Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Recitar cantando
Musica SÌ !
____________
Declamato Musica NO "
Parlato
Musicalità zero
1
Oggi l’amore implora al mio pianto un premio ineffabile, piaceri eccelsi.
Girolamo Mei (letterato umanista)
Emilio de’ Cavalieri (compositore)
Ottavio Rinuccini (poeta)
Francesco Rasi (compositore e cantante, primo interprete di Orfeo nell’Orfeo di Monteverdi)
Ritmo Altezze
(Durate)
Metrica quantitativa + –
Recitar cantando – +
20. Peri, Euridice, Canzone Tirsi «Nel pur ardor della più bella stella»
Tirsi viene in scena sonando la presente Zinfonia con un Triflauto, e canta la seguente stanza: salutando Orfeo di poi s’accompagna con gli altri del Coro, e con tale
strumento fu sonata.
TIRSI
Nel pur ardor della più bella stella,
aurea facella di bel foc’accendi
e qui discendi su l’aurate piume, A
giocondo nume, e di celeste fiamma
l’anime infiamma.
Lieto imeneo d’alta dolcezza un nembo
trabocca in grembo a’ fortunati amanti
e tra bei canti di soavi amori, A’
sveglia nei cori una dolce aura, un riso
di paradiso.
ATTO PRIMO
<Orfeo, Euridice, Coro di Ninfe e Pastori>
PASTORE
In questo lieto e fortunato giorno RC
ch’ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro semideo, cantiam, pastori,
con sì soavi accenti che sien degni
d’Orfeo nostri concenti. Concento: termine in uso nel 500 per indicare un canto d’assieme
Oggi fatt’è pietosa
l’alma già sì sdegnosa
de la bella Euridice;
oggi fatt’è felice
Orfeo nel sen di lei, per cui già tanto
per queste selve ha sospirato e pianto.
Dunque in sì lieto e fortunato giorno,
ch’ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro semideo, cantiam, pastori,
con si soavi accenti
che sien degni d’Orfeo nostri concenti.
CORO
Vieni, Imeneo, deh vieni, MS1 Imeneo, dio delle nozze, che nella mitologia greca cammina davanti a corteo nuziale e
protegge il rito matrimoniale
e la tua face ardente
sia quasi un sol nascente
ch’apporti a questi amanti i dì sereni
e lunge omai disgombre
de gli affanni e del duol le nebbie e l’ombre.
NINFA
Muse, onor di Parnaso, amor del cielo, RC Muse: divinità delle arti
gentil conforto a sconsolato core,
vostre cetre sonore
squarcino d’ogni nube il fosco velo;
e mentre oggi propizio al vostro Orfeo
invochiamo Imeneo,
su ben temprate corde
col vostro suon nostr’armonia s’accorde.
CORO
Lasciate i monti, MS2
lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati
a i balli usati
leggiadro il piè rendete.
Qui miri il sole
vostre carole
più vaghe assai di quelle
ond’a la luna,
a l’aria bruna,
danzano in ciel le stelle.
Poi di bei fiori
per voi s’onori
di questi amanti il crine,
ch’or de i martiri
de i lor desiri
godon beati il fine.
PASTORE
Ma tu, gentil cantor, s’a’ tuoi lamenti RC
già festi lagrimar queste campagne,
perch’or al suon de la famosa cetra
non fai teco gioir le valli e i poggi?
Sia testimon del core
qualche lieta canzon che detti Amore.
ORFEO
Rosa del ciel, gemma del giorno, e degna MS3 (MVS)
prole di lui che l’universo affrena,
Sol, ch’il tutto circondi e ’l tutto miri
da gli stellanti giri,
dimmi, vedestu mai
alcun di me più fortunato amante?
Fu ben felice il giorno, (si rivolge ad Euridice)
mio ben, che pria ti vidi,
e più felice l’ora
che per te sospirai,
poich’al mio sospirar tu sospirasti,
felicissimo il punto
che la candida mano
pegno di pura fede a me porgesti.
Se tanti cori avessi
quant’occhi ha il ciel sereno e quante chiome Occhi del cielo sereno: le stelle.
sogliono i colli aver l’aprile e ’l maggio,
colmi si farien tutti e traboccanti
di quel piacer ch’oggi mi fa contento.
EURIDICE
Io non dirò qual sia
nel tuo gioire, Orfeo, la gioia mia
che non ho meco il core
ma teco stassi in compagnia d’Amore
chiedilo dunque a lui, s’intender brami
quanto lieta i’ gioisca e quanto t’ami.
Lasciate i monti, MS2
lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati
a i balli usati
leggiadro il piè rendete.
Qui miri il sole
vostre carole
più vaghe assai di quelle
ond’a la luna
a l’aria bruna,
danzano in ciel le stelle.
Vieni, Imeneo, deh vieni, MS1
e la tua face ardente
sia quasi un sol nascente
ch’apporti a questi amanti i dì sereni,
e lunge omai disgombre
de gli affanni e del duol le nebbie e l’ombre.
PASTORE
Ma s’il nostro gioir dal ciel deriva, RC
com’è dal ciel ciò che qua giù n’incontra,
giusto è ben che divoti
gli offriamo incensi e voti.
Dunque al tempio ciascun rivolga i passi
a pregar lui ne la cui destra è il mondo,
che lungamente il nostro ben conservi.
CORO
Alcun non sia che disperato in preda
si doni al duol, benché talor n’assaglia
possente sì che nostra vita inforsa;
ché, poi che nembo rio gravido il seno
d’atra tempesta inorridito ha il mondo,
dispiega il sol più chiaro i rai lucenti,
e dopo l’aspro gel del verno ignudo
veste di fior la primavera i campi.
Orfeo, di cui pur dianzi
furon cibo i sospir, bevanda il pianto,
oggi felice è tanto
che nulla è più che da bramar gli avanzi.
Ma perché tal gioire
dopo tanto martire? Eterni numi,
vostr’opre eccelse occhio mortal non vede,
che splendente caligine le adombra; [perché una nebbia splendente le nasconde]
pur, se lece spiegar pensiero interno
sol per cangiarlo ove l’error si scopra,
direm ch’in questa guisa,
mentre i voti d’Orfeo seconda il cielo,
prova vuol far di sua virtù più certa:
ch’il soffrir le miserie è picciol pregio,
ma ’l cortese girar di sorte amica
suol dal dritto camin travïar l’alme.
Oro così per foco è più pregiato;
combattuto valore
godrà così di più sublime onore.
24. Monteverdi, Orfeo, «Possente spirto» (edizione Amadino, Venezia 1609)
SPERANZA
Ecco l’atra palude, ecco il nocchiero: guida (è Caronte).
nocchiero
che trae l’ignudi spirti a
l’altra sponda
dov’hà Pluton de l’ombre
il vasto impero:
Oltre quel nero stagn’, fiume Acheronte o Stige, a seconda
oltre quel fiume, delle versioni mitologiche
in quei campi di pianto e
di dolore.
Destin crudele ogni tuo
ben t’asconde.
Hor d’uopo è d’un gran
core e d’un bel canto.
Io fin qui t’ho condotto,
hor più non lice
teco venir, ché amara
legge il vieta.
Legge scritta col ferro in
duro sasso
de l’ima reggia in su reggia profonda
l’orribil soglia,
che in queste note il fiero
senso esprime:
«Lasciate ogni speranza o
voi ch’entrate».
Dunque, se stabilito hai
pur nel core
di porre il piè ne la città
dolente,
da te men’ fuggo e torno
a l’usato soggiorno.
ORFEO
Dove, ah dove te’n vai, B - disperazione
unico del mio cor dolce
conforto?
Poiché non lunge homai
del mio lungo cammin si
scopre il porto,
perché ti parti e
m’abbandoni, ahi lasso,
sul periglioso passo?
Qual bene or più
m’avanza
se fuggi tu, dolcissima
Speranza?
CARONTE
O tu ch’innanzi morte a C - insensibilità
queste rive
temerato ten’vieni, arresta Temerato: pauroso – Altre versioni:
i passi. «temerario» (intrepido)
Solcar quest’onde ad
huom mortal non dassi,
né può co’ morti albergo
aver chi vive.
Che? Vuoi forse, nemico
al mio Signore,
Cerbero trar de le Cerbero fu rapito da Ercole
Tartaree porte?
O rapir brami sua cara Teseo e Piritoo rapirono Persefone
consorte (Teseo voleva sposarla). Persefone è
la Proserpina latina, regina
dell’oltretomba.
d’impudico desire acceso
il core?
Pon freno al foll’ardir,
ch’entr’al mio legno
non accorrò più mai
corporea salma,
sì de gli antichi oltraggi oltraggi - Riferimento a Ercole,
ancora en l’alma Piritoo e Teseo
serbo acerba memoria e
giusto sdegno.
Sinfonia
ORFEO
Possente Spirto e D - fascino di Orfeo: al centro dell’atto
formidabil nume, terzo cioè al centro dell’opera
senza cui far passaggio à
l’altra riva
alma da corpo sciolta in
van presume,
non viv’io no, che poi di
vita è priva
mia cara sposa, il cor non
è più meco,
e senza cor com’esser può
ch’io viva?
Ritornello
Ritornello
CARONTE
Ben sollecita alquanto C - insensibilità
dilettandomi il core,
sconsolato Cantore,
il tuo pianto e’l tuo canto.
Ma lunge, ah, lunge sia
da questo petto
pietà, di mio valor non
degno affetto.
ORFEO
Ahi, sventurato amante! B - disperazione
Sperar dunque non lice
ch’odan miei prieghi i
cittadin d’Averno?
Onde qual ombra errante
d’insepolto cadavero
infelice,
privo sarò del cielo e de
l’Inferno?
Così vuol empia sorte
ch’in questi orror di
morte
da te mio cor lontano,
chiami tuo nome in vano,
e pregando e piangendo
io mi consumi?
Rendetemi il mio ben,
Tartarei Numi.
Sinfonia
Sinfonia
2
Con il volto sparso ora di dolore ora di minaccia.
«favola», «favola pastorale», «favola boschereccia» [“boschereccio” era l’ambiente del Dramma Pastorale
cinquecentesco]: ma “favola” e “mito” sono all’epoca perfetti sinonimi. È come se […] nel momento stesso
della creazione di un linguaggio musicale capace di rappresentare e muovere gli affetti, la fondazione del
nuovo genere musicale e teatrale venisse collocata non sotto la tutela della catarsi tragica dei miti eroici e
sacrificali (di fronte allo sgomento dei quali s’atterrisce la lingua nonché il canto), bensì nel territorio
incantato e propiziatorio di una mitologia metamorfica e originaria. La frequenza stessa del mito di Orfeo –
che con la potenza del canto ammansisce le belve e vince la morte –, l’importanza originaria del mito
apollineo di Dafne – legato alla nascita dell’alloro, attributo vegetale della gloria politica ma anche della
gloria artistica – è indicativa in tal senso.
L’eccitazione dolorosa di quella monodia è anzitutto nelle alterazioni cromatiche, nelle dissonanze tra voce e
basso continuo (per esempio subito all’inizio) e negli intervalli abnormi, carichi di virtù patetiche: l’arco di
quinta diminuita percorsa dal primo «Lasciatemi morire» («Il Monteverde nel principio del lamento
d’Arianna: lasciatemi morire si servi della quinta diminuita in una forma che move a pietà» la sesta
maggiore a metà di quello successivo, la settima minore di «se tu sapessi, oimé» o di «la misera Arianna»).
Le esigenze di comunicazione teatrale generano uno stile spesso declamatorio (a note ribattute con poche
varianti: diversi livelli d’intonazione, note di volta, limitate escursioni intervallari) ed in generale oratorio,
attento a riprodurre gli andamenti retorici di cui abbonda il testo rinucciniano. Le riprese lessicali e le
frequenti anafore sono rese o insistendo sulla medesima nota di declamazione,
Nella terza sezione i primi due distici a rima alternata hanno basso identico ed analoghi andamenti vocali,
mentre la quinta ripresenta spesso l’intervallo di terza ascendente per l’interiezione («O madre, o padre…»)
e l’apostrofe («Mirate…»). Ciò che segue nel manoscritto (le edizioni a stampa si fermano qui) è perlopiù
sbrigativo e declamatorio. La quarta sezione invece si regge su di un forte contrasto tra la parte finale, di
doloroso sfinimento, utilizzante materiali di reminiscenza («O Teseo, Teseo mio») e quella iniziale, lanciata
in una concitatissima declamazione:
Come in certa produzione madrigalesca dell’ultimo Cinquecento e primo Seicento, cosi anche nel nascente
teatro musicale il ‘lamento’ tendeva a divenire luogo espressivo privilegiato e topico […]: quello d’Arianna,
per l’elevatissima forza espressiva e comunicante, diverrà ben presto mitico.
[Citazione dal saggio di Severo Bonini fra poco citato] Conseguì parimente grande applauso l’Arianna del medesimo Rinuccini, la quale fu vestita
di convenevole melodia dal sig. Claudio Monteverde, oggi maestro di cappella della Repubblica di Venezia, il quale ne ha dato in luce la parte più
principale, che è il lamento dell’istessa Arianna, che è forse la più bella composizione che sia stata fatta a’ tempi nostri in questo genere [recitativo]
Il fiorentino Severo Bonini, nella sua Prima parte de’ discorsi e regole sovra la musica, documenterà il successo e
l’ampia diffusione di quel ‘lamento’:
Tra’ forestieri prima fu il sig. Claudio Monteverdi, il quale arricchì questo stile di peregrini vezzi e nuovi pensieri nella favola intitolata Arianna,
opera del sig. Ottavio Rinuccini, gentiluomo di Firenze; fu tanto gradita che non è stata casa la quale, avendo cembali o tiorbe in casa, non avesse
il lamento di quella.
Elaborato e modificato a cominciare dal suo stesso autore (la versione a più voci [contenuta nel Sesto libro
dei madrigali, 1614] ed il travestimento sacro [il lamento di Maria incluso entro la Selva morale e spirituale,
1641]), quel lamento sarà oggetto d’imitazione/emulazione tanto in sede polifonica […] che monodica.
Lasciatemi morire!
E che volete voi che mi conforte
in così dura sorte,
in così gran martire?
Lasciatemi morire!
O Teseo, o Teseo mio,
sì che mio ti vo’dir, che mio pur sei
benché t’involi, ahi crudo, a gli
occhi miei.
Volgiti, Teseo mio, implorazione Fabbri: «intensificazione fornita
da profili progressivamente
ascendenti e divaricati»
Volgiti, Teseo, o Dio.
Volgiti indietro a rimirar colei sarcasmo, ingratitudine
che lasciato ha per te la patria e il
regno,
e in questa arena ancora,
cibo di fere dispietate e crude autocommiserazione
lascierà l’ossa ignude.
O Teseo, o Teseo mio, ancora implorazione
se tu sapessi o Dio,
se tu sapessi, ohimè, come ancora autocommiserazione
s’affanna
la povera Arïanna,
forse, forse pentito
rivolgeresti ancor la prora al lito.
Ma, con l’aure serene …negata
tu te ne vai felice et io qui piango; destini contrari Fabbri: antitesi e somiglianza con
«et io rimango»
a te prepara Atene
liete pompe superbe et io rimango Fabbri: antitesi e somiglianza con
«et io qui piango»
cibo di fera in solitarie arene,
te l’uno e l’altro tuo vecchio Fabbri: an-
parente
stringerà lieto, et io -ti-
più non vedrovvi, o madre, o -tesi
padre mio.
Dove, dove è la fede Sarcasmo,
che tanto mi giuravi?
Così ne l’alta sede Così mi metti nell’alta sede dei
tuoi antenati?
tu mi ripon degli avi?
Son queste le corone Fabbri: «riprese lessicali o
anafore»
onde m’adorni il crine?
Questi gli scettri sono,
queste le gemme e gli ori:
lasciarmi in abbandono
a fera che mi strazi e mi divori?
Ah Teseo, ah Teseo mio, implorazione incredula
lascierai tu morire,
in van piangendo, in van gridando
aita
la misera Arianna
che a te fidossi e ti dié gloria e vita?
Ahi, che non pur risponde! Ripiegamento sconsolato
Ahi, che più d’aspe è sordo ai miei Aspe: serpe
lamenti!
O nembi, o turbi, o venti, Desiderio di vendetta Fabbri: parte iniziale dell’ultima
sezione, «lanciata in una
concitatissima declamazione»
sommergetelo voi dentr’a
quell’onde!
Correte, orche e balene,
e de le membra immonde
empiete le voragini profonde!
Che parlo, ahi! che vaneggio? pentimento
Misera, ohimè, che chieggio?
O Teseo, O Teseo mio, implorazione Fabbri: «parte finale, di doloroso
sfinimento, utilizzante materiali
di reminiscenza («O Teseo, Teseo
mio»)»
non son, non son quell’io che i feri
detti sciolse:
parlò l’affanno mio, parlò il dolore,
parlò la lingua sì, ma non già il
core.
Misera! Ancor do loco Incredulità su se stessa
A la tradita speme?
E non si spegne,
Fra tanto scherno ancor, d’amor il Scherno: presa in giro (sarcastico)
foco?
Spegni tu morte, ormai, le fiamme Rabbia, desiderio di morte
indegne! (propria)
O Madre, O Padre, O dell’antico
Regno
Superbi alberghi, ov’ebbi d’or la
cuna,
O servi, O fidi amici (ahi fato
indegno!)
Mirate ove m’ha scort’empia Autocommiserazione. «scorto»:
fortuna, scortato, portato
Mirate di che duol m’ha fatto erede
L’amor mio,
La mia fede,
E l’altrui inganno,
Così va chi tropp’ama e troppo Morale dolorosa
crede.
38. Henry Purcell (libr.: Nahum Tate) Dido and Æneas (1689)
DIDO DIDONE
Thy hand, Belinda, darkness shades me, Dammi la mano, Belinda, l’oscurità mi copre,
on thy bosom let me rest, lascia che riposi sul tuo seno,
more I would, but Death invades me; avrei voluto di più, ma la morte m’invade;
death is now a welcome guest. ora la morte è un ospite gradito.
When I am laid in earth, Quando giacerò nella terra
may my wrongs create Possano i miei errori non creare
no trouble in thy breast; alcuna agitazione nel tuo petto;
remember me, but ah! Forget my fate. Ricordami, ma ah!, dimentica il mio destino.
CHORUS CORO
With drooping wings ye Cupids come, Con ali ripiegate o Cupidi venite,
and scatter roses on her tomb, e spargete rose sulla sua tomba,
soft and gentle as her heart, soffici e gentili come il suo cuore,
keep her your watch and never part. Vigilate su di lei e non allontanatevi mai più.
5. L’unità di tempo
L’una cerca quanto più può di essere compresa in una sola giornata o di eccederne poco, l’epica è invece indefinita per il tempo, e in
questo si distingue; dapprincipio tuttavia sotto questo aspetto nelle tragedie si faceva lo stesso che nei canti epici.
6. L’unità di luogo
L’epica ha un tratto peculiare notevole per il fatto che alla tragedia non è concesso di riprodurre contemporaneamente più parti, ma
soltanto la parte agita sulla scena dagli attori, nell’epica invece, per il fatto di essere una narrazione, è possibile rappresentare più parti
che si compiono contemporaneamente, dalle quali, se appropriate, il corpo del poema risulta accresciuto. Pertanto possiede questo
vantaggio in vista della grandiosità: di far passare l’ascoltatore attraverso diversi sentimenti e di arricchirsi di episodi variati. La
monotonia porta in effetti rapidamente a sazietà e fa cadere le tragedie. (ARISTOTELE)
7. L’unità d’azione
Il poeta non deve […] fare una tragedia come se fosse una composizione epica. Chiamo composizione epica quella che contiene più
azioni, come nel caso in cui un drammaturgo prendesse a oggetto tutto l’argomento dell’Iliade.
Come dunque nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che la trama,
poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera, e che le parti dei fatti siano così connesse che, trasposta o
sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato, perché quel che, aggiunto o non aggiunto, non produce nulla di evidente,
non è parte dell’intero.
44. Domenico Mazzocchi (libr: Ottavio Tronsarelli), La catena d’Adone (1626) – prefazione
vi sono molt’altre mezz’arie [i.e. ariosi] sparse per l’opera, per rompere il tedio del recitativo.
51. Landi, Sant’Alessio, incontro con l’angelo (aria “O morte gradita”) (II,7)
SANT’ALESSIO
O morte gradita,
ti bramo, ti aspetto,
dal duolo al diletto
tuo calle n’invita.
O morte gradita,
dal carcere umano
tu sola fai piano
il varco alla vita.
O morte soave,
de’ giusti conforto,
tu guidi nel porto
d’ogni alma la nave.
o morte soave,
il viver secondo [fecondo]
tu n’apri nel mondo,
con gelida chiave.
54. Claudio Monteverde a chi lege (Libro VIII dei Madrigali – Prefazione)
Avendo io considerato le nostre passioni od affettioni del animo essere tre le principali, cioè ira,
temperanza et umiltà o supplicatione, come bene gli migliori filosofi affermano, anzi la natura stessa de la
voce nostra in ritrovarsi alta, bassa et mezzana, et come l’arte musica lo notifica chiaramente in questi tre
termini di concitato, molle et temperato, né avendo in tutte le compositioni de’passati compositori potuto
ritrovare esempio del concitato genere, ma ben sì del molle et temperato; […] et sapendo che gli contrarii
sono quelli che movono grandemente l’animo nostro, fine del movere che deve avere la bona musica, […]
perciò mi posi con non poco mio studio et fatica per ritrovarlo, et considerato nel tempo piricchio [secondo
la teoria metrica non è un vero e proprio piede, è la sequenza di due sillabe brevi: BB] che è tempo veloce,
nel quale tutti gli migliori filosofi affermano in questo essere stato usato le saltazioni belliche, concitate, et
nel tempo spondeo tempo tardo le contrarie, cominciai dunque la semibreve a cogitare, la qual percossa
una volta dal sono, proposi che fosse un tocco di tempo spondeo [sillaba lunga; lo spondeo è LL], la qual
poscia ridotta in sedeci semicrome, et ripercosse ad una per una, con agiontione di oratione contenente ira
et sdegno, udii in questo poco esempio la similitudine del affetto che ricercavo, benché l’oratione non
seguitasse co’ piedi la velocità del istromento [insomma, il riferimento alle brevi ed alle lunghe ha un valore
esclusivamente metaforico: serve solo a dare un’idea dell’operazione messa in atto da Monteverdi:
considerare una nota molto lunga e suddividerla in numerose frazioni brevi]. Et, per venire a maggior
prova, diedi di piglio al divin Tasso, come poeta che esprime con ogni proprietà et naturalezza con la sua
oratione quelle passioni che tende a voler descrivere, et ritrovai la descrittione che fa del Combattimento di
Tancredi con Clorinda, per aver io le due passioni contrarie da mettere in canto, guerra cioè preghiera et
morte. Et l’anno 1624 fattolo poscia udire a migliori de la noo. cità di Venetia in una nob. stanza del illust. et
ecc. sig. Gerolamo Mozzenigo cavaglier principale, et ne’comandi de la Sereniss. Rep. di primi, et mio
particolar padrone et partial protettore, fu con molto applauso ascoltato et lodato; il qual principio avendolo
veduto a riuscire alla immitatione del ira, seguitai ad investigarlo maggiormente con maggiori studii, et ne
feci diverse compositioni altre così ecclesiastiche, come da camera, et fu così grato tal genere anco agli
compositori di musica, che non solamente l’hanno lodato in voce, ma anco in penna a la immitatione mia
l’hanno in opera mostrato a molto mio gusto et onore. Mi è parso bene perciò il far sapere che da me è nata
la investigatione et la prova prima di tal genere, tanto necessario al arte musica, senza il quale è statta si
può dire con ragione sino ad ora imperfetta, non avendo hauto che gli duoi generi, molle et temperato.
Et perché a primo principio (in particolare a quali toccava sonare il basso continuo) il dover tampellare
sopra ad una corda sedeci volte in una battuta gli pareva più tosto far cosa da riso che da lode, perciò
riducevano ad una percossa sola durante una batuta tal multiplicità, et in guisa di far udire il piricchio piede
facevano udire il spondeo, et levavano la similitudine al oratione concitata. Perciò aviso dover essere sonato
il basso continuo con gli suoi compagnamenti nel modo et forma in tal genere che sta scritto, nel quale si
trova parimente ogni altro ordine che si ha da tenere nelle altre compositioni d’altro genere, perché le
maniere di sonare devono essere di tre sorti, oratoria, armonica, et retmica. La ritrovata da me del qual
genere da guerra, mi ha datto occasione di scrivere alcuni madrig. da me intitolati guerrieri, et perché la
musica de’ gran prencipi viene adoperata nelle loro regie camere in tre modi per loro delicati gusti da teatro,
da camera et da ballo perciò nella presente mia opera ho accennato gli detti tre generi con la intitulatione
guerriera, amorosa et rapresentativa. So che sarà imperfetta, perché poco vaglio in tutto, in particolare nel
genere guerriero per esser novo et perché “omne principium est debile” [“Ogni inizio è debole”]. Prego
perciò il benigno lettore a gradire la mia bona volontà, la quale starà attendendo da la sua dotta penna
maggior perfettione in natura del detto genere, perché “Inventis facile est adere” [lett. “inventis facile est
addere”: “è facile aggiungere qualcosa alle cose inventate” (cioè è facile migliorarle)], et viva felice.
64. Cavalli (Cicognini), Giasone, Risveglio di Giasone - Aria “Delizie, contenti” (I,2)
Delizie, contenti,
che l’alme beate,
fermate, fermate:
su questo mio core
deh più non stillate
le gioie d’amore.
Delizie mie care,
fermatevi qui!
Non so più bramare,
mi basta così.
In grembo agl’amori
fra dolci catene
morir mi conviene.
Dolcezza omicida,
a morte mi guida
in braccio al mio bene!
Dolcezze mie care
fermatevi qui!
Non so più bramare,
mi basta così.
ORESTE
Linguaggio curioso.
DEMO
Sei troppo, troppo, troppo frettoloso,
e se farai del mio parlar strapazzo
la mia forte bravura
saprà spezzarti il ca…
ORESTE
Oibò!
DEMO
Il ca… po in queste mura.
ORESTE
Così si tratta un forastiero in Colco?
DEMO
Che fo, fo, forastiero?
Io dissi, e dissi bene, a che si bada!
Ti sfido, metti man per quella spada!
ORESTE
Un buffone è costui. T’acqueta, amico,
e non voler che in corte…
DEMO
Che amico, che corte?
Metti mano, dich’io.
Or ch’io sono in furore,
vo’duellar, e vo’cavarti il core.
ORESTE
Perdon ti chieggio, o caro,
la vittoria ti cedo,
mi ti dono per vinto,
e se troppo parlai, fu mia sciagura.
DEMO
Quel che fa la bravura!
ORESTE
Pietà, signor, pietà.
DEMO
Perché tu veda
che quanto forte e generoso io sono,
va, va, ch’io ti perdono.
ORESTE
Atto da grande.
DEMO
Grande? Se mi vedessi
con l’inimico a fronte
pormi in guardia guerriera,
buttar foco dagl’occhi,
inferocir la cera,
e col brando e con l’asta
vibrar stoccate e fulminar roversi,
vedresti alzarmi a’piedi
di morti e di feriti una ca-tasta,
e dai miei colpi fieri,
che snervano, dispolpano e disossano,
verresti a confessare
che Marte è mio umilissimo scolare.
ORESTE
Così cred’io, ma il ferro omai riponi.
DEMO
Ecco il ripongo, e ti dichiaro amico.
ORESTE
Or dimmi in cortesia,
conosci tu per sorte…
DEMO
Oimè!
ORESTE
Che hai?
DEMO
Sento ch’il mio furore
non è sfogato a pieno.
Lasciati dare una stoccata, almeno.
ORESTE
Tu manchi di parola?
DEMO
Lasciati dare una stoccata sola.
ORESTE
Quest’è un tentarmi.
DEMO
Ah, ferma;
sento il sangue acquietato;
parla, ch’io son placato.
ORESTE
Lodato il ciel! Conosci tu Giasone?
DEMO
Che pretendi da da
daranda, daranda, danda, da lui?
ORESTE
Bramo saper se si ritrova in Colco.
DEMO
Chi ti manda?
ORESTE
Il mio zelo a me fu sprone.
DEMO
Vuoi ch’io ti dica?
ORESTE
Dì.
DEMO
T’ho per spione.
ORESTE
Quest’è troppo, tu menti!
DEMO
Puh, uh, tanto furore?
Forse l’esser spion leva l’onore?
ORESTE
Fuori ti rivedrò.
DEMO
Fermati, senti.
ORESTE
Che vorrai dir?
ORESTE E DEMO
Troppo iracondo/indiscreto sei!
DEMO E ORESTE
Parlai scherzando / sul saldo, e perdonarmi/, e tu pentirti dei.
DEMO
Mi pento.
ORESTE
Ti perdono.
DEMO
E di Giasone
giuro na na na…
ORESTE
Na na na na na na
DEMO
giuro narrar a te gl’avvisi intieri.
Io di qua parto, e tu per altra via,
e t’aspetto a far pace all’o… all’o…
lo… lo… lo… lo… lo… lo…
e t’aspetto a far pace all’o… all’o…
lo… lo…, all’o… all’o…
ORESTE
Oimè, non più, t’ho inteso;
verrò, va pur, va via! (Demo parte)
Vo’seguitar costui,
che semplice e atterrito
dalla mia bizzarria,
il tutto mi dirà!
DEMO
(torna) …all’osteria!
3
MATTEO CABERLOTI, Laconismo delle alte qualità di Claudio Monteverde (“Laconismo”: stile conciso, compendioso.).
qualche forma di logica (moralistica) se un prete non ricorda l’Incoronazione di Poppea… Ad ogni modo la
questione fondamentale è che il testo di Caberloti viene pubblicato nel 1644 (nella raccolta miscellanea Fiori
poetici raccolti nel funerale del molto illustre e molto reverendo signor Claudio Monteverde), sicché non abbiamo
notizie certe riguardo alla datazione del memoriale funebre].
Connessioni stilistiche con la partitura del Ritorno di Ulisse in patria, insieme alla forza e alla sintesi
drammatica di alcuni dialoghi (ad esempio I,9), giustificano l’attribuzione monteverdiana di molte scene,
almeno nella loro prima redazione. D’altro canto l’intero finale e quasi tutta la parte di Ottone sono stati
composti da una mano diversa rispetto al resto della partitura. Altri passi isolati (il prologo, le scene seconda
e quarta del secondo atto, la sinfonia finale) rivelano tratti stilistici che fanno pensare a uno o più
compositori della generazione più giovane rispetto a quella di Monteverdi. Nomi dei probabili collaboratori:
Benedetto Ferrari e Francesco Sacrati, del quale la recente scoperta della partitura de La finta pazza ha
permesso nuove e interessanti comparazioni stilistiche; a essi si aggiungono Francesco Manelli e Filiberto
Laurenzi, autore di molte delle musiche de La finta savia, su libretto di Giulio Strozzi, rappresentata al Teatro
SS. Giovanni e Paolo nella stagione in cui fu allestita l’Incoronazione, con gli stessi interpreti. [Non sempre
vengono richiamati tutti questi nomi; di sicuro, comunque, taluni ipotizzano anche il nome di Cavalli].
E ancora:
La Forza è legge in pace e spada in guerra
proclama Nerone (I, 9), La logica della forza e della violenza costringe i cortigiani in un atteggiamento
costante di freddo calcolo e di studiata dissimulazione, in una spasmodica difesa del proprio egoistico
interesse.
Colui che ad altro guarda
Si spegne nei cuori ogni calore ed ogni umana dignità e vi prende posto l’acre, puntiglioso, lugubre gusto
della vendetta:
L’infamia sta gl’affronti in sopportarsi
[E ancora:]
Chi ti punge nel senso
È riconoscibile, nell’Incoronazione, un riflesso non solo della vita e della società barocca, così come si
presentava all’occhio critico del Busenello, fastosa e barbara, ma della problematica dibattutissima nei primi
decenni del Seicento sul rapporto tra utilità e morale e tra morale e politica.
71. Incoronazione di Poppea - Duetto finale (III,8)
POPPEA, NERONE
Pur ti miro, pur ti godo, A
pur ti stringo, pur t'annodo,
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mi tesoro.
POPPEA
Io son tua… B
NERONE
Tuo son io…
POPPEA, NERONE
Speme mia, dillo, dì,
tu sei pur, l'idol mio,
sì, mio ben,
sì, mio cor, mia vita, sì.
76. Scarlatti-Minato, Pompeo (1680), «O cessate di piagarmi» (vers. Parisotti «Arie antiche»)
O cessate di piagarmi,
o lasciatemi morir.
Luci ingrate,
dispietate
più del gelo e più de’marmi
fredde e sorde ai miei martir:
O cessate di piagarmi,
o lasciatemi morir.
77. Scarlatti (A.), Griselda, 1721, «Di’che sogno o che deliro» (I,14)
STRUTTURA
TESTO SPARTITO ASCOLTO
TESTO
GRISELDA
Di’ che sogno o che deliro, A A A
se d’amarti io ti dirò.
E se mai lo sguardo giro
Verso te meno sdegnosa,
B B B
Di’ che è l’ira in petto ascosa,
ma non già che si placò.
da capo A’
78. Vivaldi, Catone in Utica (1737), aria «Come invano il mare irato» (II,14)
1691, VE La virtù trionfante dell’amore e dell’odio Francesco Silvani Mus.: Marc’Antonio Ziani
1693, VE La forza della virtù Domenico David Mus.: Carlo Francesco Pollarolo
1696, NA Il trionfo di Camilla regina de’ Volsci Silvio Stampiglia Mus.: Giovanni Bononcini
1724, NA Didone abbandonata Metastasio (Pietro Trapassi) Primo libretto integralmente metastasiano
Mus.: Domenico Sarro
93. Piero Weiss, influenza del mondo musicale sul nascente dramma eroico
Che parte possono aver avuto i musicisti (i cantanti, i compositori) nello sviluppo del nuovo dramma eroico?
Possibile che l’opera seria sia stata soltanto il frutto degli sforzi riformatori di poeti e mecenati? Eppure,
secondo tutte le testimonianze, i poeti andavan soggetti alle esigenze dei cantanti in prima linea, poi dei
compositori. […]
Nei primi decenni del Settecento tanto l’arte compositiva quanto quella vocale sono in uno stato
d’espansione. L’aria col da capo s’era affermata alla svolta del secolo come mezzo d’espressione per
eccellenza, escludendo quasi ogni altra forma. Era stata di vari tipi: accompagnata dal solo basso continuo
(con o senza ritornello strumentato) o anche dagli archi (raramente da uno strumento obbligato). Era
collocata in principio, nel mezzo o in fin di scena (di uscita, media, d’ingresso) e offriva di tanto in tanto
occasioni ai cantanti di sfoggiare le loro capacità vocali. Tali passaggi virtuosistici raramente oltrepassavano
certi limiti di difficoltà. Si è visto nel Trionfo di Camilla [di Bononcini] che tra aria seria e arietta buffa, dal
punto di vista dei mezzi tecnici, spesso non vi era una grande differenza. Orbene, mentre i virtuosi (leggi: le
parti serie) conquistano sempre nuove alture, i compositori ampliano le dimensioni dell’aria, che adesso si
colloca di preferenza in fin di scena ed è accompagnata dal complesso strumentale. Man mano che si fan più
lunghe, le arie diventano anche più rade: da una cinquantina (in media) nel 1690, scenderanno a
trentacinque o anche meno nel 1720. Non succede più che a un virtuoso tocchino due arie di seguito (ma qui
non contano quelle di uscita [uscita dalle quinte verso il palcoscenico], che per tradizione sono e rimarranno
introduttive e spesso monche). La musica dei servi faceti rimane indietro, terra terra, popolare. Da tutto
questo non è possibile avvertire un impulso puramente musicale verso la riforma del melodramma, verso
l’opera seria? La graduale eliminazione delle parti buffe, la messa in evidenza delle nuove grandi arie
(pentapartite […]) col collocarle in fin di scena, la necessità d’alternare più razionalmente le uscite e gli
ingressi dei virtuosi, tutto coincide perfettamente con le tendenze prettamente letterarie della riforma.
96. Divértisséments
Lo sfolgorante successo conseguito da Armide già alla sua prima rappresentazione, e la fama di
ineguagliabile modello assicurato per suo tramite a intere generazioni di compositori francesi, si protrasse
ben addentro il XVIII secolo: l’opera veniva data ancora nel 1764, appena tredici anni prima che Gluck si
cimentasse con lo stesso testo. D’altro canto il conservatorismo classicista della tradizione francese, che
tanto a lungo guardò retrospettivamente ai canoni lulliani, trova qui una delle sue più mirabili ragion
d’essere, per il grado di raffinata quanto spontanea fusione del testo con la musica e di entrambe con gli
eterogenei apporti – mimici, coreografici e spettacolari – chiamati a confluire nella complessa macchina
teatrale della tragédie lyrique.
Prologo. La Gloria e la Saggezza a dialogo, come due dame che si dividono equamente i favori del cuore di
Renaud, ne lodano gli eroismi in guerra e in pace; egli saprà trionfare, proclamano entrambe, anche sulle
tentazioni dell’amore.
Atto primo. Una grande piazza sormontata da un arco di trionfo. Armide si lamenta con le sue confidenti
Sidonie e Phénice: al momento del suo più grande trionfo, l’aver fatto innamorare di sé tutti i cavalieri
crociati, una profonda tristezza l’affligge. Renaud resta ancora insensibile alle lusinghe del suo fascino e
della sua bellezza. Per questo Armide lo ammira e lo odia al tempo stesso. La maga è sollecitata da Hidraot a
scegliersi uno sposo tra i grandi cavalieri che sono ai suoi piedi. Ma ella ribatte che solo chi saprà vincere
Renaud sarà degno di lei. Il trionfo di Armide viene celebrato con un esteso divertissement (marche, rondeau et
sarabande; I,3). I festeggiamenti sono interrotti dall’arrivo di Aronte: Renaud, con la forza del suo solo valore,
ha liberato i cavalieri cristiani prigionieri di Armide, che giura vendetta.
Atto secondo. Un’aperta campagna, ove un fiume forma un’isola amena. Renaud, bandito dal campo dei
cavalieri cristiani, è raggiunto dal fido Artémidore, che lo invita a farvi ritorno e a guardarsi dalle insidie di
Armide. Hidraot e Armide invocano le potenze infernali perché conducano in loro potere Renaud, vittima
designata. Renaud, solo, è sedotto dalle bellezze naturali dell’isola, si dice incapace di lasciarla e cade
addormentato. Qui Divértissément: Le potenze infernali inviate da Armide si manifestano sotto le forme
ingannatrici e attraenti di naiadi (ninfe delle acque dolci), ninfe, pastori e pastorelle che adornano il
dormiente con corone di fiori. Armide potrebbe ora celebrare la sua vendetta contro Renaud vinto dal sonno.
Si accinge a colpirlo, ma esita ed è presa dalla pietà: Renaud le appare «fatto non solamente per la guerra, ma
per l’amore». Ordina dunque alle schiere di demoni di trasformarsi in amabili zefiri, che conducano
entrambi sul suo carro fino ai più lontani confini del mondo.
Atto terzo. Un deserto. La collera di Armide si è mutata in languore: ora è la maga a trovarsi prigioniera di
Renaud, vinta da spontaneo amore per lui. L’amore di Renaud è invece una mera apparenza, si duole
Armide con Phénice e Sidonie, perché è solo il frutto dell’artificio indotto dall’incantesimo. Armide invoca
allora una seconda volta le potenze infere, affinché la salvino dall’amore. In risposta alla chiamata di Armide
compaiono l’Odio e il suo seguito, prontamente apprestandosi a spezzare e distruggere ogni vincolo
d’amore. Ma Armide comanda all’Odio di interrompere la sua opera, preferendo restare «sotto la legge del
suo dolce dominatore». L’Odio compiange la debolezza amorosa di Armide, che la condurrà «a un orribile
abisso», e la punisce del suo voltafaccia promettendole di lasciarla per sempre in preda del suo amore.
Atto quarto. Ubalde e le Chevalier Danois si dirigono verso il palazzo di Armide per liberare Renaud,
respingendo i mostri inviati contro di loro dalla maga. Ma costei ora scaglia contro di loro le lusinghevoli
forze dell’incantesimo amoroso, sotto le apparenze di Lucinde e Mélisse: ma al tocco dello scettro d’oro
donato da un mago ai cavalieri, a difesa dagli incantesimi, le «pericolose dolcezze delle illusioni amorose»
svaniscono.
Atto quinto. Il palazzo incantato di Armide. Renaud giace ai piedi di Armide, privo di armi e ricoperto di
ghirlande di fiori. La maga si allontana dall’amato per interrogare le potenze infernali e lo affida ai Piaceri e
agli Amanti fortunati. Ma Renaud respinge i Piaceri, desideroso solo del ritorno di Armide. Ubalde e le
Chevalier Danois, approfittando dell’assenza di Armide, mostrano a Renaud l’altro dono del mago: uno
scudo di diamante che gli permette di rinsavire. I cavalieri si accingono a lasciare l’isola, e la maga,
disperata, cerca in ogni modo di trattenere Renaud offrendosi sua prigioniera, cercando ora di minacciarlo
ora di impietosirlo. Ma Renaud resiste alle sue lusinghe e la lascia, non senza parole di compianto per la sua
infelice sorte. Armide, abbandonata, lamenta il proprio destino. Scaccia i Piaceri dal palazzo e ordina ai
demoni che venga distrutto, augurandosi che con esso resti sepolto anche il funesto amore per Renaud;
quindi si allontana sul suo carro volante.
Con Armide Lully e Quinault, il fedele librettista di undici delle sue tredici opere (se escludiamo due
pastorales-héroïques e l’incompiuta Achille et Polyxène), raggiungono esiti tra i più alti della loro lunga
collaborazione. Per meglio accostarsi alla grandezza di Armide, ispirato canto del cigno per il compositore
come per il poeta – Lully morirà un anno più tardi, Quinault rinuncerà al teatro non appena terminata la
stesura della tragedia – è bene ricordare che nella tragédie lyrique si realizzano valori teatrali in spiccata
divergenza dalla coeva opera italiana. Il canto virtuosistico dei castrati italiani e la netta giustapposizione
dell’aria al recitativo portano a svilire il valore della parola, laddove il peso schiacciante del teatro tragico
di Corneille e Racine imponeva a Lully, quale obbiettivo primario, il declamato del recitativo. Lully si trovò
così, paradossalmente, a dar voce a quegli ideali di classico equilibrio tra parola e musica coltivati anche
dall’opera italiana al principio del secolo, ma poi presto dimenticati. Il pubblico francese dell’epoca,
secondo un atteggiamento pressoché antitetico all’italiano, continuava ad andare all’opera non per la
musica, bensì in primo luogo per seguire le parole attraverso le quali un intreccio si sviluppava e infine si
scioglieva. Con l’opera italiana la tragédie lyrique condivide solo la ricerca del soprannaturale, da
ricavarsi con l’effetto del macchinario scenico, la sontuosità dei costumi e delle decorazioni; mentre vi
aggiunge un’altra risorsa sua peculiare, quella della danza. Sulla scia del tradizionale ballet de cour, fastoso
genere celebrativo in onore della maestà regale, la tragédie ne eredita i divertissements cantati e danzati. Di
regola, come in Armide, essi fungono da prologo ai cinque atti della tragédie, e inoltre un divertissement
doveva figurare in ciascun atto. In Armide i divertissements hanno un ruolo non secondario e di notevole
varietà, che spazia dal carattere decorativo del primo atto alla drammaticità della scena infernale nel terzo
alla maestosa, estesa passacaglia del quinto, pagina di un respiro sinfonico per l’epoca inusitato. Il rilievo
del tutto particolare conferito al recitativo dall’ideale estetico di Lully deriva dunque dal bisogno di
elevare l’arte musicale all’aulica dignità letteraria della tragedia: di questo processo, autentico atto di
nascita della tradizione operistica francese, Armide divenne a buon diritto uno dei più osannati archetipi. Nei
suoi scritti teorici Rameau esaltò il vigore rappresentativo dei suoi recitativi; e la loro qualità si può
compendiare nel sapiente muovere in costante e delicato equilibrio tra declamazione e melodia vera e
propria. Sono momenti che quasi si confondono con gli airs, ma se ne distinguono per l’assenza di ripetizioni
di parole e per la maggiore libertà di costruzione. Inoltre Lully ricorre spesso ai recitativi obligés che
comportano, nei frangenti più drammatici e appassionati come le invocazioni e i lamenti,
l’accompagnamento orchestrale. In Armide li troviamo per la maggior parte affidati alla protagonista, a
sottolineare la tumultuosa varietà dei sentimenti che senza sosta le si agitano in petto: dalla dolcezza
amorosa alla furia vendicativa e a quegli slanci patetici che, oltretutto, Quinault ebbe modo di accentuare
sapientemente rispetto al suo modello letterario (e l’intero terzo atto, per inciso, si deve al librettista). È il
caso dell’evocazione del sogno di Armide (I,1) o del celebre «Enfin, il est en ma puissance» (II,5), o ancora
delle sue terribili incertezze all’inizio del terzo atto e del conclusivo «Le perfid Renaud me fuit» (V,5) in cui,
come altrove, il conflitto che lacera l’animo della maga emerge in tutta la sua persuasiva veemenza
drammatica attraverso esclamazioni concitate e affannate, pause e stacchi di calibrata irregolarità ritmica. E
anche a Renaud sono riservate pagine nobili e rimaste famose, quali la sua “aria del sonno” («Plus j’observe
ces lieux», II,3), momento di placida e idilliaca serenità posto a necessario contrasto prima del furioso
monologo recitativo di Armide. A sostegno di un canto di nobile naturalezza, il tessuto dei violini in sordina
stende un uniforme panneggio di crome: delicata e arcadica pittura musicale dei mormorii delle acque che
cullano, con voluttuosa e costante ondulazione, il sonno del cavaliere.
100. Henry Purcell, The Fairy Queen (1692), «Oh, let me weep» (“The Plaint”) (1693)
O let me weep, for ever weep, O lasciatemi piangere, piangere per sempre,
My Eyes no more shall welcome Sleep; I miei occhi non daranno più il benvenuto al sonno;
I’ll hide me from the sight of Day, Io mi nasconderò alla vista del giorno,
And sigh, and sigh my Soul away. E sospiro, sospiro via la mia anima.
He’s gone, he’s gone, his loss deplore; Se n’è andato, se n’è andato, deploro la sua perdita;
And I shall never see him more. E non lo vedrò mai più.
ATTO SECONDO. Aristea e Argene vengono informate da Alcandro dell’esito della gara. La vittoria è
toccata a Licida (Megacle, in verità); ad Aristea resta il dolore più amaro (“Grandi, è ver, son le tue pene”).
Aminta, che incontra Argene, riflette sull’insensatezza dell’amore giovanile e sulle follie di ogni età
(“Siam navi all’onde algenti”). Il re Clistene proclama vincitore dei giochi Megacle, che chiede di sposare
Aristea solo una volta giunto a Creta e l’affida nel frattempo a Licida, presentato come suo servo. Il
colloquio è interrotto dall’arrivo di Aristea, che scopre con gioia essere Megacle il vincitore. Quando i due
amanti restano soli, Megacle chiarisce definitivamente la situazione. Aristea, oppressa dal dolore, sviene.
Per non esasperare la propria e altrui disperazione, Megacle decide di partire prima che Aristea riprenda i
sensi e affida a Licida un enigmatico addio per la ragazza (“Se cerca, se dice”). Trovando Licida di fronte a
sé, Aristea reagisce con sdegno (“Tu me da me dividi”). Dopo che il principe – Licida – ha subìto anche la
furia della respinta Argene, Aminta gli porta la tragica notizia dell’annegamento dell’infelice Megacle. Il
re inoltre condanna Licida all’esilio per la disonestà, smascherata, da egli tenuta nella gara. Disperato,
questi non trova nemmeno il coraggio di uccidersi (“Gemo in un punto e fremo”).
ATTO TERZO. Megacle è stato salvato da un pescatore. Ancora deciso a morire, incontra Aristea e quindi
Alcandro, che gli narra dell’attentato contro il re: Licida si è avventato con la spada sguainata contro il
sovrano, ma, preso dal rimorso, si è fermato prima di colpire ed è stato imprigionato. Condannato a
morte, dal carcere invoca continuamente Megacle. Aristea offre di intercedere per lui presso il padre.
Inutilmente però. È imminente il sacrificio del colpevole, e gli altri personaggi si preparano al tragico
evento (Argene: “Fiamma ignota nell’alma mi scende”; Aminta: “Son qual per mare ignoto”). Di fronte al
tempio di Giove olimpico si appresta il sacrificio: Licida chiede di rivedere Megacle prima di morire,
mentre il re si sente stranamente turbato (“Non so donde viene”). Commossi, i due amici si incontrano
brevemente. Il sacrificio viene però interrotto dall’irruzione di Argene, che si offre come vittima in
sostituzione di Licida. Mostra allora un monile che questi le ha donato: esterrefatto, Clistene lo riconosce
come appartenente a suo figlio Filinto, abbandonato da bambino. Alcandro confessa allora di non aver
fatto annegare il bimbo che gli era stato affidato, ma di averlo consegnato ad Aminta. Clistene ha dunque
ritrovato in Licida il fratello di Aristea; e tuttavia deve eseguire la condanna. Provvidenziale giunge però
la notizia che la giornata in cui Clistene governava a Olimpia è ormai trascorsa: il re non è più dunque
competente sul reo. Il popolo decide allora di assolvere Licida.
1. Criteri Tecnici
Aria di bravura
Aria cantabile
Aria presta
Aria parlante
2. Criteri contenutistici
Aria di paragone
Aria del sonno
Aria con catene
Aria d’ombra
Aria di caccia (con corno concertante)
Aria di zefiro
Aria di tempesta
Aria di guerra
3. Criteri affettivi
Aria di furore
Aria di vendetta
Aria d’amore
Aria patetica
Aria di mezzo carattere
121. Pier Jacopo Martello, Dialogo della Tragedia antica e moderna o sia L’impostore (1714-1715)
L’uso comanda che il tuo melodramma sia diviso in tre atti, perché, se in cinque lo partirai, potresti far credere di voler
esporre al popolo una tragedia, e ti faresti debitore follemente di quelle regole che in nessuna maniera potresti poi
osservare. […] Nell’atto primo sarà tua cura il preparar gli ascoltanti all’intreccio, dando loro la necessaria notizia degli
eroi che battono il palco, degli antefatti opportuni alla cognizione, […] e facendo la prima mostra de’ caratteri, almeno
de’ principali, che dovranno intervenire all’azione, […]
Nel secondo atto tu dei pensare al viluppo tanto delle azioni quanto delle passioni. […] Le passioni sien varie, ed
opposte. Se puoi, l’odio si contrapponga all’amore, l’amore all’odio. l’ira vi abbia ancor la sua parte; ma l’amorosa
passione di tutte le altre trionfi; e le altre non servano che a far spiccar questa, la quale, essendo la più comune a tutti gli
uomini, si vede rappresentata più volentieri, […]
Nel terzo atto pensisi allo sviluppo, o sia scioglimento, e sia pur anche per macchina, se lo permetterà l’impresario […].
Vi sieno agnizioni e peripezie. […] Le peripezie sieno sempre di mesta in lieta fortuna, nella quale termini il
melodramma per lo mezzo degl’imenei. Ed in questo scioglimento i personaggi virtuosi restin premiati con meritata
felicità, e i viziosi rimangan puniti con severità; che mai non arrivi alla morte, non volendosi le morti in questi
spettacoli creati per rallegrare, non per contristar gli ascoltanti.
Sbrigato dall’economia dell’azione compartita alla misura degli atti, dei già pensare a dividere ciaschedun atto in scene;
e qui non avrai già a sudar poco. Primieramente dovrai avvertire quanti sieno i principali cantanti, per farli operare
egualmente, altrimenti quai liti invincibili fra quelle balde fanciulle e que’ rigogliosi castrati! Dei ancora aver riguardo
alle voci, intrecciandole in modo che aiutino e non distruggano l’intenzione del compositor della musica. Però ti esorto,
avanti di tagliare in scene il panno degli atti, a mostrarlo al compositore, ed interrogarlo qual voce, secondo il suo gusto,
tu debba accoppiare a principio, a mezzo e sulla fine di ogni atto. Dei però convenire col compositore, ed egli consentirà
facilmente, che ciaschedun atto contenga una di quelle che si chiamano scene di forza, o per qualche violento ed insolito
impegno di passioni contrarie, o per qualche incontro ed avvenimento non aspettato dagli uditori.
[…]
Non ti rimarrà che il mettere in versi il tuo dramma. Egli si vuole tutto diviso in recitativo ed in ariette, o le diciam
canzonette. Ogni scena dee contenere o solo recitativo, o sola arietta, o per lo più l’uno e l’altra. Tutto ciò ch’è racconto, o
espressione non concitata, dovrebbe esprimersi in verso recitativo; ma ciò che ha la mossa della passione, o contrassegna
non so che di più violento, inclina più volentieri alla canzonetta.
Il recitativo si ama tanto breve che non addormenti col tedio, e tanto lungo che non generi oscurità […]. Questo dovrà
chiudersi in versi di sette e di undici sillabe, alternati e misti, secondoché caderà più acconcio.
[…]
Le canzonette sono o semplici o composte. Semplici direm quelle che a voce sola, composte quelle che a due o che a più
voci si cantano. Quelle a due voci nomineremo duetti; quelle a più voci si chiamino cori. Le arie semplici, alcune diremo
escite, altre ingressi, ed altre medie. Le escite si adopreranno quando un personaggio esce in scena […]. Ma di queste ti
varrai parcamente. Con la medesima cautela è d’uopo valersi delle medie, perché riescono fredde ogni volta che a mezzo
una scena gli attori muti sono obbligati a star così ritti ad udire l’attore che canta a tutt’agio, e però in queste vi vuole un
necessario accompagnamento di azione, che almeno costringa gli altri attori a qualche atto che non li lasci interamente
oziosi, e allora producono un ottimo effetto. […] Gl’ingressi [dietro le quinte] debbono chiudere ogni scena, e un
musico non dee mai partire senza un gorgheggiamento di canzonetta. Siasi o non siasi verisimile, poco importa.
Troppo solletica quel sentire la scena terminata con spirito e con vivezza.
[…]
I duetti nel mezzo di una scena si ascoltano volentieri, perché danno una azione reciproca a più di un attore, e ne amerei
ancor uno nel fine del secondo atto. I cori nel fine dell’ultimo atto sono inevitabili, godendo il popolo di ascoltare
insieme unite tutte quelle voci, a ciascheduna delle quali separatamente nel corso del melodramma ha applaudito, e lo
strepito de’ cantanti e degli strumenti fa che tutti si levino in piedi e partano ripieni ed allegri degli ascoltati concenti con
desiderio di ritornare.
[…]
Queste ariette, o sien canzonette, si debbono compartir di maniera che i cantanti di maggior credito ne abbiano
numero eguale, essendo invincibili e puntigliose le competenze de’ musici, ed essendo ancor utile al recitamento del
dramma che le migliori voci facciano pompa eguale di sé medesime all’orecchio dell’uditorio. […]
Ma ti sia ben a cuore che in ciaschedun’aria vi sia l’intercalare [= il “da capo”] Intercalare chiamano i professori la
prima parte dell’aria, che poi ripetesi dal cantore, essendo che in questi facendo il compositore brillar l’artificio delle sue
note, ha piacer ch’ella si replichi. Ne gode altresì il musico [= il cantante, che può mostrare la propria abilità nella
variazione] e ne gode ugualmente il popolo.
Le costruzioni si vogliono agevoli, i periodi chiari e non lunghi, le parole piane e vezzose, le rime non ispide, i versi
correnti e teneramente sonori. Ti raccomando nelle arie qualche comparazione di farfalletta, di augelletto o di
ruscelletto: queste son tutte cose che guidano l’idea in non so che di ridente, che la ricrea […]; ed il compositor della
musica sempre vi si spazia con avvenenza di note. […]
Mettiti ancora in capo che nelle arie quanto più le proposizioni son generali, tanto più piacciono al popolo per ché,
trovandole o verisimili o vere, se ne fa un capitale per valersene onestamente con la sua donna, cantandole nelle
occasioni che di giorno in giorno avvengono agli amanti, di gelosie, di sdegni, di promesse reciproche, di lontananza e
simili.
[…]
La poesia è uno di que’ signori caduti in bassezza e costretti dalla necessità del guadagno a servire. Non si è scordato
ancora l’orgoglio del comandare, e mal si adatta alla presente fortuna. Ma quando si serve, si è servidore; e in questa
linea opera onoratamente la poesia, niente comandando e solo ubbidendo alla musica, che in teatro n’è la padrona.
[…]
E questa musica poi è una delle arti più maravigliose e perfette dell’universo, che non perisce alla posterità, né con gli
autori, né con le voci, né con gli strumenti. La sola musica ridotta all’atto [= attuata] contiene il segreto importantissimo
di separar l’anima da ogni umana cura per quello spazio almeno di tempo in cui le note possono trattenerla,
maneggiando artificiosamente la consonanza, sia delle voci o degli strumenti. Ché se tanto si loda il sonno, perché i sensi
della miserabile umanità legando, li astrae e li rende per poche ore immuni dalle sventure, quanto sarà mai più
pregevole un’arte che, senza sospenderci l’uso del vivere come fa il sonno, detto perciò fratel della morte, ci fa vivere
estatici in una quiete deliziosa e contenta, co’ sensi veglianti, ma lieti e veramente felici?
122. Metastasio a Niccolò Jommelli (1765)
Mi è stato carissimo il prezioso dono delle due arie magistrali che vi è piaciuto inviarmi; e, per quanto si
stende la mia limitata perizia musicale, ne ho ammirato il nuovo ed armonico intreccio della voce con
gl’istrumenti. L’eleganza di questi, non meno che delle circolazioni, e quella non comune integrità del tutto
insieme, le rende degne di voi. Confesso, mio caro Jomella, che questo stile m’imprime rispetto per lo
scrittore; ma voi, quando vi piace, ne avete un altro che s’impadronisce subito del mio cuore senza bisogno
delle riflessioni della mente […]. Ah, non abbandonate, mio caro Jomella, una facoltà nella quale non avete e
non avrete rivali! Nelle arie magistrali potrà qualcuno venirvi appresso con l’indefessa e faticosa
applicazione; ma per trovar le vie del cuore altrui bisogna averlo formato di fibra così delicata e sensitiva
come voi l’avete, a distinzione di quanti hanno scritto note finora. È vero che, anche scrivendo in questo
nuovo stile, voi non potete difendervi di tratto in tratto dall’espressione della passione che il vostro felice
temperamento vi suggerisce; ma obbligandovi l’immaginato concerto ad interrompere troppo
frequentemente la voce, si perdono le tracce de’ moti che avevate già destati nell’anima dell’ascoltante, e per
quella di gran maestro trascurate la lode di amabile e potentissimo mago.
Arie: contenuti
L’ariette non dovranno aver relazione veruna al recitativo, ma convien fare il possibile d’introdurre nelle
medesime per lo più farfalletta, mossolino, rossignuolo, quagliotto, navicella, copanetto, gelsomino,
violazotta, cavo rame, pignatella, tigre, leone, balena, gambaretto, dindiotto, capon freddo, etc. etc. etc.,
imperciocché in tal maniera il poeta si fa conoscere buon Filosofo distinguendo cò paragoni le proprietà
degli Animali, delle Piante, de’ Fiori, etc. BENEDETTO MARCELLO, Il Teatro alla moda, 1720.
Le arie teatrali non soffrono le tante repliche d’alcune loro parole e d’alcuni loro versi, come vezzo suol
essere de’ nostri compositori, i quali con una disordinata ripetizione delle medesime parole fanno d’una
brevissima aria una lunghissima filastrocca. Quel tanto ripetere vocem prodigaliter unam oltre a raffreddare il
sentimento colla svenevolaggine sua, talvolta non ha significato alcuno, e talaltra prende un significato tutto
opposto a quello che hanno le medesime parole nell’ordine, che ad esse assegnò il poeta (ANTONIO PLANELLI,
Dell’opera in musica, 1772).
Chi nell’Arie dà più negli acuti è il più bravo, cioè il meno melodioso. […] E quelle eterne ripetizioni di
parole, di versi, di parti intralciate, scombussolate, rimescolate, che laberinto non sono esse mai? Le parole
non vanno replicate se non con quell’ordine che detta la passione.
La prima parte dell’aria suol essere un fuoco artificiale, la seconda poi una gnagnera [lamento, capriccio,
insulsaggine], da cui si ritorna alla prima parte, la quale (caschi il mondo) si ha da replicare quattro volte
interamente, e separatamente in frastagli senza numero. (FRANCESCO MILIZIA, Trattato completo formale e
materiale del teatro, 1794).
Se tacessero i trilli, dove parlano le passioni, e la Musica fosse scritta come si conviene, non vi sarebbe
maggior disconvenienza che uno morisse cantando, che recitando de’ versi. […] Quelle repetizioni poi di
parole e quegli accozzamenti fatti soltanto in grazia della musica e che non formano senso veruno, quanto
non sono essi mai noiosi ed insoffribili? Le parole non si vogliono replicare, se non con quell’ordine che detta
la passione e dopo finito il senso intero dell’aria, e il più delle volte non si dovrebbe neppure dir da capo la
prima parte; ch’è uno de’ trovati moderni, e contrario al naturale andamento del discorso e della passione, i
quali non si ripiegano altrimenti in se stessi e dal più non tornano al meno.
Si rimangono scolpite nella memoria dell’universale quelle arie che dipingono o esprimono, che chiamansi
parlanti, che hanno in sé più di naturalezza; e la bella semplicità, che sola può imitar la natura, viene poi
preferita a tutte le più ricercate conditure dell’arte. (FRANCESCO ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica,
1755)
Ouverture
[Una] strombazzata, diciamo così, con che si abbiano a riempire d’avanzo e ad intronare gli orecchi
dell’udienza. (FRANCESCO ALGAROTTI, Saggio sopra l’opera in musica, 1755).
La Sinfonia è l’apertura, ed insieme il primo inconveniente della nostra Opera. Un paio d’allegri, un grave,
uno strepito da assordire sono gli ingredienti d’ogni Sinfonia. Chi ne ha sentita una le ha sentite tutte. È
sempre una insignificanza, che si permette ad ogni dramma. (FRANCESCO MILIZIA, Trattato completo formale e
materiale del teatro, 1794).
128. Gluck, Don Jouan (1761) finale - (o Air des Furies in Orphée et Eurydice)
137. Orfeo ed Euridice,”ahimè, dove trascorsi” – “Che farò senza Euridice” (III,1)
Ahimè! Dove trascorsi? Ove mi spinse
Un delirio d’amor? Sposa, Euridice,
Euridice, consorte. Ah, più non vive!
La chiamo invan. Misero me! La perdo,
E di nuovo, e per sempre. Oh, legge! Oh, morte!
Oh ricordo crudel! Non ho soccorso:
Non mi avanza consiglio. Io veggo solo
(Ah, fiera vita!) il luttuoso aspetto
Dell’orrido mio stato.
Saziati, sorte rea; son disperato.
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
Euridice! Oh, dio! Rispondi.
Io son pur il tuo fedel.
Euridice! Ah, non m’avanza
Più soccorso, più speranza
Né dal mondo, né dal Ciel.
Ah, finisca e per sempre
Colla vita il dolor! Del nero Averno
Sono ancor sulla via. Lungo cammino
Non è quel che divide
il mio bene da me. Sì, aspetta, o cara
Ombra dell’idol mio. Ah, questa volta
Senza lo sposo tuo non varcherai
L’onde lente di Stige.
144. Ludovico Antonio Muratori, tipi comici (Della perfetta poesia italiana, 1706)
[…] un uomo parlatore, un avaro, un geloso, un temerario, un cortigianello, un vantatore, una Donna vana, un servo
sciocco, un Giudice interessato, un Procuratore ignorante, un astuto Artigiano e tante altre maniere di costumi che tutto
giorno si mirano fra gli uomini di basso stato.
149. Paisiello (Lorenzi [Galiani]), Socrate immaginario (Napoli, Teatro Nuovo, 1775), II, 9
Don Tammaro è impazzito per la filosofia antica; pretende di essere “Socrate secondo” e di comportarsi, fin nei minimi
particolari, come il filosofo greco. Egli afferma di essere una bestia solenne e, appunto per questo, di essere filosofo,
come del resto era stato Socrate. Accetta inoltre, senza dolersene, le ire della moglie [Donna Rosa, la seconda moglie]
perché appunto così capitava al primo Socrate e, per lo stesso motivo, arriverà a implorare che questa gli versi un orinale
in testa. Tammaro ha pure convinto il proprio barbiere (mastro Antonio) a essere Platone, e a lui vuole dare in moglie
la figlia Emilia, la quale ama, invece, riamata, Ippolito. D’altra parte questa è assolutamente contraria a un matrimonio
senza il consenso del padre, cosa che getta nella disperazione l’innamorato. Una nuova idea di Tammaro è quella di
avere due mogli per incrementare le nascite e quindi far del bene alla patria: a questo scopo sceglie Cilla, la figlia del
barbiere, di cui è però innamorato Calandrino, servo del nuovo Socrate. Cominciano così a susseguirsi vari tentativi per
risolvere al meglio, data l’insania di mente di Tammaro, l’intricata vicenda. Tutti comunque falliscono o per intervento
di Emilia, che non vuole vedere il padre ingannato, o di Cilla. Calandrino tenta poi di farsi passare per il demonio – col
quale sempre si consigliava, secondo lo storico Diogene Laerzio, il primo Socrate – per convincere don Tammaro a
dare la figlia a Ippolito. Fallito anche questo, Calandrino ha un’ultima trovata: convincerlo a bere un sonnifero
facendogli credere che sia cicuta per avere campo libero e far scappare Ippolito ed Emilia e nascondere Cilla. Don
Tammaro, seppure recalcitrante, per amore della Grecia beve alla fine la pozione, che avrà l’effetto sorprendente di farlo
rinsavire e di avviare la vicenda verso il classico lieto fine.
150. Dahlhaus: punto di vista borghese ed aristocratico nell’opera comica
Il genere in cui la borghesia esprime consapevolezza è soltanto l’opera buffa con parti serie, le quali – come avviene nelle
Nozze di Figaro [1786] e anche nel Don Giovanni [1787] – possono diventare oggetto di critica sociale: come pure innanzi
tutto la comédie larmoyante, il dramma lacrimoso, rappresentato nel dramma musicale a partire dalla Buona figliola di
Piccinni [e Goldoni, 1860] fino alla Gazza ladra [1817] di Rossini da una serie di opere che – invece d’esser inserite
indifferenziatamente tra le opere buffe – potrebbero essere considerate come un genere a sé, anche proprio a causa di
criteri socio-storici. La commozione [etimo: cum + movēre!] era il veicolo essenziale d’identificazione borghese.
151. Telemann, Pimpinone, aria “So quel che si dice” (Amburgo, Gänsemarkt Theater, 1725)
So quel che si dice,
So quel che si fa:
“Sustissima, sustissima, [libr. orig: Strissima, strissima]
come si sta?”
“Bene”. E poi subito:
“quel mio marito
è pur stravagante
è pur indiscreto,
pretende che in casa
io stia tutto il dì”.
E l’altra risponde:
“gran bestia ch’egli è!
Prendete, comare,
l’esempio da me;
voleva anch’il mio…
ma l’ho ben chiarito,
di far a mio modo;
trovato ho il segreto
s’ei dice di no,
io dico di sì.
No, no! Si si!”
a Serpina
Sempre in contrasti Aria col da capo grande
Con te si sta.
E qua e la,
E su e giù
E sì e no.
Or questo basti
Finir si può.
a Vespone
Ma che ti pare?
Ho io a crepare?
Signor mio, no.
a Serpina
Però dovrai
Per sempre piangere
La tua disgrazia,
E allor dirai
Che ben ti sta.
a Vespone
Che dici tu? Non è cosi?
Ah!… che… no!… si, Ma così è!