Quando la musica classica s’incontra con la poesia, si fonde con lei, allora nasce
una forma artistica d’incomparabile bellezza: l’opera lirica!
L’opera nasce a Firenze nell’ultimo scorcio del Cinquecento, per merito di quegli
intellettuali ed artisti che si ritrovano insieme con l’intento di recuperare le
tradizioni del mondo classico, com’è tipico della cultura rinascimentale. Si sa che
le antiche tragedie greche avevano un supporto musicale, perché ne hanno parlato
poeti, filosofi, uomini di cultura, purtroppo ci restano solo ventitre frammenti
con annotazioni musicali che coprono un arco di seicento anni! L’unica opera
completa è l’Epitaffio di Sicilo, che però è tarda, risalendo ad un periodo
compreso tra il II secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo.
Gli uomini del Rinascimento recuperano tutte queste notizie e tentano di ridar vita
all’opera di soggetto e tradizione classica: nascono così gli intermezzi, dove la
musica è a supporto di scene teatrali.
L’Orfeo viene rappresentato con questo finale scelto dal committente il 24 febbraio
1607 al teatro di Mantova, ed è un successo.
Quando parliamo di teatro, non dobbiamo però pensare ad un teatro dei nostri
giorni: nel Seicento i teatri sono piccolissimi, perché le opere sono limitate alla
corte; ci si porta da casa lo sgabello su cui sedersi, il cibo, la voglia di
scambiarsi discorsi prima, dopo ed anche durante lo spettacolo. Il primo teatro
pubblico aprirà i battenti nel 1637; a Venezia, nel Seicento ve ne saranno almeno
venti (con tutto quel che ne consegue: venti orchestre, uno stuolo di cantanti,
parolieri…). Dovendo attirare il grande pubblico, l’opera si adeguerà al gusto
popolare, con effetti scenografici ridondanti, luci diffuse da numerosissime torce
(questo spiega perché i teatri sono gli edifici che in quest’epoca s’incendiano con
più frequenza…).
L’Orfeo rappresenta la musica con tutto il suo potere: è la Musica stessa che si
presenta per prima sulla scena, lei che tocca sensibilità che la parola o
l’immagine, da sole, non possono raggiungere – «Io la Musica son, ch’a i dolci
accenti / so far tranquillo ogni turbato core, / ed or di nobil ira, ed or
d’amore / posso infiammar le più gelate menti. / Io su cetera d’or cantando
soglio / mortal orecchio lusingar talora, / e in guisa tal de l’armonia sonora / de
le rote del ciel più l’alme invoglio. / Quinci a dirvi d’Orfeo desio mi sprona, /
d’Orfeo che trasse al suo cantar le fere, / e servo fe’ l’inferno a sue
preghiere, / gloria immortal di Pindo e d’Elicona».
Alla fine dell’opera, i personaggi del coro (nei loro eleganti abiti seicenteschi),
canteranno la morale della favola, in ossequio alla tradizione del coro della
tragedia greca:
Mozart muore povero, senza denaro, sepolto in una fossa comune; non solo per le
spese a cui non è mai riuscito a rinunciare. Le sue ultime opere, le sinfonie
viennesi, non vengono capite; d’altronde il pubblico è cambiato, ormai i nobili non
richiedono più la presenza dei musicisti nei loro palazzi. Il flauto magico,
estrema opera del grande compositore (unitamente all’incompleto Requiem), viene
composto per «far cassa», per compiacere al teatro popolare che si è andato
affermando; si presenta come una fiaba per bambini, ma la semplicità è solo
apparente, in realtà l’opera vuole dare degli insegnamenti, imbevuta com’è dei
principi filosofico-politici emersi nel tardo illuminismo europeo e degli ideali
massonici (la libertà, l’uguaglianza, la fraternità…).
Nell’opera, Mozart riesce a dare ad ogni personaggio dei valori ed uno stile
musicale proprio, una sua caratteristica vocale: Tamino, eroe ricco, di un elevato
ceto sociale, è un tenore; il saggio Sarastro è un basso; la Regina della Notte è
un soprano, come pure la figlia Pamina, ragazza nobile ma molto semplice. La storia
viene narrata come in un Singspiel, una forma musicale che alterna brani cantati e
brani recitati, tipica del teatro popolare; ma prevale la musica sul testo, è la
musica che dà tutta una spinta notevole alla parola.
Giuseppe Verdi nasce nel 1813, lo stesso anno di Wagner; l’Aida, la sua opera più
famosa, appartiene invece alla piena maturità: la prima rappresentazione avviene
alla Khedival Opera House del Cairo, in Egitto, il 24 dicembre 1871, due anni dopo
che è stato aperto il Canale di Suez, evento per la celebrazione del quale l’opera
è stata commissionata.
Siamo nel pieno del Romanticismo, e l’Aida contiene tutti gli elementi dell’opera
romantica: l’amore verso la Patria, la guerra, l’amore puro ma anche l’amore «di
interesse».
È l’epoca del Grand-Opera (potremmo dire, con un paragone magari un po’ azzardato
ma efficace, del «film» ricco di effetti speciali): l’opera, un’opera «d’arte
totale» (come la definisce Wagner) deve unire le arti, le «tre sorelle» (la musica,
la poesia, la danza), e proporsi come un punto di riferimento culturale. Il
consenso popolare di cui gode il Grand-Opera è vastissimo: nascono impresari che
sanno guadagnar bene catturando il pubblico con coreografie grandiose ed esotiche
(è di moda ispirarsi a tutto ciò che è diverso dalla cultura e dalla storia
europea), enormi orchestre, balletti, movimenti scenici corali (la musica corale ha
un grande effetto di aggregazione, ed infatti Verdi la usa per rappresentare sempre
il popolo).
Tra le molteplici opere liriche che hanno segnato il secolo appena trascorso,
nessuna raggiunge i livelli di Turandot; in essa riecheggia l’impressionismo di
Debussy, vibra l’orchestrazione della Sagra della primavera di Stravinsky: molte le
masse corali, soprattutto nella prima parte, che la rendono un vero e proprio
«kolossal» lirico. Puccini giostra magistralmente, cambia di colpo scene e
atmosfere, tronca una melodia per ripartire con un’altra. Nonostante l’opera lirica
goda d’ottima salute, dato che non solo viene riproposta al grande pubblico ma vi è
una continua fioritura di nuovi autori, Turandot rimane come la montagna del
Purgatorio di dantesca memoria circondata dall’oceano.
«Popolo di Pekino!
La legge è questa: Turandot la Pura
sposa sarà di chi, di sangue regio,
spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà.
Ma chi affronta il cimento
e vinto resta porga alla scure la superba testa!».
Calaf, figlio di Timur (Re barbaro spodestato), vede Turandot «bianca al pari della
giada / fredda come quella spada» e se ne innamora all’istante. Decide quindi di
provare a risolvere gli enigmi, senza ascoltare né le preghiere della serva Liù
(segretamente innamorata di lui da quando, in passato, le aveva rivolto un sorriso)
né delle ammonizioni di Ping, Pong e Pang, tre ministri del regno (vere e proprie
«macchiette»), che si lamentano di come siano costretti ad assistere alle
esecuzioni delle vittime di Turandot, mentre preferirebbero vivere tranquillamente
nei loro possedimenti in campagna.
Calaf riesce a risolvere gli enigmi e propone a Turandot una nuova sfida: se lei
riuscirà prima dell’alba a scoprire il suo nome, egli si dichiarerà vinto e potrà
essere ucciso.
Ed ecco, vengono portati prigionieri Timur e Liù: qualcuno ricorda di averli visti
parlare con Calaf quella sera, sicuramente lo conoscono. Liù dichiara di essere
l’unica a sapere il suo nome; subisce molte torture, ma continua a tacere. Turandot
le chiede che cosa le dia tanta forza di sopportare il dolore, e Liù risponde che è
l’amore; poi strappa di sorpresa un pugnale ad una guardia e si trafigge a morte,
cadendo esanime ai piedi di Calaf.
Il corpo senza vita di Liù viene portato via, seguito dalla folla. Turandot e Calaf
restano soli, e lui la bacia. Quindi le fa il dono della vita rivelandole il
proprio nome: Calaf, figlio di Timur. Ma Turandot è ormai vinta. All’alba, davanti
al trono imperiale, dichiara pubblicamente di conoscere il nome dello straniero:
«Il suo nome è… Amore». E si abbandona tra le braccia di Calaf, mentre la folla
acclama:
«O sole!
Vita!
Eternità!
Luce del mondo è Amore...
È Amor!
Il tuo nome, o Principessa, è Luce
È Primavera...
Principessa!
Gloria!
Amor!».
Com’è noto, l’opera è incompiuta: Puccini ha composto tutta la partitura fino alla
morte di Liù, colei che con il suo sacrificio trasferisce a Turandot l’amore che
prova per Calaf; è Liù, l’ancella innamorata, e non l’altera principessa Turandot,
la vera eroina pucciniana. Probabilmente, il Maestro non è riuscito a trovare
l’ispirazione per interpretare il trionfo d’amore conclusivo, così estraneo alla
sua sensibilità. L’ultima parte dell’opera, basata su scarni appunti di Puccini, è
di Franco Alfano.