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MOZART
DIE ZAUBERFLÖTE

ROLAND BÖER
WILLIAM KENTRIDGE
TEATRO ALLA SCALA

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DIE ZAUBERFLÖTE
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STRUMENTI INCANTATI E SONORITÀ SOVRANNATURALI.


IL MAGICO NELL’OPERA TEDESCA
Livio Aragona

IL MERAVIGLIOSO E IL SACRO
Si narra che lo stesso Schikaneder amasse interpretare Papageno, il più bizzarro tra i personaggi della
Zauberflöte e dell’intera storia dell’opera, né completamente immaginario né completamente reale,
coperto di piume come un volatile, e dallo strano mestiere: catturatore di uccelli. Una sessantina d’anni
più tardi, nel Lohengrin wagneriano, è un cigno ad andare e venire sullo Schelda. Porta in scena Lohengrin
e alla fine dell’opera si tramuta in Enrich, il fratello di Elsa, mentre l’eroe eponimo del dramma svanisce
portato via da una colomba. Non sono le uniche tracce di volatili dell’opera tedesca. Nell’Oberon di
Weber, il protagonista arriva in scena su un carro trainato da cigni, e nel Freischütz una colomba, in cui
per un momento si è incarnata l’anima di Agathe, si alza in volo per evitare la pallottola magica che
colpirà Kaspar. Non solo volatili. La figura luciferina di Samiel getta sul Freischütz un livido colore
faustiano. Con questo teatro popolato di creature zoomorfe, personaggi irreali e presenze diaboliche,
l’opera tedesca punterà, traghettata dalla Zauberflöte, alle sponde della Romantik; e il filo rosso di
questo passaggio sarà costituito da un elemento antico come l’opera stessa: l’elemento magico, lo
Zauber. Il magico tuttavia non agisce da solo. È piuttosto una componente di una generale dimensione
fiabesca, di tipo insieme magica e sacrale, e in ultima analisi morale: dietro l’innocente apparenza del
fiabesco campeggia un messaggio etico che premia la perseveranza, protegge la virtù, determina, alla fine
di un sofferto cammino, la ricompensa certa e dovuta. Tutto il secondo atto della Zauberflöte possiede un
carattere spiccatamente sacrale: la stessa figura di Sarastro, e tutta la simbologia di origine massonica,
connotano l’opera in questo senso. Questa sacralità avvolge un mondo duale, diviso tra regno della luce e
regno delle tenebre, e l’elemento magico vi convoglia tutta la sua energia positiva e risolutiva.
Nella preistoria di questa formazione vi è sempre lui, Johann Joseph Schikaneder (1751-1812), che mutò il
proprio nome nel biblico Emanuel, quando invece il vero ebreo, Da Ponte, autore di più celebrati libretti
mozartiani, aveva camuffato la sua origine in un insospettabile Lorenzo – il suo nome originale era
Emanuele Conegliano. Emanuel morì senza un soldo, dopo aver messo in scena Die Zauberflöte più di
duecento volte tra il 1791 e il 1799. Il suo attivismo acceso e gaudente fu preparato da almeno altre tre
componenti: la duratura predilezione viennese per il teatro spettacolare di origine barocca; la tradizione
austriaca, tutta indigena, della commedia popolare; infine l’incontro di questi due primi elementi, con i
primi fermenti di uno spiritualismo preromantico.
In Austria l’estetica del meraviglioso e del teatro di macchine, così connaturati all’opera italiana, si era
consolidata assai presto e si conservò a lungo. Emblematico di questa diffusione fu il fastosissimo
allestimento de Il pomo d’oro di Antonio Cesti, «festa teatrale» rappresentata nel 1668 all’Hoftheater di
Vienna in occasione delle nozze dell’imperatore Leopoldo I con Margherita di Spagna. L’opera era stipata
di personaggi mitologici, scene elaborate, ambientate nell’ade, nei cieli, e nelle dimore di svariate deità.
Con le mirabolanti macchinerie, gli splendidi costumi, il melodramma barocco italiano proiettava l’evento
teatrale in una fascinosa dimensione di artificialità, col fine dichiarato di non voler imitare la realtà, bensì
di trasfigurarla.
Il grande effetto spettacolare fu adottato dal teatro gesuitico, anch’esso assai ramificato in Europa, e con
una certa assidua presenza anche nei paesi di lingua tedesca. I gesuiti pensarono di sfruttare gli eventi
scenici spettacolosi, le trasformazioni a vista, le catastrofi e le apparizioni magiche per i loro fini
edificanti e devozionali, e per la loro strategia fondata sull’‘educare dilettando’. D’altra parte, proprio
nell’immaginario tedesco la propensione alla mescolanza di sacro e meraviglioso aveva origini assai
remote. Leggende collegate alla figura di Faust risalgono ai primi del Seicento, e elementi della vicenda di
Don Giovanni affondano nella notte medievale, fino alla prima emersione a Ingolstadt, con un dramma di
un gesuita appunto, Paolo Zehentner, nel 1615. E vi sono testimonianze che anche più tardi, le avventure
continuamente raccontate e riformulate di Don Giovanni, e soprattutto il suo nucleo più resistente, la
sfida alla morte, venissero rappresentate in chiesa nella domenica di Quaresima. Una tradizione analoga si
era sviluppata nella Napoli austriaca, ai tempi in cui re di Napoli era Carlo VI d’Asburgo (1707-1734). Nei
conservatori napoletani, nelle sedi delle congregazioni, sui sagrati delle chiese si tenevano drammi sacri
che mescolavano vite dei santi e scene da commedia dell’arte; ne scrissero compositori minori, come
Giovanni Fischetti, ma anche Francesco Durante e Giovanni Battista Pergolesi. In Li prodigi della divina
grazia della conversione e morte di san Guglielmo d’Aquitania, 1731, prima opera pergolesiana, alle
dispute teologiche, ai duelli tra un angelo e un diavolo per contendersi l’anima di san Guglielmo, si
affiancano le scene in dialetto di capitan Cuosemo, una sorta di Papageno napoletano in armi. Poi, con
l’insediamento, nel 1734, di Carlo III di Borbone, assai meno propenso del predecessore asburgico a tali
misture di sacro e profano, gli spazi per questo genere di spettacoli si ridussero drasticamente. A metà del
Settecento le cose cominciarono a cambiare anche in Austria. Nel 1752 un editto di Maria Teresa bandì le
rappresentazioni della commedia popolare e del teatro di macchine a Vienna, per inseguire e favorire un
ideale di rappresentazione più aulico. L’immaginazione barocca non si spense, ma si spostò nei sobborghi.
Nacquero così il teatro della Leopoldstadt (1781), quello auf der Wieden (1786) divenuto più tardi an der
Wien, e nel 1788 il teatro della Josephstadt, che avrebbe avuto il suo momento di voga più tardi, con
Ferdinand Raimund (1790-1836) e Johann Nestroy (1801-1862). Al teatro della Leopoldstadt operò
soprattutto Joachim Perinet (1763-1816), che mise al centro dei suoi Singspiele la figura di Kaspar o
Kasperl (Gasparino), erede della commedia dell’arte e della figura più rozza e burlesca di Hanswurst
(Gianni Salsiccia).
Invece il grande stile ‘meraviglioso’ fu proseguito al teatro auf der Wieden da Schikaneder. E fu in questo
teatro che si consolidò quella tradizione di commedia fantastica e di Singspiel da cui discende Die
Zauberflöte. Fu infatti Schikaneder a promuovere – e scrivere egli stesso – il consistente numero di
commedie e Singspiele con luoghi e oggetti magici: isole, spade, pietre e dardi, e naturalmente strumenti.
E fu sempre Schikaneder a consolidare un parallelo filone esotico-misterico: prima della Zauberflöte,
devono esser ricordati almeno due titoli: Der Stein der Weisen, oder Die Zauberinsel nel 1790, e Der
wohltätige Derwisch oder Die Schellenkappe, all’inizio del 1791, mentre nello stesso anno al teatro della
Leopoldstadt, Perinet metteva in scena un altro dei titoli collegati all’ultima opera mozartiana, Kaspar
der Fagottist, oder Die Zauberzither, con la musica di Wenzel Müller; dopo la Zauberflöte, Der Spiegel
von Arkadian (Lo specchio d’Arcadia, 1795), e Babylons Piramiden (Le piramidi di Babilonia, 1797), infine
Das Labyrinth (Il labirinto ovvero La lotta con gli elementi, 1798).
In questa tradizione Die Zauberflöte rappresenta un punto di svolta decisivo, uno spartiacque tra
l’estetica del meraviglioso di matrice barocca, e il graduale avvicinamento alla Phantastische Oper,
l’opera fantastica di stampo romantico. All’inizio del Settecento, il termine ‘meraviglioso’ descriveva
proprio un effetto generato da eventi magici, sovrannaturali o divini. Esso rifletteva una sorta di alleanza
tra magia e natura, un carattere intrinseco alla natura stessa. Alla fine del secolo andò generandosi
un’opposizione tra natura e dimensione magica, quando l’egemonia del pensiero illuminista accreditò
l’idea che la conoscenza razionale e scientifica fosse in grado di esaurire ogni osservazione sulla natura,
escludendo la magia e persino la religione come forme di superstizione. Scomparso dai trattati, il
meraviglioso si conservò nella pratica teatrale e musicale, fin quando la stagione romantica non gli ridiede
nuova cittadinanza. Dopo l’opera di Mozart, la Zauberoper si ramificò in due direzioni: da una parte,
l’opera magica viennese tornò alla commedia leggera con inserti cantati; dall’altra si aprì un varco verso
la Phantastische Oper del romanticismo tedesco.

BAGLIORI ROMANTICI ATTORNO ALLA ZAUBERFLÖTE


Già alla metà del Settecento, una delle novità decisive per la trasformazione della Zauberoper nella
Phantastische Oper fu una febbre shakespeariana destinata a durare assai a lungo. Alcuni autori fra i
maggiori del primo Ottocento esordirono con un omaggio a Shakespeare, dal Goethe giovane a Ludwig
Tieck. In Dichtung und Wahrheit (Poesia e verità), Goethe scrisse che nessun altro popolo, nemmeno i suoi
stessi compatrioti, avevano riconosciuto il valore di Shakespeare come il popolo tedesco. E i numerosi
traduttori di Shakespeare furono determinanti nel delineare alcune importanti figure dell’immaginario
romantico. Christoph Martin Wieland, per esempio, fu autore di un saggio dal titolo Der Geist
Shakespeares e del poema epico dal titolo Oberon, da cui vennero ricavati almeno due Singspiele assai
influenti. Tra il 1762 e il 1766 Wieland pubblicò otto volumi di traduzioni shakespeariane, sulle quali si
formò un’intera generazione romantica. Il teatro musicale non poté restare immune da tanto fervore. Nel
1776 Friedrich Wilhelm Heinrich Benda mise in musica un Romeo und Julia su testo di Friedrich Wilhelm
Götter, specialista in arrangiamenti shakespeariani. Ancora nel 1798, in varie città tedesche circolò un
Singspiel di Götter, Geisterinsel, basato sulla Tempesta; e nello stesso anno, a Vienna ne fu di scena un
altro, Der Sturm con musica di Wenzel Müller; artefice della trasposizione letteraria fu Karl Friedrich
Hewsler, scrittore e Dramaturg viennese resosi celebre con un fuoco d’artificio di commedie di grande
successo. Non può essere stato un caso allora che negli ultimi tempi lo stesso Mozart pensasse alla
Tempesta e ai suoi personaggi: Ariel, Caliban, Prospero e un’isola magica, e non è un caso che l’esercizio
propedeutico alla Zauberflöte fosse proprio il Singspiel dal titolo Der Stein der Weisen, oder Die
Zauberinsel (La pietra dei savi, ovvero L’isola magica). D’altra parte, Schikaneder era stato tra i primi a
rappresentare proprio Shakespeare: con la sua compagnia era stato Riccardo III, Macbeth, Jago e Prospero.
Anche l’esotico batteva alla porta: si affacciava l’erotismo dei poeti persiani a speziare vicende più o
meno sconclusionate, ma anche un esotismo in declinazione esoterica. Si leggeva molto, tra l’altro, anche
il romanzo ermetico Sethos, histoire ou vie tirée des monuments anedoctes de l’ancienne Égypte del
quale era autore l’abate Jean Terrasson (1670-1750), professore di filosofia greca e latina al Collège de
France. Sethos ebbe un notevole successo: apparso a Parigi nel 1731, nel 1732 era stato tradotto in
tedesco e in inglese, nel 1734 in italiano a Venezia, e una nuova traduzione tedesca apparve negli anni
1777-78. Fu questa traduzione che rilanciò il libro nell’ambiente letterario e teatrale in cui si muoveva
anche Schikaneder. Nel romanzo di Terrasson si dispiegano in abbondanza suggestioni derivate dall’Egitto
dei faraoni e dell’India. L’interesse ricorrente per i volumi e le simmetrie architettoniche, per le
decorazioni, gli arredi, i simboli più criptici, allusivi alla rivelazione, ossia all’elevazione dello spirito in
direzione della conoscenza, trovarono occasione di dispiegarsi in soggetti dalla tinta archeologica
liberamente inventata. La simbologia massonica trasse da quella archeologia un repertorio di immagini
simboliche, che nel frattempo si erano disseminate nelle arti minori e nell’architettura, e nello stesso
immaginario figurativo: si pensi alle incisioni del Piranesi, e in particolare alla Piramide di Cestia. Dal
canto suo, l’ideologia massonica, sempre più diffusa man mano che ci si avvicinava alla metà del
Settecento, veniva incontro con le prove segrete di iniziazione, col richiamo a fonti d’antica saggezza
orientale, e ancora, nel pieno dell’epoca della clarté razionalistica, ad un nuovo e crescente bisogno di
meraviglioso. In questo intreccio di componenti e relazioni, dovette risultare facile, e quasi naturale,
sovrapporre la simbologia iniziatica della massoneria al meccanismo fiabesco fondato sulla prova da
superare. Nella stessa direzione si muoveva l’interesse nuovamente crescente per il fiabesco. Sempre
Wieland curò una raccolta assai fortunata, i tre volumi di fiabe scelte di spiriti e di fate intitolato
Dschinnistan, pubblicati tra il 1786 e il 1789. Wieland era l’autore della maggior parte delle fiabe
contenute nella raccolta, ma quattro di esse erano di mano di altri due: August Jakob Liebeskind e
Friedrich Hildebrand von Einsiedel; Liebeskind è l’autore di Lulu, oder Die Zauberflöte, Einsiedel di Das
Labyrinth. Al primo volume Wieland aveva premesso un invito ai contemporanei a non vergognarsi
d’amare storie di fiabe e di spiriti. Il suo invito fu accolto. Nel 1789 aprì la fortunata serie un Oberon,
König der Elfen (Oberon, re degli elfi), ispirato, o per meglio dire, suggerito a Karl Ludwig Gieseke
dall’omonimo poema di Wieland (per inciso, Gieseke fu, per alcuni detrattori di Schikaneder, supposto
coautore, se non autore del tutto del libretto della Zauberflöte). Fu poi, nel 1790 e nel 1791, la volta di
Schikaneder, con i libretti per Der Stein der Weisen e Der wohltätige Derwish entrambi ricavati da più
fiabe di Dschinnistan. Da Lulu, oder Die Zauberflöte di Liebeskind Perinet estrasse il libretto di Kaspar der
Fagottist (al Leopoldstadt nel 1791), mentre dal Labyrinth di Einsiedel, fu concepita l’omonima opera che
Schikaneder aveva progettato come sequel della Zauberflöte.
Com’è noto, anche Goethe fu tentato di comporre una prosecuzione della Zauberflöte, rimasta poi allo
stato di frammento e confluita nel secondo Faust. Ma, probabilmente, fu proprio la lettura di Goethe a
produrre una interpretazione dell’opera mozartiana deformata in senso romantico, dove al luminoso
trionfo della virtù andava sostituendosi una realtà fatta di incertezza e di ambiguità, nella quale i confini
tra il regno della luce e quello delle tenebre, andavano gradualmente sbiadendosi.

NADIR, LULU, HUON


La perseveranza, la virtù, la prova. Le immediate vicinanze della Zauberflöte rivelano come la sua
struttura narrativa costituisse in definitiva un modello assai ben collaudato. In Der Stein der Weisen
figuravano Schack, Gerl, Anna Gottlieb e naturalmente l’immancabile Schikaneder, vale a dire, gli stessi
che saranno chiamati alla prova della Zauberflöte un anno dopo. Si tratta di musiche composte da più
autori su versi del solito Schikaneder, che per l’occasione si cimentò anche nelle vesti di compositore, e
con mestiere non disprezzabile. Accanto al suo nome, troviamo tra gli autori Johann Baptist Henneberg,
Kapellmeister di fresca nomina e viennese purosangue, che avrebbe oltretutto diretto la Zauberflöte a
partire dalla terza replica, poi gli stessi Gerl e Schack, che avrebbero difeso la loro musica sul
palcoscenico prima di divenire Tamino e Sarastro. Infine, la partecipazione di Wolfgang, più generosa di
quanto si supponesse fino a prima del rinvenimento della partitura (ad opera di David Buch, una decina
d’anni or sono).
Der Stein der Weisen contiene numerosi incunaboli dell’ultima opera mozartiana a cominciare dai
personaggi: la coppia Lubano e Lubanara costituisce una premessa evidente a Papageno e Papagena;
l’altra, Nadir e Nadine, a quella di Tamino e Pamina; i maghi sono due, Eutifronte e Astromonte. Al fondo
di un’intricata serie di peripezie, con rapimenti e sparizioni, morti apparenti e agnizioni, sta proprio la
contesa tra Eutifronte e Astromonte. I due maghi sono fratelli, figli di un grande saggio che aveva
insegnato loro le arti magiche, distribuendo i poteri in parti uguali, e riservando l’oggetto dotato di potere
magico più grande al figlio di uno dei due. Astromonte e Eutifronte amavano la stessa bellissima
principessa, che aveva scelto Astromonte e da quest’ultimo aveva avuto un figlio. Si scopre, d’un tratto,
che questo figlio è Nadir. Eutifronte forgia allora per lui una spada assai potente per uccidere Astromonte,
ricattandolo, poiché Nadine è sua prigioniera. Nadir però cederà la spada ad Astromonte, il quale libererà
Nadine per lui.
Mentre Schikaneder lavorava al libretto per Die Zauberflöte, al teatro della Leopoldstadt andava in scena
un altro Singspiel, Kaspar der Fagottist, oder Die Zauberzither, il cui soggetto, ridotto in libretto da
Perinet deriva da Lulu, oder Die Zauberflöte. La fiaba di Liebeskind narra di Perifisime, la fata raggiante,
che non gode di buona fama ed è evitata dal re del paese. Ma il figlio di costui viene attirato mentre
insegue una tigre che a sua volta insegue una gazzella nel castello della fata, la quale dichiara di averlo
scelto per una difficile missione. Il mago Dislenghuin le ha sottratto un acciarino magico, dal quale
scintillano spiriti al servizio di chi lo possiede. Se Lulu recupererà l’acciarino la fata lo premierà. Per
facilitare l’impresa gli dà due talismani: un flauto che ispira ogni sentimento voluto da chi lo suona e un
anello che permette di mutare sembianze. Sotto l’apparenza di un vecchio, Lulu giunge nei pressi del
castello del mago e lo costringe ad uscire. Il mago vorrebbe utilizzare il flauto per ridurre in suo potere
Sidi, la figlia della fata Perifisime da lui rapita. Grazie al flauto magico Lulu fa addormentare il mago, gli
prende l’acciarino e fa accorrere i geni in sua difesa. Giunge anche la fata che dà Sidi in sposa a Lulu,
mentre il castello del mago va in pezzi. Perinet segue abbastanza fedelmente il racconto di Liebeskind,
ma introduce Kaspar, il personaggio buffo della commedia viennese. A causa dell’innegabile affinità con
l’opera di Mozart, nacque la leggenda che per via di questo dramma Schikaneder e Mozart avessero
modificato il loro progetto originario. Mozart vide lo spettacolo qualche giorno dopo la ‘prima’ e ne riferì
brevemente a Constanze il 12 giugno 1791: «Per distrarmi sono andato al Kasperl [il Leopolstädter
Theater] a vedere la nuova opera Der Fagottist, che fa tanto rumore – ma non sa di nulla». Neppure la più
piccola allusione a una situazione di concorrenza, che evidentemente non poteva darsi, trattandosi di un
dramma popolare di livello pari al teatro di marionette. Tuttavia, nel testo di Perinet scorre una bonaria
ironia, che da una parte ha l’effetto di svalutare illuministicamente il sovrannaturale proprio mentre se ne
serve, dall’altra ricalca l’irrispettosità di buona parte della commedia popolare barocca, che prendeva in
giro il trascendente nelle forme in cui si manifestava nel teatro serio, fiabesche, mitologiche o religiose
che fossero.
Sembra che librettisti e impresari siano stati colti da uno speciale interesse per Oberon, il poema epico di
Wieland. In effetti era il diffuso interesse per Shakespeare ad aver indotto numerosi autori a trarre
soggetti da A Midsummer Night’s Dream. L’opera di maggior successo fu l’Oberon commissionato a
Gieseke da Schikaneder nel 1789, per la musica di Paul Wranitsky. Con questo Singspiel si avviò al Theater
auf der Wieden, come s’è detto, la lunga serie di opere magiche.
Un altro Oberon traghettò la Zauberoper nel primo Ottocento, l’Oberon che Weber portò in scena nel
1826. I legami con Die Zauberflöte sono ben serrati, tramite i mille riferimenti alle prove da superare,
all’intervento di potenze sovrannaturali, alla presenza di uno strumento fatato e liberatorio, in questo
caso il corno. Oberon, re degli elfi, sa che riuscirà a sanare il dissidio che lo separa dall’amata sposa
Titania solo se riuscirà a trovare una coppia di perfetti amanti. La sua ricerca è vana, almeno fino
all’arrivo del piccolo genio Puck, che viene a narrargli di Huon, condannato a rapire la bellissima Rezia.
Riuscito nella sua missione, conquistata Rezia, che, da lei riamato, già ama, Huon sta per essere
sopraffatto dalle guardie di Harun quando interviene Oberon, chiamato da Scerasmino con un corno
magico. Huon dovrà affrontare altre peripezie; naufragato, curato dalle fate, di nuovo costretto a
strappare l’amata Rezia dall’harem di Almansor e a resistere agli allettamenti di Rosciana moglie di
quest’ultimo, che poi lo condanna a morte assieme a Rezia, che ha implorato pietà per il suo sposo. Ma
ecco di nuovo sopraggiungere Oberon, che mette tutti in salvo. Huon e Rezia hanno superato la prova,
Oberon e Titania possono riunirsi.

STRUMENTI INCANTATI, SONORITÀ SOVRANNATURALI


Vi è però un aspetto che conduce più direttamente a una continuità tra la Zauberoper del tardo
Settecento e l’opera tedesca posteriore. Questo elemento è rappresentato dall’evoluzione delle sonorità
orchestrali. Nella tradizione austro-tedesca della Zauberoper e del Singspiel, l’elemento magico si rivela
assai spesso attraverso specifiche e individuali sonorità strumentali; le melodie che tali sonorità
sostengono sono per lo più semplici, ingenue, disarmate. Nella Zauberflöte è il celebre motivo del flauto,
e ancora nell’Oberon di Weber è il suono del corno, un richiamo che si gonfia lentamente per poi rifluire a
poco poco. In modo più generale, si percepisce nell’orchestra settecentesca un tessuto sonoro strutturato
come un insieme di strati sovrapposti, in cui si distinguono le famiglie strumentali, e sui quali possono
svettare singoli strumenti, o piccoli gruppi. Ancora nella Zauberflöte, ad esempio, i corni di bassetto
arricchiscono il tessuto sonoro di particolari sfumature timbriche; con il loro timbro pallido e arcano
possono accostarsi a strumenti che da sempre si associano al solenne e all’ultraterreno.
Nel corso della prima metà dell’Ottocento si iniziarono a preferire sonorità globali, generate da impasti
timbrici, al fascino di colori strumentali individuali o isolati. Già nella Zauberflöte, troviamo alcuni
momenti premonitori, nei quali l’incanto di una situazione può essere generato da una sonorità
complessiva. Un momento emblematico è l’episodio della consegna del flauto magico, ovvero il primo
quintetto, nel primo atto dell’opera. Qui, dove lo si aspetterebbe come un elemento quasi scontato, non
compaiono sonorità isolate degli strumenti che saranno al centro dell’azione: niente flauto, né
campanelli, ma i vari episodi si snodano in una sorta di atmosfera sospesa, fino all’ultimo in cui, sopra
l’armonia dei violini pizzicati la sonorità misteriosa e quasi ieratica di strumenti ad ancia (prima clarinetti
e fagotti), a cui si uniscono anche i corni, introduce un lento cantico di meravigliosa e rituale solennità: è
un momento che fonda veramente il clima della futura opera tedesca, quell’irreale così estraneo per
contro al realismo dell’opera italiana. Ma il passaggio del senso del magico e del sovrannaturale dal rilievo
di singoli strumenti a gruppi strumentali e sonorità globali emerge con particolare evidenza in un’altra
opera capitale di Weber, il Freischütz. Si tratta ancora una volta di un Singspiel che, come l’opera
mozartiana, ingloba e mescola un’ampia gamma di stili: cori scanzonati e assoli lirici, canzoni d’osteria e
danze contadine, autentici Lieder e inserti di carattere religioso.
Già l’attacco dell’ouverture ricorda lo stile grave di Die Zauberflöte: una figura all’unisono più volte
ripetuta, che pare riallacciarsi alla tradizione retorica del terribile musicale da Gluck a Cherubini e al
Beethoven delle ouvertures per Leonore ed Egmont e al Fidelio. Ma, a differenza delle chiare
contrapposizioni della Zauberflöte, qui tutto si mescola e confonde: più dell’evidente contrasto tra la luce
e le tenebre prevale l’ombra, così come la virtù e il peccato paiono sovrapporsi, e il male non viene
definitivamente annientato. La figura di Samiel irrompe quasi subito, in una sonorità orchestrale composta
da clarinetti in registro grave, tremoli d’archi e colpi di timpani, che richiamano la sua evocazione nella
celebre scena della Gola del lupo. Questa scena è costituita da una sequenza di immagini sonore distinte
che scandiscono le fasi della forgiatura delle sette pallottole magiche da parte di Kaspar. Ad ognuna di
queste immagini corrisponde oltretutto, in partitura e nel libretto, una circostanziata didascalia di
descrizione d’ambiente. Kaspar è arrivato nel luogo designato, il punto più spettrale della Gola, e qui
propizia l’apparizione di Samiel, conficcando un pugnale in un teschio posto in un cerchio magico;
materializzatosi, Samiel gli accorda dell’altro tempo prima di esigere l’anima del suo interlocutore, e di
prendere al suo posto quella di Agathe. Giunge nel frattempo Max, sgomento, mentre Kaspar si dispone al
rito magico della forgiatura delle pallottole. È qui che inizia la sequenza di immagini: ad un tessuto
d’archi privo della sonorità avvolgente dei contrabbassi, e venato da rapidi guizzi di altri strumenti
corrisponde un’oscurità totale, propiziata da una nube giunta a coprire la luna, e accesa qui e là dal fuoco
della fornace, da occhi di civetta e dai bagliori su legno di un albero. «Ecco la prima!», grida Kaspar. Poi, i
guizzi si differenziano timbricamente in disegni in staccato di flauti, oboi e clarinetti. «La seconda!».
Seguono tremoli di violino e viola e il gorgogliare di archi gravi e fagotti sullo sfondo, ispessiti a tratti da
trombone basso e clarinetti nel loro registro profondo. «Ecco la terza!», prorompe ancora Kaspar. A
questo punto si scatena la tempesta, che ha i tratti tipici delle scene tempestose settecentesche:
figurazioni ascendenti e discendenti degli archi in sedicesimi sui quali si stendono lunghe note dei fiati.
«Quarta pallottola!». Gli archi passano poi all’acuto, e la loro parete di suono viene incisa da colpi
regolari di oboi, clarinetti e corni. «Quinta pallottola!». Prima della sesta, quattro corni in differenti
intonazioni; due fagotti e trombone basso si impegnano nella grossolana caricatura di una fanfara di
caccia sempre in fortissimo, cui si aggiunge un coro maschile all’unisono dietro la scena. Infine l’ultima, la
settima pallottola: l’intero cielo s’incupisce nella notte, la tempesta s’intensifica, l’intera orchestra
converge nel Presto in do minore già udito nell’ouverture, prima di spegnersi in un pianissimo.
In Wagner il potere magico come contrassegno sonoro di singoli strumenti si è ormai definitivamente
dissolto in timbri misti e sonorità compatte. Anche la natura del magico è resa più complessa
dall’intreccio con l’elemento sacrale, talvolta apertamente religioso, ed è divenuta più ambigua. Con
l’apparizione di Lohengrin, il magico e il sacrale si manifestano ancora una volta insieme: la navicella
tirata dal cigno tocca riva al centro della scena dal fondo; Lohengrin in lucente armatura d’argento,
l’elmo sul capo, lo scudo appeso alle spalle, un piccolo corno d’oro al fianco, vi sta dentro in piedi,
appoggiato alla sua spada. Il popolo, radunato sulle rive dello Schelda, dove è in corso l’interrogatorio di
Elsa, saluta il suo arrivo come Wunder, un miracolo: «Seht! Seht! Welch ein seltsam Wunder! Wie? Ein
Schwan? Ein Schwan zieht einen Nachen dort heran! Ein Ritter drin hoch aufgerichtet steht!» («Guardate
quale singolare miracolo! Cosa? Un cigno? Un cigno tira laggiù verso di noi una navicella! E vi è dentro un
cavaliere ritto in piedi! Come brilla la sua armatura!»). E appena più avanti: «Ein Wunder! Ein Wunder! Ein
unerhörtes, nie gesehnes Wunder!» («Un miracolo è avvenuto, un miracolo inaudito, non mai visto!»). È
subito chiaro a Telramund e Ortrud che la comparsa di questa presenza avvolta di magia costituisce una
minaccia per i loro disegni; e allora la loro mossa è fare apparire questa magia come oscurità. Già
Telramund insinua il sospetto: «Welch Zaubern dich auch hergeführt, Fremdling» («Quale sia l’incanto,
che qui t’ha portato»), tentando di attribuire all’origine misteriosa dell’inviato un alone sinistro.
L’impresa di tramutare l’onore cavalleresco in un pericoloso incantamento è tentata ancora da Ortrud nel
secondo atto: «ist er gezwungen, zu nennen, wie sein Nam und Art all seine Macht zu ende ist, die mühvoll
ihm ein Zauber leiht» («costretto a palesare nome e stirpe, finirà ogni sua potenza, che un incantesimo a
fatica gli procura») e ancora, più avanti: «klag ihn des Zaubers an, mit dem er das Gericht getäuscht!»
(«accusalo di quella magia, con la quale ha falsato il giudizio!»).
Ma a noi che guardiamo e ascoltiamo, le ombre sull’origine di Lohengrin si sono dissolte fin dall’inizio; la
purezza della sua natura magica ci viene trasmessa dalla nobile semplicità del saluto al cigno («Nun sei
bedankt, mein lieber Schwan!»): un canto nudo, appena solcato dal bicordo in pianissimo dei violini primi
divisi; e poi, su «Leb’wohl! Leb’wohl, mein lieber Schwan!», il delicatissimo impasto di una cellula
ripetuta da oboe, clarinetto e corno inglese. Queste le ultime propaggini dello Zauber. La prosa musicale
della Literatur Oper ne dissolverà gli ultimi pulviscoli, già in Richard Strauss; poi, il Wozzeck di Alban Berg
allungherà sull’intera Europa le ombre del più spaventoso regno della notte.

NOTA BIBLIOGRAFICA
Come testi di carattere generale ho consultato: Intorno al «Flauto magico», catalogo della mostra, Milano, Palazzo della
Permanente, 24 aprile - 21 luglio 1985; NICHOLAS TILL, Mozart and the Enlightment. Truth, Virtue and Beauty in Mozart’s Operas,
London-Boston, Faber and Faber, 1992; STEFAN KUNZE, Mozarts Opern, Stuttgart, Reclam, [1984]; traduzione italiana di Leonardo
Cavari: Il teatro di Mozart, Venezia, Marsilio, 20062, particolarmente le pp. 680-797; MASSIMO MILA, Lettura del «Flauto magico»,
Torino, Einaudi. Il libro di DAVID J. BUCH, Magic Flutes in Eighteenth-Century Musical Theatre, Chicago-London, The University of
Chicago Press, 2008, è essenziale per una comprensione dei lenti processi che conducono alla formazione della Zauberoper e alla
composizione del Flauto magico; Buch ha dedicato all’argomento anche una serie di saggi preparatori: Mozart and the Theater auf
der Wieden: New Attributions and Perspectives, «Cambridge Opera Journal», IX/3, 1997, pp. 195-232; «Der Stein der Weisen»,
Mozart and the Collaborative Singspiels at Emanuel Schikaneder’s Theater auf der Wieden, «Mozart Jahrbuch», 2000, pp. 89-124;
«Die Zauberflöte», Masonic Opera, and Other Fairy Tales, «Acta Musicologica», 76, 2004, pp. 193-219; e con MANUELA JAHRMÄRKER,
Schikaneders heroischkomische Oper «Der Stein der Weisen»: Modell für Mozarts «Zauberflöte»; Kritische Ausgabe Textbuchs,
Gottingen, Hainholz, 2002. A Buch, inoltre, si deve il ritrovamento della partitura di Der Stein der Weisen. Sull’argomento si veda
anche MARIO BORTOLOTTO, Nell’isola magica di Mozart. Un inedito del musicista, «Repubblica», 23 febbraio 2000. Una sinossi di Lulu,
fonte del Flauto magico si trova in C ESARE CASES, Tra barocco e Illuminismo: Schikaneder e Perinet, in Intorno al «Flauto magico» cit.,
pp. 33-36. Sulle trasformazioni d’epoca romantica mi sono servito principalmente di ELISABETTA FAVA, Ondine, vampiri e cavalieri.
L’opera romantica tedesca, Torino, EdT, 2006; e i saggi contenuti in Der Freischütz, «La Fenice prima dell’opera», 2004/5: «Der
Freischütz», libretto e guida all’opera, a cura di Davide Daolmi, pp. 11-80; MICHELA GARDA, Di selve, cacciatori, angeli e demoni.
Romanticismo del «Freischütz», pp. 93-102; JÜRGEN MAEHDER, Poesia del suono e natura demoniaca. Sulla drammaturgia dei timbri
nel «Freischütz» di Carl Maria von Weber, pp. 103-130. Sulla natura del magico in Lohengrin, MARIO BORTOLOTTO, Barrage du cygne, in
ID., Consacrazione della casa, Milano, Adelphi, 1982, pp. 11-43, particolarmente p. 20.

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