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Loredana Condoleo

La semantica del Parsifal:


aspetti d’interesse psicoanalitico

Introduzione

Che l’organizzazione polifonica della musica possa rispecchiare il “funzionamento


gruppale” della mente umana è ipotesi sostenuta da alcuni studiosi, fra cui Edith Lecourt
che riprende, a sua volta, un concetto di Bion 1, basato sull’analogia tra la molteplicità
simultanea dei suoni e delle qualità di questi, quale si determina in un tessuto polifonico,
e la sovrapposizione tra funzioni, moti, istanze, pensieri (consci e inconsci), quale si
verifica nella psiche umana.2
Posta tale affinità tra le due dimensioni – quella musicale polifonica e poliritmica e quella
psichica, tanto stratificata anch’essa –, rimane, nondimeno, il mistero della “musicalità”
dell’uomo, musicalità che invece, stando almeno al punto di vista di alcuni studiosi,
sarebbe più facilmente spiegabile, invece, per gli animali (per esempio, per gli uccelli), in
virtù di cognizioni etologiche e neurologiche che negli anni sono state acquisite.
Nel caso della musica unita al dramma (nel cosiddetto teatro musicale), poi – in cui sono
presenti anche significati più determinati, come pure delle allusioni simboliche, delle
evocazioni di stati emotivi, delle descrizioni di scenari, delle rappresentazioni di eventi,
etc. –, la relazione con la psiche sarà, verosimilmente, ben più complessa e ricca.
E ancor suggestiva è da attendersi che sia tale relazione nel dramma wagneriano, che,
almeno secondo l’idea che di ne ebbe il compositore e secondo l’ispirazione –
assolutamente unitaria, a suo dire – di parole, musica e scena, esprime, forse in modo
ancor più simbolico e semanticamente stratificato ed interessante, processi psichici molto
profondi.
Questa la premessa per il presente studio, che intende, nello specifico, cogliere alcuni
possibili significati d’interesse psicoanalitico nell’ultimo capolavoro del compositore
tedesco, il Parsifal.3

1
Cfr. EDITH LECOURT, Musica e struttura psichica in «Musica & Terapia: quaderni italiani di
Musicoterapia» a cura di Gerardo Manarolo e Massimo Borghesi, Torino. Ed. Cosmopolis, 2004 ;
cfr. WILFRED BION, Memoria del futuro. Il sogno, ed. Raffaello Cortina, 1996.
2
Cfr. ANDREA RICCIOTTI, Neurofisiologia e psicologia della relazione uomo-suono in «Musicalità e
musicoterapia» a cura di Pierluigi Postacchini, ed. Carocci.
3
A tal riguardo, cfr. anche GIUSEPPE SINOPOLI, Wagner o la musica degli affetti, Individuazione e nascita
della coscienza nelle trasformazioni simboliche del personaggio di Kundry nel Parsifal di Wagner e
interventi vari a cura di Pietro Bria e Sandro Cappelletto, ed. Franco Angeli.

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1. Erudizione e sincretismo dottrinario per una musica assolutamente originale

La vita di Wagner (Lipsia, 1813-Venezia, 1883) si svolse con ritmo febbrile, totalmente
dominata dall'ambizione di affermarsi e d'imporsi con tutti i mezzi, artistici e non artistici.
Fu una vita di enormi successi, ma anche di grandi sconfitte, di lotte, di frustrazioni.
Non è certo questa la sede per una sintesi della biografia del compositore. Del resto è
possibile attingere informazioni a svariate fonti, alcune delle quali anche molto
autorevoli.
Nondimeno può essere rilevante richiamare alcuni aspetti che possono essere di aiuto per
una maggiore comprensione dell’opera qui trattata.
Sappiamo che Wagner non ignorava i desideri del pubblico, della cui ammirazione aveva
tanto bisogno. Si impegnò con tenacia indomabile per la realizzazione di uno spettacolo
teatrale che fosse nello stesso tempo grandioso e profondo, ad uso e consumo dei molti ed
anche dei pochi. Al grosso pubblico Wagner offriva spettacoli stupefacenti aveva una
istintiva conoscenza delle esigenze del palcoscenico - con nani, giganti, mostri vomitanti
fuoco, mitici dèi, impavidi eroi, Ondine natanti sulla superficie e nelle profondità del
Reno, Walkirie su cavalli, sfilate, processioni, colpi di scena, momenti di grande tensione
drammatica, spasmodiche scene d'amore.
La realizzazione del teatro di Bayreuth fu senz’altro il risultato più cospicuo in tale
direzione.
Seppe però anche interpretare le esigenze del pubblico più raffinato.
Agli intellettuali offrì, infatti, suggestive e disparate "filosofie", fra le quali egli operò una
sorta di “sincretismo”, dove la dottrina si fonde con le leggende e i miti nordici, nonché
con il cristianesimo, con le ideologie sociopolitiche, con il pensiero orientale, infine con
la metafisica schopenhaueriana, etc.
Nell'ambito dell'intera produzione creativa wagneriana, gli scritti teorico-filosofici, molto
numerosi e di varia estensione, occupano una posizione di particolare importanza: gli
servirono per riflettere in modo sistematico sulle proprie idee riguardo alla creazione
musicale e per preparare i cruciali cambiamenti che voleva introdurre nell'arte operistica
(ma si deve rilevare che lasciò principalmente alla sua intuizione musicale la facoltà di
decidere ogni conflitto tra teoria e pratica). Per realizzare il suo concetto di
Gesamtkunstwerk e per giungere ad una stretta unione di poesia e musica, Wagner ritenne
necessario che a scrivere testo poetico-drammatico e musica dovesse essere la stessa
persona: «sono una sola e medesima cosa, perché ognuno sa e sente ciò che l'altro sa e
sente. Il poeta è diventato il musicista, il musicista il poeta: ora essi formano ambedue
l'uomo artistico completo». (Richard Wagner, Oper und Drama, Parte III, Cap. 44).
Wagner scrisse, dunque, i libretti di tutte le sue opere teatrali.
Agli intenditori musicali Wagner offrì la “complessità”, veramente inestricabile ed
inesauribile, del suo raffinatissimo linguaggio musicale, che si avvale di un sistema
fluttuante e altamente concettuale di reminiscenze, incessanti variazioni e trasformazioni
tematiche entro un ricco tessuto orchestrale, continuamente modificato dall'aggiunta o
sottrazione di timbri diversi, sì da produrre nell'ascoltatore una specie di magica ipnosi.
4

2
2. Parsifal come compendio di un’elaborazione intellettuale

L'ultima opera, il Parsifal un Bühnenfestspiel ("sacra rappresentazione" o anche "rito


scenico teatrale"), è basata su due leggende: quella del Graal e quella di Parsifal -
dall'arabo parsi ("puro") e fal ("folle"): l'eroe simbolo della semplicità incontaminata
della natura, destinato a redimere l'umanità attraverso la sua totale rinuncia agli egoismi e
alle passioni della carne.
La differenza tra il soggetto di Parsifal e i miti germanici delle opere precedenti è il suo
carattere religioso; in che misura e con quale preciso significato, è questione che ha
sempre diviso gli studiosi.
Oltremodo interessante, a tal proposito, è la possibile relazione tra elementi buddisti e
cristiani nel pensiero di Wagner.
L'opera ha comunque a che fare con la fede cristiana, presumibilmente più filosofica che
confessionale.
Durante la composizione di Parsifal Wagner scrisse un saggio, Religion und Kunst
(Religione e arte, 1880), nel quale esalta la "sublime semplicità della pura religione
cristiana" e afferma che la rinascita del Cristianesimo si compie definitivamente solo
nella musica, l'unica tra le arti che pienamente corrisponde alla fede cristiana.
La musica conduce, infatti, alla "conoscenza del bisogno di redenzione" e per questo si
pone come guida ideale per una rigenerazione dell'umanità.
Sulla natura religiosa dell'arte - l'opera d'arte viene concepita come un rituale sacro-
affermata da Wagner, si avverte l'eco della filosofia della musica dei primi romantici, di
Wackenroder in particolare.
Il soggetto di Parsifal ruota intorno ai temi della Passione e della "redenzione". La
vicenda è caratterizzata da una struttura complessa e da un profondo simbolismo: si
chiude, per esempio, con le enigmatiche parole Erlösung dem Erlöser ("redenzione al
Redentore"), blasfemo concetto secondo cui il Cristo ha bisogno di Parsifal per essere
redento dal peccato originale.
Parsifal, l'innocente folle, deve recuperare la sacra lancia (con la quale il soldato romano
Longinus colpi Cristo sulla croce), sottratta dal maligno mago Klingsor ad Amfortas, re
dei cavalieri del Graal e figura simbolica del Cristo.
Per aver peccato di lussuria con una donna, perdendo così la purezza, Amfortas fu trafitto
dalla lancia ed è costretto a subire indicibili sofferenze, che avranno termine solo quando
un eroe redentore saprà toccargli la piaga con la stessa lancia che gli ha aperto la ferita. È
questi il "puro folle". Egli saprà resistere alla tentazione della carne (atto II: nel giardino
incantato di Klingsor non vorrà abbandonarsi tra le braccia di Kundry, la seducente,
bellissima, quasi animalesca donna che agisce per conto di Klingsor), di fronte alla quale
Amfortas era stato costretto a soccombere.
Parsifal restituirà la lancia ai cavalieri del Graal, assumendo il compito di Amfortas. In un
Venerdì Santo egli pone fine alle sofferenze di quest’ultimo con la lancia tolta a Klingsor;
una bianca colomba scende sul suo capo mentre benedice i cavalieri in adorazione.

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Per dare coerenza strutturale al gigantesco edificio sonoro di Parsifal Wagner fa ricorso
ad una quarantina di Leitmotive, molti dei quali, di carattere diatonico, sono derivati dal
motivo iniziale dell'opera - il "motivo del Graal".
Parsifal costruisce inoltre la sua coesione musicale su una serie di ritorni e di relazioni
tonali. La tonalità di La magg., con cui l'opera inizia e finisce, è usata come base della
musica che ritrae i cavalieri del Graal e le fanciulle-fiore; molti centri tonali importanti
nell'opera stanno in relazione di terza maggiore o minore con questa tonalità.5

3. Genesi dell’opera

Parsifal è, senza alcun margine di dubbio, uno dei risultati più rilevanti raggiunti dall’arte
occidentale. Ne è una delle vette, una delle massime sintesi nonché uno dei punti di snodo
della sua storia. Con Parsifal si chiude la parabola artistica del musicista probabilmente
più determinante per le sorti della musica, più anche dei monumenti Bach, Mozart o
Beethoven, perché con Richard Wagner la musica ha raggiunto il suo culmine in termini
teologici, sfidando apertamente il ruolo di “significato ultimo” da sempre appartenuto alla
religione, e il Parsifal, la sua azione scenica sacra (Bühnenweihfestspiel) ha proprio il
compito di “salvare la religione”, altrimenti incapace di comunicare le sue verità
attraverso dogmi oramai inaccettabili.
Egli è stato così l’incarnazione di un’intera epoca dello spirito che giungeva a
compimento, l’epoca di ciò che Adorno identificherà col nome di Aufklärung, il risveglio
illuministico dell’uomo che a poco a poco si è posto definitivamente al centro di tutte le
cose. Non a caso Wagner è stato contemporaneamente il più illustre figlio e il più illustre
padre dell’epoca di maggior tracotanza e fanatismo artistico nella storia dell’umanità,
creando le condizioni limite che hanno poi fatto implodere l’arte nella miriade di
avanguardie e sperimentazioni del Novecento. Infatti è proprio contro la sua
Gesamtkunstwerk, la sua opera d’arte totalizzante e assoluta, sintesi delle ambizioni
dell’Ottocento, che lo scetticismo critico del secolo successivo si è rivoltato. In prima fila
c’era Friedrich Nietzsche (che proprio dopo aver letto il libretto di Parsifal si staccò
definitivamente dal maestro), ed a seguire anni dopo il già citato Theodor Wiesengrund
Adorno. Si chiude così un cerchio, poiché la scuola di Francoforte a cui apparteneva
Adorno è in qualche modo erede ultima della sinistra hegeliana.
Ma addentriamoci nell’opera attraverso le parole di Religion und Kunst:

L’enorme forza che ha plasmato il mondo attraverso ogni tentativo di acquietamento, dalla
distruzione alla manipolazione, ha raggiunto infine il suo obbiettivo nell’emergere di
quest’Uomo, ovvero di colui che diventa cosciente di sé come Volontà e che, con questo
sapere, diventa padrone del suo destino. Per arrivare a sentire un tale orrore di sé da
invocare la necessità della redenzione, era indispensabile all’Uomo raggiungere proprio
questa consapevolezza di appartenere ad un’unica Volontà di cui è manifestazione. E la

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Per la redazione del presente paragrafo si è tenuto conto principalmente dei seguenti contributi:

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guida nell’acuirsi di questa percezione gli è stata data dalla Sofferenza, che solo l’Uomo
può sentire con sufficiente intensità.
Siamo proprio di fronte all’anello di congiunzione fra l’eredità della Volontà di
Schopenhauer e una rielaborazione ulteriore e personalissima di Wagner, che media
questo concetto con la teleologia cristiana della sofferenza. Nel Quarto Libro de Il
Mondo come Volontà e Rappresentazione, alla fine del capitolo §66, quest’idea era
molto chiara: la com-passione, cioè il patire assieme, che in tedesco è la parola chiave
“Mit-leid”, è la prima porta che sfonda il recinto del principium individuationis su cui
si regge la Rappresentazione dell’Io. È la compassione ad aprire dunque la via
all’esperienza di una Volontà unica a cui tutti apparteniamo e di cui la nostra
individualità è mero fenomeno. Wagner non si accontenta e desidera di più: desidera
togliere una volta per tutte quel dualismo fra una realtà totalizzante, pura, e un mondo
impuro dell’apparenza, condannato alla confusione, al contrasto, alla brama
implacabile e quindi al senso di indegnità e di colpa. Il ritorno in seno al cristianesimo
avviene dunque alla ricerca di una legittimazione e glorificazione più alta del comune
patire umano, alla ricerca di una redenzione, cioè di una Erlösung (il termine è già
schopenhaueriano), che non sia più solo la dissoluzione (nell’etimo lösen è sciogliere,
risolvere) come ritorno all’indifferenziato. Egli non può più accettare insomma una
visione dell’esperienza umana che culmini al più e nel migliore dei casi nella
correzione tardiva di un errore o peccato originario, ovvero in una risalita che annulli e
faccia dimenticare quell’accidente della caduta che è la nostra inutile e scomoda
esistenza. All’insoddisfazione di una tale soluzione Wagner risponde dunque con la
bellezza di un piano divino che invece prevede la felix culpa agostiniana come discesa
necessaria e programmata di Dio stesso nell’umano, a pieno, nell’incarnazione, per
una redenzione che non è ritorno allo stato d’origine ma è raggiungimento di un grado
ancora superiore di compiutezza.
In Parsifal, figura in cui convergono tutti questi sviluppi concettuali, Il ruolo dell’Altro
muta tuttavia completamente. Non è più solo la definitiva frustrazione dell’Io, l’ostacolo
della Volontà nella Rappresentazione che porta a decidersi per la negazione di sé. L’Altro
può diventare ora il mezzo attraverso cui si invera il mio essere individuo, incarnato e
mortale. Ecco perché Parsifal ha il suo corrispettivo direttamente in Cristo, che non
patisce e paga le sue colpe, ma allarga la sua percezione fino a soffrire e sacrificarsi per il
peccato dell’altro:

Il fatto che il Salvatore sia immacolato ed incapace di peccare significa che in Lui la
Volontà deve essere stata completamente spezzata fin dal giorno della sua nascita, cosicché
egli non potesse più soffrire, ma solo partecipare delle sofferenze altrui. La radice di questo
è necessariamente da trovarsi in una nascita che proviene non più dalla Volontà di
Vivere [la Wille zum Leben schopenhaueriana] ma da una Volontà di Redenzione [Wille
zum Erlösung]

Sono sempre parole di Religion und Kunst, scritte con in mente già la drammaturgia
dell’opera. Parallelamente a Cristo infatti vedremo che il successo di Parsifal (protetto
dallo scudo dell’innocenza) contro la tentazione di Kundry risiede nel fatto di non stare

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vivendo il proprio peccato ma, sotto forma di transfert, di stare sperimentando la ferita di
Amfortas. Questo ruolo di mediazione dialettica è alla base della fruizione/finzione
artistica stessa: quando vediamo un personaggio morire in scena per fortuna possiamo
com-patire la sua pena e vivere il suo tormento senza rimetterci la pelle noi stessi, meri
spettatori. Quando è l’Altro a soffrire e non noi, rimaniamo svincolati dalla “meschina”
volontà diretta di sopravvivere (Wille zum Leben), e siamo mossi invece da una
“magnanima” volontà indiretta di salvare l’Altro (Wille zum Erlösung). Amfrotas o
Kundry, che patiscono e bramano in prima persona e perciò preferiscono morire,
sarebbero ancora eroi da periodo schopenhaeuriano, mentre la novità risiede in Parsifal e
in questa sua distanza dalla ferita (data dalla stoltezza) che pure è contemporaneamente
vicinanza (data dalla compassione): Wie weit so nah! So nah wie weit! L’arte teatrale, e
quindi Wagner, ci permettono di essere come Parsifal, ovvero di diventare “sapienti
attraverso il compatire” di un dolore solo inscenato, ci permettono cioè di sperimentare lo
spalancarsi della Volontà (l’esser uniti nel sentimento) attraverso l’uso di una
Rappresentazione (l’Altro, l’attore, il simulacro) che ci mantiene così sul bordo
dell’individuazione, allargata all’immedesimazione ma mai del tutto disciolta
nell’indifferenziato. Il mondo dualistico di Schopenhauer trova la soluzione che pareva
impossibile nello scoprire un terzo elemento trinitario di unione dei due opposti. L’arte
raggiunge così il massimo grado possibile di cosciente auto-illusione, cioè di negazione
della negazione (nego me stesso nell’Altro e contemporaneamente nego parzialmente alla
mia coscienza che quell’Altro non sono io) e quindi di sintesi: Gesamtkunstwerk! Se
l’arte a fine Ottocento può allora arrogarsi addirittura il compito di salvare la religione,
questo avverrà proprio perché essa è in grado di veicolare le verità dogmatiche sotto
forma simbolica e mediata, non costringendo a credere nella loro realtà di fatto ma
richiedendo solo un atto di consapevole auto-illusione e auto-convincimento riguardo alla
loro efficacia. È chiaro tuttavia che questo potere dell’arte potrà inverare solamente una
religione della compassione e della charitas, e in alcun modo potrà essere al servizio del
dogmatismo che, rispondendo in fondo all’istinto di sopravvivenza dell’anima, si ostina a
difendere l’avidità e la bramosia di potere (che per Wagner restano le ragioni d’essere del
Dio giudaico). L’interesse di Wagner per il personaggio di Parsifal risale almeno al 1845,
anno in cui, appena conclusa la composizione del Tannhäuser, lesse il poema di Wolfram
von Eschenbach. L’ispirazione per il primo abbozzo dell’opera dovrà attendere dunque la
primavera (secondo l’autobiografia il Venerdì Santo, ma è improbabile) dell’anno 1857,
quando i Wagner trovano finalmente asilo in casa Wesendonck. In mezzo c’è stata la
significativa scoperta di Schopenhauer, che ha aperto le porte all’idea di Mitleid ma che
per il momento si traduce nel Tristan und Isolde. Possiamo interpretare questa scelta: la
sofferenza era allora per Wagner ancora qualcosa di cui liberarsi, un elemento negativo,
mentre Parsifal richiederà di elaborare un’idea positiva della sofferenza, rappresentandola
come qualcosa che va addirittura ricercato in nome della redenzione. Per vedere una
stesura in prosa completa arriviamo così al 1865, cioè agli anni di lavorazione
dei Meistersinger, ma il passaggio al libretto deve rimanere poi ancora congelato altri 12
anni, in attesa che la mente sia sgombra dagli altri progetti (il Ring soprattutto). L’opera
di una vita ritorna dunque in cima ai pensieri del compositore nel 1876, trovando un
Wagner oramai maturo e reso fiducioso dall’inaugurazione del suo teatro a Bayreuth. La

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partitura sarà completa nel gennaio 1882, così da andare in scena per la prima volta nel
giugno successivo. Wagner morirà pochi mesi dopo, il 13 febbraio 1883. La struttura in
tre atti è chiara nelle intenzioni del compositore fin dalla stesura in prosa degli anni
sessanta, ed è fin d’allora chiarissima una ricercata simmetria fra primo e terzo atto, col
secondo a fare da contrappeso.

4. Disamina del primo atto

Il primo atto è sostanzialmente pura liturgia. Come ironizzava Mark Twain, vediamo in
scena per oltre un’ora un vecchio cavaliere che monologa senza che avvenga pressoché
nulla. È come se il dramma non fosse ancora iniziato, è tutta narrazione, cerimonia.
Anche la prosa appassionata dello Stabreim  deve aspettare il secondo atto e lascia qui il
posto ad una costante rima in uscita di verso che paralizza il tempo in una cantilena
rituale, solenne, formale ed un tantino retorica. Gurnemanz è chiaramente la figura
centrale di quest’atto, è il custode del passato, colui che racconta come stanno le cose e
come si sia giunti al presente, che ci viene esposto come cristallizzato in un tableau
vivant: in un luogo sicuro a cui solo i puri possono accedere, l’ordine dei Cavalieri del
Graal custodisce la coppa che raccolse il sangue di Cristo, ma l’umore non è dei migliori
da quando è andata perduta l’altra metà della reliquia, la sacra lancia che colpì il costato.
Responsabile della perdita è figlio dell’anziano re Titurel, Amfortas, che sedotto dalla
demonica Kundry è stato derubato e ferito con quella stessa lancia dal cavaliere rinnegato
Klingsor. La piaga che porta sul fianco, in analogia con quella che subì Cristo,
rappresenta metaforicamente la caduta e il peccato dell’uomo, e dunque non guarisce ma
anzi si approfondisce a contatto con la santità del Graal, il cui rito gli pare ora una
punizione. Amfortas, che entra in scena su una lettiga, ricorda così tremendamente
Tristan moribondo che detesta la luce del giorno. È il classico sofferente wagneriano:
l’esistenza è per lui una colpa, è angosciato, stanco di vivere, insofferente a tutto e attratto
solo dalla possibilità dal refrigerio temporaneo di un lenitivo o, meglio ancora, di quello
definitivo della morte. Sulla stessa linea ci appare anche Kundry, che irrompe esausta (la
sue parole chiave sono müde, Ruhe, schlafen: stanca, riposo, dormire) dai tentativi di
espiare la sua parte di colpa. Sono due naufraghi che, assieme a tutti i cavalieri sulla
stessa “barca”, sopravvivono trascinandosi in attesa del redentore annunciato da una
profezia: il folle puro, reso consapevole dalla compassione (Durch Mitleid wissend / der
reine Tor). In questo ambiente impregnato di sensi di colpa paralizzanti compare
all’improvviso (o meglio, subito dopo che viene annunciata la suddetta profezia) un
ragazzo incapace di riconoscere anche la più basilare responsabilità quale l’uccisione di
un cigno. Egli non sa nulla, nemmeno il suo nome, nella sua beata ignoranza, rappresenta
la possibilità di un nuovo inizio al di fuori delle logiche di un mondo oramai condannato a
ripetere stancamente il solito ciclo di sofferenze. Ma Parsifal viene stimolato da un non
così vano tentativo di inculcargli la vergogna (si passa una mano sul volto) spezzando
così il suo arco. Egli accennerà anche a provare compassione portandosi una mano al
cuore quando, durante l’eucarestia che simboleggia il dono sacrificale del corpo e sangue
Cristo, Amfortas esternerà tutti i suoi patemi di indegno uomo peccatore messo di fronte

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all’infinita grazia di Dio. L’atto termina con Gurnemanz che rimanda un Parsifal attonito
nel bosco, rimproverandolo di essere ancora solo uno stolto (Du bist doch eben nur ein
Tor!).

5. Disamina del secondo atto

La seconda parte, nettamente staccata tanto dalla prima quanto dalla terza per
ambientazione (un giardino lussureggiante), stile (cromatismi, nervosismo e mutevolezza)
e ritmi dell’azione (molto più rapida e scorrevole). Se a Montsalvat nessuno aveva
riconosciuto in Parsifal l’eletto salvatore, qui nel regno del malvagio Klingsor è tutto
chiaro da subito: le prime battute del negromante recitano “il tempo è giunto”, mentre
l’orchestra cita il tema della profezia. Lo stolto sta infatti avvicinandosi alla trappola che
lo attende nel castello incantato, una trappola identica a quella in cui è caduto Amfortas:
la seduzione femminile e il successivo senso di colpa. La ferita di lancia che Klingsor può
infliggere non è altro che questo. È chiaro fin da subito anche che Parsifal sarà tuttavia un
osso molto più duro, poiché è protetto dallo scudo della sua stoltezza, mentre il senso di
colpa richiede innanzitutto responsabilità e quindi autocoscienza, che come abbiamo visto
è proprio ciò che allo stolto manca. Klingsor punta quindi a rendere lo stolto cosciente di
sé, facendone così l’ennesimo sofferente decadente desideroso solo di morire. Le leziose
fanciulle fiore potranno allora attrarre il giovane in un gioco lussurioso, ma la vera arma
decisiva è Kundry, il cui nome nasconde la parola tedesca Kunde, che potremmo tradurre
con “consapevolezza” o “conoscenza”. Non a caso ella esordisce chiamando Parsifal col
suo nome per la prima volta in tutta l’opera, un nome che egli ricorda subito essere quello
con cui la madre lo chiamava, in sogno. Era stata già lei, nel primo atto, a rivelargli che la
madre era morta, ora può renderlo consapevole di essere il responsabile di quella morte.
Gli racconta dei dolori del parto, di come ella si struggesse quando lui, spensierato, la
abbandonava per andare a caccia nel bosco, e di come ella sia poi morta attendendo
invano il suo ritorno. Il tema della colpa da matricidio è tipicamente wagneriano: lo
ritroviamo in Siegfried e Tristan, le cui madri muoiono entrambe di parto, ed è più in
generale simbolo del danno che l’uomo fa inevitabilmente alla Madre-Natura.
Cinquant’anni dopo Parsifal, nel 1930, questa idea sarà chiarissima a Herman Hesse, nel
finale del suo Narciso e Boccadoro:
“Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si
può amare. Senza madre non si può morire!”
Una frase che Wagner avrebbe probabilmente ben compreso. L’operazione psicologica in
atto nel dialogo fra Kundry e Parsifal è dunque profondissima e tocca le corde più
profonde dell’esistenza. V’è una colpa anche solo nel nascere e nel sopravvivere, e la
madre ne è la prima vittima. L’infanzia felice del bambino è solo incoscienza del dramma
del mondo da cui la madre lo protegge patendo al suo posto, e la presa di coscienza del
dolore della madre è simbolicamente scoperta del limite umano della mortalità, che

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diventa percezione della mancanza, quindi dell’indegnità e del senso di colpa. L’uscita
dall’infanzia coincide dunque col vuoto lasciato dalla scomparsa della madre-natura, che
viene presto riempito dal desiderio surrogante di un’altra figura femminile. Ecco perché
Kundry fa conoscere il dolore atavico della madre a Parsifal proprio appena prima di
proporglisi come “dolcezza del conforto”. Già Thomas Mann riconobbe l’incredibile
precursione dell’Edipo freudiano in questo passaggio in cui il rimorso per esser stati
causa della perdita dell’idillio uterino materno viene tradotto in brama di redenzione
attraverso la confessione e il riconoscimento (sono le due parole usate da
Kundry: Bekenntnis ed Erkenntnis) con un altro partner femminile non precluso dal tabù
dell’incesto. Come il padre arse d’amore per la madre, così ora Parsifal deve cedere a lei,
accettando il suo bacio, “saluto estremo di materna benedizione” (als Muttersegens
letzten Gruss). Comprendiamo meglio allora perché la vera tentazione che l’eroe deve
fronteggiare non era certo resistere al fascino delle grazie femminili (cioè alle fanciulle
fiore), quanto piuttosto resistere alla tentazione di lasciarsi andare alla soluzione più
semplice per obliare la responsabilità e il peso dei mali del mondo di cui è appena venuto
a conoscenza. Kundry propone la falsa dialettica, che mostra il negativo per poi
rimuoverlo in nome di un ritorno allo stato originario e non di una sintesi. Kundry è
profondamente schopenhaueriana, dato che nell’estasi d’amore cerca quello sprofondare
nell’incoscienza e nel sonno eterno. Nel resistere a questa prospettiva, Parsifal è chiamato
a reggere all’autocoscienza di essere individuo abbandonato nel cosmo, nato nel dolore
(una delle prime cose che la Bibbia cita come punizione per la caduta) e destinato ad
esistere solo al prezzo di una continua lotta per affermarsi contro gli altri viventi. Questo
è il reale significato del momento dell’autocoscienza. Nei primi passi l’autocoscienza si
confronta proprio con altre singole autocoscienze nei processi di alienazione e desiderio
che abbiamo visto, ma il vero superamento avviene solo quando questo momento della
differenziazione e del confronto viene ulteriormente superato nel negativo del negativo,
ovvero la coscienza certa di essere in fondo tutti parte della stessa realtà. Ecco allora ciò
che scatta in Parsifal al bacio di Kundry: il Mitleid, la compassione, la percezione
dell’Altro. È il momento topico, e la sua reazione è giustamente celebre: “Amfortas! La
ferita!”. Klingsor pensava che Parsifal fosse ancora troppo inesperto (per quanto stolto e
puro) per resistere alla tentazione, ma non aveva evidentemente calcolato che egli aveva
invece già visitato Montsalvat e vista l’angoscia di Amfortas di fronte al rito sublime. È
impressionante con quanta lucidità Wagner ci presenti l’autocoscienza della condanna
alla necessità del bramare ed insieme la conseguente demonizzazione di questo desiderio:
“Tortura dell’amore! – come tutto freme e trema e spasima – in desiderio di
peccato! (Qual der Liebe! – Wie alles schauert, bebt und zuckt – in sündigem
Verlangen!)”
Se Parsifal avesse visto questa intrinseca connaturalità del desiderio e del peccato
solamente su di sé, restando fermo al momento dell’autocoscienza (infelice), egli sarebbe
stato vittima della trappola di Klingsor come Amfortas prima di lui, poiché avrebbe visto
nella coscienza della sofferenza e della colpa individuale solamente un momento negativo
da cui liberarsi tornando al più presto alla beatitudine inconscia di prima, soluzione pronta
fra le braccia di Kundry. Pronta sì ma chiaramente inefficace, poiché la beatitudine
d’amore sarebbe presto passata lasciando dietro di sé il rinnovarsi della brama, nonché

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ulteriore senso di mancanza, indegnità e quindi rimorso. Tutto questo è ben rappresentato
dalla lancia che avrebbe implacabilmente colpito, segnando per sempre il costato di colui
per il quale, citando Leopardi, “la vita è male”. Parsifal riesce invece a rivivere tutto
questo percorso di Amfortas come in un transfert (accompagnato dal violino solo) che gli
permette di prendere coscienza senza essere quella coscienza. Egli è in grado di uscire da
sé per sperimentare ciò che vive l’Altro, negandolo poi ulteriormente per tornare a sé con
la consapevolezza di non essere l’Altro ma mantenendo contemporaneamente
l’esperienza acquisita nell’immedesimazione. Il desiderio di redenzione, che
nell’autocoscienza infelice di Amfortas era inevitabilmente mescolato e confuso col
desiderio carnale di acquietamento della brama, giunge in Parsifal a distinguersi
chiaramente.
“  Ma chi la riconosce chiara, trasparente la vera fonte d’unica salute? Oh, stato
miserando, fuga d’ogni salvezza! Oh spandersi della fallace notte del mondo: in sete
ardente d’altissima salute, verso la fonte che danna anelare!”

Egli riconosce la vera fonte d’unica salute: è esistito infatti un essere che non ha peccato
ma è morto per i peccati degli altri: è Cristo, egli è stato modello di quell’esperienza di
sofferenza partecipata e vissuta che non si confondeva coll’istinto di sopravvivenza
individuale. Egli è stato il vero superamento della colpa originaria, il vero esempio di
com-passione. Gli ulteriori tentativi di Kundry di rimescolare la Wille zum Leben con
la Wille zum Erlösung non possono più funzionare, Parsifal ha oramai le idee chiare e sa
che anche la salvezza di Kundry sta nel non cedere al piacer figlio d’affanno. Lei stessa in
realtà sapeva di necessitare soltanto di qualcuno che le resistesse, che rompesse cioè la
sua “maledizione”, ovvero il circolo vizioso in cui il legittimo afflato verso la redenzione
finiva perennemente confuso con un appagamento sensuale sedativo che non poteva far
altro che rinnovare la bramosia. Era d’altronde schiava di Klingsor solo perché egli le
resistette castrandosi, atto di negazione e rinuncia che lo allontanò da Montsalvat e lo
pone ora esattamente all’antitesi della sintesi affermativa di Parsifal, che non nega il
desiderio carnale ma lo legittima come momento necessario di transizione verso una
volontà più alta, quella di redenzione. La distanza fra queste due realtà è garantita proprio
dal Mitleid, dalla compassione che unisce senza confondere, mentre Klingsor basa il suo
potere sul mescolare il peccato col senso di redenzione, castrando così l’uno con l’altro,
mettendo i cavalieri gli uni contro gli altri e ferendoli con la loro stessa arma. Il confronto
finale fra Parsifal e Klingsor non può allora che risolversi con una vittoria del nuovo eroe:
la lancia che demonizza il peccato infatti non può colpirlo, e la sua risposta col segno
della croce richiama proprio la legittimazione più alta che Cristo ha dato alla caduta
umana nel peccato per la redenzione. Crolla così immediatamente tutto il mondo di
sollievi illusori che il negromante aveva creato come palliativo per chi non poteva più
sopportare la responsabilità del dolore del mondo. Parsifal, presa la lancia, può ora
tornare a Montsalvat e ricongiungerla al Graal (il cui tema già risuona nell’attimo
fatidico).

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6. Disamina del terzo atto

Dopo il secondo atto, dove di fatto accade tutto quello che doveva accadere, il terzo torna
alla sobria liturgica del primo. Sciolti i dilemmi dell’autocoscienza, questo è il momento
della sintesi, della riunione di tutto nella percezione certa di far parte di un’unica realtà
ideale e differenziata. È Venerdi Santo, giorno che celebra la morte di Cristo in croce, e
Gurnemanz attende i funerali dell’anziano re Titurel. Il figlio Amfortas infatti non ha più
retto al senso di inferiorità nei confronti del Graal e si è rifiutato di attendere al rito,
togliendo al padre la grazia che lo teneva in vita. Sempre più la reliquia assume dunque i
tratti di un vero e proprio tribunale esistenziale che, concedendo di continuare a vivere,
chiama anche a fare una scelta fra visione positiva e negativa della vita. Il malato, il
sofferente, colui che cerca solo la quiete in mezzo alla tempesta sarà colui che rifiuterà il
rito del Graal e desidererà unicamente la fine di tutte le cose. Colui che invece troverà
nell’esistenza, anche mutilata dalla ferita, la via necessaria ad uno stato più glorioso sarà
volenteroso di scoprire il Graal e di continuare il pellegrinaggio nella valle di lacrime.
Qualcosa di non molto diverso sarà la prova dell’eterno ritorno di Nietzsche, che nel
cuore della notte viene a porci il dilemma: “rivivresti tutto ciò che è stato, esattamente
come è stato, per altre infinite volte?” Un sì o un no a questa domanda marca la differenza
fra il Wagner del Parsifal (e dei Meistersinger) e quello di tutte le opere precedenti.
Il conflitto dualistico fra umano e divino, da cui discende il senso di insoddisfazione
dell’esistenza che funesta pressoché tutti i protagonisti di Wagner e che fa loro scegliere
infine il nulla piuttosto che una vita di mancanza, viene in pratica superato solo nel terzo
atto di Parsifal. Per marcare ulteriormente il passaggio da una concezione del mondo che
desidera solo di finire il suo corso ed una che si spinge invece verso la gioia del
rinnovamento, Wagner ha introdotto nella prima parte di quest’atto il momento estatico
dell’Incantesimo del Venerdì Santo, in cui “le lacrime del peccatore pentito” danno
nuova vita al prato fiorito e, come Dio ebbe pietà dell’uomo, così l’uomo avrà pietà dei
fiori, divenendo a suo modo ed a sua volta un redentore per la natura che “discolpata
conquista il giorno della sua innocenza!”. È una innocenza recuperata, una naturalezza
riconquistata attraverso il travaglio dell’antitesi e perciò uno stato di ancora maggior
perfezione rispetto a quello d’origine. Vale la pena di ricordare a questo proposito il
grande musicologo Carl Dahlhaus, che più di chiunque altro riconobbe in Wagner la
tensione verso la rappresentazione di una natura e di una immediatezza “di secondo
grado”, cioè perdute e ritrovate, o meglio ritrovate in quanto perdute, come il tempo di
Proust. Nel Parsifal e nei Meistersinger (uniche opere wagneriane col “lieto fine”) più
che in ogni altra partitura si riconoscono i segni di questo ritorno alla semplicità,
identificabile col un diatonismo apparentemente immediato e che è in realtà risultato di
una complesso ed estremamente artificiale e sapiente movimento cromatico delle voci
sottostanti che fa risaltare ancor di più i momenti in cui i gradi fondamentali della scala
vengono affermati.

“  Non sottovalutate il potere della riflessività; l’opera d’arte creata inconsciamente


appartiene ad un periodo remoto dal nostro: l’opera d’arte del periodo culturale più
avanzato può essere prodotta solamente da un processo di creazione cosciente. […] Solo

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le nature umane più fertili possono raggiunger questa miracolosa combinazione fra
potere dell’intelletto riflessivo da una parte e fecondità del più diretto potere creative
dall’altra!” (Frase di Wagner tratta da una lettera al critico Hanslick)
All’estremo opposto della gioia dei fiori nati dalle lacrime c’è invece il lamento di
Amfortas, che invoca il redentore solo affinché gli dia infine la quiete del riposo nella
morte, definita “mitissima espiazione del peccato” nonché “unica grazia”. In lui le
lacrime del peccatore e la nuova vita che generano sono solo occasione per rinnovare un
dolore: “e dovrei ancora una volta in vita ritornare?” è la sua domanda ultima, dopo la
quale scopre la ferita desiderando che i suoi la trafiggano definitivamente con le loro
spade. Compare invece Parsifal, che la trafigge sì ma con la sacra lancia, l’unica arma
che, avendo aperto la ferita, può anche chiuderla. La frase di Parsifal che segue è una
sintesi intensa e ideale di tutto il dramma:
“  Benedetto sia il tuo dolore
che la forza suprema della compassione
e la potenza d’un purissimo sapere
donò ad un timido folle! ”
Ci sono tutti gli elementi della profezia: il folle/stolto capace di un sapere purissimo che
solo la compassione del dolore altrui poteva schiudere. La simbologia con cui Wagner
decide quindi di chiudere la sua ultima opera non lascia più molto spazio a dubbi: dalla
lancia il sangue scorre anelante verso il Graal che già in passato lo raccolse sul Golgota.
La lancia e il calice sono come i due aspetti antitetici, i due principi archetipici e del
maschile e del femminile, della punta Λ e del cuneo V, del dare e del ricevere, del sole e
della luna, tanto studiati in antropologia, che scoprono finalmente la loro
complementarietà e sintesi. Il superamento come abbiamo visto sta nel fatto che l’incastro
di lancia e ferita o lancia e calice non nega il sangue che li ha separati, vale a dire non
ripristina l’integrità indifferenziata precedente ma instaura piuttosto una nuova sintesi che
non nega i disgiunti. Questo nuovo rito potrà essere officiato solo da colui che ha operato
in sé questa sintesi: Parsifal, che ha raccolto in sé la pena di Amfortas maturando una
volontà di redenzione totalmente altruista, non confusa e contaminata dalla personale
volontà di sopravvivenza. In altre parole ha letteralmente unito i disgiunti (sé e il ferito)
senza perdere la lucida distinzione tra di essi. È con tutto questo in mente che possiamo
comprendere il significato dell’importantissima formula conclusiva: “Erlösung dem
Erlöser”. Non più la semplice redenzione delle precedenti opere di Wagner, dove si
cancellava lo sbaglio di esistere e si tornava ad uno stato paradisiaco di pre-esistenza, ma
una redenzione di secondo grado, “redenzione al redentore” appunto, come dice l’efficace
poliptoto posizionato giustamente a suggello dell’intera produzione wagneriana. Dove
non arriva la redenzione religiosa, che troppo si è incancrenita in dogmi di fede e non
riesce più a giustificare il dolore del mondo causando la deriva nichilistica, arriva l’arte,
che permette invece di com-patire il dolore dell’altro come necessità potremmo dire
estetica in nome di una sintesi superiore. L’artista, Wagner, Parsifal, è lancia e Graal
insieme e contemporaneamente, cioè crea i personaggi e vi si immedesima pur restandone
sempre anche distinto. Così redime la verità della religione della charitas come una
necessaria messa in scena che veicola in ogni caso un sapere fondamentale per l’esistenza
umana: la sublime legittimazione e glorificazione del soffrire nella compassione del

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dolore dell’Altro. Il rimedio alla volontà egoistica sarà dunque non solo la semplice
volontà di redenzione (che è ancora una forma di ripiegamento della volontà egocentrica
su se stessa, nella negazione e nell’annullamento), ma la volontà di redenzione del
redentore, una volontà cioè di liberarsi da ogni ulteriore ansia di liberazione, una scelta
finalmente per la vita, per questa vita, così com’è, accettando l’infinita tensione alla
trascendenza come sua caratteristica ineluttabile e comune a tutti. Quasi una
redenzione dalla redenzione, da quella Erlösung che ossessionava tutte le opere
precedenti e che era stata oggetto dell’ironia di Nietzsche.

Conclusioni

Ecco perché Wagner indicherà in quegli anni a Cosima, che lo riferisce nei suoi diari, di
immaginare l’esistenza di un “Dio interiore” che sia l’antidoto innato al dramma della
volontà inappagabile. Questo è il Dio a cui Wagner approda nella sua maturità d’uomo e
d’artista. Un Dio che non ha più nulla di fideistico o soprannaturale ma che è il compagno
necessario che l’uomo deve crearsi al suo fianco (e non al di sopra di sé) per affrontare
l’esistenza nel migliore dei modi, eticamente ed esteticamente. Il Dio trinitario, incarnato
in Gesù Cristo, risponde nella visione wagneriana a questa necessità. Cristo/Parifal
dunque emerge come Messia che “libera” dall’idea stessa di Messia, ovvero pone fine
all’attesa infinta, alla perversa ansia di riscatto che caratterizzava il popolo d’Israele e che
da esso ha contagiato poi anche la storia della Chiesa, portando Wagner stesso, ad
allontanarsi dalla religione confessionale considerandola uno dei grandi mali del mondo.
Il ritorno in seno alla Chiesa coinciderà quindi con la scoperta dell’immane potenza del
negativo quando si piega a generare una sintesi, in particolare la sintesi fra religione e
arte, punto d’arrivo della ricerca wagneriana e di tutta un’epoca dello spirito
dell’occidente. L’idea di Gesamtkunstwerk, ed in particolare il lavoro impressionante
sulle transizioni musicali, è il laboratorio in cui Wagner è stato capace di creare questa
sua sintesi totale.

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