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Collana diretta da
Marco Ariani

Serie speciale per la

CASA DI DANTE IN ROMA

I1
CASA DI DANTE IN ROMA

CONSIGLIO DIRETTIVO
Gianfranco Ravasi, Presidente · Enrico Malato, Vicepresidente
Marco Ariani · Andrea Mazzucchi · Eugenio Ragni · Jacqueline Risset
Pasquale Stoppelli · Antonietta Bufano, Segretario
Massimiliano Malavasi, Responsabile della Segreteria
LECTURA DANTIS ROMANA

CENTO CANTI
PER CENTO ANNI
I. INFERNO
1. CANTI I-XVII

A cura di
Enrico Malato e Andrea Mazzucchi

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30."
Pubblicazione realizzata su iniziativa del
Consiglio direttivo della Casa di Dante in Roma,
con il concorso del Centro Pio Rajna e il contributo della Ambrogio Trasporti S.p.a.

Revisione redazionale a cura di


Antonio Del Castello

Elaborazione dell’Indice dei nomi a cura di


Vittorio Celotto

Copertina:
Progetto grafico a cura di Mariavittoria Mancini

ISBN 978-88-8402-901-0
Tutti i diritti riservati - All rights reserved
Copyright ´ 2013 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riprodu-
zione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsia-
si mezzo effettuati, senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l.
Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.
LECTURA DANTIS ROMANA

CENTO CANTI
PER CENTO ANNI
I. INFERNO
1. CANTI I-XVII

A cura di
Enrico Malato e Andrea Mazzucchi

4"-& 3/0& %*53*$ &


30."
CANTO VIII

« IO DICO, SEGUITANDO [. . .] »:
RIPRESA E SOSPENSIONE DEL RACCONTO
ALLE PORTE DI DITE *

1. Il ritrovamento del « quadernuccio » con i primi sette canti narrato da Boccaccio e


l’attacco del canto viii. In un passaggio della sua biografia dantesca, Giovanni
Boccaccio racconta che un parente di Dante, cercando a Firenze di recuperare
alcuni documenti appartenuti al poeta, che allora già si trovava in esilio, avreb-
be trovato in un forziere (nascosto in un convento al riparo dal saccheggio
della plebe) un piccolo quaderno con i primi sette canti della Commedia (Trat-
tatello, iia red. 117):
Avvenne adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura in forzieri,
che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che la ingrata e disordinata plebe gli era
piú vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio, nel
quale scritti erano li predetti sette canti.1

Dopo averli letti con ammirazione, li avrebbe mostrati al poeta Dino Fresco-
baldi, il quale, dispiaciuto che un testo di cosí alto valore fosse rimasto incom-
piuto, avrebbe fatto pervenire il « quadernuccio » a Dante, tramite il marchese
Moroello Malaspina, presso il quale allora Dante era ospite in Lunigiana. Su
incoraggiamento dello stesso Moroello, Dante avrebbe ripreso e proseguito la
stesura del poema (cfr. Trattatello, ia red. 179-82; iia red. 117-20). Boccaccio cre-
dette di trovare conferma a questa notizia proprio nei primi versi di questo viii
canto dell’Inferno. In apertura Dante riprende il racconto interrotto alla fine del
vii, tornando indietro nella narrazione e con una formula che costituisce un
unicum nella Commedia (vv. 1-6):
Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima

* Il testo riproduce, con l’aggiunta delle note e di alcuni passaggi, la Lectura tenuta alla Casa di
Dante in Roma domenica 31 gennaio 2010, nell’ambito della Lectura Dantis Romana (ciclo 2009-
2010).
1. Nella prima redazione dell’opera Boccaccio aveva scritto « alcuno » al posto di « alcun paren-
te » (Trattatello, ia red. 180); successivamente, nelle sue Esposizioni, rivelerà i nomi delle persone da
cui aveva udito il racconto e che rivendicavano il merito del ritrovamento del prezioso quaderno
(vd. infra).

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maurizio fiorilla
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto c’ha pena il potea l’occhio tòrre.

Si tratta di segnali luminosi che la torre di guardia e le mura della città di Dite
si scambiano per dare l’allarme dell’arrivo dei due pellegrini. Boccaccio indi-
viduò in questo inizio di canto il punto di ripresa della stesura del poema; su-
bito dopo aver riportato il primo verso aggiunse: « dove assai manifestamente,
chi ben guarda, può la ricongiunzion dell’opera intermessa riconoscere »
(Trattatello, iia red. 120; vd. anche ia red. 182).2
Al di là della veridicità del racconto del ritrovamento, quest’ultima afferma-
zione lascia perplessi. Qualunque scrittore recuperi una vecchia stesura di
un’opera interrotta si immagina che torni a revisionare e rielaborare le proprie
carte. La riflessione boccacciana sembra invece in qualche modo presupporre
che Dante riprendesse il lavoro esattamente dal punto in cui lo aveva interrotto,
senza rivedere o modificare nulla, e che proseguisse la narrazione giocando a
carte scoperte con il lettore, tanto da denunciare la saldatura con quel « Io dico,
seguitando ». È possibile che Boccaccio pensasse a una volontà di divulgare la
Commedia per gruppi di canti, ma di questo tipo di circolazione, ipotizzata mo-
dernamente da Padoan, non abbiamo alcuna prova.3 A distanza di qualche an-
no, Boccaccio torna sull’intera vicenda, in margine all’incipit dell’viii canto nel-
le Esposizioni, dove non solo aggiunge alcuni dettagli sul ritrovamento, ma rive-
la anche i nomi delle due persone da cui aveva udito il racconto, non nascon-
dendo che entrambe rivendicassero la paternità della scoperta: un nipote di
Dante, Andrea di Leone Poggi, e un amico del poeta, Dino Perini (da identifi-
care probabilmente con il Melibeo delle Egloghe dantesche). Mentre nel Tratta-

2. In margine a questo passo del testo, nella seconda redazione del Trattatello, Boccaccio ha la-
sciato una graffa autografa nel Chigiano L V 176, a c. 10r (vd. M. Cursi-M. Fiorilla, Boccaccio, in
Autografi dei letterati italiani, Le Origini e il Trecento, a cura di G. Brunetti, M. Fiorilla e M. Peto-
letti, Roma, Salerno Editrice, vol. i 2013, pp. 43-103, partic. p. 48); il segno di attenzione potrebbe
essere indizio di una volontà da parte di Boccaccio di tornare a ragionare sul problema, come in
effetti poi fece, diversi anni dopo, nelle Esposizioni sopra la ‘Commedia’ (vd. infra).
3. Nello stesso Trattatello, ma riferendosi ai canti del Paradiso, Boccaccio racconta che Dante era
solito mandare sei-otto canti per volta a Cangrande della Scala e, dopo che da lui erano stati visti
e approvati, ne faceva copia a chi volesse (cfr. ia red. 183 e iia red. 122). Sui modi di composizione e
prima diffusione della Commedia vd. G. Padoan, Il lungo cammino del « poema sacro ». Studi danteschi,
Firenze, Olschki, 1993, pp. 5-123; E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della ‘Commedia’,
Milano, Mondadori, 2001, pp. 1-26; M. Veglia, Sul testo della ‘Commedia’ (da Casella a Sanguineti), in
« Studi e problemi di critica testuale », vol. lxxxvi 2003, pp. 65-119, partic. 73-91. Per una messa a
punto del problema, con ulteriori riflessioni, vd. però E. Malato, Per una nuova edizione commenta-
ta delle opere di Dante, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 91-97.

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inferno · canto viii

tello aveva accolto senza riserve il racconto nelle Esposizioni (pp. 446-50) egli ne
mette in dubbio la veridicità. L’esegesi canto per canto lo costringe infatti a fare
i conti con la profezia di Ciacco sulle vicende politiche fiorentine contenuta nel
vi canto dell’Inferno (che allude a fatti posteriori all’esilio). Ora – prosegue Boc-
caccio – o Dante è dotato di capacità profetiche (cosa che naturalmente il Cer-
taldese non crede), oppure le parole pronunciate da Ciacco furono scritte dopo
il 1302. Boccaccio ammette la possibilità che Dante possa aver rivisto quanto
scritto in precedenza e dunque aver aggiunto le parole di Ciacco intervenendo
sul testo del « quadernuccio ». Ma, stando al racconto di Dino Perini e Andrea
Poggi, Dino Frescobaldi avrebbe tratto copia dei sette canti (prima di inviarli a
Moroello), avviandone contemporaneamente la circolazione (presso suoi ami-
ci); Boccaccio a questo punto si chiede come mai non resti traccia, diretta o
indiretta, di una versione del canto di Ciacco diversa da quella nota. Natural-
mente queste copie potevano essere andate distrutte, insieme alla memoria di
una versione dell’opera ancora provvisoria e non autorizzata dal poeta. Boccac-
cio non propone però questa ipotesi, e chiude con parole dal sapore – per noi
oggi – pirandelliano: « Ora, come che questa cosa sia avvenuta o potuta avveni-
re, lascerò nel giudizio de’ lettori: ciascun ne creda quello che piú vero o piú
verisimile gli pare » (Esposizioni, p. 450).
Il racconto del ritrovamento dei sette canti narrato nel Trattatello viene ri-
preso e accettato come vero in alcuni commenti alla Commedia di esegeti attivi
tra Trecento e Cinquecento: Benvenuto da Imola, l’anonimo autore delle
giunte alle Chiose Cassinesi, Filippo Villani, l’Anonimo Fiorentino, Guiniforte
Barzizza, Matteo Chiromono, Trifon Gabriele;4 fanno eccezione Cristoforo
Landino, che sottolinea come Boccaccio stesso nelle Esposizioni abbia preso le
distanze dal suo racconto, e Alessandro Vellutello, che liquida come « inven-
tioni » questo e altri aneddoti messi in circolo dalla biografia dantesca di Boc-
caccio.5 La notizia è accolta senza riserve nei profili biografici di Dante scritti
dallo stesso Filippo Villani, Domenico Bandini e Giannozzo Manetti.6
Molto dibattuta la questione della veridicità dell’intera vicenda nei moderni
4. Benvenuto, vol. i pp. 273-74; Il codice cassinese della ‘Divina Commedia’ per la prima volta letteral-
mente messo a stampa, per cura dei monaci benedettini della badia, Montecassino, Tip. di Montecas-
sino, 1865, p. 65; Villani, Expositio, pp. 38-39; Anonimo Fiorentino, vol. i p. 203; Barzizza, pp.
181-82; Matteo Chiromono, vol. i p. 172; Annotazioni nel Dante fatte con M. Trifon Gabriele, ed. cri-
tica a cura di L. Pertile, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1993, p. 42.
5. Landino, vol. i p. 253 e vol. ii pp. 520-21; Vellutello, vol. i p. 131.
6. Philippi Villani De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, edidit G. Tanturli,
Patavii, In aedibus Antenoreis, 1997, pp. 80-81 e 353-54; per Domenico Bandini, vd. ivi, p. 199;
Giannozzo Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, a cura di S.U. Baldassarri, Palermo, Selle-
rio, 2003, p. 122.

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maurizio fiorilla

studi danteschi. Alcuni studiosi hanno difeso l’autenticità del racconto boccac-
ciano, richiamando l’attenzione anche su elementi interni al testo dantesco
che potrebbero suggerire a livello compositivo uno scarto temporale: il cam-
bio di struttura inaugurato in questo punto del poema, in cui – come si vedrà
– viene per la prima volta infranta l’unità narrativa del canto, o il raggiungi-
mento di una piena maturità stilistica e compositiva rispetto ai primi canti;7
altri hanno invece espresso forti perplessità o addirittura liquidato come leg-
genda le pagine del Trattatello.8 La notizia fornita, se accettata come vera, an-
drebbe a perturbare la ricostruzione del percorso biografico-intellettuale di
Dante piú tradizionalmente accettato e condiviso, secondo cui il progetto del-
la Commedia nascerebbe dopo l’esilio e a seguito di un’evoluzione dell’arte e
del pensiero del poeta che presuppone il passaggio per altre esperienze lette-
rarie poi interrotte (come ad esempio la composizione del Convivio e del De
vulgari eloquentia).
In attesa del recupero di nuovi elementi che possano avvalorare o smentire
definitivamente il racconto, come rilevato da ultimo anche da Enrico Malato,
è sicuramente piú opportuno mantenere un atteggiamento prudente: non si
può accettare senza riserve quanto narrato da Boccaccio ma nemmeno liqui-
dare tutto come pura fantasia mitografica.9 Bisogna chiedersi infatti perché
qualcuno avrebbe dovuto inventare di sana pianta il ritrovamento o a partire
dallo stesso incipit dell’viii canto; nulla impedisce realmente di pensare che il
progetto della Commedia possa essere nato e avviato prima dell’esilio (magari
in una forma diversa da come poi Dante lo avrebbe elaborato nel corso del
tempo). Possediamo purtroppo solo degli indizi al riguardo che poggiano su

7. Vd. ad esempio G. Ferretti, I due tempi della composizione della ‘Divina Commedia’, Bari, Later-
za, 1935; Padoan, Il lungo cammino, cit., pp. 25-44; Sapegno2, vol. i pp. 89-90; vd. anche Pasqui-
ni-Quaglio, vol. i p. 87.
8. Vd. ad esempio F. D’Ovidio, Esposizione del canto viii dell’ ‘Inferno’. Per Francesco Colagrosso, Mi-
lano-Palermo-Napoli, Sandron, 1902, pp. 5-8; V. Rossi, rec. a G. Ferretti, I due tempi, cit., in
« Scuola e cultura », a. xii 1936, pp. 294-99; M. Szombathely, Il canto viii dell’ ‘Inferno’, Torino, Sei,
1959, pp. 5-6; L. Pietrobono, Il canto viii dell’ ‘Inferno’, in L’A, a. i 1960, fasc. 2 pp. 3-14, partic. p. 3; G.
Toffanin, Il canto viii dell’ ‘Inferno’, in Lect. Dant. Scal., Inf., pp. 249-74, partic. p. 251; A. Vallone,
‘Inferno’, viii, « Io dico, seguitando », in Id., Percorsi danteschi, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 73-75; T. Pi-
santi, Le fiamme e l’ira: ‘Inf.’, viii, in Id., « L’un lito e l’altro ». Circolazione dantesca e altri saggi, Napoli,
Liguori, 1995, pp. 121-35, partic. p. 121; M. Picone, Canto viii, in Lect. Dant. Tur., Inf., pp. 113-26,
partic. p. 116 n. 6; tra i commenti vd. poi almeno Bosco-Reggio, vol. i p. 121, Chiavacci Leonar-
di, vol. i p. 265, e, da ultimo, Inglese, vol. i p. 111; Bellomo, p. 131.
9. E. Malato, Dante, Roma, Salerno Editrice, 20093 (19991), p. 231; vd. anche E.G. Parodi, La
data della composizione e le teorie politiche dell’ ‘Inferno’ e del ‘Purgatorio (1905/1908), poi in Id., Poesia, pp.
233-334, partic. alle pp. 237-38.

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inferno · canto viii

testimonianze incerte: nella famosa lettera di frate Ilaro a Uguccione della


Faggiuola, copiata dallo stesso Boccaccio nel suo Zibaldone (la cui autenticità
però è ancora oggetto di discussione),10 si fa riferimento a un progetto origina-
rio della Commedia in lingua latina (di cui vengono riportati anche i primi due
esametri e mezzo) e su questo sembra convergere anche una testimonianza,
meno esplicita, di Giovanni Villani, riportata dal nipote Filippo.11
Tralasciando elementi stilistici o interni all’opera dantesca (come ad esem-
pio il finale della Vita nuova, che preannuncia all’altezza del 1294-’95 un poema
tutto su Beatrice),12 si può richiamare qui a completamento del dibattito un
ulteriore elemento che non risolve la questione ma è indubbiamente di un
certo interesse. Dino Frescobaldi, che, stando al racconto di Boccaccio, avreb-
be maneggiato e copiato i sette canti ritrovati, mostra di conoscere i primi
canti dell’Inferno, come rivelano i contatti con il testo dantesco individuabili
nella sua canzone Voi che piangete nello stato amaro. Non è questa la sede per pre-
sentare un dettagliato e sistematico esame dei riscontri possibili tra il testo di
Frescobaldi e i primi sette canti della Commedia.13 Basti qui ricordare che nei
versi di Dino la canzone stessa, parlando in prima persona, narra la dolorosa
storia di un poeta che soffre per amore; questo dolore viene metaforizzato
nell’immagine di una foresta (« [. . .] ove conven ch’om vada / a guida di leon
fuor d’ogni strada », vv. 25-26), dove l’amante sfortunato proverà « le asprezze
del diserto » (v. 23) e sarà improvvisamente minacciato dalla vista di un leone
(« gli apparve un de’ leon della foresta », v. 29), che lo caccerà fino a costringer-
lo a rifugiarsi in una torre per paura della morte (« Nel cuor li mise allor sí gran

10. Vd. G. Billanovich, La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di Frate Ilaro al ‘Trattatello in
laude di Dante’, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947; Padoan, Il lungo cammino, cit., pp. 5-22;
S. Bellomo, Il sorriso di Ilaro e la prima redazione in latino della ‘Commedia’, in « Studi sul Boccaccio »,
vol. xxxii 2004, pp. 201-35; G. Indizio, L’epistola di Ilaro. Un contributo sistemico, in SD, vol. lxxi 2006,
pp. 191-263; L.C. Rossi, La lettura di Ilaro e la tradizione dei commenti, ivi, pp. 265-84; V. Avellano, Per
il testo dell’epistola di Ilaro (parr. 12-13), in RSD, a. ix 2009, pp. 390-97 (con altra bibl.).
11. Villani, Expositio, p 77. Filippo rielabora inoltre l’episodio del ritrovamento dei sette canti
con la notizia dell’incipit in latino della Commedia, scrivendo che i primi sette canti furono scritti in
latino (vd. G. Indizio, Dante secondo i suoi antichi [e moderni] biografi. Saggio per un nuovo canone dantesco,
in SD, vol. lxx 2005, pp. 237-94, partic. pp. 260-62).
12. Su questo punto vd. almeno Padoan, Il lungo cammino, cit., pp. 22-23; Malato, Per una nuova
edizione, cit., p. 93.
13. Per alcuni esempi vd. I.M. Angeloni, Dino Frescobaldi e le sue rime, Torino, Loescher, 1907, pp.
49-51; M. Marti, s.v. Frescobaldi Dino, in ED, vol. iii p. 55; Rossi, rec. cit., p. 295; F. Brugnolo, in
Dino Frescobaldi, pp. 20-26; da ultimo cfr. anche L.M.G. Livraghi, Attardati, epigoni, ‘liquidatori’:
passaggi di testi fra Cino da Pistoia, Dino Frescobaldi e Sennuccio del Bene, in « Italianistica », a. xlii 2013,
pp. 69-88.

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maurizio fiorilla

tempesta / quella spietata e paurosa fiera / che di colà dov’i’era / partir lo fé


con doloroso pianto; e cosí il cacciò tanto / ch’a una torre bella e alta e forte /
il mise per paura della morte », vv. 33-39); sentendosi per un attimo al riparo
dal pericolo chiamerà aiuto (« Poi che fu giunto, credendo campare / comin-
ciò a chiamare, “Aiutami, Pietà ch’io non sia morto” », vv. 40-42), ma perderà
subito dopo la speranza a causa dell’arrivo di altre tre fiere (« Ma e’ si vide tosto
incontro fare / tre, che ciascuno atare / volean quelle che prima l’avea scorto »,
vv. 43-45).
Particolarmente suggestivo, al di là di varie affinità tematiche e sovrapposi-
zioni lessicali con i primi due canti dell’Inferno dantesco, appare il verso dedi-
cato alla torre « bella e alta e forte » che, oltre a richiamare Inf., i 5, nella sequen-
za degli aggettivi preceduti da congiunzione (con forte in posizione di chiusu-
ra), coincide con il luogo in cui Dante e Virgilio arrivano proprio alla fine del
canto vii (« Venimmo al piè d’una torre al da sezzo »); nel secondo verso di
questo canto viii – come abbiamo visto – Dante dirà poi che si tratta di una
torre « alta » (« Io dico, seguitando, ch’assai prima / che noi fossimo al piè de
l’alta torre »). Ora la canzone non è databile con precisione e sappiamo solo
che Dino Frescobaldi, nato prima del 1271, morí prima dell’aprile del 1316; il
testo potrebbe essere quindi stato composto anche dopo la diffusione della
prima cantica.14 Il rapporto tra la genesi di Voi che piangete nello stato amaro e la
composizione dei primi canti della Commedia meriterebbe ulteriori approfon-
dimenti.

2. Flegiàs e la sua barca: il confronto con la tradizione classica. Nella lettura eravamo
fermi alla descrizione dei segnali luminosi scambiati tra la torre di guardia e le
mura della città infernale. Ai versi seguenti Dante chiede a Virgilio spiegazio-
ne di quei fuochi (vv. 7-9): « E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; / dissi: “Que-
sto che dice e che risponde / quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?” ».
Virgilio risponde invitando Dante a rivolgere lo sguardo verso le onde della
palude Stigia (in cui – ricordo – sono puniti gli iracondi), dove forse potrà già
trovare la risposta a ciò che ha appena domandato (vv. 10-12): « Ed elli a me:
“Su per le sucide onde / già scorger puoi quello che s’aspetta, / se ’l fummo del
pantan nol ti nasconde” ». Velocissima arriva la barca guidata da Flegiàs (il « sol
galeoto » menzionato al v. 17) che riserva ai due pellegrini la stessa accoglienza
delle anime destinate alla dannazione, gridandogli: « or sè giunta, anima fel-
la! » (v. 18). L’arrivo rapido della barca è descritto attraverso una similitudine di
straordinario effetto visivo (vv. 13-16):

14. Sul problema della datazione cfr. ivi, partic. pp. 72, 79, 81-83.

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inferno · canto viii
Corda non pinse mai da sé saetta
che sí corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella.

Dante rielabora qui un’immagine già usata da Virgilio nell’Eneide; a proposito


della nave di Enea il poeta latino aveva scritto: « fugit illa [scil. navis] per undas
/ ocior et iaculo et ventos aequante sagitta », x 247-48 (cfr. anche Aen., v 242-43
e xii 859).15 Il canto presenta numerose altre riprese dal poema virgiliano. Vir-
gilio vi è davvero protagonista come personaggio e come autore e forse, alme-
no in un caso, il confronto con l’Eneide potrebbe aiutare a restituire la lezione
di un verso e a chiarirne il senso.16
Della figura mitologica di Flegiàs, condannato al Tartaro per aver incendia-
to il tempio di Apollo (irato col dio che gli aveva sedotto la figlia), Dante pote-
va leggere nell’Eneide (vi 618-20) e forse nella Tebaide (i 712 sgg.), oltre che nei
rispettivi commenti di Servio e Lattanzio Placido. Tuttavia, il personaggio dan-
tesco sembra svilupparsi autonomamente con tratti specifici che non si ritro-
vano nelle fonti antiche. Secondo quanto sottolineato, tra gli altri, da Edoar-
do Sanguineti e Anna Maria Chiavacci Leonardi, presso gli antichi si tendeva
a ricondurre lo stesso nome Flegiàs a flegi (si considerino inoltre gli analoghi
phlego, phleges), spiegato con espressioni del tipo « quod est inflammans » e
« inflammare » da lessicografi come Uguccione da Pisa o Giovanni Balbi, che
in particolare se ne erano serviti anche nelle etimologie di termini quali flegmen
(anche sulla scorta di Isidoro di Siviglia, iv 6 7) ma soprattutto Flegeton.17
Pastore Stocchi ha fatto osservare come nella sua geografia infernale Dante
connetta il Flegetonte « non all’ira ma alla violenza »;18 merita rilevare però
come altri lessicografi, tra cui Papia, si ricolleghino al seguente passo di Macro-
bio, « pari interpretatione Phlegethontem ardores irarum et cupiditatum »
(Comm. in Somn. Scip., i 10 11), cui rimandano anche Pietro Alighieri e le Chiose
Cassinesi, commentando Inf., xiv.19 In sostanza, dunque, questo diffuso accosta-

15. Vd. da ultimo Bellomo, p. 123.


16. Vd. in fondo la “nota di approfondimento” dedicata al v. 66.
17. Vd. E. Sanguineti, ‘Inferno’, viii, in Id., Dante reazionario, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 89-
109, partic. alle pp. 94-95 (« a voler finalmente giocare un po’ d’astuzia anche noi, potremo ben
dire che la figura di Flegiàs vuole risolversi tutta, al limite, in una figura etimologica. Certo è che,
tra il motivo essoterico e vulgato dell’ira, e quello esoterico e criptografico del fuoco, si esaurisce
per intiero la carica del passo »), e Chiavacci Leonardi, vol. i pp. 265-66.
18. M. Pastore Stocchi, s.v. Flegias, in ED, vol. ii pp. 945-46.
19. Vd. Papiae Elementarium doctrinae rudimentum, Venetiis, Boninus Mombritius, 1496, c. 134v; Il

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maurizio fiorilla

mento etimologico alla sfera semantica del fuoco in comune con il Flegetonte,
fiume incandescente per antonomasia, unito alla impresa di incendiario del
personaggio mitologico, possono aver verosimilmente suggerito a Dante la
scelta di assegnare a Flegiàs il ruolo di guardiano degli iracondi, proprio alle
porte della città del fuoco. Poco piú avanti Dante, descrivendo la città di Dite,
dirà che le sue torri erano « vermiglie come se di foco uscite / fossero » (vv. 72-
73), che « il foco etterno / ch’entro l’affoca le dimostra rosse » (vv. 73-74). L’insi-
stenza, tanto lessicale quanto figurativa, sul motivo igneo, sembra avvalorare
ancor piú la possibilità di istituire un parallelismo tra il tempio di Apollo incen-
diato (che il gesto di Flegiàs richiama alla memoria) e la città di Dite (a sua
volta circondata, nel sempre presente modello virgiliano di Aen., vi, proprio
dall’infuocato Flegetonte) avvolta dalle fiamme. Un Flegiàs « incendiario di
leggenda » che si fa « prefigurazione ulteriore della tematica specifica di Dite,
del “foco etterno” che ne “affoca” i baluardi »;20 in un’articolata combinazione
di elementi che, a buon diritto, può dunque rappresentare un’altra tessera di
quella straordinaria operazione, compiuta da Dante nella Commedia, di accosta-
mento e fusione culturale tra immaginario classico e tradizione biblica.
Guardiano e traghettatore, Flegiàs è il « nocchier forte » nel quale viene di
fatto a concretizzarsi lo stesso vizio dell’ira, non soltanto nell’ardor cui rinvia il
suo nome, ma già nella stizzosa rapidità con cui nella sua barca solca le « sucide
onde » della palude Stigia fino a raggiungere Dante e Virgilio, salvo poi repri-
mere con evidente difficoltà, dopo aver compreso di non poterli traghettare in
eterno come i dannati del quinto cerchio, la violenta ira che lo animava, in lui
« accolta ».21 Sulla diffusa tendenza degli esegeti a distinguere nettamente il
ruolo di custode da quello di traghettatore, con l’intento di riconoscerne a
Flegiàs soltanto uno, Michelangelo Picone ha affermato:
Ma Flegiàs è un traghettatore dello Stige o un custode degli iracondi? Questa è la do-
manda che si sono posti i commentatori del canto; domanda alla quale si è forse avuto
il torto di rispondere in un senso o nell’altro, o di non rispondere affatto (lasciando il
testo in una ambiguità poco medievale e pochissimo dantesca), mentre la risposta giu-

‘Commentarium’ di Pietro Alighieri, nelle redazioni ashburnhamiana e ottoboniana, trascrizione a cura di R.


Della Vedova e M.T. Silvotti, Firenze, Olschki, 1978, p. 242; Pietro Alighieri (3a Red.), p. 185;
Il codice cassinese della ‘Divina Commedia’, cit., p. 97.
20. Sanguineti, ‘Inferno’, viii, cit., p. 95
21. Significativa e curiosa, in tal senso, la pseudoetimologia alternativa del nome Flegiàs, ovve-
ro ‘flagellatore’, presente nelle glosse di qualche antico esegeta della Commedia, come Iacomo
della Lana, to. i p. 266, e l’Ottimo, vol. i p. 135 (anche nella cosiddetta iiia redazione: cfr. L’ultima
forma dell’Ottimo commento. Chiose sopra la Comedia di Dante Alleghieri fiorentino tracte da diversi ghiosato-
ri: ‘Inferno’, a cura di C. Di Fonzo, Ravenna, Longo, 2008, p. 113).

262
inferno · canto viii
sta prevede l’uno e l’altro senso. È proprio la nuova focalizzazione narrativa del canto
viii rispetto ai canti precedenti a richiedere una tale soluzione combinatoria.22

In sostanza, ha concluso lo stesso Picone, nel momento in cui prevale la tona-


lità descrittiva « il personaggio si comporta come Cerbero e Pluto si sono com-
portati prima di lui »; non appena il « galeoto » viene ammonito da Virgilio, e
prende il sopravvento la tonalità narrativa, « il personaggio agisce come aveva
agito Caronte, diventa il traghettatore dello Stige. In altre parole, Flegiàs è il
custode abituale del cerchio degli iracondi, ma è il traghettatore eccezionale
dello Stige ».23
La contemporaneità dei diversi ruoli viene del resto suggerita dallo stesso
Dante, mediante notevoli spie intratestuali: da un lato, quello di traghettatore
riecheggia non soltanto per analogia figure come Caronte, ma, per contrasto,
grazie alla comune centralità dell’immaginario nautico, verrà riecheggiato da
un altro rapidissimo « galeotto » (deputato a ben diversa navigatio), l’angelo
nocchiero di Purg., ii (aspetto notato, oltre che da Picone, anche nei commen-
ti di Poletto, Mestica, Casini-Barbi, Sapegno, Mattalia, Bosco-Reggio e Chia-
vacci Leonardi); quello di custode e guardiano invece richiama anzitutto i vi-
cini precedenti di Cerbero e Pluto (Inf., vi, vii), ma, secondo una linea inter-
pretativa che risale a Settimio Cipolla e, principalmente, a Michele Barbi (cui
si sono allineati Del Lungo, D’Ovidio, Parodi, Vandelli e, piú di recente, Pico-
ne), parrebbe presentare qualche punto di contatto anche con l’attività dei
diavoli di Malebolge. Questa lettura fa leva segnatamente sulla prima frase
esclamata da Flegiàs gridando « Or sè giunta, anima fella! » (v. 18), laddove quel-
l’occorrenza del verbo giungere avrebbe non tanto il piú comune significato di
‘arrivare’, bensí la specifica valenza semantica di ‘raggiungere’, ‘acchiappare’,
proprio come nelle parole (parimenti gridate) rivolte da uno dei diavoli al
fuggiasco Ciampolo di Navarra: « Tu sè giunto! » (Inf., xxii 126).24 Se si assegna

22. Picone, Canto viii, cit., p. 120. Al riguardo Umberto Bosco aveva scritto: « Ciascuna di que-
ste contrastanti ipotesi ha avuto, e in parte ancora ha, convinti, tenaci, spesso acutissimi e dottissi-
mi sostenitori: il che vuol dire che i dati offertici da Dante sono incerti e contraddittori, comunque
non sufficienti a risolvere il problema; il che vuol dire ancora che al poeta non interessava molto
che esso fosse univocamente, direi geometricamente risolto. Esso non ha rilevanza per la deter-
minazione né del pensiero né della poesia di Dante [. . .]. Flegiàs è tutt’insieme un po’ Caronte, un
po’ Cerbero e un po’ Gerione. E perché poi non dovrebbe esserlo? » (U. Bosco, Il canto di Filippo
Argenti (viii dell’ ‘Inferno’), in Id., Dante vicino, pp. 213-36, a p. 214).
23. Picone, Canto viii, cit., p. 120.
24. Stessa lettura tra gli antichi chiosatori offre Iacomo della Lana: « Quaxe a dire: tu no porai
campare » (ivi, to. i p. 270). Tra i moderni esegeti, di diverso avviso è ad esempio Bosco, che pro-
pende per il significato di ‘arrivare’ (Bosco, Il canto di Filippo Argenti, cit., pp. 217-19).

263
maurizio fiorilla

dunque al giunta di Flegiàs questo medesimo senso di ‘raggiunta, presa!’, ‘sei in


mio potere!’, pur tenendo di necessità conto delle debite distanze tra le due
situazioni narrative, « anche la risposta di Virgilio », secondo quanto sosteneva
Barbi, verrebbe « piú in tono ».25
Similmente agli incontri con altri guardiani e traghettatori infernali, infatti,
la rapida e concitata successione di eventi che caratterizza l’episodio di Flegiàs
segue uno schema consueto, ben riconoscibile nella prima cantica. Di fronte
all’atteggiamento e alle parole ostili del nocchiero, Virgilio reagisce con fer-
mezza e lo trattiene prontamente (vv. 19-21):
Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto »,
disse lo mio segnore, « a questa volta:
piú non ci avrai che sol passando il loto ».

A questo punto, come detto sopra, Flegiàs è costretto suo malgrado, senza riu-
scire a celare la propria delusione, a prendere sulla barca i due pellegrini (vv.
22-24):
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs nell’ira accolta.

Virgilio sale sulla barca e poi fa salire anche Dante; questa sequenza permette
di evidenziare come la barca appaia carica di peso soltanto quando Dante, che
ha corpo di persona viva, ci sale sopra (vv. 25-27):
Lo duca mio discese ne la barca
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’io fui dentro parve carca;

subito dopo Dante dirà che la prua della nave si immerge nell’acqua della pa-
lude piú di quanto non faccia normalmente quando trasporta le anime dei dan-
nati (vv. 27-30):
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua piú che non suol con altrui.

Anche in questo caso, come rilevato in tutti i commenti, è vivo e presente


nella memoria di Dante il poema virgiliano: quando Enea sale sulla barca di
Caronte, questa scricchiola sotto il suo peso corporeo e imbarca acqua di palu-

25. Barbi, Problemi [i], p. 206.

264
inferno · canto viii

de dalle fessure (cfr. Aen., vi 412-14). Anche la metafora del “segare l’acqua”
riferito al procedere della nave è già nell’Eneide; all’inizio del v libro la nave di
Enea taglia i flutti (« fluctusque secabat », Aen., v 2, e cfr. anche v 218-19; e da
ultimo Bellomo, p. 124). Con il tramite dell’Eneide Dante marca qui per la
prima volta la propria fisicità rispetto alle anime incorporee. Lo farà ancora nel
corso del poema con altri espedienti: nel xii dell’Inferno (vv. 28-30) descriverà
delle pietre muoversi sotto i suoi piedi, nel iii del Purgatorio (vv. 16-18) inter-
romperà con la sua presenza fisica i raggi del sole, proiettando la sua ombra sul
terreno.
Questa attenzione al realismo, già in Virgilio e quindi nella tradizione clas-
sica, nella Commedia ha in certi casi funzione narrativa (le anime dell’inferno e
del purgatorio si accorgono che Dante è vivo) ma contemporaneamente per-
mette di sottolineare come il viaggio non sia una finzione letteraria, ma affon-
di i suoi significati morali e allegorici in un racconto in cui la lettera del testo è
vera, come nel testo biblico (altro modello centrale nel poema dantesco). È la
differenza, spiegata da Dante nel Convivio, tra l’allegoria in verbis dei poeti, in
cui la lettera è finzione, dall’allegoria in factis dei teologi, in cui è per l’appunto
verità storica (cfr. Conv., ii 1 3-4).

3. L’incontro con Filippo Argenti: tra chiose antiche e letture moderne. Mentre i due
pellegrini percorrono la palude, l’anima di un peccatore lorda di fango si fa
incontro alla barca rivolgendosi a Dante; avendo capito che è vivo vuol sapere
chi è colui che viene nell’inferno « anzi ora » (vv. 31-33):
mentre noi corravam la morta gora
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: « Chi sè tu che vieni anzi ora? ».

Dante risponde dichiarando subito che non è un dannato, e dunque è non


destinato a rimanere in quel luogo: « E io a lui: “S’io vegno, non rimango” » (v.
34); e poi chiede a sua volta al dannato immerso nella palude chi sia, perché
cosí sporco di fango non riesce in un primo momento a riconoscerlo: « ma tu
chi sè, che sí sè fatto brutto?” » (v. 35). Risponde l’anima del peccatore: « Vedi
che son un che piango » (v. 36); un lettore fiorentino del Trecento avrebbe
colto forse in questo verso l’eco dell’incipit di un componimento di Guido
Cavalcanti: Vedete ch’i’ son un che vo piangendo (piangere, come in altri punti del
poema, ha qui probabilmente il significato di ‘espiare’). Si noti come l’anima
eviti di nominarsi (come la maggior parte dei dannati nasconde la propria
identità). Nonostante sia coperto di fango Dante però riesce a capire chi sia e
lo respinge con duro disprezzo (vv. 37-39):
265
maurizio fiorilla
E io a lui: « Con piangere e con lutto,
spirito maledetto, ti rimani
ch’i ti conosco, ancor sie lordo tutto ».

Come rilevato già in diversi studi critici e commenti al poema, Dante sfrutta
appieno qui quel registro comico, tipico del genere della tenzone, costruendo
il dialogo con una sequenza di battute che si riecheggiano l’una con l’altra?
(con ripresa di singole parole, verbi o intere espressioni nel botta e risposta):
« Chi sè tu » (v. 33), cui fa eco « ma tu chi sè » (v. 35); « che vieni » (v. 33), « s’i
vegno » (v. 34); « non rimango » (v. 34), « ti rimani » (v. 38); « piango » (v. 36),
« con piangere » (v. 37).
Alla maledizione lanciata da Dante il peccatore reagisce aggrappandosi alla
barca nel tentativo di capovolgerla: « Allor distese al legno ambo le mani » (v.
40), ma viene respinto da Virgilio: « per che ’l maestro accorto lo sospinse /
dicendo: “via costà con gli altri cani!” » (vv. 41-42). Virgilio loda quindi lo sde-
gno di Dante (vv. 43-45):
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: « alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse ».26

Il verso è da ricollegare poi a una frase del Vangelo di Luca, « beatus venter qui
te portavit » (Luc., 11 27), dove è riferita alla Vergine (vd. da ultimo Bellomo, p.
125). Il plauso di Virgilio andrà interpretato innanzitutto alla luce di quanto
scrive san Tommaso, sulla scorta dell’Etica di Aristotele, a proposito dell’ira,
distinguendo un’« ira mala », quell’ira cattiva senza giusta causa che, in eccesso,
diventa peccato e viene punita in questo quinto cerchio infernale, da un’ira
« per zelum » (zelo di chi vendica un’ingiusta offesa fatta a Dio), comporta-
mento da lodare, che permette in parte di giustificare qui e altrove momenti
in cui Dante infierisce con particolare crudeltà nei confronti di alcune anime
dannate; si pensi ad esempio a quanto avviene con i traditori (dunque colpe-
voli di un peccato ben piú grave all’interno della gerarchia infernale) Bocca
degli Abati e frate Alberigo, confitti nella ghiaccia del Cocito, l’uno nell’Ante-
nora e l’altro nella Tolomea.
Il riferimento potrebbe anticipare una sovrapposizione tra Cristo e Dante

26. Per capire la sintassi del verso può essere utile ricordare quanto riportato in un antico com-
mento alla Commedia come quello dell’Anonimo Fiorentino, in cui si legge che per definire una
donna incinta si usava nella Firenze dell’epoca l’espressione « ella è incinta in uno fanciullo »
(Anonimo Fiorentino, vol. i p. 208).

266
inferno · canto viii

suggerita, come vedremo piú avanti, nei versi contenuti nell’ultima parte del
canto; ma potrebbe anche avere piú semplicemente qui la funzione di legitti-
mare in modo solenne la condanna di Dante verso Filippo Argenti (e un’inte-
ra categoria di persone), come chiariscono meglio anche le successive afferma-
zioni di Virgilio, che, ai vv. 46-48, pronuncia queste parole: « Quei fu al mondo
persona orgogliosa / bontà non è che sua memoria fregi: / cosí s’è l’ombra sua
qui furïosa ». L’invettiva poi si allarga a tutti coloro che sulla terra si ritengono
quasi dei re e che qui stanno come maiali nella melma, lasciando nel mondo di
sé memoria spregevole: « Quanti si tegnon or la sú gran regi / che qui staranno
come porci in brago / di sé lasciando orribili dispregi! » (vv. 49-51). A questo
punto Dante esprime il desiderio di vederlo affogato nell’acqua melmosa della
palude: « E io: “Maestro, molto sarei vago / di vederlo attuffare in questa broda
/ prima che noi uscissimo del lago” » (vv. 52-54). Virgilio risponde che sarà
accontentato: « Ed elli a me: “Avante che la proda / ti si lasci veder tu sarai sa-
zio: / di tal disïo convien che tu goda” » (vv. 55-57). Immediatamente dopo
Dante vede gli altri dannati immersi nella palude avventarsi contro il peccato-
re e ne ringrazia Dio: « Dopo ciò poco vid’io quello strazio / far di costui a le
fangose genti / che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio » (vv. 58-60).
Nei versi successivi il lettore scopre finalmente chi è il peccatore, per bocca
degli altri dannati, secondo un meccanismo che piú volte sarà sfruttato nel
poema (vv. 61-63):
Tutti gridavano: « A Filippo Argenti! »;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.27

Sulla figura di Filippo Argenti esiste una bibliografia molto ampia, tesa ad ap-
profondire non soltanto il personaggio dal punto di vista storico, ma soprattut-
to le implicazioni legate al comportamento di Dante scrittore e personaggio
nei suoi confronti. In questa circostanza, infatti, soprattutto se si considera il
diverso atteggiamento tenuto al cospetto di altri dannati (basti pensare all’in-
contro con Paolo e Francesca o a quello con Brunetto Latini), l’agens tradisce
una singolare avversione personale, che si accompagna all’immediata volontà
di infierire sul peccatore, non appena si mette in moto il reciproco meccani-
smo « tipico di questi contrasti, l’agnizione ».28 L’innegabile assenza di qualsivo-

27. In quest’ultimo verso è possibile riscontrare un’eco da un passo del De ira di Seneca (iii 1 5),
in cui si legge che l’iracondo, quando la sorte gli sottrae l’avversario, « in se ipsum morsus suos
vertit »: vd. da ultimo Bellomo, p. 126.
28. F. Forti, Il magnate non magnanimo. La “praesumptio”, in Id., Magnanimitade. Studi su un tema

267
maurizio fiorilla

glia forma di pietà che caratterizza questo incontro, definito non a caso da
Michelangelo Picone « l’episodio forse piú controverso dell’intera Commedia »,
ha comprensibilmente attirato l’attenzione degli esegeti, talora quasi imbaraz-
zati di fronte alla necessità di spiegare la singolare reazione da parte di Dante,
nella cui condotta è stata persino ravvisata, da Sapegno, « una sorta di compia-
cimento [. . .] ad insistere con immagini che si fanno via via brutali ».29
L’indignazione dell’agens trova del resto riscontro anche nell’auctor, il quale
ha attinto, con l’evidente scopo di vituperare il « fiorentino spirito bizzarro », a
tutti i mezzi retorici disponibili nel suo repertorio di scrittore. Un aspetto,
quest’ultimo, che non mancherà di valorizzare ad esempio il figlio Pietro,
glossando proprio quell’aggettivo « bizzarro » (significativamente hapax asso-
luto nelle opere dantesche, e che verrà non a caso riusato da Boccaccio per
descrivere il medesimo Filippo Argenti in Dec., ix 8 14) con la curiosa pseudo-
etimologia « bizzarrum, idest bis errantem », ossia colui che pecca al tempo
stesso « in [. . .] duabus speciebus superbiae ».30 A tal proposito, secondo quanto
già accennarono alcuni chiosatori precedenti (come Guido da Pisa, Andrea
Lancia e le Chiose Cassinesi), Boccaccio narra di avere appreso, grazie alla testi-
monianza di Coppo Domenichi, che il nome di Filippo Argenti trarrebbe
origine dall’abitudine di ferrare d’argento il suo cavallo, segno anche questo di
praesumptio, arroganza e di sfoggio volgare della propria ricchezza.31
Filippo faceva parte del ramo Cavicciuoli della famiglia degli Adimari. Era
di parte Nera, e dunque contraria a Dante: probabilmente anche lui contribuí
alla cacciata dei Bianchi da Firenze (quindi all’esilio del poeta). Benvenuto da
Imola, a proposito del rapporto di Dante con Filippo Argenti e la sua famiglia
(attaccata anche nel xvi canto del Paradiso, ai vv. 115-20) scrive: « auctor fecit
altam vindictam cum penna, quam non potuit facere cum spata ».32 Ma dagli
antichi esegeti si ricavano anche altri aneddoti in merito ai cattivi rapporti tra

dantesco, premessa di E. Pasquini, Roma, Carocci, 2006 (i ed. Bologna, Pàtron, 1977), pp. 137-60, a
p. 146.
29. Le citaz. sono tratte risp. da Picone, Canto viii, cit., pp. 120-21, e Sapegno2, vol. i p. 96. Per
un generale inquadramento delle molteplici prospettive critiche emerse attorno a questo episodio
infernale, con particolare riguardo alle letture proposte dalla moderna esegesi, cfr. P. Nicosia, Il
piú calunniato dei personaggi danteschi, ovvero il canto della vendetta. ‘Inf.’, viii 31-63, in Id., Alla ricerca della
coerenza: saggi d’esegesi dantesca, Messina-Firenze, D’Anna, 1967, pp. 135-67, e da ultimo A. Lanza, Il
particolare “pianto” di Filippo Argenti: l’ultima provocazione, in SD, vol. lxxvii 2012, pp. 59-104, partic.
alle pp. 63-69, 72-104.
30. Pietro Alighieri (1a red.), p. 112.
31. Vd. Guido da Pisa, p. 170; Andrea Lancia, vol. i p. 212; Chiose Cassinesi, p. 64, e Boccaccio,
Esposizioni, p. 462.
32. Benvenuto, vol. v p. 176.

268
inferno · canto viii

i due: in alcune anonime chiose alla Commedia, anteriori al 1337, si legge che
una volta Filippo Argenti durante una discussione diede uno schiaffo a Dante,
e che tra loro due vi fu sempre « inimicizia massima » (Chiose Selmi, xlii 14). Da
altri chiosatori trecenteschi (come ad esempio il Falso Boccaccio, p. 67) si rica-
va poi la notizia che il fratello di Filippo, Boccaccino Adimari, riuscí ad appro-
priarsi dei beni confiscati a Dante dopo l’esilio.33 Che tra i due non corresse
buon sangue sembra dato accertato e naturalmente molti dei commentatori
antichi e moderni ne tengono conto, interpretando l’episodio a partire dal ri-
sentimento personale di Dante (la frase di Benvenuto da Imola è in questo
senso emblematica). Alcuni studiosi hanno proposto però in tempi moderni
di inquadrare la condanna di Dante nella prospettiva piú ampia di una deca-
denza socio-politica vissuta in quegli anni dalla città di Firenze. Su questo
punto hanno insistito importanti saggi di Francesco Tateo e Achille Tartaro,
che al riguardo ha scritto: « Di parte nera, esponente di una famiglia notoria-
mente assimilabile alla “gente nuova”, gli inurbati responsabili di aver alterato
l’equilibrio sociale, Filippo Argenti è il capro espiatorio – piú precisamente il
personaggio esemplare – di una crisi etico-politica »).34 Anche se nel canto, al
di là dell’aggettivo fiorentino riferito a Filippo Argenti, Dante non fornisce ele-
menti che rimandino direttamente alla vita politica di Firenze, anche a me
sembra che le dure parole pronunciate tramite Virgilio coinvolgano in contro-
luce una certa casta di famiglie fiorentine (arroganti e prepotenti) contro cui
Dante si scaglia con toni simili, oltre che nei già ricordati strali affidati alle pa-
role di Cacciaguida in Par., xvi, in alcune pagine del Convivio (iv 12 9).

4. La descrizione della città infuocata tra ‘Eneide’ e ‘Libro della Scala’: il problema
delle fonti. Dante si è lasciato alle spalle Filippo Argenti, ma non gli risparmia
un ultimo “strale”: « Quivi il lasciammo, che piú non ne narro » (v. 64). La
frase non va letta semplicemente come l’annuncio al lettore di uno sposta-
mento dell’oggetto narrativo, ma è tesa a mio avviso a sottolineare con di-

33. Per queste e altre notizie, segnatamente relative all’aneddoto della confisca dei beni di
Dante e alle possibili cause della sua inimicizia con altri membri della famiglia di Filippo, vd. al-
meno G. Ferretti, Filippo Argenti e la vendetta di Dante, in Id., I due tempi, cit., pp. 403-24; F. Forti,
s.v. Filippo Argenti, in ED, vol. ii pp. 873-76.
34. A. Tartaro, Il canto viii dell’ ‘Inferno’, in Lect. Dant. Rom., Inf., pp. 197-218 [poi con il titolo L’i-
dentità del male, in Id., Letture dantesche, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 1-30], la citaz. da p. 203; cfr. inoltre
ivi, alle pp. 203 e 215 n. 10, dove viene ricordato un componimento satirico di Rustico Filippi che
prende di mira, tra le famiglie fiorentine piú corrotte, proprio gli Adimari (su questo punto vd.
anche Lanza, Il particolare “pianto”, cit., pp. 71-73); F. Tateo, Un percorso “politico” di Dante fra le anime
infernali (nota ai canti viii, xvi, xxiv, xxxii dell’ ‘Inferno’), in Filologia e critica dantesca. Studi offerti a Aldo
Vallone, Firenze, Olschki, 1989, pp. 113-27.

269
maurizio fiorilla

sprezzo come il peccatore venga abbandonato al destino che merita e non


valga la pena spendere una parola di piú sulla sue vicende. E qui si apre un
nuovo scenario. Dante viene colpito da nuove grida di dolore e cerca di capire
cosa stia accadendo intorno a lui: « ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, /
perch’io avante l’occhio intento sbarro » (vv. 65-66).35
Dante descrive quindi il tragitto che la barca compie fino ad arrivare alla
porta della città di Dite (vv. 67-78), che prende notoriamente il nome da
Dis-Ditis, la divinità dell’oltretomba pagano, equivalente al Plutone dei Greci.
Due appaiono subito gli elementi connotativi della città che si presenta agli
occhi dei pellegrini: l’incandescente rosseggiare infernale, che proviene
dall’interno, e l’assetto militare che si scorge da fuori, proprio di un’inespugna-
bile « fortezza » (cosí Dite verrà definita a Inf., ix 109), con « tutto l’apparato
della difesa, ostile, atto a respingere i viaggiatori [. . .] una forma ideale di città
[. . .] un perimetro militare di valli, mura, sentinelle, porte [. . .] e subito si chia-
risce che in essa l’ingresso sarà difficilissimo »: 36
Lo buon maestro disse: « Omai, figliuolo,
s’appressa la città ch’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo ».
E io: « Maestro, già le sue meschite
là entro certe nella valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero ». Ed ei mi disse: « Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno ».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse ».

Tra le diverse proposte di possibili ulteriori fonti per la dantesca città di Dite,
al di là della preponderante e riconosciuta azione del modello virgiliano di
Aen., vi, Andrea Fassò ha avanzato ad esempio alcuni collegamenti, entro l’am-
bito della « vasta letteratura delle visioni d’oltretomba che si sviluppa attraver-
so tutto il Medioevo », nella fattispecie con « un poemetto duecentesco po-
chissimo noto, la Vie de saint Jehan Paulus, proveniente dalla Francia settentrio-
nale ». Già nel prologo di questo poemetto, ha sottolineato lo studioso, « è
rappresentata una parte dell’inferno circondata da mura ferree infuocate; e

35. Per la ricostruzione testuale del v. 66 vd., in fondo, la “nota di approfondimento”.


36. G. Bárberi Squarotti, L’interruzione del viaggio, in Id., L’artificio dell’eternità, Verona, Fiorini,
1972, pp. 187-233, a p. 203.

270
inferno · canto viii

dentro queste mura scontano la pena eterna empi e miscredenti, sodomiti,


usurai », ma non mancano altre parziali tangenze.37 Maria Corti ha ipotizzato
invece che il testo dantesco possa dipendere per i versi sopra citati dal Libro
della Scala (testo arabo che racconta la salita al cielo di Maometto e la sua visita
del regno dell’oltretomba), che Dante poteva forse conoscere nella traduzione
in lingua latina preparata nel 1264 da Bonaventura da Siena. La Corti rileva
come nel Libro della Scala la dimora del diavolo sia descritta come una fortezza
cinta da valli e caratterizzata da torri e mura avvolte dal fuoco:
Nel Libro al par. 150 la dimora del diavolo è un castrum (la fortezza di Dante a ix 108);
cinto da valla (le dantesche « alte fosse » / che vallan quella terra sconsolata »). Ci sono
muri, turres, moenia et domus omnes che sono de igne valde nigro, qui ardet continuo in se ipso.
Dante nel canto viii 70-75 parla di meschite (curioso segnale arabo) « vermiglie, come se di
foco uscite / fossero » e aggiunge: « il foco etterno / ch’entro l’affoca, le dimostra rosse » e
al v. 78: « Le mura mi parean che ferro fosse », immagine forse suscitata dal fuoco nero
del Libro. In questo castrum c’è quadam porta, « per quam vadit homo ad infernum ma-
gnum ».38

Non è questa la sede per entrare nella complicata e dibattuta questione della
conoscenza da parte di Dante del Libro della Scala e dei suoi possibili echi nella
Commedia.39 È tuttavia altamente probabile che, come detto, la fonte dantesca
qui sia, ancora, soprattutto l’Eneide, centrale in questo canto nonché all’interno
di tutto il poema. Gli stessi elementi strutturali e figurativi evidenziati sopra
infatti si ricavano, con piú significativa possibilità di sovrapposizione testuale,
dalla descrizione di Dite nel tartaro virgiliano, da cui Dante riprende innanzi-
tutto il nome (cfr. Aen., vi 127, 269 e 541). Anche nell’Eneide Dite ha una porta
(« ianua Ditis », Aen., vi 127); Enea, che proprio come Dante scruta quello che
ha intorno, vede le sue ampie mura circondate da un triplice bastione, che un
fiume (lo stesso Flegetonte infuocato, riguardo alla cui pregnanza figurativa si
è già discusso) accerchia con fiamme roventi (Aen., vi 548-51):

37. A. Fassò, Una “città di Dite” prima di Dante, in Studi filologici, letterari e storici in memoria di Guido
Favati, a cura di G. Varanini e P. Pinagli, Padova, Antenore, 1977, vol. i pp. 275-84, le citaz. dalle
pp. 275 e 278.
38. M. Corti, La ‘Commedia’ di Dante e l’oltretomba, in L’A, n.s., n. 5 1995, pp. 7-20, la citaz. da p. 18.
39. Mi limito a segnalare che in una conferenza tenuta alla Casa di Dante in Roma su Dante e
l’Islam, Marco Ariani, ricollegandosi ai contributi di Theodore Silverstein (spesso ignorati nel
panorama critico) e con nuovi puntuali raffronti testuali, ha mostrato come tutte le presunte
coincidenze della Commedia dal Libro della Scala si possano spiegare a partire dalla dipendenza dei
due testi da fonti comuni, come ad esempio la Visio Pauli (che ebbe varie traduzioni e rielabora-
zioni in latino circolanti ai tempi di Dante).

271
maurizio fiorilla
Respicit Aeneas: subito et sub rupe sinistra
moenia lata videt, triplici circumdata muro,
quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis
Tartareus Phlegethon, torquetque sonantia saxa.

L’eroe troiano ode quindi forti gemiti e lamenti, oltre a uno stridore di ferro:
« Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare / verbera, tum stridor ferri tractaeque
catenae » (Aen., vi 557-58), e l’impressione uditiva preminente assume qui un
ruolo centrale: ricordo infatti che al v. 78 del testo dantesco si legge che le
mura sembravano di ferro, un dettaglio che è stato valorizzato in primo luogo
da un acuto lettore come Boccaccio (Esposizioni, p. 464): « Dice quelle essergli
parute esser di ferro, a dimostrazione della forteza di questa terra, della quale
dice Virgilio nel vi dell’Eneida cosí » (il Certaldese completa la glossa citando a
puntuale riscontro i corrispondenti versi virgiliani). A un certo punto poi Enea
scorge, insieme alla « porta [. . .] ingens », anche colonne di acciaio massiccio,
« solidoque adamante columnae » (Aen., vi 552), che nessuna forza umana e
neppure celeste potrebbe distruggere in guerra (« vis ut nulla virum, non ipsi
excindere bello / caelicolae valeant [. . .] », Aen., vi 553-54), ed è un aspetto,
questo dell’implicita sfida lanciata alle forze celesti, che non andrà certo sotto-
valutato in ottica dantesca), quindi un’alta torre, ancora di ferro, ergersi nell’a-
ria: « stat ferrea turris » (Aen., vi 554).40 Infine, pur in secondo piano rispetto a
quanto osservato finora, e con tangenze assai piú limitate, non andrà trascura-
ta neanche la presumibile azione incrociata nella memoria di Dante della « fe-
ra regia Ditis » ovidiana (Met., iv 436-40), come ebbe a sottolineare ad esempio,
tra gli antichi esegeti, segnatamente l’Ottimo: « Di questa cittade dice Ovidio
nel quarto libro del Metamorphoseos: la città di Dite capace ha mille entrate, e le
porte d’ogni parte aperte; onde Santo Prospero dice: la terrena concupiscenza,
o vogli desiderio, va per grandi terreni ».41

5. Lo scontro con i diavoli: le parole di Dante a Virgilio e l’« orazion picciola » di Ulisse.
Arrivati all’ingresso della città Dite, Flegiàs invita Dante e Virgilio a scendere
(vv. 80-81): « venimmo in parte dove il nocchier forte / “Usciteci”, gridò: “qui
è l’intrata” » (l’aggettivo forte va collegato a « gridare » e non a « nocchier »). I
due pellegrini vengono accolti da una moltitudine di diavoli (vv. 82-85):

40. Per un’agile sintesi si rinvia a V. Russo, s.v. Dite, in ED, vol. ii pp. 518-19, mentre per un rie-
pilogo dei principali riscontri virgiliani vd. almeno Sapegno2, vol. i pp. 95-96; Bosco-Reggio, vol.
i p. 123; Chiavacci Leonardi, vol. i pp. 254-56; Inglese, p. 115; Bellomo, pp. 122, 127.
41. Ottimo Commento, vol. i p. 141.

272
inferno · canto viii
Io vidi piú di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: « Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente? ».

I diavoli si accorgono dunque che Dante è vivo, e come avevano fatto finora
gli altri guardiani infernali, cercano di interromperne il cammino. Se in altri
casi Virgilio era riuscito agevolmente a superare l’ostacolo, facendo leva sul
fatto che il viaggio era voluto e autorizzato da Dio, questa volta incontrerà una
ostinata resistenza che riuscirà a vincere solo grazie a un concreto aiuto divino,
con tutto ciò che consegue in termini allegorici; Virgilio, al di là di ciò che qui
e altrove rappresenta allegoricamente (cioè la ragione che deve essere suppor-
tata dalla grazia), come personaggio manterrà tutta la sua complessità umana
e ricchezza di sfumature psicologiche.
Virgilio fa cenno a Dante di voler parlare con i demoni in disparte e questo
sembra placare, per un istante, la loro stizza: « E ’l savio mio maestro fece se-
gno / di voler lor parlar segretamente; / Allor chiusero un poco il gran disde-
gno » (vv. 86-88). Seguono però parole minacciose (vv. 89-93):
e disser: « Vien tu solo, e quei sen vada
che sí ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
provi, se sa; ché tu qui rimarrai
che lí ha’ iscorta sí buia contrada ».

I diavoli dunque dicono a Virgilio che Dante deve tornare indietro da solo, se
è capace, per la « folle strada » che ha percorso fin qui. Il termine folle riferito al
viaggio infernale, non sempre viene rilevato nei commenti, viene ancora dal
vi canto dell’Eneide, in cui la discesa gli inferi di Enea viene definita insanus labor
(cfr. Aen., vi 135). L’aggettivo folle assume, come è noto, nel poema dantesco
una particolare densità semantica; Dante lo aveva già impiegato nel ii canto
dell’Inferno, quando, nel timore di non essere all’altezza di affrontare il viaggio
oltremondano, aveva confessato a Virgilio di temere che intraprendere quel
cammino fosse cosa « folle » (Inf., ii 35). Piú avanti Dante lo userà per ben due
volte in riferimento al viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole: « folle volo »
(Inf., xxvi 125), « il varco / folle di Ulisse » (Par., xxvii 82-83). È già stato piú
volte rilevato come il tentativo di Ulisse di oltrepassare i confini dell’umana
conoscenza senza il conforto della Grazia divina (esperienza conclusasi tragi-
camente col naufragio) si configuri nella Commedia come il rovescio del viag-
gio di Dante. Il personaggio di Ulisse e il racconto del suo ultimo viaggio non

273
maurizio fiorilla

costituiscono materia che si esaurisca, si risolva tutta nel xxvi dell’Inferno, ma


travalica i limiti di questo canto riverberandosi in molti altri passi del poema
(che precedono o seguono) attraverso un complesso e articolato sistema di
richiami intertestuali piú o meno espliciti: si va da precise coincidenze lessica-
li, sovrapposizioni di campi metaforici e allusioni di vario tipo; l’eroe greco
funziona insomma come vero e proprio paradigma con cui Dante misura e
definisce, non a caso in punti nevralgici del poema, se stesso e il proprio viag-
gio ultraterreno.42
Di questo bisogna a mio avviso tener conto per collocare nella giusta pro-
spettiva le parole che Dante pronuncerà a breve, dopo l’appello al lettore, che
è anche il primo di tutta la Commedia (ve ne saranno altri, sempre in corrispon-
denza di momenti difficili da affrontare o di passi di particolare densità con-
cettuale e alto significato morale). Qui l’appello è drammatico, rimanda quasi
allo sconforto provato da Dante nella selva oscura all’altezza del primo canto
(vv. 94-96): « Pensa, lettor, se io mi sconfortai / nel suon de le parole maladet-
te, / ché non credetti ritornarci mai ». Dante si rivolge quindi a Virgilio dicen-
do (vv. 97-102):
« O caro duca mio, che piú di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette
non mi lasciar », diss’io, « cosí disfatto;
e se ’l passar piú oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto ».

Non mi pare sia stato rilevato finora come in queste parole pronunciate da
Dante, apparentemente marginali, risuoni qualcosa di familiare per il lettore
che conosca tutta la Commedia. A me pare proprio anticipino, rovesciandolo,
un passo famosissimo: l’« orazion picciola » di Ulisse, cui Dante farà dire nel
discorso pronunciato ai compagni per convincerli a proseguire il cammino
(Inf., xxvi 112-17):
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol del mondo sanza gente.

42. A questo tema (su cui esiste una bibliografia molto ampia) ha dedicato in tempi recenti un
saggio M. Ariani, La folle sapienza di Ulisse, in Lectura Dantis Interamnensis, diretta da G. Rati, Inferno,
Roma, Bulzoni, 2006, pp. 87-105.

274
inferno · canto viii

Sia Dante sia Ulisse fanno leva subito dopo l’invocazione (« O caro duca », « o
frati ») sui pericoli fin qui superati; si notino anche le affinità nella costruzione
sintattica: « che piú di sette volte / m’hai sicurtà renduta e tratto / d’alto peri-
glio », dice Dante; « che per cento milia perigli », dice Ulisse), ma opposte sono
le conclusioni: Dante chiede di tornare indietro, Ulisse esorta con vigore i
compagni a proseguire il viaggio verso la montagna del purgatorio. Che ci
muoviamo proprio nel campo semantico del xxvi canto sembrano confermar-
lo, oltre all’aggettivo folle in riferimento alla strada percorsa fin qui, anche altre
spie riscontrabili nei versi che seguono: « e se passar piú oltre ci è negato » (dice
Dante al v. 101); riferendosi al divieto di oltrepassare le colonne d’Ercole Ulis-
se dirà: « venimmo a quella foce stretta / dov’Ercole fissò li suoi riguardi acciò
/ che l’uomo piú oltre non si metta » (Inf., xxvi 107-9). Anche la risposta di Virgi-
lio ai vv. 104-5 dell’viii canto contiene segnali che vanno nella stessa direzione:
« Non temer; ché ’l nostro passo / non ci può torre alcun: da tal n’è dato ». Con
lo stesso termine passo, infatti, Ulisse indicherà il punto che, proprio perché
superato senza la concessione divina, lo porterà al naufragio: « Cinque volte
racceso e tante casso / lo lume era di sotto da la luna, / poi che ’ntrati eravam
ne l’alto passo » (Inf., xxvi 130-32); interessante infine rilevare la ripresa dell’ag-
gettivo alto in unione con periglio al v. 99 del canto viii.
Merita soffermarsi brevemente anche sul rimando numerico contenuto al
v. 97, il riferimento alle volte in cui Virgilio avrebbe fin qui tratto Dante da
profondo pericolo. I primissimi commentatori intendono il « sette » come nu-
mero indeterminato per dire ‘molte volte’. Boccaccio inaugura una interpreta-
zione tutta narrativa del passo, inserendo specifici riferimenti ai pericoli scam-
pati. Chiosa infatti il verso con queste parole: « cioè quanto tu mi levasti dinan-
zi alle tre bestie, le quali impedivano il mio cammino, quando tu acquietasti
l’ira di Carone e di Minòs, di Cerbero e degli altri che opposti si sono » (Espo-
sizioni, p. 466). Questa lettura avrà fortuna nei commenti successivi, che la
svilupperanno fino a identificare con precisione gli otto pericoli; leggo ad
esempio dal commento cinquecentesco di Vellutello (to. i p. 342):
La prima, quando lo levò dinanzi a la lupa. La seconda, quando avvilito de l’impresa
d’averlo a seguitare, fu, per le sue parole, ritornato nel proposito di prima. La terza
contra di Caron. La quarta contro Minòs. La quinta contro di Cerbero. La sesta contro
Plutone. La settima contra Flegiàs. La ottava contro di Filippo Argenti, quanto stese le
mani a la barca per tirarlo nel fango.

Sempre nel Cinquecento c’è poi la posizione singolare di Daniello (p. 49), se-
condo cui l’impiego del “sette” sarebbe determinato da ragioni di rima. Scrive
infatti: « ma dice sette per la rima accomodare » (direi che possiamo escludere
275
maurizio fiorilla

che Dante non fosse capace di trovare soluzioni alternative). Colpisce indub-
biamente che i pericoli identificati siano proprio otto (anche alcuni commen-
ti novecenteschi riprendono questa spiegazione), tuttavia non tutte sembrano
situazioni di « alto periglio ». Piú convincente la proposta di tutti i commenti
moderni che intendono il sette come numero indeterminato, sottolineando
contemporaneamente (visto anche l’andamento alto e drammatico del passo),
la valenza simbolica del riferimento numerico con rimando all’uso biblico
(cfr. ad es. Prov., 24 16; Mat., 18 22).43

6. L’attesa di Dante e la sospensione del racconto. Virgilio si allontana per andare a


parlare con i demoni, non prima però di aver detto a Dante di nutrirsi di « spe-
ranza buona », e che non lo lascerà da solo nel « mondo basso » (vv. 103-8). E
Dante rimane per un momento solo e dubbioso circa l’esito del colloquio (vv.
109-11): « Cosí sen va, e quivi m’abbandona / lo dolce padre, e io rimagno in
forse, / che sí e no nel capo mi tenciona ». Ai versi successivi il poeta, prose-
guendo, dice di non aver potuto ascoltare le parole rivolte da Virgilio ai diavo-
li (e dunque non può riferirle al lettore), ma che egli non rimase lí molto a
lungo, perché i diavoli rientrarono rapidamente all’interno della città, barri-
candosi dentro (vv. 112-14): « Udir non potti quello ch’a lor porse; / ma ei non
stette là con essi guari, / che ciascuno dentro a pruova si ricorse ». Si noti la
straordinaria portata narrativa della terzina, perché qui l’accorgimento è vera-
mente degno di un grande romanziere moderno: Dante autore rinuncia al-
l’onniscienza narrativa (dichiara di non sapere cosa si siano detti Virgilio e i
diavoli), si allontana dalla stessa scena che sta descrivendo e rimane in disparte
a fianco del lettore ad aspettare con ansia che Virgilio torni e porti notizie
(l’espediente, davvero notevole, amplifica enormemente la drammaticità del
momento).
I diavoli chiudono letteralmente le porte in faccia a Virgilio (vv. 115-17):
« Chiuser le porte que’ nostri avversari / nel petto al mio segnor, che fuor ri-
mase / e rivolsesi a me con passi rari ». Il termine avversario va ricondotto qui al
linguaggio biblico in cui indica propriamente i diavoli. Basti il rimando alla
prima lettera di Pietro in cui il termine adversarius, in unione per altro con l’ag-
gettivo possessivo vester, va a indicare proprio il diavolo (Pietro, i, 5 8). Virgilio
torna a passi lenti e con occhi bassi verso Dante sospirando la frase « chi m’ha
negate le dolenti case » (v. 120); poi rivolge a Dante parole di incoraggiamento
dicendo che vincerà l’opposizione dei demoni (vv. 121-23), che questa resisten-

43. Vd. Chiavacci Leonardi, vol. i p. 259; Inglese, vol. i p. 116; Bellomo, vol. i p. 128; per ul-
teriori riscontri con luoghi biblici vd. Sapegno2, vol. i p. 97; Bosco-Reggio, vol. i p. 125.

276
inferno · canto viii

za non è nuova; avevano infatti già cercato di impedire la discesa di Cristo (vv.
124-27): « Questa lor tracotanza non è nova, / ché già l’usaro a men segreta
porta / la quale senza serrame ancor si trova. / Sovr’essa vedestú la scritta mor-
ta » (si sta naturalmente riferendo alla porta descritta a Inf., iii 1-9). Si noti come
se nel ii canto dell’Inferno, in un momento di titubanza riguardo alla possibilità
di proseguire il viaggio, Dante aveva evocato la discesa agli inferi di Enea e san
Paolo (due figure della provvidenza divina), qui chiami in causa addirittura la
discesa di Cristo. Il discorso di Virgilio si conclude con l’annuncio che dal
cielo sta arrivando un messo, che, dopo aver varcato i cerchi infernali, aprirà la
strada ai due pellegrini (vv. 127-30): « e già di qua da lei discende l’erta, / pas-
sando per li cerchi sanza scorta, / tal che per lui ne fia la terra aperta ».
Il canto si chiude in un clima di preoccupata attesa per le stesse sorti del
viaggio. Dal punto di vista della tecnica narrativa questo procedimento di so-
spensione del racconto, in un momento oltretutto fortemente drammatico,
rappresenta una novità per il lettore della Commedia (fin qui i canti si erano
sempre chiusi con segmenti narrativi conclusi). La vicenda troverà compi-
mento e risoluzione nel canto ix, in cui la rappresentazione degli eventi si svi-
lupperà in senso piú marcatamente allegorico, con la comparsa sulla scena
delle Furie e di Medusa.

Maurizio Fiorilla

Postilla bibliografica. Oltre alla bibl. richiamata nelle note, si potranno consulta-
re con profitto i seguenti contributi: F. D’Ovidio, Filippo Argenti e gli altri cani, in Id.,
Nuovo volume di studi danteschi, Caserta-Roma, Ape, 1926, pp. 231-71; E. Romagnoli, Il
canto viii dell’ ‘Inferno’ letto nella sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, Sansoni, 1915; P.
Amoroso, Lectura Dantis. Il canto viii dell’ ‘Inferno’ letto nella sala della Pontificia Accademia
Tiberina in Roma, Napoli, Libreria Editrice Arturo Criscuoli, 1931; G.A. Borgese, The
Wrath of Dante, in « Speculum », vol. xiii 1938, fasc. 2 pp. 183-93; L. Caretti, Una inter-
pretazione dantesca, in Id., Studi e ricerche di letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1951,
pp. 3-14; M. Apollonio, Il canto viii dell’ ‘Inferno’, in Nuove lett. dant., vol. i pp. 209-35; G.
Casagrande, Dante e Filippo Argenti: riscontri patristici e note di critica semantica, in SD, vol.
li 1978, pp. 221-54; E. Bigi, Moralità e retorica nel canto viii dell’ ‘Inferno’, in Id., Forme e signi-
ficati della ‘Divina Commedia’, Bologna, Cappelli, 1981, pp. 61-82; G. Bonfante, L’etica di
Dante e la nostra, in SD, vol. lviii 1986, 383-84 (poi in L’A, a. xxx 1989, fasc. 1 pp. 63-64,
con il titolo L’etica di Dante); U. Limentani, ‘Inferno’ viii, in Id., Dante’s ‘Comedy’. Introduc-
tory Readings of Selected Cantos, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1985, pp. 34-47; C.
Kleinhenz, ‘Inferno’ viii, in Lecturae Dantis Virginianae. Dante’s ‘Divine Comedy’ Introductory
Readings, vol. i. Inferno, ed. by T. Wlassics, Charlottesville, Univ. of Virginia, 1990, pp.

277
maurizio fiorilla
93-109; E. Sanguineti, ‘Inferno’, viii, in Id., Dante reazionario, Roma, Editori Riuniti, 1992,
pp. 89-109; C.A. Cioffi, Canto viii. Fifth Circle: Wrathful and Sullen, in Lectura Dantis. In-
ferno, ed. by A. Mandelbaum, A. Oldcorn and C. Ross, Berkeley-Los Angeles-Lon-
don, Univ. of California Press, 1998, pp. 111-22; D.J. Donno, Dante’s Argenti: episode and
function, in Dante: the critical complex, vol. vii. Dante and interpretation: from the new philology
to the new criticism and beyond, ed. by R. Lansing, New York-London, Routledge, 2003,
pp. 117-31; N. Mineo, Lettura del canto viii dell’ ‘Inferno’, in L’A, n.s., n. 24 2004, pp. 53-77
[poi in Id., Saggi e letture per Dante, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2008, pp. 37-72]; S. Cri-
staldi, Canti vii-viii-ix. Verso Dite, in Esper. dant., pp. 81-94; A. Carannante, Implicazioni
dantesche: Filippo Argenti (‘Inf.’, viii 1-64), in « Letteratura italiana antica », vol. xi 2010, pp.
355-72; A. Cottignoli, ‘Inferno’ viii. Il dramma dell’ira e della salvezza senza grazia, in Lectu-
ra Dantis Bononiensis, a cura di E. Pasquini e C. Galli, Bologna, Bononia Univ. Press,
vol. ii 2012, pp. 89-100.

Nota di approfondimento
14. [v. 66] Discuterò brevemente il problema della ricostruzione testuale di questo verso,
ripercorrendo, con l’aggiunta di qualche riflessione, il dibattito critico, a partire dalle soluzio-
ni offerte nelle piú recenti edizioni critiche. Giorgio Petrocchi ha promosso a testo la lezio-
ne: « perch’io avante l’occhio intento sbarro » (Commedia, vol. ii p. 134); questa restituzione
del verso è stata condivisa da Federico Sanguineti (Dantis Alagherii Comedia, ed. critica
per cura di F. Sanguineti, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2001, p. 44) e a da Giorgio
Inglese (Inglese, vol. i p. 115). Antonio Lanza aveva invece messo a testo « per ch’io avante
l’occhio attento sbarro » (con attento al posto di intento). Remo Fasani aveva in passato propo-
sto di leggere « per ch’io avante l’occhio a tondo sbarro », con a tondo al posto di intento, lezio-
ne che potrebbe essere ammessa nel contesto del passo (R. Fasani, Sul testo della ‘Divina
Commedia’. ‘Inferno’, Firenze, Sansoni, 1986, p. 212); non ha tuttavia attestazioni significative
nella tradizione manoscritta ed è possibile si sia generata per interferenza di uno degli ultimi
versi del canto precedente (« Noi girammo a tondo quella strada », Inf., vii 112). Piú interes-
sante la proposta avanzata da Antonino Pagliaro di leggere « perch’io avante intento l’occhio
sbarro »: intento verrebbe anticipato rispetto ad occhio e, in quella posizione, riferito a Dante
(anziché ad occhio) e collegato ad avante. L’ipotesi di Pagliaro è stata recuperata da Riccardo
Maisano (R. Maisano, La filologia dantesca di Antonino Pagliaro, in Lectura Dantis 2001, a cura di
V. Placella, Napoli, Il Torcoliere, 2005, pp. 195-225, partic. pp. 205-6) e successivamente
sostenuta da Enrico Malato, soprattutto a partire da elementi di critica interna, che verrano
ripresi e discussi piú avanti (E. Malato, Nuove note sul testo della ‘Divina Commedia’, in RSD, a.
xi 2011, pp. 249-76, partic. pp. 259-60). La proposta di Pagliaro ha attestazioni significative
nella tradizione: è infatti trasmessa dal Landiano (forse il codice piú antico della Commedia)
e di importanti manoscritti della tradizione toscana presi in esame da Petrocchi (Cha Ham
Lo Pr Ricc Tz Vat Laur; l’ordo verborum è inoltre confermato anche da Co). Mi segnala ora
Silvia Finazzi che la lezione avante/i intento l’occhio è portata anche da altri codici, non consi-
derati da Petrocchi e dagli altri editori, che gli studi di Marisa Boschi Rotiroti hanno riporta-
to entro i limiti cronologici dell’antica vulgata: Laur. Plut. 40 12, Laur. Plut. 40 13, Laur. Plut.
40 14, Laur. Plut. 40 15, Laur. Plut. 90 sup. 125a (frammento di altro codice, non tenuto in
conto da Petrocchi perché giudicato molto piú tardo, unito a costituire la prima sezione
dell’acefalo e lacunoso Ga), Laur. Strozzi 152, Ricc. 1048 e Vitrina 23 3 della Biblioteca Nacio-
nal de Madrid (vd. M. Boschi Rotiroti, Codicologia trecentesca. Entro e oltre l’antica vulgata,

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inferno · canto viii
Roma, Viella, 2004, p. 117 num. 65-68, p. 119 num. 79, p. 123 num. 108, p. 129 num. 157, p. 132
num. 187); la lezione si ritrova anche in altri due manoscritti (Laur. Plut. 40 11 e Laur. Plut. 90
inf. 42) datati poco oltre l’antica vulgata dalla Rotiroti (ivi, pp. 117-18 num. 64 e 66), ma ricol-
locati entro la metà del XIV secolo da Sandro Bertelli (vd. S. Bertelli, La tradizione della
‘Commedia’: dai manoscritti al testo. i. I codici trecenteschi (entro l’antica vulgata) conservati a Firenze,
Firenze, Olschki, 2011, pp. 327-28 num. 1 e pp. 343-44 num. 11). Una ricognizione sugli esege-
ti trecenteschi della Commedia permette di constatare inoltre come alcuni di loro partissero
sicuramente dalla lezione proposta da Pagliaro (Guido da Pisa, p. 170; Boccaccio, Esposi-
zioni, pp. 462-63; Benvenuto, vol. i p. 291; Falso Boccaccio, p. 67). La lezione avante intento
l’occhio avrà poi fortuna nella tradizione a stampa della Commedia grazie al tramite dell’edizio-
ne Aldina. Ci sono poi elementi cosiddetti di “critica interna” che possono accreditarla. Un
punto fondamentale da cui partire (e da cui infatti partiva Pagliaro) è il passo dell’Eneide che
sembrerebbe esserne la fonte, precisamente il verso di apertura del ii libro: « Conticuere
omnes intentique ora tenebant ». La sovrapposizione dell’Eneide appare sicura (anche il si-
lenzio intorno ad Enea che caratterizza il testo virgiliano, rispetto al forte duolo che percuo-
te le orecchie di Dante, connette in opposizione i due passi). Il confronto con l’Eneide per-
mette di avvalorare ulteriormente intento (al posto di attento promosso da Lanza) e di confor-
tare contemporaneamente l’ordo verborum proposto da Pagliaro. Non è solo una questione di
sequenza di parole (intentique ora tenebant rispecchia esattamente nell’ordine degli elemen-
ti intento l’occhio sbarro), ma bisogna considerare che in Virgilio il termine intenti è riferito al
soggetto, omnes, e non al complemento oggetto ora, cosí come nel testo dantesco, credo si
debba riferire al soggetto (Dante) e non al complemento oggetto (occhio). Alla luce del testo
virgiliano si potrebbe mantenere anche il testo Petrocchi riferendo intento a Dante e non ad
occhio (come fanno in genere i commenti moderni), come proposto recentemente (Inglese,
vol. i p. 115) e già nel Trecento dal commentatore Giovanni da Serravalle, che traduceva il
verso in latino con « Ex qui ego ulterius oculos intentus immicto » (Serravalle, i ad l.). Si
potrebbero insomma recuperare le riflessioni di Pagliaro su un piano puramente interpreta-
tivo mantenendo la lezione di Petrocchi. Ma c’è un altro elemento importante di cui tener
conto. Nel xxii canto dell’Inferno (vv. 19-20) Dante scrive: « Già mi sentia tutti arricciar li
peli / de la paura e stava in dietro intento ». Come rilevato in aggiunta dallo stesso Pagliaro, il
gesto compiuto da Dante è simile a quello raccontato nell’viii canto e viene impiegata la
stessa espressione, solo che in questo caso Dante è teso, vigile verso quello che accade dietro
di lui (si guarda le spalle). Il parallelismo avante intento/indietro intento permette di accreditare
ulteriormente la lezione « perch’io avante intento l’occhio sbarro ». Non è felicissima l’allit-
terazione avante intento ma nella Commedia non mancano esempi di iterazioni sillabiche simi-
li (cfr. ad es. Purg., xi 64: « ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante »).
M. F.

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