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CODM04 – STORIA DELLE FORME E DEI REPERTORI MUSICALI

Prof.ssa Valentina Confuorto

Tipologie formali dell’opera in musica

“L’opera lirica è quella rappresentazione in cui il tenore cerca di portarsi a letto il soprano,
ma c’è sempre un baritono che glielo vuole impedire.” (George Bernard Shaw)
“L’opera lirica è un posto dove un uomo viene pugnalato e, invece di morire, canta.”
(Leopold Fechtner)

- opera: dal latino opus, lavoro, impresa azione


- melodramma: da ‘melos’= melodia, e ‘dramma’ = azione, rappresentazione
- comprende: poesia, musica (vocale e strumentale), recitazione, danza, scenografia,
costumi, luci, regia
- l’opera si articola convenzionalmente in vari numeri musicali, che includono sia
momenti d’assieme (duetti, terzetti, concertati, cori, balletti) sia assoli (arie, ariosi,
romanze, cavatine, cabalette)
- già nel teatro dell’antica Grecia erano presenti questi elementi
- nel 1577 un gruppo di intellettuali e di musicisti di Firenze si riunisce e fonda la
“Camerata fiorentina”; insieme discutono di una nuova forma di teatro che si ispiri
agli antichi Greci
- ne fanno parte:
a. il Conte Vernio Giovanni Bardi, padrone di casa, mecenate e compositore
b. Vincenzo Galilei, teorico
b. i musicisti Pietro Strozzi, Giulio Caccini, Jacopo Peri, Jacopo Corsi
c. i poeti Ottavio Rinuccini e Gabriello Chiabrera
- creano un nuovo stile: il recitar cantando, cioè una libera declamazione spettacolare
di voci soliste che interpretano quello che esprime il testo letterario

Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica e della moderna (1581)


- il canto deve esprimere il sentimento delle parole, che devono essere sempre
comprensibili, dunque sillabate
- la nuova musica, la monodia accompagnata, rappresenta la ripresa della tradizione
della musica greca
- la musica deve muovere gli affetti
- la maniera di “cantare più arie insieme” (cioè di fare polifonia) era assurda per la
confusione linguistica e musicale, ma anche perché mescolava insieme ethos (stati
d’animo) diversi
- traccia un profilo umoristico delle esagerazioni manieristiche compiute da
compositori, i madrigalismi

“Dicono dunque, anzi tengono per fermo i nostri pratici Contrapuntisti di avere espressi i
concetti dell’animo in quella maniera che conviene, e di avere imitato le parole, tutta volta
che nel mettere in musica un Sonetto, una Canzone, un Romanzo, un Madrigale o altro, nel

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quale trovando verso che dica per modo d’esempio Aspro core e selvaggio, e cruda voglia,
che è il primo d’uno de’ sonetti del Petrarca, averanno fatto tra le parti nel cantarlo di molte
settime, quarte, seconde e seste maggiori, e cagionato con questi mezzi negli orecchi degli
ascoltanti un suono rozzo, aspro e poco grato [...] Altra volta diranno imitar le parole quando
tra quei lor concetti ve ne siano alcune che dichino fuggire, o volare: le quali proferiranno
con velocità tale e con sì poca grazia, quanto basti ad alcuno immaginarsi. Et intorno a quelle
che averanno detto sparire, venir meno, morire o veramente spento, hanno fatto un istante
tacere le parti con violenza tale, che invece di indurre alcuno di quelli affetti, hanno mosso gli
uditori al riso, et altra volta a sdegno, tenendosi per ciò d’esser quasi che burlati. Quando poi
averanno detto solo, due, o insieme, hanno fatto cantare uno solo, due, e tutt’insieme con
galanteria inusitata. Hanno altri nel cantare questo particolar verso d’una delle sestine del
Petrarca Et col bue zoppo andrà cacciando Laura, proferitolo sotto le note a scosse, a onde, e
sincopando, non altramente che se eglino avessero avuto il singhiozzo; e facendo menzione il
concetto che egli hanno tra mano (come alle volte occorre) del romore del Tamburo, o del
suono delle Trombe, o d’altro strumento tale, hanno cercato di rappresentare all’udito col
canto loro il suono di esso, senza fare stima alcuna d’aver pronunziate tali parole in qual si
voglia maniera inusitata.”

📢 Giulio Caccini, Io che d’alti sospir da Euridice (1600)


Quartine di endecasillabi ABBA

Io che d’alti sospir vaga e di pianti


spars’or di doglia, or di minacce il volto,
fei negl’ampi teatri al popol folto
scolorir di pietà volti e sembianti.
Non sangue sparso d’innocenti vene,
non ciglia spente di tiranno insano,
spettacolo infelice al guardo umano,
canto su meste e lagrimose scene.
Lungi via lungi pur da regi tetti
simolacri funesti, ombre d’affanni,
ecco i mesti coturni e i foschi panni
cangio, e desto nei cor più dolci affetti.
Or s’avverrà che le cangiate forme
non senza alto stupor la terra ammiri,
tal ch’ogni alma gentil ch’Apollo inspiri
del mio novo cammin calpesti l’orme.
Vostro, regina, sia cotanto alloro
qual forse anco non colse Atene o Roma,
fregio non vil fu l’onorata chioma,
fronda febea fra due corone d’oro.
Tal per voi torno, e con sereno aspetto
ne’ reali imenei m’adorno anch’io,

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e su corde più liete il canto mio
tempro al nobile cor dolce diletto.
Mentre Senna real prepara intanto
alto diadema, onde il bel crin si fregi,
e i manti e seggi degl’antichi regi,
del tracio Orfeo date l’orecchia al canto.

- forma strofica con ritornello


- declamazione sillabica, note spesso ribattute, rari abbellimenti
- impianto armonico molto semplice

📢 Claudio Monteverdi, Toccata e Prologo da Orfeo (1607)


- fin dalle prime opere in musica si fa precedere all’azione cantata un brano solo
strumentale
- Monteverdi chiama Toccata quella che poi sarà chiamata Sinfonia; un clima di gioia e
tripudio prepara gli spettatori al Prologo della Musica, strofico con ritornello, già più
strutturato rispetto a Caccini
- successivamente nell’opera francese si adotterà l’Ouverture, composta da un primo
tempo lento e puntato, seguita da un fugato, mentre in Italia e in Germania si
preferisce un brano strumentale sinfonico sempre più simile alla forma sonata, sempre
slegata però
- infine nelle ouverture saranno inseriti i temi salienti dell’opera

LA MUSICA
Dal mio Permesso amato a voi ne vegno,
incliti Eroi, sangue gentil de’ Regi,
di cui narra la Fama eccelsi pregi,
né giunge al ver, perch’è tropp’alto il segno.
Io la Musica son, ch’ai dolci accenti
so far tranquillo ogni turbato core,
et hor di nobil ira, et hor d’Amore
poss’infiammar le più gelate menti.
Io su Cetera d’or cantando soglio,
mortal orecchio lusingar talora;
e in questa guisa à l’armonia sonora
de la lira del ciel più l’alme invoglio.
Quinci à dirvi d’Orfeo desio mi sprona,
d’Orfeo che trasse al suo cantar le fère,
e servo fé l’Inferno à sue preghiere,
gloria immortal di Pindo e d’Elicona.
Hor mentre i canti alterno, hor lieti, or mesti,
non si mova Augellin fra queste piante,
né s’oda in queste rive onda sonante,
et ogni auretta in suo camin s’arresti.

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📢 Giovanni Battista Pergolesi, Son imbrogliato io già da La serva padrona (1733)
- scritto nel 1733, l’intermezzo buffo di Pergolesi va in scena nel 1752 all’Académie
Royale de Musique scatenando una disputa, nota come la Querelle des bouffons, fra i
sostenitori dell’opera tradizionale francese, incarnata dallo stile di Jean-Baptiste Lully
e Jean-Philippe Rameau, e i sostenitori della nuova opera buffa, fra cui alcuni
enciclopedisti (in particolare Jean-Jacques Rousseau, anch’egli compositore),
portando ad una rapida evoluzione del gusto musicale
- Uberto ha al suo servizio la giovane e furba Serpina, prepotente e indisponente. Per
darle una lezione, le dice di voler prendere moglie; Serpina gli chiede di sposarla, ma
lui dapprima rifiuta. Per farlo ingelosire la serva gli dice di aver trovato marito, un
certo capitan Tempesta, che in realtà è Vespone, il servo muto, travestito da soldato.
Uberto rimasto solo si interroga e, pur se innamorato di Serpina, sa che i rigidi canoni
dell’epoca rendono impensabile il matrimonio tra un nobile e la propria serva.

Son imbrogliato io già;


ho un certo che nel core
che dir per me non so
s’è amore, o s’è pietà.
Sento un che, poi mi dice:
“Uberto, pensa a te”.
Io sto fra il sì e il no
fra il voglio e fra il non voglio,
e sempre più m’imbroglio.
Ah! misero, infelice,
che mai sarà di me!

- aria col da capo, struttura ABA


- l’esposizione di A è in maggiore, con molte ripetizioni; ciascun verso è trattato in
maniera differente, secondo i diversi stilemi dell’opera buffa
- B è breve, in minore, con un affetto più pensoso
- solitamente la ripresa di A può essere variata a piacimento dal cantante

📢 Christoph Willibald Gluck, Che farò senza Euridice da Orfeo ed Euridice (1762)
- rappresentata per la prima volta a Vienna il 5 ottobre 1762, aprendo la stagione della
cosiddetta “riforma gluckiana”, con la quale si voleva semplificare al massimo
l’azione drammatica, superando le astruse trame dell’opera seria italiana e i suoi
eccessi vocali, ripristinando quindi un rapporto più equilibrato tra parola e musica
- le grandi arie virtuosistiche con il da capo lasciano strada a pezzi di più breve durata
strettamente legati l’un l’altro a formare strutture musicali più ampie: i recitativi,
sempre accompagnati, si allargano naturalmente nelle arie, per le quali Calzabigi
introduce sia la forma strofica sia il rondò

Ranieri de’ Calzabigi, il librettista, nel 1784 scrive: “Arrivai a Vienna nel 1761, pieno di
queste idee. Il signor Gluck non era tenuto in conto (e a torto senza dubbio), fra i più grandi

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maestri… Gli feci la lettura del mio Orfeo e gliene declamai più pezzi a più riprese,
indicandogli le sfumature che mettevo nella mia declamazione, le sospensioni, la lentezza, la
rapidità, i suoni della voce ora caricata, ora affievolita e trascurata nel modo in cui se ne
facesse uso nella sua composizione. Lo pregai, nel frattempo, di bandire i passaggi, le
cadenze, i ritornelli e tutto ciò che si è messo di gotico, di barbaro, di stravagante nella nostra
musica. Il signor Gluck aderì ai miei punti di vista.” (Mercure de France)

Che farò senza Euridice


Dove andrò senza il mio ben.
Euridice, o Dio, rispondi
Io son pure il tuo fedele.
Euridice! Ah, non m’avanza
più socorso, più speranza
né dal mondo, né dal cel.

- rondò ABACA’, arioso


- trattamente del testo rispettoso, con massimo due note per sillaba
- salti melodici piacevoli, senza eccessi

📢 Wolfgang Amadeus Mozart, Là ci darem la mano da Don Giovanni (1787)


- Don Giovanni cerca di sedurre Zerlina, una contadina che sta festeggiando le sue
nozze con Masetto; sfodera tutta la sua arte di seduttore per abbattere le resistenze di
lei, che alla fine cede e lo segue nel casinetto in cui lui le ha promesso che ‘la sposerà’
- il nocciolo drammaturgico è l’opporsi di due volontà diverse, con l’evoluzione del
pensiero di Zerlina
- il testo può essere idealmente diviso in tre parti: le prime due quartine perfettamente
bilanciate, le seconde due alternate, gli ultimi tre versi insieme
- in principio il corteggiamento non sembra avere buon fine: le risposte di Zerlina sono
sicure (melodicamente le frasi o semifrasi sono complete, senza interruzioni), eppure
le risposte hanno lo stesso andamento ritmico e melodico delle proposte che Don
Giovanni le fa
- nella parte centrale, che prevede la riprese del primo, secondo e quarto verso delle
prime due quartine, il duetto si fa più incalzante, le frasi sono più brevi e Zerlina
comincia a cedere: le sue brevi melodie non si concludono ma restano spesso in
sospeso, dando la possibilità a Don Giovanni di concludere, di volta in volta, il
discorso
- nel finale Zerlina cede completamente e canta isnieme a Don Giovanni, su un ritmo
nuovo, ternario; Mozart crea poi un nuovo assetto rimico (andiam, mio bene andiam /
le pene a consolar), che rende con un ritmo incisivo e puntato, a indicare la
risoluzione di entrambi i personaggi

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[N. 7 Duettino]
Andante
Archi, 1 Flauto, 2 Oboi, 2 Fagotti, 2 Corni in la.

DON GIOVANNI
Là ci darem la mano,
là mi dirai di sì.
Vedi, non è lontano:
partiam, ben mio, di qui.

ZERLINA
(Vorrei, e non vorrei...
mi trema un poco il cor...
Felice, è ver, sarei;
ma può burlarmi ancor.)

DON GIOVANNI
Vieni, mio bel diletto!
ZERLINA
(Mi fa pietà Masetto.)

DON GIOVANNI
Io cangerò tua sorte.
ZERLINA
(Presto non son più forte.)

ZERLINA E DON GIOVANNI


Andiam, andiam, mio bene,
a ristorar le pene
d’un innocente amor!
(vanno verso il casino di Don Giovanni, abbracciati)

📢 Gioacchino Rossini, Nella testa ho un campanello da L’Italiana in Algeri (1813)


- Rossini aggiunge di suo pugno al libretto i rumori onomatopeici, di fatto unendo
insieme testo e spartito
- i personaggi cantano sul vuoto; non si comprende niente eppure tutto sta in piedi, con
solo la spina dorsale del ritmo, con un crescendo vorticoso e coinvolgente

ELVIRA
Nella testa ho un campanello
Che suonando fa din din.

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ISABELLA e ZULMA
La mia testa è un campanello
Che suonando fa din din.

LINDORO e HALY
Nella testa ho un gran martello
i percuote e fa tac tà.

TADDEO
Sono come una cornacchia
che spennata fa crà crà

MUSTAFÀ
Come scoppio di cannone
la mia testa fa bum bum

📢 Giuseppe Verdi, Va’ pensiero da Nabucco (1842)


- inno, 16 decasillabi divisi in 4 quartine, con il quarto verso tronco; le strofe
presentano un ritmo anapestico, con gli accenti che cadono sulle sedi 3-6-9 (al verso
13 la parola simile si legge con l’accento piano sulla seconda sillaba, simìle)
- in ciascuna quartina, con l’eccezione della seconda, i due versi centrali rimano
unicamente tra loro, mentre il primo e l’ultimo rimano con i versi rispettivi della
quartina seguente; solo nella seconda quartina è il secondo verso a rimare col primo
della precedente, creando unione
- i librettista Temistocle Solera si è ispirato al salmo 137, Super flumina Babylonis
(“Sui fiumi di Babilonia”)
- coro cantato dagli Ebrei prigionieri in Babilonia
- nella breve introduzione orchestrale le sonorità iniziali, sommesse e misteriose, si
alternano all’improvvisa violenza degli archi in tremolo e le ultime battute, con i
ricami di flauto e clarinetto in pianissimo, sembrano voler evocare quei luoghi cari e
lontani di cui parlano i versi
- la cantilena in 4/4, sommessa ed elegiaca, che si snoda sull’ampia onda del semplice
accompagnamento a sestine, trova il momento di maggior vigore alle parole Arpa
d’or dei fatidici vati, prima di ripresentarsi un’ultima volta (O t’ispiri il Signore un
concento) arricchita dalle fioriture dei legni

Va’, pensiero, sull’ali dorate.


va’, ti posa sui clivi, sui colli,
ove olezzano tepide e molli
l’aure dolci del suolo natal!
Del Giordano le rive saluta,
di Sionne le torri atterrate.
O mia patria, sì bella e perduta!
O membranza sì cara e fatal!

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Arpa d’or dei fatidici vati,
perché muta dal salice pendi?
Le memorie del petto riaccendi,
ci favella del tempo che fu!
O simile di solima ai fati,
traggi un suono di crudo lamento;
o t’ispiri il signore un concento
che ne infonda al patire virtù

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