Pitagora. Al contrario, si può ragione­
volmente pensare che questo articolato sostrato mistico-estatico può
aver avuto effetti concreti anche su un movimento gerarchizzato e
strutturato su basi iniziatiche come quello pitagorico. E tuttavia, lo
sciamanesimo greco è particolare, non si trovano forme di frenesia
estrema, di malattia sacra o di scatenamento come in alcuni casi
tipici dell'area siberiana e, anzi, tutti questi personaggi mostrano un
solido radicamento nell'apollinismo. Tutti insieme appartengono al
fondamento spirituale che ha alimentato il mondo degli estatici, degli
iatromanti e degli sciamani legati ad Apollo, cosa che ne fa dei veri
e propri sopravvissuti di un mondo molto arcaico le cui basi sacrali
tenderanno ad essere preservate nel movimento creato da Pitagora153•

1 5 3 Abbiamo studiato questo problema in N. D'Anna, La Disciplina del Silenzio.


Mito, misteri ed estasi nell 'antica Grecia, Rimini 2005, pp. 1 8-27.

1 84
5. Mnemosyne e le tecniche meditative

A dispetto dell'elaborata dottrina i cui postulati culturali feconde­


ranno il pensiero ellenico fino al neoplatonismo e toccheranno aspetti
importanti del cristianesimo medievale e persino dell'Islam; malgrado
quel loro radicamento nella vita delle città che, fra l'altro, obbligava ad
abbandonare o almeno a considerare secondarie le consuetudini degli
asceti solitari e dei purificatori itineranti; nonostante il solido impegno
politico teso a costruire un ordine sociale centrato nella guida di un'èlite
di illuminati governanti, il pitagorismo non fu un movimento di tipo
esclusivamente speculativo o intento alla vita sociale e, anzi, possedeva
precise tecniche meditative che ne hanno fatto un organismo profon­
damente diverso rispetto alle diversificate scuole filosofiche dell'Ellade
così attente a dare significato alla dialettica e alle spiegazioni logico­
discorsive. Nel pitagorismo venne conservato un organico sistema
tecnico-realizzativo che ha reso possibile lo sviluppo di rituali che asso­
ciavano il controllo meditativo della memoria e del pensiero ad elaborate
tecniche respiratorie, nel loro complesso somiglianti a quelle conosciute
in tutte le scuole contemplative indiane come le diverse varietà di yoga.
A questo proposito un testo significativo è costituito dalle "Memorie"
di Alessandro Polyistore conservate da Diogene Laerzio (VIII, 24-33),
un'epitome del IV-I secolo a.C. che probabilmente trascrive in forma
non sistematica dottrine molto più antiche1 54• Secondo Polyistore,
nel processo di formazione dell'essere umano l'anima si trova come

1 54 Secondo W. Wiersma, Das Referat des Alexandros Polyhistor iiber die


Pythagoreische Philosophie, in "Mnemosyne", 1 0 , 1 942, pp. 97- 1 1 2, le
dottrine elencate da Alessandro Polyistore scaturiscono non solo da un contesto
genericamente pitagorico, ma più precisamente dal tipico mondo delle scuole
mediche fiorite attorno al movimento. Abbiamo studiato il testo di Alessandro
Polyistore in N. D'Anna, La Disciplina del Silenzio, cit., pp. 83- 102.

1 85
"dispersa" nei vari organi vitali e sensitivi, ma ha il suo supporto per
eccellenza nel sangue concepito come il veicolo di manifestazione del
calore "pneumatico" che circola attraverso tutto il corpo e che al livello
più basso determina le percezioni sensitive. Questa particolare forma
di vitalità ha i suoi "canali", "i vincoli dell'anima" li chiama Polyistore,
ossia le vene, le arterie e i nervi che "legano" l'anima agli organi vitali
e la "obbligano" in una incessante attività emotiva ed astrattiva che ne
disperde l'originaria potenza creativa. Il complesso sistema neuro-vege­
tativo supposto da questi brevi cenni si riteneva dovesse costituire una
specie di "rete di supporto" in grado di alimentare la circolazione del
"sangue caldo", quello che Teofrasto chiamava il "calore umido" sintesi
di "fuoco e acqua", la cui articolata descrizione sembra scaturire da
una precisa radice psico-fisiologica che affonda in primordiali tecniche
ascetiche basate sulla concentrazione meditativa sul flusso sanguigno
e sul suo percorso nel corpo umano. Nella dottrina di Filolao (44B 1 3
DK), che qui sembra riprendere tradizioni ben radicate presso molti
popoli, il sangue è concepito come il veicolo di quel "calore psichico"
che scende dalla testa e via via raggiunge il cuore, l'addome ed infine
il grembo e l'apparato genitale, la sede dell'anima vegetativa e ripro­
duttiva. Seguendo ancora Filolao, che anche qui continua visibilmente i
postulati eugenetici della medicina della scuola di Crotone e del grande
Alcmeone ormai diventati verosimilmente parte fondamentale del
patrimonio dottrinale pitagorico, l'equilibrio nella vita psichica e nel
corpo umano viene scandito dal rapporto del "caldo" e del "freddo"
(due princìpi cosmologici che in vario modo si ritrovano in tutta la
speculazione ellenica), i cui veicoli di manifestazione si riteneva fossero
rispettivamente il sangue e il "soffio" = psiche. Secondo la medicina
pitagorica l'armonizzazione di questi flussi organici, la cui intrinseca
forza pervadente viene definita dal loro stesso movimento e dalla reci­
proca relazione, comporta uno status interiore di equilibrio che non
solo dà ordine al sistema nervoso, ma ne stabilizza lo stato di calmo
fluire e sostanzia il rapporto fra le varie potenze dell'anima (nous,

1 86
phrenes e thymos, intelletto, mente e animo). Soppesando il valore di
queste dottrine Aristotele precisa addirittura che l'armonia complessiva
dell'essere umano è stabilita da una sorta di "accordo" fra contrari: ". . .
dicono [i pitagorici] infatti che l'anima sia una specie di armonia perché
l'armonia è unione e composizione dei contrari, e il corpo è composto
di contrari" (Arist., de anim., A 4, 407b27).
La symmetria psico-fisica doveva essere favorita anche dal rigido
sistema dietetico che considerava i diversi alimenti non come un apporto
materiale e biologico senza conseguenze ai fini di una progressiva puri­
ficazione fisica e psichica, ma veicoli di una vitalità e di un sistema di
energie che potevano "agire" anche ad un livello psichico il cui flusso e
la cui potenza bisognava perciò stesso regolare ed ordinare155• Il risultato
di questa vera e propria dieta ascetica praticata anche in funzione dell'at­
titudine contemplativa del pitagorico, era quello che il medico Alcmeone
di Crotone chiamava isonomia, uno status complessivo di ordine fisico
e psichico ottenuto anche attraverso l'equilibrio delle correnti "calde"
e "fredde" che agiscono nel composto umano mediante flussi organici
inter-agenti che si appoggiano rispettivamente al sangue e al "soffio" e
che sul piano esteriore e meno elevato conduce alla pienezza di salute e
di integrità fisica. Nella fisiologia di Filolao viene prospettata addirittura
una complessiva armonia che si riteneva potesse ridare l'unità interiore
originaria all'iniziato che avesse saputo armonizzare la respirazione
con le cadenze temporali, ossia ricondurre i ritmi vitali scanditi dallo

1 55 Cfr. M. R. Gran t, Dietary Laws among Pythagoreans, in "Harvard Theological


Review", 73, 1 980, pp. 299-3 10. Sulla scuola medica di Crotone cfr. P. Prioreschi,
A History of Greek Medicine, Omaha 1 996, pp. 1 6 1 e sgg.; N. D'Anna, La
Disciplina del Silenzio. Mito, mistero ed estasi nell 'antica Grecia, cit., cap. Il.
Sul ruolo dell ' anima nella medicina pitagorica C. A. Huffman, Philolaus of
Croton, cit., pp. 3 1 1 -330. Pensiamo che bisognerebbe riprendere lo studio delle
scuole di medicina dell'Eilade arcaica alla luce di postulati dottrinali similari
che enigmaticamente emergono ne li 'India più antica. Lo studioso che ha colto
tutti i risvolti di queste similitudini è stato J. Filliozat, La doctrine de la médicine
indienne, ses origines et ses parallèles grecs, Paris 1 9752•

1 87
pneuma a quelli che ordinano la vita del cosmo: "il cielo è uno e trae
dall'apeiron il tempo, il respiro e il vuoto che distingue il posto di ogni
cosa" (Philol. 58B30 DK)I 56• La frase è importante ed è congegnata in
modo da confermare l'asserzione aristotelica che accennava alle teorie
sull'Uno di quelli che egli è solito chiamare i "cosiddetti pitagorici". Per
alimentare la propria vitalità creativa, infatti, l'Uno "aspira" lo pneuma
che permea l'intera manifestazione cosmica, la stessa della quale le
singole anime di ogni uomo appaiono solamente come frammenti di
un Tutto (cfr. Cicerone, de nat. deorum I, I l ; Sext. Emp. X, 580). È la
stessa "aria fredda", lo pneuma che secondo il fr. A27 di Filolao, in
piena continuità con tutta la tradizione medica pitagorica, ogni essere
vivente inspira dal cosmo circostante per alimentare la propria vita
e poi espira in un incessante ciclo, secondo un processo "vitale" che
Filolao deduce anche dallo stretto collegamento che si pensava dovesse
esistere fra il "soffio vitale" ('l'uxi]), "l'attività vivificante" ('l'uxromç;) e
il sistema nervoso "freddo" ('l'uxro, 'l'uxpoç;) che in quanto tale doveva
agire, stabilizzandole, sulle correnti del sangue "caldo"157•
L'equi librio psico-fisico così ottenuto si pensava dovesse essere il
riflesso nell'uomo della purezza di YyEta, la "Salute", una astrazione
divina molto nota nella leggenda e nella religiosità pitagorica e sulla
quale è rimasto persino qualche esile cenno che fa pensare a forme di
culto intensamente praticate nella confraternita.158 La dèa Ygheia non
si limitava a presiedere alla semplice salute fisica o alla guarigione

1 56 Cfr. C. A. Huffman, Philolaus oj Croton, cit., pp. 296-306.

1 57 Testo, traduzione e commento del fr. A 27 in C. A. Huffman, Philolaus ofCroton,


pp. 289 e sgg., e in M. Timpanaro Cardini, Pitagorici, cit., II, pp. 1 87- 1 9 1 .
Nella raccolta curata da M . Timpanaro Cardini, Pitagorici. Testimonianze e
Frammenti, 3 voli., Firenze 1 958- 1 964, tutti i frr. di Filolao si trovano ivi, Il,
pp. 1 1 0-249, preceduti da una sostanziosa (pp. 82- 1 09) presentazione.

1 58 Lo studio più esauriente resta quello di H. Sobel, Hygieia. Die Gottin der
Gesundheit, Dannstadt 1 990.

1 88
dalla malattie, ma estendeva la propria competenza all'armonizza­
zione dell'intera sfera nella quale si sviluppa l'attività delle "potenze
dell'anima" che articolano la vita neurovegetativa e la struttura psichica
dell 'uomo. Probabilmente è questo il motivo che spiega non solo
l'uso pitagorico di inscrivere ognuna delle cinque lettere greche che
compongono il nome della dèa in corrispondenza dei cinque apici del
pentagono, ma anche il rapporto da essi stabilito fra la matematica, la
medicina, la musica e la grammatica ("Archita ed Eveno pensavano che
anche la grammatica fosse soggetta alla musica"; fr. 19B DK). E poiché
il pentagono era la rappresentazione grafica del microcosmo, ne scatu­
risce non solo il ruolo simbolico e probabilmente anche rituale che per
i pitagorici doveva avere la ripetizione di certe lettere dell'alfabeto, ma
anche lo schema raffigurativo essenziale dell'armonia e dell'equilibrio
che lega l'"Uomo Perfetto" con Ygheia, la dèa che presiede alla perfe­
zione di un cosmo "ordinato", "sano", colmo di "salute".
I metodi sottesi per ottenere questa perfetta "forma" umana unificata ci
danno la chiave per comprendere in realtà cosa i ntendevano gli antichi
filosofi quando spiegavano che Pitagora era un essere eccezionale dalla
personalità unica ed irripetibile e lo ponevano al culmine dell'intera
creazione, il Mediatore fra l'uomo comune e la divinità: da un lato lo
consideravano al di sopra degli uomini ordinari che vivono un'esistenza
pereunte, dall'altro era stimato appena al di sotto della condizione
imperitura goduta dagli dèi immortali. In virtù del suo status spiri­
tuale si riteneva che Pitagora avesse trasceso la condizione umana e il
divenire che tutto trasforma e si era elevato in una sfera molto vicina a
quella dell'inalterata identità del puro essere: "nella sua opera La filo­
sofia pitagorica Aristotele riferisce che una simile distinzione veniva
mantenuta totalmente segreta: degli esseri viventi e razionali l'uno è
dio, l'altro è uomo e il terzo è come Pitagora" (Arist. fr. 156 Gigon).
Per ottenere gli stati di unità interiore si trattava essenzialmente
di utilizzare metodi ascetici connessi ad antiche teorie sul respiro
che ne collegano il ritmo e !"'assonanza" al controllo del pensiero,

1 89
cosa che Polyistore esprimerà dicendo che "i ragionamenti sono i
soffi dell'anima" e perciò quando "l'anima acquista forza e si riposa
concentrata in se stessa, suoi legami diventano i ragionamenti e le sue
operazioni"1 59• Alessandro Polyistore sta visibilmente rifacendosi ad
una concezione molto antica della struttura dell'essere umano spesso
ripresa anche nella medicina pitagorica, che distingueva uno status
della vita ordinaria nel quale l'anima-soffio viene condizionata dalla
sua stessa attività logico-razionale e dal flusso delle sensazioni fisiolo­
giche, da un'altra e diversa condizione nella quale l'anima sperimenta
l 'attività logica come altro da sé, come "atto non originario", nella
quale l"'essere" più profondo dell'uomo si svincola dal condiziona­
mento razionale e dalla stessa vita sensitiva e sperimenta una specie di
"puro essere", una fredda e lucida "immobilità dell'anima" considerata
come la condizione per trascendere i limiti del corporeo'60•
Queste rapidissime considerazioni potranno farci capire il significato
più vero del famoso fr. 1 29 di Empedocle tratto dal suo poema lustrate
Katharmoi. Diogene Laerzio (VIII, 54, che qui segue l'autorità di
Timeo), Porfirio (v. pyth. 30) e Giamblico (v. pyth. 67) ritengono come
cosa indubitabile che il personaggio descritto sia proprio Pitagora:
"C'era tra essi un uomo di straordinaria sapienza che possedeva

1 59 In generale possono risultare utili le considerazioni di H. B. Gottschalk, Soul as


Harmonia, in "Phronesis", 1 6, 1 97 1 , pp. 1 79- 1 98; C. A. Huffman, Philolaus oj
Croton, cit., pp. 307 e sgg.; B. Snell, Die Entdeckung des Geistes, Hamburg 1 955,
tr. it. pp. 1 9-47; pp. 88- 1 1 9; D. 1. Furley, The Early History ojthe Concept ofSoul,
in "Bulletin of the Institute of Classica[ Studies", 3, 1 956, pp. 1 - 1 8. Un'analisi
approfondita del problema ha fatto R. Mondolfo, Sulle teorie pitagoriche intorno
alla natura dell 'anima, in E. Zeller-R.Mondolfo, La .filosofia dei Greci, cit., I,
2, pp. 560-303.

160 Da un altro punto di vista, si tratterebbe di due diverse condizioni alle quali
sottostanno quelle "due anime" che aveva ipotizzato A. Rostagni, Il verbo
di Pitagora, Torino 1 924, (rist. c/o Il Basilisco, Genova l 982, pp. IO 1 - 1 65):
[ "'anima-armonia" che alimenta la vita e la sua forza creativa, e l "'anima­
daimon " che disperde la propria vitalità nel ciclo incessante della metempsicosi.

1 90
Taranto, Museo Nazionale, p articol are del cratere a figure rosse del ''pittore
della n ascita di Dioniso., (V0 sec . )
ricchezza di ingegno (npaniùrov), e quando tendeva la potenza del
suo spirito (opÉçmro npaniùEcrcrtv) distingueva facilmente ognuna
delle cose che sono in dieci, venti vite umane". Come hanno fatto
notare prima Louis Gernet e poi il suo allievo Jean-Pierre Vernant161,
l'espressione che usualmente viene tradotta con "tensione della potenza
del suo spirito" poggia sul termine npaniùEç, "prapìdes", il cui signi­
ficato primario e più antico è diaframma -cosa già notata da Erwin
Rohde che citava l'espressione "lo spirito è raccolto nel diaframma".
Il termine npaniùEç si ritrova documentato già all'alba della civiltà
ellenica proprio da Omero almeno in tre precisi passi dell'Iliade: XI,
579; XIII, 412; XVII, 349. Il termine ritorna in Il. XXII, 43 dove viene
usato più astrattamente come "cuore" e come "sede dell'anima", mentre
in Il. I, 608 e in Od. VII, 92 ha il senso di "senno accorto", "intelligen­
temente". Come si vede, i significati di ''prapìdes" sono o astratti, e in
tal caso esprimono moti interiori, oppure concreti con un riferimento
raro alla "sede dell'anima" (=cuore) e, più ampiamente documentabile,
all'organo fisico del diaframma il cui movimento regolare indica una
vitalità armoniosa, mentre quando viene modificato affiorano squi­
libri imputabili anche a variazioni psichiche e ad alterazioni dei moti
dell'anima, la sede dei sentimenti di cui parlano i passi omerici.
La frase di Empedocle mette in evidenza Pitagora quale protagonista
di una tensione psichica che faceva leva sull'organo fisico che regola i
ritmi della respirazione, una tensione volta per ciò stesso al controllo
del respiro che lo portava ad una sorta di abolizione del tempo, ad
una specie di "risalita" verso uno stadio spirituale dal quale gli era
possibile "vedere le cose che sono in dieci, venti vite umane", tanto
che altrove lo stesso Empedocle potrà esclamare "Felice colui che ha

1 6 1 Cfr. L. Gemet, Antropologia della Grecia antica, Milano 1 983, p. 355; J.-P.
Vemant, Mito e pensiero presso i Greci, Torino 1 978, pp. I l O- I l i ; pp. 1 3 1 - 1 32.
Sulla stessa linea interpretativa anche M. Detienne, w notion de daimòn dans
le pythagorisme ancien, Paris 1 963, pp. 32-37, libro importante, ricco di dati e
riflessioni molto interessanti.

191
particolare del lato "a" di un vaso del yo sec. rappresentante
il tyasos di Dioniso e, sul retro giovani e fanciulle
che celebrano le feste Carnee
acquistato la ricchezza di prapìdes divine". È così che Pitagora, come
ogni theìos anèr, l"'uomo divino" dell'età arcaica, poteva "risalire"
indietro nel tempo, "vedere" gli accadimenti passati, "ritornare"
alle proprie radici celesti, "ricordare" la realtà primordiale, quando
era naturale congiungere il "principio" e la "fine", come assicurava
il medico Alcmeone di Crotone (''Gli uomini muoiono perché non
possono ricongiungere il principio con la fine", un frase che riecheggia
la sapienza shivaita del Tantrasara di Abhinavagupta che parimenti
suggerisce di "congiungere la fine al principio", l'atman ai flussi
ritmici del corpo), un'immagine visibilmente vicina a quella dell'uomo
primordiale "a forma sferica" del notissimo mito platonico col quale si
intese illustrare una condizione di compiutezza originaria, l'interezza
degli inizi precedente la caduta dell'uomo nel tempo e nel divenire.
Colui che ha congiunto "l'inizio con la fine" si svincola dal deca­
dimento temporale, esce dallo scorrimento dell'esistenza, trascende
l'ordinario succedersi degli istanti, vive una diversa realtà nella quale
il divenire temporale sembra abolito, "è fermo", "stabilizzato" in un
presente che non conosce il flusso temporale cristallizzatosi in un
passato irripetibile e in un futuro tutto da determinre. Siamo nello
stesso contesto speculativo nel quale Platone collocava la sua dottrina
dell'anàmnesi, identica in tutto a quello che gli Yoga Sutra dell'India
classica chiamano pratiloman, quando Patanjali suggerisce di "riper­
correre il tempo all'indietro [= pratiloman = "a contropelo"] per
riappropriarsi dell'armonia originaria, l'istante in-temporale nel quale
ogni divenire è stato bruciato dal fuoco della meditazione. Ci troviamo
di fronte a tecniche di controllo del respiro che si accompagnano a
forme di controllo del pensiero e di vivificazione di quella che nel
linguaggio mitico era Mnemosyne, la Memoria, la dèa che aboliva il
flusso del divenire e riportava il myste alle condizioni originarie di
una stasi sovra-temporale162• D'altronde, anche se si volesse rimanere

1 62 Sulle tecniche pitagoriche di respirazione e di concentrazione mentale, e sulla loro

1 92
su un piano meramente psicologico, là dove il ricordo duraturo ha un
suo rilievo in quella che comunque resta una parte periferica della
vita psicofisica, cos'altro rappresenta la normale memoria umana se
non uno stabilizzarsi in un particolarissimo presente intemporale nel
quale si annullano alcuni aspetti del divenire e la dispersione di molte
"forme" psichiche?
Riportando un mito antichissimo, Pausania (IX, 14, 7; IX, 29, 2-3) ci dice
che ancora prima di essere la madre delle nove Muse classiche generate
da Zeus nella Pieria, ai piedi del sacro Olimpo, Mnemosyne aveva
generato sul monte Elicona solamente tre Muse: Meleté, "l'esercizio",
Mnéme, la "memoria" e Aoide, il "canto", le tre divine sorelle che, come
conferma Plutarco (Quest. Conv., IX, 14, 4), ricevevano culto anche nel
centro apollineo di Delfi e assumevano un ruolo di tale rilevanza che
spesso venivano invocate tutt'insieme con l'appellativo di MvEiat, "le
Memorie". Con ogni evidenza ci troviamo di fronte all'enucleazione
mitica dei tre momenti essenziali di ogni attività contemplativa:
l. la pratica della meditazione, il puro esercizio rituale;
2. il risveglio del principio di immortalità dell'essere umano, l'anàmnesi;
3. la "rivelazione" di una condizione spirituale, forse favorita dall'ele­
vazione di inni e sacri peana sgorganti da una sfera spirituale prossima
a quella degli dèi. II "canto" trabocca dall'anima dell'iniziato mentre la
sua mente liberatasi dal divenire e ormai stabilizzatasi in Mnemosyne
viene coinvolta nell'armonia e nel ritmo melodico che permea l'intero

somiglianza con lo yoga, tutte cose qui necessariamente accennate, rimandiamo


a N. D ' Anna, La disciplina del silenzio. Mito, mistero ed estasi nell 'antica
Grecia, cit., pp. 83- 1 02. Sul ruolo di Mneme e del l ' ànamnesi, cfr. anche D.
Bouvier, Mneme. Le peripezie della memoria greca, in S. Settis (cur.), l Greci.
Storia Cultura Arte Società, II/2, Torino 1 997, pp. 1 1 3 1 - 1 1 46; L. Brisson, La
réminiscence dans le Menon (980e-98le) et son arrière-plan religeux, in 1.
Trindade Santos (cur. ), Anamese e Saber, Lisbona 1 999, pp. 23-46. Sul rapporto
fra Mnemosyne e le Muse cfr. 1. Rudhardt, Mnémosyne et [es Muses, in Ph.
Borgeaud (cur.), La memoire des Religions, Genéve 1 988, pp. 37-62.

1 93
cosmo.
È un'ambientazione molto vicina al contesto rituale nel quale si
svelava il carmen latino, la "parola-incantazione" che rivela uno status
spirituale. Più in generale, si tratta di un aspetto di quello che Walter
Otto nel suo celebre libretto sulle Muse e sull'origine della parola
indicava come la base dell' Urmusikalischen, "l'originario musicale",
la parola divina che, egli ci dice, "appartiene all'ordinamento eterno
dell'essere del mondo", svela alcune figure fondamentali della stessa
esistenza, canta i l significato universale del cosmo, ne rimodula i l
tessuto essenziale, ritma la sua dimensione più nascosta. L'esistenza di
questo "originario musicale" giustifica la scienza incantatoria praticata
dagli asceti, sta alla base di tutti gli oracoli e dei canti elevati agli dèi.
Per parafrasare una famosa immagine di Platone (Phaidr. 245 a), è lo
stesso "incanto-mania" che afferra il Vate nel quale dimora la "follia
delle Muse", quel tipo di poeta-incantatore a metà strada fra il cantore
delle cosmogonie e l'asceta purificatore che aveva percorso l'Ellade
nei tempi arcaici. Nel punto in cui viene "posseduto" dall'incanto
delle divine Muse un tale personaggio assume il privilegio di cantare
l"'essere del mondo" in virtù del suo saper sintetizzare una divina
rivelazione (ding), il "fondamento" (griind) del reale e l'espressività
creativa (sprache).163 È la "forma formante" che al proprio livello
veicola la medesima potenza celeste simbolizzata dalle tre Mvdat, le
divine figlie di Mnemosyne, le "Memorie" che tutte insieme traducono
sul piano operativo la potenza creativa della loro Madre.

1 63 Così W. F. Otto, Le Muse e l'origine divina della parola e del canto, tr. it., Roma
2005, pp. 83- 1 06.

1 94
6. I princìpi del reale

Accanto a questo complesso meditativo che interpreta in termini di


conoscenza iniziatica alcuni elementi dottrinali della propria conce­
zione del mondo e trasforma, riadattandoli in una prospettiva etica e
soteriologica, i vecchi rituali misterici, il pitagorismo elabora tutto un
sofisticato sistema esposto non attraverso modalità logico-esplicative
nelle quali l'analisi dimostrativa doveva costituire la base, ma secondo
una struttura formale essenzialmente simbolica che rimodula su nuove
basi arcaiche dottrine sul tessuto del cosmo, sui suoi ritmi e sul ruolo che
dovevano assumere le varie divinità in questo mondo armonico. Come
notava Proclo nella sua Theologia platonica, "i pitagorici elaborarono
le loro dottrine (= mathemata) con lo scopo di reminiscenza delle cose
divine e per mezzo di esse, come delle immagini, cercarono di arrivare
fino a quelle. Infatti, secondo quanto dicono coloro che hanno studiato
le loro dottrine, dedicarono i numeri e le figure agli dèi"164• Come si
vede, non si trattava di dimostrare un postulato filosofico oppure un'i­
potesi aritmetica secondo presupposti solamente logico-razionali, quelli
che poi trionferanno con la matematica e la geometria euclidèa, ma di
enucleare "figure archetipiche" in grado di rivelare il tessuto stesso del
mondo divino. L'intento era quello di additare le "forme formanti" del

1 64 Sulla capacità dei pitagorici di enucleare una scienza che affondava le proprie
ragioni in un sofisticato sostrato mistico-simbolico è utile riconsiderare, accanto
all' importante e ormai imprescindibile monografia di Walter B urkert, i testi
di F. M. Cornford, Misticism and Science in the Pythagorean Tradition, in
"Classica! Quarterly", 1 6, 1 922, pp. 1 37- 1 50; 1 7, 1 923, pp. 1 - 1 2; W. K. C.
Guthrie, A History of Greek Philosophy, l, The Earlier Presocratics and the
Pythagoreans, Cambridge 1 962, pp. 1 46-340 (che sviluppa ampiamente i cenni
del suo maestro Cornford); B. L. van der Waerden, Die Pythagoreer. Religiose
Bruderschaft und Schule der Wissenschaft, Ziirich/Miinchen 1 979, pp. 402 e
sgg., la summa dei suoi molti studi sul pitagorismo.

1 95
reale, spingere ad elevarsi verso una dimensione nella quale le stesse
configurazioni geometriche o le articolazioni numeriche non dovevano
essere tracciate nella loro rappresentazione elementare ed empirica, ma
"viste" come immagini di una dimensione non transeunte, percepite
come "forme" del reale poiché spiega Aristotele (Metaph. 1080b16) nel
suo particolare linguaggio razionalistico, con i numeri si compongono
tutte le sostanze del reale: "ogni numero è lo stesso che è nel cielo
e si deve assumere come l'essenza di ogni cosa . " (Metaph. 990a).
. .

Giamblico (v. pyth. 147) aggiungerà che "Pitagora ha desunto dagli


orfici l'idea che l'essenza degli dèi è determinata dal numero", una frase
che non solo riconduce le radici della numerologia pitagorica all'or­
fismo, ma esalta il valore simbolico del numero allorché ne evidenzia
il legame con l"'essenza" degli dèi.
Ancorato a questi presupposti dottrinali il termine greco aprfrJ.Loç,
"numero", serviva non tanto a definire il segno empirico necessario
per enumerare e in quanto tale teoricamente poteva essere sostituito da
un qualsiasi altro segno più utile e funzionale al calcolo, ma indicava
l'essenza stessa della cosa numerata, la sua dimensione più "interna",
quella che Aristotele definirà come il "numero numerato" (Phys. 219b
6-7), perché per i pitagorici il numero era contemporaneamente "la
'materia' (hyle) delle cose esistenti, la loro 'determinazione' (pathos) e
la loro 'proprietà' (hexis)" (Metaph. 986a15 = fr. 58B5 DK). In un passo
altamente significativo Aristotele, con più compiutezza e secondo le
sue modalità tipicamente speculative di presentare un tema che appar­
tiene essenzialmente alla sfera del simbolismo, aggiunge: "Poiché dei
principi di queste [scienze] i numeri sono per natura i primi e nei
numeri pensavano di vedere homoiomata [= "assonanze", "imitazioni"]
con gli enti che sono e che divengono, più che nell'acqua, nel fuoco o
nella terra, dal momento che questo pathos [=''essenzialità"] dei numeri
è la giustizia, un'altra è l'anima e il nous [= "intelletto"], un'altra ancora
il kairòs [= "il momento culminante", "l'apice che assorbe il divenire",
l"'akmè"] e ognuna nello stesso modo, vedendo poi le affezioni e i

1 96
rapporti delle armonie nei numeri e poiché in ogni cosa tutta la natura
sembrava assimilarsi ai numeri, ma i numeri sono prima di ogni natura,
supposero che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutte le
cose, e l'intero cielo armonia e numero" (Metaph. 985b 26-986a3).
Nella prospettiva pitagorica i numeri costituiscono l'elemento essen­
ziale di quella che Proclo chiamerà la dottrina delle "figure originarie"
(nov apxtKrov crxru.uitrov), si alimentano della stessa realtà antologica
da cui sono scaturiti, sono pure virtutes che come potenze sovrane
prendono consistenza in una dimensione precedente l'esistenza este­
riore e consentono la stessa manifestazione dell'universo secondo
quella legge ciclica che Teone di Smirne spiegava nei termini di una
graduale "progressione" (npono8tcrJl6ç) della serie numerica iniziata
a partire dalla monade, una serie che quando concluderà il proprio
ciclo espansivo verrà "riassorbita" (avano8tcr Jl6ç) nell'indistinzione
principiate dalla quale era scaturita. Questa attitudine del pitagorico
che lo porta a trasfigurare i dati empirici e transeunti e ad immer­
gersi nella radice archetipica del reale, può essere definita solamente
contemplativa. D'altronde, è proprio questa disposizione a permettere
di comprendere anche la strana (e sostanzialmente farraginosa ai
fi ni di qualsiasi calcolo matematico) raffigurazione dei numeri su
una superficie piana ottenuta con una serie di punti procedenti tutti
per irradiazione o diffusione da un punto primario il quale assume
il ruolo di un centro originario che si "dilata" secondo una logica
espansiva che diventa chiara solo se si suppone un movimento interno
a spirale o a vortice. È l'immagine plastica dell'unità iniziale che con
ogni evidenza riarticola ad hoc l tv principio di ogni cosa di Filolao
'

("Archita e Filolao chiamano l'Uno anche monade e la Monade uno,


indifferentemente"; Philol. fr. A lO) dalla cui moltiplicazione o incre­
mento scaturisce l'intera serie numerica come lo svelamento di una
pluralità indefinita contenuta nell'indistinto suo ens principiate (''la
monade in quanto è principio del tutto, dice Filolao; infatti non chiama
egli l'uno principio di tutte le cose?"; fr. B 8); è la radice del "primo

1 97
paradigma della creazione" di cui parlavano Ippaso e i suoi allievi,
quella "monade" che il più tardo Moderato di Gaza considerava il
principio dal quale fuoriescono come un flusso ininterrotto tutte le altre
monadi165 • Per capire bene il fondamento essenzialmente simbolico di
queste affermazioni qui forse è opportuno ricordare che Filolao attri­
buiva alla divina monade anche la qualità fondamentale della stabilità
e dell'invariabilità, due attributi che da buon pitagorico configurava
nella dèa Mnemosyne, la "memoria" che abolisce il divenire e perciò
incarna il fondamento "a-cronico", eterno, di un divenire prodotto dallo
srotolarsi della serie numerica a partire da quell'Uno originario.
Filolao tese a tradurre anche in termini cosmogonici il valore di questo
f.v primigenio ponendolo al centro della mpaipa, la "sfera". Questo
termine, che è stato sempre associato ad un'idea di perfezione, indica
nel modo più chiaro innanzitutto le modalità con le quali Filolao si
raffigurava il cosmo, poi l'attitudine espansiva dell'Uno che dal centro
si irradia uniformemente verso tutti i punti della circonferenza, poi
ancora la "stabilità" universale che ne deriva ("[Filolao] nel 'fuoco'
del centro quel principio direttivo che il dio demiurgo pose, a guisa
di una 'chiglia' come fondamento <della sfera> dell'universo"; Stob.
I, 21, 6d), infine l'intrinseco movimento di rotazione che ne regola i
ritmi: "La prima cosa che conduce all'armonia, l'f.v che sta nel mezzo
della sfera, è chiamato Hestia, il 'fuoco'" (fr. 44B7 DK). Aristotele,
che secondo alcune fonti antiche con ogni probabilità aveva conosciuto
attraverso la mediazione di Platone un testo scritto di Filolao, forse
addirittura un vero e proprio libro nel quale erano annotate le sue teorie
cosmologiche e astronomiche, spiegherà questa dottrina dicendo che i
pitagorici "chiamano il 'fuoco' che occupa questa regione [= il centro]

1 65 Cfr. C. A Huffman, The Role oJNumber in Philolaus 'Philosophy, in "Phronesis",


33, 1 988, pp. 1 -30; Id., Philolaus oj Croton, cit., pp. 1 54- 1 77 ; L. Zhmud, "A/l
is Number " ? Basic Doctrine ofPythagoreanism Reconsidered, in "Phronesis",
34, 1 989, pp. 270-292. Più in generale vd. W. A. Heidel, The Pythagoreans and
Greek Mathematics, in "American Joumal of Philology", 6 1 , 1 940, pp. 1 -33.

198
'custodia di Zeus"' (De cael. 293a), come a dire che il cuore espansivo
dell'universo veniva assimilato ad una pura forza creatrice il cui ruolo
centrale veniva simbolizzato dal "trono" del divino sovrano che regge
e orienta una realtà perfetta.
Una penetrante riflessione di Walter Burkert ha contribuito a rendere
ancora più forte il legame della cosmogonia pitagorica con il composito
mondo dei mitografi e dei theologoi arcaici. Secondo lo studioso di
Zurigo lo schema essenziale della struttura cosmogonica pitagorica
centrata sul ruolo simbolico dell'Uno che "si espande" in virtù di un
movimento "a spirale" sembrerebbe scaturire da una vera e propria
adattazione aritmosofica di alcuni mitologhemi orfici sull'origine del
mondo. I frr. 55 e 56 Kem e quel passo di Porfirio (v. pyth. 44) che parla
della "profondità del mare fluente ed illimitato" posto alle origini di
ogni cosa, secondo Burkert suppongono un cosmo colto nei suoi aspetti
ancora pre-creativi, non delimitato, una pura "potenza creatrice" che in
virtù di un intrinseco movimento "a vortice" tende a coagularsi in un
punto (Porfirio qui introduce significativamente dei "germi fecondanti")
il quale a poco a poco si specifica come un uovo vivente in grado di
"aspirare" il vento che anima la creazione, ne assume l'elemento vitale
e può così determinarsi a sua volta come una sorta di essere primor­
diale androgino, Phanes, l"'Essere splendente" che sul piano mitico
personifica fin nei particolari il "fuoco centrale" di cui è questione nella
cosmogonia di Filolao. Da questa iniziale "origine di ogni cosa", da una
"Luce splendente" che si espande verso tutte le direzioni dello spazio,
prende consistenza il cosmo, si struttura (diakosmesis) nei suoi elementi
essenziali e raggiunge un ordine complessivo (harmonia) sul quale si
modulerà il tracciato dei corpi celesti e lo scorrere del tempd66. Queste

1 66 Cfr. W. Burkert, Orpheus und die Vorsokratiker. Bemerkungen zun Derveni­


Papyrus und zur pythagoreischen Zehlenlehre, in "Antike und Abendland", 14,
1 968, (pp. 93- 1 1 4), pp. 1 07- 1 07, segui to da A. L. Pierris, Origin and Nature
of Early Pythagorean Cosmogony, in K. l. Boudouris (cur.), Pythagorean
Philosophy, Athens 1 992, (pp. 1 26- 162), pp. 1 36- 1 39.

199
somiglianze di alcuni aspetti delle cosmogonie orfiche con il ritmo
interno e creativo del cosmo pitagorico sono importanti e registrano
un insospettato passaggio dal mito orfico all'aritmosofia del pitago­
rismo. Collegano una delle più raffinate speculazioni dell'antica Ellade
al mondo e ai mitologhemi arcaici, ne svelano le basi mitico-sacrali
e danno significato alla stessa esistenza di tutta una serie di antiche
consorterie di estatici vaganti la cui funzione non era limitata solamente
all'allontanamento di malanni e a celebrare cerimonie dal valore puri­
ficatorio, ma testimoniava un tipo di sapienza "tecnico-estatica" che
nell'epoca "classica" era destinata a rimanere confinata ai margini delle
correnti religiose che percorrevano l'Ellade olimpica.
La configurazione spaziale del numero, questo straordinario "stru­
mento di giudizio del Dio creatore" come veniva definito da Ippaso,
si ordinava attorno ad una serie di figure geometriche triangolari,
quadrate o piramidali ottenute disponendo adeguatamente su una
tavoletta i \j/TJ<pot (= lat. calculi, "pietruzze") e ordinandoli attorno ad
una squadra-gnomone che aveva il compito di orientarne la forma­
zione "figurata" fino a costituirne l'asse direzionale primario. Per
ripetere una definizione di Aristotele, "aggiungendo gli gnomoni
intorno all'uno e separatamente, una volta si genera una specie
sempre diversa, un'altra volta una specie unica" (Phys. 203a). Secondo
Teofrasto (Metaph. 6a) la particolare disposizione delle "pietruzze"
ordinate in modo che sovrapponendo alcuni gnomoni dispari all'uno
si potesse generare una figura quadrangolare, mentre aggiungendone
un numero pari attorno a due "pietruzze" ne scaturiva un rettangolo,
permetteva ai pitagorici, come spiegava Eurito, un discepolo diretto
del grande Filolao, di enucleare addirittura il numero (o la "cifra" =
signatura spirituale, l'archetipo celeste) del cavallo, quello dell'uomo
e poi via via il numero delle diverse specie esistenti fino ad arrivare
ad elencare quelli di tutti i singoli enti che nella loro innumerevole
determinazione ed individualità articolano l'intera manifestazione
universale. Questa vera e propria "numerazione qual itativa" non

200
procedeva da una i ngenua generalizzazione del la disposizione
empirica delle "pietruzze" poste a disegnare i margini dei vari enti,
come ha supposto qualche sprovveduto, ma dalla capacità di cogliere
il valore intrinseco di ogni esistente, l'archetipo, }"'essenza" (= la
dimensione spirituale e pre-formale, }"'universale") da cui procede
la sua stessa esistenza. In tal modo ogni figura ottenuta attraverso
la disposizione delle "pietruzze" su una superficie piana non era il
risultato di un calcolo aritmetico o di una qualsivoglia numerazione
empirica che avrebbe confuso ingenuamente il tracciato esteriore fatto
con i ca/culi con il significato numerico di quella figura, ma indicava
prima gli archetipi della molteplice varietà delle specie e poi quelli
della moltitudine dei singoli esseri, ne delineava il typus universale
che solo questa forma di "astrazione aritmosofica" sembrava in grado
di tratteggiare e di coglierne l'intrinseca "essenza". Nella sua realtà
più vera si tratta di una "raffigurazione imaginativa" che consente
il passaggio dall'esteriorità degli enti alla contemplazione della loro
dimensione più interiore e "archetipica".
In Aet. I, 3, 8; IV, 4, 5 si trova addirittura una tavola di corrispon­
denze fra la tetrade, i primi quattro numeri della serie numerica che
costituiscono l'intelaiatura di fondo della famosa tetractys e i vari
gradi o stadi di conoscenza: l = nous, 2 = episteme, 3 = doxa, 4 =
aisthesis. Nella sua essenzialità si tratta dell'adattamento del valore
principiale del numero-archetipo alla dottrina gnoseologica del pita­
gorismo. La tavola di Aezio, infatti, tratteggia una scala decrescente
che da una immacolata condizione iniziale di pura conoscenza
noetica ( 1 ), attraverso un processo che può configurarsi solamente
come "caduta" o progressivo decadimento passa a poco a poco ad un
livello di apprensione indiscutibile e certa (2), poi di analisi razionale
che poggia sulla semplice opinione (3), per concludere infine nella
forma più epidermica e superficiale di conoscenza, quella puramente
empirica legata alle sensazioni più esteriori (4). Nei termini dell'arit­
mosofia pitagorica la scala di questi primi numeri l , 2, 3, 4 quando

20 1
viene raffigurata su una superficie piana, attraverso la posizione dei
dieci ca/culi acquista la sua forma tipicamente triangolare e diventa la
sacra tetractys (fig. 1), il simbolo sul quale usavano giurare i pitagorici
perché rappresentava la sintesi principiale nella quale è contenuta non
solo l'intera serie numerica, ma anche le infinite possibilità creative
in tutti i campi del sapere simbolizzate dal numero167 •

• •

• • •

• • • •
fig. l

Per quanto possa essere spiegato con un rigore logico che non ha
nulla da invidiare alle speculazioni più sofisticate o elaborate, e
per quanto si appoggi ad una solida ed indiscussa base scientifica
che nel corso dei secol i ha attirato alcune delle menti più elevate
d'Occidente, questo complesso sistema non fluisce da un incompren­
sibile virtuosismo tecnico scaturito da una filosofia che nell'ottica
analitica e sistematrice di Aristotele sembrava dovesse rimanere tutto
sommato ancora ingenua e contraddittoria, ma rimanda ad una parti­
colare disposizione mitico-visionaria in grado di cogliere il divino nel
mondo, quella condizione spirituale tipicamente greca che Walter Otto
in un suo famoso libretto definiva "theofania", &o<pavia. È da qui

1 67 Cfr. P. Boyancé, Note sur la tétractys, in "L' Antiquité C1assique", 20, 1 95 1 , pp.
42 1 -425.

202
che scaturisce la concezione pan-ellenica della visione come capacità
di cogliere l'unità nella molteplicità dell'accadere. Per questa espe­
rienza gli Elleni usavano il verbo &acrfut = "vedere con meraviglia",
connesso alla radice da cui si forma &copÉco = "sono spettatore", che
esprime il momento in cui lo spettatore (= &cop6ç), la cosa contem­
plata (= &ropru.1a) e l'atto del vedere (dalla radice iò = "vedere" si
forma oiòa = "so", iòptç = "sapiente", tÒÉa = "idea", "figura"; Eiòoç,
"apparizione", "forma") si unificano nella &copia, in una "visione
di meraviglia" (il gr. fuul.J.açco, dà "mi meraviglio", "ammiro"; cfr.
lat. vid-eo, "vedo"; scr. vidà, "conoscenza veduta"), che esprime la
comprensione diretta e intuitiva contemporaneamente del corporeo
e dell"'essenza" spirituale che lo permea e ne rivela il significato.
Nella prospettiva antico-ellenica quale si trova indicata da Omero
nelle sue opere la presenza divina ordina le percezioni dell'uomo
disperse nella molteplicità delle sensazioni e le riconduce ad unità. Il
"vedere" dell'Elleno del tempo arcaico è un "conoscere" che trascende
il ruolo empirico condizionato dalla semplice apprensione sensitiva
e diventa simultaneamente un "sapere". Come faceva rilevare Bruno
Snell nella sua raffinata analisi di alcuni termini che permeano la più
antica letteratura greca, per l'Elleno la vera "conoscenza" si ottiene
attraverso il giusto "essere orientato nel vedere': (ytyvrocrKEtv).
Persino alcuni degli stessi postulati geometrici sulla composizione
del cerchio, oppure quel li che consentivano l'iscrizione del dode­
caedro nella sfera celeste possono essere ricondotti ad una dimensione
simbolica che trascende la semplice perizia scientifica. La figura del
dodecaedro (fig. 2) è una delle più importanti fra quante ne sono state
elaborate dall'intera geometria pitagorica e si sono scoperti persino
una ottantina di "dodecaedri-giocattoli" risalenti al periodo gallo­
romano con 12 sferette poste agli apici dei 12 angoli delle figure la cui
funzione con molta probabilità è quella di ricondurre questi oggetti ad
un contesto rituale e simbolico, lo stesso nel quale venivano collocati i
"giocattoli" del noto mito orfico che narrava l'uccisione del fanciullo-

203
Dionisd68• Proclo tratteggia nel seguente modo le linee generali di
questa dottrina: "Presso i pitagorici troviamo alcuni angoli dedicati ad
alcuni dèi, altri ad altri, come ha fatto Filolao che consacrò ad alcuni
l'angolo del triangolo, ad altri quello del quadrato e altri ad altri. Il
medesimo angolo dedicò a più dèi e allo stesso dio più angoli secondo
i suoi diversi attributi. Con ragione anche Filolao ha dedicato l'angolo
del triangolo a quattro dèi, Kronos, Hades, Ares e Dioniso, compren­
dendo in questi l'intera disposizione quadripartita degli elementi che
si estende dall'alto del cielo in giù, oppure segue le quattro sezioni
dello zodiaco [. .]. Oltre costoro, seguendo una diversa concezione,
.

Filolao chiama l'angolo del quadrato angolo di Rea, di Demeter e di


Hestia" (Philol. fr. A l4).
I centri delle 1 2 facce pentagonali del dodecaedro si possono
raggruppare a quattro perché il quadrato era ritenuto partecipe della
dimensione divina a causa della sua simmetria e "linearità" (opfurr11ç
= "rettangolarità") e anche perché ognuno di questi centri corrisponde

ai vertici di un rettangolo aureo. Inscrivendo poi il dodecagono


nel cerchio secondo il rapporto 360/12, tutti gli angoli della figura
andranno a toccare le 1 2 sedi delle regioni celesti nelle quali la teologia
pitagorica usava collocare, come si è visto, le divinità più importanti
del pantheon169• Era come dire che la rappresentazione geometrica,
la struttura del cosmo e il mondo degli dèi costituivano insieme un
organico sistema sostanziato da un'unica radice simbolica. Per la
verità i pitagorici utilizzavano ampiamente anche il calcolo centrato
sul numero 10 che scaturiva dal simbolismo della sacra tetractys

1 68 Cfr. W. Deonna, Des Dodécaèdres Gallo-Romains en Bronze, Ajourés et


Bouletés, in "Bulletin de l ' Association Pro Aventico", 1 6, Lausanne 1 954,
pp. 1 9-89; L. Saint-Miche), Situation des Dodécaèdres Celto-Romains dans
la tradition symbolique pythagoricienne, in "Lettres d' Humanité", X, Paris
1 95 1 , pp. 92- 1 16.

1 69 Cfr. C. A. Huffman, Philolaus (�f Croton, ci t., pp. 38 1 -390.

204
nel l a quale, come
ricordava l a Theologia
Arithmetica (§ 170), "vi
sono contenuti anche i
numeri l ineari, quell i
piani e quel l i solidi.
Poiché l'uno è il punto,
il due la linea, il tre il
triangolo, i l qu attro
la piram ide, e questi
numeri sono tutti
numeri pnm1 e princìpi
dei nu meri ris petti­
vamente omogenei"
(Ph i lo l . fr. A 1 3) 1 70 •
È questa divisione
decimale che attraverso
fig. 2
la mediazione di alcune
Il dodecaedro disegnato da Leonardo da Vinci sette segrete è giunta
fino al mondo moderno
come elemento centrale
delle attuali forme di misurazione: metro, centimetro, ecc .. Tuttavia
la divisione per 12 fluisce dalle cifre che scandiscono i ritmi cosmici,
25920, 1 2960, 4320, 2160, 1080, 540, 216, 72, 36, 6, ecc., e rimodula
sui 360° gradi del cerchio non l'arcaico settenario appartenente a
quelli che Esiodo chiamava "gli antichi dèi" del mondo primordiale,
ma la divisione per il numero delle divinità fondamentali dell'Olimpo.
Si diceva che fosse stato Ippaso di Metaponto a divulgare la dottrina
del rapporto pentagono l dodecagono l sfera: "dicono che Ippaso fosse

1 70 Testo e traduzione in M. Timpanaro Cardini, Pitagorici, cit., Il, pp. 1 32 1 35,


con ricco commento.

205
uno dei pitagorici e che per aver divulgato per iscritto la sfera che
risulta da dodici pentagoni . . ." (lambl., v. pyth. 88). Secondo i pitagorici
ogni dodecaedro è costruito su alcune formulazioni della figura del
pentagono che doveva avere un ruolo assolutamente centrale all'interno
del sistema simbolico sul quale si articolava il movimento. A sua volta
la costruzione del pentagramma si basava sull"'estensione" graduale di
una linea il cui tracciato andava a toccare i cinque apici di tre triangoli
il cui angolo primario, secondo Filolao, era la sede di quattro divinità.
La sua costruzione veniva regolata su quella che è stata considerata
da sempre una delle scoperte più durature del pitagorismo, la sezione
aurea, ossia il rapporto che scaturisce in una retta divisa in due parti
ineguali nella quale la maggiore è media proporzionale tra la parte
minore e l'intera. Il pentagono costituiva un vero e proprio simbolo
esclusivo e caratterizzante del pitagorismo nel quale venivano rias­
sunti molti aspetti delle sue dottrine e della sua visione complessiva
della vita. La sua importanza era tale da venire adoperato anche come
semplice segno di riconoscimento oppure come segno augurale fra i
membri della consorteria e in questo caso veniva associatao ad invo­
cazioni rituali: "quando scrivevano qualcosa di importante scrivevano
uytatVEtV, "godere buona salute", come l'augurio più adatto all'anima
e al corpo che comprende interamente tutto il bene dell'uomo. Il
triplice triangolo a lati intrecciati, il pentagramma [ottenuto mediante
l'intersecazione di tre triangoli isosceli] del quale si servivano fra i
membri della scuola, era chiamato "salute" (uyEta), e ritenevano che la
'prosperità' (ED npanEtv) e la 'letizia' (XatPEtv) fossero la conseguenza
della 'buona salute' (uytatVEtv)" (Lucian. de lapsu in salut. 5).
In molte rappresentazioni geometriche o architettoniche di autori
classici che si dichiareranno eredi del pitagorismo e la cui indi­
scussa autorità ha attraversato la civiltà europea dall'Antichità fino
al Rinascimento (Vitruvio, Villard de Honnecourt, Piero del la
Francesca, Francesco Giorgi, Enrico Cornelio Agrippa, Luca Pacioli,
Leonardo da Vinci, molti architetti del teatro elisabettiano, ecc.), il

206
pentagono e il pentagramma sono stati considerati correntemente i
simboli geometrici di un perfetto microcosmo che "si distendeva" fino
a toccare i 5 punti nei quali culminavano gli apici di questa figura
quando veniva inscritta nel cerchio (= cosmo). La stessa costruzione
di figure solide attorno allo schema-base del pentagono indicava un
preciso indirizzo simbolico che intendeva ordinare ogni aspetto della
manifestazione universale attorno alla figura dell'Uomo Ideale posto
al centro della perfezione cosmica171•
La raffigurazione del dodecagono nel piano e nello spazio scaturiva
come una sorta di elaborazione complessa del pentagono. Il dode­
cagono equilibrava 12 pentagoni il cui reciproco rapporto si riteneva
articolato sul movimento di una spirale e Filolao addirittura asse­
gnava all'angolo del dodecagono la sede di Zeus "in quanto Zeus
abbraccia in un tutto unico l'intero numero dodici" (fr. A 14). Il
dinamismo espansivo espresso dallo schema pittografico centrato
sull'inscrizione del dodecagono in un cerchio armonizza contempo­
raneamente i 5 elementi fondamentali della cosmologia greca (acqua,
aria, terra, fuoco, più il "quinto"; secondo il fr. B 1 2 conservato da
Stobeo, a questo proposito Filolao precisava che "i corpi della sfera
sono 5, quelli dentro, fuoco, acqua terra e aria, e il quinto, la "nave"
= 'il veicolo', oÀxoç")172, le proprietà che venivano assegnate ad
ogni elemento, le figure dei solidi che ne costituivano la proiezione
geometrica, i dodici segni zodiacali, i dodici mesi dell'anno solare e
persino le varie divinità che si riteneva custodissero i punti nodali o gli

1 7 1 Secondo C. de Vogel (Pythagoras and Early Pythagoreanism, cit., pp. 4-47 e


Appendice A) il pentagono avrebbe già fatto parte della scienza babilonese ben
prima che Pitagora ne scoprisse i valori simbolici rapportabili al microcosmo. E
tuttavia sarà il pitagorismo a renderlo un elemento fondamentale nel simbolismo
geometrico e architettonico, tale da costituire il segno distintivo dell'intera sua
simbologia.

172 Sul sostrato orfico-pitagorico che sostanzia il termine oÀ.Koç, cfr. A. Rostagn i,
Il Verbo di Pitagora, cit., pp. 56-59.

207
angoli delle singole figure rappresentate. Si tratta di una concezione
particolare che armonizza la teoria pan-ellenica degli elementi con
la concezione pitagorica degli dèi posti a presidiare gli angoli del
triangolo, del quadrato, ecc., il cui schema fondamentale deriva quasi
sicuramente da antiche speculazioni sul cosmo e sul significato della
posizione delle stelle e perciò nel suo complesso rivela una forte carat­
terizzazione astrale173• Filolao (fr. B 12 DK) stabilisce la relazione dei
5 elementi con i poliedri nel modo seguente: alla "fredda" e "secca"
terra veniva riferito il cubo, al fuoco "caldo" e "secco" la piramide,
alla "calda" e "umida" aria l'ottaedro, all'acqua "umida" e "fredda"
l'icosaedro e, infine, all'etere che per la sua "quintessenzialità"
rifletteva simbolicamente la sfera del tutto, il dodecaedro assimilato
da Filolao all'oÀ.Koç;. Era come dire che le quattro figure primarie,
come i 4 elementi rispetto all'etere, culminavano nel dodecaedro,
la sintesi delle componenti nelle quali si articola la sfera. Ocello e
Aristotele addirittura precisano che il dodecaedro era il simbolo del
celebre '"quinto corpo' [= i l cosmo], quello dotato di movimento
circolare del quale dicono che siano costituite le cose celesti" (Sex.,
Adv. Mathem. X, 316). Col suo poter riassumere figurativamente il
rapporto del cerchio e della sua divisione duodecimale (= 360/12), il
dodecaedro costituiva una sorta di signatura geometrica del cosmo,
diventava l'immagine stessa della perfetta armonia fra il pentagono e
il cerchio. Era l'elemento raffigurativo essenziale in grado di mediare
fra il microcosmo e il macrocosmo: 5 -12 - 360.
Per capire questo complesso sistema di corrispondenze geometriche,
di figure solide e di posizioni astrali ed evitare di ridurlo ad una
sorta di speculazione para-scientifica o ad un ingenuo gioco pre-filo­
sofico, bisogna aver ben presente che il simbolismo sotteso da queste
brevissime considerazioni non costituiva l'oggetto di una astrusa

1 73 Su tutto ciò cfr. A. Olivieri, Civiltà greca nell 'Italia meridionale, Napoli 1 93 1 ,
pp. 37-45.

208
riflessione che coniugava grossolanamente geometria e ipotesi filoso­
fiche, ma tendeva a mostrare il farsi del K6cr�oç, }"'ordine" e l'armonia
celeste che regola ogni aspetto della manifestazione universale. In tal
modo ogni configurazione simbolica si rivelava uno strumento per
accedere a livelli di conoscenza di tipo antologico. Nella prospettiva
pitagorica annotata da Proclo nel suo commento ad Euclide, la
geometria ha come fine ultimo la "composizione" (crucr-racrtç) delle
figure cosmiche, traduce tutto un simbolismo in grado di rivelare gli
aspetti di quello che Walter Otto chiamava }"'essere profondo" del
cosmo e spesso compone un tipo di rappresentazione articolata su un
movimento spiraliforme che si riteneva dovesse regolare la genesi, il
divenire e lo stesso ordine perpetuo dell'universo.
I l doppio movimento "espansivo" ed "involutivo" tracciato dalla
spirale semplice o da quella quadrata (fig. 3), (la quale poi è proprio
quella che si ritrova agevolmente in una grande quantità di forme d'arte
elleniche e sotto la dizione "voluta ionica" secondo Vitruvio costituiva
un elemento essenziale nella dottrina pitagorica delle proporzioni fino
ad emergere anche in molti trattati del Rinascimento italiand74), è
stato sempre considerato uno dei simboli più adatti per esprimere sia
le modalità della rotazione universale, sia la stessa formazione della
struttura sferica (''la più bella fra le figure solide" diceva Pitagora,
secondo quanto riporta Diogene Laert. VIII, 35) che i pitagorici rite­
nevano dovesse trovarsi alla base dell"'ordine celeste", quello che con
una dizione dall'immensa fortuna avevano chiamato K6cr�oç.
La raffigurazione della spirale e l'importanza attribuita alla rotazione
sottesa rende immediatamente intellegibile la genesi di molta parte
della geometria pitagorica e, ovviamente, anche il movimento ciclico

1 74 Seguiamo M. Losito, La ricostruzione della voluta ionica vitruviana nei trattati


del Rinascimento italiano, in "Mè1anges de l' Èco1e Française de Rome. Italie
et Mediterranée", 1 05, 1 993, pp. 1 33- 1 75.

209
che sta alla base dell'intera manifestazione175•
Secondo questa prospettiva, da un centro immobile ed intemporale che
in quanto tale è anteriore ad ogni determinazione spaziale e temporale
e perciò stesso potrebbe persino non trovare una sua formulazione
grafica ed essere espresso invece come un puro vuoto, si origina il
divenire e lo stesso cosmo nel quale si inverano tutte le possibilità di
manifestazione contenute in quel punto originario.

fig. 3

In virtù del movimento rotatorio impresso alla vita universale e poi


dell'inevitabile esaurimento della sua stessa forza espansiva, il cosmo
produce un moto di "ritorno" fino a venire "riassorbito" nel punto dal
quale si era generato.
L'uti lizzazione pitagorica del simbolo della spirale riprende un uso
ellenico molto antico attestato non solo dalla sua abituale presenza
nell'arte templare nella quale una molteplicità di schematizzazioni
ripete sempre questo motivo fondamentale, ma anche da una lunga

I 75 A iuta a spiegare questi aspetti P. Ansov i n i , L 'infinito nella concezione


aritmo!?eometrica del pita!?orismo, in "Annali della Facoltà di Lettere
dell 'Università di Perugia", 1 6- 1 7, 1 978- 1 980, pp. 1 95-2 1 0.

210
serie di composizioni che con costanza e uniformità sono state ripro­
dotte per secoli nei manufatti, nelle pittografie che adornano molti
vasi e persino nelle raffigurazioni della ceramica di Dipylon. La
spirale documenta una sapienza presente diffusamente anche a livello
popolare che gli artigiani greci hanno perpetuato senza soluzione
di continuità durante tutta la storia ellenica e ne hanno espresso il
valore attraverso un simbolismo che articolava molti aspetti formali
della loro arte. Il suo movimento rivela quel tipo di "logica cosmo­
logica" che Aristotele spiegherà nel suo "De generazione et corrup­
tione" (yEvEm::roç Kat qrfropaç), un testo nel quale le sue riflessioni
riprendono visibilmente molti aspetti delle teorie sull'origine, lo
sviluppo e il dissolvimento cosmico scaturite dalla cerchia dei primi
physikoi o da quei palaioì theologoi, gli "antichi teologi" ai quali
molto spesso sembra appoggiarsi anche Platone: "gli 'Antichi' che
erano più ricchi di dottrina di noi e vivevano più vicini agli dèi"
(Phil. 16d). Questa speciale menzione e la stessa sua articolazione
morfologica che probabilmente indica i dottrinari di un mondo prece­
dente la stessa costituzione delle città elleniche, è molto particolare
e tale da escludere la possibilità che qui Platone si riferisca solo a
Omero e ad Esiodo perché la dizione sembra includere non solo gli
orfici e i cosmologi arcaici cui egli sovente si riferisce appoggiandosi
alla loro indiscussa autorità, ma anche i physikoi, i mitografi e quei
poeti-cantori cui accenna ripetutamente anche Aristotele (Metaph. A
107l b27; N 1091b5). Nel loro complesso si tratta quasi sicuramente
delle stesse "antiche dottrine" che stando al suo perduto trattato De
Philosophia, anche Aristotele aveva potuto conoscere durante i suoi
lunghi anni di giovanile frequentazione dell'Accademia platonica della
quale, d'altronde, è nota la disponibilità ad accogliere con una facilità
che allora non aveva confronti le forme diversificate di sapienza che
percorrevano il mondo antico.
A sua volta il simbolo della "doppia spirale" (fig. 4) serviva anche
ad esprimere pittograficamente la dottrina dell"'eterno ritorno" con

211
la quale si interpretava la "vita cosmica" come se fosse scandita da
due momenti fondamentali: quello "espansivo" che ha determinato
l'esistenza universale, e quello "involutivo" col quale si riteneva che
l'intero cosmo in virtù del suo stesso svolgimento viene "riassorbito"
nella Fonte primigenia dalla quale è germinato.

fig. 4

Dicearco (in Porph., v. pyth. 1 9), che riporta teorie appartenenti al


primo pitagorismol76, in una sua celebre sentenza si sofferma inizial­
mente sull'immortalità dell'anima, poi sull"'omogeneità" degli esseri
viventi e infine sull'analogia di fondo esistente fra l'uomo e il mondo:
"In primo luogo diceva che l'anima è immortale; poi che passa
dall'uno all'altro genere di vita; che, oltre a ciò, dopo un certo periodo
di tempo (Kara nEpioòouç) ciò che è stato ritorna ad essere poiché
nulla esiste di totalmente nuovo; e che tutti gli esseri dotati di anima
vivente vanno considerati come appartenenti alla stessa specie". È una
rapida riflessione fatta in modo da lasciare indovinare una primitiva
speculazione pitagorica sullo stretto rapporto che lega il microcosmo
al macrocosmo al quale sembrano accennare anche Diogene Laerzio
(VIII, 33), Porfirio (v. pyth. 34) e Giamblico (v. pyth. 196). Si tratta

1 76 Lo studio più attento resta quello di F. Wehrli, Die Schule des Aristate/es. I.
Dikaiarchos, Basel-Stuttgart 1 967.

212
di una dottrina certo non usuale nella filosofia ellenica pre-socratica,
ma le cui implicazioni lo svedese Anders Olerud ha ritrovato con
identiche strutturazioni esplicative anche nell'orfismo, nel Timeo
platonico così ricco di dottrine pitagoriche sull'ordine cosmico, e in
alcuni paralleli testi di rilevante importanza dell'Iran e dell'India177•
Si può aggiungere che l'equivalenza microcosmo-macrocosmo si trova
chiaramente delineata, secondo modalità che autorizzano a pensare
alla trascrizione di un patrimonio dottrinale molto più antico, non
solo in alcune scuole elleniche di medicina e in modo particolare
in quella di Cnido, ma anche nel cosiddetto Corpus Hippocraticum
e negli Pseudopythagorica, la tarda raccolta di testi apocrifi scritta
in un dorico artificiale e attribuiti ad Archita, Aresa, Callicratida,
Damippo, Diotogene, Ecfanto, Eurifamo, Ippodamo, Metopo, Teage,
Stenida e Timeo di Locri 178 •

1 77 A. Olerud, L 'idée de Macrocosmos et de Microcosmos dans le Timée de Platon.


Ètudes de Mythologie comparée, Uppsala 1 95 1 . Lo studio di Anders Olerud
si appoggia ai risultati delle comparazioni indo-iraniche di Stig Wikander e
soprattutto di Kasten Ronnow che aveva studiato il significato di alcuni rituali
vedici e in una serie di articoli di grande valore li aveva comparati alle cosmogonie
orfiche e a quelle dionisiache. Da parte sua Geo Widengren non solo ha approvato
le ricerche di Olerud, ma ne ha sviluppato ampiamente i postulati nel capitolo sul
panteismo del suo poderoso Religionsphiinomenologie. L'unico a criticare Olerud
e Ronnow, ma su basi non decisive, è stato Ugo Bianchi, poi ripreso integralmente
e quasi negli stessi termini, ma senza citare la fonte, da B. Lincoln, Death, War
and Sacrifice, Chicago 1 99 1 , p. 1 67, che però dà l'impressione di non conoscere
direttamente gli scritti degli studiosi svedesi. Una buona presentazione di quella
che l 'autore chiama "the analogy of the Macrocosm and the Microcosm" nel
mondo antico si trova come premessa al libro postumo di Leo Spitzer, Classica!
and Christian Ideas of World Harmony, Hatcher 1 963.

1 78 Per questi aspetti della scuola medica di Cnido cfr. essenzialmente J. Ilberg,
Die Arzteschule von Knidos, Leipzig 1 929. I testi pseudo-pitagorici sono stati
studiati da B. Centrane, Pseudopythagorica ethica. I trattati morali di Archita,
Metopo, Teage, Eurifamo, Napoli 1 990. Tracce dell'equivalenza microcosmo­
macrocosmo si trovano nel Corpus Hippocraticum, come ha mostrato A. Gotze,

213
Dopo questa rapida disamina che, fra l'altro, apre uno spiraglio anche
sul modo col quale i pitagorici usavano applicare i loro concetti fonda­
mentali sull'equilibrio e sull'armonia universale, Dicearco sembra
soffermarsi principalmente sugli aspetti relativi al macrocosmo e
conclude affermando che "dopo un certo periodo di tempo (Kara
1tEpioòouç;) ciò che è stato ritorna ad essere poiché nulla esiste di
totalmente nuovo". La struttura della frase permette non solo di veri­
ficare l'idea antico-pitagorica che i vari esseri in certe condizioni
possono "riprendere" ciclicamente le loro esistenze precedenti, ma
anche di trovare una ulteriore possibilità interpretativa. L'espressione
Kara 1tf:pioòouç;, infatti, che può essere resa letteralmente con "perio­
dicamente" o "descrivendo dei giri di tempo", ci riporta ad un ambito
cosmologico e, più precisamente, ad un ciclo cosmico che comporta
un movimento regolare e periodico di rotazione ritmato per questa sua
stessa logica su una "espansione" e un "ritorno", un movimento ciclico
che i pitagorici usavano esprimere anche attraverso il simbolo della
rotazione del rombo, della trottola o, schematizzando, della doppia
spirale. Le implicazioni cosmologiche della dottrina dell "'eterno
ritorno" delineano l'ambito in grado di sostanziare l'ipotesi avanzata
già agli inizi dell'Ottocento dal vecchio, buon August Boeckh secondo
cui per spiegare il lentissimo movimento dell'eclittica e dare signi­
ficato ad alcuni spostamenti degli astri i pitagorici utilizzavano il
computo relativo ad un Grande Anno la cui lunghissima durata può
essere spiegata solo supponendo la loro perfetta conoscenza della
legge astrale della precessione degli equinozi. Ora, la precessione
degli equinozi con la sua regolarità e con la sua periodicità permette di

Persische Weischeit in griechischem Gewande. Ein Beitrag zur Geschichte


der Mikrocosmos-ldee, in "Zeitschrift ftir Indologie und Iranistik", 2, 1 923,
pp. 60-98 ; pp. 1 67- 1 77. Cfr. anche Id., Eine orphische-arische Parallele, in
"Zeitschrift fiir Buddhismus", 4, 1 922, pp. 1 70- 1 75 ; W. Kranz, Kosmos und
Menseh in der Vorstel/ungfriihen Griechischentums, in "Nachrichten von der
Gesellschaft d. Wissenschaften zu Gottingen", 1 936- 1 938, pp. 1 2 1 - 1 6 1 .

214
"misurare" il tempo che impiega il punto vernale per indietreggiare di
l grado in 72 anni fino a percorrere tutto il cerchio cosmico tornando
a O gradi. E poiché i l cerchio è di 360° gradi, il tempo occorrente
per coprire questo lentissimo movimento è esattamente il risultato
di 360° x 72 = 25920, una cifra conosciuta universalmente che con
tutti i suoi sottomultipli si ritroverà in una serie incredibile di computi
calendariali e di racconti mitologici diffusi fra i più diversi popoli
della terra. Questa scoperta delle leggi cosmiche era ben conosciuta
anche agli astronomi babilonesi usi ad armonizzare nei loro calcoli i
1 2960 anni del semiperiodo della precessione degli equinozi, con la
cifra di 4320 (= 25920 : 6) e poi con il ciclo di 10800 anni che designa
esattamente il tempo che impiega nel suo ciclo trentennale il pianeta
Saturno per percorrere l'intero cerchio cosmico: 30 x 360° = 10800.
Ora, la cifra di 4320 (= 12 x 360°) corrisponde anche agli anni che
impiega il pianeta Giove per compiere un'intera rivoluzione annuale
toccando ogni anno un angolo del dodecagono, cosa che potrebbe
gettare un po' di luce su quelle affermazioni di Filolao (fr. A 16, in
Aet. II, 7, 7) che indicavano la "casa di Zeus" posta al centro dell'u­
niverso. Si diceva che i pitagorici fossero pervenuti a questi risultati
grazie ai loro contatti duraturi con i Caldei ai quali questi calcoli
erano molto familiari, come documenterebbero anche alcuni passaggi
dell'opera straordinaria del sacerdote Berosso. D'altronde, spesso è
proprio questo complesso mondo teo-cosmologico a dare significato
spirituale a molte di quelle che, una volta laicizzate e sganciate da
ogni radicamento rituale, appariranno solo come geniali creazioni
scientifiche e meri sistemi di computo astrale179•

1 79 Cfr. N. D ' Anna, Il Gioco Cosmico, cit., pp. 1 20- 1 23, dove si trova spiegato il
significato cosmico della durata dei regni dei l O sovrani prediluviali della Caldea
e quella di molti cicli celesti; F. Boli, Sphaera, Leipzig 1 903, pp. 472 e sgg.;
Id., Die Erforschung der antiken Astrologie, in "Neuer Jahbticher", 2 1 , 1 908
(pp. 1 03-1 26), p. 1 1 9. Su Berosso vd. ora S. M. Burstein, The "Babylonica "
of Berossus, Malibu 1 978, che completa il vecchio P. Schnabel, Berossos und

215
Grazie alla scoperta della legge della precessione degli equinozi gli
astronomi pitagorici riusciranno agevolmente a spiegare non solo la
durata della rotazione della sfera celeste, ma anche il cambiamento
periodico della posizione delle diverse costellazioni e il loro ricolloca­
mento di epoca in epoca in nuovi quadranti celesti 180• Si trattava di una
eccezionale capacità di "astrazione imaginativa" che simultaneamente
riusciva a descrivere l'esatta posizione degli astri in interi quadranti
siderei, a cogliere la loro raffi g urazione simbolica e a misurare la
durata dei movimenti dei singoli corpi di quel determinato quadrante
del cielo. È probabile che la strutturazione ciclica supposta da una
famosa testimonianza di Ecfanto (fr. 5) trovi qui le proprie ragioni:
"Eraclide Pontico ed Ecfanto pitagorico fanno muovere la "terra" [=
piano cosmico] non secondo un moto traslatorio, ma rotatorio, posta
su un asse [= axis mundi] come una ruota e girante intorno al proprio
centro da ponente a levante". L'articolazione del frammento è troppo
precisa per consentire un adattamento di dottrine cosmogologiche agli
eventuali movimenti del pianeta terra e, anzi, il complesso rapporto
con l'asse celeste cui il frammento accenna fa supporre un'attenzione
per la rotazione del cerchio zodiacale che compie cicli temporali molto
più complessi, legati al movimento dell'intera sfera celeste e tali da

babylonisch-hellenistische Literature, ( 1 923), rist. Hildesheim 1 968.

1 80 A. Boeckh, Philolaos des Pythagoreers Lehren nebst den Bruchstuchen seines


Werkes, Berlin 1 8 1 9, pp. 1 1 8 e sgg.; pp. 1 35 e sgg. Cfr. B. L. van der Waerden,
Astronomie der Pythagoreer und die Entstehung des geozentrischen weltbildes,
in "Himmelwelt", 5 1 , 1 94 1 , pp. 97- 103; pp. 1 1 4- 1 1 9; M. Timpanaro Cardini, Il
cosmo di Filolao, in "Rivista di Storia della Filosofia", l , 1 946, pp. 322-33 3 ; W.
Burkert, Lore and Science, ci t., pp. 299-368; C. A. Huffman, Philolaos ofCroton,
ci t., pp. 23 1 -289. Sulla dottrina dei cicli cosmici e del Grande Anno nella Grecia
antica, nel pitagorismo e in Platone cfr. N. D ' Anna, Il Gioco cosmico. Tempo
ed eternità nell 'antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006, pp. 1 1 6- 1 38. Utile
pure A. Petit, Le retour éternel et l' avenir eschatologique dans le pythagorisme
ancien, in " l ' Avenir" ("Actes du XXI Congrès de l' Association des Sociétés de
Philosophie de langue française", Athens 1 986), Paris 1 987, pp. 3 3 1 -335.

216
giustificare, come rilevava già August Boeckh, il vero significato di
quella rotazione "da ponente verso levante" allusa dal frammento.
Ma c'è di più. Studiando attentamente il sostrato armonicale dal quale
scaturiscono molte importanti applicazioni delle dottrine pitagoriche,
Hans Kayser ha scoperto (la dimostrazione si trova nel l o cap. del suo
Der horende Mensch) che la cifra di 25920 corrisponde anche alla
quantità di respiri giornalieri dell'essere umano secondo un perfetto
parallelo microcosmo-macrocosmo il cui valore dottrinale affiorerà nel
modo migliore attraverso i cenni contenuti nei frammenti di Dicearco.
Calcolando infatti l'usuale media di 18 respiri al minuto (come ormai
anche i fisiologi moderni hanno appurato quale condizione ordinaria
dell'uomo), e moltiplicando per i 60 minuti di ogni ora delle 24 gior­
naliere, si ottengono 25920 respiri al giorno, esattamente la cifra
dell'intera durata della precessione degli equinozi corrispondente sul
piano armonicale al tono gisA, il quale nella sesta d'ottava superiore
della scala pitagorica è attribuito proprio al numero 25920 (= gisA).
Tutto ciò non può essere relegato nel solito olimpo del "puro caso" e,
anzi, comporta anche una serie di risvolti ai fini della comprensione di
altri simboli pitagorici. Si pensi per es. all'importanza che assume in
alcuni frammenti orfici e nello stesso Platone la dèa Ananke, (''colei che
avvolge il mondo", nt:ptKt:icrfut trot KO<J!Jot, Aet. I, 25, 2; cfr. anche ivi,
I, 21, l , dove il tempo viene identificato con la "sfera che circonda il
mondo"), un rilievo che ha indotto molti studiosi a ritenere che fosse una
divinità tipicamente ortica. Le "leggi" di Ananke regolano l'andamento
della durata e sembrano dare consistenza a quell'enigmatico symbolon
pitagorico che interrogava sul significato delle due braccia distese nelle
rappresentazioni della dèa Rea. Secondo Aristotele (fr. 159 Gigon) le due
braccia della dèa, le "mani di Rea" alluse dal symbolon, rappresentavano
rispettivamente le costellazioni polari dell'Orsa Maggiore e dell'Orsa
Minore. Ne derivava l'immagine di una "grande dèa" che orientava lo
svolgimento del tempo e dei cicli cosmici regolati sul lentissimo movi­
mento del polo celeste. Rea e Ananke personificano le due modalità

217
di un identico simbolismo astrale. La "grande dèa" e le sue "leggi"
stabilizzavano un piano cosmico nel quale "il mare o il fiume celeste"
(= la "lacrima di Chronos") contrassegnava anche il lento scorrere
degli ApK'tot, le due Orse celesti. L'espressione "lacrima di Chronos"
è tipica del simbolismo pitagorico ricordato da Aristotele nel fr. 196 e,
stando a Plutarco (de Iside et Osiride 364 A) e a Clemente Alessandrino
(Strom. V, 49), apparteneva anche al patrimonio simbolico degli orfici
che adoperavano la medesima espressione dakrua diòs per significare la
"lacrima [o la pioggia] divina". A loro volta, le Orse sono le costellazioni
che, come precisava Crizia (TrGF43 F3), fungevano da "corona" all'asse
immobile del polo nord girando su ali vorticose che Ferecide, il maestro
di Pitagora, poneva sulle spalle di Chronos, il Tempo iniziale. Chronos
diventava così il divino "produttore" e il "garante" dei ritmi della crea­
zione, colui che stabilizzava il "mare celeste" e delineava le "misure"
di un cielo posto sotto la sua sovranità. Ferecide considerava Chronos
il simbolo stesso dell"'albero del mondo" posto a regolare nel quadrante
occidentale del cielo anche la posizione della "lira delle Muse" (= la
costellazione delle Plèiadi formata da sette stelle) e al di sotto della fascia
zodiacale il movimento dei "cani di Persefone" (= i "pianeti erranti",
come spiegava Aristotele in Porph. v. pyth. 41).
La rappresentazione siderea che implicano i cenni contenuti in questo
symbolon è stupefacente. Al centro del cosmo troviamo un "Albero
della Vita" assimilato a Chronos = Tempo che regola il movimento
degli astri. Ad Occidente le Plèiadi sono fermamente posizionate nel
loro quadrante celeste sopra la testa del Toro e la loro stabilità ottenuta
dopo l'estenuante inseguimento del gigante Orione permetterà
finalmente a questa straordinaria costellazione di avere un ruolo
fondamentale nel calendario della più antica Ellade. Esiodo ricorda
persino l'esistenza di un calendario stellare precedente quello solare
nel quale una funzione importante avevano costellazioni (ladi, Plèiadi,
ecc.) e stelle (Arturo, Orione, ecc.) di situazione celeste. In questo
symbolon, poi, la fascia zodiacale appare obliqua rispetto all'equatore

218
celeste e scivola seguendo un movimento regolare da ponente verso
levante mentre i sette pianeti si posizionano, con un moto proprio
contrario a quello delle stelle fisse, in un "ordine" complessivo che
riflette quello che il mito attribuiva alle sette corde della lira. Gli
elementi strutturali di questo famoso strumento musicale (guscio di
tartaruga = piano celeste, le corde = sette pianeti, i sette toni = le
sfere celesti, la corda centrale o monocordo = axis mundi, ecc.) a loro
volta riproducono l'immagine simbolica di un ordine cosmico cui
sovrintende Apollo, il dio che "armonizza in una sola cosa inizio e fine
e il suo plettro è il raggio luminoso del sole" (Scitino fr. 14). In questa
rappresentazione del cosmo il punto centrale è il polo nord celeste
attorno cui ruotano le costellazioni delle due Orse come i bracci di una
bilancia retti da un asse verticale oppure, per usare un'altra immagine
diffusa fra molti mitografi, come i due carri tirati dai rispettivi septem
triones che perpetuamente arano la "terra" attorno all'asse del cielo.
Come si vede, il symbolon pitagorico conservato da Aristotele, sotto
l'usuale veste mitica assolutamente normale presso tutte le civiltà
cosiddette "tradizionali", sembra scaturire da un contesto cosmologico
che addirittura indica con molta precisione i movimenti dell'intera
sfera celeste governata dalla stella polare18 1 •
Queste spiegazioni dei movimenti siderei (così come quelle delle
figure geometriche che come il dodecagono, l'icosaedro, l'ottaedro,
il pentagono, il cubo, ecc. simbolizzano alcuni aspetti della sua "forma
archetipica"), riconducono i loro fondamenti ad un contesto sacrale
perché il computo di tutte le ricorrenze festive che scandivano ogni
aspetto della vita comunitaria ellenica, come mostra in più luoghi delle

1 8 1 Alcuni aspetti di questa arcaica carta del cielo si trovano analizzati in N. D'Anna,
Il Gioco Cosmico, cit., pp. 33-40. Si può notare che esiste una identica tradizione
anche in India. Qui i dodici Adityas, i 1 2 "soli" ciascuno dei quali governa un' èra
cosmica, sono concepiti come "fuorusciti" dalla loro madre Aditi, la potenza
primordiale creatrice, l 'essenza unica ed originaria assimilata ali "'Albero della
Vita" che regge i vari cicli cosmici e lo stesso scorrere del tempo.

219
sue opere lo stesso Platone, veniva fatto scaturire da alcuni importanti
movimenti degli astri e dai momenti più rilevanti del ciclo solare1 82•
Il calendario sacro, gli spostamenti celesti e l'articolazione della vita
sociale diventavano riflessi delle scansioni dell'ordinamento cosmico
poiché la nascita di questo tipo di calendario coincide con la presa di
coscienza del significato cosmico della vita umana e con la possibilità
di tradurre in simboli la relativa esperienza spirituale. L'articolazione
di questo calendario celeste può trovare significato solo sul piano
di una "geometria immaginale" nella quale le varie figure appaiono
come conformazioni schematizzate in grado di riflettere sia le varie
situazioni celesti che di scandire i ritmi liturgici in grado di tradurne
il significato sacro. L'uso simbolico e rituale di questi segni celesti
rimanda ad una dimensione pre-formale dell'esistenza, anteriore allo
stesso apparire degli enti corporei.
Si può aggiungere che lo stesso valore simbolico che, d'altronde, non
è una sorta di astrazione intellettualistica o un paradigma puramente
mentale, ma dà significato "trascendente" anche al suo collaterale uso
empirico, assumeva lo gnomone (= yvrof..troV, dal verbo ytyvrocrKro),
}"'interprete" (&crcpa'trov yvrof..troV dà !'"interprete degli oracoli"), lo
strumento di misurazione che Erodoto (Il, 109, 3) pensava fosse stato
inventato da Anassimandro su sollecitazione, ancora, della scienza
babilonese. Il noto suo uso aritmetico non ne esaurisce il simbo­
lismo. L'ombra dello gnomone proiettata su un piano, infatti, serviva

1 82 Fu l'ormai troppo trascurato A. Rostagni, Il Verbo di Pitagora, Torino 1 924,


ad indicare per primo in Italia la dimensione spirituale del pitagorismo e a
tentare di ricostruire quello che a lui appariva come un vero e proprio Hieros
Logos pitagorico. Cfr. anche F. M. Cornford, Mysticism and Science in the
Pythagoreism, cit., pp. 1 37- 1 50; 17, 1 923, pp. 1 - 1 2; F. Franco Repellini, Percorsi
dell'anima e scenari della sapienza. Una ricostruzione del cosmo pitagorico, in
"Aut-Aut", 1 84- 1 85, 1 98 1 , pp. 67-94. Sui rapporti del tempo e dei cicli cosmici
con i movimenti del sole cfr. N. D 'Anna, Il gioco cosmico. Tempo ed eternità
nell 'antica Grecia, Roma 2006.

220
quasi sicuramente ai pitagorici per seguire il lento percorso del sole,
interpretare il significato liturgico delle sue posizioni e scandire un
calendario sacro centrato sui punti di riferimento celesti toccati via
via dall'astro della luce. Il suo valore probabilmente procedeva dal
carattere primario attribuito allo gnomone quale riflesso tecnico­
operativo dell'axis mundi che regge la sfera cosmica e regola i ritmi
che ne scandiscono la lenta rotazione1 83•
Da questo speciale simbolismo assiale veniva fatta derivare diretta­
mente anche la squadra, lo strumento che tracciava "le misure" di
uno spazio sacro delineato all'interno di coordinate che trovavano in
cielo, ancora, i punti di riferimento originari e la cui particolare forma
rettangolare articolava la lettera gamma r dell'alfabeto greco, come a
dire che gli stessi fonemi e le "qualità" o le "virtù" veicolate da ogni
singola lettera della serie alfabetica scaturiscono tutte da un fonda­
mento aritmosofico. Seguendo i suggerimenti di Rìchard Hinckley
Alleo formulati nella sua celebre e poderosa analisi delle stelle, dei
loro nomi, delle loro posizioni nei quadranti celesti e del simbolismo
di cui erano il veicolo, si può aggiungere come cosa molto probabile
che nel più antico sistema di rappresentazione delle costellazioni
celesti la lettera gamma greca, corrispondente alla lettera Gimel, "la
gobba", dell'alfabeto fenicio, costituisse lo schema fondamentale di
quello che poi sarà il glifo della costellazione del Cancro o, almeno,
ne riproduce l'angolo inferiore. Molti antichi astronomi, infatti, rite­
nevano che lo schema essenziale del graffito celeste del Cancro che
sembra disegnare una grossolana lettera Y capovolta, indicasse il
periodico ricominciare del corso del sole che ogni anno scandisce
l'inizio del suo scorrere sull'eclittica e perciò fissa il solstizio estivo

1 83 Cfr. A. Boeckh, Philolaos des Pythagoreers, ci t., pp. 1 42 e sgg. Più in generale,
sull ' astronomia di Filolao vd. C. A. Huffman, Philolaus of Croton, cit., pp.
23 1 -288. Sullo gnomone cfr. C. Lanzi, Ritmi e Riti, ci t., pp. 4 1 8-42 1 , ma v d.
pp. 394 e sgg. per le "forme geometriche".

221
posto figurativamente nell"'angolo" della lettera gamma, alla levata
del sole in questa particolare costellazione.
Dalle diverse collocazioni dello gnomone e dall'orientamento che ne
scaturiva, seguendo via via il movimento del sole si faceva derivare
anche la formulazione di alcune figure geometriche che si riteneva
avessero una solida valenza astrale e dalle quali si ricavava per "adat­
tamento" il loro significato geometrico. L'esempio più rivelatore è forse
quello della figura del quadrato ottenuta attraverso la congiunzione
di due lettere gamma invertite che proprio per il legame della lettera
gamma con l'inizio del ciclo solare ne faceva una specie di signatura
del tempo delle origini. Il simbolismo primario del quadrato che
tende a rivelare una condizione di stabilità veniva perciò riferito sia
all'età di Saturno, il dio delle "misure", sia al sistema di equilibrio
che segnava l'età aurea, quella nella quale aveva regnato il re degli
dèi, quando si riteneva che il tempo fosse quasi fermo, senza scorri­
mento, "a-cronico". Articolando le diverse rappresentazioni derivate
dal quadrato e inscrivendolo in un cerchio Vitruvio mostrò addirittura
come da questa figura ne poteva emergere quell" 'homo quadratus" la
cui struttura simbolica, in grado di armonizzare il cerchio, il pentagono
e il quadrato (= cosmo, Uomo universale e terra), nella sua essenzialità
costituirà la base di molte opere d'arte elleniche come l'architettura,
la scultura, parecchi aspetti della ceramica, ecc., fino ad arrivare ad
influenzare in modo determinante anche i diversi tratteggi sull"'Uomo
Ideale" che fioriranno durante il Rinascimento italiano (fig. 5).
Persino quella che sarà conosciuta come la generazione gnomonica
dei numeri veniva fatta derivare prima dai vari adattamenti della
posizione dello gnomone, poi dalle i mplicazioni che impone il
movimento della luce solare misurato da questo speciale axis mundi,
infine dalle stesse modalità con le quali venivano disposti attorno allo
gnomone i calculi la cui configurazione andava a dare gli elementi
formali di fondo ad ogni costruzione numerica e geometrica.

222
fig. 5 L'homo quadratus di Leonardo da Vinci

223
7. L'armonia delle sfere

I vari problemi di geometria, la numerologia, la stessa sapiente sintesi


di geometria, musica e numeri così caratteristica del pitagorismo,
corrispondevano non alla necessità di una logica matematica che
tendeva solamente a dimostrare e a calcolare, ma alla stessa condi­
zione antologica dell'universo, alla sua "realtà essenziale", alla "forma
archetipica" che il pitagorico intendeva contemplare. Nella prospettiva
dell'iniziato pitagorico i numeri, le figure geometriche e la musica
assumevano il valore di "princìpi primi" del reale, spesso costituivano
veri e propri "supporti meditativi" che penetravano il tessuto costi­
tutivo del cosmo, simboli che ne intendevano cogliere la profondità
"essenziale" e indirizzavano ad assumerne i ritmi, a contemplare
quell"'armonia delle sfere" sulla quale si è insistito in Europa sulla
scia tracciata da Pitagora almeno fino a tutto il Seicento, come
mostrano ampiamente le polemiche degli scienziati empiristi contro
l'astronomia "pitagorica" di Johannes Kepler e persino la disputa di
quest'ultimo con il celebre rosacroce Robert Fludd le cui dottrine
cosmologiche restavano ancorate saldamente a quello che Alexandre
Koyré definirà con una dizione fortunata, un "universo chiuso"184•

1 84 Si è ormai certi che la scienza moderna deriva da una scienza sacra come
risultato di una involuzione e di una progressiva materializzazione che ne ha
spezzato il radicamento spirituale e ha provocato lo sman-imento del l 'originario
significato anagogico e dei fondamenti simbolici: E. A. Burtt, The Metaphysicaf
Foundations of Modern Science, London 1 949. Sull "'armonia delle sfere"
nell' astronomia di Kepler, fra la sterminata letteratura, cfr. il pregevole D. P.
Walker, Kepler 's Celestial Music, in "Joumal of the Warburg and Courtauld
Institutes", XXX, 1 967, pp. 228-250. Nello stesso fascicolo si trova l ' importante
studio di P. J. Ammann, The Musical Theory and Philosophy of Robert Fludd,
pp. 1 98-227, per la cui cortese segnalazione ringraziamo il dott. A . Colimberti,
sempre attento a cogliere le articolazioni simboliche delle speculazioni musicali.

224
D'altronde, nel suo aspetto più generale per i pitagorici l"'armonia
delle sfere" non era affatto una bril lante ipotesi para-filosofica
formulata per spiegare approssimativamente e da una prospettiva
mitopoetica alcuni problemi di tipo astronomico, oppure per risolvere
in modo suggestivo il rapporto dell'uomo con l'universo, ma costi­
tuiva uno degli elementi essenziali del loro modo di concepire la vita
cosmica185• Un famoso passo di Aristotele (fr. 58B35 DK, in de caelo,
290B) ha contribuito a banalizzare i l problema quando attribuisce
ai pitagorici l'idea che "muovendosi i corpi di quella grandezza deve
necessariamente prodursi rumore [. . . ], e ruotando il sole, la luna e
gli astri di tale grandezza così velocemente è impossibile che non
si produca rumore di grandezza straordinaria"186• E tuttavia questo
modo tutto empirico di porre i l problema che valuta solo e soltanto
quanto riesce a comunicare la percezione sensitiva, è solo un mezzo

1 85 S ulla dottrina del l '"armonia delle sfere" cfr. B . L. van der Waerden , Die
Harmonielehre der Pythagoreer, in "Hermes", 78, 1 943, pp. 1 63- 1 99; G. J unge,
Die Sphiiren-Harmonie und die pythagoreisch-platonische Zahlenlehre, in
"Classica et Medievalia", 9, 1 947-48, pp. 1 83- 1 94; A. C. Bowen, The Foundntions
of Early Pythagorean Harmonic Science: Archytas, Fragment l , in "Ancient
Philosophy", 2, 1 982, pp. 79- 1 04. Cfr. anche M. Schneider, Die musikalischen
Grundlagen der Sphiirenharmonie, in "Acta Musicologica", 32, 1 96 1 , poi in Id.,
Il significato della musica, (Milano 1 970), 5" ed. 1 996, pp. 205-227; H. Kayser,
Abhandlungen zur Ektypik harmonicaler Wertformen, Ziirich 1 938, pp. 75- 1 07;
W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 350-385; J. Godwin, The Harmony of
Spheres. A Sourcebook ofthe Pythagorean Tradition in Music, Rochester 1 992; V.
Capparelli, La Sapienza di Pitagora, cit., Il, pp. 6 1 1 -707; 1.-F. Mattei, Pythagore
et !es Pythagoriciens, ci t., cap. V. L'importante contributo di Archita alle teorie
musicali pitagoriche è stato annotato da C. A. Huffman, Archytas ofTarentum,
cit., pp. 402-482. Per alcune articolazioni simboliche che coniugano alfabeto,
numeri e musica cfr. A. Barbera, The Consonant Eleventh and the Expansion
of the Musical Tetractys. A Study of Ancient Pythagoreanism, in "Joumal of
Music Theory", 28, 2, 1 984, pp. 1 9 1 -223.

1 86 Sul valore di questo passo di Aristotele cfr, C. A. Huffman, Philolaus ofCroton,


cit., p. 1 58.

225
per obbligarsi a non capire i l significato veritiero della dottrina
dell'"armonia delle sfere" e i suoi fondamenti spirituali.
Si dice che Pitagora avesse avuto l'intuizione di questa verità udendo
il suono emesso dai colpi del martello di un fabbro sull'incudine
(lamb. v. pyth. 1 15 e sgg.). Ascoltando con attenzione si accorse che
i diversi colpi del martello a poco a poco componevano gli accordi
di quarta 4/3, di quinta 3/2 e di ottava 2/1 e che persino la stessa
altezza dei suoni poteva essere modulata a seconda della massa dei
martelli usati per colpire. Ogni colpo di martello non si limitava a
battere il ferro e l'orecchio attento di quell'ascoltatore straordinario a
poco a poco scopriva che intonava ritmi, modulava suoni scaturenti
da una sfera acustica pre-formale che a Pitagora si svelavano come
accordi e suoni armonicali. Questa speciale attitudine di Pitagora è
rinvenibile in altre aree culturali. Nel mondo dello sciamanesimo, per
es., quando deve esercitare la sua arte di guaritore lo sciamano batte
le sue mani sul tamburino sacro e ne fa scaturire speciali musiche
che a poco a poco si ordinano sul flusso disordinato del respiro del
malato, poi regolano il suo ritmo respiratorio, scacciano gli spiriti che
ne avevano provocato la malattia e infine lo conducono alla guari­
gione. Da un suono parossistico e spesso violento si perviene ad un
ritmo calmo, misurato, regolare. È la stessa ambientazione rituale
che nell'Ellade aveva alimentato la scienza armonica che permise al
pitagorico Aristosseno, antico studente delle famose scuole di musica
e danza di Mantinea e autore di un importante manuale di musica,
di guarire col suono del suo àulos un tebano impazzito.
L'aneddoto che concerne la scoperta dell'"armon ia delle sfere"
da parte di Pitagora rivela tutto i l suo valore simbolico e i fonda­
menti sacri della musica pitagorica ove si ricordi che nell'Ellade
delle origini il fabbro, questo temuto "signore del fuoco" che con la
propria arte di forgiatore trasformava il metallo e dava forma alle
potenzialità della materia grezza, era considerato l'equivalente di
un demiurgo e veniva assimilato ad un mago-sciamano. La sua arte

226
scaturiva dalla stessa area sacra che alimentava il culto di Hefestos,
la figura divina che pur facendo parte del pantheon olimpico aveva
conservato elementi spirituali appartenenti ad uno stadio primordiale
della vita religiosa, quando i ruoli di guaritore, indovino, manipo­
latore del fuoco, metallurgo, poeta, cantore e musica emergevano da
un unico fondamento magico-sacrale comparabile in tutto a quello
che ha sempre sostanziato lo sciamanesimo e la particolare capacità
degli sciamani di percepire i suoni e i ritmi armonici della natura,
la dimensione sacra radicata nel sovra-sensibile che resta totalmente
celata ai poveri sensi empirici ed "esteriori" dei comuni mortali.
La recitazione dei sacri inni considerata dagli antichi come parte
essenziale della vita dell'iniziato pitagorico può così condurre ad
ipotizzare che il suono della lira, lo strumento eminentemente apol­
lineo che dall'orfismo era passato al pitagorismo, avesse un valore
cosmico. I sacri canti si articolavano attorno al suono delle sette
corde della lira e ognuna di esse doveva riverberare nel mondo la
condizione spirituale simbolizzata dalla rispettiva sfera celeste. Su
questo repertorio di toni e di suoni si sviluppava un simbolismo
musicale che interpretava il significato dei ritmi cosmici e proba­
bilmente costituiva anche uno dei veicoli di realizzazione spirituale
nei rituali che prospettavano l'ascensione dell'iniziato attraverso i
diversi cieli di un universo simbolico. Eliano raccontava persino che,
trasponendo questa dottrina sul piano sociale, in molte città greche
era usuale fare apprendere le norme legislative ai fanciulli ripetendo
il testo delle leggi assieme ad un ritmo melodico che se da un lato
portava ad uno straordinario potenziamento della loro memoria,
dall'altro serviva a considerare immutabili le leggi dello stato perché
assimilate agli stessi ritmi che pervadono il cosmo. Questo sostrato
armonico dell'esistenza condusse i pitagorici a trasporne i fondamenti
anche a livello microcosmico e addirittura Aristotele individuò una
sorta di gerarchia delle sensazioni umane ordinata attorno a questa
dottrina fondamentale: "quanto poi alle sensazioni che si producono

227
nei corpi mediante l'armonia, quelle celesti che sono divine [ . . . ],
cioè la vista e l'udito, manifestano l'armonia col suono e con la luce;
le altre, loro seguaci, in quanto sensazioni sono anch'esse costituire
secondo armonia [. . . ] . E tuttavia le prime producendosi nei corpi
con la presenza della divinità, hanno una natura in proporzione più
vigorosa e più bella" (Aristot. fr. 47 Rose, c. 23).
Come si vede, }"'armonia delle sfere" procedeva da quella che era
ritenuta l'intrinseca eufonia della sfera celeste, ne costituiva l'au­
tentico sostrato originario rivelato attraverso la corrispondenza fra
miti, costellazioni, moti degli astri, numeri, geometria, musica, orga­
nismo sociale e struttura interiore dell'uomo, secondo una complessa
griglia simbolica che Hans Kayser riepilogava nella nozione di
Wertform la sintesi di "valore" e "forma", il "suono-numero" del
simbolismo pitagorico, l'archetipo di ogni ente manifestato, la "forma
formante" in grado di dare significato ad un universo armonicale il
cui equilibrio essenziale scaturisce dalle relazioni numeriche tra le
lunghezze delle corde di uno strumento che nella sua complessità
espressiva simbolizza lo stesso farsi del cosmo. È quello che affiora
in una famosa affermazione in grado di sintetizzare tutto questo
universo dottrinale (polymathia) attribuita ad Archita da Taranto:
"Coloro che studiano le mathemata (="scienze matematiche") hanno
raggiunto buone conoscenze [. . .] . Così sul movimento degli astri,
sul loro sorgere e tramontare ci trasmisero una perfetta conoscenza
e anche sulla geometria, sui numeri e sulla musica. Queste scienze
(mathemata) sono tutte sorelle" (Archyt. 47B l DK).
Riprendendo i celebri studi di Albert von Thimus sul simbolismo
armonicale e sulle sue basi dottrinali pitagoriche187, ma ampliandone

1 87 Cfr. A. von Thimus, Die Harmonikale Symbolik des Altertums, 2 voli., Ki:iln
1 868- 1 876, in parte ripreso, ma formulato con altre prospettive, da E. Hommel,
Untersuchungen zur hebriiischen Lautleher, Leipzig 1 9 1 7, parte I, che scoprì
nell'antico alfabeto greco e nell'articolazione grammaticale l 'esistenza di un
sostrato numerico e armonicale in grado di sostanziare la stessa metrica e il

228
il sostrato di riferimento a tutti gli aspetti della creazione universale
e alle implicazione che ne derivavano nella considerazione dei ritmi
temporali, Hans Kayser dimostra che proprio a partire da questo fonda­
mento armonicale originario scaturisce la sapiente sintesi di suono,
proporzione numerica, visione e figure geometriche che probabilmente
si appoggiava ad una sorta di applicazione ad hoc delle diverse scienze
sul valore dei sensi ed era in grado di sostanziare la parte più consi­
stente dell'arte ellenica. Platone a questo proposito sintetizza in una
frase che ha il sapore dell'aforisma una tipica concezione pitagorica
nella quale i sensi assumono il ruolo di veicolo di svelamento di una
realtà che trascende il semplice ambito percettivo: "come gli occhi
sono fatti per l'astronomia così le orecchie per il moto armonico e
queste due scienze sono fra loro sorelle" (Resp. 530d).
Il caso più famoso di euritmia che qui può interessare è probabilmente
quello delle opere d'arte di Policleto ritenuto da sempre dalla tradi­
zione un pitagorico le cui sculture si ordinavano tutte attorno al valore
esemplare del numero: "come ricorda il detto dello scultore Policleto,
'la perfezione si raggiunge per un punto mediante molti numeri"' (Phil.
Mechan., IV, 1)'88• Anche se ormai possiamo giudicare solo attraverso
sparuti frammenti, le sue analisi ci permettono di comprendere l'ar­
monia sovrumana che permea tutta la statuaria divina che ha arricchito
la civiltà ellenica e la volontà di inverare nelle varie figure, persino in
quelle che ritraevano solamente uomini famosi, non un astratto ideale
di completezza escogitato da qualche singolo artista, ma quella che nella

ritmo dei versi. Cfr. anche il cap. sulla lingua greca contenuto in J. Canteins,
Phonèmes et Archétypes. Contextes autour d'une structure trinitarie: A-1- U,
Paris 1 972. L'autore ha poi esteso la sua mirabile indagine anche ad altri mondi
spirituali: Id., La Voie des Le!tres. Huit essais sur la symbolique des Lettres dans
le Souphisme, la Kabbala et le Bouddhisme Shingon, Paris 1 98 1 .

1 88 Cfr. P. E. Arias, Policleto, Firenze 1964, pp. l i O e sgg.; pp. 1 1 5 e sgg.; D. Schulz,
Kanon Polykletes, in "Hermes", 83, 1 955, pp. 200-220; J. E. Raven, Polyclitus
and Pythagoreanism, in "Classica! Quarterly", 45 , 1 95 1 , pp. 1 47- 152.

229
filosofia platonica diverrà l'idea dell"'essere perfetto", l'archetipo divino
sul quale si ordina la condizione umana e verso la quale doveva tendere
ogni iniziato pitagorico: "la bellezza egli ritiene che consista nella
proporzione non degli elementi, ma delle parti, cioè di un dito rispetto
ad un altro dito, di tutte le dita rispetto al metacarpo e al carpo, di questo
rispetto all'avambraccio, dell'avambraccio rispetto al braccio e infine
di tutte le parti fra di loro, come è scritto nel Canone di Policleto"189•
Al centro di questo tipo di prospettiva che comportava una cura
estrema nel perfezionamento del corpo (eugenetica), nella purifi­
cazione interiore (ascesi) e nella trasfigurazione dell'anima (inizia­
zione), si trova sempre una simmetria assoluta fra tutte le singole parti
dell'essere umano, un'armonia che dà significato alla proporzione
complessiva degli organi e dei vari arti commisurata al simbolismo
numerico, ai suoi rapporti espressi in frazioni, a quello geometrico
e a quello musicale, una awuprovia nell a quale rilievo essenziale
assumeva la celeberrima sezione aurea e le misure o i rapporti che
ne derivavano quando veniva trasposta in ogni aspetto del reale.
Dal punto di vista artistico, questo tipo di armonia pitagorica non si
limitava ad esprimere un ideale etico, ma tendeva ad una vera e propria
trasfigurazione dell'immagine, rivelava la condizione di perfezione
primordiale nella quale si sentiva radicato il pitagorico e coglieva
la sintesi "umana" delle tre consonanze musicali fondamentali 4:3;
3:2; 2: 1 . Un frammento di Filolao conservato da Stobeo spiega così il
signific ato dell'armonia universale considerata come l'elemento più
arcano e caratterizzante dell'intera manifestazione universale: ". . .
quando i princìpi non erano simili né omogenei diventava impos­
sibile armonizzarli se non fosse intervenuta la stessa armonia. Le cose
simili e omogenee non hanno bisogno dell'armonia, mentre tutto ciò
che è dissimile e non omogeneo è necessario che sia tenuto insieme

1 89 Galeno, De plac. Hipp. et Plat., V, p. 425, 1 4 Miill., in M. Timpanaro Cardini,


I Pitagorici. Testimonianze e Frammenti, cit., II, pp. 20-23.

230
dall'armonia per poter essere contenuto nel kosmos" (Philol. 44B6
DK, in Stob. Ecl. I, 21, 7d).
A questa universale CJU)Hprovia che riconduceva ad un principio
unitario la famosa dualità simile/dissimile sulla quale aveva insistito
Aristotele nella sua analisi del pensiero pitagorico e che traduceva
in termini cosmologici il dualismo di tipo antologico procedente
dal l'Uno principiale, Filolao riportava anche quella che può essere
definita la stessa dinamica creativa di questo dualismo che così
rivelava la sua natura di modalità antologica con la quale si deter­
minano gli enti e i realia: "II numero ha poi due generi propri, pari e
dispari, e un terzo risultante dalla loro mescolanza, il 'parimpari' (=
artioperitton). Ognuno di questi generi assume molte forme delle quali
ogni cosa rivela il segno" (Philol. 44B5 DK, in Stob. Ecl. I, 21, 7c).
Nel suo ampio studio su Filolao più volte menzionato, C. A. Huffman
ha mostrato che tale dottrina rimanda in parte a quella dell'armonica
perché il "parimpari" è costituito da una serie di rapporti di numeri
pari e impari la cui relazione può trovarsi solo e soltanto negli inter­
valli musicali 4:3, 3:2, 2:1190• È anche probabile che la famosa dimo­
strazione degli intervalli sinfoni fatta con i vasi ad opera di Ippaso
tendesse a rendere concreta e sperimentabile questa teoria musicale191•
Come si vede, l'importanza della dottrina dell'armonia universale nel
pitagorismo è fondamentale e i discepoli di Pitagora la ritrovavano
in tutti i campi del sapere come elemento costitutivo essenziale. Da
essa facevano derivare anche diverse applicazioni nelle varie scienze
fra le quali speciale importanza assumeva la fisiognomica, quella
particolare scienza che attraverso lo studio delle fattezze esteriori

1 90 C. A. Huffman, Philolaus of Croton, cit., pp. 1 86- 1 90. Sul valore matematico
deli'artioperitton, vd. anche P.-H. Miche!, De Pythagore à Euclide. Contributian
à l'histoire des mathematiques préeuclidiennes, Paris 1 950, pp. 335 e sgg.

1 9 1 Cfr. B. L. van Waerden, Die Harmonielehre der Pythagoreer, in "Hermes", 78,


1 943, (pp. 1 63- 1 99), pp. 1 80 e sgg.

23 1
e delle proporzioni delle varie parti del corpo umano permetteva ai
pitagorici di risalire al valore spirituale dell'uomo, alla sua struttura­
zione psichica e alla sua eventuale capacità di superare tutte le prove
di tipo iniziatico richieste agli adepti del sodalizio.
La stessa relazione dell'uomo col mondo viene da Hans Kayser rein­
terpretata alla luce dei postulati armonicali che pongono al centro e
al culmine dell'intera manifestazione l'"Uomo Ideale", l'Archè-Typus
di ogni essere vivente, la "Forma umana primordiale", l'Urmensch di
alcuni filosofi romantici che hanno elaborato questi aspetti del pita­
gorismo prima attraverso Platone e poi sviluppando le implicazioni
sugli archetipi tipici della dottrina sulla natura di Goethe. Situando
questo "Uomo Ideale" al centro della vita cosmica, come faranno
molte espressioni artistiche "pitagorizzanti" del Rinascimento italiano
nelle quali si trova "fermata" non una qualsiasi figura umana, ma
proprio questo archetipo universale nel quale si intendono arrivate a
compimento perfetto tutte le possibilità più elevate della condizione
umana, ne doveva conseguire necessariamente che la totalità delle
"forme" del nostro stato di esistenza, dunque anche quelle del mondo
animale e vegetale, devono essere ricondotte ad uno status secon­
dario perché sostanzialmente derivate da quella originaria e perfetta
"Forma umana primordiale". Come per una sorta di esteriorizzazione,
di progressiva individuazione e di differenziazione che in quanto tale
costituisce un suo sostanziale impoverimento in una progressione
continua verso l'indeterminato e l'indistinto, da questa originaria
perfezione della "Forma umana primordiale" che al proprio livello
riflette la totalità onnicomprendente dell'Uno, sarebbero scaturite le
"forme formanti" presenti in principio in questa dimensione origi­
naria, ossia i princìpi costitutivi prima delle varie specie e poi di tutti
i singoli esseri viventi nella cui moltitudine indefinita si articola la
manifestazione universale192•

1 92 Cfr. H. Kayser, Akroasis. La teoria dell 'armonia del mondo, Roma 200 1 , pp.

232
Nel 1 954 Hans Kayser pubblica Paestum che nelle sue intenzioni
doveva costituire una semplice digressione di uno studio molto più
ampio dal titolo Orphikon e del quale apparve solo una piccola parte
uscita postuma nel 1972, Die Welt der Gotter. È qui che le figure
divine venivano interpretate secondo il più puro spirito pitagorico
come l'espressione delle diverse gerarchie cosmiche scaturite da un
originario "suono inespresso" permeante ogni cosa193• Paestum resta
un libro straordinario. Dopo aver inquadrato il problema archeologico,
Hans Kayser fece emergere gradatamente l'esistenza di una base
armonicale prettamente pitagorica che permeava l'architettura dei tre
templi della famosa colonia dorica: la "basilica" costruita nel 550, il
tempio di Cerere del 5 10 e quello di Poseidon del 460/450. Le stesse
datazioni di questi templi suggeriscono persino che gli architetti del
complesso templare possano essere stati contemporanei di Pitagora
o, almeno, vicini al mondo pitagorico crotoniate e ad alcuni dei suoi
esponenti più importanti, tali comunque da dovere necessariamente

35-52. La concezione sull "'Uomo Primordiale" che in Occidente ha le sue basi


documentarie in alcune opere di Platone, ha goduto di molta fortuna a partire
da Goethe e ha toccato molti filosofi, biologi e paletnologi romantici. Sulla
questione è tornato in un suo denso libretto (pp. 78) anche lo storico medievista
Alois Dempf, Die Weltidee, Johannes Verlag Einsiedeln, Freiburg 1 955 (che
tratta i seguenti argomenti : Der Mensch als Urform: Ober Edgar Dacquè; Der
Sinn des Lebendigen: Ober Jacob von Uexkiill; Die Weltidee: Der Mensch im
Kosmos). Cfr. anche E. L. Dieterich, Der Urmensch als Androgyn, in "Zeitschrift
fiir Kirchengeschichte", 58, 1 939, pp. 297-345; E. Benz, Adam. Der Mythus
des Urmenschen, Miinchen 1 955.

1 93 Reso in italiano da E. F. Frola: H. Kayser, Paestum, Roma 2008, che ha tradotto


anche il monumentale H. Kayser, Manuale di Armonica, 5 voli., Milano,
1 998-200 l , la summa della dottrina armonicale pitagorica. Questi studi sono
stati ripresi con originale sintesi dal suo discepolo R. Haase, Geschichte des
harmonikalen Pythagoreismus, Wien 1 969. Cfr. anche l 'articolata opera dell' altro
suo allievo che svela la relazione fra gli archetipi celesti, i simboli geometrici,
la struttura cosmica e il cerchio zodiacale: 1. Schwabe, Archetip und Tierkreis,
Base1 1 95 1 .

233
risentire degli effetti delle sofisticate forme matematico-geometriche
che sostanziavano molti aspetti delle dottrine insegnate nei circoli
pitagorici della Megàle Hellàs. La struttura formale dei tre templi, le
diverse proporzioni architettoniche, il numero e la simmetria delle varie
colonne, il rapporto musicale che scaturisce emerge dal loro numero, le
scanalature che ornano ogni singola colonna di stile dorico sono tutti
elementi che secondo Kayser stabiliscono un ordine complessivo in
grado di consentire alla luce solare, nelle diverse fasi segnate dal corso
e dalla posizione dell'astro diurno, di alternare fasce di luce a fasce di
ombra secondo una dualità luce/tenebre che sembra riadattare ad hoc
la dottrina pitagorica dei cicli cosmici. Secondo Hans Kayser tutto ciò
svela l'articolazione di una griglia di suoni e toni, una sequenza ben
precisa dei cosiddetti armonici "superiori" ed "inferiori" che nel suo
insieme scaturisce da una dottrina armonicale articolata in sequenze
melodiche, formule liturgiche, canti e peana inneggianti alla divinità
cui era stato dedicato quel determinato tempio e i cui ritmi acustici
venivano così a trovarsi cristallizzati nella pietra.
Su un piano più generale si tratta dell'applicazione di una particolare
modalità del rapporto suono-pietra il cui simbolismo sta alla base di
molte forme spirituali, quelle che il pitagorismo ha interpretato nel
loro aspetto più elevato e rigoroso permettendone la trasposizione
nelle diverse arti plastiche, dall'architettura alla scultura. Per usare le
immagini di un etnomusicologo come Marius Schneider che cono­
sceva "dall'interno" molti sistemi musicali di quelle che si è convenuto
chiamare civiltà tradizionali per il loro radicamento in una rivela­
zione sacra ed immutabile, all'inizio, in una sfera non-temporale e
pienamente acustica, dimora un ritmo inespresso, un "suono-che-non­
suona", silenzioso, il Verbum, una divina "parola-che-non-parla" che
tuttavia è il principio e il fondamento che sostanzia l'intera possibilità
creativa. Diventando lode, canto e musica sacra, articolandosi in suono
udibile di un universo temporale nel quale però la durata tende ad
imprigionarla, questa originaria parola divina giunge al limite estremo

234
delle sue possibilità creative, si trova "fermata" nella pietra, si soli­
difica, "incanta" il creato.
Con tutta probabilità la teoria musicale pitagorica continua, riadat­
tandola, una tradizione di origine megalitica che ha attraversato tutta
la storia antica e in sé supera la constatazione puramente empirica
della pietra come mera materia grezza perché ne rivela tutto il valore
simbolico. La pietra diventa il supporto di una rivelazione, ne svela
elementi essenziali e si trasfigura in una serie di simboli che ritmano
l'inno del dio al quale è dedicato quel particolare tempio. Seguendo
gli antichi mitologhemi possiamo riassumere così: all'inizio il suono
precede la materia, ma quando gli dèi sacrificano i loro corpi sonori
per consentire l'esistenza del mondo, il suono e la pietra finalmente
uniti modulano un'unica voce, parlano il linguaggio di un simbolismo
primordiale che rivela nel cosmo l'unica impronta del Demiurgo.
Come può dedursi da tutto questo insieme di motivazioni, nel pitago­
rismo precise conoscenze astronomiche sui cicli cosmici si fondono
con speculazioni sul significato dei miti e costituiscono il vero sotto­
fondo del simbolismo astrale dal quale poi scaturiva la capacità dei
pitagorici di leggere il significato dei movimenti celesti194• Le parti­
colari articolazioni di questo sistema e la sua stessa griglia simbolica,
comportavano la volontà di considerare il cosmo, il mondo degli dèi
e l'uomo in un rapporto di armonia assoluta, una sintesi di euritmia
ed eufonia che secondo la cosmologia pitagorica rivelava contempo­
raneamente la realtà divina che permea il mondo e il suo tessuto più
arcano, un sostrato ritmico e armonicale al quale solamente questo
sistema dottrinale sembrava in grado di dare consistenza con la sua
serie di corrispondenze astrali, simboli geometrici, rapporti numerici
e articolazioni musicali.

1 94 Sul significato del tempo e dei cicli cosmici nel mondo classico cfr. N. D'Anna,
Il Gioco cosmico. Tempo ed eternità nell 'antica Grecia, Mediterranee, Roma
2006.

235
Tutta la speculazione pitagorica, la sua rappresentazione dell'ordine
cosmico, il suo articolato sistema numerale e persino quelle straor­
dinarie figurazioni geometriche che, laicizzate, diventeranno parte
essenziale della scienza europea, ricevono il loro pieno significato
solamente se si considera accanto al sostrato spirituale che ne permea
ogni riflessione, l'intento primario di rivelare la presenza del divino
nel mondo e di riverberarne lo splendore ad un tempo soteriologico
e trasfigurante.

236

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