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Brano vocale solistico, di forma chiusa (dotata cioè di un inizio, uno svolgimento e una
conclusione), composta su versi lirici;
in esso il personaggio-cantante di solito esprime il proprio affetto o sentimento, e fa sfoggio delle
proprie qualità canore.
Dal punto di vista drammatico può oscillare tra i due estremi del monologo e dell’aria d’azione,
rivolta a un interlocutore in scena (che può rimanere zitto o replicare con brevi pertichini).
Pertichino. Nel gergo operistico ottocentesco, il termine (che in senso proprio indicava il cavallo di
riserva attaccato alla “pertica” di una carrozza, vuoi per rinforzo vuoi per ricambio delle altre bestie
da tiro) designa i pochi versi e le brevi frasi canore con cui uno o più personaggi marginali (oppure
il coro) intervengono in un’aria o in un pezzo concertato.
Prime opere
Firenze - Palazzo Pitti, 1600
Libretto Rinuccini
Musiche J. Peri
Soggetto mitologico
Esaltazione del potere
della musica.
Primi esperimenti operistici.
Nelle prime opere il canto, strettamente legato al testo, si sviluppava come recitativo sostenuto dal
b. c. o dall’orchestra; uno stile melodico vicino al madrigale condusse a più estese strutture di
arioso, espressivamente unitarie ma formalmente libere.
Un celebre esempio è rappresentato dal Lamento di Arianna per Teseo, frammento conservato
dell’opera Arianna di Monteverdi, libretto di Ottavio Rinuccini (Mantova, 1608).
Articolata in un'unica soluzione con un'introduzione a mo' di prologo (il tutto per una durata di circa
due ore e mezzo), l'opera fu commissionata a Monteverdi (al tempo maestro di musica alla corte del
Serenissimo Duca di Mantova) per i festeggiamenti delle nozze di Francesco IV Gonzaga, figlio di
Vincenzo I Gonzaga, con Margherita di Savoia.
La partitura dell'Arianna monteverdiana è andata perduta: ne resta solo la celebre aria conosciuta
come Lamento di Arianna, che è uno dei momenti centrali dell'atto unico ed è rappresentata nella
scena sesta (stando al libretto originale).
Si sa che Monteverdi pubblicò la partitura solo nel 1623 in una versione per soprano e basso
continuo. Una versione polifonica a cinque voci dello stesso brano fu inclusa nel 1614 nel VI Libro
de' madrigali.
Una versione per voce sola e basso continuo ma con testo in lingua latina è contenuta nel Pianto
della Madonna della raccolta Selva morale e spirituale del 1641.
Il Lamento di Arianna è considerato uno degli esiti più alti del cosiddetto declamato arioso
elaborato da Monteverdi.
Il brano esprime il dolore in un gesto commovente (false relazioni, cromatismi, pause, nuovi slanci,
crescendo, rassegnati ripiegamenti verso la conclusione).La musica segue fedelmente il testo, di cui
esprime in maniera diretta contenuto ed articolazione (la musica è al servizio della parola).
Lasciatemi morire!
E che volete che mi conforte
in così dura sorte,
in così gran martire?
Lasciatemi morire!
Nell’opera veneziana del XVII secolo, l’aria tende a cristallizzarsi in una certa tipizzazione,
determinata in parte dall’intensa e affrettata produzione (fino a 80 arie per opera). Si tratta di brevi
pezzi in forma di canzone su noti ritmi di danza quali la forlana (6/4), la futura barcarola, la villotta
(di movimento rapido, 6/8), la siciliana (pastorale, ninna nanna, 6/8).
Sotto l’aspetto strutturale Venezia conosce le arie con cembalo, accompagnate solo dal b.c. e
incorniciate da ritornelli orchestrali;
Arie per orchestra: accompagnate dall’orchestra con ritornelli fra le singole strofe; in seguito
intervengono anche uno o due strumenti concertanti, soprattutto fiati.
Nel dramma per musica del Seicento le arie hanno di solito forma strofica (la stessa melodia viene
intonata identica o simile per due o più strofe poetiche consecutive); e all’interno della strofa la
melodia ha spesso la forma aab.
Si diffuse poi l’aria bipartita A-A’, dove la prima parte si ripete variata, oppure A-B, in cui la
seconda parte è diversa dalla prima.
Ma in seguito, con Luigi Rossi e soprattutto con Alessandro Scarlatti, si affermò e si sviluppò il
modello di aria tripartita col da capo, secondo lo schema A-B-A’, dove l’ultima parte era una
ripetizione, di solito liberamente variata dall’esecutore, della prima.
Si tratta di due strofe poetiche, di cui la prima viene integralmente ripresa con la stessa musica dopo
la seconda, più o meno contrastante: A|B|A oppure AA'|B|AA'). Contengono spesso impervi
vocalizzi (canto melismatico).
Nella forma coniata intorno al 1700 la prima strofa bipartita, con inserto orchestrale (a), è ripetuta
leggermente variata (a’). Si consolida anche uno schema fisso di modulazioni. La ripetizione della
prima parte dà modo al cantante di abbellirne virtuosisticamente la linea melodica. L’aria col da
capo è per la sua stessa struttura statica, e non può portare avanti l’azione drammatica; lascia questo
compito al recitativo, cosicché l’abbinamento recitativo e aria diviene consuetudine.
L’aria col da capo conosce la massima fioritura nell’opera napoletana con Alessandro Scarlatti
(1660-1725); diventando la principale forma di aria barocca. Quasi tutte le arie di Bach e Haendel
sono arie col da capo. Il testo è composto da due brevi strofe; la seconda contrasta con la prima, che
alla fine viene ripetuta. Vengono scritte per esteso solo le due parti fra loro contrastanti, con
l’indicazione di ripresa (da capo al fine).
Alessandro Scarlatti (1660-1725)
Caratteri dell’opera di Scarlatti:
Tre atti
1) Sinfonia tripartita Allegro Adagio Allegro
2) Arie con il da capo ABA’
3) Recitativo secco (solo clavicembalo) e accompagnato (con orchestra) introdotto
nell’Olimpia vindicata del 1685
4) Pezzi concertati di fine atto
Una delle opere più celebri di Scarlatti è Griselda, composta nel 1721
• Il soggetto, tratto da una novella di Boccaccio, fu musicato da Antonio Maria Bononcini nel
1718 su libretto di Apostolo Zeno.
• Lo stesso libretto, con qualche rimaneggiamento, fu musicato da Scarlatti.
• L’opera narra la storia di Griselda, una contadina, che andò in sposa al re di Sicilia
Gualtiero. Quest’ultimo, per dimostrare ai suoi sudditi l’onestà della moglie, la sottopone a
una serie di difficili e crudeli prove. Griselda si mantiene leale nei confronti del marito che,
persuaso della sua indole virtuosa, la dichiara degna di diventare regina.
Antonio Vivaldi (1678-1741)
Uno dei compositori più noti del Barocco italiano. Figlio di un violinista della cappella di San
Marco, dal 1703 svolse la sua attività di musicista presso l’ospedale della Pietà di Venezia.
Conosciuto soprattutto per i suoi concerti (circa 500) scrisse anche molta musica sacra e una
cinquantina di opere, di cui però solo 21 sono giunte fino a noi. Tra queste Griselda.
• La Griselda appartiene alla fascia final-creativa vivaldiana: siamo nel 1735, Vivaldi aveva
47 anni. E’ un capolavoro del "Prete Rosso", eccelso nella musica strumentale, ma
meritevole di ugual valutazione in campo operistico.
• Per il testo della Griselda fu chiesto Carlo Goldoni di adattare il libretto di Apostolo Zeno.
Una delle arie più celebri è “Agitata da due venti”, un’aria virtuosistica col ‘da capo’ cantata da
Costanza, figlia di Griselda nel secondo atto, quando incontra Roberto, suo innamorato, ma è
costretta a scacciarlo perché promessa sposa a Gualtiero
Agitata da due venti,
freme l'onda in mar turbato
e 'l nocchiero spaventato
già s'aspetta a naufragar.
Dal dovere da l'amore
combattuto questo core
non resiste e par che ceda
e incominci a desperar.
L’aria è un pezzo di forma mutevolissima sia che sussista di per se stessa, sia che appartenga a
un’opera teatrale, a un oratorio, a una cantata o altro. In ogni caso, pur nella grande varietà degli
esempi classici, si possono riconoscere i seguenti caratteri essenziali. L’aria è un pezzo
generalmente ad una voce con accompagnamento orchestrale (sostituito dal pf nelle riduzioni),
su testo non narrativo, bensì espressione di sentimenti, di commento ad una situazione in cui la
musica agisce con i suoi mezzi lasciando la prevalenza alla parola.
Di preferenza, l’aria è collocata
al termine di una scena, un attimo prima che il personaggio rientri tra le quinte (‘aria d’entrata’);
più rare le arie d’uscita o di
sortita, cantate al momento di venire in scena (cavatina). Le Arie possono essere classificate
secondo le loro caratteristiche musicali, secondo la collocazione, o, ancora, in base alle relazioni
tra musica e testo, e spesso i criteri interferiscono fra loro, oltre che interferire con altri criteri
accessori di classificazione.
La decadenza dell’opera
• Sul finire del secolo XVII l’opera trova il suo massimo sviluppo e successo ma anche la sua
decadenza.
• Ciò avviene perché si perde la coerenza fra il testo, la musica e l’azione a favore di un
belcantismo esasperato che metteva in mostra l’abilità virtuosistica dei cantanti.
• Il pubblico si recava a teatro per ascoltare le arie più belle interpretate dal cantante più
celebre del momento.
• Il cantante dominava la scena: guadagnava molto di più del compositore e mirava solo a far
sfoggio delle sue abilità inserendo spesso nelle opere arie non previste dal libretto.
Sul finire del secolo XVII si assiste a una differenziazione tra opera seria e opera buffa.
Nelle opere serie sovente erano inseriti personaggi buffi che aiutavano a creare movimento
in scena e a variare la vicenda. Gradualmente le scene buffe vennero collocate a fine atto e
assunsero dimensioni sempre maggiori finchè non ottennero la loro indipendenza dal resto
del dramma.
La Serva Padrona (1733) è forse l’intermezzo più noto della storia della musica.
La storia è semplicissima: una servetta scaltra, di nome Serpina, riuscirà a farsi sposare dal
padrone, un vecchio e ricco scapolo, Uberto.
I mezzi musicali sono semplici: due voci soliste e una piccola orchestra d’archi, ma il risultato
anticipa le conquiste mozartiane relative alla caratterizzazione del personaggio attraverso la
musica.
• In ogni numero si alternano sezioni cinetiche in cui l’azione procede in modo dinamico e
sezioni statiche, in cui l’azione ristagna. Sono di solito articolate in quattro tempi diversi
chiamati solita forma.
• [1.] tempo d’attacco (presente di norma nei duetti o nei pezzi concertati, solo
eccezionalmente nelle arie);
• [2.] adagio (detto anche cantabile) ovvero concertato (nei finali e nei pezzi concertati);
• [3.] tempo di mezzo;
• [4.] cabaletta (o stretta nei concertati).
• Le sezioni [1.] e [3.] hanno carattere “cinetico”, in quanto l’azione procede: spesso [1.] si
configura come un diverbio, mentre [3.] comporta eventi o annunci che incidono sulle
relazioni tra i personaggi;le sezioni [2.] e [4.] hanno invece carattere “statico”, in quanto
bloccano o rallentano il tempo dell’azione per dare sfogo all’espressione degli affetti.
Tempo d’attacco
Scontro dialettico tra personaggi. Avviene un colpo di scena, che muta la situazione
drammatica: può essere un irruzione inattesa, una riflessione, una rivelazione o anche un
segnale sonoro, una fanfara, un coro, il canto di un personaggio amato o aborrito sentiti da
fuori scena.
Cantabile
E’ il momento in cui il culmine sentimentale trova sfogo. L’azione drammatica viene
sospesa e i personaggi restano immobili in gesti e pose statuarie. E’ questa la sezione più
memorabile sotto il profilo melodico.
Tempo di mezzo.
E’ sullo stile del tempo d’attacco. Il tempo riprende a scorrere e l’azione ritorna dinamica.
Nei concertati può esservi l’entrata di un nuovo personaggio con interventi secondari
chiamati pertichini
Cabaletta
E’ la sezione conclusiva in tempo mosso, in cui si sfoga la nuova situazione. E’ in tempo
veloce, di carattere brillante e virtuosistica. A volte viene ripetuta dopo l’intervento del coro
o di personaggi secondari ma con variazioni virtuosistiche.
Prima c’è la Scena. Imposta la situazione emotiva che precede il pezzo chiuso; al suo interno
si possono trovare momenti statici di contemplazione e momenti dinamici d’azione. Nelle
arie e nei duetti l’episodio è scritto in stile recitativo accompagnato, arricchito in varia
misura da ariosi e caratterizzato da pregnanti motivi orchestrali. Il recitativo semplice era
scomparso dal 1812
Il trovatore
Dramma in 4 parti di Giuseppe Verdi.
Libretto di Salvatore Cammarano rappresentato nel 1853.
Personaggi principali:
Il Conte di Luna (baritono)
Leonora (soprano)
Azucena (mezzosoprano)
Manrico (tenore)
Manrico è stato catturato ed è rinchiuso, condannato a morte, nella torre del palazzo. Si ode la
campana dei morti ed il "Miserere" per i condannati. Leonora ai piedi della torre ascolta l'ultimo
addio dell'amato: è decisa a salvarlo a prezzo della propria vita. Promette quindi al Conte di
Luna di farsi sua se egli libererà il trovatore. Il nobile, sempre innamorato, accetta. A questo
punto Leonora chiede ed ottiene di portare al prigioniero notizia della grazia, ma furtivamente
ingerisce un veleno racchiuso in una gemma.
Solita forma: esempio
Trovatore, Atto IV
• Tempo d’attacco: Siam giunti ecco la torre (Adagio) - Leonora e Ruiz
• Cantabile: D’amor sull’ali rosee (Adagio) - Leonora
• Tempo di mezzo: Miserere + duetto Leonora e Manrico
• Cabaletta: Tu vedrai che amore in terra (Allegro agitato) - Leonora
• Questa scena colpì particolarmente il pubblico del 1853: l'apertura dell'ultimo atto, quando
Leonora è sola in scena, e si levano invisibili la voce di Manrico e il coro dei monaci. La
forza della sua costruzione sta nel dramma sonoro: Leonora può udire Manrico, ma egli non
può udirla. Quello che possiamo solo definire un effetto "stereo“ ha conservato il potere
suggestivo.
La campana dei morti è un suono di natura che appare nell’opera diverse volte e fornisce
informazioni spazio-temporali: aumenta l’effetto del buio notturno, e, inoltre, prevede
simbolicamente gli eventi tragici. Il Miserere, nonostante sia un intermezzo, o un tempo di
mezzo funzionalmente secondario tra la cavatina e la cabaletta di Leonora, oltre a dare
informazioni secondarie sulla situazione drammatica, costituisce il vero culmine emotivo della
scena.
• Particolari sono le relazioni tonali delle diverse sezioni. Non più solo i normali rapporti
tonica-dominante che erano alla base dell'opera classica: i rapporti si estendono ad altre
tonalità, che sono in relazione diretta con quella d'impianto, costituendo così una sorta di
"reticolo di tonalità".
Il rapporto che unisce tra loro queste tonalità in Verdi è specialmente l'intervallo di terza
• La scena, aria, scena e duetto di Leonora (Parte Quarta - Il Supplizio) ha la seguente
struttura tonale:
Preludio "Siam giunti: ecco la torre" (Fa min.),
• Aria "D'amor sull'ali rosee" (Fa min. - Lab magg.),
• Miserere (Lab min. - Lab magg.),
• Cabaletta "Tu vedrai" (Fa magg.),
• Il moto per terze è accompagnato da alcune finezze che si notano solo guardando in
profondità: basti notare che la modulazione da Fa minore a Lab maggiore nell'Aria (D'amor
sull'ali rosee) avviene sulla parola "misero", anticipando anche sul piano testuale il Lab
minore/maggiore del "Miserere".
Inoltre, è interessante vedere come questa struttura polare leghi tra di loro dei pezzi "chiusi"
che invece di essere indipendenti come nell'opera tradizionale sono invece blocchi
costitutivi di una superiore unità armonica e formale.
Ciò rende bene conto delle sensazioni di unitarietà che Il Trovatore riesce a dare nonostante
la struttura sembri la più tradizionale.
Il tardo Ottocento dissolve i modelli canonizzati dell’aria (Wagner); nel secolo XX tendenze
storico/filologiche favoriscono il ritorno a certe vecchie forme di aria (Stravinskij, The rake’s
progress)
Otello fu rappresentato a Milano nel 1887. Il libretto di Arrigo Boito fu tratto dall’opera
omonima di S.
Narra la storia di Otello, che accecato dalla gelosia, uccide la moglie Desdemona accusata
ingiustamente di tradimento.
Puccini
Nessun dorma è una celebre romanza cantata dal principe Calaf nell’opera Turandot. Il termine
romanza relativo alle opere di questo periodo è impiegato per designare gli assoli a carattere
lirico dell'opera tardo ottocentesca. In questo caso è impossibile individuare un elemento
formale caratteristico, benché in alcuni casi il rimando alla romanza da salotto contemporanea
possa essere evidente.
• Turandot è un'opera in 3 atti e 5 quadri, su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni,
lasciata incompiuta da Giacomo Puccini (morto il 29 novembre 1924) e successivamente
completata da Franco Alfano.
• La prima rappresentazione ebbe luogo nell'ambito della stagione lirica del Teatro alla Scala
di Milano il 25 aprile 1926, sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale arrestò la
rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù,
poesia!», ovvero dopo l'ultima pagina completata dall'autore, rivolgendosi al pubblico con
queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.»
La sera seguente, l'opera fu rappresentata, sempre sotto la direzione di Toscanini,
includendo anche il finale di Alfano.
È intonata dal personaggio di Calaf all'inizio del terzo atto. Immerso nella notte di Pechino, in
totale solitudine, il "Principe ignoto" attende il sorgere del giorno, quando potrà finalmente
conquistare l'amore di Turandot, la principessa di ghiaccio. La romanza è bipartita, basata cioè
sull'alternanza tra 2 sezioni.
1) Durante la prima, un Andante sostenuto in Sol maggiore, il canto declamato del tenore
non si espande oltre lo stile di un arioso e il discorso musicale è condotto dall'orchestra, le cui
armonie audaci sono addolcite da una timbrica delicata basata su archi con sordina, arpa, celesta
e legni. Il testo descrive il flusso dei pensieri nella mente del protagonista.
2) Quando la passione del principe comincia febbrilmente a crescere la tonalità sale a Re e
senza soluzione di continuità inizia una seconda sezione costituita da una frase di otto battute
basata su una melodia di ampio respiro, costruita su versi ben cadenzati. Il canto è reso
espressivo dalle delicate dissonanze di seconda tra le note accentate (che coincidono con le
sillabe pari) e gli accordi dell'orchestra.
A seguire la seconda sezione viene intonata dal coro dietro la scena, che, sostenuto dal tremolo
degli archi, riprende le parole del principe, mostrando il rovescio della medaglia, ossia
rammentando le minacce di morte della principessa, qualora prima dell'alba nessuno fosse
riuscito a scoprire il nome dello straniero («Il nome suo nessun saprà / E noi dovremo, ahimè,
morir!»).
Calaf completa la melodia con nuovo slancio e la romanza termina con una breve coda sulla
parola «vincerò». La voce del tenore tocca il si acuto, espressione di sicurezza ma l'impeto
eroico è ammorbidito, alla maniera di Puccini, facendo scivolare la voce alla nota inferiore,
mentre l'orchestra riprende a tutta forza la melodia principale .
Il brano non conclude con una cadenza, bensì modula immediatamente nel successivo
quartettino tra Calaf e le tre Maschere. Per ragioni pratiche, quando la romanza è eseguita in
forma di concerto, vi si aggiunge una sbrigativa e prevedibile cadenza finale, lontana dallo stile
dell'autore.
Atto III – Quadro I
E’ notte. Nessuno può dormire in Pechino
finchè non venga scoperto il nome del
principe straniero che ha osato sfidare
Turandot. Calaf è sicuro di conquistare
il cuore della gelida principessa con un bacio.