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In questa tesina introduco come il mondo pastorale ed idillico dell’Arcadia

di Jacopo Sannazaro, pian piano ritorni ad una realtà concreta, poiché la


precedente realtà illusoria e astratta. Con l’evoluzione storica del mondo
del teatro e di tutte le sue componenti, si sente il bisogno di erigere delle
regole per contestualizzare una visione reale del proprio vissuto da poeta,
dando vita al mondo dell’Opera.

Jacopo Sannazaro, poeta, nato a Napoli nel 1456.

Nel 1483 Jacopo Sannazaro cominciò a scrivere il primo nucleo di Ecloghe


(componimento della poesia bucolica, di forma dialogica, con significato
allegorico e celebrazione della vita agreste) che daranno vita all’Arcadia.

Tale componimento prende il nome dalla regione montuosa greca abitata


dal Dio Pan, una terra idillica in cui l’uomo trovava nella natura tutto ciò
di cui aveva bisogno per vivere (realtà agreste), potendosi dilettare cosi
con la poesia e l’arte. Jacopo per scrivere l’Arcadia si ispirò a due modelli
classici, in particolare: Virglio (bucolica latina) e Teocrito (bucolica greca).

L’Arcadia narra le vicende di Sincero, un pastore sotto le cui vesti si


nasconde il poeta, che a causa di una delusione amorosa e politica si
allontana dalla città (Napoli, in questo caso) per vivere in un'Arcadia
idealizzata tra i pastori-poeti, come negli Idilli del poeta greco Teocrito.
Ma un sogno spaventoso (allegoria della caduta di Napoli sotto Carlo VIII
nel 1494 col conseguente crollo della 'politica dell'equilibrio' sostenuta
per quarant'anni da Napoli stessa, Venezia, Milano, lo Stato della Chiesa e
la Firenze di Lorenzo il Magnifico, morto due anni prima) lo induce a
tornare a Napoli. Attraversando grotte e antri, giunge in città dove viene a
conoscenza della morte della donna amata.

Sannazaro crea un mondo arcadico del tutto personale (ci ritroviamo


nell’ambito umanistico dove vige la visione cristiana dell’amore e la
centralità della figura umana), con cadenze solo in apparenza simili al
modello antico. Sannazaro nel suo componimento ricorre al prosimetro
(prosa e versi vengono alternati in modo equilibrato), tale forma fu già
inaugurata nel medioevo da Dante nella “Vita nuova” e ripresa nel
Boccaccio nel poema allegorico-moralistico di ambientazione pastorale
“Ameto”.

Nella poesia bucolica classica l’amore è follia, forza panica irresistibile da


cui si è vinti (Ec.10, Virgilio).

Nell’Arcadia del Sannazaro vi è una visione cristiana dell’amore, che si


presenta come forza alienante, come straniamento da sé e dai ritmi
consueti di vita, ma soprattutto è melanconia, rimpianto per un bene
perduto.

È un amore negato poiché vi è la mancanza dell’amata, manifestazione di


vita rapita e di gioia perduta. Un topos che ritroviamo nell’Arcadia di
Sannazaro è: il tema dell’amore che si intreccia con quello della morte.

Talché il pianto per il bene perduto può avere i contorni del pianto per la
morte di Masella, madre di Jacopo (esplicitamente citata nel
componimento).

Nell’Arcadia sannazariana vi è una realtà ambivalente, da una parte fuga


dalla realtà nei paradisi bucolici, in cui la natura è neoplatonicamente
presente e partecipe dei casi e dei sentimenti dei pastori; dall’altra, nella
seconda parte dell’opera, è volontà di riscatto da quei confini, idea di
superamento, verso una realtà altra, più intima e cupamente malinconica;
è una dimensione di una serenità per sempre perduta, ed è desiderio di
annientamento totale come fine ultimo dell’esperienza letteraria e di vita
(atmosfera quasi preromantica).

Dopo la caduta di Napoli (Ferdinando d’Aragona) per mano degli Angioini


(Carlo VIII) 1494, quella finzione bucolica nella quale il poeta si rifugiava
ovvero l’Arcadia, veniva ormai sentita come condanna, tedio e fallimento;
la “deliciosa patria” non è più il paese degli arcadi, ma Napoli.
L’opera sannazariana comincia a navigare entro i vasti confini della
cultura iberica e ibero-americana e nel 1547 esce la traduzione spagnola
dell’Arcadia del Sannazaro, fino all’approdo con l’omonima Arcadia di
Lope de Vega (1598).

Nell’Arcadia di Lope de Vega vi è un dato nuovo rispetto a quella di


Sannazaro: la fuga, il movimento, la fuga, un’ansia esistenziale che si
esprime attraverso i segni di un’inquietudine e di un’accelerazione mai
placati. In Lope il tema iniziale è proprio quello della fuga da una realtà
penosa, il poeta si riflette nel dramma del protagonista (Belardo), ma si
risolve nell’intreccio e negli inganni e non nella meditazione su questi.
Ogni pastore porta il peso delle sue vicende personali che sono travestite
in un codice pastorale fittizio. Il paesaggio mentale dei pastori-cortigiani è
connotato in sottili disquisizioni d’amore, mode, vestiti e sentimenti
(poco poetici). Tutto ciò è opposto all’Arcadia di Sannazaro che invece si
rifà ad un paesaggio ideale, dai contorni sfumati, in cui il profilo di Napoli
rimane sullo sfondo come una patria perduta e lontana. Il codice
linguistico sconfina negli ampi domi della poesia.

L’Arcadia di Lope è il luogo delle passioni non sublimate, di scontri e


gelosie violentemente vissute. Inoltre Lope storicizza inserendo
personaggi del mondo reale anche del passato ( Romolo, i capitani di
Spagna, la regina Isabella…) con un intento encomiastico. Nell’opera di
Lope la donna assume un ruolo fondamentale e del tutto diverso da
quello sannazariano; la figura femminile è coprotagonista, che non dà
occasione di poesia, canto e vagheggiamento, è invece presente,
puntigliosa, umorale. L’Animo della donna per Lope è capriccioso,
traditore e di poco affidamento; non vi è un’idealizzazione dell’amore.

L’amore non è la chiave interpretativa ed emblematica del mondo, come


per Jacopo Sannazaro, ma vicenda personale con dati ed un intreccio ben
preciso.
L’Arcadia lopiana inizia con la peregrinazione al tempio del disinganno,
cammino virtuoso che allontana l’uomo dalla tentazione dei piaceri. Il
“Disinganno” è liberazione, è dichiarare che l’amore è stato una schiavitù,
l’amore in quanto forza malefica; infatti tale componimento si conclude
con il ringraziamento per essersi liberato dall’amore.

La differenza abissale tra i due componimenti viene confermata


ulteriormente nel commiato “A la Sampogna” che, ad imitazione di
Sannazaro, conclude anche l’Arcadia di Lope con il congedo di Belardo “A
la Zampona”; in quest’ultimo è solo una cornice esteriore il cui contenuto
è modesto e limitato, la cui conclusione fa riferimenti del tutto personali;
mentre in Sannazaro si cela un significato del tutto negativo con la morte
dei valori umani e poetici.

Nell’Arcadia di Sannazaro vige una visione pessimista e malinconica,


profonda disperazione nei confronti del presente.

Nell’Arcadia di Lope invece il mondo è rappresentato in un intreccio


d’azioni, in continuo dialogo tra la vita, il sogno e la morte.

Nel periodo poco successivo, in Italia comincia a nascere l’opera ed i


vari meccanismi impresariali che ne conseguirono; ciò permise di
organizzare delle vere e proprie opere (l’opera seria) già a partire dal
600/700. Nella parte centro-settentrionale dell’Italia del Settecento vi
erano diverse città che offrivano una piccola stagione operistica, ma
anche nella parte meridionale ritroviamo delle rappresentazioni
operistiche, specialmente a Palermo e Napoli.

Fin dal Seicento, nelle città in cui esisteva una stagione d’opera, il recarsi
a teatro divenne una consuetudine imprescindibile; molte famiglie
nobiliari affittavano i palchetti del teatro dove ogni sera vi si recavano in
compagnia di amici e conoscenti. L’opera diventava così la più importante
occasione di divertimento e di relazioni sociali per le classi dominanti;
inoltre per molti spettatori era l’unica possibilità di venire a contatto con i
grandi temi mitologici o storici, con la musica d’arte e con la cultura
stessa.

I teatri italiani erano molto rumorosi infatti proprio per questo destavano
l’ interesse di molti turisti. Dato che gli spettatori dell’opera erano anche i
finanziatori di quest’ultima, si sentivano in pieno diritto di dimostrare il
loro gradimento o dissenso; nel caso in cui l’opera non fosse di
gradimento agli spettatori, gli impresari dovevano allestire uno spettacolo
sostitutivo.

Lo spettatore inoltre richiedeva una trama della vicenda che non si


identificasse con la “propria” vita quotidiana, piuttosto preferiva che
l’intreccio della vicenda fosse presentato in modo sempre nuovo
entrando anche nel mondo dell’arte e della fantasia. L’esecuzione
dell’opera doveva variare di sera in sera per ravvivare l’interesse di chi
assisteva alle repliche dello spettacolo; proprio da qui inizierà la fortuna
dell’aria col “ da capo” poiché in essa era prevista la ripetizione della
prima parte estemporaneamente e virtuosisticamente abbellita dal
cantante in modo sempre diverso. Il libretto era rigorosamente in poesia
e si concludeva con un lieto fine includendo anche le scene drammatiche
di ogni personaggio; per quanto riguarda l’aspetto vocale era regnato da
recitativo e virtuosismo delle arie, questo alternarsi di recitativi ed arie
faceva si creasse uno scorrimento del tempo irregolare. Nei recitativi gli
avvenimenti accadono in una durata di tempo analoga a quella della vita
reale (la tensione accumulata nel recitativo trova sfogo emotivo sull’aria;
recitativo= parte esterna e visibile dell’azione); mentre nelle arie il tempo
può rallentare (le arie rappresentano il lato intimo ed in ombra del
personaggio).

La voce del protagonista maschile doveva prevalere sulle altre e la prima


donna poteva essere o un soprano o un contralto ( a Roma volte i ruoli
femminili venivano ricoperti da contralti vestiti da donna).
Mentre nel seicento si accentuò il gusto per le vicende complicate e
ricche di personaggi e intrecci paralleli; nel settecento iniziò a farsi strada
il desiderio di maggiore coerenza drammaturgica, nella trama veniva
evidenziata maggiormente il rapporto tra il singolo (sentimento amoroso)
e la politica (ragioni di stato).

Questo cambio di rotta avvenne poiché molti critici letterari avrebbero


preferito che l’opera si orientasse verso criteri più naturalistici, ed inoltre
non condividevano il fatto che il libretto d’opera fosse scritto in poesia e
non in prosa (considerato l’unico stile letterario degno di una perfezione
artistica). I librettisti erano coloro che determinavano la struttura
dell’opera ovvero la divisione tra parti da musicare in recitativo e pezzi
chiusi. Il mondo Seicentesco era dominato dalla città di Venezia, fulcro
della produzione e fruizione operistica, ma a partire dalla fine del
Seicento il baricentro iniziò a spostarsi su Napoli dove, dietro l’impulso
del viceré spagnolo, giunse la troupe dei Febi armonici, allestendovi cosi
numerose opere. Una delle cause che provocò il primato napoletano
sull’opera del Settecento fu l’ottimo sistema di istruzione musicale
praticato nei conservatori. Dal 1710 i compositori napoletani iniziarono
ad emigrare altrove, il comporre opere stava diventando una libera
professione, i cui guadagni permettevano al musicista di fare a meno di
un impiego stabile come direttore musicale di qualche cappella. L’Opera
italiana si spostò da Londra a Stoccarda, a Dresda, a Vienna fino a
Pietroburgo, inoltre non trovò rivali tranne che in Francia.

Infatti nel momento in cui venne a formarsi la prima riforma italiana del
libretto gli operisti francesi mostrarono tutta la loro ostilità. Gli argomenti
degli operisti francesi erano indirizzati contro gli eccessi spettacolari
dell’opera italiana che si era allontanata dagli ideali greci della Camerata
Fiorentina; mentre il melodramma francese era in grado di elaborare le
tragedie classiche francesi mantenendo una forma più aderente all’ideale
drammaturgico.
La prima riforma italiana del libretto nasce a Vienna, presso la corte
Asburgica, come risposta ad un’esigenza di coerenza, concisione ed
aderenza al testo letterario portata avanti dal melodramma francese,
esemplato nelle opere dei grandi drammaturghi Corneille e Racine.

Una delle prime esigenze che si affermò fu quella del ritorno alle unità
aristoteliche di tempo, luogo e azione (Poetica di Aristotele); anche se
tale unità erano regole desunte dagli intellettuali del ‘500. L’uso di queste
unità aristoteliche ebbe successo tra teorici e drammaturghi italiani del
‘500 e nonché francesi del ‘600 che applicarono queste regole alle loro
composizioni, come Corneille e Racine che adottorano queste regole
senza rendere stucchevole il contenuto drammatico delle loro opere.

Lo spirito della riforma fu influenzato potentemente dalla creazione a


Roma, nel 1692 dell’ Accademia Arcade, luogo di incontro per artisti e
intellettuali costituito da 14 persone fra cui: Giovan Mario Crescembini (
custode generale) Silvio Stampiglia, (uno dei librettisti della riforma) e
Gian Vincenzo Gravina ( facoltoso avvocato e intellettuale che adottò
Pietro Metastasio). Prima dell’Accademia Arcade vi fu l’Accademia Reale
(dove si intrattenevano interessanti riunioni settimanali con i maggiori
intellettuali e artisti dell’epoca, come Bernini, Scarlatti e Corelli e si
conversava di arte, musica e scienze). Entrambe le accademie erano state
fondate in nome di Cristina di Svezia, di cui la prima (Accademia reale) fu
istituita da lei stessa a Palazzo Riario a Roma e la seconda invece (
Accademia Arcade) fu edificata dai “suoi artisti” per commemorare la sua
morte. Cristina di Svezia era una Sovrana controversa, politica intrigante,
amante libertina e coltissima intellettuale.

Intrecciò pericolose relazioni eterosessuali e omosessuali che


scandalizzarono i sudditi, ma nello stesso tempo fu un’osservante
cattolica: una delle prime luterane ad abiurare la fede protestante per
convertirsi al cattolicesimo.
L’uso di pseudonimi pastorali e tutti gli altri elementi rituali che
caratterizzano la vita associativa dell’Accademia, ispirati all’Arcadia di
Jacopo Sannazaro e ad altri classici della letteratura bucolica, furono
codificati nelle dodici leggi composte da Gian Vincenzo Gravina nel 1696.
Nata per contrastare gli aspetti più stravaganti, turgidi e ampollosi della
letteratura barocca, attraverso un ritorno al classicismo e al buon gusto
dei tempi di Augusto e di Leone X, ebbe da subito grande vitalità e costituì
la prima vera forma di organizzazione nazionale della cultura italiana. Il
riporta in vita i costumi pastorali di un mondo idealizzato fu ampiamente
condiviso dal ceto aristocratico, ciò fece si che in varie parti d’Europa, si
svilupparono altre sezioni di questa Accademia. I canoni dell’Accademia
erano: semplicità, teneri propositi e passioni delicate. Ne deriva che la
riforma del libretto, nata all’interno di un circolo elitario ed aristocratico,
si poneva come contraltare dell’opera francese sviluppatasi dal teatro
tragico francese, a sua volta controllato da un circolo elitario.

L’ Accademia Arcade, nonostante preferisse l’opera seria contribuì a


divulgare in Italia l’opera pastorale e borghese, portata avanti dagli
Enciclopedisti francesi, aristocratici intellettuali aperti alle frange più
avanzate della borghesia.

Carlo Goldoni, padre del libretto borghese e cultore della pastorale


settecentesca, fu un membro dell’accademia; Goldoni non considerò mai
l’accademia come luogo deputato dove esprimere le sue idee e infatti
scrisse sia opere serie che libretti borghesi, questo ultimi determinati per
la fama di innovatore con cui è passato alla storia. Il successo nel ‘700
dell’opera borghese, al di fuori della fiera parigina e dei teatri di Venezia e
Napoli, indeboliva lo spirito di riforma del libretto stesso come anche la
crescita della borghesia minava il terreno dell’aristocrazia. I successi del
teatro classico francese ed i suoi ideali di nobiltà avevano influenzato
molto i fondatori dell’Accademia Arcade i quali avevano cercato di
esprimere nella riforma queste concezioni:
1. Nessuna contaminazione di classi ( unica eccezione il confidente, di
solito un servo privato).
2. Niente miracoli.
3. Nessuna contaminazione tra commedia e tragedia.
4. Le tematiche e le passioni dovevano essere espresse con chiarezza
di sentimenti.
5. Lieto fine.

Regole dell’Opera Seria:

1. Personaggi in numero di 6 massimo 8, uniti da vincoli amorosi;


2. Azione principale accompagnata da azione secondaria amorosa;
3. Atti da 3 massimo 5 con climax finale nella scena trionfale;
4. Aria di sortita alla fine di ogni scena, breve pezzo lirico in rima A-B-A.

Queste regole fondamentali vennero messe appunto da Apostolo Zeno


che occupò la carica di Poeta cesareo dal 1718 al 1729( anno in cui
subentrò Metastasio).

Principalmente critico e storico, si occupò di scrivere libretti per purificare


lo stile secondo gli ideali arcadi e per dar vita ad una concorrenza italiana
nei confronti della supremazia artistica francese.

I versi dei libretti di Zeno sono efficaci drammaturgicamente ma meno


pregevoli dal punto di vista musicale. La forma dell’opera seria,
inaugurata da Zeno, troverà la definitiva codifica nell’opera di Metastasio.

In questa riforma non erano presenti molte parti concertate e d’insieme e


vi era la fissità dello scenario come nelle tragedie greche che di
conseguenza non subiva mai cambiamenti rispetto all’azione presentata.

Le opere di Zeno oscillano nel numero degli atti mentre quelle del
Metastasio saranno sempre in 3 atti. Inoltre Zeno e i suoi contemporanei
non abolirono i personaggi buddi o arie di sortita e di mezzo, ma ne
usarono in proporzioni minori. Molti dei libretti di Zeno sono destinati ad
un pubblico di “spiriti eletti”. Le fonti da cui attinge Zeno comprendono:
fonti classiche greche e drammatiche francesi contemporanee.

Pietro Trapassi, in arte Metastasio, adottato dal brillante avvocato Gian


Vincenzo Gravina e istruito alle virtù arcadiche, si ritrovò a 20 anni orfano
con l’eredità economica del suo benefattore. Metastasio si collocò come
apprendista a Napoli in uno studio di avvocato; ma la passione per il
teatro prese il sopravvento: divenuto l’amante di una celbre cantante
lirica detta la Romanina, scrisse per lei il primo libretto di un certo
interesse Didone abbandonata (1724). La trama standard dei suoi drammi
consiste generalmente in due coppie di amanti ( a cui si aggiungono pochi
altri comprimari tra i 6/7 personaggi) a cui le circostanze esteriori, spesso
per cause politiche, impediscono la desiderata unione. Solo al termine
della vicenda tutto si ricompone nel migliore dei modi, quasi sempre
grazie alla magnanimità del sovrano di turno e al riconoscimento
d’identità di uno o più personaggi.

Tra l’altro Metastasio nei suoi componimenti fa ampio uso della figura
retorica il cui nome è: l’ossimoro ( può essere composto accostando nella
stessa espressione termini antitetici dal punto di vista concettuale)
nell’espressione del canto lirico nonché nella composizione della musica è
una figura fondamentale che serve a muovere in modo razionale gli
affetti: dolce martir, i dolci sospir, i felici pianti, il diletto sospirar.

Nel 1729 Metastasio ritorna a Roma e fu inviato a prendere il posto di


Zeno come poeta cesareo Vienna ove rimase fino alla morte.

Scrisse opere serie, oratori, azioni sacre e qualsiasi genere gli venisse
commissionato dalla famiglia reale degli Asburgo.

L’Opera Seria è sinonimo di Metastasio: i più grandi musicisti del 700 ed


anche alcuni dell’800 fecero a gara per musicare i suoi libretti; oltre ad
essere un poeta eccellente era anche un conoscitore della scenotecnica.
Le scene comiche, bandite dall’opera seria, entrarono con Metastasio a
costituire la linfa di quegli intermezzi settecenteschi (scene buffe che si
inserivano tra un atto e l’altro) che sarebbero diventati il trampolino di
lancio successivamente per la scuola napoletana verso l’Europa.

Lo stesso Metastasio scrisse degli intermezzi tra cui due composti per la
“Didone abbandonata” in occasione della rappresentazione dell’opera a
Napoli. I due intermezzi sono conosciuti sotto il titolo de “ L’impresario
delle canarie”, questi erano una sottile parodia dell’opera seria.

Con questo elaborato ho cercato di illustrare il percorso dell’Opera, in


particolare dall’opera pastorale di J.Sannazaro, l’Arcadia, all’Opera Seria
dove il maggiore esponente è Metastasio.

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