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AA 2020-21 – Storia del teatro musicale 1 – materiali

L’opera nel ’600

1. Terminologia formale nel canto


Forme chiuse (= con elementi Aria – duetto – terzetto – pezzo Elevata musicalità
simmetrici, fraseologici e/o d’assieme
strutturali): prevedibili,
simmetriche, ripetitive,
inerziali

Forme aperte (asimmetriche, Arioso


non ripetitive, imprevedibili,
non inerziali)
Recitativo accompagnato (o
obbligato) = accompagnato dagli
archi o addirittura (nell’800)
dall’intera orchestra.

Recitar cantando

Recitativo secco (accompagnato solo


dagli strumenti del Basso Continuo)

Musica SÌ !

____________
Declamato Musica NO "

Parlato
Musicalità zero

2. Opere delle origini (opere?)


1. Dafne Jacopo Peri, Ottavio Rinuccini Firenze, casa di Jacopo Inverno 1594-95 o Carnevale
Corsi 1598
2. La Emilio de’ Cavalieri Roma febbraio 1600
Rappresentatione
di Anima et di
Corpo
3. Il rapimento di Giulio Caccini, Gabriello Firenze, Palazzo Pitti 9 ottobre 1600
Cefalo Chiabrera
4. Euridice Jacopo Peri, Ottavio Rinuccini Firenze, Palazzo Pitti 6 ottobre 1600
5. Euridice Giulio Caccini, Ottavio Rinuccini Firenze, Palazzo Pitti 5 dicembre 1602
6. Andromeda Girolamo Giacobbi, conte Bologna 1605
Ridolfo Campeggi
7. Carro di fedeltà Paolo Quagliati, Pietro della Roma Gennaio 1606
d’Amore Valle
8. Eumelio, dramma Agostino Agazzari, ? Roma 1606
pastorale
9. L’abatimento di Ferdinando Gonzaga, ? Pisa 1606
Dario et il finto
Alessandro
10. L’Orfeo (o Favola Claudio Monteverdi, Alessandro Mantova, Palazzo Anteprima 24 febbraio 1607
d’Orfeo) Striggio Ducale (Accademia degli Invaghiti)
Prima rappresentazione 1°
marzo 1607
11. Dafne Marco da Gagliano, Ottavio Mantova, Palazzo gennaio 1608
Rinuccini Ducale
12. L’Orindo, favola Cesare Galletti (poeta? Pisa 1608
pastorale in Compositore?)
musica
13. Conversione di ?, Riccardo Riccardi? Firenze 1608
Santa Maria
Maddalena
14. Arianna, tragedia Claudio Monteverdi, Ottavio Mantova, Palazzo 28 maggio 1608
Rinuccini Ducale

3. Pietro Bardi sulla Dafne


messa in musica dal Peri con poco numero di suoni, con brevità di scene e in piccola stanza rappresentata.

4. Ottavio Rinuccini sulla Dafne


È stata openione di molti […] che gli antichi greci e romani cantassero su le scene le tragedie intere, ma sì
nobil maniera di recitare, non che rinnovata, ma né pur che io sappia fin qui era stata tentata da alcuno, e ciò
mi credev’io per difetto della musica moderna, di gran lunga all’antica inferiore; ma pensiero sì fatto mi tolse
interamente dall’animo M. Jacopo Peri, quando […] mise con tanta grazia sotto le note la favola di Dafne
composta da me solo per far una semplice prova di quello che potesse il canto dell’età nostra, che
incredibilmente piacque a que’ pochi che l’udirono. […]

5. Jacopo Peri sulla Dafne


Piacque a’ signori Jacopo Corsi ed Ottavio Rinuccini […] che io […] mettessi sotto le note la favola di Dafne,
dal signor Ottavio composta [= versificata] per fare una semplice pruova di quello che potesse il canto
dell’età nostra.

6. Jacopo Peri, Euridice, «Antri ch’a’ miei lamenti» I,2


Antri ch'a' miei lamenti
rimbombaste dolenti. Amiche piagge,
e voi piante selvagge,
ch'alle dogliose rime
piegaste per pietà l'altere cime,
non fia più no, che la mia nobil cetra
con flebil canto a lagrimar v'alletti,
ineffabil mercede, almi diletti
amor cortese oggi al mio pianto impetra.1
Ma deh perché sì lente
del bel carro immortal le rotte accese
per l'eterno cammin tardano il corso?
Sferza padre cortese
a volanti destrier, le groppe, e 'l dorso.
Spegni nell'onde omai,
spegni, o nascondi i fiammeggianti rai.
Bella madre d'amor dall'onde fora
sorgi, e la notte ombrosa
di vaga luce scintillando indora.
Venga deh venga omai la bella sposa
tra 'l notturno silenzio, e i lieti orrori
a temprar tante fiamme, e tanti ardori.

7. Sicuri partecipanti alla “Camerata fiorentina”


Vincenzo Galilei (Trattato della musica antica et de la moderna, 1582)
Giulio Caccini
Giovanni De’ Bardi (padrone di casa)

1
Oggi l’amore implora al mio pianto un premio ineffabile, piaceri eccelsi.
Girolamo Mei (letterato umanista)
Emilio de’ Cavalieri (compositore)
Ottavio Rinuccini (poeta)
Francesco Rasi (compositore e cantante, primo interprete di Orfeo nell’Orfeo di Monteverdi)

8. Nino Pirrotta, Temperamenti e tendenze nella Camerata fiorentina (1954)


Tentennamenti, incertezze, nessun programma prestabilito, nessuna realizzazione pratica corrispondente
alle incerte idee di riforma: ecco il panorama di quella che più propriamente fu la Camerata, quella cioè di
casa Bardi. Della quale non è nemmeno accertato che continuasse oltre il 1581-82 la consuetudine delle sue
conversazioni musicali [le quali peraltro non ebbero con ogni probabilità quel carattere continuativo e quel
ruolo centrale che si immagina]. Le idee che vi si dibattevano non furono certamente del tutto prive di
influenze; ma si trattava di idee che ormai da più parti venivano enunciate e riecheggiate. Soltanto quando
l’opera fu divenuta una realtà, Caccini, che fu fortemente legato a Bardi, Saverio Bonini, allievo ed
ammiratore di Caccini, Pietro Bardi [figlio di Giovanni], ed altri sulla loro scia, vollero artificiosamente
rivendicare un rapporto di conseguenza rispetto a quelle discussioni. Ancora più perentori, noi moderni
abbiamo creato il mito di una raccolta di teorizzatori e disquisitori, nelle cui riunioni si andasse
programmaticamente concretando nei suoi minuti particolari, ancor prima che nell’arte, la teoria della nuova
musica drammatica.
Ben più fecondo e decisivo per la nascita dell’opera fu l’ultimo decennio del secolo XVI. Forse i tempi erano
più maturi per l’inclinare del linguaggio musicale verso una sempre più accentuata espressività; certo vi
contribuì, appena dissimulato sotto il velo delle convenienze sociali, un aspro gioco di personalismi, di lotte
per la conquista di una posizione preminente nel favore della corte fiorentina.
[In conclusione] nella cosiddetta Camerata fu inesistente, o tenuissimo, il vincolo di presupposti teorici. Non
teorie e precetti condussero all’opera, ma tentativi di realizzare, secondo le esigenze del proprio
temperamento e della propria sensibilità, un proprio ideale: Caccini quello del nobile canto artistico,
Cavalieri quello della musica scenica elegante e dilettevole, Rinuccini e Peri quello dell’espressione
drammatica. Pure il giudizio che si sente più comunemente ripetere è quello che li raffigura,
contrapponendoli a Monteverdi, come cerebrali applicatori di formule estetiche che non seppero dominare e
trasfigurare in arte. È un giudizio doppiamente ingiusto: nei riguardi di Monteverdi, il cui genio non ha
bisogno per risaltare che siano rimpiccioliti coloro che gli furono vicini; nei riguardi degli artisti della
Camerata, ciascuno dei quali non ebbe vincoli né limiti alla propria attività creativa se non quelli della
propria personalità, ciascuno dei quali, come ogni vero artista, merita ed esige un giudizio per se stesso e
non commisurato alla grandezza altrui.
[…]

9. Lezione storiografica di Pirrotta


Chi si imbatte nella sorgente di un’acqua montana difficilmente potrà dire se si tratti dell’inizio di un gran
fiume o delle modeste scaturigini di un piccolo ruscello: soltanto l’apporto di numerosi affluenti e
l’ampiezza di una pianura che l’attende potranno conferire a quella tenue vena appena sgorgata volume di
acque e lunghezza di corso. Ancor più difficile è, nella storia di ogni attività umana, distinguere il punto
iniziale – se vi è un punto iniziale – di una serie pur grandiosa di avvenimenti: momenti che si rivestono di
una particolare drammaticità o solennità si riveleranno poi spesso di una importanza ben più modesta di
quella che le apparenze lasciavano supporre; altri, ben più carichi di conseguenze, si inseriscono nella vita
quotidiana senza che alcun particolare risalto li distingua da avvenimenti più banali. Nessun momento della
storia è, del resto, in linea assoluta decisivo, poiché, se è vero che esso attuando una possibilità ne esclude
molte altre, altrettanto vero è che esso apre la via a molteplici possibili diramazioni, la cui scelta dipenderà
da una successione di altri momenti, anch’essi, in varia misura, esclusivi e quindi decisivi. Di ciò tutti siamo
disposti a convenire; e tuttavia, quando tentiamo di ricostruire e di rappresentarci un periodo storico, ci
riesce difficile immedesimarci con esso e unire alla consapevolezza del futuro l’immediatezza e l’ingenuità
con le quali lo vissero i contemporanei.
Tra gli esempi più tipici di errori di prospettiva e di distorsioni di giudizio che nascono da questa incapacità
è il modo nel quale generalmente si raffigura la serie di avvenimenti che condivisero al sorgere dell’opera.
Ammiratori e detrattori di tre secoli di opera italiana sono d’accordo almeno in questo, nel riconoscere
l’enorme influenza che, in bene come in male, essa esercitò sullo svolgimento della storia musicale non
soltanto nostra ma di tutta l’Europa. Agli uni come agli altri riesce dunque difficile considerare il momento
della nascita come poté apparire a coloro che assistettero e vi parteciparono. Senza volerlo siamo portati ad
attribuire ai contemporanei una oscura e assurda antiveggenza di ciò che da quella nascita avrebbe preso
corpo e consistenza; senza neppure avvertirlo siamo indotti a conferire a ciascun atto o detto dei protagonisti
una solennità carica di pregnanza che essi stessi furono ben lungi dall’attribuirsi.

10. Incipit testo Euridice (Euridice I,1)


PASTORE
Ninfe ch'i bei crin d'oro
sciogliete liete allo scherzar de' venti,
e voi ch'almo tesoro
dentro chiudete a bei rubini ardenti,
e voi ch'all'alba in ciel cogliete i vanti con la luce raccogliete il vanto della vostra bellezza
tutte venite, o pastorelle amanti,
e per queste fiorite alme contrade
risuonin liete voci, e lieti canti:
oggi a somma beltade
giunge sommo valor, santo imeneo, santo imeneo aggiunge un sommo valore (quello delle nozze)
avventuroso Orfeo,
fortunata Euridice,
pur vi congiunse il cielo, o dì felice.
NINFA
Raddoppia, e fiamm'e lumi
al memorabil giorno
Febo ch'il carro d'or rivolgi intorno.
PASTORE
E voi celesti numi
per l'alto ciel con certo moto erranti,
rivolgete sereni
di pace, e d'amor pieni
alle bell'alme i lucidi sembianti.
NINFA
Vaghe ninfe amorose
inghirlandat'il crin d'alme vïole
dite liete, e festose
non vide un simil par d'amanti 'l sole. ripetizioni a voci sole e poi piccolo coretto
EURIDICE
Donne, ch'a' miei diletti
rasserenate sì lo sguardo, e 'l volto,
che dentr'a vostri petti
tutto rassembra il mio gioir raccolto, rassembra = sembra
deh come lieta ascolto
i dolci canti, e gli amorosi detti
d'amor, di cortesia graditi affetti.
NINFA
Qual in sì rozzo core Quale anima vive in un cuore talmente rozzo,
alberga alma sì fera, alma sì dura così fiera e dura,
che di sì bell'amor l'alta ventura che l’alta ventura di un amore così bello
non colmi di diletto e di dolcezza? Non riesca a riempire di piacere e dolcezza?
PASTORE
credi ninfa gentile
pregio d'ogni bellezza
che non è fera in bosco, augello in fronda,
o muto pesce in onda,
ch'oggi non formi, e spiri
dolcissimi d'amor sensi, e sospiri,
non pur son liete l'alme, e lieti i cori non pur: non solo
de' vostri dolci amori.
EURIDICE
In mille guise, e mille
crescon le gioie mie dentro al mio petto
mentre ogn'una di voi par che scintille
dal bel guardo seren gioia e diletto,
ma deh compagne amate
là tra quell'ombre grate
moviam di quel fiorito almo boschetto
e quivi al suon de' limpidi cristalli limpidi cristalli: limpidi ruscelli?
trarrem liete carole, e lieti balli.
NINFA
Itene liete pur, noi qui frattanto
che sopraggiunga Orfeo
l'ore trapasserem con lieto canto.
DA QUI: STRUTTURA SIMMETRICA: alternanza di un refrain
in forma chiusa (quartina coro “al canto, al ballo” NB: notare le
parole: si chiama al canto ed al ballo) con quartine solistiche in
RC.
NB: questo brano (“Al canto al ballo”) NON è stato composto
da Peri ma da Caccini!
Al canto, al ballo, all'ombre, al prato adorno
alle bell'onde, e liete
tutti, o pastor correte
dolce cantando in sì beato giorno.
Selvaggia diva, e boscherecce ninfe Dea delle selve (Diana)
satiri e voi silvani
reti lasciat'e cani,
venite al suon delle correnti linfe. Il suono dei ruscelli che scorrono
Al canto, al ballo, all'ombra, al prato adorno
alle bell'onde, e liete
tutti, o pastor correte
dolce cantando in sì beato giorno.
Bella madre d'amor dall'alto coro Venere
scendi a' nostri diletti
e, co' bei pargoletti
fendi le nubi, e 'l ciel con l'ali d'oro.
Al canto, al ballo, all'ombra, al prato adorno
alle bell'onde, e liete
tutti, o pastor correte
dolce cantando in sì beato giorno.
Corran di puro latte e rivi, e fiumi;
di mel distilli, e manna
ogni selvaggia canna,
versat'ambrosia e voi celesti numi.
Al canto, al ballo, all'ombra, al prato adorno
alle bell'onde, e liete
tutti, o pastor correte
dolce cantando in sì beato giorno.

11. Jacopo Peri, Prefazione all’Euridice


[…] veduto che si trattava di poesia drammatica e che però si doveva imitar col canto chi parla (e senza
dubbio non si parlò mai cantando), stimai che gli antichi Greci e Romani (i quali, secondo l’openione di
molti, cantavano su le scene le tragedia intere) usassero un’armonia, che avanzando quella del parlare
ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa mezzana […].

12. Aristotele: la musica nella tragedia


quando parla delle origini della tragedia, Aristotele afferma che lo sviluppo del ditirambo verso la tragedia
avviene abbandonando gli aspetti più musicali (il metro poetico, la caratteristica di essere danzato) fino a
quando «il linguaggio prevalse», inoltre parla della presenza di «parola ornata, distintamente per ciascun
elemento nelle sue [della tragedia] parti», specificando: «Intendo per “parola ornata” quella fornita di ritmo
e di musica; “distintamente per gli elementi” il comporre alcuni solo con versi, altri invece col canto».

13. Le parti della Tragedia antica e la presenza/assenza della musica


Prologo — Alternanza di Episodi e Stasimi — Esodo.
Episodi: fasi di azione e dialogo; fasi recitate (in metrica quantitativa). Stasimi (coro): fasi di commento con
musica. Occasionalmente Melologhi: recitazione sul suono del flauto.

14. La presunta somiglianza fra recitar cantando e metrica quantitativa

Ritmo Altezze
(Durate)

Metrica quantitativa + –

Recitar cantando – +

15. Caccini: «sprezzatura»


Avvenga che nobile maniera sia così appellata da me quella che va usata senza sottoporsi a misura ordinaria,
facendo molte volte il valore delle note la metà meno secondo i concetti delle parole, onde ne nasce quel
canto poi in sprezzatura, che si è detto […] senza misura quasi favellando in armonia con la suddetta
sprezzatura.
[…] La sprezzatura è quella leggiadria la quale si dà al canto co’l trascorso di più crome, e semicrome sopra
diverse corde co’l quale fatto a tempo, togliendosi al canto una certa terminata angustia, e secchezza, si
rende piacevole, licenzioso, e arioso, sì come nel parlar comune la eloquenza e la facondia rende agevoli e
dolci le cose di cui si favella. Nella quale eloquenza alle figure e ai colori rettorici assomiglierei i passaggi, i
trilli e gli altri simili ornamenti, che sparsamente in ogni affetto si possono talora introdurre.

16. Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano (1524)


usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri di ciò che si fa e dice venir fatto senza
fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia. […] Si po dir quella esser vera arte
che non par esser arte [nb: notare la comune radice linguistica di “arte” e “artificio”].

17. Monteverdi ed il “rubato”


— Madrigale Lamento della ninfa (libro VIII): da eseguire «a tempo del afetto del animo, e non a quello della
mano»)
— Lettera amorosa («Se i languidi miei sguardi» libro VII): «si canta senza la battuta»
— Madrigale (polifonico!) «Sfogava con le stelle» (Libro IV):
18. Peri, Euridice, Prologo
LA TRAGEDIA
Io, che d’alti sospir vaga e di pianti, A
spars’or di doglia hor di minaccie il volto, B
fei negl’ampi teatri al popol folto C
scolorir di pietà volti e sembianti. D
Non sangue sparso d’innocenti vene, A
non ciglia spente di tiranno insano, B
spettacolo infelice al guardo humano, C
canto su meste e lacrimose scene. D
Lungi via, lungi pur da’ regij tetti, A
simulacri funesti, ombre d’affanni: B
ecco i mesti coturni e i foschi panni C
cangio e desto ne i cor più dolci affetti. D
Hor s’avverrà che le cangiate forme A
non senza alto stupor la terra ammiri B
tal ch’ogni alma gentil ch’Apollo inspiri C
del mio novo cammin calpesti l’orme. D
Vostro, regina, fia cotanto alloro, A
qual forse anco non colse Atene o Roma, B
fregio non vil su l’onorata chioma, C
fronda febea fra due corone d’oro. D
Tal per voi torno e con sereno aspetto A
ne’ reali imenei m’adorno anch’io B
e su corde più liete il canto mio C
tempro, al nobile cor dolce diletto. D
Mentre Senna real prepara intanto A
alto diadema onde il bel crin si fregi B
e i manti e’ seggi de gl’antichi regi, C
del tracio Orfeo date l’orecchie al canto. D

19. Cavalli, Giasone - prologo


SOLE
Questo è il giorno prefisso
alle grandezze mie.
Oggi, il tessalo eroe, Giasone il forte,
il vello rapirà d’Elle e di Frisso! Elle e Frisso: sorella e fratello della mitologia greca*
Oggi della bellissima Medea,
di mia divinità chiara nipote,
sarà quel trionfante,
sarà quel glorïoso,
non più furtivo amante
ma fortunato sposo.
Dunque sul carro mio
del più terso splendore i raggi splendino,
e la terrena mole
a illuminar, a immortalar discendino!
Crescete pur, crescete
su quest’ardenti rote, (le ruote del carro del sole, cioè di Apollo)
lucidissimi abissi. (i raggi, che sono abissi in quando precipitano dall’alto verso il basso)
Tutta in Colco vibrate
la gran lampa febea,
e le nozze illustrate
di regia semidea!

20. Peri, Euridice, Canzone Tirsi «Nel pur ardor della più bella stella»
Tirsi viene in scena sonando la presente Zinfonia con un Triflauto, e canta la seguente stanza: salutando Orfeo di poi s’accompagna con gli altri del Coro, e con tale
strumento fu sonata.
TIRSI
Nel pur ardor della più bella stella,
aurea facella di bel foc’accendi
e qui discendi su l’aurate piume, A
giocondo nume, e di celeste fiamma
l’anime infiamma.
Lieto imeneo d’alta dolcezza un nembo
trabocca in grembo a’ fortunati amanti
e tra bei canti di soavi amori, A’
sveglia nei cori una dolce aura, un riso
di paradiso.

21. Peri, Euridice, Coro «Se de’ boschi i verdi onori»


ARCETRO
[…]
A te qual tu ti sia de gl’alti numi
Ch’al nobile pastor recasti aita
mentre avran queste membra, e spirto, e vita
canterem lodi ogn’or tra incensi, e fumi.
CORO
Se de’ boschi i verdi onori
raggirar su’ nudi campi
fa stridor d’orrido verno,
sorgon anco e frond’e fiori
appressando i dolci lampi
della luce il carro eterno.
S’al soffiar d’austro nemboso
crolla in mar gli scogli alteri
l’onda torbida e spumante,
dolce increspa il tergo ondoso,
sciolti i nembi oscuri e feri,
aura tremola e vagante.
Al rotar del ciel superno
non pur l’aer e ’l foco intorno,
ma si volge il tutto in giro:
non è il ben, né ’l pianto eterno:
come or sorge, or cade il giorno;
regna qui gioia e martiro.

22. Pierfancesco Rinuccini?, Il Corago (1630?): la varietà del metro poetico


ragionevolmente permesso e lodevole […] usare varietà e stravaganze […] per dare occasione al musico di
uscire dall’uniformità. [le arie possiedono una] grazia leggiadra, [lo stile recitativo] genera tedio, […] ha del
languido anziché no […] è manchevole di quelli ornamenti e vaghezze che abbelliscono tanto il cantare.

23. Monteverdi, L’Orfeo, Toccata, Prologo, Atto primo


TOCCATA
PROLOGO
LA MUSICA
Ritornello
Dal mio Permesso amato a voi ne vegno,
incliti eroi, sangue gentil di regi, Nobili, grandi
di cui narra la Fama eccelsi pregi,
né giugne al ver perch’è tropp’alto il segno. Figura: “alto”
Ritornello
Io la Musica son, ch’a i dolci accenti
so far tranquillo ogni turbato core,
ed or di nobil ira ed or d’amore
posso infiammar le più gelate menti.
Ritornello
Io su cetera d’or cantando soglio
mortal orecchia lusingar talora,
e in guisa tal de l’armonia sonora
de le rote del ciel più l’alme invoglio.
Ritornello
Quinci a dirvi d’Orfeo desio mi sprona,
d’Orfeo che trasse al suo cantar le fere,
e servo fe’ l’inferno a sue preghiere,
gloria immortal di Pindo e d’Elicona. Due monti frequentati dalle Muse (oltre al Parnaso)
Ritornello
Or mentre i canti alterno or lieti or mesti,
non si mova augellin fra queste piante,
né s’oda in queste rive onda sonante,
ed ogni auretta in suo camin s’arresti.
Ritornello

ATTO PRIMO
<Orfeo, Euridice, Coro di Ninfe e Pastori>
PASTORE
In questo lieto e fortunato giorno RC
ch’ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro semideo, cantiam, pastori,
con sì soavi accenti che sien degni
d’Orfeo nostri concenti. Concento: termine in uso nel 500 per indicare un canto d’assieme
Oggi fatt’è pietosa
l’alma già sì sdegnosa
de la bella Euridice;
oggi fatt’è felice
Orfeo nel sen di lei, per cui già tanto
per queste selve ha sospirato e pianto.
Dunque in sì lieto e fortunato giorno,
ch’ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro semideo, cantiam, pastori,
con si soavi accenti
che sien degni d’Orfeo nostri concenti.
CORO
Vieni, Imeneo, deh vieni, MS1 Imeneo, dio delle nozze, che nella mitologia greca cammina davanti a corteo nuziale e
protegge il rito matrimoniale
e la tua face ardente
sia quasi un sol nascente
ch’apporti a questi amanti i dì sereni
e lunge omai disgombre
de gli affanni e del duol le nebbie e l’ombre.
NINFA
Muse, onor di Parnaso, amor del cielo, RC Muse: divinità delle arti
gentil conforto a sconsolato core,
vostre cetre sonore
squarcino d’ogni nube il fosco velo;
e mentre oggi propizio al vostro Orfeo
invochiamo Imeneo,
su ben temprate corde
col vostro suon nostr’armonia s’accorde.
CORO
Lasciate i monti, MS2
lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati
a i balli usati
leggiadro il piè rendete.
Qui miri il sole
vostre carole
più vaghe assai di quelle
ond’a la luna,
a l’aria bruna,
danzano in ciel le stelle.
Poi di bei fiori
per voi s’onori
di questi amanti il crine,
ch’or de i martiri
de i lor desiri
godon beati il fine.
PASTORE
Ma tu, gentil cantor, s’a’ tuoi lamenti RC
già festi lagrimar queste campagne,
perch’or al suon de la famosa cetra
non fai teco gioir le valli e i poggi?
Sia testimon del core
qualche lieta canzon che detti Amore.
ORFEO
Rosa del ciel, gemma del giorno, e degna MS3 (MVS)
prole di lui che l’universo affrena,
Sol, ch’il tutto circondi e ’l tutto miri
da gli stellanti giri,
dimmi, vedestu mai
alcun di me più fortunato amante?
Fu ben felice il giorno, (si rivolge ad Euridice)
mio ben, che pria ti vidi,
e più felice l’ora
che per te sospirai,
poich’al mio sospirar tu sospirasti,
felicissimo il punto
che la candida mano
pegno di pura fede a me porgesti.
Se tanti cori avessi
quant’occhi ha il ciel sereno e quante chiome Occhi del cielo sereno: le stelle.
sogliono i colli aver l’aprile e ’l maggio,
colmi si farien tutti e traboccanti
di quel piacer ch’oggi mi fa contento.
EURIDICE
Io non dirò qual sia
nel tuo gioire, Orfeo, la gioia mia
che non ho meco il core
ma teco stassi in compagnia d’Amore
chiedilo dunque a lui, s’intender brami
quanto lieta i’ gioisca e quanto t’ami.
Lasciate i monti, MS2
lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati
a i balli usati
leggiadro il piè rendete.
Qui miri il sole
vostre carole
più vaghe assai di quelle
ond’a la luna
a l’aria bruna,
danzano in ciel le stelle.
Vieni, Imeneo, deh vieni, MS1
e la tua face ardente
sia quasi un sol nascente
ch’apporti a questi amanti i dì sereni,
e lunge omai disgombre
de gli affanni e del duol le nebbie e l’ombre.
PASTORE
Ma s’il nostro gioir dal ciel deriva, RC
com’è dal ciel ciò che qua giù n’incontra,
giusto è ben che divoti
gli offriamo incensi e voti.
Dunque al tempio ciascun rivolga i passi
a pregar lui ne la cui destra è il mondo,
che lungamente il nostro ben conservi.
CORO
Alcun non sia che disperato in preda
si doni al duol, benché talor n’assaglia
possente sì che nostra vita inforsa;
ché, poi che nembo rio gravido il seno
d’atra tempesta inorridito ha il mondo,
dispiega il sol più chiaro i rai lucenti,
e dopo l’aspro gel del verno ignudo
veste di fior la primavera i campi.
Orfeo, di cui pur dianzi
furon cibo i sospir, bevanda il pianto,
oggi felice è tanto
che nulla è più che da bramar gli avanzi.
Ma perché tal gioire
dopo tanto martire? Eterni numi,
vostr’opre eccelse occhio mortal non vede,
che splendente caligine le adombra; [perché una nebbia splendente le nasconde]
pur, se lece spiegar pensiero interno
sol per cangiarlo ove l’error si scopra,
direm ch’in questa guisa,
mentre i voti d’Orfeo seconda il cielo,
prova vuol far di sua virtù più certa:
ch’il soffrir le miserie è picciol pregio,
ma ’l cortese girar di sorte amica
suol dal dritto camin travïar l’alme.
Oro così per foco è più pregiato;
combattuto valore
godrà così di più sublime onore.
24. Monteverdi, Orfeo, «Possente spirto» (edizione Amadino, Venezia 1609)

25. Alessandro Striggio, Claudio Monteverdi, L’Orfeo (1607)


Possente spirto e formidabil nume,
senza cui far passaggio a l’altra riva
alma da corpo sciolta invan presume,
non viv’io no, che poi di vita è priva
mia cara sposa, il cor non è più meco,
e senza cor com’esser può ch’io viva?
A lei volt’ho il cammin per l’aere cieco,
a l’Inferno non già, ch’ovunque stassi
tanta bellezza il Paradiso ha seco.
Orfeo son’io, che d’Euridice i passi
Seguo per queste tenebrose arene,
dove giamai per uom mortal non vassi. Coloratura minuta
O de le luci mie luci serene,
s’un vostro sguardo può tornarmi in vita,
ahi, chi nega il conforto a le mie pene?
Sol tu, nobile Dio, puoi darmi aita,
né temer dèi, che sopra un’aurea cetra
sol di corde soavi armo le dita
contra cui rigid’alma in van s’impetra.

26. Rodolfo Celletti su «Possente spirto»


è difficile negare che la versione variata è di gran lunga superiore all’altra e dovette avere un effetto
sconvolgente sull’uditorio. Ma vanno presi in considerazione tutti i termini della questione. In primo luogo
l’effetto timbrico d’una voce di contraltista castrato [??? Orfeo è tenore!], quasi irreale nelle sue risonanze
androgine – scura, ma penetrante, intendo dire –, sullo sfondo del particolare colore dell’organo di legno, lo
strumento che maggiormente evocava, ai primi del Seicento, un’atmosfera magica. Poi le evoluzioni della
voce, per i tempi d’un notevole virtuosismo – stupefacenti, in senso barocco – ma anche con qualcosa di
affannoso e di lancinante dato dai ritmi puntati, dai continui trilli ribattuti o “toscani” e da altre figurazioni
melismatiche. Ma tutto questo va messo in rapporto con gli interventi strumentali. Le volatine dei due
violini che s’alternano alla voce nella prima strofa e che ne anticipano le evoluzioni nel ritornello di
passaggio alla seconda; poi l’improvviso intervento dei cornetti e il loro ritornello; quindi l’arpa […], le sue
fiorettature e scalette stabiliscono un preciso rapporto fra canto e strumenti solisti, dando luogo a una scena
d’insieme serratissima nel ritmo e allucinante come atmosfera. È la prima grande aria del melodramma
italiano che conosciamo. È grande come dimensioni, come concezione, come efficacia teatrale, come
ardimento virtuosistico (siamo addirittura alla “coloratura minuta”) e perfino come sia pur remota
anticipazione di quella che poi diventerà, nel pezzo chiuso, la funzione degli strumenti concertanti».
27. L’Orfeo - Atto terzo: simmetrie semantiche nel testo
A - speranza
B - disperazione
C - insensibilità
D - fascino di Orfeo
C - insensibilità
B - disperazione
A - speranza

28. Monteverdi/Striggio, Orfeo, atto III


ATTO TERZO
Sinfonia
ORFEO
Scorto da te mio nume A – Speranza. Scorto:
scortato
Speranza unico bene
de gli afflitti mortali,
homai son giunto
a questi regni tenebrosi e
mesti
ove raggio di sol giamai
non giunse.
Tu mia compagna e duce
in così strane e
sconosciute vie
reggesti il passo debile e
tremante,
ond’oggi ancor spero
di riveder quelle beate
luci
che sol’a gli occhi miei
portano il giorno.

SPERANZA
Ecco l’atra palude, ecco il nocchiero: guida (è Caronte).
nocchiero
che trae l’ignudi spirti a
l’altra sponda
dov’hà Pluton de l’ombre
il vasto impero:
Oltre quel nero stagn’, fiume Acheronte o Stige, a seconda
oltre quel fiume, delle versioni mitologiche
in quei campi di pianto e
di dolore.
Destin crudele ogni tuo
ben t’asconde.
Hor d’uopo è d’un gran
core e d’un bel canto.
Io fin qui t’ho condotto,
hor più non lice
teco venir, ché amara
legge il vieta.
Legge scritta col ferro in
duro sasso
de l’ima reggia in su reggia profonda
l’orribil soglia,
che in queste note il fiero
senso esprime:
«Lasciate ogni speranza o
voi ch’entrate».
Dunque, se stabilito hai
pur nel core
di porre il piè ne la città
dolente,
da te men’ fuggo e torno
a l’usato soggiorno.

ORFEO
Dove, ah dove te’n vai, B - disperazione
unico del mio cor dolce
conforto?
Poiché non lunge homai
del mio lungo cammin si
scopre il porto,
perché ti parti e
m’abbandoni, ahi lasso,
sul periglioso passo?
Qual bene or più
m’avanza
se fuggi tu, dolcissima
Speranza?

CARONTE
O tu ch’innanzi morte a C - insensibilità
queste rive
temerato ten’vieni, arresta Temerato: pauroso – Altre versioni:
i passi. «temerario» (intrepido)
Solcar quest’onde ad
huom mortal non dassi,
né può co’ morti albergo
aver chi vive.
Che? Vuoi forse, nemico
al mio Signore,
Cerbero trar de le Cerbero fu rapito da Ercole
Tartaree porte?
O rapir brami sua cara Teseo e Piritoo rapirono Persefone
consorte (Teseo voleva sposarla). Persefone è
la Proserpina latina, regina
dell’oltretomba.
d’impudico desire acceso
il core?
Pon freno al foll’ardir,
ch’entr’al mio legno
non accorrò più mai
corporea salma,
sì de gli antichi oltraggi oltraggi - Riferimento a Ercole,
ancora en l’alma Piritoo e Teseo
serbo acerba memoria e
giusto sdegno.

Sinfonia

ORFEO
Possente Spirto e D - fascino di Orfeo: al centro dell’atto
formidabil nume, terzo cioè al centro dell’opera
senza cui far passaggio à
l’altra riva
alma da corpo sciolta in
van presume,
non viv’io no, che poi di
vita è priva
mia cara sposa, il cor non
è più meco,
e senza cor com’esser può
ch’io viva?
Ritornello

A lei volt’ho il cammin


per l’aër cieco,
a l’inferno non già,
ch’ovunque stassi
tanta bellezza il paradiso
ha seco.

Ritornello

Orfeo son io che


d’Euridice i passi
segue per queste
tenebrose arene,
ove già mai per uom
mortal non vassi.
O de le luci mie luci
serene,
s’un vostro sguardo può
tornarmi in vita,
Ahi, chi nega il conforto à
le mie pene?
Sol tu, nobile Dio puoi
darmi aita,
né temer dei, ché sopra
un’aurea Cetra
Sol di corde soavi armo le
dita
contra cui rigida alma Contro le quali (corde soavi)
invan s’impetra. un’anima rigida invano
s’impietrisce, oppure: contro la cui
(tua, nobile dio) rigida anima invano
s’implora

CARONTE
Ben sollecita alquanto C - insensibilità
dilettandomi il core,
sconsolato Cantore,
il tuo pianto e’l tuo canto.
Ma lunge, ah, lunge sia
da questo petto
pietà, di mio valor non
degno affetto.

ORFEO
Ahi, sventurato amante! B - disperazione
Sperar dunque non lice
ch’odan miei prieghi i
cittadin d’Averno?
Onde qual ombra errante
d’insepolto cadavero
infelice,
privo sarò del cielo e de
l’Inferno?
Così vuol empia sorte
ch’in questi orror di
morte
da te mio cor lontano,
chiami tuo nome in vano,
e pregando e piangendo
io mi consumi?
Rendetemi il mio ben,
Tartarei Numi.

Sinfonia

Ei dorme, e la mia cetra A - speranza


se pietà non impetra
ne l’indurato core, almen
il sonno
fuggir al mio cantar gli occhi
non ponno.
Su dunque a che più
tardo?
Tempo è ben d’approdar
su l’altra sponda,
s’alcun non è ch’il nieghi,
Vaglia l’ardir se foran
vani i preghi.
È vago fior del Tempo
l’occasïon, ch’esser dee
colta a tempo.
Mentre versan
quest’occhi amari fiumi
rendetemi il mio ben
Tartarei Numi.

Sinfonia

29. Euridice: la Tragedia rinnega se stessa


Io, che d’alti sospir vaga e di pianti,
spars’or di doglia hor di minaccie il volto,2
fei negl’ampi teatri al popol folto
scolorir di pietà volti e sembianti.
Non sangue sparso d’innocenti vene,
non ciglia spente di tiranno insano,
spettacolo infelice al guardo humano,
canto su meste e lacrimose scene.
Lungi via, lungi pur da’ regij tetti,
simulacri funesti, ombre d’affanni:
ecco i mesti coturni e i foschi panni
cangio e desto ne i cor più dolci affetti.

30. Rinuccini sulla trasformazione del finale mitico in Euridice


Potrà parere ad alcuno, che troppo ardire sia stato il mio in alterare il fine della favola d’Orfeo, ma così mi è
parso convenevole in tempo di tanta allegrezza, avendo per mia giustificazione esempio di poeti greci, in
altre favole.

31. Striggio (per Monteverdi): le ultime parole di Apollo ed Orfeo


APOLLO
[…] Ancor non sai
Come nulla qua giù diletta e dura?
Dunque se goder brami immortal vita,
Vientene meco al Ciel, ch’a sé t’invita.
[…]
APOLLO E ORFEO
Saliam cantando al cielo
Dove ha virtù verace
Degno premio di sé, diletto e pace.

32. Lorenzo Bianconi sulla supremazia dei miti metamorfici


flagrante è la contraddizione tra la predominanza di questi miti naturali e metamorfici, di provenienza
ovidiana, e la dichiarata pretesa di ripristinare in musica il teatro tragico dell’antichità. Mancano del tutto i
miti eroici del teatro greco di Eschilo, Sofocle ed Euripide, del teatro latino di Seneca, mancano Edipo Elettra
Oreste Alcesti Antigone Ifigenia Medea Ercole… La contraddizione è palese nel prologo stesso dell’Euridice
rinucciniana, cantato paradossalmente proprio dalla Tragedia in persona, che dichiara però di abdicare alla
«meste e lagrimose scene» e si propone di destare «nei cor più dolci affetti» (infatti l’Euridice, in deroga ai
modelli classici, instaura la consuetudine del lieto fine, una convenzione che in tutto il Seicento italiano
tollererà scarsissime eccezioni). Il titolo di gran lunga più comune per queste prime opere è quello di

2
Con il volto sparso ora di dolore ora di minaccia.
«favola», «favola pastorale», «favola boschereccia» [“boschereccio” era l’ambiente del Dramma Pastorale
cinquecentesco]: ma “favola” e “mito” sono all’epoca perfetti sinonimi. È come se […] nel momento stesso
della creazione di un linguaggio musicale capace di rappresentare e muovere gli affetti, la fondazione del
nuovo genere musicale e teatrale venisse collocata non sotto la tutela della catarsi tragica dei miti eroici e
sacrificali (di fronte allo sgomento dei quali s’atterrisce la lingua nonché il canto), bensì nel territorio
incantato e propiziatorio di una mitologia metamorfica e originaria. La frequenza stessa del mito di Orfeo –
che con la potenza del canto ammansisce le belve e vince la morte –, l’importanza originaria del mito
apollineo di Dafne – legato alla nascita dell’alloro, attributo vegetale della gloria politica ma anche della
gloria artistica – è indicativa in tal senso.

33. Arianna - trama


La trama inizia con l’arrivo a Nasso di Arianna e Teseo, che hanno appena sconfitto il minotauro, a Creta,
grazie al coraggio ed alla forza di Teseo ma anche grazie all’astuzia di Arianna, che aveva dato a Teseo un
gomitolo di lana (il famoso “filo di Arianna”) in modo da poter uscire facilmente dal labirinto entro il quale
viveva il mostruoso minotauro, figlio di un toro e della regina Pasifae.
Un consigliere suggerisce a Teseo di partire per Atene (Teseo è figlio di Egeo, re di Atene) e lasciare lì
Arianna finché dorme – il perché di questo gesto non è chiaro, nemmeno nel mito originario: forse Teseo non
vuole portare con sé ad Atene una compagna straniera (Arianna è principessa cretese, figlia di Minosse e
Pasifae), forse si è invaghito di un’altra.
Al suo risveglio, Arianna viene a sapere della partenza dell’amato e si dispera (qui il celebre lamento). Viene
annunciato l’arrivo di alcune navi: per corteggiare Arianna sta arrivando Bacco. Cupido fa scoccare l’amore
tra Bacco e Arianna; tra canti e danze, Venere esce dal mare per celebrare le nozze e Giove invita gli sposi a
prender posto tra le stelle.

34. Paolo Fabbri sul Lamento d’Arianna


Rifiutando un testo che gli veniva proposto, [in una lettera del 9 dicembre 1616] Monteverdi asserisce: «La
favola tutta poi quanto alla mia non poca ignoranza non sento che ponto mi mova, et con difficoltà anco la
intendo né sento che lei mi porta con ordine naturale ad un fine che mi mova; l’Arianna mi porta ad un
giusto lamento; et l’Orfeo ad una giusta preghiera, ma questa non so a qual fine; siché che vole V.S. Ill.m che
la musica possa in questa?». E non molto più sopra aveva scritto: «ho visto li interlocutori essere Venti,
Amoretti, Zeffiretti et Sirene, et per conseguenza molti soprani faranno de bisogno; et s’aggiunge di più che
li venti hanno a cantare, cioè li Zeffiri et li Boreali; come caro sig. potrò io imittare il parlar de’ venti, se non
parlano? Et come potrò io con il mezzo loro movere li affetti? Mosse l’Arianna per esser donna, et mosse
parimente Orfeo per essere omo, et non vento». Tale capacità di commuovere ottenuta per mezzo del canto a
solo in scena era considerata raggiungimento degno della mitica musica antica, come ribadisce Marco da
Gagliano nella prefazione della sua Dafne:
tra molte ammirabili feste che da S. Altezza furono ordinate nelle superbe nozze del serenissimo principe suo figliuolo e della serenissima infanta
di Savoia, volle che si rappresentasse una favola in musica, e questa fu l’Arianna, composta per tale occasione dal sig. Ottavio Rinuccini, che il
signore duca a questo fine fece venire in Mantova: il signor Claudio Monteverdi, musico celebratissimo, capo della musica di SA., compose l’arie
in modo si esquisito, che si può con verità affermare che si rinnovasse il pregio dell’antica musica, perciò che visibilmente mosse tutto il teatro a
lagrime.

L’eccitazione dolorosa di quella monodia è anzitutto nelle alterazioni cromatiche, nelle dissonanze tra voce e
basso continuo (per esempio subito all’inizio) e negli intervalli abnormi, carichi di virtù patetiche: l’arco di
quinta diminuita percorsa dal primo «Lasciatemi morire» («Il Monteverde nel principio del lamento
d’Arianna: lasciatemi morire si servi della quinta diminuita in una forma che move a pietà» la sesta
maggiore a metà di quello successivo, la settima minore di «se tu sapessi, oimé» o di «la misera Arianna»).
Le esigenze di comunicazione teatrale generano uno stile spesso declamatorio (a note ribattute con poche
varianti: diversi livelli d’intonazione, note di volta, limitate escursioni intervallari) ed in generale oratorio,
attento a riprodurre gli andamenti retorici di cui abbonda il testo rinucciniano. Le riprese lessicali e le
frequenti anafore sono rese o insistendo sulla medesima nota di declamazione,

oppure con l’intensificazione fornita da profili progressivamente ascendenti e divaricati:


Oltre a ciò, nello scorrere dello stile recitativo il ritorno di microelementi letterari e musicali consente di
stabilire nuclei e punti di riferimento attorno ai quali collocare il materiale restante, in una forma aperta sì,
ma non priva di struttura. Cominciano subito i sei versi iniziali, circolarmente avviati e conclusi dal
medesimo dolente refrain («Lasciatemi morire»): un procedimento destinato a divenire l’archetipo di un
modello formale estesissimo nel teatro per musica del Seicento.
Nel secondo intervento di Arianna a calamitare quanto sta attorno è dapprima il complesso costituito da «O
Teseo, o Teseo mio» più l’esclamazione — segnata dall’«accento» — «oh Dio!»,

Ed in seguito l’antitesi della parte conclusiva:

Nella terza sezione i primi due distici a rima alternata hanno basso identico ed analoghi andamenti vocali,
mentre la quinta ripresenta spesso l’intervallo di terza ascendente per l’interiezione («O madre, o padre…»)
e l’apostrofe («Mirate…»). Ciò che segue nel manoscritto (le edizioni a stampa si fermano qui) è perlopiù
sbrigativo e declamatorio. La quarta sezione invece si regge su di un forte contrasto tra la parte finale, di
doloroso sfinimento, utilizzante materiali di reminiscenza («O Teseo, Teseo mio») e quella iniziale, lanciata
in una concitatissima declamazione:

Come in certa produzione madrigalesca dell’ultimo Cinquecento e primo Seicento, cosi anche nel nascente
teatro musicale il ‘lamento’ tendeva a divenire luogo espressivo privilegiato e topico […]: quello d’Arianna,
per l’elevatissima forza espressiva e comunicante, diverrà ben presto mitico.
[Citazione dal saggio di Severo Bonini fra poco citato] Conseguì parimente grande applauso l’Arianna del medesimo Rinuccini, la quale fu vestita
di convenevole melodia dal sig. Claudio Monteverde, oggi maestro di cappella della Repubblica di Venezia, il quale ne ha dato in luce la parte più
principale, che è il lamento dell’istessa Arianna, che è forse la più bella composizione che sia stata fatta a’ tempi nostri in questo genere [recitativo]

Il fiorentino Severo Bonini, nella sua Prima parte de’ discorsi e regole sovra la musica, documenterà il successo e
l’ampia diffusione di quel ‘lamento’:
Tra’ forestieri prima fu il sig. Claudio Monteverdi, il quale arricchì questo stile di peregrini vezzi e nuovi pensieri nella favola intitolata Arianna,
opera del sig. Ottavio Rinuccini, gentiluomo di Firenze; fu tanto gradita che non è stata casa la quale, avendo cembali o tiorbe in casa, non avesse
il lamento di quella.

Elaborato e modificato a cominciare dal suo stesso autore (la versione a più voci [contenuta nel Sesto libro
dei madrigali, 1614] ed il travestimento sacro [il lamento di Maria incluso entro la Selva morale e spirituale,
1641]), quel lamento sarà oggetto d’imitazione/emulazione tanto in sede polifonica […] che monodica.

35. Monteverdi-Rinuccini, Arianna: Lamento d’Arianna (Arianna, 1608)

Testo poetico Futuri topoi letterari specifici Osservazioni di Paolo Fabbri

Lasciatemi morire!
E che volete voi che mi conforte
in così dura sorte,
in così gran martire?
Lasciatemi morire!
O Teseo, o Teseo mio,
sì che mio ti vo’dir, che mio pur sei
benché t’involi, ahi crudo, a gli
occhi miei.
Volgiti, Teseo mio, implorazione Fabbri: «intensificazione fornita
da profili progressivamente
ascendenti e divaricati»
Volgiti, Teseo, o Dio.
Volgiti indietro a rimirar colei sarcasmo, ingratitudine
che lasciato ha per te la patria e il
regno,
e in questa arena ancora,
cibo di fere dispietate e crude autocommiserazione
lascierà l’ossa ignude.
O Teseo, o Teseo mio, ancora implorazione
se tu sapessi o Dio,
se tu sapessi, ohimè, come ancora autocommiserazione
s’affanna
la povera Arïanna,
forse, forse pentito
rivolgeresti ancor la prora al lito.
Ma, con l’aure serene …negata
tu te ne vai felice et io qui piango; destini contrari Fabbri: antitesi e somiglianza con
«et io rimango»
a te prepara Atene
liete pompe superbe et io rimango Fabbri: antitesi e somiglianza con
«et io qui piango»
cibo di fera in solitarie arene,
te l’uno e l’altro tuo vecchio Fabbri: an-
parente
stringerà lieto, et io -ti-
più non vedrovvi, o madre, o -tesi
padre mio.
Dove, dove è la fede Sarcasmo,
che tanto mi giuravi?
Così ne l’alta sede Così mi metti nell’alta sede dei
tuoi antenati?
tu mi ripon degli avi?
Son queste le corone Fabbri: «riprese lessicali o
anafore»
onde m’adorni il crine?
Questi gli scettri sono,
queste le gemme e gli ori:
lasciarmi in abbandono
a fera che mi strazi e mi divori?
Ah Teseo, ah Teseo mio, implorazione incredula
lascierai tu morire,
in van piangendo, in van gridando
aita
la misera Arianna
che a te fidossi e ti dié gloria e vita?
Ahi, che non pur risponde! Ripiegamento sconsolato
Ahi, che più d’aspe è sordo ai miei Aspe: serpe
lamenti!
O nembi, o turbi, o venti, Desiderio di vendetta Fabbri: parte iniziale dell’ultima
sezione, «lanciata in una
concitatissima declamazione»
sommergetelo voi dentr’a
quell’onde!
Correte, orche e balene,
e de le membra immonde
empiete le voragini profonde!
Che parlo, ahi! che vaneggio? pentimento
Misera, ohimè, che chieggio?
O Teseo, O Teseo mio, implorazione Fabbri: «parte finale, di doloroso
sfinimento, utilizzante materiali
di reminiscenza («O Teseo, Teseo
mio»)»
non son, non son quell’io che i feri
detti sciolse:
parlò l’affanno mio, parlò il dolore,
parlò la lingua sì, ma non già il
core.
Misera! Ancor do loco Incredulità su se stessa
A la tradita speme?
E non si spegne,
Fra tanto scherno ancor, d’amor il Scherno: presa in giro (sarcastico)
foco?
Spegni tu morte, ormai, le fiamme Rabbia, desiderio di morte
indegne! (propria)
O Madre, O Padre, O dell’antico
Regno
Superbi alberghi, ov’ebbi d’or la
cuna,
O servi, O fidi amici (ahi fato
indegno!)
Mirate ove m’ha scort’empia Autocommiserazione. «scorto»:
fortuna, scortato, portato
Mirate di che duol m’ha fatto erede
L’amor mio,
La mia fede,
E l’altrui inganno,
Così va chi tropp’ama e troppo Morale dolorosa
crede.

36. Reazione d’epoca al Lamento di Arianna


Nel lamento che fece Arianna sovra lo scoglio abbandonata da Teseo […] non si trovò ascoltante alcuno che
non s’intenerisse, né più fu una dama che non versasse qualche lagrimetta al suo bel pianto.

37. Monteverdi, Lamento della ninfa (Madrigali libro VIII - 1638)


Non havea Febo ancora
recato al mondo il dì,
ch’una donzella fuora
del proprio albergo uscì.
Sul pallidetto volto
scorgeasi il suo dolor,
spesso gli venia sciolto
un gran sospir dal cor.
Sì calpestando fiori
errava hor qua, hor là,
i suoi perduti amori
così piangendo va.
«Amor», dicea, il ciel
mirando, il piè fermò,
«dove, dov’è la fe’
che’l traditor giurò?»
«Fa che ritorni il mio
amor com’ei pur fu,
o tu m’ancidi, ch’io
non mi tormenti più».
Miserella, ah più no, no,
tanto gel soffrir non può.
«Non vo’ più ch’ei sospiri
se non lontan da me,
no, no che i suoi martiri
più non dirammi affè.
Perché di lui mi struggo,
tutt’orgoglioso sta,
che sì, che sì se’l fuggo
ancor mi pregherà?
Se ciglio ha più sereno
colei, che’l mio non è,
già non rinchiude in seno
amor si bella fe’.
Né mai sì dolci baci
da quella bocca havrai,
né più soavi, ah taci,
taci, che troppo il sai».
Sì tra sdegnosi pianti
spargea le voci al ciel;
così ne’ cori amanti
Mesce amor fiamma, e gel.

38. Henry Purcell (libr.: Nahum Tate) Dido and Æneas (1689)
DIDO DIDONE

Thy hand, Belinda, darkness shades me, Dammi la mano, Belinda, l’oscurità mi copre,
on thy bosom let me rest, lascia che riposi sul tuo seno,
more I would, but Death invades me; avrei voluto di più, ma la morte m’invade;
death is now a welcome guest. ora la morte è un ospite gradito.
When I am laid in earth, Quando giacerò nella terra
may my wrongs create Possano i miei errori non creare
no trouble in thy breast; alcuna agitazione nel tuo petto;
remember me, but ah! Forget my fate. Ricordami, ma ah!, dimentica il mio destino.
CHORUS CORO
With drooping wings ye Cupids come, Con ali ripiegate o Cupidi venite,
and scatter roses on her tomb, e spargete rose sulla sua tomba,
soft and gentle as her heart, soffici e gentili come il suo cuore,
keep her your watch and never part. Vigilate su di lei e non allontanatevi mai più.

39. Giovambattista Doni: i soggetti pastorali (1640-47)


[i soggetti pastorali] rappresentano deità, ninfe e pastori di quell’antichissimo secolo nel quale la musica era
naturale e la favella quasi poetica.

40. Pierfrancesco Rinuccini (?), Il Corago, 1630? Scelta di personaggi e soggetti


più si conforma con il concetto che si ha dei personaggi sopraumani il parlare in musica, che con il concetto e
manifesta notizia delli uomini dozzinali, perché essendo il ragionare armonico più alto, più maestrevole, più
dolce e nobile dell’ordinario parlare, si attribuisce per un certo connaturale sentimento ai personaggi che
hanno più del sublime e divino. Si aggiunge che, scostandosi i personaggi simili anche nei costumi e nelle
imprese dal comun modo di vivere e di operare, meno maraviglia è che anche nel parlare si discostino e
tenghino più alto del comune portamento delle voci. Dal che si cava ancora che le persone ideali [personaggi
allegorici] come le virtù e vizii sono anche meno stropacionate [inadatte?] dalle persone vulgari ad esser
prese per interloquenti del poeta in questo genere di composizione. Similmente nelle azioni sacre i
personaggi più a proposito per questa poesia pare che siano quelli che per antichità di tempo e diversità di
costumi sono più lontani dalla cose presenti, quali sono i patriarchi antichi, massime quelli che hanno
concetto di essere stati musici, come Davide e simili. Imperoché se noi prendiamo per interlocutori le
persone vicine ai nostri tempi e di costumi più manifestamente simili ai nostri, troppo apertamente ci si
appresenta subito improbabile et inverisimile quel modo di parlar cantando, massime se quelle persone
fussero state conosciute da qualche spettatore, onde in simil caso è occorso che qualche auditore non poteva
tener le risa ancorché l’azione peraltro fusse molto seria, vedendo cantigolar ragionando quelli che lui
sapeva esser stati et ignoranti afatto di musica et uomini di parlar commune.
Tra i personaggi atti a prendersi nei drammi sacri musicali sono per le ragioni sopradette gli attributi divini
come la sapienza e l'amor divino e tutte le persone che noi stimiamo esser in paradiso, perché avevano
concetto che quivi si canti o si parli in un modo più sublime e nobile del nostro comune; almeno pare che
quel modo di ragionare modulatamente più si convenga sopra la luna che sotto: per questo li angeli possono
parere molto a proposito ad essere introdotti, come anche i pianeti e li altri corpi inanimati, ma pochi in
forma e vestito ideale sono a proposito tanto nelle sacre quanto nelle profane composizioni.
Tutto questo che si è detto fin ora si deve intendere per le azioni gravi, perché nelle ridicole sono a proposito
le persone più sciocche e che abbino notabile modo di ragionare con inflessioni plebee e che sono da noi
conosciute, perché l’imitazione dei loro modi quanto più si accosta cantando al parlare di quelli, tanto più
riesce giocondo et ammirabile.
Non si nega però che anche nelle azioni gravi non si sia per poter prendere qualche personaggio vicino ai
nostri tempi, se massime si frequentassero le rappresentazioni armoniche, perché con il tempo il popolo
s’avvezzarebbe a gustar ogni cosa rappresentata in musica, onde questo si deve com’ogn’altro nostro aviso
lasciare a discrezion del poeta prudente, ma regolarmente parlando pare che l’aviso dato intorno alli
interlocutori armonici sia a proposito e sicuro di star lontano dalli errori in questa parte più che si può.

41. Abito femminile secentesco

42. Aristotele, la Poetica (ca. 330 a.C.) ed il Classicismo


1. Il verosimile
Compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza o necessità.
Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno
sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono
avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli
universali, la storia i particolari.

2. Narrativa vs. teatro (drammatico: utile per la differenziazione dei generi)


È possibile infatti imitare gli stessi oggetti con gli stessi mezzi, sia narrando, diventando qualcun altro come fa Omero o rimanendo se
stesso e non trasformandosi, sia che quelli che imitano siano tutti quanti come agenti operatori. […] L’epica dunque si conforma alla
tragedia fino ad essere imitazione con parole in versi di caratteri seri; in ciò invece differisce: nell’usare un verso solo e nell’essere una
narrazione. E ancora per la durata.

3. Centralità della parola


[Nella tragedia] la musica è l’ornamento maggiore, la vista è sì di grande seduzione, ma la più estranea all’arte e la meno propria della
poetica; l’efficacia della tragedia sussiste infatti anche senza rappresentazione e senza attori; inoltre per la realizzazione degli elementi
visivi è più importante l’arte dell’arredatore scenico che dei poeti.

4. La questione della musica. Il significato educativo della tragedia: la Catarsi.


Derivava la sua origine dall’improvvisazione, non solo la tragedia, ma anche la commedia: quella dai corifei che intonavano il
ditirambo, e questa da chi guidava le processioni falliche che ancor oggi in varie città sono rimaste nell’uso; e poi a poco a poco si
accrebbe, perché i poeti coltivavano ciò che in essa appariva spontaneo; così, dopo essere passata attraverso vari mutamenti, la
tragedia si arrestò perché aveva raggiunto la sua propria natura. Fu Eschilo per primo a portare il numero degli attori da uno a due, a
ridurre le parti corali, e a fare primeggiare il dialogo; a Sofocle si debbono i tre attori e la scena. Poi c’è la grandiosità: partendo da
brevi racconti e linguaggio ridicolo, richiese tempo per acquistare nobiltà, dovendo abbandonare la sua impronta satiresca. Il metro
divenne il trimetro giambico al posto del tetrametro: da principio usavano il tetrametro perché la composizione era satiresca e molto
ballata, ma quando il linguaggio prevalse, fu la natura stessa a trovare il metro adatto, perché il trimetro è fra tutti il più discorsivo…
poi c’è il numero degli episodi, e il resto. Ma ciò che si conosce sul perfezionamento di ciascuno di questi particolari, diamolo per
detto; perché sarebbe una vera impresa passarli in rassegna singolarmente.
[…]
Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per
ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a
compimento la depurazione di siffatte emozioni [catarsi]. Intendo per «parola ornata» quella fornita di ritmo e di musica;
«distintamente per gli elementi» il comporre alcuni solo con versi, altri invece col canto.

5. L’unità di tempo
L’una cerca quanto più può di essere compresa in una sola giornata o di eccederne poco, l’epica è invece indefinita per il tempo, e in
questo si distingue; dapprincipio tuttavia sotto questo aspetto nelle tragedie si faceva lo stesso che nei canti epici.

6. L’unità di luogo
L’epica ha un tratto peculiare notevole per il fatto che alla tragedia non è concesso di riprodurre contemporaneamente più parti, ma
soltanto la parte agita sulla scena dagli attori, nell’epica invece, per il fatto di essere una narrazione, è possibile rappresentare più parti
che si compiono contemporaneamente, dalle quali, se appropriate, il corpo del poema risulta accresciuto. Pertanto possiede questo
vantaggio in vista della grandiosità: di far passare l’ascoltatore attraverso diversi sentimenti e di arricchirsi di episodi variati. La
monotonia porta in effetti rapidamente a sazietà e fa cadere le tragedie. (ARISTOTELE)

7. L’unità d’azione
Il poeta non deve […] fare una tragedia come se fosse una composizione epica. Chiamo composizione epica quella che contiene più
azioni, come nel caso in cui un drammaturgo prendesse a oggetto tutto l’argomento dell’Iliade.
Come dunque nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che la trama,
poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera, e che le parti dei fatti siano così connesse che, trasposta o
sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato, perché quel che, aggiunto o non aggiunto, non produce nulla di evidente,
non è parte dell’intero.

43. Francesco Buti, Luigi Rossi, Orfeo (1647) (B&C)


Tragicommedia per musica in un prologo e tre atti
Prima: Parigi, Palais Royal, 3 marzo 1647. Prologo: la Vittoria (S), soldati
Personaggi: Orfeo (S), Euridice (S), la nutrice (S), Aristeo (S), un satiro (B), Amore (S), Venere (S), una vecchia
(T), Endimione (B), Giunone (S), la Gelosia (A), un augure (B), Apollo (A), Caronte (B), Proserpina (S),
Plutone (B), Momo (T), Bacco (S), Himeneo (S), Giove (T), Mercurio (A), le tre Grazie (S), le tre Parche (SSA)
Quando il cardinale Mazarino chiamò a Parigi Luigi Rossi per comporre un’opera italiana, da rappresentare
nella stagione di carnevale 1647, il compositore, operante a Roma da più di venticinque anni, godeva ormai
di una certa notorietà presso le principali famiglie aristocratiche, sia per le sue cantate, sia per l’enorme
successo ottenuto alcuni anni prima presso i Barberini con l’allestimento de Il palazzo incantato d’Atlante
(1642). Pare che proprio per l’interessamento del cardinale Antonio Barberini, amico di Mazarino e in quegli
anni di stanza a Parigi per motivi politici, il libretto di Orfeo sia stato affidato a Rossi che, appena giunto
nella capitale francese, si accinse a reclutare i migliori artisti virtuosi provenienti da Roma (Panfilo
Miccinello, Marc’Antonio Pasqualini) e da Firenze. Gli apparati coreografici e scenografici vennero affidati
rispettivamente a Giovan Battista Balbi e al geniale inventore di macchine teatrali Giacomo Torelli, entrambi
già ingaggiati con successo per il sontuoso allestimento de La finta pazza di Giulio Strozzi con musica di
Francesco Paolo Sacrati (1645). Proprio la grandiosità degli apparati «vari et magnifici», la rapidità dei
cambiamenti di scena e il virtuosismo dei cantanti colpirono maggiormente il pubblico presente alla prima
rappresentazione, avvenuta alla presenza di Anna d’Austria e del giovanissimo futuro re Luigi XIV, e
decretarono il trionfo dell’opera testimoniato dalle cronache dell’epoca e da alcuni sonetti laudativi; non
mancò tuttavia chi giudicò alquanto noioso lo svolgersi dell’azione.
Il libretto di Orfeo denuncia una certa disorganicità nel corso dei suoi vari episodi, in cui l’elemento comico
e farsesco convive con l’aspetto tragico della vicenda; i canoni poetici dell’antico mito vengono
completamente stravolti per la presenza di numerosi personaggi secondari, soprannaturali o caricaturali,
che nuocciono alla tensione drammatica; scarso rilievo assume quindi lo sviluppo psicologico dei
personaggi mentre, al contrario, viene esaltata la poetica della meraviglia che si manifesta nel succedersi
di incidenti inaspettati, talvolta inutili e, comunque, non sempre coerenti con il regolare svolgimento
dell’azione.
Il mito di Orfeo assume un significato encomiastico del potere sovrano che, annunciato nel prologo, viene
reso esplicito nell’epilogo intonato da Mercurio, che così illustra la metafora: la lira di Orfeo non è che il
giglio di Francia, lo strumento predestinato dalla Provvidenza al re in vista della resurrezione che,
simbolicamente, corrisponde all’apoteosi di Orfeo ed Euridice. In questa versione del mito classico, infatti,
Orfeo perde per sempre Euridice, ma la perdita è solo il preludio necessario all’immortalità della sua lira,
che Giove pone tra le più belle costellazioni del firmamento. Il prologo inizia con le tre sezioni del coro a
quattro parti dei soldati, che rappresenta l’armata francese impegnata nell’assalto di una fortezza nemica.
Dalle rovine delle mura espugnate sorge improvvisamente la Vittoria per lodare la regina e il giovane Luigi
XIV. Inizia quindi la tragicommedia. Centrale è la figura di Aristeo, pastore figlio di Bacco; il suo amore non
corrisposto per Euridice [tema risalente ad una specifica versione antica del mito], la sua gelosia, la sua follia
e, infine, la sua tragica morte. L’azione dei numerosi personaggi mitologici offre spesso lo spunto per
situazioni comiche: Venere, travestita da vecchia, discute animatamente con Amore riguardo alla fedeltà dei
due eroi; Satiro incita Aristeo nel suo insano proposito di conquistare Euridice, anche con la forza; Momo
ironizza sui valori d’amore e di fedeltà che Orfeo ed Euridice rappresentano; persino Proserpina è talmente
gelosa di Euridice da intervenire presso Plutone perché la liberi dal regno dei morti. Accanto alle figure
mitologiche o allegoriche convivono personaggi reali, seri, come Endimione – padre di Euridice – o comici,
come la nutrice che, pur amando Euridice e rispettando i suoi sentimenti, intriga affinché i tentativi di
Aristeo siano coronati da successo. In questo caleidoscopico e variopinto mondo, la figura di Orfeo
diventa quasi secondaria, almeno per i primi due atti. Il secondo atto termina [NB: TERMINA!!!] con la
morte di Euridice, della quale viene accusato indirettamente Aristeo, e con il corteo funebre. Nel terzo atto, il
più unitario dal punto di vista drammaturgico, si assiste alla discesa di Orfeo agli inferi e alla conseguente
liberazione e perdita di Euridice, alla follia di Aristeo e al racconto della sua morte. Anche qui non mancano
gli episodi comici come, ad esempio, la scena quarta, quella della follia di Aristeo, punteggiata dai motteggi
irriverenti di Momo e di Satiro.

44. Domenico Mazzocchi (libr: Ottavio Tronsarelli), La catena d’Adone (1626) – prefazione
vi sono molt’altre mezz’arie [i.e. ariosi] sparse per l’opera, per rompere il tedio del recitativo.

45. Giovambattista Doni, l’opera come genere dilettevole


se noi intendiamo che un’azione si canti tutta in quello stile che secondo alcuni è il vero recitativo, e
da’giudiziosi compositori si usa solo nelle narrazioni e ragionamenti senz’affetto, il quale si trattiene assai
nelle medesime corde e fa poca diversità di aria; o anco, di quello che imita, anzi esprime giustamente quei
medesimi accenti che si fanno nel parlare quotidiano: dico che a continuarlo troppo a di lungo, presto
verrebbe in fastidio. E se dunque queste azioni cantate dilettano, come veramente fanno, ciò nasce perché i
musici accortisi che quella troppa semplicità non riusciva bene, si allontanano assai da quello stile. E sebbene
tutto chiamano recitativo, intendendo ogni melodia che si canti ad una voce sola, è però molto differente
dove si canta formatamente quasi alla guisa de’madrigali, e dove regna quello stile semplice e corrente che si
vede in […] Monteverdi col suo lamento d’Arianna e il racconto della morte di Orfeo nell’Euridice [meglio
“di Euridice nell’Orfeo”]. E se tutte le azioni si componessero in questo stile, non ha dubbio che meno
diletterebbono che le cose suddette, perché sebbene è un canto mezzano tra ’l recitare e il modulare
artifiziosamente, non per questo le cose mezzane sempre piacciono più, ché altrimenti più gusterebbe la
lontra, che è mezza pesce e mezza carne, che la carne di cappone e il pesce storione.
Trattato della musica scenica (ca. 1640-47)

46. Filoni dell’opera romana


– Pastorale. Morte di Orfeo (1619), libr. + mus.: Stefano Landi.
– Fantastico. Erminia sul Giordano (1633), libr.: Giulio Rospigliosi (da: Tasso, Gerusalemme liberata), mus.:
Michelangelo Rossi. Il palazzo incantato d’Atlante (1642), libr.: Giulio Rospigliosi (da: Ariosto, Orlando furioso),
mus.: Luigi Rossi.
– Comico. Diana schernita (1629), libr.: Giacomo Francesco Parisani, mus.: Giacinto Cornacchioli). Chi soffre
speri (1637, 2a vers. 1639) libr.: Giulio Rospigliosi (da Boccaccio), mus.: Virgilio Mazzocchi.
– Spirituale. Sant’Alessio (1632; seconda vers. 1634), libr.: Giulio Rospigliosi, mus.: Stefano Landi.

47. Landi-Rospigliosi, Sant’Alessio (1632, 1634) – Dizionario B&C


PROLOGO. Una sinfonia, che presenta studiati effetti di alternanza piano e forte, introduce il prologo, in cui
Roma, circondata da un coro di schiavi (a sei voci), rende omaggio al principe di Polonia dedicandogli la
rappresentazione.
ATTO PRIMO. L’antefatto è raccontato dal padre di Alessio, il senatore Eufemiano, al cavaliere Adrasto, un
tempo compagno del figlio: Alessio è scomparso la sera delle nozze e di lui non si hanno più notizie. In
realtà Alessio è a Roma e vive in incognito nella casa paterna, come mendicante. Nel suo primo monologo
egli contempla la vanità dei mortali e canta un’arietta in tre strofe, che esprime il desiderio di lasciare il
mondo terreno («Se l’ore volano»). Cantando [una] canzonetta […] entrano in scena due paggi di Eufemiano,
Marzio e Curzio, che si presentano («Poca voglia di far bene») e si prendono gioco del mendicante. Si
spalanca l’inferno: «nella lontananza si rappresentano le pene dei dannati». Il Demonio, dopo un coro di
diavoli («Si disserrino», a tre voci), proclama di voler cercare di “rammollire” la rigorosa tempra ascetica di
Alessio, tentandolo sotto mentito aspetto. Nella scena seguente assistiamo ai lamenti della sposa e della
madre di Alessio, consolate dalla nutrice. Dopo un coro di domestici a sei voci, come intermezzo è inserito
un ballo di Rustici, chiamati da Curzio per far sì che il mendicante da «pazzo afflitto ed egro» qual è,
«diventi un pazzo allegro».
ATTO SECONDO. Dopo il lamento di Eufemiano, nella seconda scena compare nuovamente il Demonio,
che racconta di aver convinto la sposa a partire in cerca di Alessio, con lo scopo di spingere il santo a
rivelarsi. La sposa, vestita da pellegrina, è raggiunta dalla madre, che vuole accompagnarla nel viaggio. Il
finto mendicante tenta di dissuaderle, e lo svenimento della sposa lo lascia agitato e confuso. Nella scena
centrale del dramma, il Demonio si presenta ad Alessio «in forma di eremita» e cerca di indurlo a scoprirsi ai
parenti. Alessio è confortato dall’apparizione di un angelo, il quale lo informa della sua prossima morte, al
che egli esulta («O morte gradita») [Nota GR: «esulta» è parola impropria: quello che caratterizza quest’aria
non è l’esultanza ma la serenità]. Una scena comica vede protagonisti Marzio e il Demonio: il paggio
vorrebbe burlare il finto eremita, che a sua volta si burla di lui trasformandosi in un orso. Dopo la comparsa
della Religione, che loda Alessio ed esorta i mortali a seguire il suo esempio, Eufemiano è consolato dalla
notizia che nel «tempio maggiore» si è udita una voce celeste. Un coro di Romani chiude l’atto.
ATTO TERZO. Il demonio precipita scornato nell’inferno; quindi, le circostanze prodigiose della morte di
Alessio sono raccontate da un nunzio ad Adrasto, accorso alla casa di Eufemiano. I parenti piangono la
morte del santo, viene letta una lettera da lui scritta prima di morire, ma gli angeli esortano tutti a gioire
insieme alla Religione, che proclama l’elogio finale di Alessio dedicandogli una chiesa. L’opera termina con
il coro degli angeli e il balletto delle virtù, mentre si assiste all’apoteosi del santo.
(Dizionario dell’opera, Baldini & Castoldi)

48. Drammaturgia testuale nel Sant’Alessio (ed. 1634)


Nell’introduzione alla partitura, si legge che l’«elocuzione» del libretto non è mai «affettata, o vile, ma o
grande o mezana o infima, come la richiedeva il soggetto o la persona che favellava». Infatti il testo di
Rospigliosi si allontana dall’aura di serena e rarefatta classicità della maggior parte dei precedenti libretti
mitologico-pastorali, e assume la commistione di stili propria del teatro sacro (ad esempio il teatro
educativo gesuita), o in generale della letteratura cristiana. Ai lamenti patetici, ai racconti, ai cori sentenziosi,
che definiscono il livello alto e sublime, si affiancano le facezie dei paggi e i cori infernali, come livello umile,
grottesco, e le effusioni liriche di Alessio come livello medio. (ibid.)

49. Sant’Alessio, «Arietta a due voci» (Marzio e Curzio)


Marzio e Curzio, paggi d’Eufemiano, col vedere S. Alessio, stimato da loro un forestiero mendico e per carità alloggiato in quel palazzo, non lasciano di schernirlo ascoltati
da S. Alessio con umiltà e sofferenza.
Poca voglia di far bene,
viver lieto, andar a spasso,
fresco e grasso mi mantiene.
La fatica m’è nemica.
E mentr’io vivo così,
è per me fest’ogni dì.
Vada il mondo come vuole.
Lascio andar, né mi molesto.
Tutt’il resto son parole.
Pazzo è bene da catene
chi fastidio mai si dà
per saper quel che sarà.

50. Landi, Sant’Alessio, Lamento di Sposa e Madre (I,5)


SPOSA
Amara, infida notte,
s’all’afflitte mie luci,
tenendo sempre il mio bel sole ascoso,
le tenebre radduci,
Perché teco non porti anco il riposo?
MADRE
Se tu sentissi, Alessio, i miei tormenti,
so che pietà n’avresti.
Perciò, dovunque or sei,
in ciel, fra l’onde, o in terra,
potrai de’dolor miei
il numero mirar ch’ivi si serra,
ché tanti son, quante tu puoi mirare
stelle in ciel fronde in terra, arene in mare.
SPOSA
Perché privarmi, o dio, degl’occhi tuoi?
MADRE
Come crudel abbandonar mi puoi? accusa
SPOSA
Quanto, oh quanto fugace
avesti, Alessio, il piè?
MADRE
Quanto, oh quanto fallace, fallace: ingannevole
fortuna, è la tua fé.
SPOSA
Teco sperai gioir, son senza te. autocommiserazione
MADRE
Sperai d’esser felice, e piango ohimè. Destini contrari (auspicato vs. effettivo)
SPOSA
Interrotti desiri
sconsolate dolcezze.
MADRE
Eterni miei martiri,
mie funeste amarezze.
MADRE, SPOSA
Oh, de’mortali antiveder fallace, la speranza dei mortali è fallace ossia ingannevole, dolorosa
tant’il ben fugge più, quanto più piace.

51. Landi, Sant’Alessio, incontro con l’angelo (aria “O morte gradita”) (II,7)

il Santo invita la morte e va meditando la tranquillità, che in essa ritrovano i giusti.

SANT’ALESSIO
O morte gradita,
ti bramo, ti aspetto,
dal duolo al diletto
tuo calle n’invita.
O morte gradita,
dal carcere umano
tu sola fai piano
il varco alla vita.

O morte soave,
de’ giusti conforto,
tu guidi nel porto
d’ogni alma la nave.
o morte soave,
il viver secondo [fecondo]
tu n’apri nel mondo,
con gelida chiave.

52. Landi, Sant’Alessio: la Religione (II,9)


Quei, che sospirano
senza conforto
alfin pur mirano
là fra le stelle
ai flutti loro il porto.
Il mio cenno fedele
ogni dubbio dilegua:
chi può seguir il sol,
l'ombra non segua.

Del gioir labile


non prezzi il lampo
chi brama stabile
aver nel cielo
alla sua pace il campo.
Da mille pene in terra
un cor mai non ha tregua.
Chi può seguir il sol,
l'ombra non segua.

53. Monteverdi, Il combattimento di Tancredi e Clorinda


(Testo: Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XLI 52-62, 64-68. Prima esecuzione: carnevale 1624 – edizione:
Madrigali libro VIII, 1638)
Istruzioni - edizione a stampa
Combattimento in Musica di Tancredi et Clorinda, descritto dal Tasso; il quale volendosi esser fatto in
genere rappresentativo, si farà entrare alla sprovista (dopo cantatosi alcuni Madrigali senza gesto) dalla
parte de la Camera in cui si farà la Musica, Clorinda a piedi armata, seguita da Tancredi armato sopra ad un
Cavallo mariano, et il Testo all’hora comincierà il Canto. Faranno gli passi et gesti nel modo che roratione
esprime, et nulla di più né meno, osservando questi diligentemente gli tempi, colpi et passi, et gli
ustrimentisti gli suoni incitati e molli: et il Testo le parole a tempo pronuntiate, in maniera, che le creationi
venghino ad incontrarsi in una imitatione unita; Clorinda parlerà quando gli toccherà, tacendo il Testo;
così Tancredi. Gli ustrimenti, cioè quattro viole da brazzo, Soprano, Alto, Tenore et Basso, et contrabasso da
Gamba, che continuerà con il Clavicembano, doveranno essere tocchi ad immitatione delle passioni
dell’oratione, la voce del Testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia alquanto discosta da gli
ustrimenti, atiò meglio sii intesa nel oratione.
Non doverà far gorghe né trilli in altro loco, che solamente nel canto de la stanza, che incomincia Notte, il
rimanente porterà le pronuntie a similitudine delle passioni del’oratione.
In tal maniera già dodeci [quattordici?] anni’l fu rapresentato nel Pallazzo del’illustrissimo et Eccelentissimo
Signor Girolamo Mozzenigo mio particolar Signore. Con ogni compitezza per essere Cavaliere di bonissimo
et delicato gusto; in tempo però di Carnevale per passatempo di veglia; alla presanza di tutta la Nobilità, la
quale restò mossa dal’affetto di compassione in maniera, che quasi fu par gettar lacrime: et ne diede
applauso per essere statto canto di genere non più visto nè udito.

54. Claudio Monteverde a chi lege (Libro VIII dei Madrigali – Prefazione)
Avendo io considerato le nostre passioni od affettioni del animo essere tre le principali, cioè ira,
temperanza et umiltà o supplicatione, come bene gli migliori filosofi affermano, anzi la natura stessa de la
voce nostra in ritrovarsi alta, bassa et mezzana, et come l’arte musica lo notifica chiaramente in questi tre
termini di concitato, molle et temperato, né avendo in tutte le compositioni de’passati compositori potuto
ritrovare esempio del concitato genere, ma ben sì del molle et temperato; […] et sapendo che gli contrarii
sono quelli che movono grandemente l’animo nostro, fine del movere che deve avere la bona musica, […]
perciò mi posi con non poco mio studio et fatica per ritrovarlo, et considerato nel tempo piricchio [secondo
la teoria metrica non è un vero e proprio piede, è la sequenza di due sillabe brevi: BB] che è tempo veloce,
nel quale tutti gli migliori filosofi affermano in questo essere stato usato le saltazioni belliche, concitate, et
nel tempo spondeo tempo tardo le contrarie, cominciai dunque la semibreve a cogitare, la qual percossa
una volta dal sono, proposi che fosse un tocco di tempo spondeo [sillaba lunga; lo spondeo è LL], la qual
poscia ridotta in sedeci semicrome, et ripercosse ad una per una, con agiontione di oratione contenente ira
et sdegno, udii in questo poco esempio la similitudine del affetto che ricercavo, benché l’oratione non
seguitasse co’ piedi la velocità del istromento [insomma, il riferimento alle brevi ed alle lunghe ha un valore
esclusivamente metaforico: serve solo a dare un’idea dell’operazione messa in atto da Monteverdi:
considerare una nota molto lunga e suddividerla in numerose frazioni brevi]. Et, per venire a maggior
prova, diedi di piglio al divin Tasso, come poeta che esprime con ogni proprietà et naturalezza con la sua
oratione quelle passioni che tende a voler descrivere, et ritrovai la descrittione che fa del Combattimento di
Tancredi con Clorinda, per aver io le due passioni contrarie da mettere in canto, guerra cioè preghiera et
morte. Et l’anno 1624 fattolo poscia udire a migliori de la noo. cità di Venetia in una nob. stanza del illust. et
ecc. sig. Gerolamo Mozzenigo cavaglier principale, et ne’comandi de la Sereniss. Rep. di primi, et mio
particolar padrone et partial protettore, fu con molto applauso ascoltato et lodato; il qual principio avendolo
veduto a riuscire alla immitatione del ira, seguitai ad investigarlo maggiormente con maggiori studii, et ne
feci diverse compositioni altre così ecclesiastiche, come da camera, et fu così grato tal genere anco agli
compositori di musica, che non solamente l’hanno lodato in voce, ma anco in penna a la immitatione mia
l’hanno in opera mostrato a molto mio gusto et onore. Mi è parso bene perciò il far sapere che da me è nata
la investigatione et la prova prima di tal genere, tanto necessario al arte musica, senza il quale è statta si
può dire con ragione sino ad ora imperfetta, non avendo hauto che gli duoi generi, molle et temperato.
Et perché a primo principio (in particolare a quali toccava sonare il basso continuo) il dover tampellare
sopra ad una corda sedeci volte in una battuta gli pareva più tosto far cosa da riso che da lode, perciò
riducevano ad una percossa sola durante una batuta tal multiplicità, et in guisa di far udire il piricchio piede
facevano udire il spondeo, et levavano la similitudine al oratione concitata. Perciò aviso dover essere sonato
il basso continuo con gli suoi compagnamenti nel modo et forma in tal genere che sta scritto, nel quale si
trova parimente ogni altro ordine che si ha da tenere nelle altre compositioni d’altro genere, perché le
maniere di sonare devono essere di tre sorti, oratoria, armonica, et retmica. La ritrovata da me del qual
genere da guerra, mi ha datto occasione di scrivere alcuni madrig. da me intitolati guerrieri, et perché la
musica de’ gran prencipi viene adoperata nelle loro regie camere in tre modi per loro delicati gusti da teatro,
da camera et da ballo perciò nella presente mia opera ho accennato gli detti tre generi con la intitulatione
guerriera, amorosa et rapresentativa. So che sarà imperfetta, perché poco vaglio in tutto, in particolare nel
genere guerriero per esser novo et perché “omne principium est debile” [“Ogni inizio è debole”]. Prego
perciò il benigno lettore a gradire la mia bona volontà, la quale starà attendendo da la sua dotta penna
maggior perfettione in natura del detto genere, perché “Inventis facile est adere” [lett. “inventis facile est
addere”: “è facile aggiungere qualcosa alle cose inventate” (cioè è facile migliorarle)], et viva felice.

Tancredi, che Clorinda un uomo stima,


vol ne l’armi provarla al paragone.
Va girando colei l’alpestre cima Ambientazione: fuori dalle mura della città di Antiochia
ver altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga in guisa avien che d’armi suone
ch’ella si volge, e grida: “O tu, che porte,
Correndo sì?” Respose: “E guerra e morte”.
“Guerra e morte avrai! – disse – io non rifiuto
darlati se le cerchi e fermo attendi”.
Né vuol Tancredi, ch’ebbe a piè veduto
il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’un l’altro il ferro acuto
e aguzza l’orgoglio e l’ira accende;
e vansi incontro a passi tardi e lenti Petrarca, Sonetto XVI: «Movesi il vecchierel canuto e bianco | a passi tardi e lenti».
quai due tori gelosi e d’ira ardenti.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudeste e ne l’oblio fatto sì grande, fatto: sostantivo: un fatto
degno d’un chiaro sol, degno d’un pieno
teatro, opre sarian sì memorande, incisiva: – opere che (invece) sarebbero così memorabili –
piacciati ch’indi il tragga e ’n bel sereno lo tragga, lo riprenda (il grande fatto)
alle future età lo spieghi e mande.
Viva la fama lor; e tra lor gloria
splenda dal fosco tuo l’alta memoria. Risplenda, dal tuo buio, l’alta memoria delle gesta di questi due combattenti
Non schivar non parar, non pur ritrarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni or scarsi;
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro; e ’l piè da orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre in moto;
né scende taglio invan, né punta a vòto.
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e piaga nova.
D’or in or più si mesce, e più ristretta di momento in momento il combattimento si fa più stretto (i due corpi si “mescolano”)
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’pomi, e infelloniti e crudi infellonito: crudelmente furioso
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia e altrettante
poi da quei nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fier nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’un e l’altro il tinge
con molto sangue; e stanco e anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
Su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
sul primo albor che in orïente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e insuperbisce. O nostra folle
mente ch’ogni aura di fortuna estolle! Che ogni cenno di fortuna innalza, leva in alto, esalta
Misero, di che godi? oh quanto mesti
siano i trionfi, e infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (s’in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimandando, questi altre versioni: «tacendo e rimirando»
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a l’un l’altro scoprisse:
“Nostra sventura è ben che qui s’impieghi È ben nostra sventura che qui sia impiegato
tanto valor, dove silenzio il copra. tanto valor, qui dove il silenzio lo nasconde
Ma poi che sorte ria vien che ci nieghi
e lode e testimon degni de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i prieghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la mia vita onore”.
Rispose la feroce: “Indarno chiedi
quel ch’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei duo che la gran torre accese”. Riferimento ad un antecedente della Gerusalemme liberata: i due che incendiarono una torre d’assedio
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
“In mal punto il dicesti; [indi riprese]
E ’l tuo dir e’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, alla vendetta”.
Torna l’ira nei cori e li trasporta,
benché deboli, in guerra, a fiera pugna
u’l’arte in bando, u’già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spazïosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’armi e ne le carni! E se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
Ma ecco omai l’ora fatal è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mamelle stringea tenere e lieve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo spirto aditta, aditta: detta
spirto di fe’, di carità, di speme:
virtù che Dio l’infonde e se rubella
in vita fu, la vuol in morte ancella.
“Amico, hai vinto: io ti perdon… perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave”.
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende e ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar l’invoglia e sforza.
Poco quindi lontan nel sen d’un monte
scaturia mormorando un picciol rivo.
Egli v’accorse, e l’elmo empié del fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio. L’ufficio del battesimo
Tremar sentì la man mentre la fronte
non conosciuta allor sciolse e scoprio.
La vide, e la conobbe; e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
Non morì già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto, e in guardia al cor le mise.
E premendo il suo affanno, a dar si volse incalzando, oppure (meglio) trattenendo, il proprio affanno
vita con l’acqua a chi co’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’sacri detti sciolse
colei di gioia trasmutossi, e rise;
E in atto di morir lieta e vivace
dir parea: “S’apre il ciel; io vado in pace”.

55. Venezia: i teatri d’opera più importanti


San Cassiano
San Moïsè
Santi Giovanni e Paolo
San Luca
Sant’Angelo
Teatro Novissimo
San Giovanni Grisostomo

56. Compositori dell’opera veneziana


Claudio Monteverdi (1567-1643)
Francesco Cavalli (1602-1676)
Francesco Sacrati (1605-1650)
Antonio Cesti (1623-1669)
Giovanni Legrenzi (1626-1690)
Antonio Draghi (1634-1700)
Carlo Pallavicino (1640-1688)
Marc’Antonio Ziani (1653-1715)

57. Topoi dell’opera veneziana secentesca


• Lamento (dai due fortunatissimi modelli di Monteverdi)
• Partenza (Busenello: Ottavia nell’Incoronazione di Poppea, Enea nella Didone)
• Scene con eco
• Scene soprannaturali
• Scene di magia
• Apparizioni
• Oracoli (con responsi misteriosi)
• Preghiere
• Scene di follia: dalla Licori finta pazza (1627) abbozzata da Strozzi per Monteverdi allo Iarba delle
Didone di Busenello per Cavalli (1641) ecc.
• Travestimenti con mutamento di sesso (occasioni per equivoci e doppi sensi)
• Agnizioni
• Parti comiche con tipi fissi: villani, vecchi lascivi (uomini e donne: cfr. la Nutrice dell’Incoronazione),
servo sciocco, servo astuto, miles gloriosus (tipo assai presente nella commedia dell’arte), pedante filosofo,
vecchia libidinosa (e giovane che finge di acconsentire per scucirle dei danari) – e formule ricorrenti: doppi
sensi maliziosi, oscenità più o meno chiare.
58. librettisti veneziani membri dell’Accademia degli Incogniti
Gian Francesco Busenello
Gli amori di Apollo e Dafne - 1640, mus. Pierfrancesco Cavalli
Didone - 1641, mus. Cavalli
L’incoronazione di Poppea - 1643, mus. Monteverdi (?)
Giacinto Andrea Cicognini
Giasone - 1649, mus. Cavalli
Orontea - 1656 mus. Antonio Cesti (Innsbruck)
Giulio Strozzi
La finta pazza Licori - 1627, mus. Monteverdi
Proserpina rapita - 1630, mus. Monteverdi
La finta pazza - 1641, mus. Francesco Sacrati
Veremonda - 1652, mus. Cavalli
Giacomo Badoaro (Badoer)
Il ritorno di Ulisse in Patria - 1640, mus. Monteverdi
Le nozze di Enea in Lavinia - 1641, mus. Monteverdi
L’Ulisse errante - 1644, mus. Sacrati

59. Giulio Strozzi, Delia (1639) - prefazione


le favole finalmente son favole, e le divinità de’ Gentili tutte sciocchezze, onde ci si può scherzare sopra
allegramente.

60. Gian Francesco Busenello


gl’usi et gl’insegnamenti antichi non sono destini et articoli di religione alle nostre fatiche. Se mai si può
armonizzare le opinioni antiche con le moderne e, come è solito dirsi, stare in buona con tutti.
[…]
Io ho scritto e scrivo così in versi come in prosa come l’insegnamento de’buoni m’ha instrutto, né pretendo
altra lode che di modestia e d’ingenuità, lasciando libera la palestra poetica e prosaica a quegli hatleti
ammirandi, a quei bravi ingegni, che sanno tutte le cose senza averle studiate in alcun tempo mai, intendono
senza maestri per platonica reminiscenza [secondo Platone il regno delle idee è eterno e l’anima, prima di
incarnarsi in noi, vi dimorava, dunque «conoscere è ricordare»], e della poesia, in particolare,
insegnerebbero l’arte ad Apollo.

61. Cicognini, Giasone, «Avviso»


Io compongo per mero capriccio; il mio capriccio non ha altra fine che dilettare. L'apportare diletto appresso
di me non è altro che l'incontrare il genio e il gusto di chi ascolta o legge. Se ciò mi sarà sortito con la lettura
o recita del mio Giasone, averò conseguito il mio intento. Se non mi sarà sortito, io averò gettato via molti
giorni in comporlo e voi poche ore in leggerlo o ascoltarlo: sì che il danno maggiore sarà stato il mio. Non
resterò per questo di ricordarvi che l'uso o per meglio dire abuso de i nomi idolo, dea, deità, fato, destino e
simili, son mere invenzioni poetiche. Vivete felici.

62. Giasone, «Argomento»


Giasone, figlio d’Esone, fratello di Pelia re di Tessaglia, fu dal medesimo Pelia mandato a Colco all’acquisto
del vello d’oro [Vello (pelle intera) dorato di un ariete alato capace di volare che Ermes donò a Nefele], che
da Frisso era stato consecrato a Giove in quell’isola. Imbarcò su la nave di Argo con Ercole ed altri cavalieri,
che poi furono detti Argonauti. Passò per l’isola di Lenno, ed ivi godé Isifile regina di quell’isola con
promessa di sposarla, ma per consiglio d’Ercole la lassò gravida e se n’andò a Colco.
Isifile partorì due gemelli, Toante ed Euneo, dopo che gl’era convenuto fuggirsene di Lenno per aver salvato
il vecchio Toante suo padre dalla comune uccisione di tutti gl’uomini di quell’isola, decretata dalle donne
per desiderio di regnare; e in povero stato se ne andava pellegrinando, e giunse al fine nelle campagne su la
foce d’Ibero, dove stava allattando i figli suoi e di Giasone.
Giasone, sendo arrivato a Colco, fu veduto da Medea regina di quell’isola la quale di lui ardentemente
s’innamorò e, renunziando agl’affetti passati fra lei ed Egeo re d’Atene, trovò modo d’esser goduta da
Giasone, senza che esso sapesse con qual dama si giaceva.
Restò gravida e partorì a suo tempo due gemelli, Filomelo e Pluto. Giasone, distratto dal nuovo amore verso
la dama a lui incognita, dimorò in Colco un anno intiero, senza tentar l’impresa per la quale s’era in
quell’isola transferito, ma al fine, stimolato da gl’argonauti ed in specie da Ercole, diede il giuramento di
farlo per un giorno determinato. Isifile intanto, avendo inteso che Giasone si ritrovava nell’isola di Colco,
poche miglia distante della foce d’Ibero, ove essa dimorava, mandò Oreste suo confidente per accertarsene
ed intendere le sue azioni.
Sendo venuto il giorno nel quale Giasone doveva tentar l’acquisto del vello, volse la notte antecedente
ritrovarsi con la dama da lui sino a quel tempo non conosciuta, ed Ercole, attendendo su lo spuntar dell’alba
ch’egli, lasciati i piaceri amorosi, s’accingesse a quell’impresa, dà principio all’opera.
63. Giasone - Dizionario dell’opera B&C
la vicenda raccontata da Cicognini è quasi del tutto indifferente al mito (dove al più Medea incantatrice offre
il pretesto per introdurre quelle scene infernali che tanta fortuna avranno in seguito), e la storia, osservata
con divina partecipazione da Apollo e Amore, ruota attorno ai propositi matrimoniali di Giasone, tutt’affatto
disinteressato a recuperare il suo bravo vello d’oro e invece assai coinvolto in affari amorosi con due
fanciulle a cui aveva già regalato un paio di pargoletti a testa: Isifile, la buona, ma ormai un amore passato, e
Medea, l’attuale amata, ma donna crudele. Apollo crede nel Fato […] e punta su Medea; Amore crede in se
stesso e parteggia per Isifile. Perderanno entrambi, giacché Giasone, impossibilitato a sposare Medea, si
concederà a Isifile (che aveva appena tentato di gettare da un dirupo) in un momento di pietosa debolezza
provocato dalla di lei scena(ta) madre: «Sì, tiranno mio, ferisci a parte a parte queste membra aborrite!» non
trascurando di ricordargli i figli «per la fame languenti» (dal lamento «Infelice, che ascolto?»).

64. Cavalli (Cicognini), Giasone, Risveglio di Giasone - Aria “Delizie, contenti” (I,2)
Delizie, contenti,
che l’alme beate,
fermate, fermate:
su questo mio core
deh più non stillate
le gioie d’amore.
Delizie mie care,
fermatevi qui!
Non so più bramare,
mi basta così.
In grembo agl’amori
fra dolci catene
morir mi conviene.
Dolcezza omicida,
a morte mi guida
in braccio al mio bene!
Dolcezze mie care
fermatevi qui!
Non so più bramare,
mi basta così.

65. Cavalli, Giasone, Scena buffa (II,7)


DEMO
Alla nave, alla nave?
Medea, Giason s’abbracciano?
E per gir a Corinto
si partono, si fuggono, s’imbarcano?
O sventurato Egeo,
povero mio signor, misero re!
Chi m’insegna, oimè, dov’è? Ov’è?

Con arti e con lusinghe,


donne, se vi pensate
di farmi innamorar, voi v’ingannate,
voi v’ingannate affe’:
queste bellezze mie voglio per me.
Se ben penare,
languire,
crepare,
morire
io vi vedrò,
mai m’innamorerò.
No, no, no, no, no, no,
non lo sperate affe’,
queste bellezze mie voglio per me!
Con vostri finti vezzi,
donne, se tenterete
d’incatenarmi il cor, non lo credete,
non lo credete già:
ho fatto voto al ciel di castità!
Se ben penare,
languire,
crepare,
morire
io vi vedrò,
io mai vi crederò.
No, no, no, no, no, no,
non lo sperate già:
ho fatto voto al ciel di castità!

Oh, oh, sto ben così.


Egeo, Egeo, Egeo,
vuoi gli avvisi? Son qui!
EGEO
Mi chiami?
DEMO
Oh gran signor sì!
Gran novelle, signore,
fughe, assassinamenti, arme e rumore!
EGEO
Dì tosto, chi fuggì?
DEMO
Medea co… con…
EGEO
Che?
DEMO
Medea.
EGEO
Segui!
DEMO
Medea
Co… con…
EGEO
Oh dio, con chi?
DEMO
Con Giason si fuggì,
EGEO
Oimè!
DEMO
E con fuga soave
van gridando abbracciati:
alla nave, alla nave!
EGEO
E verso dove andranno?
DEMO
S’imbarcano per Co…
co… co… per co… co… co…
EGEO
Per Coimbra?
DEMO
No, per co… co… co… co…
EGEO
Per Coralto?
DEMO
Oibò, per co… co… co…
EGEO
Per Cosandro?
DEMO
Nemmeno,
per co… co…
EGEO
Per Corinto?
DEMO
Ah, ah, oh bene, oh bene,
mi cavasti di pene.
EGEO
Or ecco la cagione
perché Medea m’aborre: ama Giasone.
Oh dio, son morto! Tu segui i miei passi,
e in picciola barchetta
seguiamo i fuggitivi:
alto decreto eterno
vuol ch’io segua Medea sin nell’inferno.
DEMO
All’inferno affe’ non vo,
io dal foco ognor m’arre… m’arretro,
se di lungi io lo vedrò,
io ti pianto alla po… po… porta e torno indietro!

66. Giasone - Scena buffa (I,7)


DEMO
Son qui, che, che, che chiedi?
ORESTE
In Colco più non fui,
alcun qui non conosco.
DEMO
Non mi risponde?
Ah non m’inte, te, te…
ORESTE
A me?
DEMO
Te, te.
ORESTE
Te, te…
DEMO
Ah non m’intendi (intese)?
ORESTE
Oh dissonanze strane!
Io mi credea che tu chiamassi un cane!
DEMO
Anzi tu me chiamasti!
ORESTE
Io te?
DEMO
Tu me.
ORESTE
E chi sei tu?
DEMO
Nol vedi?
ORESTE
Nol vedo affé.
DEMO
Se ben mi guarderai
da rovescio e da dritto,
sulle mie spalle il nome mio sta scritto!
Or mi conosci tu?
ORESTE
Per gobbo io ti conosco.
DEMO
E gobbo io sono.

Son gobbo, son Demo,


son bello, son bravo;
il mondo m’è schiavo.
Del diavol non temo.
Son vago, grazioso,
lascivo, amoroso.
S’io ballo, s’io canto,
s’io suono la lira,
ogni dama per me arde e so, so,
so, so, arde, e so, so, so…
ORESTE
E sospira.
DEMO
So, so, so, so, so, so…
ORESTE E DEMO
arde e sospira!

ORESTE
Linguaggio curioso.
DEMO
Sei troppo, troppo, troppo frettoloso,
e se farai del mio parlar strapazzo
la mia forte bravura
saprà spezzarti il ca…
ORESTE
Oibò!
DEMO
Il ca… po in queste mura.
ORESTE
Così si tratta un forastiero in Colco?
DEMO
Che fo, fo, forastiero?
Io dissi, e dissi bene, a che si bada!
Ti sfido, metti man per quella spada!
ORESTE
Un buffone è costui. T’acqueta, amico,
e non voler che in corte…
DEMO
Che amico, che corte?
Metti mano, dich’io.
Or ch’io sono in furore,
vo’duellar, e vo’cavarti il core.
ORESTE
Perdon ti chieggio, o caro,
la vittoria ti cedo,
mi ti dono per vinto,
e se troppo parlai, fu mia sciagura.
DEMO
Quel che fa la bravura!
ORESTE
Pietà, signor, pietà.
DEMO
Perché tu veda
che quanto forte e generoso io sono,
va, va, ch’io ti perdono.
ORESTE
Atto da grande.
DEMO
Grande? Se mi vedessi
con l’inimico a fronte
pormi in guardia guerriera,
buttar foco dagl’occhi,
inferocir la cera,
e col brando e con l’asta
vibrar stoccate e fulminar roversi,
vedresti alzarmi a’piedi
di morti e di feriti una ca-tasta,
e dai miei colpi fieri,
che snervano, dispolpano e disossano,
verresti a confessare
che Marte è mio umilissimo scolare.
ORESTE
Così cred’io, ma il ferro omai riponi.
DEMO
Ecco il ripongo, e ti dichiaro amico.
ORESTE
Or dimmi in cortesia,
conosci tu per sorte…
DEMO
Oimè!
ORESTE
Che hai?
DEMO
Sento ch’il mio furore
non è sfogato a pieno.
Lasciati dare una stoccata, almeno.
ORESTE
Tu manchi di parola?
DEMO
Lasciati dare una stoccata sola.
ORESTE
Quest’è un tentarmi.
DEMO
Ah, ferma;
sento il sangue acquietato;
parla, ch’io son placato.
ORESTE
Lodato il ciel! Conosci tu Giasone?
DEMO
Che pretendi da da
daranda, daranda, danda, da lui?
ORESTE
Bramo saper se si ritrova in Colco.
DEMO
Chi ti manda?
ORESTE
Il mio zelo a me fu sprone.
DEMO
Vuoi ch’io ti dica?
ORESTE
Dì.
DEMO
T’ho per spione.
ORESTE
Quest’è troppo, tu menti!
DEMO
Puh, uh, tanto furore?
Forse l’esser spion leva l’onore?
ORESTE
Fuori ti rivedrò.
DEMO
Fermati, senti.
ORESTE
Che vorrai dir?
ORESTE E DEMO
Troppo iracondo/indiscreto sei!
DEMO E ORESTE
Parlai scherzando / sul saldo, e perdonarmi/, e tu pentirti dei.
DEMO
Mi pento.
ORESTE
Ti perdono.
DEMO
E di Giasone
giuro na na na…
ORESTE
Na na na na na na
DEMO
giuro narrar a te gl’avvisi intieri.
Io di qua parto, e tu per altra via,
e t’aspetto a far pace all’o… all’o…
lo… lo… lo… lo… lo… lo…
e t’aspetto a far pace all’o… all’o…
lo… lo…, all’o… all’o…
ORESTE
Oimè, non più, t’ho inteso;
verrò, va pur, va via! (Demo parte)
Vo’seguitar costui,
che semplice e atterrito
dalla mia bizzarria,
il tutto mi dirà!
DEMO
(torna) …all’osteria!

67. Cavalli, Giasone, Incantesimo di Medea (I,15)


MEDEA
Dell’antro magico
stridenti cardini,
il varco apritemi.
E fra le tenebre
del negro ospizio
Lassate me.
Su l’ara orribile
del lago stigio
i fochi splendino,
e su ne mandino
fumi che turbino
la luce al sol.
Dall’abbruciate glebe,
gran monarca dell’ombre, intento ascoltami!
E se i dardi d’Amor giammai ti punsero,
adempi, o re dei sotterranei popoli,
l’amoroso desio che il cor mi stimola,
e tutto Averno alla bell’opra uniscasi!
I mostri formidabili,
del bel vello di Frisso
sentinelle feroci infaticabili,
per potenza d’abisso
si rendino a Giasone oggi domabili.
Dall’arsa Dite
(quante portate
serpi alla fronte)
furie venite,
e di Pluto gl’imperi a me svelate!
Già questa verga scuoto,
già percoto
il suol col piè!
Orridi demoni,
spiriti d’erebo,
volate a me!
Così indarno vi chiamo?
Quai strepiti,
quai sibili
non lascian penetrar nel cieco baratro
le mie voci terribili?
Dalla sabbia
di Cocito
tutta rabbia
qua v’invito.
Al mio soglio
qua vi voglio;
a che si tarda più?
Numi tartarei, su, su, su, su!
CORO
Le mura si squarcino,
le pietre si spezzino,
le moli si franghino,
vacillino, cadano,
e tosto si penetri
ove Medea si sta.
VOLANO
Del gran duce tartareo
le tue voci, o Medea, gli arbitrii legano,
e i numi inferni ai cenni tuoi si piegano.
Pluto tue voci udì:
in questo cerchio d’or
si racchiude il valor
che di Giasone il cor
armerà questo dì.
MEDEA
Sì, sì, sì,
vincerà
il mio re.
A suo pro
deità
di là giù
pugnerà.
Sì, sì, sì,
vincerà,
vincerà.

68. Monteverdi: alcune opere perdute composte a Venezia

69. Incoronazione di Poppea: la questione filologica


Le due fonti [entrambe adespote] che tramandano la partitura, molto diverse tra loro, riflettono versioni
lontane dall’originale: nella copia conservata a Napoli è testimoniata la ripresa teatrale napoletana del 1651,
allestita dalla compagnia itinerante dei Febiarmonici, mentre la copia veneziana è stata curata direttamente
da Francesco Cavalli. Entrambe le partiture sembrano opera collettiva e forse già all’origine il
settantacinquenne Monteverdi, al suo ultimo impegno teatrale, fu aiutato da collaboratori più giovani.
Nessun indizio della paternità dell’opera proviene da fonti contemporanee: l’elogio funebre steso da
[Matteo] Caberloti [pievano della chiesa veneziana di San Tomà]3 non la nomina, ricordando invece Arianna
e, indirettamente, Orfeo [cosa doppiamente strana, in quanto Monteverdi muore nello stesso anno, il 1643,
della prima rappresentazione dell’opera, al teatro San Giovanni e Paolo di Venezia]. Non è tuttavia chiaro
se l’elogio funebre abbia anticipato la prima dell’Incoronazione. C’è anche da aggiungere che sussiste una

3
MATTEO CABERLOTI, Laconismo delle alte qualità di Claudio Monteverde (“Laconismo”: stile conciso, compendioso.).
qualche forma di logica (moralistica) se un prete non ricorda l’Incoronazione di Poppea… Ad ogni modo la
questione fondamentale è che il testo di Caberloti viene pubblicato nel 1644 (nella raccolta miscellanea Fiori
poetici raccolti nel funerale del molto illustre e molto reverendo signor Claudio Monteverde), sicché non abbiamo
notizie certe riguardo alla datazione del memoriale funebre].
Connessioni stilistiche con la partitura del Ritorno di Ulisse in patria, insieme alla forza e alla sintesi
drammatica di alcuni dialoghi (ad esempio I,9), giustificano l’attribuzione monteverdiana di molte scene,
almeno nella loro prima redazione. D’altro canto l’intero finale e quasi tutta la parte di Ottone sono stati
composti da una mano diversa rispetto al resto della partitura. Altri passi isolati (il prologo, le scene seconda
e quarta del secondo atto, la sinfonia finale) rivelano tratti stilistici che fanno pensare a uno o più
compositori della generazione più giovane rispetto a quella di Monteverdi. Nomi dei probabili collaboratori:
Benedetto Ferrari e Francesco Sacrati, del quale la recente scoperta della partitura de La finta pazza ha
permesso nuove e interessanti comparazioni stilistiche; a essi si aggiungono Francesco Manelli e Filiberto
Laurenzi, autore di molte delle musiche de La finta savia, su libretto di Giulio Strozzi, rappresentata al Teatro
SS. Giovanni e Paolo nella stagione in cui fu allestita l’Incoronazione, con gli stessi interpreti. [Non sempre
vengono richiamati tutti questi nomi; di sicuro, comunque, taluni ipotizzano anche il nome di Cavalli].

70. Francesco Degrada sull’Incoronazione di Poppea


Non dunque (o non semplicemente) un’evasione nei regni della favola e del meraviglioso, ma una
meditazione di filosofia pratica, un’analisi disincantata e una rappresentazione vigorosamente realista delle
forze che muovono il mondo dell’umano. Fortuna, Virtù, Amore, tre concetti chiave della visione filosofico-
etica del poeta, vengono messi a confronto: e coerentemente alla visione pessimistica cui dinanzi si
accennava, Fortuna trionfa su Virtù e Amore su Fortuna, almeno sino a quando durerà il magico sogno di
Nerone e di Poppea, sino a quando il tempo che sembra essersi miracolosamente fermato non li trarrà
dall’illusione che li incatena.
Al centro dell’opera, l’amore di Nerone e di Poppea, nella quale il Busenello volle raffigurare sotto la specie
della fatale donna romana […] il tipo dell’intrigante e subdola dama di corte del tempo suo: sfrenato,
delirante erotismo nell’uno, strumento di ambiziosi disegni nell’altra, passione cieca in entrambi, che ad esso
non esitano a sacrificare ogni considerazione di ordine etico.
E della sua luce ambigua si colorano anche le figure di Ottavia, che pur si rende complice e con l’odiosa
arma del ricatto per di più, del tentato assassinio di Poppea [Ottavia minaccia Ottone di accusarlo di tentata
violenza su lei stessa]; di Ottone, che il Busenello canagliescamente si diverte ad atteggiare con bruciante
ironia quasi sempre in atteggiamenti caricaturali; e anche di Drusilla, in parte [è presentata come una
stupida svampita, che non capisce nulla di quanto le accade intorno].
Sfondo cupo a questa passione che tutto di sé riempie e tutto a sé assoggetta, è la corte, con la sua condotta
spietata, basata sulla frode, la macchinazione, l’inganno, la sopraffazione. I grandi si pongono al di sopra
della legge, attenti solo al proprio utile, non importa come raggiunto; gli umili mormorano e maledicono, ma
accettano o sono costretti ad accettare le regole del gioco.
La legge è per chi serve…

Sarà sempre più giusto il più potente.

E ancora:
La Forza è legge in pace e spada in guerra

E bisogno non ha della ragione…

proclama Nerone (I, 9), La logica della forza e della violenza costringe i cortigiani in un atteggiamento
costante di freddo calcolo e di studiata dissimulazione, in una spasmodica difesa del proprio egoistico
interesse.
Colui che ad altro guarda

Che all’interesse suo, merta esser cieco (II, 14)

Si spegne nei cuori ogni calore ed ogni umana dignità e vi prende posto l’acre, puntiglioso, lugubre gusto
della vendetta:
L’infamia sta gl’affronti in sopportarsi

E consiste l’onor nel vendicarsi.

[E ancora:]
Chi ti punge nel senso

Pungilo nell’onore… (I, 5).

È riconoscibile, nell’Incoronazione, un riflesso non solo della vita e della società barocca, così come si
presentava all’occhio critico del Busenello, fastosa e barbara, ma della problematica dibattutissima nei primi
decenni del Seicento sul rapporto tra utilità e morale e tra morale e politica.
71. Incoronazione di Poppea - Duetto finale (III,8)
POPPEA, NERONE
Pur ti miro, pur ti godo, A
pur ti stringo, pur t'annodo,
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mi tesoro.
POPPEA
Io son tua… B
NERONE
Tuo son io…
POPPEA, NERONE
Speme mia, dillo, dì,
tu sei pur, l'idol mio,
sì, mio ben,
sì, mio cor, mia vita, sì.

(Pur ti miro, pur ti godo, A


pur ti stringo, pur t'annodo,
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mi tesoro.)

72. Incoronazione di Poppea - “Scenario” della prima veneziana (1643)


Nerone solennemente assiste alla coronazione di Poppea, la quale a nome del popolo e del senato romano
vien indiademata da’ consoli e tribuni; Amor parimenti cala dal cielo con Venere, Grazie ed Amori, e
medesimamente incorona Poppea come dea delle bellezze in terra, e finisce l’opera.

73. Lorenzo Bianconi 1982: il duetto «Pur ti miro, pur ti godo»


Al posto del coro degli amorini e dell’incoronazione celeste di Poppea le partiture pongono invece la pura,
contagiosa, sensualissima estasi erotica del duetto d’amore: «Pur ti miro | Pur ti godo | Pur ti stringo | Pur
t’annodo…». Ebbene, di questo esplicito, inquietante, accattivante trionfo dell’amor sensuale – un amor
sensuale che per tutto il corso del dramma ha vittoriosamente bruciato le convenienze politiche e morali, e
che nel duetto finale trova una sigla musicale incandescente – almeno tre diversi musicisti si contendono la
paternità. […] di chi sarà la musica dell’incantevole, seducente, misterioso duetto d’amore? Di Monteverdi,
l’autore probabile della Poppea del 1643? Oppure – più verosimilmente – di Ferrari, o di Laurenzi, o di
Cavalli [che possedette la partitura, adespota ed acefala, oggi conservata alla Biblioteca Marciana di
Venezia]? Impossibile deciderlo, allo stato degli atti: l’ascoltatore moderno si dovrà contentare di subirne
tutta la pervasiva delizia canora ed erotica. Ma farà pure bene a riflettere sulla rilevanza davvero modesta
delle questioni attributive nel campo del teatro d’opera di quest’epoca, nel contesto d’una forma di
produzione che è per natura sua collettiva. E sarà pure giusto notare che un conto è porre un tal duetto
d’amore a suggello di una vicenda di pastori innamorati come il Pastor regio [di Benedetto Ferrari], o d’una
allegoria morale carnevalesca come il Trionfo della fatica [di Filiberto Laurenzi], un conto assai diverso è
invece farne l’apoteosi canora d’una vicenda che, come quella di Poppea e Nerone, è tutta intessuta
sull’adulterio, l’infedeltà, il suicidio comminato, il travestimento, il tentato omicidio, il ripudio e l’esilio ai
danni degli antagonisti [aggiungiamo anche il ricatto]. Poco importa sapere chi lo ha scritto: averlo collocato
lì, in quel punto di questo dramma, fu un colpo di teatro geniale (dovuto, magari, a qualche ignoto
“Feboarmonico”).

74. Paolo Fabbri: l’opera diventa una consuetudine sociale


A fine Seicento e all’aprirsi del nuovo secolo il teatro cantato aveva ormai impostato quella trama produttiva
e distributiva (capillare soprattutto nell’Italia centro-settentrionale) che ne caratterizzerà le vicende
successive, ed era ormai entrato stabilmente tra le abitudini sociali delle classi medio-alte, al punto da
costituire, per i forestieri, un’ulteriore, accattivante attrattiva accanto a quelle consolidate che la penisola
tradizionalmente offriva: le memorie archeologiche, le bellezze paesistiche, le buone pitture moderne.

75. Cicognini (per Cesti), Orontea: trama (Dizionario B&C)


La storia, seppur non un archetipo in questo genere, per la sua popolarità quasi lo divenne di infinite simili
durante tutto il Settecento. Il modello muove attorno a un’identità celata che si rivela alla fine dell’opera,
magari poco prima di una condanna, per cui un medaglione, una lettera ecc. testimoniano della stirpe nobile
del condannato, altrimenti creduto schiavo o umile pastore, e lo salvano.
In Orontea il personaggio è Alidoro che, giunto dopo varie vicissitudini alla corte di Orontea, regina d’Egitto,
per tanta bellezza fa innamorar di sé chiunque: Silandra (che fino alla scena prima smaniava per Corindo),
forse il paggio Tibrino, ma soprattutto la stessa Orontea, con sdegno di Creonte, filosofo di corte: ché una
regina non può amare un pittore, e pure corsaro. Rinsavita Orontea e abbandonate le sue avventure amorose
a tutto vantaggio di una più nobile ragion di Stato, si ritrova a dover condannare Alidoro per furto, ma
l’oggetto rubato, un medaglione appunto, salverà Alidoro e permetterà a Orontea di sposarlo. Si scopre
infatti che il gioiello era suo fin da bambino quando, rapito dai pirati, se ne persero le tracce. Alidoro non è
Alidoro ma Floridano, di stirpe reale.
Francesco Sbarra, Alessandro vincitor di se stesso – Prefazione (mus. Cesti 1661)
So che l’ariette cantate da Alessandro et Aristotile si stimeranno contro il decoro di personaggi sì grandi, ma
so ancora ch’è improprio il recitarsi in musica, non imitandosi in questa maniera il discorso naturale e
togliendosi l’anima al componimento drammatico, che non deve essere altro che un’imitazione dell’azzioni
umane, e pur questo difetto non solo è tolerato dal secolo corrente, ma ricevuto con applauso. Questa
specie di poesia non ha altro fine che il dilettare, onde conviene accomodarsi all’uso dei tempi: se lo stile
recitativo non venisse interrotto con simili scherzi, porterebbe più fastidio che diletto.

76. Scarlatti-Minato, Pompeo (1680), «O cessate di piagarmi» (vers. Parisotti «Arie antiche»)
O cessate di piagarmi,
o lasciatemi morir.
Luci ingrate,
dispietate
più del gelo e più de’marmi
fredde e sorde ai miei martir:
O cessate di piagarmi,
o lasciatemi morir.

77. Scarlatti (A.), Griselda, 1721, «Di’che sogno o che deliro» (I,14)
STRUTTURA
TESTO SPARTITO ASCOLTO
TESTO
GRISELDA
Di’ che sogno o che deliro, A A A
se d’amarti io ti dirò.
E se mai lo sguardo giro
Verso te meno sdegnosa,
B B B
Di’ che è l’ira in petto ascosa,
ma non già che si placò.

da capo A’

78. Vivaldi, Catone in Utica (1737), aria «Come invano il mare irato» (II,14)

79. Muratori, inverosimiglianza del canto


Or quando mai si veggiono gli uomini cantare in mezzo alle faccende, e trattando gravi affari? È egli mai
verisimile fra le genti che una persona in collera, piena di dolori e d’affanno, o narrante seriamente e
daddovero i suoi negozi, possa cantare? […] E chi vide mai persona che nel famigliar discorso andasse
ripetendo e cantando più volte la medesima parola, il medesimo sentimento, come avviene nelle ariette? Ma
che più ridicola cosa ci è di quel mirar due persone che fanno un duello cantando? che si preparano alla
morte o piangono qualche fiera disgrazia con una soave e tranquillissima arietta?
LUDOVICO ANTONIO MURATORI, Della perfetta poesia italiana, 1706.

80. Muratori, immoralità dell’opera


In quanto alla Musica de’ moderni drammi, non credo che ad alcuno possa venire in mente che ella abbia
simiglianza colla musica antica, la quale era tutta grave e scientifica. […] Egli non si può negare che la
Musica Teatrale de’ nostri tempi non si sia condotta ad una smoderata effeminatezza, onde ella è piuttosto
atta a corrompere gli animi degli uditori, che a purgarli, e migliorarli, […] Ognuno sa e sente che movimenti
si cagionino dentro in lui in udire valenti Musici nel Teatro. Il Canto loro sempre inspira una certa mollezza,
e dolcezza, che segretamente serve a più far vile, e dedito ai bassi amori il popolo bevendo esso la
languidezza affettata delle voci, e gustando gli affetti più vili, conditi dalla Melodia non sana. […] Più non si
studia quell’arte che insegnava a muovere, temperare, e mitigare col Canto gli affetti dell’uomo. Tutta la
cura si pone nel dilettar gli orecchi.
[…] Io non saprei accordarmi con chiunque affermasse che anticamente le tragedie e commedie si cantassero
colla Musica stessa, e nella stessa guisa che oggidì far vediamo. Anzi, sto io per dire che si facesse una gran
ferita alla Poesia e che i Teatri Italiani cominciassero a perdere la speranza di guadagnar la vera Gloria,
allorché i musicali drammi si diedero a regnar fra noi altri. Certo è, che la dolcezza della Musica fece poi
apparire al popolo cotanto saporita quella invenzione, che a poco a poco giunse ad occupare tutto il genio
delle Città; ed oggidì si ritiene il più nobile, il più dolce, per non dire l’unico intertenimento e sollazzo de’
Cittadini l’udire un Dramma recitato, cioè cantato da’ musici.
Avvezzatosi il Gusto delle genti a questo cibo, e perdutosi il sapore degli altri componimenti teatrali; si è la
commedia data in preda a chi non sa farci ridere se non con isconci motti, con disonesti equivoci, e con
invenzioni sciocche, ridicole e vergognose. La Tragedia anch’essa, perché vestita con troppa serietà e non
dilettante gli orecchi per mezzo della Musica, è aborrita come madre dell’Ipocondria e nutrice de’ tristi
pensieri. […]
[La Musica] soggiace alla disavventura delle altre cose dolci, nate per dilettare i sensi, che presto generano
sazietà […]. Le vere tragedie per lo contrario sogliono tenere ben attenti gli ascoltanti, né possono di leggieri
partorir tedio, perché il diletto loro è volto ed indirizzato alla soddisfazione non dell’orecchio, ma
dell’animo, il cui albergo è vastissimo; e perché oltre a ciò coll’insegnare, e col muovere i differenti affetti,
contengono la varietà, madre del diletto.

81. Tendenza classicheggiante di fine secolo: principali librettisti


Francesco Silvani, Adriano Morselli, Domenico David, Girolamo Frigimelica-Roberti, Silvio Stampiglia,
Antonio Salvi, Apostolo Zeno.

82. Librettisti riformatori e libretti riformati


Data, località Titolo Librettista Note

1688, VE Orazio Vincenzo Grimani da Horace di Corneille


Teatro “San Giovanni Grisostomo”
Mus.: Giuseppe Felice Tosi

1690, RM Armide Philippe Quinault in versione ritmica italiana


Mus.: Jean-Baptiste Lully

1691, VE La virtù trionfante dell’amore e dell’odio Francesco Silvani Mus.: Marc’Antonio Ziani

1691, VE L’amante eroe Domenico David da Alexandre le Grand di Racine


Mus.: Marc’Antonio Ziani

1692, VE Ibrahim sultano Adriano Morselli da Bajazet di Racine


Mus.: Carlo Francesco Pollarolo

1693, VE La forza della virtù Domenico David Mus.: Carlo Francesco Pollarolo

1694, NA Pirro e Demetrio Adriano Morselli Mus.: Alessandro Scarlatti

1694-96, VE Ottone – Irene – Il pastore d’Anfriso Girolamo Frigimelica-Roberti 1: «Tragedie». 2: in 5 atti


Mus.: Carlo Francesco Pollarolo

1695, VE Gl’inganni felici Apostolo Zeno Esordio librettistico di Zeno

1696, VE La costanza in trionfo Francesco Silvani Mus.: Marc’Antonio Ziani

1696, NA Il trionfo di Camilla regina de’ Volsci Silvio Stampiglia Mus.: Giovanni Bononcini

1697, VE Eumene Apostolo Zeno Mus.: Marc’Antonio Ziani

1697, NA La caduta de’ decemviri Silvio Stampiglia Mus.: Alessandro Scarlatti

1701, FI Astianatte Antonio Salvi da Andromaque di Racine


Mus.: Antonio Maria Bononcini (fratello minore di
Giovanni)

1724, NA Didone abbandonata Metastasio (Pietro Trapassi) Primo libretto integralmente metastasiano
Mus.: Domenico Sarro

83. Zeno ed il libretto della Merope (1711)


rifiuta di firmarne il libretto per averlo «accomodato al gusto de’ musici», «levandovi e aggiungendovi non
che versi, ma scene intere, e gran parte delle ariette».
«mi compiaccio tanto del pensiero e della orditura, se bene ora in qualche parte mutilata, che ho in animo di
raggiustarlo a mio modo, e di ridurlo a tragedia recitativa in versi endecasillabi senza interrompimento di
ariette».

84. Zeno, Lettera al marchese Giuseppe Gravisi (Venezia, 3 novembre 1730)


Nei [drammi per musica] bisogna considerare che vi sono moltissimi inverisimili, ma alcuni di questi
provengono dalla necessità e natura del componimento, come il dover cantarsi da capo a piedi le ariette
musicali, le tante mutazioni di scena; ai quali e simili inconvenienti non è possibile che si dia riparo.
[…]
Vero è che su le scene moderne, di qualunque ordine e condizione, regna di soverchio una passione
effeminata, cioè l’amore, senza cui sembra non si possa compor favola rappresentativa plausibile.

85. Zeno, Lettera al fratello Pier Caterino, Vienna, 6 gennaio 1720


In una Tragedia si possono osservar religiosamente sì fatte regole, anzi si debbono. In un Dramma bisogna
dare qualche cosa all’abuso del secolo, alla decorazione, alla musica.

86. Zeno, !Lettera a Ludovico Antonio Muratori, 1701


dove non si dà in molti abusi, si perde il primo fine di tali componimenti, ch’è il diletto.

87. Zeno, Lettera al marchese Giuseppe Gravisi, Venezia, 3 novembre 1730


Altri poi [inconvenienti] derivano dalla poca avvertenza del poeta, che non conserva l’unità dell’azione, non
la conformità dei caratteri, non il decoro della scena tragica, non il buon costume a purgazione degli affetti,
non il movimento di questi a compassione, o a terrore, non le convenienze di un viluppo e di uno
scioglimento alle buone regole accomodato. Questi mali si possono e si debbono levar dal teatro musicale, e
a questi aveasi a proporre il rimedio per la lodevole riforma.

88. Zeno, Lettera al marchese Giuseppe Gravisi (27 settembre 1735)


Delle mie cose drammatiche io fo presentemente sì poco conto, che anzi che nudrirne compiacimento di
averle scritte, ne ho pentimento e disprezzo: talché a chi si ponesse a criticarle e a dirne male, io quasi ne
avrei più obbligazione che a chi ne prendesse la difesa, e ne dicesse ogni bene: trattone alcune poche, io le
considero sconciature [deturpazioni, deformità, sconcezze, obbrobri] ed aborti.

89. Francesco De Sanctis (1870): Zeno e Metastasio


Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma [di Metastasio] è congegnato a quel modo che avea già
mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello
scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era
stato l’architetto.

9 0 . Zeno, Griselda o sia la virtù in trionfo (1701) - trama


A n te f a tto. Il re Gualtiero di Sicilia prese in moglie una pastorella di nome Griselda. Ma questo matrimonio
dispiacque al popolo ed ai cortigiani. In seguito a questa presa di posizione, Gualtiero tolse a Griselda la
bambina, di nome Costanza, appena nata dalla loro unione, affidandola segretamente al suo amico Corrado,
principe di Puglia, ma dichiarando di averla uccisa.
A tto pr im o. Palazzo re ale . Di fronte ad una nuova protesta del popolo, il re promette di ripudiare Griselda:
decisione accettata da Griselda. Un cortigiano, Ottone, sopraggiunge per annunciare l’arrivo della giovane
donna [Costanza] che deve sposare Gualtiero e prendere il posto di Griselda. Ottone ama Griselda e spera di
conquistare il suo cuore grazie a questa improvvisa svolta del destino. La nuova arrivata non è altro che
Costanza, che ora ha quindici anni e non riconosce i proprî genitori. È giunta accompagnata da Roberto, il
fratello minore di Corrado, principe di Puglia. Egli e Costanza si amano e provano una profonda
desolazione di fronte al piano di Gualtiero. Gualtiero saluta Costanza e successivamente ne descrive a
Griselda la bellezza. Griselda tiene fra le braccia il suo secondo bambino, Everardo, che ella è costretta ad
abbandonare, e respinge Ottone che nuovamente le dichiara il proprio amore. Costanza viene guidata nella
sua nuova casa.
A tto se con d o. In camp agna. Griselda, che è tornata alla sua vecchia capanna, è raggiunta da Ottone, da
sempre innamorato di lei, ma lì inviato dal re per uccidere il piccolo Everardo [che il servo Ismeno, ruolo
comico, ha riportato a Griselda]; Ottone lascia capire a Griselda ch’ella potrebbe salvare il proprio figlio, ma
solo accettando il suo amore. Sopraggiunge anche Corrado, con l’ordine di prendere Everardo e consegnarlo
alle bestie feroci, ma ha misericordia e lascia il bambino a Griselda. Ottone estrae la spada, sostenendo di
avere l’incarico d’uccidere Everardo. Al castello Costanza incontra Roberto; Gualtiero li coglie di sorpresa e
vuole conoscere il contenuto del loro dialogo. Una caccia è organizzata nei pressi della capanna di Griselda.
Costanza incontra Griselda e le due donne provano un profondo affetto spontaneo l’una per l’altra.
Giungono proprio allora Gualtiero e Corrado; quindi sopraggiunge anche Ottone, che intende rapire
Griselda con l’aiuto di una scorta d’uomini armati, ma viene fermato da Gualtiero. Costanza chiede che
Griselda l’accompagni alla corte; Gualtiero accetta che Griselda diventi la serva della sua nuova moglie.
A tto te r z o. A p alazzo. Costanza incontra Griselda mentre essa, ancora una volta, subisce le attenzioni di
Ottone. Griselda incoraggia Costanza, esitante, ad amare Gualtiero con tutto il cuore perché se lo merita.
Disperato, Roberto prega Costanza di ucciderlo. Ottone confessa a Gualtiero il suo amore per Griselda; ed il
re gli promette che Griselda diventerà sua moglie una volta che egli stesso avrà sposato Costanza. Rimasto
solo con Griselda, il Re ne continua il supplizio proibendole di piangere; allo stesso tempo, però, egli ne
ammira la forza di carattere. Roberto si prepara ad andarsene ed a dire addio a Costanza. Griselda cerca
invano d’intercedere presso Gualtiero a favore dei due innamorati.
Preparazione del matrimonio. In presenza dei suoi sudditi, Gualtiero annuncia che Griselda sarà presto
d’Ottone. Ma ella dichiara che preferirebbe morire piuttosto che ubbidire a questo ordine odioso. Gualtiero
allora abbraccia la moglie che ha superato la prova di lealtà; i presenti si rallegrano. Ottone ammette di aver
sollevato il popolo mosso dell’amore che nutriva per Griselda. Gualtiero svela le origini segrete di Costanza
e ne offre la mano a Roberto. L’amore e la lealtà hanno vinto.

91. Aria sentenziosa (Zeno, Merope, I,6)


Se ognor con la virtù
si unisse il fato
un innocente cor
saria senza timor
sempre beato.

Ma che? L’empio sovente


opprime l’innocente,
e con orgoglio il fa
falsa felicità
più scellerato.

92. Metastasio: due sole eccezioni all’inverosimiglianza del coro


ne’ sagrifici, ne’ trionfi, nelle feste ed in molte somiglianti occasioni nelle quali, potendosi supporre che si
cantino cose premeditate, è naturalissimo che molte persone convengano ne’ pensieri istessi e nelle istesse
parole.
Anzi vi sono occasioni nelle quali può verosimilmente il coro accordarsi anche d’improvviso e ne’ pensieri e
nelle espressioni; come, per cagion d’esempio, in una commozione o giudizio popolare, dove tutti
dimandino o giustizia o vendetta, o pietà, o guerra, o pace, o altro di qualunque sorta. Ma in tai casi dee
esser visibilissima ed efficacissima la cagione per la quale di tante si forma una sola volontà, né permette
allora la legge del verisimile al poeta maggior lunghezza di quella che basta unicamente a spiegare quella
sola e concorde sentenza nella quale, violentato da una visibile e concorde cagione, tutto il popolo è
convenuto.

93. Piero Weiss, influenza del mondo musicale sul nascente dramma eroico
Che parte possono aver avuto i musicisti (i cantanti, i compositori) nello sviluppo del nuovo dramma eroico?
Possibile che l’opera seria sia stata soltanto il frutto degli sforzi riformatori di poeti e mecenati? Eppure,
secondo tutte le testimonianze, i poeti andavan soggetti alle esigenze dei cantanti in prima linea, poi dei
compositori. […]
Nei primi decenni del Settecento tanto l’arte compositiva quanto quella vocale sono in uno stato
d’espansione. L’aria col da capo s’era affermata alla svolta del secolo come mezzo d’espressione per
eccellenza, escludendo quasi ogni altra forma. Era stata di vari tipi: accompagnata dal solo basso continuo
(con o senza ritornello strumentato) o anche dagli archi (raramente da uno strumento obbligato). Era
collocata in principio, nel mezzo o in fin di scena (di uscita, media, d’ingresso) e offriva di tanto in tanto
occasioni ai cantanti di sfoggiare le loro capacità vocali. Tali passaggi virtuosistici raramente oltrepassavano
certi limiti di difficoltà. Si è visto nel Trionfo di Camilla [di Bononcini] che tra aria seria e arietta buffa, dal
punto di vista dei mezzi tecnici, spesso non vi era una grande differenza. Orbene, mentre i virtuosi (leggi: le
parti serie) conquistano sempre nuove alture, i compositori ampliano le dimensioni dell’aria, che adesso si
colloca di preferenza in fin di scena ed è accompagnata dal complesso strumentale. Man mano che si fan più
lunghe, le arie diventano anche più rade: da una cinquantina (in media) nel 1690, scenderanno a
trentacinque o anche meno nel 1720. Non succede più che a un virtuoso tocchino due arie di seguito (ma qui
non contano quelle di uscita [uscita dalle quinte verso il palcoscenico], che per tradizione sono e rimarranno
introduttive e spesso monche). La musica dei servi faceti rimane indietro, terra terra, popolare. Da tutto
questo non è possibile avvertire un impulso puramente musicale verso la riforma del melodramma, verso
l’opera seria? La graduale eliminazione delle parti buffe, la messa in evidenza delle nuove grandi arie
(pentapartite […]) col collocarle in fin di scena, la necessità d’alternare più razionalmente le uscite e gli
ingressi dei virtuosi, tutto coincide perfettamente con le tendenze prettamente letterarie della riforma.

94. Jean-Baptiste Lully: le opere (Tragédies lyriques o en musique)


1. Cadmus et Hermione 1673 – mitologia antica
2. Alceste, ou le triomphe d’Alcide 1674 – mitologia antica (e tragedia: Euripide)
3. Thesée 1675 – mitologia antica
4. Atys 1676 – mitologia antica
5. Isis 1677 – mitologia antica
6. Psyché 1678 – mitologia antica
7. Bellérophon 1679 – mitologia antica
8. Proserpine 1680 – mitologia antica
9. Persée 1682 – mitologia antica
10. Phaéton 1683 – mitologia antica
11. Amadis 1684 – Epica rinascimentale: da Amadis de Gaula (pubbl.: 1508), poema cavalleresco di Garcia
Rodríguez de Montalvo (1450-1504)
12. Roland 1685 – Epica rinascimentale: da Orlando furioso (vers. definitiva 1532) di Ludovico Ariosto (1474-
1533)
13. Armide 1686 – Epica rinascimentale: da Gerusalemme liberata (1575) di Torquato Tasso (1544-1595)

95. Luigi XIV: “patente” concessa a Lully


Le scienze e le arti essendo gli ornamenti più ragguardevoli degli Stati, nessun divertimento ci è stato più
gradito – dopo di aver dato ai nostri popoli la pace – che di farle rivivere chiamando al nostro fianco tutti
coloro che hanno fama di eccellervi, non soltanto dentro i confini del nostro regno bensì anche all’estero. E
per indurli a perfezionarcisi ulteriormente li abbiamo onorati dei segni della nostra stima e benevolenza. E
giacché tra le arti liberali la musica tiene uno dei primissimi ranghi, allo scopo di farla vantaggiosamente
fiorire avevamo concesso (con lettera patente del 28 giugno 1669) al signor Perrin il permesso di istituire
nella nostra città di Parigi e in altre città del regno delle accademie di musica per cantare pubblicamente dei
drammi teatrali, come si fa in Italia, Germania e Inghilterra, per la durata di 12 anni. Ma essendo indi stati
informati che le cure e gli sforzi profusi dal signor Perrin in quest’impresa non hanno potuto assecondare
appieno la nostra intenzione e sollevare la musica al livello che ci eravamo prefissi, abbiamo creduto che per
meglio riuscirci sarebbe stato opportuno affidarne la guida a persona di cui ci siano note l’esperienza e le
capacità e che sia all’altezza di poter formare degli allievi esperti nel canto e nell’azione scenica nonché di
costituire complessi di violini, flauti e altri strumenti.
A tal fine, ben informati dell’intelligenza e delle grandi conoscenze che nella musica ha acquisito il nostro
caro e beneamato Jean-Baptiste Lully – che quotidianamente ce ne ha date e dà tanto gradevoli prove da
quando egli è al nostro servizio, e che abbiamo perciò onorato della carica di sovrintendente e compositore
della musica della nostra camera –, gli permettiamo e concediamo con la presente lettera firmata di nostro
pugno di istituire un’accademia reale di musica nella nostra città di Parigi, che sarà composta del numero e
della quantità di persone che egli reputerà opportuno, e che sceglieremo e registreremo sulla base delle
referenze che egli ce ne darà, per fare delle rappresentazioni al nostro cospetto (quando così ci piacerà) di
drammi in musica composti tanto di versi francesi che in altre lingue, a somiglianza delle accademie d’Italia.
E il signor Lully potrà goderne per tutta la sua vita, e dopo di lui quello dei suoi figli che assumerà
ereditariamente la suddetta carica di sovrintendente della nostra musica di camera, con facoltà di associarsi
a chiunque gli sembrerà opportuno per l’istituzione dell’accademia suddetta.
E per indennizzarlo delle grandi spese che gli converrà sostenere per le suddette rappresentazioni, tanto a
causa del teatro, delle macchine, delle scene e dei costumi quanto delle altre cose necessarie, gli concediamo
di dare in pubblico tutti i drammi che avrà composto, ivi compresi quelli che saranno stati rappresentati al
nostro cospetto, senza tuttavia che per l’esecuzione dei detti drammi egli si serva dei musicisti che sono alle
nostre dipendenze; come pure di richiedere quelle somme che riterrà opportune e di istituire delle guardie o
altri ufficiali agli ingressi dei luoghi dove si daranno le suddette rappresentazioni, facendo nel contempo
espressa proibizione a qualsiasi persona di qualsiasi qualità e condizione (ivi compresi gli ufficiali della
nostra corte) di accedervi senza pagare, come pure proibendo a chicchessia di far cantare qualsiasi dramma
integralmente in musica, tanto in francese quanto in altre lingue, senza il consenso scritto del signor Lully, a
rischio di una multa di 10000 lire e della confisca di teatri, macchine, scene, costumi e altre cose a beneficio
per un terzo nostro, per un terzo dell’ospizio generale e per un terzo del signor Lully; il quale potrà anche
istituire scuole private di musica nella nostra città di Parigi e dovunque egli reputi necessario per il bene e il
vantaggio della suddetta accademia reale. E giacché noi la istituiamo sul modello di quelle d’Italia, dove i
gentiluomini cantano pubblicamente in musica senza derogare alle convenienze nobiliari, vogliamo e
disponiamo che qualunque gentiluomo e madamigella possa cantare nei suddetti drammi e spettacoli nella
nostra accademia reale senza pregiudizio del titolo di nobiltà e dei loro privilegi, cariche, diritti e immunità.

96. Divértisséments

97. Bianconi: Air e Récit


[l’Air si distingue dal Récit] per la ripetizione più o meno frequente di uno o due versi particolarmente
espressivi, dal profilo melodico più risaltato (sono perlopiù ampie, enfatiche frasi in posizione cadenzale).

98. Lully (Quinault) - Armide


di Jean-Baptiste Lully (1632-1687), libretto di Philippe Quinault
Tragédie en musique in un prologo e cinque atti
Prima: Parigi, Opéra, 15 febbraio 1686. Prologo: la Gloire (S), la Sagesse (S), loro seguito
Personaggi: Armide, maga e nipote di Hidraot (S); Phénice e Sidonie, sue confidenti (S); Hidraot, mago e re di
Damasco (B); Renaud (T), le Chevalier Danois (T), Ubalde (B), Aronte (B), Artémidore (B), cavalieri cristiani;
Lucinde, Mélisse, dame amanti del Chevalier Danois e di Ubalde (S); la Haine (“l’Odio” B); un amante
fortunato (T); una pastorella (S); una naiade (S); popolo del regno di Damasco, naiadi, ninfe, pastori e
pastorelle, seguito della Haine, i Piaceri, gli Amanti fortunati.

Lo sfolgorante successo conseguito da Armide già alla sua prima rappresentazione, e la fama di
ineguagliabile modello assicurato per suo tramite a intere generazioni di compositori francesi, si protrasse
ben addentro il XVIII secolo: l’opera veniva data ancora nel 1764, appena tredici anni prima che Gluck si
cimentasse con lo stesso testo. D’altro canto il conservatorismo classicista della tradizione francese, che
tanto a lungo guardò retrospettivamente ai canoni lulliani, trova qui una delle sue più mirabili ragion
d’essere, per il grado di raffinata quanto spontanea fusione del testo con la musica e di entrambe con gli
eterogenei apporti – mimici, coreografici e spettacolari – chiamati a confluire nella complessa macchina
teatrale della tragédie lyrique.
Prologo. La Gloria e la Saggezza a dialogo, come due dame che si dividono equamente i favori del cuore di
Renaud, ne lodano gli eroismi in guerra e in pace; egli saprà trionfare, proclamano entrambe, anche sulle
tentazioni dell’amore.
Atto primo. Una grande piazza sormontata da un arco di trionfo. Armide si lamenta con le sue confidenti
Sidonie e Phénice: al momento del suo più grande trionfo, l’aver fatto innamorare di sé tutti i cavalieri
crociati, una profonda tristezza l’affligge. Renaud resta ancora insensibile alle lusinghe del suo fascino e
della sua bellezza. Per questo Armide lo ammira e lo odia al tempo stesso. La maga è sollecitata da Hidraot a
scegliersi uno sposo tra i grandi cavalieri che sono ai suoi piedi. Ma ella ribatte che solo chi saprà vincere
Renaud sarà degno di lei. Il trionfo di Armide viene celebrato con un esteso divertissement (marche, rondeau et
sarabande; I,3). I festeggiamenti sono interrotti dall’arrivo di Aronte: Renaud, con la forza del suo solo valore,
ha liberato i cavalieri cristiani prigionieri di Armide, che giura vendetta.
Atto secondo. Un’aperta campagna, ove un fiume forma un’isola amena. Renaud, bandito dal campo dei
cavalieri cristiani, è raggiunto dal fido Artémidore, che lo invita a farvi ritorno e a guardarsi dalle insidie di
Armide. Hidraot e Armide invocano le potenze infernali perché conducano in loro potere Renaud, vittima
designata. Renaud, solo, è sedotto dalle bellezze naturali dell’isola, si dice incapace di lasciarla e cade
addormentato. Qui Divértissément: Le potenze infernali inviate da Armide si manifestano sotto le forme
ingannatrici e attraenti di naiadi (ninfe delle acque dolci), ninfe, pastori e pastorelle che adornano il
dormiente con corone di fiori. Armide potrebbe ora celebrare la sua vendetta contro Renaud vinto dal sonno.
Si accinge a colpirlo, ma esita ed è presa dalla pietà: Renaud le appare «fatto non solamente per la guerra, ma
per l’amore». Ordina dunque alle schiere di demoni di trasformarsi in amabili zefiri, che conducano
entrambi sul suo carro fino ai più lontani confini del mondo.
Atto terzo. Un deserto. La collera di Armide si è mutata in languore: ora è la maga a trovarsi prigioniera di
Renaud, vinta da spontaneo amore per lui. L’amore di Renaud è invece una mera apparenza, si duole
Armide con Phénice e Sidonie, perché è solo il frutto dell’artificio indotto dall’incantesimo. Armide invoca
allora una seconda volta le potenze infere, affinché la salvino dall’amore. In risposta alla chiamata di Armide
compaiono l’Odio e il suo seguito, prontamente apprestandosi a spezzare e distruggere ogni vincolo
d’amore. Ma Armide comanda all’Odio di interrompere la sua opera, preferendo restare «sotto la legge del
suo dolce dominatore». L’Odio compiange la debolezza amorosa di Armide, che la condurrà «a un orribile
abisso», e la punisce del suo voltafaccia promettendole di lasciarla per sempre in preda del suo amore.
Atto quarto. Ubalde e le Chevalier Danois si dirigono verso il palazzo di Armide per liberare Renaud,
respingendo i mostri inviati contro di loro dalla maga. Ma costei ora scaglia contro di loro le lusinghevoli
forze dell’incantesimo amoroso, sotto le apparenze di Lucinde e Mélisse: ma al tocco dello scettro d’oro
donato da un mago ai cavalieri, a difesa dagli incantesimi, le «pericolose dolcezze delle illusioni amorose»
svaniscono.
Atto quinto. Il palazzo incantato di Armide. Renaud giace ai piedi di Armide, privo di armi e ricoperto di
ghirlande di fiori. La maga si allontana dall’amato per interrogare le potenze infernali e lo affida ai Piaceri e
agli Amanti fortunati. Ma Renaud respinge i Piaceri, desideroso solo del ritorno di Armide. Ubalde e le
Chevalier Danois, approfittando dell’assenza di Armide, mostrano a Renaud l’altro dono del mago: uno
scudo di diamante che gli permette di rinsavire. I cavalieri si accingono a lasciare l’isola, e la maga,
disperata, cerca in ogni modo di trattenere Renaud offrendosi sua prigioniera, cercando ora di minacciarlo
ora di impietosirlo. Ma Renaud resiste alle sue lusinghe e la lascia, non senza parole di compianto per la sua
infelice sorte. Armide, abbandonata, lamenta il proprio destino. Scaccia i Piaceri dal palazzo e ordina ai
demoni che venga distrutto, augurandosi che con esso resti sepolto anche il funesto amore per Renaud;
quindi si allontana sul suo carro volante.

Con Armide Lully e Quinault, il fedele librettista di undici delle sue tredici opere (se escludiamo due
pastorales-héroïques e l’incompiuta Achille et Polyxène), raggiungono esiti tra i più alti della loro lunga
collaborazione. Per meglio accostarsi alla grandezza di Armide, ispirato canto del cigno per il compositore
come per il poeta – Lully morirà un anno più tardi, Quinault rinuncerà al teatro non appena terminata la
stesura della tragedia – è bene ricordare che nella tragédie lyrique si realizzano valori teatrali in spiccata
divergenza dalla coeva opera italiana. Il canto virtuosistico dei castrati italiani e la netta giustapposizione
dell’aria al recitativo portano a svilire il valore della parola, laddove il peso schiacciante del teatro tragico
di Corneille e Racine imponeva a Lully, quale obbiettivo primario, il declamato del recitativo. Lully si trovò
così, paradossalmente, a dar voce a quegli ideali di classico equilibrio tra parola e musica coltivati anche
dall’opera italiana al principio del secolo, ma poi presto dimenticati. Il pubblico francese dell’epoca,
secondo un atteggiamento pressoché antitetico all’italiano, continuava ad andare all’opera non per la
musica, bensì in primo luogo per seguire le parole attraverso le quali un intreccio si sviluppava e infine si
scioglieva. Con l’opera italiana la tragédie lyrique condivide solo la ricerca del soprannaturale, da
ricavarsi con l’effetto del macchinario scenico, la sontuosità dei costumi e delle decorazioni; mentre vi
aggiunge un’altra risorsa sua peculiare, quella della danza. Sulla scia del tradizionale ballet de cour, fastoso
genere celebrativo in onore della maestà regale, la tragédie ne eredita i divertissements cantati e danzati. Di
regola, come in Armide, essi fungono da prologo ai cinque atti della tragédie, e inoltre un divertissement
doveva figurare in ciascun atto. In Armide i divertissements hanno un ruolo non secondario e di notevole
varietà, che spazia dal carattere decorativo del primo atto alla drammaticità della scena infernale nel terzo
alla maestosa, estesa passacaglia del quinto, pagina di un respiro sinfonico per l’epoca inusitato. Il rilievo
del tutto particolare conferito al recitativo dall’ideale estetico di Lully deriva dunque dal bisogno di
elevare l’arte musicale all’aulica dignità letteraria della tragedia: di questo processo, autentico atto di
nascita della tradizione operistica francese, Armide divenne a buon diritto uno dei più osannati archetipi. Nei
suoi scritti teorici Rameau esaltò il vigore rappresentativo dei suoi recitativi; e la loro qualità si può
compendiare nel sapiente muovere in costante e delicato equilibrio tra declamazione e melodia vera e
propria. Sono momenti che quasi si confondono con gli airs, ma se ne distinguono per l’assenza di ripetizioni
di parole e per la maggiore libertà di costruzione. Inoltre Lully ricorre spesso ai recitativi obligés che
comportano, nei frangenti più drammatici e appassionati come le invocazioni e i lamenti,
l’accompagnamento orchestrale. In Armide li troviamo per la maggior parte affidati alla protagonista, a
sottolineare la tumultuosa varietà dei sentimenti che senza sosta le si agitano in petto: dalla dolcezza
amorosa alla furia vendicativa e a quegli slanci patetici che, oltretutto, Quinault ebbe modo di accentuare
sapientemente rispetto al suo modello letterario (e l’intero terzo atto, per inciso, si deve al librettista). È il
caso dell’evocazione del sogno di Armide (I,1) o del celebre «Enfin, il est en ma puissance» (II,5), o ancora
delle sue terribili incertezze all’inizio del terzo atto e del conclusivo «Le perfid Renaud me fuit» (V,5) in cui,
come altrove, il conflitto che lacera l’animo della maga emerge in tutta la sua persuasiva veemenza
drammatica attraverso esclamazioni concitate e affannate, pause e stacchi di calibrata irregolarità ritmica. E
anche a Renaud sono riservate pagine nobili e rimaste famose, quali la sua “aria del sonno” («Plus j’observe
ces lieux», II,3), momento di placida e idilliaca serenità posto a necessario contrasto prima del furioso
monologo recitativo di Armide. A sostegno di un canto di nobile naturalezza, il tessuto dei violini in sordina
stende un uniforme panneggio di crome: delicata e arcadica pittura musicale dei mormorii delle acque che
cullano, con voluttuosa e costante ondulazione, il sonno del cavaliere.

99. Bianconi, il Gänsemarkt di Amburgo ed un sistema produttivo inefficiente


A Venezia la concorrenza teatrale fa lievitare i costi d’ingaggio dei cantanti, ma la pluralità dell’offerta e la
differenziazione dei cartelloni garantiscono un livello competitivo e l’interesse del pubblico. Ad Amburgo
l’unicità del teatro comporta una certa attenuazione dei costi (comunque vanificata dalla condizione
economicamente concorrenziale dei cantanti assunti nei teatri di corte): ma lo scadimento nella routine e
l’assuefazione del pubblico sono un rischio costante. Ancora più problematica è un’altra differenza rispetto
all’Italia: ad Amburgo il teatro è aperto non su base stagionale (come in Italia), bensì per tutto l’anno. Tolta la
quaresima, l’avvento, le feste religiose, i mesi estivi, l’opera è attiva ogni lunedì, mercoledì e giovedì da
gennaio a dicembre, per una media di un centinaio di rappresentazioni annue, e di suppergiù cinque (ma
anche dieci!) opere nuove all’anno. È questa una differenza che prefigura quella odierna tra le compagnie
operistiche stabili dei teatri tedeschi e l’effimero cast di divi e comprimari avventizi consueto nei teatri
d’opera italiani, tra le centinaia di repliche d’un allestimento berlinese e la mezza dozzina di repliche d’una
mess’in scena torinese.
Ma v’è una difficoltà: la breve stagione veneziana è, come s’è visto (cfr. § 22), funzionale alla circolazione dei
cantanti e delle partiture per tutt’Italia; invece la produzione continua della compagnia stabile di Amburgo
equivale a un blocco del circuito. Blocco che poi è nei fatti. I teatri d’opera che rappresentano in tedesco sono
pochi: il teatro di Braunschweig (1690-1749), a struttura impresariale ma voluto e patrocinato dal duca di
Braunschweig-Wolfenbüttel, attivo nelle fiere di carnevale e di san Lorenzo […]; il teatro di Lipsia (1693-
1720), un teatro pubblico attivo durante le tre fiere annuali e decisamente povero (la dotazione scenica
comprendeva in tutto e per tutto una «foresta», un «giardino di cipressi», una «sala», una «sala regia» e un
«inferno»!), istituito dal compositore Nikolaus Adam Strungk che ci rimise ogni sostanza; e il teatro di corte
di Weissenfels (1684-1736), retto dal maestro di cappella Johann Philipp Krieger (che aveva frequentato a
Venezia il vecchio Cavalli). Per ragioni di geografia e di politica e di calendario, uno scambio più o meno
regolare di personale e repertorio può svilupparsi soltanto tra Braunschweig e Amburgo:
Ma Amburgo-Braunschweig è un giro troppo esiguo per consentire il funzionamento a pieno regime di un
sistema produttivo che esige un mercato ben più espansivo e agile, un mercato che la Germania (a differenza
dell’Italia) non poté offrire. Tra i poli estremi di Vienna e di Amburgo, i modi in cui la Germania si
appropria dell’opera in musica sono troppi e troppo diversi. Data la scarsa coesione del fenomeno,
l’autocratico sistema viennese ha chances di sopravvivenza ben maggiori, tanto più che, adottato da altre
corti che furono centri operistici importanti (Dresda, Hannover, Monaco), esso sottrae spazio al sistema
«capitalistico» dell’opera amburghese, e lo mina costringendolo a un’autarchia insostenibile. Alla lunga, nel
quarto decennio del Settecento, l’opera in tedesco semplicemente si estingue, sostituita dappertutto
dall’opera italiana, prodotta nelle cappelle musicali (italiane) delle corti tedesche o importata dall’Italia e
distribuita alacremente dalle compagnie operistiche itineranti. Due anni dopo la chiusura definitiva
dell’opera tedesca stabile, nel 1740, il Gänsemarkt amburghese apre con successo all’opera italiana ed entra
stabilmente nel giro – un giro che va da Graz a Kopenhagen – della compagnia dei fratelli Mingotti.

100. Henry Purcell, The Fairy Queen (1692), «Oh, let me weep» (“The Plaint”) (1693)
O let me weep, for ever weep, O lasciatemi piangere, piangere per sempre,
My Eyes no more shall welcome Sleep; I miei occhi non daranno più il benvenuto al sonno;
I’ll hide me from the sight of Day, Io mi nasconderò alla vista del giorno,
And sigh, and sigh my Soul away. E sospiro, sospiro via la mia anima.
He’s gone, he’s gone, his loss deplore; Se n’è andato, se n’è andato, deploro la sua perdita;
And I shall never see him more. E non lo vedrò mai più.

101. Bianconi su «Oh, let me weep»


Di fonte italiana è […] l’emozione melodica profusa in un’aria-lamento come quella dell’atto V di The Fairy
Queen, su un basso ostinato che del consueto tetracordo discendente […] è una tortuosa, ingegnosa variante
(Re-Do♯-Re-Do♮-Do♮-Si-La-Si♭-Sol-La–Fa-Sol-La[-Re]). Ma va anche detto che questo brano di bravura (e di
commovente bellezza!) è messo lì a freddo, soltanto perché in quel punto della commedia shakespeariana,
nell’arrangiamento di fine Seicento, Oberon – il re delle fate – esprime il desiderio di sentir cantare un
«nobile lamento». (In realtà l’aria-lamento servì forse anche a guadagnare tempo per predisporre un
mutamento di scena mirabile, magicamente procurato da Oberon subito dopo il lamento: appare infatti sulla
scena un giardino cinese incantato, in cui si svolge il fantasmagorico masque conclusivo dello spettacolo).

102. Metastasio omaggia Zeno (1767)


[…] quando mancasse ancora al signor Apostolo Zeno ogni altro pregio poetico, quello di aver dimostrato
con felice successo che il nostro melodramma e la ragione non sono enti incompatibili, come con
toleranza, anzi con applausi del pubblico parea che credessero quei poeti ch’egli trovò in possesso del
teatro quando incominciò a scrivere, quello, dico, di non essersi reputato esente dalle leggi del verisimile,
quello di essersi difeso dalla contagione del pazzo e turgido stile allor dominante, e quello finalmente di
aver liberato il coturno dalla comica scurrilità del socco, con la quale era in quel tempo miseramente
confuso, sono meriti ben sufficienti per esigere la nostra gratitudine e la stima della posterità.

103. Metastasio: i libretti storicamente più importanti (anni ’20 e ’30)


Didone abbandonata (1724) · Siroe re di Persia (1726) · Catone in Utica (1728) · Ezio (1728) · Alessandro nell’Indie
(1729) · Semiramide riconosciuta (1729) · Artaserse (1730) · Demetrio (1731) · Adriano in Siria (1732) · Demofoonte
(1733) · L'Olimpiade (1733) · La clemenza di Tito (1734) · Achille in Sciro (1736).

104. Metastasio, Artaserse (I,2)


ARBACE
Ma quel pallore o padre,
quei sospettosi sguardi
m’empiono di terror. Gelo in udirti
così con pena articolar gli accenti;
parla; dimmi, che fu?
ARTABANO
Sei vendicato,
Serse morì per questa man.
ARBACE
Che sento!
Che facesti!
ARTABANO
Amato figlio, l’ingiuria
tua mi punse, son reo per te.
ARBACE
Che dici!
Per me sei reo? Mancava
questa alle mie sventure. Ed or che speri?
ARTABANO
Una gran tela ordisco,
forse tu regnerai. Parti, al disegno
necessario è ch’io resti.
ARBACE
Io mi confondo in questi
orribili momenti.
ARTABANO
E tardi ancora?
ARBACE
Oh dio!…
ARTABANO
Parti, non più, lasciami in pace.
ARBACE
Che giorno è questo, o disperato Arbace.
ARBACE
Fra cento affanni e cento
palpito, tremo e sento
che freddo dalle vene
fugge il mio sangue al cor.
Prevedo del mio bene (Il suo bene: Semira)
il barbaro martiro
e la virtù sospiro
che perse il genitor.
(parte)

105. Metastasio, Olimpiade (I,2)


LICIDA
Oh Dio!
Non perdiamo i momenti. Appunto è l’ora
Che de’ rivali atleti
Si raccolgono i nomi. Ah, vola al tempio;
Dì che Licida sei. La tua venuta
Inutile sarà se più soggiorni.
Vanne. Tutto saprai quando ritorni.
MEGACLE
Superbo di me stesso
Andrò portando in fronte
Quel caro nome impresso
Come mi sta nel cor.
Dirà la Grecia poi
Che fur comuni a noi
L’opre, i pensier, gli affetti
E al fine i nomi ancor.

106. Metastasio, Demetrio (II,12): l’addio di Alceste all’amata Cleonice


CLEONICE
Va’. Cediamo al destin. Da me lontano
vivi felice, il tuo dolor consola.
Poco avrai da dolerti
ch’io ti viva infedele anima mia.
Già da questo momento
io comincio a morir. Questo ch’io verso
fors’è l’ultimo pianto. Addio. Non dirmi
mai più che infida e che spergiura io sono.
ALCESTE
Perdono anima bella, oh dio, perdono.
Regna, vivi, conserva (s’alza e s’inginocchia)
intatta la tua gloria. Io m’arrossisco
de’ miei trasporti; e son felice appieno
se da un labro sì caro
tanta virtù, tanta costanza imparo.
CLEONICE
Sorgi, parti, s’è vero
ch’ami la mia virtù.
ALCESTE
Su quella mano,
che più mia non sarà, permetti almeno
che imprima il labro mio
l’ultimo bacio e poi ti lascio.
CLEONICE, ALCESTE
Addio.
ALCESTE
Non so frenare il pianto
Cara, nel dirti addio
Ma questo pianto mio
Tutto non è dolor.
È meraviglia, è amore,
È pentimento, è speme,
Son mille affetti insieme
Tutti raccolti al cor.

107. Metastasio, frontespizio dell’Olimpiade (1733)


Clistene, re di Sicione, padre d’Aristea · Aristea, sua figlia, amante di Megacle · Argene, dama cretense in
abito da pastorella sotto nome di Licori, amante di Licida · Licida, creduto figlio del re di Creta, amante
d’Aristea ed amico di Megacle · Megacle, amante d’Aristea ed amico di Licida · Aminta, aio di Licida ·
Alcandro, confidente di Clistene.

108. Metastasio, Olimpiade – trama


ATTO PRIMO. Nei boschi attorno alla città greca di Olimpia, Licida, creduto figlio del re di Creta, attende
impaziente in compagnia del precettore Aminta l’arrivo dell’amico Megacle. Con quest’ultimo ha
disposto un piano: poiché il vincitore delle imminenti olimpiadi avrà in premio la mano della principessa
Aristea, Licida ha convinto Megacle, che gli deve la vita (antefatto: a Creta Licida aveva salvato Megacle
da un'aggressione di «masnadieri»), a gareggiare sotto falso nome in vece sua e ottenere per lui il premio
tanto ambito. Megacle, che nel frattempo è giunto, parte per la sua missione, mentre Licida stenta a
frenare la sua impazienza (“Quel destrier, che all’albergo è vicino”). Nella campagna nei pressi di Olimpia
fa la sua apparizione in incognito, tra i pastori e le ninfe del luogo, Argene, una ragazza cretese cui Licida
aveva promesso il suo amore. Incontra Aristea e le narra la sua lacrimevole storia. Dopo l’abbandono
dell’amante, è stata spinta dal re a sposare Megacle; per sfuggire a questa sorte ha lasciato Creta,
determinata a ritrovare Licida. Aristea allora le confessa di essere innamorata di Megacle. Giunge intanto
il re Clistene, padre di Aristea, annunciando l’imminenza delle gare: sconfortata per il destino che
l’aspetta, Aristea prega Argene di recarle qualche notizia di Megacle. In un secondo incontro con Licida,
Megacle apprende con angoscia lo scopo del piano dell’amico: dapprima chiede a Licida di lasciarlo
riposare (“Mentre dormi, Amor fomenti”), quindi, rimasto solo, è in preda al dubbio se onorare l’amore
verso Aristea o l’amicizia verso Licida. Casualmente i due amanti si incontrano: Megacle, tuttavia, non
può rivelare ad Aristea il motivo del suo turbamento. Si approssima intanto il momento della gara (duetto
“Nei giorni tuoi felici”).

109. Olimpiade: situazione del primo atto

ATTO SECONDO. Aristea e Argene vengono informate da Alcandro dell’esito della gara. La vittoria è
toccata a Licida (Megacle, in verità); ad Aristea resta il dolore più amaro (“Grandi, è ver, son le tue pene”).
Aminta, che incontra Argene, riflette sull’insensatezza dell’amore giovanile e sulle follie di ogni età
(“Siam navi all’onde algenti”). Il re Clistene proclama vincitore dei giochi Megacle, che chiede di sposare
Aristea solo una volta giunto a Creta e l’affida nel frattempo a Licida, presentato come suo servo. Il
colloquio è interrotto dall’arrivo di Aristea, che scopre con gioia essere Megacle il vincitore. Quando i due
amanti restano soli, Megacle chiarisce definitivamente la situazione. Aristea, oppressa dal dolore, sviene.
Per non esasperare la propria e altrui disperazione, Megacle decide di partire prima che Aristea riprenda i
sensi e affida a Licida un enigmatico addio per la ragazza (“Se cerca, se dice”). Trovando Licida di fronte a
sé, Aristea reagisce con sdegno (“Tu me da me dividi”). Dopo che il principe – Licida – ha subìto anche la
furia della respinta Argene, Aminta gli porta la tragica notizia dell’annegamento dell’infelice Megacle. Il
re inoltre condanna Licida all’esilio per la disonestà, smascherata, da egli tenuta nella gara. Disperato,
questi non trova nemmeno il coraggio di uccidersi (“Gemo in un punto e fremo”).
ATTO TERZO. Megacle è stato salvato da un pescatore. Ancora deciso a morire, incontra Aristea e quindi
Alcandro, che gli narra dell’attentato contro il re: Licida si è avventato con la spada sguainata contro il
sovrano, ma, preso dal rimorso, si è fermato prima di colpire ed è stato imprigionato. Condannato a
morte, dal carcere invoca continuamente Megacle. Aristea offre di intercedere per lui presso il padre.
Inutilmente però. È imminente il sacrificio del colpevole, e gli altri personaggi si preparano al tragico
evento (Argene: “Fiamma ignota nell’alma mi scende”; Aminta: “Son qual per mare ignoto”). Di fronte al
tempio di Giove olimpico si appresta il sacrificio: Licida chiede di rivedere Megacle prima di morire,
mentre il re si sente stranamente turbato (“Non so donde viene”). Commossi, i due amici si incontrano
brevemente. Il sacrificio viene però interrotto dall’irruzione di Argene, che si offre come vittima in
sostituzione di Licida. Mostra allora un monile che questi le ha donato: esterrefatto, Clistene lo riconosce
come appartenente a suo figlio Filinto, abbandonato da bambino. Alcandro confessa allora di non aver
fatto annegare il bimbo che gli era stato affidato, ma di averlo consegnato ad Aminta. Clistene ha dunque
ritrovato in Licida il fratello di Aristea; e tuttavia deve eseguire la condanna. Provvidenziale giunge però
la notizia che la giornata in cui Clistene governava a Olimpia è ormai trascorsa: il re non è più dunque
competente sul reo. Il popolo decide allora di assolvere Licida.

110. Olimpiade: scioglimento

111. Metastasio: non esiste poesia senza musica (1767)


Io non conosco poesia senza musica; […] le nostre arie non sono inventate da noi; […] i Greci cambiavano
anch’essi di tratto in tratto la misura de’ versi e mescolavano le strofe, le antistrofe e gli epodi; […] a
seconda delle passioni davano occasione a quella musica periodica che distingue le arie dal resto: onde si
sono sempre distinti i cantici da’ diverbi, come si distinguono ora le arie da’ recitativi.

112. Metastasio: pregi e limiti della musica (1766)


arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre da sé sola portenti, ed abile, quando
voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze, non solo di secondare ed
esprimere con le sue imitazioni, ma d’illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano.

113. Metastasio, Artaserse (1730): diagrammi strutturali


114. Metastasio, Didone abbandonata (II,10)
SELENE
Stolta! per chi sospiro? Io senza speme
perdo la pace mia. Ma chi mi sforza
in vano a sospirar? Scelgasi un core
più grato a’ voti miei. Scelgasi un volto
degno d’amor. Scelgasi… Oh Dio! la scelta
nostro arbitrio non è. Non è bellezza,
non è senno o valore,
che in noi risvegli amore: anzi talora
il men vago, il più stolto è che s’adora.
Bella ciascuno poi finge al pensiero
la fiamma sua, ma poche volte è vero.
Ogni amator suppone
che della sua ferita
sia la beltà cagione,
ma la beltà non è.
È un bel desio, che nasce
allor che men s’aspetta;
si sente che diletta,
ma non si sa perché.

115. Metastasio, Demofoonte (II,8)


CREUSA
Se immaginar potessi,
Cherinto, idolo mio, quanto mi costa
questo finto rigor che sì t'affanna,
ah forse allor non ti parrei tiranna.
É ver che di Timante
ancor sposa non son; facile è il cambio;
può dipender da me: ma, destinata
al regio erede, ho da servir vassalla
dove venni a regnar? No, non consente
che sì debole io sia
il fasto, la virtù, la gloria mia.
Felice età dell’oro,
bella innocenza antica,
quando al piacer nemica
non era la virtù.
Dal fasto e dal decoro
noi ci troviamo oppressi;
e ci formiam noi stessi
la nostra servitù.
116. Metastasio, Demofoonte (I,8)
CHERINTO
Oh dei! Perché tanto furor? Che mai
Le avrà detto il german? Voler ch’io stesso
Nella fraterne vene… Ah! che in pensarlo,
Gelo d’orror. Ma con qual fasto il disse!
Con qual fierezza! E pur, quel fasto e quella
Sua fierezza m’alletta: in essa io trovo
Un non so che di grande,
Che, in mezzo al suo furore,
Stupir mi fa, mi fa languir d’amore.
Il suo leggiadro viso
Non perde mai beltà:
Bello nella pietà,
Bello è nell’ira.
Quand’apre i labbri al riso,
Parmi la dea del mar;
E Pallade mi par
Quando s’adira.

117. Vivaldi, Olimpiade (1734): aria “Gemo in un punto e fremo” (II,15)


LICIDA
Gemo in un punto e fremo
fosco mi sembra il giorno
ho cento larve [affanni] intorno
ho mille furie in sen.
Con la sanguigna face
m’arde Megera in petto,
m’empie ogni vena Aletto
del freddo suo velen.

118. Vivaldi, Olimpiade (1734): aria “Più non si trovano” (I,7)


ARGENE
Dunque Licida ingrato
Già di me si scordò! Povera Argene,
A che mai ti serbar le stelle irate!
Imparate, imparate,
Inesperte donzelle. Ecco lo stile
De’ lusinghieri amanti. Ognun vi chiama
Suo ben, sua vita e suo tesoro: ognuno
Giura che, a voi pensando,
Vaneggia il dì, veglia le notti. Han l’arte
Di lagrimar, d’impallidir. Tal volta
Par che su gl’occhi vostri
Voglian morir fra gli amorosi affanni:
Guardatevi da lor, son tutti inganni.
Più non si trovano
Fra mille amanti
Sol due bell’anime
Che sian costanti,
E tutti parlano
Di fedeltà.
E il reo costume
Tanto s’avanza,
Che la costanza
Di chi ben ama
Ormai si chiama
Semplicità.

119. TIPOLOGIA DELLE ARIE

1. Criteri Tecnici
Aria di bravura
Aria cantabile
Aria presta
Aria parlante

Pergolesi, L’Olimpiade (1735) “Se cerca, se dice”


MEGACLE
Se cerca, se dice:
“l’amico dov’è?”
“l’amico infelice”,
rispondi, “morì”.
Ah no! sì gran duolo
non darle per me:
rispondi, ma solo:
“piangendo partì”.
Che abisso di pene
lasciare il suo bene,
lasciarlo per sempre
lasciarlo così.

2. Criteri contenutistici
Aria di paragone
Aria del sonno
Aria con catene
Aria d’ombra
Aria di caccia (con corno concertante)
Aria di zefiro
Aria di tempesta
Aria di guerra

Händel, Rinaldo (1711 succ. rev.), “Or la tromba” – III,9


RINALDO
Or la tromba in suon festante
Mi richiama a trionfar.
Qual guerriero e qual amante,
Gloria e amor mi vuol bear.

3. Criteri affettivi
Aria di furore
Aria di vendetta
Aria d’amore
Aria patetica
Aria di mezzo carattere

4. Criteri sociologico / funzionali


Aria di sorbetto
Aria di baule

120. Carl Dahlhaus: affetto e carattere


Le due concezioni del pathos come morbo e come perturbazione coincidevano nella psicologia antica, che –
tenacemente sopravvissuta a se stessa nell’opera in musica – le intendeva come una forza esteriore capace
d’impossessarsi dell’uomo, cui l’infliggono gli dèi o i dèmoni. L’animo non è il grembo dove nascono, bensì
l’arena ove si scatenano gli affetti. Pari pari, capita ben spesso che le passioni si avvicendino brusche in seno
ad una stessa persona, senza che un carattere unitario e coerente le medî o le contemperi. Nel dramma per
musica settecentesco, poniamo in Händel, è tutt’altro che inconsueto – e sotto il profilo estetico tutt’altro che
indecente – vedere come un tiranno dominato dagli affetti del timore e del furore, alla vista d’un locus
amœnus s’abbandoni ad un tono canoro pastorale che parrebbe semmai più consono ad un pastore arcadico.
Che i personaggi teatrali cadano in balìa dello scatenamento di affetti estremi cui non contrappongono il
freno d’un carattere saldo ed unitario, comporta, in termini musicali, un divario tra la rigida compattezza
delle singole arie e la fungibile incoerenza delle arie di ciascun personaggio: il che parve, all’estetica classico-
idealistica, un difetto del dramma barocco e della sua drammaturgia, sopravvissuta nell’opera in musica più
a lungo che nel dramma letterario. La critica fu tanto più acre per le sue implicazioni socio-politiche – la
continuità del carattere, a tutela dell’affidabilità e dell’attendibilità, è un requisito essenziale del mercante
borghese –, ma anche perché aveva scarso fondamento, radicata com’era in un’utopia antropologica anziché
in un’adeguata coscienza della realtà.
L’uomo esprimerebbe un’ininterrotta continuità del carattere, senza abbandonarsi alla mercé degli affetti
alterni suscitati dalle varie situazioni in cui incappa: così vuole un postulato dell’umanesimo borghese, che
sta però in palese contraddizione con la realtà psicologica. Anche l’idea del carattere in continua evoluzione,
dove indole interiore e circostanze esteriori concorrono a rinsaldare l’etos – oppure a sgretolarlo, come nella
stravinskiana Carriera d’un libertino –, è un’idea poetica che s’incarna sì nel tipo dell’Entwicklungsroman
[“Romanzo di formazione”] (dove l’eroe subisce, in positivo o in negativo, un’evoluzione) ma trova scarso
riscontro nella realtà. La drammaturgia barocca è dunque più “realistica” di quanto non volesse ammettere
l’estetica idealistico-borghese, senza con questo voler erigere il quoziente di verità antropologica a istanza
suprema del giudizio estetico: la censura del barocco e la controcensura del classicismo vengono a dire che,
di due premesse reciprocamente incommensurabili, l’una vale l’altra quanto a legittimità estetica.

121. Pier Jacopo Martello, Dialogo della Tragedia antica e moderna o sia L’impostore (1714-1715)
L’uso comanda che il tuo melodramma sia diviso in tre atti, perché, se in cinque lo partirai, potresti far credere di voler
esporre al popolo una tragedia, e ti faresti debitore follemente di quelle regole che in nessuna maniera potresti poi
osservare. […] Nell’atto primo sarà tua cura il preparar gli ascoltanti all’intreccio, dando loro la necessaria notizia degli
eroi che battono il palco, degli antefatti opportuni alla cognizione, […] e facendo la prima mostra de’ caratteri, almeno
de’ principali, che dovranno intervenire all’azione, […]
Nel secondo atto tu dei pensare al viluppo tanto delle azioni quanto delle passioni. […] Le passioni sien varie, ed
opposte. Se puoi, l’odio si contrapponga all’amore, l’amore all’odio. l’ira vi abbia ancor la sua parte; ma l’amorosa
passione di tutte le altre trionfi; e le altre non servano che a far spiccar questa, la quale, essendo la più comune a tutti gli
uomini, si vede rappresentata più volentieri, […]
Nel terzo atto pensisi allo sviluppo, o sia scioglimento, e sia pur anche per macchina, se lo permetterà l’impresario […].
Vi sieno agnizioni e peripezie. […] Le peripezie sieno sempre di mesta in lieta fortuna, nella quale termini il
melodramma per lo mezzo degl’imenei. Ed in questo scioglimento i personaggi virtuosi restin premiati con meritata
felicità, e i viziosi rimangan puniti con severità; che mai non arrivi alla morte, non volendosi le morti in questi
spettacoli creati per rallegrare, non per contristar gli ascoltanti.
Sbrigato dall’economia dell’azione compartita alla misura degli atti, dei già pensare a dividere ciaschedun atto in scene;
e qui non avrai già a sudar poco. Primieramente dovrai avvertire quanti sieno i principali cantanti, per farli operare
egualmente, altrimenti quai liti invincibili fra quelle balde fanciulle e que’ rigogliosi castrati! Dei ancora aver riguardo
alle voci, intrecciandole in modo che aiutino e non distruggano l’intenzione del compositor della musica. Però ti esorto,
avanti di tagliare in scene il panno degli atti, a mostrarlo al compositore, ed interrogarlo qual voce, secondo il suo gusto,
tu debba accoppiare a principio, a mezzo e sulla fine di ogni atto. Dei però convenire col compositore, ed egli consentirà
facilmente, che ciaschedun atto contenga una di quelle che si chiamano scene di forza, o per qualche violento ed insolito
impegno di passioni contrarie, o per qualche incontro ed avvenimento non aspettato dagli uditori.
[…]
Non ti rimarrà che il mettere in versi il tuo dramma. Egli si vuole tutto diviso in recitativo ed in ariette, o le diciam
canzonette. Ogni scena dee contenere o solo recitativo, o sola arietta, o per lo più l’uno e l’altra. Tutto ciò ch’è racconto, o
espressione non concitata, dovrebbe esprimersi in verso recitativo; ma ciò che ha la mossa della passione, o contrassegna
non so che di più violento, inclina più volentieri alla canzonetta.
Il recitativo si ama tanto breve che non addormenti col tedio, e tanto lungo che non generi oscurità […]. Questo dovrà
chiudersi in versi di sette e di undici sillabe, alternati e misti, secondoché caderà più acconcio.
[…]
Le canzonette sono o semplici o composte. Semplici direm quelle che a voce sola, composte quelle che a due o che a più
voci si cantano. Quelle a due voci nomineremo duetti; quelle a più voci si chiamino cori. Le arie semplici, alcune diremo
escite, altre ingressi, ed altre medie. Le escite si adopreranno quando un personaggio esce in scena […]. Ma di queste ti
varrai parcamente. Con la medesima cautela è d’uopo valersi delle medie, perché riescono fredde ogni volta che a mezzo
una scena gli attori muti sono obbligati a star così ritti ad udire l’attore che canta a tutt’agio, e però in queste vi vuole un
necessario accompagnamento di azione, che almeno costringa gli altri attori a qualche atto che non li lasci interamente
oziosi, e allora producono un ottimo effetto. […] Gl’ingressi [dietro le quinte] debbono chiudere ogni scena, e un
musico non dee mai partire senza un gorgheggiamento di canzonetta. Siasi o non siasi verisimile, poco importa.
Troppo solletica quel sentire la scena terminata con spirito e con vivezza.
[…]
I duetti nel mezzo di una scena si ascoltano volentieri, perché danno una azione reciproca a più di un attore, e ne amerei
ancor uno nel fine del secondo atto. I cori nel fine dell’ultimo atto sono inevitabili, godendo il popolo di ascoltare
insieme unite tutte quelle voci, a ciascheduna delle quali separatamente nel corso del melodramma ha applaudito, e lo
strepito de’ cantanti e degli strumenti fa che tutti si levino in piedi e partano ripieni ed allegri degli ascoltati concenti con
desiderio di ritornare.
[…]
Queste ariette, o sien canzonette, si debbono compartir di maniera che i cantanti di maggior credito ne abbiano
numero eguale, essendo invincibili e puntigliose le competenze de’ musici, ed essendo ancor utile al recitamento del
dramma che le migliori voci facciano pompa eguale di sé medesime all’orecchio dell’uditorio. […]
Ma ti sia ben a cuore che in ciaschedun’aria vi sia l’intercalare [= il “da capo”] Intercalare chiamano i professori la
prima parte dell’aria, che poi ripetesi dal cantore, essendo che in questi facendo il compositore brillar l’artificio delle sue
note, ha piacer ch’ella si replichi. Ne gode altresì il musico [= il cantante, che può mostrare la propria abilità nella
variazione] e ne gode ugualmente il popolo.
Le costruzioni si vogliono agevoli, i periodi chiari e non lunghi, le parole piane e vezzose, le rime non ispide, i versi
correnti e teneramente sonori. Ti raccomando nelle arie qualche comparazione di farfalletta, di augelletto o di
ruscelletto: queste son tutte cose che guidano l’idea in non so che di ridente, che la ricrea […]; ed il compositor della
musica sempre vi si spazia con avvenenza di note. […]
Mettiti ancora in capo che nelle arie quanto più le proposizioni son generali, tanto più piacciono al popolo per ché,
trovandole o verisimili o vere, se ne fa un capitale per valersene onestamente con la sua donna, cantandole nelle
occasioni che di giorno in giorno avvengono agli amanti, di gelosie, di sdegni, di promesse reciproche, di lontananza e
simili.
[…]
La poesia è uno di que’ signori caduti in bassezza e costretti dalla necessità del guadagno a servire. Non si è scordato
ancora l’orgoglio del comandare, e mal si adatta alla presente fortuna. Ma quando si serve, si è servidore; e in questa
linea opera onoratamente la poesia, niente comandando e solo ubbidendo alla musica, che in teatro n’è la padrona.
[…]
E questa musica poi è una delle arti più maravigliose e perfette dell’universo, che non perisce alla posterità, né con gli
autori, né con le voci, né con gli strumenti. La sola musica ridotta all’atto [= attuata] contiene il segreto importantissimo
di separar l’anima da ogni umana cura per quello spazio almeno di tempo in cui le note possono trattenerla,
maneggiando artificiosamente la consonanza, sia delle voci o degli strumenti. Ché se tanto si loda il sonno, perché i sensi
della miserabile umanità legando, li astrae e li rende per poche ore immuni dalle sventure, quanto sarà mai più
pregevole un’arte che, senza sospenderci l’uso del vivere come fa il sonno, detto perciò fratel della morte, ci fa vivere
estatici in una quiete deliziosa e contenta, co’ sensi veglianti, ma lieti e veramente felici?
122. Metastasio a Niccolò Jommelli (1765)
Mi è stato carissimo il prezioso dono delle due arie magistrali che vi è piaciuto inviarmi; e, per quanto si
stende la mia limitata perizia musicale, ne ho ammirato il nuovo ed armonico intreccio della voce con
gl’istrumenti. L’eleganza di questi, non meno che delle circolazioni, e quella non comune integrità del tutto
insieme, le rende degne di voi. Confesso, mio caro Jomella, che questo stile m’imprime rispetto per lo
scrittore; ma voi, quando vi piace, ne avete un altro che s’impadronisce subito del mio cuore senza bisogno
delle riflessioni della mente […]. Ah, non abbandonate, mio caro Jomella, una facoltà nella quale non avete e
non avrete rivali! Nelle arie magistrali potrà qualcuno venirvi appresso con l’indefessa e faticosa
applicazione; ma per trovar le vie del cuore altrui bisogna averlo formato di fibra così delicata e sensitiva
come voi l’avete, a distinzione di quanti hanno scritto note finora. È vero che, anche scrivendo in questo
nuovo stile, voi non potete difendervi di tratto in tratto dall’espressione della passione che il vostro felice
temperamento vi suggerisce; ma obbligandovi l’immaginato concerto ad interrompere troppo
frequentemente la voce, si perdono le tracce de’ moti che avevate già destati nell’anima dell’ascoltante, e per
quella di gran maestro trascurate la lode di amabile e potentissimo mago.

123. Metastasio e le arie di bravura (1765)


Quando la musica, riveritissimo signor cavaliere, aspira nel dramma alle prime parti in concorso della
poesia, distrugge questa e se stessa […]. Le arie chiamate di bravura, delle quali condanna ella da suo pari
l’uso troppo frequente, sono appunto lo sforzo della nostra musica, che tenta sottrarsi all’impero della
poesia. Non ha cura in tali arie né di caratteri, né di situazioni, né di affetti, né di senso, né di ragione; ed
ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualche gorga imitatrice de’ violini e degli usignoli,
ha cagionato quel diletto che nasce dalla sola maraviglia, ed ha riscossi gli applausi che non possono a buona
equità esser negati a qualunque ballerino di corda, quando giunga con la destrezza a superar la comune
espettazione. Superba la moderna musica di tal fortuna, si è arditamente ribellata dalla poesia, ha neglette
tutte le vere espressioni, ha trattate le parole come un fondo servile obbligato a prestarsi, a dispetto del senso
comune, a qualunque suo stravagante capriccio, non ha fatto più risuonare il teatro che di coteste sue arie di
bravura, e con la fastidiosa inondazione di esse ne ha affrettato la decadenza, dopo aver però cagionata
quella del dramma miseramente lacero, sfigurato e distrutto da così sconsigliata ribellione. I piaceri che non
giungono a far impressione su la mente e sul cuore sono di corta durata, e gli uomini, come corporei, si
lasciano, è vero, facilmente sorprendere dalle improvvise dilettevoli meccaniche sensazioni, ma non
rinunzian per sempre alle qualità di ragionevoli. In fine è ormai pervenuto questo inconveniente a così
intollerabile eccesso, che o converrà che ben presto cotesta serva fuggitiva si sottoponga di bel nuovo a
quella regolatrice che sa renderla così bella, o che, separandosi affatto la musica dalla drammatica poesia, si
contenti quest’ultima della propria interna melodia, di cui non lasceran mai di fornirla gli eccellenti poeti, e
che vada l’altra a metter d’accordo le varie voci d’un coro, a regolare l’armonia d’un concerto, o a secondare
i passi d’un ballo, ma senza impacciarsi più de’ coturni.

124. Reinhard Strohm


Non c’è stata alcuna riforma.

125. Polemiche sull’opera

Arie: contenuti
L’ariette non dovranno aver relazione veruna al recitativo, ma convien fare il possibile d’introdurre nelle
medesime per lo più farfalletta, mossolino, rossignuolo, quagliotto, navicella, copanetto, gelsomino,
violazotta, cavo rame, pignatella, tigre, leone, balena, gambaretto, dindiotto, capon freddo, etc. etc. etc.,
imperciocché in tal maniera il poeta si fa conoscere buon Filosofo distinguendo cò paragoni le proprietà
degli Animali, delle Piante, de’ Fiori, etc. BENEDETTO MARCELLO, Il Teatro alla moda, 1720.

Arie: vocalizzi, virtuosismo, rapporto con il testo, espressività (arie “parlanti”)


Se nell’Arie vi entrassero Nomi propri, verbigrazia Padre, Impero, Amore, Arena, Regno, Beltà, Lena, Core,
etc., etc., no, senza, già, ed altri adverbi, dovrà il Compositore moderno comporvi sopra un ben lungo
Passaggio: v.g. Paaaa… Impeeee… Amoooo… Areeee… Reeee… Beltaaaa… Lenaaaa… Coooo… etc.,
Noooo… Seeeen… Giaaaa… etc. E ciò per allontanarsi dall’antico Stile, che non usava il Passaggio su Nomi
propri o sopra Adverbi, ma bensì sopra parole significanti qualche passione o moto, v.g. tormento, affanno,
canto, volar, cader, etc. etc. etc.;
[…]
Avverta la VIRTUOSA di prolungar nelle Ariette per lo più l’ultime Sillabe d’ogni Parola v.g. Dolceeee…
favellaaaa… quellaaaa… orgoglioooo… sposoooo… etc. etc. (BENEDETTO MARCELLO, Il Teatro alla moda, 1720)

Le arie teatrali non soffrono le tante repliche d’alcune loro parole e d’alcuni loro versi, come vezzo suol
essere de’ nostri compositori, i quali con una disordinata ripetizione delle medesime parole fanno d’una
brevissima aria una lunghissima filastrocca. Quel tanto ripetere vocem prodigaliter unam oltre a raffreddare il
sentimento colla svenevolaggine sua, talvolta non ha significato alcuno, e talaltra prende un significato tutto
opposto a quello che hanno le medesime parole nell’ordine, che ad esse assegnò il poeta (ANTONIO PLANELLI,
Dell’opera in musica, 1772).

Chi nell’Arie dà più negli acuti è il più bravo, cioè il meno melodioso. […] E quelle eterne ripetizioni di
parole, di versi, di parti intralciate, scombussolate, rimescolate, che laberinto non sono esse mai? Le parole
non vanno replicate se non con quell’ordine che detta la passione.
La prima parte dell’aria suol essere un fuoco artificiale, la seconda poi una gnagnera [lamento, capriccio,
insulsaggine], da cui si ritorna alla prima parte, la quale (caschi il mondo) si ha da replicare quattro volte
interamente, e separatamente in frastagli senza numero. (FRANCESCO MILIZIA, Trattato completo formale e
materiale del teatro, 1794).

Se tacessero i trilli, dove parlano le passioni, e la Musica fosse scritta come si conviene, non vi sarebbe
maggior disconvenienza che uno morisse cantando, che recitando de’ versi. […] Quelle repetizioni poi di
parole e quegli accozzamenti fatti soltanto in grazia della musica e che non formano senso veruno, quanto
non sono essi mai noiosi ed insoffribili? Le parole non si vogliono replicare, se non con quell’ordine che detta
la passione e dopo finito il senso intero dell’aria, e il più delle volte non si dovrebbe neppure dir da capo la
prima parte; ch’è uno de’ trovati moderni, e contrario al naturale andamento del discorso e della passione, i
quali non si ripiegano altrimenti in se stessi e dal più non tornano al meno.
Si rimangono scolpite nella memoria dell’universale quelle arie che dipingono o esprimono, che chiamansi
parlanti, che hanno in sé più di naturalezza; e la bella semplicità, che sola può imitar la natura, viene poi
preferita a tutte le più ricercate conditure dell’arte. (FRANCESCO ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica,
1755)

«Perversa razza de’ cantanti»


(Parole di ANTONIO EXIMENO, Dell’origine e delle regole della musica, Roma, 1774)
[I virtuosi] pensano […] che tutta la scienza stia nello isquartar la voce, in un saltellar continuo di nota in
nota, non in isceglier quello che vi ha di migliore, ma in eseguire ciò che vi ha di più straordinario e difficile.
[…] La vera arte prescrive che uffizio del cantore sia cantare, non gorgheggiare ed arpeggiar le ariette. E per
essi non rimane che, quando bene la musica fosse bella e costumata, non riuscisse stemperata e leziosa. Per
non avere appreso o per non seguire i veri modi del cantare, adattano le stesse grazie musicali ad ogni sorta
di cantilena, e co’ loro passaggi, co’ loro trilli, colle loro spezzature e volate, fioriscono, infrascano,
disfigurano ogni cosa: mettono quasi una lor maschera sul viso della composizione, e arrivano a far si che
tutte le arie si rassomigliano, in quella guisa che le donne di Francia, con quel loro rossetto e con que’ tanti
lor nei, paiono tutte di una istessa famiglia. (FRANCESCO ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica, 1755)

Recitativo e recitativo accompagnato


Il maestro di cappella non si dà gran pena attorno à recitativi, persuaso ch’essi non possano a verun patto
dilettar gli uditori. Ma egli va errato. Se gli uditori s’annoiano d’uno stile recitativo, cotal noia non procede
dalla natura di questo stile, ma dal poco studio che fanno sopra di esso i moderni maestri di cappella.
(ANTONIO PLANELLI, Dell’opera in musica, 1772)
E pare oggimai che i nostri compositori sieno venuti in parere che i recitativi non meritino il pregio che vi si
ponga grande studio, non potendosi aspettare ch’e’ siano altrui di molto diletto cagione. […] Una qualche
commozione egli sembra che cagioni presentemente il recitativo, quando esso sia obbligato, come soglion
dire, e accompagnato con istrumenti. E forse non disconverrebbe che una tale usanza si facesse più comune
ancora ch’ella non è. […] Un altro buon effetto seguirebbe da simile usanza: che non ci saria allora tanta la
gran varietà e disproporzione tra l’andamento del recitativo e l’andamento delle arie, e verrebbe a risultarne
un maggior accordo tra le differenti parti dell’Opera. (FRANCESCO ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica,
1755).

Ouverture
[Una] strombazzata, diciamo così, con che si abbiano a riempire d’avanzo e ad intronare gli orecchi
dell’udienza. (FRANCESCO ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica, 1755).
La Sinfonia è l’apertura, ed insieme il primo inconveniente della nostra Opera. Un paio d’allegri, un grave,
uno strepito da assordire sono gli ingredienti d’ogni Sinfonia. Chi ne ha sentita una le ha sentite tutte. È
sempre una insignificanza, che si permette ad ogni dramma. (FRANCESCO MILIZIA, Trattato completo formale e
materiale del teatro, 1794).

126. Gallarati: intellettualismo di Gluck («emozione dell’intelletto»)


Gluck [sostiene Gallarati] è la più compiuta realizzazione musicale di un conflitto di idee inteso nella sua
purezza intellettuale: è l’affermazione dell’illuminismo contro i fronzoli decorativi del rococò, è il principio
di natura, la schiettezza univoca dei sentimenti, la forza del richiamo etico che si impongono in tutta la loro
carica di novità dirompente. Come si possa abbracciare passionalmente un’idea filosofica e darle vita
artistica attraverso il suono: questo è il fascino forse più vero di Gluck.

127. Alceste (Parigi 1776 – Vienna 1767), aria «Divinités du Styx»

128. Gluck, Don Jouan (1761) finale - (o Air des Furies in Orphée et Eurydice)

129. Le tre opere “riformate” di Gluck


Orfeo ed Euridice (1762)
Alceste (1767)
Paride ed Elena (1770)

130. Alceste (1767) – Prefazione (1769)


Quando presi a far la musica dell’Alceste mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi che introdotti o
dalla malintesa vanità dei cantanti o dalla troppa compiacenza dei maestri, da tanto tempo sfiguravano
l’opera italiana, e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli ne fanno il più ridicolo e il più noioso.
Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia per l’espressione e per le situazioni della
favola senza interrompere l’azione o raffreddarla con degli inutili superflui ornamenti, e credei ch’ella far
dovesse quel ch’è sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacità de’ colori, e il contrasto bene
assortito de’ lumi e delle ombre, che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni.
Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per rispettare un noioso
ritornello, né fermarlo a mezza parola sopra una vocale favorevole, o far pompa in un lungo passaggio
dell’agilità di sua bella voce od aspettare che l’orchestra le dia tempo di raccorre il fiato per una cadenza.
Non ho creduto di dover scorrere rapidamente la seconda parte di un’aria, quantunque fosse la più
appassionata ed importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir
l’aria dove forse non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere che può variare in tante guise
capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi [contro] de’ quali da gran
tempo esclamavano invano il buon senso e la ragione.
Ho immaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi e formare,
per dir così, l’argomento; che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a proporzione degli interessi e
della passione e non lasciare quel tagliente divario fra l’aria e il recitativo che non tronchi a controsenso il
periodo né interrompa mal a proposito la forza e il caldo dell’azione.
Ho creduto poi che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità; ed ho evitato di far
pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato spregevole la scoperta di qualche novità
se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione e dall’espressione, e non v’è regola
d’ordine ch’io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazia dell’effetto. Ecco i miei
principî. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto in cui il celebre autore [Calzabigi]
immaginando un nuovo piano drammatico aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e
alle pretenziose e fredde moralità, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti, e uno
spettacolo sempre variato.
131. Gluck-Calzabigi, Alceste, I,1-2 (versione francese: libretto adattato da Marie-François-Louis Gand
Leblanc du Roullet)
ACTE PREMIER
Une place publique; sur un des côtés on voit en avancement le palais d’Admète, sur la porte duquel est un balcon en saillie. Le fond du théâtre
représente le portique du temple d’Apollon. Une foule de peuple, dans l’agitation et dans l’attitude de la crainte et de la douleur, remplit la place.
SCENE PREMIERE
Un Hérault d’armes, Évandre, Chœur.
[Chœur]
CHŒUR DU PEUPLE
Dieux, rendez-nous notre roi, notre père.
(prélude de trompette)
[Récitatif]
LE HERAULT
(sur le balcon)
Peuples, écoutez! Et redoublez vos pleurs.
Vous allez éprouver le plus grand des malheurs.
Admète touche à son heure dernière;

Et nul secours humain ne peut plus le ravir


A sa main meurtrière.
[Chœur]
LE CHŒUR, UNE CORYPHEE ET ÉVANDRE
Ô Dieux! qu’allons-nous devenir?
Non, jamais le courroux céleste,
Sur des mortels qu’il veut punir,
Ne frappa de coup plus funeste.
ÉVANDRE
Suspendez vos gémissements;
Le palais s’ouvre.
LE CHŒUR
Ah, je frémis, je tremble!
ÉVANDRE
La Reine vient à vous, vous voyez ses enfants.
Dieux! Que d’infortunés ce lieu fatal rassemble!
SCENE DEUXIEME
Les mêmes, Alceste et ses enfants
[Chœur]
CHŒUR DU PEUPLE
(à deux parties)
Ô malheureux Admète! Ô malheureuse Alceste!
Ô trop cruel destin! Ô sort vraiment funeste!
Objets si tendrement chéris!
Enfants infortunés! Faible espoir qui nous reste!
Nous ses sujets… ou plutôt ses amis,
Pour qui cent fois il exposa sa vie.
Ô Dieux! Qu’allons-nous devenir?
Malheureuse patrie!
Ô Dieux! Qu’allons-nous devenir?
[Récitatif]
ALCESTE
Sujets du Roi les plus aimé,
Vous répandez des pleurs, hélas! Trop légitimes!
Par son amour pour vous, par ses vertus sublimes,
Il faisait le bonheur de son peuple charmé;
Il faisait le bonheur d’une épouse chérie,
Qui ne saurait vivre sans lui.
Faibles enfants, sans espoir, sans appui,
Les yeux à peine ouverts au néant de la vie,
Ô Dieux, qu’allons-nous devenir?
LE CHŒUR
Malheureuse patrie!
Ô Dieux, qu’allons-nous devenir?
ALCESTE
Hélas! Dans ce malheur extrême,
Nous n’avons plus d’espoir qu’en leur bonté suprême;
Eux seuls peuvent nous secourir.
[Air]
Grands Dieux! du destin qui m’accable A a (internamente articolata)
Suspendez du moins la rigueur;
Et sur l’excès de mon malheur b
Jetez un regard pitoyable.
Rien n’égale mon désespoir, c
Mes tourments, ma douleur amère;
Si l’ont n’es pas épouse et mère, d
On ne saurait le concevoir.
(aux enfants)
Ô vous, dont les tendres appas B
Sont l’image, à mes yeux si chère,
De mon époux, de votre père,
Venez! jetez-vous dans mes bras!
Quand je vous presse sur mon sein,
Mes chers fils, mon cœur se déchire;
Je sens augmenter mon martyre,
En pensant à votre destin.
Rien n’égale mon désespoir, A’ (c - d: da capo abbreviato e scritto per esteso)
Mes tourments, ma douleur amère;
Si l’ont n’es pas épouse et mère,
On ne saurait le concevoir.
[Chœur]
CHŒUR DU PEUPLE
(à deux parties)
Ô malheureux Admète! Ô malheureuse Alceste!
Ô trop cruel destin! Ô sort vraiment funeste!
Objets si tendrement chéris!
Enfants infortunés! Faible espoir qui nous reste!
Nous ses sujets… ou plutôt ses amis,
Pour qui cent fois il exposa sa vie.
Ô Dieux! Qu’allons-nous devenir?
Malheureuse patrie!
Ô Dieux! Qu’allons-nous devenir?
[Récitatif]
ALCESTE
(au peuple)
Suivez-moi dans le temple; allons offrir aux Dieux
Nos sacrifices et nos vœux.
Au pied de leurs autels, arrosés de mes larmes,
Ils verront une épouse en pleurs,
Des enfants menacés du plus grand des malheurs,
Tout un peuple accablé des plus vives alarmes.
Peut-être, à cet aspect touchant,
Ces Dieux, notre unique espérance,
Par la pitié, par la clémence,
Laisseront-ils fléchir leur courroux menaçant.
(Elle sort.)
[Chœur]
LE CHŒUR, UNE CORYPHEE ET ÉVANDRE
Ô Dieux! qu’allons-nous devenir?
Non, jamais le courroux céleste,
Sur des mortels qu’il veut punir,
Ne frappa de coup plus funeste.

132. Orfeo ed Euridice, scena dell’averno (II,1)


[Scena] Orrida, e cavernosa di là dal fiume Cocito; offuscata poi in lontananza da un tenebroso fumo, illuminato dalle fiamme che ingombrano tutta
quella orribile abitazione. Appena aperta la scena al suono di orribile sinfonia comincia il Ballo degli Spettri che viene interrotto dalle armonie della
lira d’Orfeo: e questo comparendo poi sulla scena, tutta quella turba infernale intuona il seguente
CORO
Chi mai dell’Erebo
Fra le caligini,
Sull’orme d’Ercole,
E di Piritoo
Conduce il piè!
D’orror l’ingombrino
Le fiere Eumenidi:
E lo spaventino
Gli urli di Cerbero,
Se un Dio non è.
Ripigliano gli Spettri il ballo, girando intorno ad Orfeo per spaventarlo.
ORFEO
Deh! placatevi con me
Furie, Larve, Ombre sdegnose.
CORO
No.
ORFEO
Vi renda almen pietose
Il mio barbaro dolor.
CORO
Raddolcito, e con espressione di qualche compatimento.
Misero giovane!
Che vuoi, che mediti?
Altro non abita,
Che lutto, e gemito
In queste orribili
Soglie funeste.
ORFEO
Mille pene, Ombre moleste,
Come voi sopporto anch’io:
Ho con me l’inferno mio,
Me lo sento in mezzo al cor.
CORO
Sempre più raddolcito.
Ah! quale incognito
Affetto flebile
Dolce a sospendere
Vien l’implacabile
Nostro furor.
ORFEO
Men tiranne, ah voi sareste
Al mio pianto, al mio lamento!
Se provaste un sol momento
Cosa sia languir d’amor.
CORO
Cominciano a ritirarsi le Furie e gli Spettri, e dileguarsi per entro le scene, ripetono l’ultima strofa di Coro: quale continuando sempre, frattanto che
si allontanano, finisce in un confuso mormorio. Sparite le Furie, sgombrati gli Spettri, Orfeo s’avanza nell’Inferno.
Ah! quale incognito
Affetto flebile,
Dolce a sospendere
Vien l’implacabile
Nostro furor!…
Le porte stridano
Su’ neri cardini,
E il passo lascino
Sicuro, e libero
Al vincitor.

133. Giorgio Pestelli: Gluck ed il Tableau


gli altri, per dare nuova vita all’opera seria la muovevano, la dinamizzavano negli spazi liberi della vecchia struttura; lui
[Calzabigi], invece di tormentarla, la immobilizza su poche scene; il Fetonte [1768 Ludwigsburg, libretto tratto da: Phaeton
di Quinault per Lully] di Jommelli può avere anche dieci scene per atto; Orfeo ed Euridice e Alceste mai più di due per atto
e alcuni atti sono a scena unica. […] Calzabigi aveva capito bene che il problema reale dell’opera riformanda era quello
della continuità drammatica; ma a differenza di tanti suoi diligenti colleghi non aveva pensato a risolverlo, lo aveva
bellamente aggirato dilatando i bozzetti in grandi quadri scenici: la continuità al prezzo dell’immobilità. […] Con tutto
ciò, una volta intuito e determinato questo tempo lungo, ci voleva ancora una musica che lo riempisse in modo
adeguato: e qui interviene Gluck, l’unico musicista di quegli anni il cui respiro inventivo avesse la capacità di dare un
senso a questa immobilità.

134. Calzabigi: il “quadro”, la “situazione”


La Tragedia altro esser non deve che una serie di quadri, di situazioni idonee a svelare i caratteri de’ personaggi e le
passioni che gli agitano, al fine di colpire e scuotere efficacemente gli animi degli spettatori.

135. Orfeo ed Euridice, “Chiamo il mio ben così” (I,1)


ORFEO
Chiamo il mio ben così,
Quando si mostra il dì,
Quando s’asconde.
Ma, oh vano mio dolor!
L’idolo del mio cor
Non mi risponde.
Euridice! Euridice!
Ombra cara, ove sei? Piange il tuo sposo;
Ti domanda agli Dei,
A’ mortali ti chiede; e sparse a’ venti
Son le lagrime sue, i suoi lamenti.
Cerco il mio ben così,
In queste, ove morì
Funeste sponde.
Ma sola al mio dolor,
Perché conobbe amor
L’Eco risponde.
Euridice! Euridice! Ah, questo nome
San le spiagge, e le selve;
L’appresero da me! Per ogni valle
Euridice risuona: in ogni tronco
Scrisse, il misero Orfeo, Orfeo infelice:
Euridice idol mio, cara Euridice.
Piango il mio ben così
Se il Sole indora il dì,
Se va nell’onde.
Pietoso al pianto mio
Va mormorando il rio,
E mi risponde.
Numi! barbari Numi
D’Acheronte, e d’Averno
Pallidi abitator! la di cui mano
Avida delle morti
Mai disarmò, mai trattener non seppe
Beltà né gioventù; voi mi rapiste
La mia bella Euridice
(Oh memoria crudel!) sul fior degli anni:
La rivoglio da voi, Numi tiranni.
Ho core anch’io, per ricercar sull’orme
De’ più intrepidi Eroi, nel vostro orrore
La mia sposa, il mio ben…

136. Orfeo ed Euridice, “Che puro ciel” – esempio video


Deliziosa per i boschetti che vi verdeggiano, i fiori che rivestono i prati, i ritiri ombrosi che vi si scoprono, i fiumi ed i ruscelli, che la bagnano.
ORFEO
Che puro Ciel! Che chiaro Sol! Che nuova
Serena luce è questa mai! Che dolce
Lusinghiera armonia formano insieme
Il cantar degli augelli,
Il correr de’ ruscelli,
Dell’aure il sussurrar! Questo è il soggiorno
De’ fortunati Eroi. Qui tutto spira
Un tranquillo contento,
Ma non per me. Se l’idol mio non trovo
Sperar nol posso: i suoi soavi accenti,
Gli amorosi suoi sguardi, il suo bel riso
Sono il mio solo, il mio diletto Eliso.
Ma in qual parte sarà?
Guardando per la scena.
Chiedasi a questo
Che mi viene a incontrar stuolo felice.
Inoltrandosi verso il Coro.
Euridice dov’è?
ECC.

137. Orfeo ed Euridice,”ahimè, dove trascorsi” – “Che farò senza Euridice” (III,1)
Ahimè! Dove trascorsi? Ove mi spinse
Un delirio d’amor? Sposa, Euridice,
Euridice, consorte. Ah, più non vive!
La chiamo invan. Misero me! La perdo,
E di nuovo, e per sempre. Oh, legge! Oh, morte!
Oh ricordo crudel! Non ho soccorso:
Non mi avanza consiglio. Io veggo solo
(Ah, fiera vita!) il luttuoso aspetto
Dell’orrido mio stato.
Saziati, sorte rea; son disperato.
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
Euridice! Oh, dio! Rispondi.
Io son pur il tuo fedel.
Euridice! Ah, non m’avanza
Più soccorso, più speranza
Né dal mondo, né dal Ciel.
Ah, finisca e per sempre
Colla vita il dolor! Del nero Averno
Sono ancor sulla via. Lungo cammino
Non è quel che divide
il mio bene da me. Sì, aspetta, o cara
Ombra dell’idol mio. Ah, questa volta
Senza lo sposo tuo non varcherai
L’onde lente di Stige.

138. Struttura trama Alceste (versione: Vienna 1767)


1. Morte imminente di Admeto
2. interrogazione dell’oracolo
3. decisione di Alceste e suoi accordo con le divinità infernali
4. guarigione di Admeto
5. Alceste rivela la verità
6. morte di Alceste
7. Admeto è prossimo al suicidio, ma appare Apollo insieme ad Alceste, restituita alla vita

139. Struttura trama Orfeo (versione: Vienna 1762)


1. Orfeo dopo la perdita dell’amata
2. Orfeo intraprende il cammino nel regno dei morti
3. Orfeo recupera Euridice nei Campi Elisi
4. Perdita e definitiva riconquista di Euridice
5. Ballo celebrativo finale

140. Calzabigi vs. Metastasio


L’intendente degli spettacoli della corte imperiale, conte Durazzo, credeva che Calzabigi (da poco giunto a Vienna con
qualche riputazione letteraria), potesse avere nel suo bagaglio qualche libretto d’opera e lo invitò a metterli a sua
disposizione. Calzabigi fu lieto di accedere al desiderio di un uomo così importante. Scrisse rapidamente Orfeo e Gluck
fu scelto per musicarlo. Tutti a Vienna sapevano che il poeta imperiale, Metastasio, teneva in poco conto Gluck, e questi
gli rendeva la pariglia non apprezzando i suoi pedanteschi drammi. Egli giudicava che quella poesia fluente e quei
caratteri elegantemente convenzionali non avevano nulla di grande ed elevato da offrire alla musica… Gluck non
considerava affatto quelle dolciastre concezioni politiche, filosofiche e morali di Metastasio, le sue metafore, le
passioncelle garrule [stridule, ma anche leggére], i giuochi di parole intrecciati geometricamente. Gluck amava le
emozioni attinte alla semplicità della natura, le passioni incandescenti spinte all’estremo, i chiassosi tumulti teatrali. Il
poeta imperiale, dal canto suo, si deliziava di ingegnose fioriture verbali, che si compiaceva di presentare in forma di
antitesi, di battibecchi amorosi, di tirate accademiche, di caratterini leziosi; il tutto contrassegnato da una manierata
affettazione. Le mentalità dei due erano agli antipodi.

141. Paolo Gallarati: complementarietà fra Metastasio, Calzabigi e Gluck


si possono […] vedere le figure di Metastasio, da una parte, e di Calzabigi e Gluck dall’altra, non più come momenti
reciprocamente esclusivi, ma come tre tappe di un solo processo storico: quello che, dapprima in modo incompleto
(Metastasio) tendeva a liberare il melodramma dall’eredità barocca, conferendogli il massimo grado di purezza
razionalistica (Calzabigi) ed esprimendo infine, in una forma di rinnovata vitalità e di alta tensione tragica, ai limiti della
rottura, tutto ciò che l’antico sistema culturale aveva ancora da dire nell’ambito del teatro in musica (Gluck). Dopo di che
l’esperienza storica del melodramma razionalista andrà considerata praticamente conclusa.

L’OPERA COMICA DEL ’700

142. Querelle des bouffons (disputa sui buffi), Parigi 1752

143. Paisiello, Il barbiere di Siviglia (1782) n. 7 (II, 2) - Petrosellini


SVEGLIATO
Ah! Ah! Ah!
BARTOLO
Ma dov’eri tu, stordito,
allorquando che il Barbiere
qui sen venne poco fa?
SVEGLIATO
Io era... ah!... ah!...
BARTOLO
Bravo! bravo! t’ho capito,
gran risposta in verità.
Ma per certo, ci scommetto,
qualche astuzia macchinavi.
Nol vedesti?
SVEGLIATO
Il vidi... ah... ah...
Cosi male m’ha trovato,
che mi sento ammalato...
BARTOLO
La pazienza perdo già.
Dov’è dunque il Giovinetta?
quel briccone dove sta?
Son sicuro in fede mia,
che v’è qualche furberia
(Il Giovinetta sorte da vecchio, appoggiandosi ad una canna e starnutando parecchie volte)
SVEGLIATO
Giovinetta... vieni qua...
GIOVINETTA
Eccì... Eccì... Eccì...
BARTOLO
Via starnuterai domani.
Rispondete se qualcuno
da Rosina è qui venuto.
GIOVINETTA
Eccì... Eccì... Eccì...
SVEGLIATO
Ah... Ah... Ah...
BARTOLO
Oh che canto è questo qui!
SVEGLIATO
Il bar... il bar... il bar...
BARTOLO
Cosa? Come?... via parlate!
Maledetti! Come?... Cosa?...
Non v’intendo, non comprendo.
Il Barbier fu sì, o no?
SVEGLIATO
Il Barbiere... c’è qualcuno?
BARTOLO
Io scommetto ch’è d’accordo...
SVEGLIATO
Io d’accordo...
GIOVINETTA
Non signore...
C’è giustizia...
BARTOLO
Che giustizia...
son padrone ed ho ragion.
GIOVINETTA
Ma s’è ver...
BARTOLO
Non vo che sia!
SVEGLIATO, GIOVINETTA
Dunque è meglio d’andar via.
BARTOLO
Certo meglio assai sarà.
(contraffacendoli)
Chi starnuta, chi sbadiglia,
lungi andate cento miglia.
GIOVINETTA, SVEGLIATO
Se non fosse la signora,
no, nessun starebbe qua.
BARTOLO
Dunque andate alla buon’ora,
e partite via di qua.

144. Ludovico Antonio Muratori, tipi comici (Della perfetta poesia italiana, 1706)
[…] un uomo parlatore, un avaro, un geloso, un temerario, un cortigianello, un vantatore, una Donna vana, un servo
sciocco, un Giudice interessato, un Procuratore ignorante, un astuto Artigiano e tante altre maniere di costumi che tutto
giorno si mirano fra gli uomini di basso stato.

145. Andrea Perrucci, topoi buffi (Dell’arte rappresentativa, 1699)


Del soggetto da ridere sei sono le maniere: la prima per li vizii dell’animo, motteggiando i vanagloriosi, Parasiti, ed
avari, e dei vizii del corpo, come sono i servi mostruosi ed ubriachi portati in Scena, la prima volta da Crate secondo
Aristofane [riferimento ad una notizia, che Perrucci attribuisce ad Aristofane, secondo la quale l’ateniese Cratete avrebbe
introdotto gli ubriachi nelle commedie]. Sofocle introdusse i Satiri sordi, e muti; e questi muovono a ridere
maggiormente accompagnati dalle vesti ridicole.
La seconda maniera è nell’imitazione, con la quale si fa schernevole un gobbo, un zoppo, o qualche difetto della voce, o
del Corpo conforme nel nostro Pespice si fa contrafacendo la voce d’un infermo, tenue, e rauca; o nel Chienca una voce,
che dando nella gola proferisce col naso, e con l’ugola; o chi storpia le parole, come per dir chi mi chiama? Timme
tamma, e consimili difetti di voce.
La Terza è nella somiglianza, contrafacendo un Francese, un Germano, un Turco, un Spagnuolo; e contrafacendo i matti,
gli ubriachi.
La quarta è nel dispregio, che si fa torcendo la bocca, aprendola, cavar fuori la lingua, ridere scioccamente, ruzzare,
sibilare o piangere smoderato, e sgarbato.
La quinta è nella disonestà delle parole, e se questa fu tacciata in Plauto noi le habbiamo fin da principio inveito contro.
La sesta è nelle parole ingiuriose, degna solo de’ servi, de’ buffoni, e Parasiti.
E la Settima è nel parlare Contadinesco, e servile, e ve ne sono d’altra maniera.
146. G.B. LORENZI, Opere teatrali, prefazione (1813)
Il gusto del Teatro Buffo in musica era talmente pervertito, ch’egli non sentivasi abbastanza coraggio per almeno in parte
cangiarlo, se non del tutto rimetterlo. I Drammi mancanti di condotta, senza caratteri coltivati, senza sviluppo, e per
conseguenza senza interesse; senza regolato scioglimento; era questo il primo scoglio da evitarsi: le Sirti [Sirte: fondale
sabbioso pericoloso per la navigazione] erano le teatrali convenienze, le varie circostanze, ed interessi degl’Impresarj; e
gl’intrighi delle Cantatrici; e finalmente il barbaro sistema introdotto nella condotta di tai Drammi; cioè d’una apertura
dell’Opera sempre a più voci e chiassosa; una cavatina per prima uscita della Prima Buffa, o un duettino di primo
incontro tra lei, e ‘l Primo Buffo; un terzetto quartetto, o quintetto nella quarta, o quinta scena dell’Opera, che mette delle
volte in grande imbarazzo il Poeta, per non essere ancora sviluppata la catastrofe del soggetto dell’Opera, e perciò
sempre mancante d’interesse; la penultima aria poi dell’Atto per Primo Buffo, l’ultima per la Prima Buffa, si conchiude
finalmente l’Atto primo con un finale di sette o otto scene, quale poi deve terminarsi, con un ripieno, in cui tutti gli
Attori diranno le stesse parole, siano o no confacenti al loro carattere, facendo con le voci, e strumenti una rumorosa
sinfonia con imitazioni, canoni, fughe, e strette, onde con grandi rumori, e grida termini l’Atto: si cala il sipario, come se
tutto fosse terminato e dopo un quarto d’ora si rialza cominciando l’Atto secondo: dopo breve scena deve cantar l’ultima
parte, quella che dicesi l’aria del sorbetto; indi per lo più un duetto tra i due Buffi, poi un’aria pel tenore col suo
Recitativo strumentato; finalmente un altro pezzo concertato tra i primi personaggi, e terminare con un finale simile al
primo.
Nell’ultim’atto poi, ch’esser deve brevissimo (seppure non debba conchiudersi l’opera col secondo, come si è cominciato
ad introdurre per iscemare la noja a coloro che vanno al Teatro non per l’Opera, ma per guardare i palchi col
cannocchialetto, prender tabacco, sbadigliare e sonnecchiare), termina tutta l’azione con un Duetto tra la prima Buffa, ed
il Buffo, i quali debbono assolutamente sposarsi insieme. Or quale Autore sarà mai abile di assoggettarsi a tai catene e
tessere un Dramma capace di interessare un uomo di buon senso? Ma ciò non è tutto. I vortici, anzi le Scille e Cariddi di
questi teatrali marosi, sono i ghiribizzi de’ Maestri di Musica. Chi chiede un’aria più breve, chi più lunga, chi vuole che
la parola tronca di un’aria termini con l’a, perché la Cantante vi faccia quattro gorgheggi che sono il suo Quaresimale
ancorché l’aria e la parola non comporti; ora che nel primo, o secondo finale vi sia qualche Cavatina pel Tenore; ora un
Duettino tra i due Buffi di rimbrotti, di disfida, di sarcasmi, d’ingiurie, o d’altro, da farvi una musica correndo a
scavezzacollo: e quel che poi è più da marcarsi, ogni aria o qualunque altro pezzo di musica, per la Donna seria o buffa,
Tenore, o Basso, deve cominciare adagio e poi terminare allegrissimo.

147. Lorenzo Da Ponte, Epistola. Al sig. Casti (Saggi poetici, 1788)


E, la pare un’eresia,
Di danar per poesia.
Voi sapete, e tutti il sanno,
Che trascorso è già il terz’anno,
Da ch’io faccio, o bene, o male,
il poeta teatrale;
Ch’è un ufficio certamente
De’ piu duri, de’ piu tangheri,
E che Giobbe il pazïente
Potria far uscir de’ gangheri.
Contentar in pria conviene
Il maestro di cappella,
A cui sempre in capo viene
Una, od altra bagatella.
Qui cangiar vuol metro, o rima,
E porre A dove U v’è prima,
Là d’un verso gli fa d’uopo,
Quel ch’è innanzi or vorria dopo:
Peggio poi, se a svegliar l’estro
De lo stitico maestro,
Tu dei metter, come s’usa,
Specialmente ne la chiusa,
Or il canto degli augelli,
Or il corso de’ ruscelli;
Or il batter de’ martelli,
E il dindin de’ campanelli,
E la rota, e il tamburino,
E la macina, e il mulino,
E la rana, e la cicala,
E il pian pian, e il cresci, e cala.
Quando poscia egli è contento
Ti rimangon mille impicci,
Dei combattere con cento
Teste, piene di capricci:
S’anco i primi son discreti
Co’ maestri, e co’ poeti,
V’ è il terz’ uom, la quarta buffa,
Che risveglia la baruffa,
Chi la parte vuoi migliore,
Perché egli è secondo attore,
Chi vuol l’aria di bravura,
Perché là fa più figura;
Chi non vuol quelle parole,
Chi la musica non vuole,
Quella ha il pezzo de’ sorbetti,
Quei non entra ne’ terzetti;
Ed in mezzo il tafferuglio,
Il disordine, il miscuglio,
Pria che vada in scena l’opera,
Se prudenza non adopera,
Il poeta, ed io lo scuso,
Rompe, o fa rompersi il muso.
148. Metastasio (attr.), L’impresario delle Canarie (1724)
NIBBIO
Si può trovare occasion più bella
da mettere un’arietta
con qualche farfalletta o navicella?
DORINA
Dopo una scena tragica
vogliono certe stitiche persone
che stia male una tal comparazione.
NIBBIO
No, no, comparazione; in questo sito
una similitudine bastava
e sa quanto l’udienza rallegrava?
DORINA
(Che sciocco!).
NIBBIO
In un mio dramma io mi ricordo,
dopo una scena simile,
che un’aria mia fu così bene accolta,
che la gente gridava: Un’altra volta!
DORINA
Me la faccia sentire.
NIBBIO
Sì, sì: per lei potrà forse servire.
La farfalla, che allo scuro
va ronzando intorno al muro,
sai che dice a chi l’intende?
“Chi una fiaccola m’accende,
chi mi scotta, per pietà?”
Il vascello, la tartana,
fra scirocco e tramontana,
con le tavole schiodate
va sbalzando, va sparando,
cannonate in quantità.

149. Paisiello (Lorenzi [Galiani]), Socrate immaginario (Napoli, Teatro Nuovo, 1775), II, 9
Don Tammaro è impazzito per la filosofia antica; pretende di essere “Socrate secondo” e di comportarsi, fin nei minimi
particolari, come il filosofo greco. Egli afferma di essere una bestia solenne e, appunto per questo, di essere filosofo,
come del resto era stato Socrate. Accetta inoltre, senza dolersene, le ire della moglie [Donna Rosa, la seconda moglie]
perché appunto così capitava al primo Socrate e, per lo stesso motivo, arriverà a implorare che questa gli versi un orinale
in testa. Tammaro ha pure convinto il proprio barbiere (mastro Antonio) a essere Platone, e a lui vuole dare in moglie
la figlia Emilia, la quale ama, invece, riamata, Ippolito. D’altra parte questa è assolutamente contraria a un matrimonio
senza il consenso del padre, cosa che getta nella disperazione l’innamorato. Una nuova idea di Tammaro è quella di
avere due mogli per incrementare le nascite e quindi far del bene alla patria: a questo scopo sceglie Cilla, la figlia del
barbiere, di cui è però innamorato Calandrino, servo del nuovo Socrate. Cominciano così a susseguirsi vari tentativi per
risolvere al meglio, data l’insania di mente di Tammaro, l’intricata vicenda. Tutti comunque falliscono o per intervento
di Emilia, che non vuole vedere il padre ingannato, o di Cilla. Calandrino tenta poi di farsi passare per il demonio – col
quale sempre si consigliava, secondo lo storico Diogene Laerzio, il primo Socrate – per convincere don Tammaro a
dare la figlia a Ippolito. Fallito anche questo, Calandrino ha un’ultima trovata: convincerlo a bere un sonnifero
facendogli credere che sia cicuta per avere campo libero e far scappare Ippolito ed Emilia e nascondere Cilla. Don
Tammaro, seppure recalcitrante, per amore della Grecia beve alla fine la pozione, che avrà l’effetto sorprendente di farlo
rinsavire e di avviare la vicenda verso il classico lieto fine.
150. Dahlhaus: punto di vista borghese ed aristocratico nell’opera comica
Il genere in cui la borghesia esprime consapevolezza è soltanto l’opera buffa con parti serie, le quali – come avviene nelle
Nozze di Figaro [1786] e anche nel Don Giovanni [1787] – possono diventare oggetto di critica sociale: come pure innanzi
tutto la comédie larmoyante, il dramma lacrimoso, rappresentato nel dramma musicale a partire dalla Buona figliola di
Piccinni [e Goldoni, 1860] fino alla Gazza ladra [1817] di Rossini da una serie di opere che – invece d’esser inserite
indifferenziatamente tra le opere buffe – potrebbero essere considerate come un genere a sé, anche proprio a causa di
criteri socio-storici. La commozione [etimo: cum + movēre!] era il veicolo essenziale d’identificazione borghese.

151. Telemann, Pimpinone, aria “So quel che si dice” (Amburgo, Gänsemarkt Theater, 1725)
So quel che si dice,
So quel che si fa:
“Sustissima, sustissima, [libr. orig: Strissima, strissima]
come si sta?”
“Bene”. E poi subito:
“quel mio marito
è pur stravagante
è pur indiscreto,
pretende che in casa
io stia tutto il dì”.
E l’altra risponde:
“gran bestia ch’egli è!
Prendete, comare,
l’esempio da me;
voleva anch’il mio…
ma l’ho ben chiarito,
di far a mio modo;
trovato ho il segreto
s’ei dice di no,
io dico di sì.
No, no! Si si!”

152. Intermezzi settecenteschi – qualche titolo


Domenico Sarro (Barilotto, VE 1712, Spilletta e Frullo, NA 1713, L’impresario della Canarie, NA 1724);
Johann Adolf Hasse (Larinda e Vanesio, VE 1726, Grilletta e Porsugnacco, VE 1727, La contadina, NA 1728, La
serva scaltra, NA 1729, Arrighetta e Cespuglio, NA 1730);
Giovan Battista Pergolesi ([Nibbio e Nerina], NA 1732, La serva padrona, NA 1733, Livietta e Tracollo, NA 1734).

153. Pergolesi (Federico), La serva padrona – aria “Sempre in contrasti”


UBERTO
Vespone, ora che ho preso
Il cioccolatte già,
Dimmi: buon pro vi faccia e sanità.
Vespone ride
SERPINA
Di che ride quell’asino?
UBERTO
Di me, che ho più flemma d’una bestia.
Ma bestia non sarò
Più flemma non avrò,
Il giogo scuoterò,
E quel che non ho fatto alfin farò!!

a Serpina
Sempre in contrasti Aria col da capo grande
Con te si sta.
E qua e la,
E su e giù
E sì e no.
Or questo basti
Finir si può.
a Vespone
Ma che ti pare?
Ho io a crepare?
Signor mio, no.
a Serpina
Però dovrai
Per sempre piangere
La tua disgrazia,
E allor dirai
Che ben ti sta.
a Vespone
Che dici tu? Non è cosi?
Ah!… che… no!… si, Ma così è!

154. Paolo Gallarati, gestualità sonora


[In quest’aria] è piuttosto la dinamica del gesto a riempire, con la sua carica vitalistica e figurale, il classico invaso della
forma tripartita. […] Par di vedere il personaggio puntare il dito contro Serpina (“Sempre in contrasti / con te si sta!”),
lanciarsi in una mimica collerica (“E qua, e là, / e giù, e su, / e no, e sì”), gestire con risolutezza (“Or questo basti / finir
si può”), domandare con le mani e col capo (“Ma che ti pare? / Ho io a crepare? / Signor mio no”), mimare
caricaturalmente il pianto (“Però dovrai / per sempre piangere / la tua disgrazia”) e così via. Tutti atteggiamenti che la
musica di Pergolesi raccoglie e realizza, potenziandoli […] attraverso la ricchezza delle soluzioni ritmiche, il taglio del
fraseggio, della dinamica e, naturalmente, il profilo dei temi e degli incisi tematici. La partitura, insomma, contiene, per
così dire, già in sé la regia dello spettacolo.

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