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BIBLIOTECA DI CULTURA

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MARIANO d’AMORA

SE CANTAR MI FAI D’AMORE…


La drammaturgia di Annibale Ruccello

BULZONI EDITORE
in copertina:
Manifesto creato da Nicola D’Ammora
per lo spettacolo Scannasurece di e con E. Moscato, regia di A. Ruccello

TUTTI I DIRITTI RISERVATI


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compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
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della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-617-0

© 2011 by Bulzoni Editore S.r.l.


00185 Roma, via dei Liburni, 14
http://www.bulzoni.it
e-mail: bulzoni@bulzoni.it
Questo volume è il risultato di un lungo cammino di conoscenza, un
omaggio alla forza innovatrice della drammaturgia di Annibale Ruccello,
al suo desiderio di spaziare fra generi e tematiche alla costante ricerca del
“brutto della vita”. Attraverso l’analisi dei testi, ho inteso mettere in
evidenza la peculiarità di una scrittura che in breve tempo, seppur nel-
la costante presenza di citazioni e riferimenti di amplissima prove-
nienza, acquista una propria innovativa identità. Ho immaginato più
volte Annibale, durante i suoi spostamenti fra Castellammare, Napoli
e Roma, munito di taccuino, rubare espressioni e figure alla vita di
tutti i giorni, registrando la loro mutazione in maschere teatrali tanto
complesse quanto vere.
Colgo l’occasione per ricordare due mie preziose fonti d’informa-
zioni: Carlo De Nonno, memoria storica e compartecipe dei successi di
Annibale in teatro, e Lello Guida, coautore nella stesura dei primi adat-
tamenti. Ringrazio, inoltre Enrico Maria La Manna e Michele Del
Grosso per l’amicizia dimostrata. Nicola D’Ammora per avermi per-
messo di inserire in questo volume le locandine che lui creò in occasio-
ne dei primi allestimenti ruccelliani e di altre produzione della coopera-
tiva «Il Carro» resta Giuseppe Del Rossi. Non dimentico, infine, Anto-
nia Lezza autrice dell’introduzione.
a Valeria,
sempre e per sempre...
Indice

Introduzione, Il nostro Ruccello di Antonio Lezza .................... p. 13


La scena teatrale negli anni ’70 .................................................. » 17
Annibale Ruccello (1956-1986). Tradizione e futuro ................ » 29
Un primo esperimento: Il rione .................................................. » 47
Crogiuolo di una drammaturgia in divenire: La cantata dei pa-
stori ............................................................................................... » 55
Scrivendo con Lello Guida: L’osteria del melograno, L’asino
d’oro, L’ereditiera ...................................................................... » 63
Lavorando su commissione: I gingilli indiscreti, La ciociara,
La fiaccola sotto il moggio .......................................................... » 83
Una nuova direzione: Le cinque rose di Jennifer ...................... » 101
Provincia di sangue: Notturno di donna con ospiti .................... » 119
Interno borghese: Week-end ....................................................... » 133
Sesso e morte: Ferdinando ......................................................... » 143
Divertissement sul presente: Mamma. Piccole tragedie mini-
mali .............................................................................................. » 157
Un allestimento postumo: Anna Cappelli .................................. » 165

Bibliografia .................................................................................. » 171

11
Il nostro Ruccello

Autore originale e fecondo, Annibale Ruccello è uno dei dramma-


turghi più importanti del secondo Novecento europeo, cui appartiene
per la forza del linguaggio e la particolare fattura dei suoi testi. La sua
vita, seppur così breve, non gli impedì di scrivere tanto e così bene da
porlo in una posizione interessante sia rispetto alla tradizione, che alle
nuove istanze drammaturgiche che negli anni Settanta, sono assai vive
proprio a Napoli, da sempre considerata il centro del teatro tradizionale
e dialettale. Ma a Napoli, proprio in questi anni si guarda con attenzio-
ne e forte curiosità all’Avanguardia teatrale europea e si attua, tra non
poche difficoltà, un progetto di ampliamento culturale che include au-
tori, registi, attori e, soprattutto, spazi teatrali dove spesso “si prova”,
ma principalmente si discute, si lavora, si lotta contro lo strapotere di
una classe politica che è troppo ancorata ai propri privilegi e che tenta
di rallentare ogni progetto di rinnovamento culturale.
In questo clima culturale, così stimolante ma, sotto certi aspetti, an-
che ambiguo, si muove il giovane Annibale Ruccello, che, forte di una
solida formazione culturale, di matrice filosofico-antropologica, inco-
mincia a costruire i suoi personaggi, recuperando temi eterogenei (fiabe-
schi, mitici, sociali, psicologici) in una fusione, o forse mescidanza, di
elementi diversi tra di loro, ma che alla fine si amalgamano e trovano
nella sua scrittura un’armonia quasi classica.
Proprio da questi presupposti, parte il volume di Mariano d’Amora,
che ricostruisce la storia del teatro di Annibale Ruccello, la sua vicenda
autorale, passando attraverso un percorso, lineare e ben documentato,

13
Se cantar mi fai d’amore...

che, partendo dal contesto storico, ricostruisce le fasi significative della


sua produzione drammaturgica dalle opere d’esordio (Il Rione), cui se-
gue uno dei testi-simbolo della tradizione napoletana (La Cantata dei
Pastori). Per il primo testo, d’Amora, pur indicando una serie di riferi-
menti forti (i luoghi, la povertà, la famiglia) a Viviani in special modo e
ad Eduardo, ritiene che non ci sia alcuna “subalternità” di Ruccello ai
modelli precedenti, seppure fortissimi e ineludibili nella sua formazio-
ne, come dimostra il tema dell’alienante solitudine o dell’omosessualità
che ricorreranno sempre nella sua drammaturgia successiva.
Allo stesso modo ne La Cantata dei Pastori, Ruccello parte da un
testo “classico”, ma lo ri-forma secondo il suo gusto per la favola anti-
ca, per il mito popolare, per la cultura arcaica meridionale di cui rimane
una testimonianza importante nel saggio Il sole e la maschera: una let-
tura antropologica della Cantata dei Pastori (Napoli, Guida, 1978).
Seguono i testi, scritti in collaborazione con Lello Guida, L’oste-
ria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera, i primi due di chiara
matrice campana, quella letteraria (Lo Cunto de li cunti, in special
modo) e quella popolare (canti, filastrocche, racconti); poi l’Eredi-
tiera, che solo apparentemente si allontana dal suo modo di fare tea-
tro, perché anche attraverso un remake come l’Ereditiera, che raccon-
ta con toni mordaci e sarcastici una storia sentimentale, fatta di tradi-
menti e inganni, Ruccello fa una riscrittura in cui l’originale, il testo
di riferimento, appare completamente reinventato, riplasmato. Qui si
avverte, certamente, la forte influenza della cultura americana, di ge-
nesi hollywodiana, ma attraverso l’uso della parodia; si coglie in
special modo il legame con la tradizione teatrale napoletana, da Pul-
cinella alla Sceneggiata, ma anche, e questo non va sottovalutato, con
la cultura teatrale contemporanea, oltre Moscato e Santanelli, Neiwil-
ler, Pistilli e non ultimo Patroni Griffi.
La collaborazione con Lello Guida, come quella con Carlo de Non-
no e, poi, con Franco Autiero e con Enzo Moscato conferma quell’in-
tenso spirito di collaborazione che si tramutava in un percorso comu-
ne fatto di incontri, di passeggiate sul lungomare della natia Castel-
lammare, di lunghe discussioni. Forse in questo clima di affetti è na-
to, in un certo senso, il “mito” di Annibale, il segno forte della sua
personalità artistica e umana, che si è accresciuto negli anni, attraver-

14
Il nostro Ruccello

so la conoscenza del suo teatro e il suo apprezzamento anche fuori i


confini regionali e nazionali.
In questa prima fase si muovono tre importanti testi: I gingilli in-
discreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio, il primo tratto da
Diderot e scritto su invito del regista televisivo Della Haye, il secon-
do su invito di Caterina Costantini e Adolfo Reggiani, dal romanzo di
Moravia, La ciociara, e l’ultimo tratto dall’opera di D’Annunzio. Tre
testi che strutturalmente si ricollegano alle opere successive cui
d’Amora nel volume dedica uno spazio adeguato e un’analisi appro-
fondita (Le cinque rose di Jennifer, Notturno di donna con ospiti,
Week End, Ferdinando, Mamma - Piccole tragedie minimali; Anna
Cappelli) e in cui evidenzia, soprattutto, i modelli del teatro di Ruc-
cello: la fiaba, il cinema, il fotoromanzo, la televisione e la radio. Si
pensi alla voce della radio ne Le cinque rose di Jennifer o alla televi-
sione in Notturno di donna con ospiti e alla musica che ha un ruolo
ineludibile nella drammaturgia ruccelliana. Determinante l’elemento
della musica, costante nel suo teatro, che non è commento al testo, né
“testo” come nel teatro e nella poesia di Viviani, ma connota i perso-
naggi, li fa vivere sulla scena, attraverso anche la manipolazione degli
elementi musicali, più vari, in una partitura ibrida, capace di contene-
re le più disparate citazioni, quindi non più elementi di coesione, ma
piuttosto segno di disgregazione profonda. Avviene così che il lin-
guaggio, che Ruccello definisce afasico, spento, insignificante, de-
gradato […] si sviluppa su di una forte multivocalità, soprattutto nei
suoi monologhi, e la lingua si sostanzia di un napoletano “irto”, ricco
di formule popolari e termini arcaici, caratterizzato da una durezza
consonantica che lo avvicina più a quello di Viviani (d’Amora p. 39),
ma dove specialmente il vernacolo antico diventa un manifesto della
propria identità, delle proprie radici (come nella filastrocca recitata da
Adriana in Notturno di donna con ospiti) e diventa anche un mezzo
per difendersi dall’emarginazione e dalla subalternità. Perché certo
l’originalità del teatro di Ruccello è da collegarsi proprio ad alcuni
temi come l’emarginazione femminile, ma soprattutto la maternità
(Mamma - Piccole tragedie minimali), sofferta e negata. Queste don-
ne sentono il desiderio di essere protagoniste del proprio destino e il
costo da pagare per raggiungere questo obiettivo salvifico è la morte.

15
Se cantar mi fai d’amore...

Le donne di Ruccello – scrive d’Amora – ristabiliscono una personale


forma di equilibrio attraverso il delitto, assunto a unico, possibile
mezzo per erompere e travolgere la banalità del quotidiano (D’Amora
p. 169).
Ancor più il travestito, naturale epigono della Maricallàs di Perso-
ne naturali e strafottenti di Patroni Griffi (d’Amora p. 106), la cui con-
dizione esistenziale indefinita e struggente è metafora di una condizio-
ne esistenziale “sospesa” da cui non è possibile fuggire.
Tutti questi elementi e tanti altri che possiamo cogliere nel volume
sono perseguiti da Ruccello fin dagli esordi con un’attenzione scrupo-
losa e indiscutibile verso la lingua scritta, che è apprezzabile non solo
per l’originalità di stile e per la forza espressiva, ma soprattutto per il
valore assunto in quegli anni in cui si determina il dominio a teatro
dell’aspetto performativo. La lingua scritta, di conseguenza, subiva ne-
cessariamente una fase di regressione.
Pertanto, Ruccello, con il suo costante lavoro di scrittore di teatro,
ha restituito al testo scritto una sua funzione inoppugnabile, inoltre ha
svolto, nello stesso tempo, un importante ruolo di regista, attore, sce-
nografo, impresario, che egli stesso volle spiegare in alcuni illuminanti
contributi critici e nelle interviste.
In genere al pieno compiacimento e apprezzamento del suo teatro
segue l’amarezza di essere stati privati troppo presto di un grande autore
che nonostante la sua breve vita sarà sempre ricordato come uno dei
drammaturghi più originali del Novecento e che per il forte impianto
drammaturgico possiamo includere tra i “classici” del teatro occidentale.

Antonia Lezza

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La scena teatrale negli anni ’70

Il periodo che va dai primi anni Sessanta alla fine degli anni Set-
tanta è caratterizzato dalla nascita in tutto il paese di gruppi di teatro
sperimentale all’interno dei quali vengono accolte le istanze pedagogi-
che e drammaturgiche più innovative, si ricerca una forma teatrale che
possa «arrivare alla contestazione assoluta e totale»1. Momento cardine
per la sperimentazione di quegli anni è il convegno di Ivrea del 19672.
Gli argomenti dibattuti in quella sede diventano le fondamenta sulle qua-
li si costruisce tutto il teatro di sperimentazione e d’avanguardia di quel
periodo3. Vengono messi in discussione i concetti tradizionali di testo te-
atrale, regia, figura e ruolo dell’attore, luogo teatrale e spettatori. Primo
argomento di opposizione delle nuove istanze nei confronti del teatro
tradizionale è la contrapposizione tra il testo scritto e lo spettacolo nella
sua realizzazione completa. Al copione scritto dall’autore si oppone il te-
sto spettacolare, ossia quell’insieme di parole, azioni e movimenti cui
partecipano parimenti scenografi, registi, fonici, attori e in cui il testo

1
AA. VV, Per un convegno sul nuovo teatro, «Sipario», 247, 1966, p. 3.
2
Cfr. Marco De Marinis, Il nuovo teatro. 1947-1970, Milano, Bompiani, 1987,
pp.168-172.
3
Ricco di aneliti innovativi per la scena e puntuale risposta al congresso di Ivrea sarà
il Manifesto per un nuovo teatro scritto da Pier Paolo Pasolini nel 1968 apparso per la prima
volta sulla rivista «Nuovi Argomenti», 9, 1968, ed ora edito in Pier Paolo Pasolini, Saggi
sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 1999, vol. II, pp.
2481-2500.

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Se cantar mi fai d’amore...

scritto è solo una delle diverse componenti. Lo spettacolo non è più inte-
so come la messa in scena di un copione da parte degli attori, sotto la su-
pervisione di un regista che funge da garante del testo autorale, bensì
come la creazione di un nuovo testo complessivo pluricomposto:

ogni testo teatrale, anche contemporaneo, divenne sospetto tanto che gli
autori che scrivevano in quel momento ebbero difficoltà ancora maggiori
a venire interpretati. Sono il corpo e le sue forze segrete e profonde, si
pensava, a dover governare il teatro4.

Partendo da questo punto, acquista significativa importanza l’idea


del gruppo, il teatro è responsabilità collettiva. Questa teorizzazione è
fortemente condizionata da due fattori: da una parte, il clima ideologi-
co-politico nazionale che si va creando in quegli anni, dall’altra, lo sti-
molo delle maggiori esperienze estere, in particolare il «Living Thea-
tre», in cui il teatro di gruppo porta alla creazione di nuove estetiche
indipendenti dal dominio del testo.
Contemporaneamente all’idea di spettacolo, muta anche l’idea di
pubblico. Si respinge lo spettatore tradizionale borghese mentalmente
pigro che cerca nel teatro un semplice momento di svago, non incline a
riflettere criticamente su ciò che vede, né ad assimilare novità o provo-
cazioni. È imperativo puntare su un nuovo tipo di audience (composta
da ceti operai e dalle giovani generazioni) che, in quegli anni, si carat-
terizza per la sua disponibilità e ricettività nei confronti delle novità in
ogni campo della cultura. Questo nuovo pubblico va ricercato al di fuo-
ri dei circuiti tradizionali: nei circoli culturali o del dopo lavoro, nelle
Università, nelle piazze, nei piccoli centri urbani o nelle periferie indu-
striali. Assumono, dunque, un ruolo essenziale, ai fini del discorso sce-
nico, gli ambienti, le sale e gli spettatori presso i quali si forma l’evento
scenico. È necessario trovare altri luoghi dove realizzare l’azione
drammatica: circoli, cantine, fabbriche, capannoni, edifici abbandonati
e organizzarli in circuiti indipendenti che permettano agli spettacoli di

4
Jean-Pierre Ryngaert, L’analisi del testo teatrale. Un’introduzione alla comprensio-
ne della drammaturgia, Roma, Dino Audino editore, 2006, p. 22.

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La scena teatrale negli anni ’70

circolare rivolgendosi ad un pubblico differenziato, per comunicare il


proprio messaggio e confrontarsi.
Anche a Napoli, nonostante la presenza di una tradizione ben con-
solidata, arriva l’eco di quei fermenti culturali5:

Nel 1963 un gruppo di giovani si riunì per parlare di teatro, le strutture na-
poletane capaci, non dico di ospitare, ma per lo meno di recepire un discor-
so nuovo su tale argomento, erano allora assolutamente assenti. E in effetti
ci vorranno degli anni, parecchi, di dura fatica perché si possa parlare di te-
atro sperimentale a Napoli. Fu una struttura scolastica, nel ’63, quella cui
poterono appoggiarsi questi primi pionieri, e fu la prima e unica volta, nella
storia della ricerca teatrale napoletana che una simile struttura riuscì ad e-
sprimere una proposta viva, e vedremo poi quanto, e a sorreggerla per
qualche tempo. Nel giugno del 1963 il «Gruppo giovanile di studi teatrali»
presenta al Teatrino dell’Accademia di Belle Arti di Napoli uno spettacolo-
collage con brani di Checov (Sulla strada maestra), Pirandello (All’uscita),
Beckett (Finale di partita), Ionesco (La cantatrice calva)6.

Ormai si guarda a forme di teatro provenienti dall’Europa e oltre.


Gli iniziali spunti di ciò che in seguito acquisirà una forma meglio de-
finita si avvertono nel lavoro del regista Gennaro Magliulo, fra i primi
che, già all’inizio degli anni Sessanta, intravede nel folklore locale una
coltre troppo spessa, rea di celare il volto sofferente della città. In un
momento storico in cui Scarpetta, Eduardo e la sceneggiata dominano
la scena partenopea, Magliulo tenta una duplice operazione culturale:
da un lato l’allontanamento da un teatro puramente d’evasione (cercando
di ricostruire l’antico dialogo fra scena e società a Napoli)7, dall’altro

5
In questa breve panoramica risulterà intenzionalmente assente Roberto De Simone. La
sua vastissima produzione richiederebbe un’attenzione diversa. Basti pensare alla sua opera
maggiormente nota, anche in ambito internazionale, Gatta Cenerentola (tratta dalla sesta fiaba
della prima giornata de Lo cunto de li cunti di Basile) del 1976. Geniale operazione teatral-
musicale in cui De Simone unisce sapientemente passato e presente della cultura partenopea.
6
Giulio Baffi, Il teatro sperimentale a Napoli, «La Scrittura Scenica», 12, 1976, p. 1.
7
Vanno ricordate almeno tre regie di Magliulo: Annella di Porta Capuana del 1962,
L’osteria di Marechiaro del 1963 e La monaca fauza del 1964.

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Se cantar mi fai d’amore...

l’apertura della città al repertorio contemporaneo italiano e internaziona-


le. Il progetto di ampliamento culturale della scena partenopea intrapreso
da questo regista non rimane episodio isolato, ma viene raccolto da altri
esponenti della sperimentazione locale. Se, come promotore culturale,
Michele Del Grosso con il suo «Teatro Instabile Napoli» (fondato nel
1967) porta in città «l’Open Theater» con Serpent e Mesks (1968), la co-
operativa «Les Teatreaux Libres» con Quo vadis? (1969) «l’Interna-
tional Workshop Theater» con Populorum progressio8, come regista e
autore egli guarda in particolar modo a Viviani, dal quale trae la Parabo-
la dei fringuelli ciechi9, ed a Brecht dal cui testo L’Eccezione e la regola
trae È arrivato il grande circo diretto da Mr Smith10.
Allo stesso modo Arturo Morfino (creatore del «Play Studio» nel
1967)11, elegge Artaud quale riferimento principe dei suoi laboratori
teatrali aperti a gruppi di proletariato e sottoproletariato residenti nel
cuore della città. Questi gruppi, composti in larga parte da bambini fra i
sei e i quattordici anni (poiché ancora liberi dai condizionamenti della
società di massa), diventano, poi, parte integrante dei laboratori che as-
sumono la dimensione collettiva di feste teatrali e musicali12.

8
Oltre le compagnie già citate si esibiranno in questa sala: Paolo Pietrangeli, Caterina
Bueno, Roberto Murolo, Concetta Barra, Otello Profazio, Giovanna Marini e Ivan della Mea.
9
Da Viviani, Del Grosso prende in prestito l’idea del viaggio/indagine del sottoprole-
tariato residente nei vicoli della città.
10
La trama del testo ben esprime le valenze politiche che nutrono l’attività di Del
Grosso. Durante l’attraversamento del deserto, il ricco mercante Mr Smith uccide il suo
servo. L’uomo gli si era avvicinato per offrirgli dell’acqua ma Smith, immaginando che vo-
lesse aggredirlo, con una pietra, lo uccide. Al processo verrà assolto per legittima difesa se-
condo la regola che lo sfruttato avesse in animo di aggredire il suo padrone, ed il mercante
non era tenuto a sapere che potesse esserci un’eccezione.
11
Da notare che sia il «Play Studio» che il «Teatro Instabile» sono inizialmente collo-
cati a Via Martucci, strada a ridosso della mondana Via dei Mille frequentata dalla buona
borghesia cittadina. Tale collocazione riflette pienamente l’intento di questi gruppi di dar
vita ad una sorta di incontro/scontro con contesti culturali diversi dal proprio. Nel 1977 il
«TIN» chiude la sede di via Martucci per poi riaprire nel 2002 in Vico Purgatorio ad Arco
dove prosegue tuttora l’attività.
12
Fra le produzioni in grado di riscuotere un vastissimo consenso di pubblico si ricor-
di l’allestimento della Cantata dei Pastori nella Galleria Umberto I di Napoli nel 1974.

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La scena teatrale negli anni ’70

A loro volta, Majakovskij e Mejerchol’d sono i riferimenti guida di


Rosario Crescenzi, fondatore nel 1968 del «Teatro Contro». Elementi
ricorrenti degli spettacoli di questo regista sono il rifiuto di ogni stereo-
tipo applicato alla cultura napoletana, nonché il ritorno ad un dialetto
che sappia essere elemento espressivo delle problematiche che investo-
no la città: il degrado delle periferie e la disoccupazione. E se Morfino
cerca gruppi di proletariato nel centro storico, Crescenzi punta diretta-
mente a quelle zone in cui il proletariato vive. Ecco, quindi, che la sua
attività teatrale arriva alla Casa del Popolo di Ponticelli dove, dopo un
lavoro di due mesi, nasce Tre canti per Secondigliano (1973), agli ope-
rai dell’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco con i quali, a seguito di un la-
boratorio di sei mesi, allestisce Napoli, quelle giornate e poi… (1976-
1977)13 ed ai ragazzi del carcere minorile di Nisida14. Ancora nel 1967
i coniugi Mario e Maria Luisa Santella danno vita al «Gruppo di spe-
rimentazione teatrale Vorlesungen» che, l’anno successivo, diventa
«Teatro Alfred Jarry». Il gruppo cerca di far proprie le esperienze più
avanzate di sperimentazione nel campo della ricerca teatrale. Non a ca-
so il loro primo lavoro è Experiment Action – Experimentaction (com-
posto dalla coppia, lo spettacolo debutta nel dicembre 1967); nel punta-
re alla distruzione della parola, alla denuncia sociale e alla ricerca ge-
stuale il lavoro mostra evidenti consonanze con l’esperienza del «Li-
ving theatre»15. Nel biennio ’71-’72, in qualità di ideatori della “Prima
rassegna-incontro sul nuovo teatro”, i Santella ospitano al Teatro Orio-
ne le voci più interessanti della nuova scena: Leo e Perla de Bernardi-

13
Fra gli altri testi scritti da Crescenzi in quel periodo vanno menzionati: Bianco gri-
gio e nero (varie edizioni), Disperatamente Napoli (1973-74), Na’ Babele (1974-75), Cam-
pania Felix (1975-76), Come festeggiare una festa? (1977-78).
14
In riferimento all’attività di Crescenzi al Filangieri, Mazzarella scrive «[…] L’inte-
resse e la partecipazione dei ragazzi, finalmente stimolati da un rapporto né autorizzato né pa-
ternalistico, ma paritario, hanno consentito iniziative davvero notevoli. La pubblicazione di un
“giornalino” ciclostilato, l’allestimento di un presepe e di una rappresentazione con i burattini
di “Mahagonny” scandiscono le fasi centrali dell’intensa attività svolta da “Teatro Contro” nel
Filangieri» Arturo Mazzarella, Teatro contro l’emarginazione, «Paese Sera», 31 gennaio 1978.
15
Seguiranno Ana/Logon nel 1968, Fall Out e Faust entrambi nel 1969 e L’enorme
tragedia del sogno (libero adattamento da un poema di Luciano del Caruso) nel 1970.

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Se cantar mi fai d’amore...

nis16, Armando Pugliese17, Giancarlo Nanni, Mario Ricci, Giuliano Va-


silicò. Diversamente, in qualità di interpreti e registi anche loro guar-
dano a drammaturgie internazionali, spaziando da Wilde18 a Ford19, da
Shakespeare20 a Webster21. Anche quando affrontano la drammaturgia
napoletana, il loro interesse è rivolto al passato nella riscrittura scenica
di testi del Trinchera (La monaca fauza e La gnoccolara), di Petito
(Mmescafrangescaaa) e di Lorenzi (ad una sua opera buffa è ispirato
Don Giovanni in farsa ovvero la Vittoria di Pulcinella)22.
Ma è al «Teatro ESSE»23 che spetta un ruolo cardine nell’ambito
della ricerca teatrale condotta a Napoli in quegli anni. Sebbene il conte-
sto cittadino rappresenti il principale motore ideologico (lotta al lauri-
smo, allo strapotere della Dc, critica ai ritardi culturali della sinistra)
anche questo gruppo (fondato nel 1965 da Gennaro Vitiello, Anna Ca-

16
Tra i loro spettacoli più significativi di quel periodo vanno citati: ’O Zappatore
(1972), King lacreme Lear napulitane (1973), Sudd (1974), Rusp spers (1976) e Avita a
murì (1978).
17
Di Pugliese si ricordi almeno lo storico allestimento del Masaniello di Elvio Por-
ta nel 1974.
18
Salomè (1973).
19
Peccato fosse una sgualdrina (1970).
20
Prove per una messinscena di Amleto di Shakespeare (1968), Macbeth (1969), Am-
leto o le disgrazie della virtù (1970), Macbeth o i contagiati dalla morte (1972).
21
La Duchessa di Amalfi (1972).
22
Si tenga conto anche dei due testi scritti dalla coppia (entrambi presentati nel 1971):
Mondo favola e Buongiorno signora Felicità, come sta il buon amico Benito? oltre Varietè
Varietè (1979), carrellata sul repertorio del teatro di Varietà della prima metà del Novecento
con figure e maschere tratte da Viviani, Totò, Cangiullo, De Angelis, Petrolini, Maiako-
vskij, Trilussa, Marinetti e Bréton.
23
Lo stesso Vitiello fornisce utili informazioni in merito alla nascita di questo gruppo:
«Nel ’65 a Napoli non c’era niente che potesse far presagire l’apertura di uno spazio alternati-
vo. Il teatro stabile era stato chiuso pochi anni prima, trionfavano le forme dialettali, che peral-
tro funzionavano anche fuori Napoli (vedi Eduardo), si era legati insomma ad un teatro ufficia-
le. La nostra ricerca si mosse, su due binari: da un lato rappresentare in una struttura nuova
come la “cantina”, e dall’altro portare un linguaggio diverso in uno spazio minimo. L’opera-
zione teatrale era incentrata su testi inediti, nel senso che questi non erano stati tradotti in ita-
liano ed erano anche sconosciuti in Italia, come per esempio “I Negri” di Genet (inserito
nell’avanguardia francese del 1947-50». Intervista a Gennaro Vitiello di Delia Morea, «Napoli
oggi», 19 marzo 1980.

22
La scena teatrale negli anni ’70

puti, Carlo de Simone, Mario Milano, Mario Perrucci, Giovanni Girosi


e Odette Nicoletti) cerca i suoi riferimenti drammaturgici principal-
mente fuori Napoli: Tardieu (Tardieu 6), Böll (Un sorso di terra), Be-
ckett (Ceneri), Toller (Massa-Uomo), Artaud (I cenci), Genet (Le ser-
ve), V. Hofmannsthal e Lorca (La morte e i pupi, Il folle). Fanno ecce-
zione due opere dell’avanguardia nazionale: Kappa di Sanguineti (1971)
e Il funerale del Padre di Manganelli (1972)24. Il primo testo vede prota-
gonisti Kafka e Janouch (autore del libro Colloqui con Kafka), i due per-
sonaggi sono in un caffè di Praga, i loro discorsi si snodano attraverso
varie fasi: la nostalgia degli anni di studio, il ricordo del difficile rapporto
con il padre da parte di Kafka, il suo senso di colpa, l’angoscia di vivere,
ma soprattutto la tristezza per la vita che si ripete secondo un immutabile
circolo (cominciamento-conclusione-ripetizione). Il secondo testo preve-
de ancora due soli personaggi in scena, A e B che, incontratisi ai funerali
dei rispettivi padri, colgono l’occasione per dare libero sfogo ai loro reali
sentimenti nei confronti dei genitori. Nel 1972, il «Teatro ESSE» si scio-
glie e dalle sue ceneri nasce la «Libera Scena Ensemble». Alcuni espo-
nenti del precedente gruppo scelgono di confluire in questa nuova realtà
(fra loro lo stesso Vitiello) scorgendo la possibilità di continuare il pro-
prio percorso di ricerca. Ancora una volta si guarda all’Europa, sia per il
training d’attore (ispirandosi alla teoria della marionetta di Kleinst) sia
per la scelta dei drammaturghi: Strindberg (Verso Damasco), Goethe
(Ur-Faust), Plenzdorf (I nuovi dolori del giovane W.), Schnitzeler (Il
Cacatoa verde), ancora Brecht (Padrone e sotto tratto da Puntila e il suo
servo Matti e Mamma chi è? dal Cerchio di gesso del Caucaso).
Un discorso a sé merita la drammaturgia creata da Ettore Massare-
se, fondatore del «Centro Sperimentale di Arte Popolare» nel 1970, con
la moglie Giovanna Capone, Antonio Neiwiller e Mario D’Amora. An-
che Massarese elegge a suoi riferimenti Brecht e Artaud (oltre che Lu-
kács). Se dal primo apprende la forte connessione con la realtà circo-
stante e l’importanza dell’essere in essa radicati, del secondo coglie
l’importanza del narrare questa stessa realtà in chiave deformante, at-

24
Questo fu l’ultimo spettacolo del «Teatro Esse» e venne presentato all’interno della
rassegna Situazione - teatro curata da Mario e Luisa Santella nel febbraio di quell’anno al
Teatro Orione di Napoli.

23
Se cantar mi fai d’amore...

traverso gli occhi dell’artista. Nella scrittura di Massarese si rivelano


influenze provenienti dalle avanguardie storiche, ma al contempo si ri-
trovano anche le maschere della tradizione napoletana ottocentesca. Il
gruppo debutta con Teatro (1971) scritto, diretto e interpretato dallo
stesso Massarese. Altri loro spettacoli di rilievo nel decennio Settanta-
Ottanta sono: Don Giovanni o il convitato di pietra (’72), Povera Alce-
sti! (’74), Romeo e Giulietta, ovvero l’impossibilità di essere gentili
(’76), Un sogno bruscamente interrotto (’77), La favola di Orfeo ovve-
ro Pulcinella all’inferno (’79)25.
Brecht torna ancora quale riferimento principe nell’attività del
«Collettivo Chille de la Balanza», formatosi nel 1973 sotto la guida di
Claudio Ascoli. Del resto, nessun altro meglio del drammaturgo tede-
sco avrebbe potuto prestarsi come strumento per le analisi sociali e po-
litiche che tanto nutrono l’attività di questo gruppo. La critica ai model-
li teatrali borghesi, lo studio delle culture popolari sono alla base di Uè
Pulecenè?!... (1975) e Faticanno (1977). Nel primo caso la figura di
Pulcinella viene adoperata come metafora della sofferenza dell’indi-
viduo dinanzi alle devianze della società industriale. Nel secondo caso,
protagonista è lo scontro fra civiltà contadina e urbana. I temi storico-
politici affrontati sono: l’emigrazione, la disoccupazione, la guerra, la
terra e il lavoro in miniera.
Dopo aver collaborato con Giovanni Bartolucci, nel 1974 Vittorio
Lucariello fonda, a Napoli, il teatro «Spazio Libero». Alle prime espe-
rienze di tipo concettuale con spettacoli su Andy Warhol e Marcel Du-
champ, seguono rapporti con l'arte nazionale e internazionale: con il
«Beat '72», con gruppi quali «la Gaia Scienza» nel ’77, con Simon For-
ti-Peter Van Riper del gruppo «Fluxus» nel ’78 e con Marcello Samba-
ti-Dark Camera nel 198026.

25
Nella teatrografia di Massarese degli anni successivi si ricordano: Farsa (1980), La
Maschera ed il suo amico il diavolo (1982), Le stanze del Castello (1984), I Mari del Sud
(1985-1995), Pulcinella. Il demonio e les amis du jeu (2001-2002), Alle soglie del Sacro
(2005), Il teatro Sommerso (2009).
26
Fra i gruppi nati in quel periodo (1978) va ricordata la «Cooperativa Teatro», la cui
fondatrice Laura Angiulli guarda a Rosso di San Secondo e Marquez quali autori guida per i

24
La scena teatrale negli anni ’70

Lello Serao, Renato Carpentieri e Antonio Neiwiller guidano l’ul-


timo gruppo sorto in questo periodo: «Teatro dei Mutamenti», in azione
alla fine degli anni Settanta. Di questa compagnia resta celebre l’omag-
gio al cabaret espressionista tedesco di Berlin-Dada 1918-1920 diretto
da Neiwiller nel 1977. L’inversione logistica delle parti del teatro è uno
degli elementi che caratterizzano l’allestimento:

Il palco non è più tale, ma nella finzione diviene il «dietro le quinte» do-
ve il pubblico è capitato per caso. Qui gli attori […], gli stessi che sul
palco recitano la «scena della rivoluzione tedesca», secondo la moda del
teatro politico molto diffuso all’indomani del primo grande conflitto, e-
splodono in improvvisazioni dadaiste. I moduli sono quelli della poesia
brutistica […], della poesia simultanea […], della poesia statica […], tutti
convergenti in una direzione antiestetica27.

Altro loro significativo allestimento è Kabarett di Karl Valentin di-


retto da Carpentieri nel 197928.

Sul versante di una drammaturgia incentrata sul ruolo fondante

suoi primi allestimenti. Da Marionette che passione è tratto Io sposo l’ombra, mentre
Cent’anni di solitudine è la fonte di Canto fermo.
27
Pasquale Sabbatino, Scene della rivoluzione tedesca con un pizzico di dadaismo,
«Avanti», 23 febbraio 1979.
28
È pur vero che già alla fine degli anni Settanta, la critica incomincia a mettere in evi-
denza i limiti della stagione appena trascorsa «[…] oggi appare evidente che quel teatro di
“contestazione” conteneva insieme elementi utopistici ed elementi nostalgici, aveva un occhio
al futuro e l’altro al passato; l’utopia era ancora quella delle avanguardie storiche, che si potes-
se dall’interno dei linguaggi artistici e semplicemente rivelandone e ribaltandone i codici costi-
tutivi, rovesciare la critica della società presente in progettazione di una società futura; la no-
stalgia occupava tutto lo spazio del fallimento di quel progetto, in “una delle organizzazioni
già superate o mediante uno degli oggetti precedentemente scartati” secondo la meccanica de-
scritta da Freud a proposito del percorso difensivo e regressivo che il desiderio di realizzazione
compie quando la realtà rimane inesorabile». Franca Angelini, I Gruppi, la base, i bisogni,
«Quaderni di Teatro», 3, 1979, p. 14. Nondimeno per un’approfondita analisi del teatro di ri-
cerca sorto in questi anni si veda: Marta Porzio, La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a
Napoli dalle origini al terremoto, Roma, Bulzoni, 2011.

25
Se cantar mi fai d’amore...

dell’autore, oltre il già citato Eduardo (ma anche Scarpetta e Viviani),


vanno ricordati Gennaro Pistilli e Giuseppe Patroni Griffi29. Pur essen-
do entrambi partenopei (il primo nasce a Napoli nel 1920, il secondo
nel 1921) i due drammaturghi sviluppano rapporti molto diversi con la
propria città/cultura. Attivo fra il 1950 e la fine degli anni Ottanta, Pi-
stilli scrive diversi testi (alcuni mai rappresentati), fra questi: Notturno
(Premio Riccione nel 1950), mai allestito in seguito ad un divieto della
censura (seppur con linguaggio originale, si affrontava il tema dell’in-
cesto), Le donne dell’uomo (1954)30, L'ampio bacino di Venere (1956)31,
Il castigo corporale (1966)32, L’arbitro (1961)33, Quartetto Londra
W.11 (1969)34 e L'arrivo dei cavalli (1974). In nessuno di questi lavori
il capoluogo partenopeo risulta parte viva dell’ordito drammaturgico.
Napoli è invece centrale in tre dei testi più felici di Patroni Griffi: In
memoria di una signora amica (1963)35, Persone naturali e strafottenti
(1973)36 e Cammurriata (1983)37. Se nel primo lavoro l’autore compie
un percorso a ritroso strutturando il testo intorno a una ricostruzione

29
Molto attivo anche in qualità di regista, Patroni Griffi cura gli allestimenti di due
spettacoli di Viviani. Entrambi contribuiscono enormemente alla rivalutazione del dramma-
turgo stabiese. Nel 1967 allestisce Napoli notte e giorno e nel 1975 Napoli: chi resta e chi
parte. Gli spettacoli sono composti da due atti unici, rispettivamente: Toledo di notte e La
musica dei ciechi; Caffè di notte e di giorno e Scalo marittimo.
30
Rappresentato nel 1954 al Teatro Valle con la regia di Orazio Costa.
31
Il testo non è stato ancora rappresentato.
32
Anche questo lavoro non è stato mai messo in scena.
33
L'arbitro è forse il lavoro più rappresentato. Nel 1962 viene messo in scena dallo
Stabile di Genova, con la regia di Paolo Giuranna. Nel 1965, con la regia di Gennaro Ma-
gliulo, il testo viene allestito al Teatro Argentina di Roma. Interpreti: Renzo Giovanpietro,
Gigi Proietti, Armando Bandini, Carmen Scarpitta, Lea Padovani, Corrado Annicelli.
34
Con la regia dello stesso autore, il testo viene allestito dallo Stabile di Torino nel 1969.
35
Lo spettacolo debutta l’11 ottobre 1963 al Teatro La Fenice di Venezia nell’ambito
del XXII Festival internazionale del teatro di prosa. La regia è di Francesco Rosi. Il cast in-
clude: Lilla Brignone, Pupella Maggio, Ester Carloni, Clara Morabito, Margherita Lia Tala-
rico, Pasquale Squitieri, Giancarlo Giannini e Dalia Frediani.
36
Lo spettacolo debutta al Teatro delle Arti di Roma l’11 gennaio 1974. Nel cast: Pu-
pella Maggio (Violante), Mariano Rigillo (Mariacallàs), Gabriele Lavia (Fred), Arnold
Wilkerson (Byron). La regia è curata dallo stesso autore.
37
Scritto per Leopoldo Mastelloni, lo spettacolo debutta al Festival Benevento Città
Spettacolo nel settembre del 1983.

26
La scena teatrale negli anni ’70

postuma della Napoli della sua giovinezza (quella della guerra e dell’im-
mediato dopoguerra), con Persone… siamo di fronte a una riscrittura
critica del proprio tempo e della propria cultura. Si tratta di un copione
altamente provocatorio, incentrato sulla rappresentazione del mondo
collaterale (rispetto a quello maggiormente noto, che definiremmo da
cartolina) di Napoli entro cui si muovono personaggi appartenenti agli
ambienti della prostituzione e del proletariato, dove la sconfitta assurge
a regola di una vita che si reinventa giorno dopo giorno attraverso e-
spedienti per sottrarsi alla fame e alla miseria. Un mondo fatto da indivi-
dui costretti all’umiliazione di professioni degradanti, all’azzardo conti-
nuo, alla sopravvivenza assurta a sistema di vita, costretti come sono
dalle proprie condizioni socio-economiche. Fra i quattro personaggi
che abitano il testo spiccano l’anziana proprietaria dell’appartamento in
cui si svolge l’azione, Violante e il travestito Mariacallàs38. L’ultimo
lavoro, Cammurriata, è composto in endecasillabi sciolti, organizzato
nella forma di una rapsodia in quindici quadri. Strutturalmente il testo
si discosta da Persone… presentando una serie di monologhi o brevi
dialoghi in versi interpretati da personaggi di varia provenienza, sebbe-
ne la maggioranza provenga dal mondo dei bassifondi napoletani, sen-
za che esista una vicenda unificante, un’ambientazione prestabilita, un
finale riassuntivo, secondo la struttura aperta del genere varietà. I temi
della malavita e del degrado umano e sociale s’intrecciano in un unico
corpo storico.

38
Di particolare rilievo questo personaggio poiché come vedremo, ritornerà nella
drammaturgia di Ruccello.

27
Annibale Ruccello (1956-1986).
Tradizione e futuro

Ad un momento storico/culturale così complesso, ancora una volta,


la drammaturgia partenopea risponde andando a recuperare gli elemen-
ti fondanti della propria cultura popolare. I giovani drammaturghi na-
poletani degli anni Ottanta seguono il convincimento secondo il quale,
perché si possa mantenere il tradizionale rapporto con la città, è impe-
rativo immergersi nella propria contemporaneità, allontanando in que-
sto modo il rischio di ridursi a rappresentazione folklorica del proprio
presente storico. Per evitare un possibile isolamento, questi nuovi autori
si mettono ancora una volta in cerca della propria cultura, cercano di in-
serirsi, di confondersi in essa, di riappropriarsene. Ad essi il compito di
raccogliere questa carta sporca che altri, vittime di provincialismi mai
digeriti, hanno lasciato ai margini della propria ricerca teatrale. Le strade,
le piazze, i palazzi, le sagome, i colori, i suoni di Napoli e della sua pro-
vincia tornano al centro della scena. In teatri alternativi ai circuiti ufficia-
li1 si produce una drammaturgia che pone la riflessione linguistica e so-

1
Alcuni esempi concreti di questa strategia sono la riapertura nel novembre 1980 del
Teatro Nuovo nello stesso luogo dove sorgeva la prestigiosa sala settecentesca (sede di mol-
tissimi spettacoli di Viviani), distrutta da un incendio nel 1935 e usata per decenni come au-
torimessa. In questa sala, situata nei Quartieri Spagnoli, si esibiscono Moscato, Ruccello,
Santanelli, Martone, Neiwiller e moltissimi altri protagonisti della scena napoletana di que-
gli anni e degli anni successivi. Altri teatri, posti anch’essi in quartieri difficili della città,
sono la Galleria Toledo e il Teatro Elicantropo.

29
Se cantar mi fai d’amore...

ciale al centro della scena. Fra i protagonisti di questa rinnovata idea di


teatro spicca la figura di Annibale Ruccello.
Nato a Castellammare di Stabia (Na) nel 1956, dopo aver frequen-
tato il liceo classico nella sua città, Ruccello si laurea in Filosofia nel
1977 specializzandosi, in seguito, in antropologia culturale all’Univer-
sità di Napoli Federico II e svolgendo ricerche nel campo della ritualità
delle classi subalterne campane, con particolare attenzione agli aspetti
teatrali dei rituali popolari. Dal 1975 al 1978 collabora con il regista-
musicologo Roberto De Simone. I due sono legati da un comune desi-
derio d'indagine antropologica della tradizione campana. La collabora-
zione con De Simone insegna al drammaturgo stabiese come prestare at-
tenzione alle violente mutazioni socio-economiche avvenute nel popolo
campano. Applicato al proprio teatro, questo tipo di approccio porta
Ruccello a concepire i suoi personaggi come strumenti d’indagine di
quei mutamenti che hanno investito soprattutto le classi sociali meno ab-
bienti, analizzando il percorso di urbanizzazione di queste masse, il loro
posizionarsi nelle periferie delle grandi metropoli, a metà fra provincia e
città2. L’autore comprende che alla crisi delle forme culturali antiche non
è subentrata l’elaborazione di nuove forme nelle quali potersi riconosce-
re. I suoi personaggi sono espressione di un'identità napoletana mutata,
ma non ancora definita, dispersa in troppe contaminazioni diverse e con-
traddittorie. La stratificazione nei suoi personaggi si presenta come pura

2
La connessione fra queste trasformazioni e l’identità dei personaggi di Ruccello tro-
va riscontro nei risultati delle indagini sociali svolte in quel periodo: «Il fenomeno migrato-
rio in Campania nel ventennio 1951-71 ha investito le zone della coltura di media attività di
colle e di monte e quelle di agricoltura particolarmente depressa della coltura estensiva ap-
penninica. Una prova tangibile di ciò sta nelle punte di spopolamento raggiunto nelle zone
interne dell’Avellinese e nei pressi del Cilento, dove in media l’emigrazione ha riguardato il
25% circa della popolazione. In totale del ventennio sono emigrate circa 800.000 unità di
cui circa il 60% nel decennio 1961-71 e circa il 58% dal complesso delle zone interne»
Guido Fabiani, Sergio Vellante, L’evoluzione delle strutture agricole 1921-1971, in Storia
della Campania, a cura di Francesco Barbagallo, Napoli, Guida editori, 1978, vol. II, p.
469. Questi dati confermano che: «Nel Mezzogiorno la regione più urbanizzata è la Cam-
pania con 87,11 maschi occupati in attività non agricole su 100 maschi occupati in com-
plesso.» Vincenzo Veneziano, Sul livello di urbanizzazione nelle regioni italiane, in «Ras-
segna Economica», 5, 1983, p. 1112.

30
Annibale Ruccello (1956-1986)

somma di più accumuli; la loro fisicità e il loro modo di gestirsi, trave-


stirsi e relazionarsi non sono espressione di una cultura organica, ma la
somma di identità diverse sovrapposte ed in precario equilibrio fra loro.
Se De Simone aveva puntato essenzialmente ad un recupero del reperto-
rio fiabesco e mitico, attraverso un’operazione di restaurazione filologi-
ca, Ruccello immette quello stesso mondo sommerso nel tessuto sociale
contemporaneo; usa la matrice colta per ibridare, per miscelare materiali
differenti, forme e contenuti eterogenei al fine di svelare quei meccani-
smi che a livello inconscio sono presenti in ogni individuo sotto la soglia
della normalità. Come lo stesso autore afferma, egli ama raccontare:

Storie che riguardano sempre e soltanto gente banale […] colti in un


momento estremo della loro esistenza, quando a prescindere dalle loro
stesse intenzioni sono costretti a compiere un gesto eroico o atroce3.

Avendo scelto la crisi dello stato sociale come cantiere delle pro-
prie elaborazioni, Ruccello intraprende un percorso all’interno della
sottocultura campana. Tornano alla mente le parole di Pasolini sui na-
poletani:

Io so questo: che i napoletani sono oggi una grande tribù che anziché vi-
vere nel deserto o nella savana, come i Tuareg, vive nel ventre di una
grande città di mare. Questa tribù ha deciso di estinguersi rifiutando il
nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la mo-
dernità. […] Questo rifiuto è sacrosanto4.

Ebbene, è proprio quel “rifiuto” che il nostro drammaturgo va ad


analizzare chiedendosi se sia vero che i suoi conterranei hanno “deciso

3
Ruccello intervistato da Mario Prosperi in Week-end all’Orologio, «Il Tempo», 5
novembre 1983.
4
Dichiarazione di Pier Paolo Pasolini rilasciata ad Antonio Ghirelli nel 1971, in se-
guito pubblicata in Id., La napoletanità, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1976, pp. 15-
16. Ora in Pier Paolo Pasolini, La napoletanità, Saggi sulla politica e sulla società, edizione
diretta da Walter Siti, Milano, Mondadori, 1999, p. 230.

31
Se cantar mi fai d’amore...

di estinguersi” o se, al contrario, hanno accettato le imposizioni della


modernità. Nasce così una drammaturgia ad impianto morale dove
soggetto delle opere sono le alterazioni prodottesi in seno a quel ceto
medio-basso di provincia (corroso da un pervicace desiderio di assur-
gere al censo di piccola borghesia)5 come conseguenza di transizioni
vissute innaturalmente. Ruccello presenta personaggi che, sprovvisti di
una cultura sedimentata, si aggiornano nei gusti e nello stile adeguan-
dosi alle nuove maniere, alla ricerca di identificazione e di prodotti in
cui rispecchiarsi. La considerevole presenza in scena di elementi mass-
mediali nasce dalla maturata consapevolezza che quel tipo di cultura
non avrebbe lasciato spazio al dialogo, poiché intenta a rendere la so-
cietà non un insieme di diversità in grado di convivere, ma di identità
fra loro distinte (da ciò la marcata solitudine e incomunicabilità dei
suoi personaggi). L’autore si mostra consapevole di vivere in un conte-
sto sociale prossimo a diventare sempre più subalterno all’immagine.
Per rappresentare questo mutamento egli lascia che televisione e radio
occupino un ruolo centrale in larga parte della sua produzione teatrale,
affidando loro il ruolo di anello di connessione con una contemporanei-
tà malata, così intesa non perché portatrice di degrado tout court, ma
tale nel suo non essere stata ancora assimilata dai personaggi che ad es-
sa hanno aderito supinamente. Imprigionati in una realtà estranea, in bi-
lico tra follia e ragione, essi assumono pienamente su di sé le storture
(talvolta anche grottesche), che quella cultura è in grado di imporre.
Basti pensare al testo Mamma. Piccole tragedie minimali e alla donna
che dà ai suoi figli i nomi dei protagonisti delle più note soap opera del
momento: Ursula, Deborah, Luis Antonio.

5
Analizzando le mutazioni avvenute in seno alle famiglie italiane fra il 1953 e il 1983,
Pierpaolo Donati scrive: «In breve, c’è stato un consistente processo di «imborghesimento»
della famiglia italiana, ossia uno “spostamento verso l’alto” della stratificazione sociale, cui
sottostanno i notevoli miglioramenti del tenore materiale di vita, reddito e consumi […] non
poca parte della questione familiare giace qui: nel divario crescente fra le famiglie borghesi
che sono “emergenti”, con il loro stile di vita privatistico, edonistico, centrato sul successo, e le
famiglie di classe bassa o marginale che “restano indietro” rispetto ai processi di modernizza-
zione e di aggancio alle nuove opportunità, materiali e non, di vita». Id., L’emergere della fa-
miglia «auto-poietica», in Id. (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia, Cinisello
Balsamo, Edizioni Paoline, 2009, p. 24.

32
Annibale Ruccello (1956-1986)

La drammaturgia prodotta da Ruccello, nel suo essere consapevole


tentativo di smascheramento dell’adulterazione del reale, esprime un
profondo disagio verso una società in via di disfacimento, mostrando il
lato oscuro dei rapporti umani colti nel tentativo di riscatto, puntual-
mente frustrato e negato, senza per questo acquisire un approccio do-
cumentaristico. La realtà va sì ritratta, ma attraverso il mezzo teatrale,
forte è, infatti, nei suoi lavori la consapevolezza del valore interpretati-
vo della scena. I suoi personaggi, espressione di un’epoca, tendono ad
un significato più alto. La connessione con la contemporaneità non è un
punto d’arrivo bensì di partenza, artificio narrativo dal quale muovere
per evidenziare un elemento caratterizzante della sua scrittura: l’innesto
di elementi surreali ed onirici in un impianto drammaturgico fortemen-
te realistico6. I testi appaiono intessuti di ricordi, visioni, fantasmi di
memorie che ne denotano l’impronta onirica. Il sogno si propone quale
finestra, o via di fuga, verso un mondo diverso rispetto a quello in cui
si è costretti a vivere, e al contempo manifestazione di un’interiorità
inquieta, in perenne ricerca di qualcosa a cui solo il sogno (o gli incubi)
sanno dar corpo, tramite attraverso il quale la follia, qui intesa come
forza liberatrice, s’insinua nel vivere quotidiano dei personaggi. Tal-
volta il sogno viene anche rivelato in scena, come accade in Ferdinan-
do in cui l’omonimo personaggio racconta di aver sognato l’uccisione
del prete Don Catellino (cosa che, poi, regolarmente avviene alla fine
dello spettacolo).
Il teatro sperimentale degli anni Settanta aveva posto su base egua-
litaria tutti gli elementi che compongono l’evento scenico (luci, scene,
musica, recitazione, etc.), minacciando in questo modo il ruolo della
parola quale elemento centrale nella costruzione dello spettacolo (a sua

6
Sulla commistione fra sogno e realtà lo stesso Ruccello scrive: «Del resto questa di-
mensione di sogno collegata alla morte era già una presenza culturale del mondo antico e
nella stessa cultura tradizionale napoletana è presente il motivo che i sogni (o i numeri che
nei sogni compaiono o che dai sogni si possono trarre) sono mandati dalle anime dei morti.
La smorfia napoletana, collegata così strettamente al gioco della tombola (gioco natalizio),
è la chiave di volta per intendere questo rapporto sogno morte dove però compare anche
una simbologia di fertilità e di parto strettamente connessa, comunque al culto dei morti».
Id., Il sole e la maschera, Napoli, Guida editori, 1978, pp. 145-146.

33
Se cantar mi fai d’amore...

volta non più diviso in atti o scene), preferendo che l’invenzione fanta-
stica prevalesse sul discorso concettuale, l’emozione sulla ragione di-
versamente Annibale Ruccello, al pari di altri drammaturghi napoletani
che si affacciano sulla scena in quel periodo (in particolare Enzo Mo-
scato)7 mostrano una certa determinazione nel prendere le distanze da
quel tipo di approccio. Nel momento in cui i legami fra drammaturgia
scritta e pratica scenica sembrano essersi notevolmente allentati, questi
giovani drammaturghi mostrano come tali legami possano spontanea-
mente rinsaldarsi, scegliendo di tornare alla struttura classica del testo
con tanto di tempi, quadri, trame, personaggi e didascalie. Nel loro
modo di costruire lo spettacolo si restituisce fiducia alla parola scritta
quale momento fondante dell’evento scenico, la si rivaluta come stru-
mento di offesa, di reazione, di vita e di comunicazione, le si restituisce
il peso portante della narrazione creando una tensione drammatica ine-
dita nel suo essere espressione di una dinamica dialogica. Una dinami-
ca che si costruisce attraverso un marcato contrasto fra costruzione
classica dello spettacolo e contenuti estremi, laddove le storie narrate
esprimono tinte fosche, drammatiche, concepite per esplorare le zone
più recondite dell’esistenza umana. Tuttavia, nel guardare a questa
scrittura, non si può parlare di tradimento verso il passato, bensì di na-

7
Si notano varie similitudini con Moscato. Laddove Ruccello inizia il suo percorso di
drammaturgo rivisitando la tradizione popolare campana (La cantata dei pastori e L’osteria
del melograno), allo stesso modo Moscato, con Carcioffola (1979), rivisita altre dramma-
turgie classiche partenopee, in particolar modo la sceneggiata, per rintracciarne progenitori
ed epigoni. Il travestitismo sarà, inoltre, presente in almeno tre testi di Moscato, Scannasu-
rece del 1981 (diretto dallo stesso Ruccello nella versione del 1984) Pièce Noire (1983) e
Ragazze sole con qualche esperienza del 1985 (Ruccello vi partecipa come attore con Mo-
scato). Moscato scriverà Compleanno, struggente omaggio alla memoria dell’amico scom-
parso nel 1986.
Altro drammaturgo con il quale l’autore stabiese stabilisce un rapporto di stretta collabo-
razione è Francesco Silvestri (interprete anche del ruolo di Anna nel primo allestimento de Le
cinque rose di Jennifer nel 1980). Non a caso, anche la drammaturgia di quest’ultimo si pre-
senta ricca: «di madonne e puttane, di figure dall’identità sessuale fluttuante, di anime in pena
e di altre pacificate, grazie anche alle vie crucis del dolore. Un magma ribollente eppure cheto,
fatto fluire lungo gli argini mai forzosi di una narrazione che prende in prestito dalla fiaba toni,
tempi, atmosfere». Antonio Calbi, Teatri di fiaba, fra candore e crudeltà, in Francesco Silvestri,
Teatro. Una rosa, due anime, tre angeli, quattro streghe, Roma, Gremese Editore, 2000, p. 6.

34
Annibale Ruccello (1956-1986)

turale rinnovamento di una tradizione intesa come patrimonio collettivo


genetico-culturale. C’è, inoltre, un elemento caratterizzante che collega
questa generazione ai precedenti autori della tradizione partenopea:
l’incarnazione in un’unica figura del triplice ruolo di autore, regista e
attore8. Ruccello nasce artisticamente nel 1976 quando fonda la com-
pagnia «I Dodici Pozzi»9 scioltasi poi nel 1977 per convergere nel
«Centro di Ricerche Teatrali» e, infine, nella cooperativa «Il Carro» del
1978, con la quale allestirà quasi tutti i suoi lavori10. Per diversi anni il
nostro autore svolge il suo tirocinio teatrale come attore interpretando
testi altrui11, parallelamente all’attività di drammaturgo e regista. Ruc-
cello sviluppa un rapporto diretto con il palcoscenico, fatto di coinvol-
gimento fisico e necessità imprenditoriali12. La triplice funzione non si
svolge a discapito della solidità del copione, per lui il ruolo d’attore

8
Sul rapporto pratica scenica–scrittura si sofferma anche Tomasino: «È questa la sacca
napoletana. Lì, tra gli eredi autentici della commedia dell’arte, non sarebbe stato tollerato
l’intellettuale che non ama sporcarsi le mani con le pratiche, che consegna i propri fogli zeppi
di dialoghi e di “messaggi” pensati a tavolino ad un regista estraneo e occasionale di una com-
pagnia altrettanto estranea e occasionale […] Ruccello appartiene a questa razza di comme-
dianti dell’arte prima d’essere scrittore di drammi, anzi è scrittore di drammi proprio perché di
quella razza napoletanissima […]» Renato Tomasino, Il teatro di Ruccello fra tradizione ed
eccesso, in Teatro Italiano, a cura di Pietro Carriglio e Giorgio Strehler, Roma-Bari, Laterza,
1993, p. 297.
9
Oltre a Ruccello, fanno parte della compagnia: Carlo De Nonno (musicista), Lello
Guida (coautore di tre adattamenti), Vanni Baiano e Francesco Autiero (scenografi) e gli atto-
ri, Dora Romano, Paolo De Luca, Tito Del Gaudio, Salvatore Scarfato e Michele Di Nocera.
10
Uno dei membri della compagnia fornisce indicazioni sul metodo di lavoro del
gruppo: «Consiste in una discussione critica su ogni punto della messa in scena; discussione
che continua fino all’ultimo giorno di prova e spesso anche durante gli spettacoli». Michele
di Nocera, intervistato da Giancarlo Laurini, Una scuola sul “Carro”, «Telecorriere», 29
aprile 1979.
11
Ruccello lavora come attore anche in spettacoli di cui non è autore fra il 1981 e il
1985 in Rottami da Ionesco, Pastareggina va in sposa ad Aniè di Fabio Storelli, Passeggia-
ta serale – Letteratura di Shnitzler e ne La tempesta di Shakespeare (oltre la già citata espe-
rienza con Moscato in Ragazze sole…).
12
Come confermano in quegli anni Lupi e Aufiero, sottolineando le difficoltà dei gio-
vani drammaturghi italiani: «l’autore non solo scrive i suoi testi, ma partecipa attivamente
alla vita della compagnia come regista, come attore e anche produttore di se stesso» Paolo
Lupi e Raffaele Aufiero, Alla ricerca della nuova drammaturgia, «Ridotto», 11-12, 1984, p. 8.

35
Se cantar mi fai d’amore...

non direziona il testo verso spazi lasciati all’improvvisazione e le ra-


gioni della scena coincidono con quelle della scrittura. Lo stesso Ruc-
cello chiarisce il rapporto fra scrittura e interprete:

Quasi sempre scrivo per dei corpi già precisi […]. Così è l’attore a dare al
personaggio alcune sue caratteristiche, già prima dell’interpretazione
[…]. Non credo nelle regie preconfezionate, è sempre il corpo dell’attore,
la sua sensibilità che cambia il personaggio che hai immaginato. Ed allo-
ra piuttosto che farlo diventare – come spesso avviene – per questa frattu-
ra fra ‘scrittura’ ed ‘interpretazione’ un punto di debolezza io cerco per
quanto possibile, di trasformare questa dinamica in un punto di forza.
Proprio con questo parziale aderire della scrittura scenica con il ‘corpo’
che lo interpreterà13.

Ma al di là dei motivi strutturali appena esposti, l’opera di questo


autore può considerarsi parte del grande filone caratterizzante la
drammaturgia napoletana, e dei suoi assunti costitutivi, per lo sguardo
costantemente rivolto al proprio territorio:

La mia scuola migliore rimane e rimarrà sempre la strada, la gente che co-
nosco nei bar, negli autostop, principalmente la gente e i fatti che ho cono-
sciuto nella mia infanzia e nella mia adolescenza in una tranquilla, classica
e canonica cittadina di provincia del Sud. I loro volti, le loro espressioni, le

13
G. G., L. G. (a cura di), Ruccello una drammaturgia sui corpi, «Sipario», 466, 1987,
p. 72. Il rapporto ‘scrittura’ – ‘interpretazione’ di cui parla Ruccello secondo Wanda Monaco
proviene, più che dagli altri grandi del teatro napoletano, da Roberto De Simone: «Parados-
salmente, ma non troppo, si può dire che De Simone quando scrive i testi inverte i criteri della
distribuzione: cioè invece di avere dei personaggi da distribuire, vi sono degli attori addosso ai
quali creare i personaggi. Tale inversione del procedimento non avviene sulla base delle quali-
tà tecniche dell’attore, ma sulla base del suo rapporto con la realtà in quanto attore e in quanto
persona.» Id., op. cit., p. 248. Del resto, lo stesso Ruccello dichiara la sua ascendenza da De
Simone: «Da lui ho appreso l’insignificanza della comunicazione verbale e contenutistica a te-
atro, e l’importanza invece, di quella fonica e gestuale. Da lui ho acquisito l’uso dei personag-
gi in quanto comportamenti. Da lui infine ho imparato a costruire le “parti” sull’attore, sulle
sue debolezze e, perché no? Sui suoi difetti». Dichiarazione dell’autore in Annibale Ruccello,
a cura di Rodolfo di Giammarco, «Patalogo», 7, 1984, p 178.

36
Annibale Ruccello (1956-1986)

loro storie affollano il mio teatro, quando scrivo, ma soprattutto quando di-
rigo, e non è raro che può capitare che un’eroina di Schnitzler cammini
come la fruttivendola di sotto casa o parli come la maschera del cine-
ma/pidocchietto in cui ho visto tanti film in assolati pomeriggi estivi14.

Eduardo (ormai ottantenne e di salute incerta) non sembra in grado


di registrare i profondi mutamenti subìti dal territorio napoletano in
quegli anni (ma che certamente aveva saputo cogliere molto acutamen-
te negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta), spetta quindi a questa
nuova generazione il compito di “fotografare” la manifesta condizione
di degrado della città, costruendo una drammaturgia che si svilupperà
lungo tre coordinate parallele e convergenti: sociale, culturale e antro-
pologica15. Perché ciò possa avvenire occorre intervenire in primis sul-
la lingua di scena che subisce tre evidenti mutazioni16. La prima ri-
guarda il napoletano che passa da veicolo espressivo di un teatro di tra-
dizione ad elemento mimetico del presente, specchio veridico e auto-
biografico, momento di riconoscibilità per i personaggi, ipotesi di rico-
stituzione di una identica comunità tra artista e pubblico. Il dialetto di-
viene espressione di ciò che era stato rimosso dall’imperante cultura
borghese, di ciò che è riuscito a sopravvivere nel ventre della metropo-
li, seppur incamerando le pulsioni della società di massa (e in questo
confermando la propria contemporaneità)17. Il silenzio eduardiano vie-

14
Annibale Ruccello, Perché faccio il regista, «Sipario», 466, 1987, p. 8.
15
Dell’intenso rapporto con la città offre conferma lo stesso Ruccello: «Il primo punto
in comune con la “Nuova spettacolarità” è indubbiamente il rapporto con la metropoli.» G.
G., L. G. (a cura di), Ruccello una drammaturgia sui corpi, cit., p. 70.
16
A suo modo, già Testori si era posto il problema linguistico, in particolar modo con
opere come l’Ambleto (1972), dove irrompe senza pudori la caricatura e la scurrilità colta, o
col Macbetto (1974) composto in un singolare abbraccio fra italiano e dialetto, cultura alta e
linguaggio popolare. Entrambi i testi sono raccolti in Giovanni Testori, Opere, a cura di
Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 1997-2003.
17
A sostegno dell’operazione linguistica messa in atto da Ruccello, in cui il dialetto
diventa elemento identificativo di un determinato gruppo sociale, nel 1986 Raffaele La Ca-
pria scriverà: «Il dialetto, ecco cos’è che tiene insieme la mia tribù, l’unico elemento aggre-
gante in questa disgregazione. Non la politica, gli uomini, le istituzioni le vestigia del passa-
to, ma il dialetto, invisibile membrana maternale e tenace reticolo, è il luogo dove ancora si

37
Se cantar mi fai d’amore...

ne sopraffatto da accumuli verbali da cui deriva l’abbondante uso del


linguaggio dei mass media18, nonché gli occasionali accenni di inglese
e francese, il cui uso maccheronico evidenzia il modesto status cultura-
le dei personaggi (vedi Jennifer). La composizione ibrida che si produ-
ce diventa uno degli elementi caratterizzanti della drammaturgia di
questo autore19. È lo stesso Ruccello a confermare come la lingua rap-
presenti il primo passo nella creazione dei suoi personaggi:

Se analizzo i miei testi dal punto di vista letterario la prima cosa che mi
appare evidente è il linguaggio (inteso proprio in senso di parola) afasico,
spento, insignificante, degradato, come poi sono le stesse storie che rac-
conto. Questo linguaggio così appiattito, così brutto, è quanto di più sgra-
devole mi è dato di subire acusticamente, eppure senza la sua reale esi-
stenza credo che difficilmente mi sarei messo a scrivere lavori teatrali. In-
fatti la repulsione che mi ispira è pari solo all’irresistibile attrazione che
mi porta a cogliere, ad annotarlo, a memorizzarlo […]20.

riconosce la comune identità napoletana». Id., L’Armonia perduta, in Opere, a cura di Sil-
vio Perrella, Milano, Mondadori, 2003, p. 652.
18
In merito all’incidenza dei mass media quali portatori di una lingua propria, Ruccel-
lo afferma: «[…] io non credo nell’italiano. Credo che sia una lingua inesistente, totalmente
inventata. Unico italiano vero è quello dei mass-media, il resto è un’invenzione degli intel-
lettuali» G. G, L. G. (a cura di), Ruccello una drammaturgia sui corpi, cit., p. 72.
19
Un’analisi della lingua adoperata da Ruccello nei suoi testi è sviluppata da Daria di
Bernardo, Plurilinguismo dei drammi di Ruccello, in «Linguistica e letteratura», XXXI, 1-
2, 2006, pp. 111-148.
20
A. Ruccello, Perché faccio il regista, cit., p. 8. Nello stesso numero di «Sipario» si ri-
porta un altro articolo di Ruccello nel quale il drammaturgo parla del diverso tipo lingua che
egli adopera rispetto a De Simone: « E poi c’è una scelta di De Simone che mi trova
d’accordo: lui ha individuato consapevolmente una comunicazione che è più fonica che con-
tenutistica. Ed i miei personaggi non comunicano mai per i contenuti, comunicano per forme e
per linguaggi. Anche se i miei linguaggi sono molto diversi da quelli di De Simone, lui tende a
un “musicale tornito” io preferisco un “musicale scassato” […] tendo molto a costruire per
linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare, e poi attorno a quel-
lo costruisco il personaggio vero e proprio». G. G, L. G. (a cura di), Ruccello una drammatur-
gia sui corpi, cit., p. 72.

38
Annibale Ruccello (1956-1986)

Inoltre, l’elemento linguistico si pone come ulteriore espressione


della collocazione provinciale dei personaggi, poiché anche il napole-
tano possiede differenti chiavi di pronunzia a seconda dell’area campa-
na in cui si vive. L’autore attinge da zone diverse dell’entroterra vesu-
viano, ma in particolare dalla sua città, Castellammare di Stabia:

Quello che sentiamo a teatro è un napoletano post-vocalico, più connesso a


una comunicazione con le vocali che con le consonanti. Io ho usato invece
un napoletano più imbastardito più Stabiese e così diventa una lingua molto
più irta, con molte più ‘doppie’. Per esempio a Napoli si dice ‘susete’ per
dire ‘alzati’, a Castellammare si dice ‘sussete’, con due ‘s’. È proprio
un’altra cosa, e alla fine, l’accumulo di queste ‘doppie’ porta a un linguag-
gio molto ‘tosto’ […]. Inoltre, questa doppiezza marca il contrasto tra
l’italiano come lingua di ‘testa’ e il napoletano come lingua di ‘viscere’21.

L’antitesi fra “lingua di testa” e “lingua di viscere” esprime quella


cacofonia, elemento vivo della cultura napoletana, non intesa come
fonte di vita da Ruccello, ma luogo costante di disgregazione e morte.
Il frastuono contemporaneo trova in Napoli la sua ideale cassa di riso-
nanza divenendo, in nome della sua dimensione stratificata, laboratorio
da cui osservare i presunti miti del presente. Ancora una volta il teatro
napoletano guarda al sociale e lo riproduce tracciandone diagnosi, mo-
strandone sintomi e realizzando un rispecchiamento immediato. Allo
stesso modo il ritorno ad un uso del napoletano ricco di formule popo-
lari e termini arcaici, caratterizzato da una durezza consonantica (che
invece il napoletano di Eduardo aveva perso nella sua trasformazione
in lingua nazionale e borghese), oltre l’attenzione rivolta ai ceti sociali
meno abbienti, colloca il teatro di Ruccello sulla scia di Raffaele Vi-
viani. Al pari dell’illustre predecessore e conterraneo22, anche il nucleo
doloroso che vive nel teatro di questo giovane autore è di matrice inti-

21
Ivi, p. 74.
22
Entrambi i drammaturghi nascono a Castellammare di Stabia (NA). Di Viviani
Ruccello apprezza: «la rappresentazione […] dell’emarginazione». Mentre di Eduardo:
«l’adesione al reale, al quotidiano.» Ivi, p. 72.

39
Se cantar mi fai d’amore...

mamente partenopea23. Nondimeno, pur riconoscendo l’azione propul-


siva di Don Raffaele, è innegabile che i personaggi di Ruccello sono
napoletani per cultura e formazione, ma i loro comportamenti estremi
sono espressione di un macrocosmo sociale più ampio24. Nell’assenza
di una drammaturgia nazionale25, la cultura napoletana diviene coacer-
vo delle mutazioni e contraddizioni che hanno investito la società nella
sua interezza, proponendosi quale prototipo delle devianze e delle insi-
die della contemporaneità. Il nostro drammaturgo non esita a chiarire la
posizione della sua generazione rispetto a quella degli autori preceden-
ti. In riferimento alla sua drammaturgia dichiara:

Si può chiamare ‘nuova’ perché in qualche modo non ha un suo rapporto


immediato, diretto con la vecchia drammaturgia tradizionale italiana […]
Allora la nostra drammaturgia è ‘nuova’ perché non parte, non si collega
alla generazione precedente dei drammaturghi italiani, quelli degli anni

23
Solo in Anna Cappelli non c’è alcun legame dei personaggi con il Meridione.
24
E in questo caso, ancor più che in precedenza, tale rapporto trova sostegno nelle anali-
si sociali condotte in quel periodo: «Migliaia di disoccupati, penuria di abitazioni e un alto
numero di alloggi in cattive condizioni, servizi sociali insufficienti e inefficaci […] sono alcuni
degli aspetti che rimangono costanti, durante gli anni Settanta […]. Questi elementi non fanno
mai di Napoli una realtà esterna e opposta alla struttura sociale del paese. La spiegazione di ciò
è da ricercare nel fatto che nella struttura sociale centrale del paese vengono immessi, attraver-
so il sistema istituzionale, i legami sociali pre-industriali partenopei, e non nell’affermarsi a
Napoli della centralità dei rapporti industriali.» Antimo Farro, Conflitti sociali nell’area di
Napoli (1970-1980), in «La Critica Sociologica», 65, 1983, p. 111.
25
Ruccello dichiara: «[…] in Italia non esiste quella che si può chiamare una dramma-
turgia nazionale, mentre in altri paesi (come Inghilterra, Germania, Francia, USA) abbiamo il
grosso autore, o i grossi autori e poi una fascia intermedia […] da noi c’è una totale assenza di
tutto ciò. Non c’è tessuto ma abbiamo degli autori isolati.» G. G., L. G. (a cura di), Ruccello
una drammaturgia sui corpi, cit., p. 70. La centralità occupata dalla drammaturgia napoletana
negli anni Ottanta viene testimoniata anche da Renzo Tian: «una germinazione spontanea di
autori, attori, registi, gruppi, progetti, come quella che questo decennio napoletano ha espres-
so, non ha riscontro in nessun altro luogo del nostro paese. E quando diciamo «luogo» di ger-
minazione non pensiamo a un luogo geografico definito, la città, la regione: ma piuttosto ad un
epicentro propulsivo, che da Napoli si propaga e si estende a una dimensione nazionale ed eu-
ropea.» Id. Il linguaggio teatrale «totale» della scena napoletana, in Il sentimento del dram-
matico, Cataloghi della Mostra La scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cin-
quecento ad oggi, a cura di Giulio Baffi, Napoli, Guida editori, 1982, p. 5.

40
Annibale Ruccello (1956-1986)

’50. Scaturisce invece assai più dal lavoro degli anni ’60 e ’70, dalla spe-
rimentazione che dalla drammaturgia tradizionale. Insomma, una genera-
zione che ha fatto una drammaturgia di regia più che di scrittura scenica,
di testo: una drammaturgia sui corpi. […] e per noi, che ci consideriamo
in qualche modo l’avanguardia degli anni ’80, c’erano due strade: una era
quella intrapresa dalla ‘Nuova spettacolarità’ che portava alle estreme
conseguenze il discorso d’un tipo di teatro di immagine e di suoni. La se-
conda era quella di ritorno ad una narrazione […]. Da qui la giustifica-
zione del termine ‘drammaturgia’26.

In quest'approccio alla lingua di scena il nostro drammaturgo si


collega idealmente ad un filone internazionale che comprende Ber-
nhard Marie Koltès in Francia (ma prima ancora Genet e Sarte) e Rai-
ner Werner Fassbinder in Germania. Drammaturghi che si caratterizza-
no per il comune desiderio di re-inventare la lingua di scena affinché
diventi espressione fedele del malessere che vive nelle proprie culture
d’appartenenza. Il disperato tentativo di una comunicazione autentica-
mente umana da parte di un immigrato nordafricano con un ragazzo
sconosciuto incontrato in una notte di pioggia in La notte poco prima
della foresta, che Koltès27 scrive nel 1977, riflette drammaticamente la
solitudine, la collocazione marginale e la disperazione che accompa-
gnano la breve parabola di Jennifer. Parimenti, l’Adriana di Notturno di
donna con ospiti sembra spinta dallo stesso anelito “romantico” che in-
duce la Geeshe di Libertà a Brema (1971)28 di Fassbinder a sterminare

26
G. G., L. G. (a cura di), Ruccello una drammaturgia sui corpi, cit., p. 70. In tempi
recenti anche Enzo Moscato ha voluto chiarire la distanza fra il teatro di Ruccello e la
drammaturgia degli anni Settanta: «…nonostante quanto pensino e scrivano i censori, va-
riamente colorati, […] non c’è paragone alcuno, né continuità alcuna, che si possa stabilire,
tra l’assoluta e crudele innovazione immaginaria dei “thrillings” o gialli “Kammer-spielen”
di Annibale Ruccello e la medio-anonima produzione teatrale-grammatologica, napoletana
e nazionale, nata nella cosiddetta età di mezzo, cioè dal dopoguerra fino alla fine degli anni
Settanta…» Id., Lingue del teatro, Teatri delle lingue, in «QDLF- Studi», 2006, p. 94.
27
Rappresentata per la prima volta nel 1977 al Festival Off di Avignon, l’opera è ora
contenuta in Bernard Marie Koltès, Il ritorno al deserto e altri testi, Milano, Ubulibri, 1991.
28
Libertà a Brema viene pubblicato per la prima volta in Italia su «Sipario», 396,
1979, pp. 70-80. Il testo è ora raccolto in R. W. Fassbinder, Antiteatro II, Milano Ubulibri,

41
Se cantar mi fai d’amore...

la sua famiglia. Perché il desiderio di vita di queste due madri possa re-
alizzarsi, perché possano affrancarsi dal ruolo di animale domestico è
d’obbligo la morte dei propri cari (figli, marito, amante) totem monoli-
tici di una società opprimente e come tale elementi inibitori della pro-
pria felicità. Ma si avvertono rimandi anche a un certo teatro della sen-
sualità statunitense, ossia quello di Tennessee Williams. I testi di en-
trambi i drammaturghi appaiono intrisi di nostalgia per una realtà con-
tadina meridionale e antica, compromessa dai problemi di una civiltà
industriale. Il personaggio principale delle commedie di Williams, la
donna single, alcolizzata e (talvolta) ninfomane, espressione nostalgica
di un mondo irrecuperabile (fra tutte, vedi la Blanche di Un tram chia-
mato desiderio), rappresenta una considerevole base per le figure fem-
minili di Ruccello, anch’esse dilaniate da impulsi indecifrabili che ne
alterano il comportamento sociale. Talvolta anche le menomazioni fisi-
che divengono momento d’incontro, accade in Week-end dove la zop-
pia di cui soffre Ida è la stessa mostrata da Laura in Zoo di vetro, dive-
nendo in entrambi i casi pretesto per auto-emarginarsi dal mondo. Ma
sono presenti nelle opere di Ruccello anche suggestioni provenienti
dalla drammaturgia americana più recente. Quando, nel 1964, Lanford
Wilson presenta al Caffè Cino di New York The Madness of Lady
Bright, egli propone un personaggio che sarà largamente adottato da al-
tri autori americani contemporanei: il Travestito29. Pur essendo già ap-
parso sui palcoscenici statunitensi diversi anni prima con due comme-
die scritte dall’attrice Mae West The Drag (1927) e The Pleasure Man
(1928), nel suo essere intesa ormai come figura pansessuale, il Trave-
stitoincarna gli aneliti politico-sociali degli anni Sessanta, divenendo
veicoli di libertà, parità sociale, emarginazione e solitudine. Elementi

2002. Altri riferimenti a questo testo sono presenti nel paragrafo su Notturno di donna con
ospiti. Fassbinder si ispira per la sua protagonista ad una donna realmente esistita a Brema.
Arrestata nel gennaio del 1929, Geeshe venne condannata a morte per aver ucciso circa
quindici persone, in larga parte parenti: mariti, figli, padre e fratello.
29
Si pensi agli spettacoli alleastitida John Vaccaro, sempre al Caffè Cino, con la Ridi-
culus Theatrical Company: The Life of Lady Godiva, Screen Test, Indira Gandhhi’s Darng
Device (tutti dal 1966 e scritti da Ronald Tavel). Nonché ai testi di Charles Ludlam: Turds
in Hell (1969), Bluebeard (1970), e di Kenneth Bernard: The Moke-Eater (1968), Night
Club (1970), The Sixty Minute Queer Show (1977).

42
Annibale Ruccello (1956-1986)

questi che, evidentemente, riaffioreranno nell’ordito drammaturgico de


Le cinque rose di Jennifer.
Ci sono, poi, i drammaturghi anglosassoni ai quali lo stesso Ruc-
cello fa riferimento: «[…] Pinter, Orton, Brenton, Hare, Keeffe»30. Nel-
le opere di questi autori egli sembra trovare spunti in grado di nutrire la
sua scrittura. Dal Keeffe di Gimme Shelter (1977) e Barbarians (1977)
assorbe l’idea della periferia come laboratorio sperimentale in cui si
manifestano quei mutamenti culturali che presto invaderanno la grande
città (oltre l’uso di una lingua colloquiale ricca di imperfezioni tanto
semantiche quanto grammaticali)31. A sua volta, l’avvento in casa e il
successivo scontro tra Ed e Kath su chi dei due debba godere dei favori
del giovane ed efebico Sloane (dopo che quest’ultimo ha ucciso il loro
padre) in Entertaining Mr Sloane (1964) di Orton trovano riscontro
nella trama di Ferdinando32. Così come la funzione di personaggi e-
sterni quali elementi che contribuiscono significativamente a quell’im-
pennata della pressione psicologica, causa prima dei finali tragici in
Ruccello, riportano alla mente le atmosfere di alcuni drammi di Pinter
(in particolare The Birthday Party e The Homecoming)33. Ma le cita-
zioni, i riferimenti, consapevoli o meno, punteggiano l’intera opera di
questo autore, divenendo un po’ alla volta cartina di tornasole della

30
Annibale Ruccello, Perché faccio il regista, cit. p. 8.
31
I testi sono ambientati a Lewisham, quartiere-sobborgo alle porte di Londra. Le
opere sono raccolte in Barrie Keeffe, Plays:1, London, Methuen, 2001.
32
Esemplare il dialogo tra fratello e sorella che conclude il testo:
ED You have had him six months; I’ll have him the next six. I am not robbing you of
him permanently.
KATH Aren’t you?
ED No question of it. (Pause). As long as you are prepared to accept the idea of
partnership.
ED Tu l’hai avuto per sei mesi; io l’avrò per i prossimi sei. Non te lo porto via per
sempre.
KATH No?
ED Certo che no. (Pausa). Fintanto che tu sei preparata all’idea di condividerlo.) Joe
Orton, Entertaining Mr Sloane, in The complete Plays, London, Methuen, 1976, p. 148. Al-
tre similitudini fra i due testi sono presenti nel paragrafo su Ferdinando.
33
È pur vero che l’ambiguità di Pinter è di natura ontologica, mentre in Ruccello ha
un fondamento onirico.

43
Se cantar mi fai d’amore...

progressiva maturità espressa dalla sua scrittura. Non a caso, fra gli e-
lementi che rendono così difficilmente resta il drammaturgo stabiese
catalogabile nel panorama teatrale italiano, va sottolineata la sua “di-
scontinuità”, ossia il persistente rivendicare una propria libertà di narra-
tore verso canoni precedentemente intrapresi. Tutto il suo opus dram-
maturgico ne è testimonianza. La fase di apprendistato in cui collabora
con Guida mostra una forte influenza di De Simone. Sembra che il re-
cupero della tradizione popolare campana e la matrice antropologica
siano elementi cardine del suo narrare, eppure di lì a poco lo spettro
d’analisi si amplia passando ad operazioni “meno partenopee” come I
gingilli indiscreti ed Ipata, opere nelle quali appaiono i primi turba-
menti sul proprio presente storico che ancor più convintamente si mate-
rializzeranno ne Le cinque rose di Jennifer. Ma subito dopo Ruccello,
tornando a lavorare con Guida, sceglie registri diversi operando un a-
dattamento in chiave umoristica de L’ereditiera (che porta con sé anche
un ritorno temporale ai primi del Novecento). Seguono due momenti di
profonda analisi del proprio presente storico, Notturno di donna con
ospiti e Week end (ed a suo modo rientra in questa fase anche
l’adattamento de La ciociara). La critica incomincia a riconoscere a
Ruccello un ruolo di profondo indagatore del proprio tempo, ma ancora
una volta egli cambia direzione compiendo un balzo all’indietro, non
solo di natura temporale ma ancor più di natura linguistica e così, in un
momento in cui altri gruppi teatrali partenopei abbandonano Napoli (e
la sua lingua), Ruccello scrive Ferdinando, un testo in napoletano
dell’Ottocento dove la lingua figura come protagonista assoluta della
storia34. Ciò che risulta interessante notare a questo punto è come i
molti riferimenti letterari contenuti nella trama (Proust, Pirandello,
Lorca, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Orton) non subordinano più
la scrittura, al contrario vengono magistralmente inglobati nel tessuto
narrativo. Il palcoscenico partenopeo, scenario e luogo di culto dell’im-
maginario collettivo, è divenuto crogiuolo in grado di contenere e rein-
terpretare aneliti internazionali.

34
Si potrebbe citare anche Mamma. Piccole tragedie minimali, ma va ricordato che il
testo è composto in larga parte da monologhi provenienti da suoi testi precedenti.

44
Annibale Ruccello (1956-1986)

Sopraggiunge la morte, rimane l’adattamento de La fiaccola sotto


il moggio, espressione di una continuità (se non altro temporale con
Ferdinando), ma soprattutto viene allestito un inedito: Anna Cappelli;
tragedia in forma di monologo, ispirata ad un fatto di cronaca, dove di
Napoli non c’è traccia, né linguisticamente, né culturalmente. Ancora
una volta Ruccello aveva intrapreso una nuova direzione.

45
Un primo esperimento:
Il rione

Ambientato in un quartiere della sua Castellammare, in un arco


temporale che va dal cinque dicembre al giorno di Natale, Il rione1
rappresenta il primo copione teatrale di Ruccello. La collocazione ur-
banistica e l’appartenenza sociale dei personaggi (espressione del lum-
penproletariat locale) fanno di Viviani il riferimento guida nella com-
posizione del testo. Don Raffaele, per primo, intende i luoghi pubblici
come zone d’interferenza dove i personaggi, spesso individui soli, in-
trecciano rapporti di complicità e di solidarietà. La comunità della stra-
da diventa la vera famiglia per le sue figure, espressione di un proleta-
riato marginale che occupa per intero la scena, lasciando la classe bor-
ghese ai margini:

SCENA PRIMA: ANNANZE A NU VASCIO

[…] La piazzetta del quartiere più malfamato di Castellammare. Oltre la


piazza un vicolo, incorniciato da un arco stretto, buio. Dalle porte dei
bassi che si affacciano sulla strada, esce, fioca, la luce. A destra, quasi sul
proscenio, una piccola rampa di scale porta ad una casupola dalle imposte

1
Il testo viene scritto nel 1973 per, poi, essere depositato in SIAE il 29 dicembre 2004
quando compare in Annibale Ruccello, Scritti inediti. Una commedia e dieci saggi. Con un
percorso critico di Rita Picchi, Roma, Gremese Editore, 2004, pp. 52-109. La commedia
non è stata ancora allestita.

47
Se cantar mi fai d’amore...

sprangate: è l’unica chiusa, se si escludono le finestre e i balconi del pa-


lazzo che s’intravede in fondo nel vicolo oltre l’arco; […] Al proscenio di
sinistra una casa che chiude la scena, con due porte aperte spalancate, a
mostrare un letto sfatto, un lavandino, degli asciugamani2.

Ma da Viviani deriva anche la tecnica di scrittura. L’illustre prede-


cessore compone grandi affreschi sociali3 laddove le dinamiche narra-
tive dei suoi testi non vengono definite da un singolo protagonista, ma
da una coralità di figure. Allo stesso modo, si ritrova nel copione di
Ruccello un carosello di personaggi ritratti nella loro quotidianità e re-
sidenti nello stesso rione. Questo gruppo contiene in sé due tipologie di
figure. Alla prima appartengono quante, seppur “minori”, risultano
funzionali nel definire le atmosfere della commedia, ad esempio: gli
operai intenti a costruire «l’aldaro per l’Ammaculata»4, Pasquale, aspi-
rante malavitoso di quartiere («Ci si legge subito in viso che è senza i-
struzione, senza arte né parte»)5, Carmela la fruttivendola, le bizzoche,
Cleofe (amante di Pasquale) con la figlia Mariuttella che «ha un aspet-
to straordinariamente antipatico»6. Alla seconda tipologia appartengo-
no “i protagonisti”, individui le cui esistenze sembrano essere accomu-
nate da una profonda malasorte. Ne sono espressione Rosanna e Brigi-
da, prostitute di scarso successo. Nel loro vivere in strada è contenuto il
fallimento di tutte le altre donne del rione:

ROSANNA […] Nun ce stà nu vascio, ’na famiglia ca nu’ tene ’o piec-
co. E se nu’ fanno ’e bonecrestiane fanno ’e cuntrabbenne-

2
Il rione, p. 52. Si noti che anche l’intestazione delle scene è in dialetto: SCENA PRIMA:
ANNANZE A NU VASCIO (davanti a un basso), ivi, p. 52. In precedenza solo Eduardo era arri-
vato ad una tale mimesi con il napoletano: «’O vascio ’e donn’ Amalia Jovine» Id., Napoli
milionaria!, Torino, Einaudi, 1979, p. 5.
3
Vedi (solo per citarne alcune): ’O vico, Tuledo ’e notte, ’Mmiezo ’a ferrovia,
’Nterr’’a Mmaculatella, Porta Capuana, ’O cafè ’e notte e gghiurno, Eden Teatro, ’O Spo-
salizio, Circo Equestre Sgueglia. Cfr: Raffaele Viviani, Teatro, a cura di Guido Davico Bo-
nino, Antonia Lezza, Pasquale Scialò, Napoli, Guida editori, 1987-1991.
4
L’Altare per l’Immacolata. Il rione, p. 67.
5
Ivi, p. 66.
6
Ivi, p. 62.

48
Il rione

re, ’e marite arrobbano, accirono, stanne ’ngalera. Forse è


stata ’a guerra: accussì diceno tutte quante, e allora accussì
adda essere7.

Nel secondo atto si unisce loro l’ex collega Nannarella. Da qualche


anno la donna aveva lasciato il quartiere e la professione e si era trasfe-
rita in una zona nuova della città, inseguendo un desiderio di migliora-
mento sociale. Ma, caduta in malattia, comprende il profondo stato di
solitudine in cui il nuovo quartiere l’ha emarginata:

NANNARELLA […] Po…venette ’a malatia, ’o ’spitale. Quinnece jurne


senza ca me veneva a truvà nisciuno: sola comme ’na ca-
ne.[…] E accussì aggio accuminciate a penzà a vuie, ’o
quartiere, ll’amiche; m’aggio sentuto ’o scunforto ’e conti-
nuà a luttà, a combattere, e forze aggio penzato che era
meglio ca turnavo a ffà ’a vita ’e primma: cchiù pezzente
forze, ma cchiù felice8.

C’è poi Catello9, mite padre di famiglia che, dopo aver perso il la-
voro, ha sviluppato una filosofia di vita tutta sua: “ ’a rassegnazione”10.
Questo personaggio rivela un secondo nume guida nella scrittura del
testo: De Filippo. I riferimenti a Natale in casa Cupiello e a Questi fan-
tasmi sono evidenti fin dalla prima scena in cui Catello esordisce la-
mentando la pessima qualità del caffè mattutino di sua moglie Teresa:

7
Non c’è basso o famiglia che non abbia un problema. E se non fanno la vita fanno il
contrabbando, i mariti rubano, uccidono, stanno in prigione. Forse è stata la guerra: così di-
cono tutte, e allora così deve essere. Ivi, p. 71.
8
Poi venne la malattia, l’ospedale. Quindici giorni senza nemmeno una visita: sola
come un cane.[…] E così ho incominciato a pensare a voi, al quartiere, alle amiche; mi è
mancata la forza di continuare a lottare, a combattere, e forse ho pensato che era meglio se
tornavo a fare la vita di prima: più povera forse, ma più felice. Ivi, p. 90.
9
Da notare che il personaggio porta il nome del Patrono di Castellammare di Stabia
(San Catello), città di Ruccello. Inoltre questo nome tornerà ancora in Ferdinando nel per-
sonaggio del sacerdote (Don Catello).
10
Il rione, p. 75.

49
Se cantar mi fai d’amore...

CATELLO Terè, t’aggio ditto ciente vote ca io ’o ccaffè ’o vaco tru-


vanne frisco ’a matina; e caldo, vullente. Invece chist’è ’a
posa ro ccafè ’e aiere mmatina e in più è friddo! O putive
scarfà’ nu poco, perlomeno […]
TERESA (Scatta inviperita) Catiè, mò pure tu te ce miette. A me, ro
cafè tuoio, nu’ me ne fotte proprio; friddo, cavero, t’’o bive
comm’è, e si no, t’’o vaie a piglia’ a ’o bar. A chi vuò’
ammuscia’ pure tu, c’’o ccaffè a primma matina!
[…]
CATELLO […] No (a Teresa) ma sai che è. Ca chella ’a vita già è
chella che è, se po’ ce lieve pure chelli poche soddisfazioni
che t’arrumaneno, che ce campe a ffa’? Chelle ’a meglia
cosa da ’a jurnata è o primmo ccafè. (rivolto anche agli al-
tri) sarà un luogo comune di noi napoletani ma overamente
si io ’a matina nun me piglio chella tazzulella ’e cafè, pare
ca nun songo io; nun saccio, te scite ca’ a vocca tutta impa-
stata, secca, e chillu surzo ’e cafè, chillu surzo ’e rrobba
cavera pare ca te dice: buongiorno; te si scetate stuorto
stammatina? Vuene accà t’acconc’io![…]11

E ancora Natale in casa Cupiello torna nel solitario attaccamento


di questo personaggio alla tradizione del Presepe:

11
CATELLO Teresa, ti ho detto cento volte che io, la mattina, il caffè lo desidero fresco;
e caldo, bollente. Invece questo è avanzo di caffè di ieri mattina e in più è freddo! Lo potevi
almeno riscaldare un po’ […]
TERESA (Scatta inviperita) Catello, adesso ti ci metti pure tu. A me, del tuo caffè non
importa niente; freddo, caldo, te lo bevi com’è, e sennò, te lo vai a prendere al bar. A chi
vuoi annoiare pure tu, con questo caffè ad inizio giornata!
CATELLO […] NO (a Teresa) ma sai cos’è. La vita è già è quella che è, se poi ci togli
pure quelle poche soddisfazioni che ti rimangono, a che serve vivere? La cosa più bella del-
la giornata è il caffè alla mattina. (rivolto anche agli altri) sarà un luogo comune di noi na-
poletani ma veramente se io la mattina non bevo quella tazzina di caffè, non mi sento in me;
non so, ti svegli con la bocca tutta impastata, secca, e quel sorso di caffè, quel sorso di roba
calda sembra che ti dica: buongiorno; ti sei svegliato nervoso stamattina? Vieni qua che
t’aggiusto io![…]. Ivi, pp. 60-61.

50
Il rione

CATELLO E chello pure a me, si fosse pe’ muglierema e pe’ i figli miei,
manco se facesse niente. Ma io no, ce songo attaccato a cierti
ccose. A’ casa mia s’è fatto sempre ’o presebbio, e si nu Na-
tale n’’o facesse, me paresse nu malaurio. Loro nun se ne
’mportano niente, ma a me me serve pe tenè na speranzella,
nu poco ’e alleria, pe penzà ca ce sta ancora quacche cosa
dinto, ca nun simmo diventate indifferenti interamente12.

Nel secondo atto, Angelina si rivela colpevole di aver praticato, di


nascosto, l’antica professione. Le molte visite ad un amica che abita a
Napoli erano, in realtà, pretesti per offrirsi a uomini danarosi. I nodi
vengono al pettine il giorno di Natale:

PASQUALE (buttandosi su una sedia) ’A conosce meza Napule! ’A san-


no tutte quante! Sta fetente, ’a vi’, quanno riceva ca ghievva
a truvà l’amica, jeve passianno ’ncoppe ’e marciappiere ’e
Chiaia! E se ne arracuglieva clienti! STRONZAA!13

Toccherà a Catello (in un finale con altri rimandi al Gennaro Jovi-


ne di Napoli milionaria!) accogliere la ragazza redenta:

CATELLO […] E mo viene accà a papà (Angelina si getta nelle braccia


del padre, scoppiando finalmente in lacrime) Ja’, e mo nun
fa’ accussì! Va’ bell’e papà, n’è stato niente, n’è stato. Ave-
va j’accussì. E puverielle nisciuno mai ll’aiuta, s’hanna aiutà
cu ’e mane lloro, si debbono far forza da soli. Ma non vince-

12
CATELLO E certo, se dipendesse da mia moglie e dai miei figli, non si farebbe niente.
Ma io no, ci sono affezionato a certe cose. A casa mia si è fatto sempre il presepe, e se un
Natale non si facesse, mi sembrerebbe di cattivo augurio. A loro non importa niente, ma a
me serve per conservare una piccola speranza, un po’ di allegria, per pensare che abbiamo
ancora qualcosa dentro, che non siamo diventati del tutto indifferenti. Ivi, p. 74.
13
PASQUALE La conosce mezza Napoli! La conoscono tutti! Questa lurida, quando di-
ceva che andava a far visita all’amica, andava a passeggiare sui marciapiedi di Chiaia! E ne
raccattava di clienti! STRONZAA! Ivi, p. 99.

51
Se cantar mi fai d’amore...

ranno mai, non saranno mai cchiù forte r’’e sorde.


C’avimma rassignà14.

Certo, i riferimenti a Viviani e De Filippo risultano tanto numerosi


quanto dichiarati, ma non bastano a denotare una subalternità di Ruc-
cello verso questi drammaturghi, siamo, infatti, in una fase di puro ap-
prendistato, la lezione dei padri non è stata ancora metabolizzata.
Chiude il quadro dei “protagonisti” Don Aurelio. Incapace d’af-
frontare la vergogna derivante dalla scoperta della sua “doppia” vita da
parte degli altri abitanti del rione, Aurelio, marito esemplare, si spegne
il giorno di Natale:

AURELIO Aurelio De Simone ha vuluto ra’ ’a gente ’na faccia faveza,


ca nunn’erra ’a soia! Se crereva ’e fa’ fessa ’a gente, ma ’a
gente è stata cchiù deritta ’e isso! S’è saputo ’o stesso! ’O
sape tutt’ ’o rione! M’ l’hanno ritto, m’ll’hanno rinfacciato,
comme si avesse maie rato fastidio io a lloro!15

Altra nota caratteristica del testo è la lingua di scena. Non siamo


ancora all’elaborazione linguistica dei lavori futuri, ma appare indicati-
vo che l’autore scelga per il suo primo copione teatrale il dialetto della
sua città. Quasi tutti i personaggi si esprimono in stabiese, tranne pochi
di cultura più elevata che, per sottolineare le distanze sociali, fanno ri-
corso ad un italiano standard (come già avveniva in Viviani). Ne è e-
sempio il personaggio di Aurelio, ecco come si rivolge a Brigida:

AURELIO (sbrigativo) Signorina; non si tratta di superbia. Si tratta

14
CATELLO Adesso vieni qua, da papà. Non fare così. Dai bella di papà non è successo
niente. Doveva andare così. I poveri non li aiuta mai nessuno, devono aiutarsi con le proprie
mani, si debbono far forza da soli. Ma non vinceranno mai, non saranno mai più forti dei
soldi. Dobbiamo rassegnarci. Ivi, p. 101.
15
Aurelio De Simone ha voluto dare alla gente una faccia falsa, che non era sua! Crede-
va di prendere in giro gli altri, ma la gente è stata più furba di lui! Si è saputo lo stesso! Lo sa
tutto il rione! Me l’hanno detto, me l’hanno rinfacciato, come se io avessi mai dato fastidio a
loro. Ivi, p. 105.

52
Il rione

che voi siete di scorno al rione, si tratta che la gente per


colpa vostra pensa che siamo tutti quanti come voi, che pu-
re noi facciamo mettere sulle strade le nostre sorelle, le no-
stre figlie…le nostre mogli16.

Alcuni dei personaggi citati risultano veicoli profetici attraverso i


quali l’autore lascia affiorare problematiche che sceglierà di approfon-
dire maggiormente nei drammi successivi. Quel senso di alienante soli-
tudine patito da Nannarella sarà lo stesso sofferto da Jennifer, Adriana,
Ida e Anna. Vedremo come queste donne, reagendo ad un comune sen-
so di brutale alienazione, arrivano a compiere atti clamorosi. Allo stes-
so modo l’omosessualità di Don Aurelio non rimarrà un caso isolato.
Come espressione di una doppia identità, soccombente nel suo essere
causa di menzogna, l’omosessualità tornerà come elemento caratteriz-
zante anche del Don Catellino di Ferdinando, e ancora una volta de-
terminerà la morte del personaggio. Ed è proprio la morte, un altro te-
ma ruccelliano su cui è opportuno riflettere poiché, sebbene già varia-
mente presente nei testi composti fino al 1980, diverrà costante epilogo
delle sue trame da Le cinque rose di Jennifer in poi17. La morte soprag-
giunge in scena attraverso varie modalità. Può essere auto procurata
poiché atto liberatorio da una sofferenza indicibile (vedi Jennifer) o in-
ferta ai propri cari, quale atto finale di un percorso tanto intimo quanto
delirante (Notturno di donna, Anna Cappelli) o, ancora, sognata/imma-
ginata (Week-end) e, infine, condizione necessaria in una lotta di sensi
(Ferdinando). Ma di certo, la morte interviene come naturale esplosio-
ne catartica ad opera di individui che patiscono profondamente le ma-
glie, fin troppo strette, del proprio contesto sociale, diventando momen-
to di una liberazione beffardamente illusoria.

16
Ivi, p. 70.
17
Già nel suo primo saggio Il sole e la maschera Ruccello rileva il legame profondo
tra il mondo dei morti e la rappresentazione popolare del Natale restituita dal Presepe. Id., Il
sole e la maschera, Napoli Guida editori, 1978, pp. 221-231. Inoltre, la presenza di un buon
numero di titoli sulla morte, trovati nella biblioteca dell’autore, conferma l’interesse di
Ruccello su questo argomento. Si va da Morte e pianto rituale nel mondo antico di Ernesto
De Martino ad Antropologia della morte di Louis Vincent Thomas e I vivi e la mor-
te:Saggio sulla morte nei paesi capitalistici di Jean Ziegler.

53
Crogiuolo di una drammaturgia in divenire:
La cantata dei pastori

Dopo aver condotto studi di antropologia culturale successivamen-


te confluiti nel saggio Il sole e la maschera, Ruccello affronta la prima
tappa della sua rivalutazione critica dello sterminato patrimonio cam-
pano, rielaborando per la scena la seicentesca Cantata dei pastori1 di
Andrea Perrucci (1651-1704)2. Partendo dai diversi registri che fin

1
Le rappresentazioni di questo spettacolo sono intervallate dalle due versioni de
L’osteria del melograno. La prima versione della Cantata debutta a Castellammare di Sta-
bia al teatro Salesiani il 23 dicembre 1976. Nel cast figurano, fra gli altri, lo stesso Ruccello
(Razzullo), Lello Guida (Giuseppe), Dora Romano (Gabriel, in osservanza alla tradizione
che vuole questo personaggio interpretato da una ragazza), Vanni Baiano (Ruscellio), Mi-
chele Di Nocera (Sarchiapone) e Francesco Autiero (Belfegor). Segue, fra il 1977 e ’78, il
debutto alle Terme di Castellammare della versione in tre atti de L’osteria. Poi una seconda
ripresa della Cantata (l’unica depositata in SIAE con data 19 ottobre 1978) in una versione
più arricchita musicalmente al Teatro Dehon di S. Antonio Abate (NA) ed infine una ver-
sione in due atti de L’osteria.
2
Usando lo pseudonimo Dottor Casmiro Ruggiero Ogone, Perrucci pubblica il testo
nel 1698 con il titolo Il Vero Lume, tra l’Ombre overo La Spelonca Arricchita per la Nasci-
ta del Verbo Umanato. Di nascita palermitano, Perrucci si trasferisce a Napoli all’età di otto
anni, dopo la peste del 1656. Qui studia Grammatica presso i Padri Gesuiti, Filosofia presso
i Domenicani e successivamente Giurisprudenza, laureandosi nel Collegio Napoletano dei
Dottori in Diritto Canonico. Nel 1699 pubblica il trattato Dell’arte rappresentativa preme-
ditata, ed all’improvviso. Un’opera di particolare rilevanza poiché si propone quale primo
studio dell’arte della recitazione. Cfr. Mariano d’Amora, Viaggio verso l’attore, Roma,
Bulzoni, 2007, pp. 36-37.

55
Se cantar mi fai d’amore...

dall’inizio appaiono ne La cantata, cultura scritta e cultura orale, sacro


e profano, angelico e demoniaco, italiano e napoletano, l’autore stabie-
se ne evidenzia altri che in seguito ritroveremo disseminati lungo tutto
il suo iter drammaturgico: travestitismo e morte, reale e onirico, follia e
sanità mentale.
L’azione ha luogo nella campagna di Betlemme dove Giuseppe e
Maria vagano alla ricerca di un alloggio. Gli ostacoli messi in campo
da Belfegor per impedire la nascita del Messia sono vanificati
dall’intervento dell’Arcangelo Gabriel (qui nell’inedita veste di angelo
guerriero rimandando più specificamente alla figura di San Michele).
Nel loro peregrinare i due coniugi s’imbattono in una serie di perso-
naggi espressione della tradizione napoletana collegata al Natale: il vec-
chio pastore Armenzio e suo figlio Benino, il pescatore Ruscellio e il
cacciatore Cidonio. Ma soprattutto c’è Razzullo che, giunto in Palestina
da Napoli, si ritrova al centro di innumerevoli peripezie3. È questa l’uni-
ca figura del testo ad esprimersi in napoletano (fino all’avvento di Sar-
chiapone), rappresentando negli intenti iniziali del Perrucci un malizioso,
quanto incompiuto anello di connessione con il popolo partenopeo, la
maschera con cui identificarsi attraverso una contaminazione di teatro,
musica e lingua 4. Il contesto storico in cui l’opera va ad inserirsi è quello
della Napoli della Controriforma, momento in cui la cultura ecclesiastica
tenta di soggiogare i ceti subalterni per meglio affermare il proprio do-
minio di classe. La città era stata culla di un humus comico molto fertile
fin dalla seconda metà del ’500, producendo zanni di successo, fra i quali

3
Una volta i diavoli lo legano ad un albero per ucciderlo, un’altra volta lo fanno nau-
fragare durante una tempesta in un’imbarcazione troppo esile, poi gli scagliano contro un
drago volante che vomita fuoco e fiamme.
4
Ruccello scrive: «Ma se la presenza di Razzullo come “maschera” era necessaria alla
rappresentazione, bisognava però renderla inoffensiva e piegarla alle esigenze mistificanti
del teatro gesuitico. E così nell’azione teatrale del Perrucci, Razzullo, da maschera di Largo
Castello viene promosso scrivano divenendo così uno di quei «tipi napoletani» di cui
[…]abbondava il teatro gesuitico. Inoltre gli si nega qualsiasi secondo zanni o alter-ego con
cui dialogare e lo si costringe in una recitazione senza lazzi, ove il lazzo, che era appunto ti-
pico della commedia dell’arte, poteva permettere proprio la denuncia di quelle scottanti re-
altà psicologiche e sociali che il nostro autore tendeva a negare.» Id., Il sole e la maschera,
cit., pp. 48-49.

56
La cantata dei pastori

Cola, Coviello, Pascariello, Giancola, oltre che capitani famosi, da “Ma-


tamoros”, interpretato da Fiorillo, a “Coccodrillo”, interpretato da de
Fornaris. L’intento teorico di Perrucci è promuovere la nascita di un tea-
tro che sia espressione di valori più edificanti rispetto a quanto visto nelle
piazze ad opera delle maschere vaganti della Commedia dell’Arte, gene-
re teatrale reo di immoralità ma soprattutto significativa espressione della
cultura popolare. Tuttavia come Ruccello nota:

[…] nel tentativo di recuperare quanti più motivi possibili ai fini di una
successiva deformazione in chiave bigotta e reazionaria, il Perrucci invo-
lontariamente offrì l’opportunità alle classi popolari campane per una
continua trasgressione del testo e per un autentico trionfo delle istanze
più decisive della cultura tradizionale. Evidentemente i segni utilizzati
avevano una tale forza intrinseca e venivano estratti da una cultura tal-
mente radicata, che qualsiasi tipo di operazione che non fosse tesa alla
riaffermazione di questa, doveva comunque fallire5.

L’autore stabiese s’accosta al testo cercando di cogliere le varie a-


nime che ne compongono la tessitura drammaturgica. Ne deriva:

un canto a tre voci: Perrucci (il barocco, la controriforma, la storia in


quanto violenza), la dimensione popolare (segni di culture millenarie,
apparente astoricità, il mito, il rito, la sopraffazione subita, la denunzia
mascherata) noi (in quanto operatori culturali e teatrali oggi, con la nostra
storia, cultura, bagaglio esperienziale ed emozionale)6.

Nel Sole e la Maschera, Ruccello aveva già dimostrato come il co-


pione originale, più volte modificato nell’arco di tre secoli, fosse riusci-
to ad affrancarsi dall’alveo dell’ortodossia cattolica confluendo
nell’ambito della teatralità popolare campana, grazie alla contamina-

5
Annibale Ruccello, programma di sala de La cantata dei pastori, Castellammare di
Stabia, Tip. Fedeli, (anno non indicato), p. 3. Storiche rivisitazioni del testo perrucciano so-
no contenute in Roberto De Simone, La Cantata dei pastori, Torino, Einaudi, 2000.
6
Ivi, p. 6.

57
Se cantar mi fai d’amore...

zione con canovacci della tradizione, fino a diventare una delle più sen-
tite manifestazioni partenopee collegata alle festività natalizie, con re-
pliche dal 24 dicembre al 6 gennaio7. La figura che maggiormente te-
stimonia l’incontro fra verso barocco e canovacci popolari è quella di
Sarchiapone. Assente nella versione originale del Perrucci, questo per-
sonaggio viene inserito nel testo agli inizi del Settecento, rappresentan-
do, con Razzullo, il punto di confluenza delle istanze culturali ed emo-
tive di una popolazione da sempre oppressa e repressa, qual è quella
partenopea8. La comune origine fa sì che i due personaggi, pur trovan-
dosi nel bosco di notte, si riconoscano immediatamente (generando
immediati lazzi e risate):

(si toccano di spalle, si girano, si riconoscono).


RAZZULLO Spireto fatte arrasso!
SARCHIAPONE ’Nfizzate ’ncuorpo ’o contrabbasso!
RAZZULLO Spireto maiurino!
SARCHIAPONE ’Nfizzate ’ncuorpo ’o viulino!
RAZZULLO Bello be’!
SARCHIAPONE Brutto bru!
[…]

7
Nel racconto di Benedetto Croce spettatore della Cantata, troviamo conferma delle
contaminazioni avvenute: «L’ultima volta che vi ho assistito è stata nello scorso anno 1888,
nel teatro della Fenice, dove era preceduto da un goffo prologo in versi, zeppo di spropositi
e non certo lavoro dell’abile Perrucci, nel quale compariva Plutone, che con le quattro “Fu-
rie”, Asmodeo, Belfegor, Astaroth e Belzebù, deliberava di opporsi all’opera della Reden-
zione». Id., I Teatri di Napoli, Milano, Adelphi, 1992, p. 133. Inoltre, il radicamento popo-
lare dell’opera trova riscontro anche nella composizione del cast artistico, formato da attori
non identificabili mediante un cognome ma solo attraverso un soprannome con il quale ri-
sultavano noti all’anagrafe popolare: «[…] la Madonna poteva essere «Nannina ’a buvare-
se»; San Giuseppe: «Ciciarotto d’’e beduine» oppure «Zi’ Tore d’’o Pennino»; il cacciatore
poteva essere «Tonino d’aglietiello», «Cenzeniello palla-’argiento », «Arpino ’e truppicel-
la», mentre il pescatore Ruscellio era «Mariettiello pesce d’oro» oppure «Gennariello sette-
capocchie» […] e via discorrendo» R. De Simone, La Cantata dei pastori, cit., p. XIII.
8
Cfr. Vittorio Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida editori, 1969, p. 222.

58
La cantata dei pastori

SARCHIAPONE A te chi t’ha sgravetiato?


RAZZULLO Io songo nato a Napule!
SARCHIAPONE Vattenne cane ’e presa!
’e chesta brutta gente nun ce stanno allu paese!
Tu tiene ’a cora arreta e si’ scigna giapponese!
RAZZULLO Pecchè nun fosse e Napule?...
SARCHIAPONE Vattè te si’ sbagliato!
Quantu maie Napule sti scuorfane ha cacciato! […]
RAZZULLO Vallà! Và muore ’e subbeto, parl’isso…’e chi t’he nato!
’a quanto ‘a gente a Napule so’ pure scartellate?
SARCHIAPONE Nuie simmo sette frate e io songo ‘o cchiù bellillo!
RAZZULLO E l’ate pure teneno ‘o scartiello?
SARCHIAPONE Sicuro!
[…]
SARCHIAPONE Ma già ca simmo pure paisane
ramme n’abbraccio, astrignimmece ’a mano
r’’e belli giuvane io songo ’o campione
RAZZULLO Io so’ Razzullo!
SARCHIAPONE E io so’ Sarchiapone…Comme staie…Stongo buono9.

9
A. Ruccello, La cantata dei pastori, cit., p. 15.
RAZZULLO Spirito va’ indietro! / SARCHIAPONE Infilati in corpo il contabbasso! /RAZZULLO
Spirito maiurino! SARCHIAPONE Infilati in corpo il violino! / RAZZULLO Bello be’! / SAR-
CHIAPONE Brutto bru! […]. SARCHIAPONE A te chi t’ha partorito? / RAZZULLO Io sono nato a
Napoli! / SARCHIAPONE Vattene cane da guardia!/che gente così brutta non c’è in quel pae-
se!/Tu hai la coda dietro e sembri una scimmia giapponese! RAZZULLO Perché non sarei di
Napoli? / SARCHIAPONE Vattene ti sei sbagliato!/Mica Napoli ha prodotti mostri simili! […]
/ RAZZULLO Va’ a morir di subito, parla proprio lui!/E da quando i napoletani hanno anche
la gobba? / SARCHIAPONE Noi siamo sette fratelli e io sono quello più bellino!/ RAZZULLO E
gli altri pure hanno la gobba? / SARCHIAPONE Sicuro!/ […] / SARCHIAPONE Ma visto che
siamo anche paesani/Dammi un abbraccio, stringimi la mano/dei giovani belli io sono il
campione / RAZZULLO Io sono Razzullo! / SARCHAIAPONE E io sono Sarchiapone… Come
stai… Sto bene.

59
Se cantar mi fai d’amore...

Nella sua rivisitazione Ruccello analizza le dinamiche storiche del


testo portando alla luce storie e motivi di culture assorbite nel corso dei
secoli «esasperando le tendenze alla comunicazione ritmica, fonica e
massimamente gestuale»10. La dimensione musicale dell’opera viene
accresciuta attraverso inserti di canti tradizionali campani, reinterpretati
attraverso una sensibilità moderna, tra gli altri: la Canzone del Pescato-
re (un testo anonimo usato in parte anche da De Simone nella sua Can-
tata), la Zingarata, la Canzone del Cacciatore (rielaborata dallo stesso
Ruccello), la Canzone di Razzullo e quella di Sarchiapone e per la sce-
na finale la tradizionale Canzone di Capodanno nella versione cono-
sciuta come Nascette lu Messia (anche quest’ultima usata da De Simo-
ne ed eseguita dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare). Allo stesso
modo acquistano maggiore evidenza tutti i segni del ciclo natalizio ed
invernale presenti nel testo, fra questi una serie di riferimenti al mondo
dei morti, al carnevale, alla follia, al mondo alla rovescia, alle veglie
notturne, alla ciclicità solare e agli altri culti precristiani (ad esempio il
culto di Mitria), in un gioco in cui gli opposti vengono riconosciuti
come conciliabili.
L’indagare nelle profondità della Cantata permette all’autore l’ine-
dita facoltà di proporre personaggi e scene normalmente assenti nella
tradizione di quest’opera, ma qui presenti in qualità di modelli lingui-
stici e gestuali della tradizione campana, anche più recente. Ne è esem-
pio la scena dell’osteria dove il verso del Perrucci s’alterna ad espres-
sioni linguistiche in uso nelle sceneggiate napoletane.
Si noti, infine, un ultimo aspetto che caratterizza questa rilettura
della Cantata: la riscoperta di un patrimonio di segni emotivi e psico-

10
Annibale Ruccello, programma di sala della Cantata dei Pastori, cit., p. 6. Ad esem-
pio, in merito all’interpretazione di Belfegor Ruccello scrive: «Per quanto riguarda la comuni-
cazione gestuale di tale personaggio, c’è da dire, che la caratteristica principale richiesta dal
pubblico a chi lo interpreta è che sappia cadere […]. Fra gli altri segni gestuali del diavolo,
anche questi molto attesi dal pubblico tradizionale, vi è anche quello del caratteristico rumore
che producono le catene volutamente battute contro la placca metallica che cinge la vita
dell’attore; nei momenti di maggiore pathos recitativo i migliori interpreti del personaggio so-
no in grado di compiere autentici virtuosismi esasperati con il gesto di scuotere le braccia e ca-
tene che mentre in altre forme di teatro risulterebbero solo un inutile istrionismo, qui acquista-
no la loro giusta valenza culturale.». Id., Il sole e la maschera, cit., pp.129-130.

60
La cantata dei pastori

logici specifici del Natale ma di appartenenza popolare, sebbene «co-


stantemente rimossi nella simmetria mistificante della ragione borghe-
se»11. Fra questi l’autore cita:

[…] a livello simbolico: l’Edipo, il fallo in quanto bambino, la madre


vergine, l’utero, il padre castrato, l’ermafroditismo ritualizzato, le tensio-
ni omosessuali, l’angoscia della morte e la sua rappresentazione in quanto
doppio, la libido in quanto serpente, diavolo, storpio, deforme12.

Tutti gli elementi citati ritorneranno nei testi della maturità a riprova
di una caratteristica essenziale della drammaturgia di Ruccello: l’inseri-
mento in un contesto contemporaneo di elementi provenienti dalla tradi-
zione campana, attraverso una riconfigurazione critica degli stessi.

11
Annibale Ruccello, programma di sala della Cantata dei Pastori, cit., p. 8.
12
Ibidem.

61
Scrivendo con Lello Guida:
L’osteria del melograno, L’asino d’oro,
L’ereditiera

Nel 1977 Ruccello scrive con Lello Guida L’osteria del melogra-
no1. Largamente debitore a Lo cunto de li cunti di Giovanbattista Basile
e a La cantata dei pastori dell’Abate Perrucci, il testo contiene le regi-
strazioni di racconti popolari raccolti durante le ricerche svolte da Ruc-
cello nella provincia di Napoli2. Da quel materiale i due autori traggono
un testo affollato di personaggi di varia estrazione che, seppur disomo-
genei ai fini di un plot unitario, contribuiscono a dar vita ad un mondo
che si schiude allo spettatore nell’alternanza di canti e filastrocche, riti
e credenze. Nondimeno si scelgono quale perno centrale della narra-
zione i personaggi di Caterina e della vecchia Narratrice3 che scandisce
il tempo raccontando storie. Se Caterina contiene evidenti rimandi alla

1
Il testo viene depositato in SIAE il 1 gennaio 1977 e debutta lo stesso anno alle
Terme di Castellammare di Stabia (Na). Gli interpreti sono: Paola De Luca, Vanni Baiano,
Milena Fravola, Tito Del Gaudio, Nello Scarfato, Sergio Esposito, Pierluigi Fiorenza, Dora
Romano, Luisa Bruno, Angelo Manzi e gli stessi Ruccello e Guida.
2
È comunque ipotizzabile che, alla luce del notevole successo ottenuto nel 1976 (oltre
alla partecipazione durante le prove dello stesso Ruccello), anche Gatta cenerentola di De
Simone abbia svolto una significativa influenza su questo lavoro.
3
La didascalia presenta il personaggio come: «una donna anziana vestita del nero
delle monache di casa» Ruccello, Guida, L’osteria del melograno, p. 3. Questa e le succes-
sive citazioni sono tratte dal copione depositato nel 1977.

63
Se cantar mi fai d’amore...

tradizione popolare (il nome è presente in una fiaba campana, Catari-


nella)4, la figura della “vecchia” era già apparsa in un saggio di Ruccel-
lo sulla festa della Madonna delle Galline di Pagani:

Una delle costanti ovunque osservabili è la presenza ritualizzata del “vec-


chio” o della “vecchia” le cui implicazioni culturali e simboliche sono
molteplici. C’è infatti innanzitutto da considerare l’enorme importanza
data nella civiltà di tradizione orale (quale è ancora quella contadina
campana) alla figura dell’anziano, in quanto unico detentore e trasmetti-
tore di cultura alle generazioni che lo seguono5.

L’azione si svolge interamente nell’osteria gestita dai genitori di


Caterina6. Il primo personaggio a varcare la soglia della locanda è il
Cavaliere, «Il nero del suo abito e la falce argentea che reca nella ma-
no destra lo identificano per LA MORTE»7. L’uomo bussa tre colpi,
l’Oste schiude la porta e accoglie l’ospite che lo esorta a preparare per
un banchetto di nozze che di lì a breve si sarebbe tenuto nella locanda:

CAVALIERE: […] Appronta ambressa ’a tavula e lu lietto


Ca mo’ lu matrimonio hadda arrivà
La messa alla cappella è stata detta
E ’a zita e ’o zito cchiù n’hanno aspettà8.

Detto ciò, il Cavaliere lascia cadere in terra un sacchetto gonfio di

4
La fiaba venne raccolta successivamente (su segnalazione di Ermanno Ruccello, pa-
dre di Annibale) da R. De Simone in Fiabe campane. I novantanove racconti delle dieci
notti, Torino, Einaudi, 1994, pp. 332-345.
5
Id., La festa della Madonna delle galline a Pagani, in Scritti inediti, cit. pp. 131-132.
6
La scelta dell’osteria quale location unica del testo riflette la presenza costante di
questo ambiente in larga parte del repertorio narrativo della tradizione campana. Nella can-
tata dei pastori, ad esempio, Belfegor, travestito da Oste, cerca di adescare la sacra coppia
per sopprimere la Madre vergine.
7
L’osteria del melograno, p. 3.
8
CAVALIERE […] Prepara presto la tavola e il letto/Che fra un po’ arriva il matrimo-
nio/La messa alla cappella è stata detta/ e gli sposi non devono più aspettare. Ivi, p. 3.

64
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

monete d’oro e si allontana. Nella prima versione del testo, dopo l’usci-
ta della Morte, l’Oste intona un canto con la figlia durante il quale assi-
stiamo alla sua trasformazione «in una donna vestita di verde e di rosso
con una maschera fallica sul viso»9. La metamorfosi del genitore da
maschile in femminile esprime un ulteriore momento di connessione
con la tradizione campana. Questa pratica, infatti, è riscontrabile ne La
canzone di Zeza, momento di teatro popolare risalente al 1500, in scena
nel periodo di Carnevale. In questa rappresentazione il ruolo di Zeza, la
madre fallica ed ossessiva, viene interpretato da un uomo (lo stesso va-
le anche per gli altri personaggi femminili). L’azione presenta quattro
maschere: Pulcinella, sua moglie Zeza, la figlia Tolla e Don Nicola
Pacchesicco, pretendente alla mano della ragazza. Pulcinella non desi-
dera che sua figlia si sposi, mentre Zeza, intrigante e ruffiana, lascia
che i due s’incontrino per scambiarsi la promessa di nozze. Dinanzi
all’ennesimo rifiuto di Pulcinella, Don Nicola s’arma di fucile e spara
fra le gambe al suocero. Solo a questo punto il genitore è costretto a da-
re il suo consenso alle nozze. Se da un lato, il comportamento di Zeza
trova riflesso nelle azioni dell’Ostessa (impegnata a garantire un buon
marito alla figlia), dall’altro, è significativo notare come la castrazione
di Pulcinella rappresenti un atto simbolico che esprime la condizione di
subalternità della figura maschile verso quella femminile. Condizione
che Ruccello riprenderà più volte nei drammi che scriverà in seguito.
Dopo il ballo, l’Oste si ritira ma non prima di aver chiesto alla fi-
glia di servirgli «sette cutenelle»10. A questo punto, dinanzi all’angoscia
della ragazza incapace di soddisfare la richiesta paterna, la Narratrice
inizia il racconto de ’O fatto ’e Miezu Culillo11. Al termine entra in
scena il personaggio dell’Orco seguito dall’Ostessa: «il cui ruolo è ri-
coperto dallo stesso attore che ha ricoperto quello di oste»12. L’Orco,

9
L’osteria del melograno (prima versione.), p. 8.
10
Il numero delle costolette non è casuale. Nel Cunto troviamo, infatti, una fiaba dal
titolo: Le sette cotonelle, in G. Basile, Lo cunto de li cunti, a cura di Michele Rak, Milano,
Garzanti, 1998, pp. 716-727.
11
’O fatto ’e Miezu Culillo è un’altra fiaba proveniente dalla tradizione campana e
successivamente raccolta da De Simone in Fiabe campane, cit. p. 1283-1285.
12
L’osteria del melograno, p. 11. La scelta di affidare ad un unico interprete entrambi

65
Se cantar mi fai d’amore...

sebbene poco avvenente ma danaroso, mostra interesse per Caterina,


ma il suo desiderio di matrimonio trova nell’Ostessa un fermo ostacolo:

OSTESSA […] Mo’ revemo ’a tuvagliella ’argiento pe’ fa’ annettà o’


musso ’o puorco!...Figlia mia tu t’ ’ha’ spusà a nu principe
bello comme ’o sole!... 13.

L’Orco viene allontanato in malo modo dall’Ostessa. Dopo una


breve sortita del Monaco, di passaggio, come d’abitudine, per racimo-
lare un po’ di cibo, l’andirivieni di personaggi nell’osteria prosegue con
l’ingresso dello Scemo Sciocà, seguito dalla Madre e dalle Sorelle «due
ermafroditiche e doppie divinità dai connotati molto strani, in bilico
fra il più atroce grottesco e la più inquietante malinconia»14. Nel dia-
logo con i parenti, Sciocà prospetta loro favolose ricchezze grazie ai
magici prodigi del suo asino, distributore d’oro dal posteriore. Le sorel-
le devono recarsi a casa e far ritorno con il loro corredo poiché proprio
sulle loro amate lenzuola il ronzino depositerà tesori di ogni genere.
Ma rimasto solo, nel dialogo successivo l’ingenuo ragazzo rivela
all’Ostessa i prodigi del suo animale. La donna non esita un istante a
sostituire l’asino fatato con uno comune, così quando le Sorelle tornano
con i loro corredi, all’invocazione di Sciocà e della Madre, l’animale
deposita tutt’altro che oro, rovinando i corredi delle donne. Vani i ten-

i ruoli dei genitori della protagonista verrà adottata da Ruccello anche in Notturno di donna
con ospiti: «La mamma di Adriana – il cui ruolo è sintomaticamente ricoperto dallo stesso
attore che interpreta il ruolo del padre…» Notturno di donna con ospiti, Napoli, Guida edi-
tori, 1993, p. 98. Mentre ne L’ereditiera troviamo un altro esempio di travestitismo: «Ap-
paiono in scena Donna Margherita (il cui ruolo sarà rivestito dallo stesso attore che inter-
preta Don Ciccillo)» Guida, Ruccello, L’ereditiera, p. 10 (copione depositato in SIAE il 30
giugno 1982). E ancora ne I gingilli indiscreti: «Sopraggiunge una donna vestita da papa» I
gingilli indiscreti, p. 3. Infine in Ipata: «[…] appare un uomo travestito che intona la se-
guente canzone» Ipata, pp. 11-12.
13
OSTESSA […] Di certo non davamo i tovaglioli d‘argento per far pulire la bocca a un
porco! ...Figlia mia tu devi sposarti un principe bello come il sole! L’osteria del melograno,
p. 20.
14
Ivi, p. 28.

66
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

tativi della Madre di convincere l’Ostessa a restituire l’asino fatato15.


Il secondo atto si apre con l’ingresso in scena del Venditore di spil-
li. Ammirata dalla mercanzia esposta (e dal suo venditore), Caterina
vorrebbe acquistare una spilla, ma l’ingresso del padre (che allontana il
Venditore) impedisce alla ragazza di portare a termine il suo intendi-
mento. Ma è ormai tempo di preparare l’osteria per il banchetto di noz-
ze. Entra il corteo nunziale. Ne fanno parte anche delle misteriose figu-
re femminili di nero vestite:

La prima, LA VOCE DEL SOLE, scandisce un ossessionante ritmo di tam-


murriata su di un tamburello […]. La seconda, LA VOCE DELLA LUNA, se-
gna il tempo con le nacchere […] mentre la terza, LA VOCE DEI MORTI, è
fissamente silenziosa16.

Completano il corteo la Madre della Luna, la Madre del Sole e la


Madre dei Morti che a turno, durante il banchetto, narrano delle fiabe.
Nella prima si racconta di una gatta divenuta demoniaca per aver avuto
rapporti con l’al di là, segue la fiaba dei piriti e nella terza torna prota-
gonista Sciocà17. Ma il banchetto avrà un tragico finale, lo sposo sarà
portato via dal Cavaliere («Il secondo atto termina in un buio istanta-

15
Il personaggio di Sciocà deriva dall’Antonio protagonista della fiaba Lu cunto
dell’uerco nel Pentamerone. Entrambi, infatti, avuto in dono un asino fatato vengono truffa-
ti da un oste. Si notano tuttavia due differenze, nel testo di Guida e Ruccello, Sciocà viene
truffato da un’ostessa e mai riavrà il suo asino. Nel testo di Basile, Antonio viene truffato da
un oste ed alla fine riesce a recuperare il maltolto. G. Basile, op. cit., pp. 32-47. Un asino
dalle doti particolari è presente anche in ’O ciuccio caca denari, poi raccolta da De Simone
in Fiabe campane, cit., pp., 540-553.
16
L’osteria del melograno, p. 45.
17
Abbiamo visto come questo personaggio sia già presente nel testo. Il riferimento è
anche in questo caso a Lu cunto dell’uerco, op. cit., pp. 32-47. Ma ancora una volta, il finale
viene cambiato poiché, in questo caso, la madre, stufa dell’ingenuità del figlio «pigliaie nu
piso tanto ruosso c’’chiavaie ’ncapa, e ntrummete e ntrummete ’o ’cceriette ’e mazzate»
(afferrai un peso grandissimo e glielo diedi sulla testa fino ad ucciderlo) L’osteria del melo-
grano, p. 52.

67
Se cantar mi fai d’amore...

neo dove brilla solo, per un istante, l’argentea falce del cavaliere»)18.
Nel terzo atto19, in un’osteria ormai vuota, entrano tre Orientali vestiti
di bianco. Gli uomini sono lì per uccidere l’Oste, colpevole di avergli
rubato l’oro20. Portato a termine il proprio compito, uno dei tre cerca di
abusare di Caterina ma la ragazza, armata di coltello, decapita il suo
aggressore. Altri personaggi, altre azioni si susseguono (non ultimo un
altro tentativo di aggressione ai danni di Caterina da parte del Monaco,
poi ucciso da Sciocà), fino all’ingresso dell’ultimo personaggio, il Bri-
gante (travestito da Monaca). A dimostrazione che l’arco narrativo è
ormai giunto a conclusione, il terzo atto si chiude mostrando Caterina
che «si colloca nel punto preciso dell’inizio del primo atto»21, mentre
la Narratrice riprende:

NARRATRICE E ce steva na vota nu viecchio e na vecchia


ncopp’’a nu monte areta a nu specchio…22.

18
Ivi, p. 60. L’apparizione della morte al termine del banchetto ricorda l’apparizione
del Convitato di Pietra nel Don Giovanni di Mozart.
19
Ivi, p. 60. Esistono due versioni del testo. Dopo la prima rappresentazione, il copio-
ne subisce dei tagli passando da una struttura in tre atti ad una in due. Un cambiamento si-
mile comporta il decadimento di quei personaggi presenti solo nel terzo atto, ad esempio:
Gli orientali e il Brigante. Si notano, inoltre, episodi di riscrittura. Uno di questi lo si riscon-
tra all’inizio del primo atto ed è riscontrabile nella favola raccontata dalla Narratrice. Nella
versione in tre atti, l’anziana donna narra la prima parte della fiaba che riprenderà, poi, nel
secondo e terzo atto, ossia quella in cui racconta di un re che, affranto per la morte di parto
della consorte, decide di rinchiudersi in convento e del desiderio della figlia d’incontrare il
genitore mai conosciuto. Nella versione in due atti, invece, la donna narra di Mastu Franci-
sco e dei suoi tre stratagemmi per sfuggire alla morte. Anche questa fiaba sarà, poi, raccolta
da R. De Simone in Fiabe campane, cit. p. 178-195.
20
Anche qui si rimanda a Lu cunto. Nel testo sono presenti diverse fiabe in cui l’oste
viene descritto come un lestofante dedito a truffare i propri clienti per impossessarsi dei loro
beni. In particolar modo Lo cunto dell’uerco, in G. Basile, op. cit. pp. 32-47.
21
L’osteria del melograno, p. 79.
22
NARRATRICE E c’era una volta un vecchio e una vecchia/sopra un monte dietro a
uno specchio. Ivi, p. 79.

68
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

Al di là della prorompente carrellata di personaggi, il testo eredita


dal lavoro svolto sulla Cantata anche un denso corredo musicale. I vari
canti vedono costantemente come interprete protagonista Caterina. In
alcuni casi la ragazza canta da sola (’Na sera ca passava alla taverna,
Sera passavo pe sotto a nu ponte, Vulesse addeventà nu suricillo, Oi nì
quanto so belle chesti spingile), in altri con il padre (Che magiarraie oi
figlia a primma sera), con Sciocà (Catarinella mia Catarinella) o con
il Venditore di spilli (Oi ni’ quanto so belle chesti spingule).
Altra costante del testo sono le varie fiabe raccontate dalla vecchia
Narratrice. Una di queste (sebbene con varie interruzioni) attraversa i
tre atti, incominciando nel primo e concludendosi nel terzo atto. Si nar-
ra di un re che non riuscendo ad avere figli dalla consorte chiede aiuto
ad un mago. Quest’ultimo subito prepara una pozione magica, ma la
regina, appena bevuta la pozione e aver dato alla luce una bambina,
muore. Il re, distrutto dal dolore, lascia la figlia e si rifugia in un con-
vento. Dopo anni, ormai adulta, la principessa s’imbatte in una farfalla
bianca venuta su da un pozzo d’acqua, da lei la principessa apprende
che potrà rivedere l’anziano genitore solo dopo che avrà consumato
sette paia di scarpe e sette camice, mangiato sette forme di pane bianco,
attraversato sette città e sette foreste fino ad arrivare ad un convento
con sette porte. La principessa esegue quanto le chiede la farfalla e,
come annunciato, trova suo padre. Prima di spirare, l’anziano genitore
dona alla figlia il potere di far cadere oro dai capelli ad ogni sua risata e
perle dai suoi occhi ad ogni suo pianto. Grazie a questi doni un princi-
pe, incontrandola al castello, s’innamorerà di lei e la sposerà.
In merito alla centralità occupata dalla Narratrice nell’ambito della
struttura narrativa, Fiore scrive:

Dall’inizio alla fine, per l’intera durata dei tre atti, c’era al proscenio un
antico telaio. E dietro il telaio una vecchia, la nonna di Catarinella. In o-
gnuno dei tre atti, era – ostentatamente – il primo personaggio ad entrare
in scena e l’ultimo a uscirne: tesseva e raccontava fiabe, non v’era occa-
sione o battuta del dialogo che non gliene rammentasse una. Lei stessa, la
nonna di Catarinella, era ormai diventata una fiaba. Era la Fiaba in sé, che
veniva così esaltata in quanto genere letterario autoctono e originale e
contemporaneamente riletta in chiave critica più esattamente in chiave

69
Se cantar mi fai d’amore...

psicanalitica e, in particolare, nei termini dell’inconscio collettivo jun-


ghiano”23.

Si cita lo psicanalista svizzero per le sue riflessioni sulle rappresen-


tazioni presenti nell’inconscio. Secondo Jung tali rappresentazioni pos-
sono appartenere tanto alla coscienza del singolo individuo quanto essere
espressione di un carattere universale, rappresentando nel loro insieme
l’inconscio collettivo. Il riferimento a Jung appare, dunque, finalizzato
ad evidenziare l’aspetto universale del patrimonio favolistico, attribui-
bile all’essenza stessa della fiaba. Pur servendosi del meccanismo po-
polare del racconto fiabesco, Ruccello e Guida riconfigurano la funzio-
ne stessa della fiaba. Laddove questo tipo di racconto s’impernia fre-
quentemente su un unico personaggio principale e un lieto fine che ve-
de quest’ultimo protagonista, ne L’osteria del melograno il lieto fine è
assente, sostituito dalla rappresentazione di un dramma privo di solu-
zioni rassicuranti e per di più includente la morte. Ne è esempio una
delle prime fiabe della Narratrice, quella di Miezuculillo che, per puni-
re la bambina che al posto delle zeppole saporite gli aveva portato le
sue feci, sbrana lei e la sua mamma:

NARRATRICE E ment’’e puverelle alluccavano, ll’uorco s’’e magnaie a


tutt’’e ddoie 24.

Del resto è lo stesso Ruccello a delineare l’inedito connubio di psi-


canalisi e tradizioni popolari quale elemento guida alla base dei lavori
nati in questo primo periodo:

Noi speriamo con i nostri lavori di fare un discorso che serva a far luce sia
sull’utilizzo che oggi si può fare di una serie di fatti popolari, sia sui mec-
canismi inconsci […] Con l’Osteria, ad esempio, tramite il meccanismo
popolare della fiaba abbiamo messo in scena la conflittualità del rapporto

23
Enrico Fiore, Il rito l’esilio, la peste, Milano, Ubulibri, 2002, p. 50.
24
NARRATRICE E mentre le sventurate urlavano, l’orco se le mangiò tutt’e due.
L’osteria del melograno, p. 11.

70
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

fra uomo e donna, le sue implicazioni edipiche, le schizofrenie che oggi


storicamente vive tale rapporto: tutto questo affidato ad una forma imme-
diatamente riconoscibile, perché da tutti assimilata nei primi anni dell’in-
fanzia, per cui il discorso si è allargato ai meccanismi della fiaba…25.

Nel 1980 Ruccello e Guida scrivono L’asino d’oro, Ipata libera-


mente ispirato all’opera di Apuleio, Le Metamorfosi (o L’asino d’oro)26,
unico romanzo della letteratura latina giunto integrale in undici volumi.
Nel testo originario si narra di un viaggiatore di nome Lucio che giunto
in Tessaglia per affari, ospite del ricco Milone e di sua moglie Pànfile,
esperta di magia, dopo essersi conquistato i favori della serva Fotide,
convince la donna a farlo assistere, di nascosto, ad una delle trasforma-
zioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Pànfile che, grazie ad un
unguento, si muta in gufo, Lucio supplica Fotide perché lo aiuti a speri-
mentare su di sé tale metamorfosi. Fotide accetta, ma sbaglia unguento e
Lucio si trasforma in un asino, pur mantenendo facoltà raziocinanti uma-
ne. Per riacquistare le antiche sembianze Lucio dovrà cibarsi di rose.
Dopo svariate peripezie, giunto a Corinto, il protagonista apprende in so-
gno che l'indomani si sarebbe svolta una solenne festa in onore di Iside;
nel corso della cerimonia Lucio mangia le rose che adornano il sistro di
un sacerdote e riprende così forma umana.
Guida e Ruccello usano l’opera di Apuleio quale pretesto per spe-
rimentazioni drammaturgiche che stavolta lasciano il terreno della cul-
tura strettamente partenopea per approdare alla letteratura europea più

25
Intervista ad Annibale Ruccello in G. Laurini, Una scuola sul “Carro”, cit., p. 7.
Lo spettacolo non ottiene il favore della critica: «La voglia di questi giovani […] li porta ad
esibire tutta insieme, e senza il dovuto controllo, l’enorme quantità di materiale raccolto nel
corso di una lunga ed appassionata ricerca. Ne deriva uno spettacolo a volte prolisso e in
più punti squilibrato, anche perché appare evidente una frattura a livello dei registri stilisti-
ci; si passa con eccessiva disinvoltura dal tono naturalistico a quello, per così dire, brechtia-
no.» Enrico Fiore, La nonna fiaba, «Paese Sera», 4 settembre 1977.
26
Il testo viene depositato in SIAE il 6 giugno 1980. Lo spettacolo debutta al teatro
Cilea di Napoli nel febbraio del 1981. Gli interpreti sono: Annibale Ruccello, Gigi D’Auria,
Michele Di Nocera, Dora Romano, Fabrizio Massaccesi, Maria Rosarosa e Andrea Vanaco-
re. La regia è di Ruccello. In seguito il testo viene rielaborato e il 15 dicembre dello stesso
anno, con il titolo di Ipata, viene riproposto al Teatro in Trastevere di Roma.

71
Se cantar mi fai d’amore...

colta, disseminando il testo di di corposi riferimenti (fra gli altri) a Ca-


mus, Genet, Manu e non ultimo Shakespeare. Un approccio che si rive-
la fin dalle prime pagine laddove nella scena d’apertura Hypata, città
della Tessaglia, più che luogo di magie sembra ricordare Orano, città
dell’Algeria, descritta da Camus ne La peste (1947)27. Non a caso il
protagonista Lucio viene accolto in città dal canto di dolore di quattro
figure femminili:

1 APPESTATA La nostra città è piena di profumi d’incenso…di can-


ti…e di lamenti. Ipata non può sollevare più il capo dai
gorghi della tempesta colore di sangue.
2 APPESTATA Cadono le corolle senza frutto, e muoiono le mandrie
dei buoi, e i figli nel grembo delle madri.
3 APPESTATA …La nave salpata dall’Oriente chiede l’autorizzazione
ad approdare…
4 APPESTATA Tutte le voci di peste…I miasmi di un virus venuto da
lontano…28.

Giunge in scena Psiche in cerca del suo amore:

PSICHE Dove sei…Amore…Psiche la pazza ti cerca dovunque e tu


ti nascondi… Amore…Amore29.

Al termine del canto della donna, Lucio, spinto da un oscuro perso-


naggio, uccide “un fantoccio”30. Il gesto suscita l’ira della folla che si
scaglia contro di lui. Fotide, non più servetta ma signora di un lupanare

27
«Il giorno in cui la cifra dei morti toccò la trentina, Bernard Rieux guardava il dispac-
cio ufficiale che il prefetto gli aveva passato dicendo: “Hanno avuto paura”. Il dispaccio reca-
va: “Si dichiari lo stato di peste. La città sia chiusa.”» Albert Camus, La peste, Milano, R. L. Li-
bri, 2005, p. 59.
28
Guida, Ruccello, Ipata, pp. 2-3. Questa e le successive citazioni sono tratte dal co-
pione depositato in SIAE nel giugno dell’80.
29
Ivi., p. 10.
30
Ivi, p. 11.

72
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

(riferimento al personaggio di Ida ruffiana e badessa di casino ne Il bal-


cone di Genet), sperando di salvarlo, invita l’uomo a trovar riparo nella
sua dimora, ma ormai è tardi, il popolo ne esige la crocefissione. Il primo
tempo si chiude con Fotide che, trasformatasi in Sfinge, incita il popolo
contro Lucio:

FOTIDE Io credo, nobili concittadini, che la crocefissione sia poca


cosa per l’omicidio commesso da questo straniero e chiedo
a voi tutti che quest’uomo sia condannato al fuoco e alla
ruota e che dopo venga squartato.
[…]
Inizia il baccanale31.

La seconda parte mostra costanti cambiamenti d’atmosfera. Il pas-


saggio fra moods diversi avviene repentinamente ad espressione di un
crescente parossismo che permea la scrittura. Si parte con le suggestio-
ni della fiaba incantata, utilizzando l’espediente dell’innamoramento
dietro sortilegio magico creato da Shakespeare in Sogno di una notte di
mezza estate (dal quale gli autori prendono in prestito anche i perso-
naggi):

PUCK Questo fiore le fanciulle lo chiamano fiore dell’amor di-


mentico. Versando una goccia del suo succo su palpebre
chiuse nel sonno li vedrai folleggiare di passione per il
primo essere che vedranno al risveglio32.

31
Ivi, p. 16.
32
Ivi, p. 18. Shakespeare è il drammaturgo maggiormente presente nel testo con chiari
rimandi ad altre sue tragedie. La prima fa riferimento alla scena di morte dei due protagoni-
sti di Romeo e Giulietta:
PSICHE Cos’è? Stringe tra le mani una fiala, il mio fedele amore?... Veleno…!Così si è
ucciso: il fiore della sua vita. Egoista!... Tutto se l’è bevuto, e non ha avuto la premura di la-
sciarmene una goccia che mi avrebbe aiutato. Ivi, p. 10. La seconda a Giulio Cesare:

73
Se cantar mi fai d’amore...

Grazie a queste gocce sboccia la storia d’amore fra Lucio e la regi-


na Titania:

La regina si desta e con una danza fra lei e Lucio inizia la loro storia
d’amore33.

Per festeggiare questo amor sbocciato arrivano Fate ed Elfi intenti a


preparare un ricco banchetto. L’atmosfera di gaiezza s’interrompe bru-
scamente quando d’un tratto «un elfo ha le doglie. Tutti lo aiutano a par-
torire… e partorisce un asino»34. Di seguito, Titania, consumatosi
l’incantesimo, si desta dal sonno ed inorridisce alla vista di Lucio nel suo
letto (nelle fattezze di un ronzino). Lucio viene legato alla ruota. Il suo
destino appare segnato, ma, quando ormai i lampi della sventura sem-
brano addensarsi minacciosi sul suo capo, giunge la profezia di Iside:

ISIDE Ascolta ora Lucio e credi perché dico il vero. Ti avvicinerai


al confine della morte, varcherai le soglie di Proserpina e
sarai poi trasportato indietro attraverso tutti gli elementi.
[…] Tu stesso dilaniato in dodici parti sarai ricomposto e
diventerai il sole35.

Sulle intenzioni alla base dell’allestimento così si esprime Ruccello:

Una sera discutevamo sull’angoscia del nostro tempo e sulla disgregazio-


ne della cultura moderna. Poi ad uno di noi capitò per caso di rileggere
L’asino d’oro e scoprimmo che quel testo poteva prestarsi perfettamente
alla costruzione di un testo apocalittico, che servisse anche ad esorcizzare
in qualche modo l’angoscia di cui sopra. E si è sviluppata, così, una com-

BIFRONTE …Amici… concittadini… Romani… Prestatemi orecchio… sono venuto a


seppellelire Cesare non a farne l’elogio. Il male che l’uomo fa gli sopravvive. Ivi, p. 14 (se-
condo atto).
33
Ivi, p. 18.
34
Ivi, p. 21.
35
Ivi, p. 26.

74
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

plessa serie di suggestioni che vanno dal tema dello ‘straniero’ suggerito
da Camus (è straniero l’uomo al mondo o il mondo all’uomo?) fino a
quello della ‘malattia’ secondo Kafka e Thomas Mann36.

Sul piano della scrittura, rispetto al lavoro svolto con L’osteria del
melograno, stavolta l’uso delle citazioni (pur dimostrando ancora una
forte subalternità del testo) viene spinto oltre diventando “tecnica di
scrittura” laddove ogni parola presente nel copione proviene da fonti
esterne. Bisognerà attendere la nascita di Jennifer perché si incominci a
ribaltare questa condizione, raggiungendo poi il momento di maggior
completezza con Ferdinando.

Ancora con Lello Guida, nel 1982 Ruccello scrive L’ereditiera37.


Un altro viaggio/confronto, ma stavolta verso i classici della scena par-
tenopea, nella forma di piccolo musical38. Sebbene solo due anni prima
il drammaturgo stabiese avesse scritto Le cinque rose di Jennifer, la so-
litudine, l’intensità drammatica di quel testo, lasciano posto ad un ap-
proccio più lieve come se Ruccello, dopo un viaggio negli inferi della
propria cultura, desiderasse tornare ancora una volta alla superficie
prima di affrontare quel degrado umano così centrale nei testi degli an-
ni successivi. Anche in questo caso non si è dinanzi ad un lavoro origi-
nale poiché L’ereditiera è tratto dal romanzo di Henry James Washin-

36
Enrico Fiore, Al Pacuvio il teatro arriva sul “Carro”, «Paese Sera», 24 maggio 1980.
37
Lo spettacolo debutta il 3 luglio del 1982 al Teatro Quartiere di Milano. Interpreti:
Annibale Ruccello, Tonia Guarino, Michele Di Nocera, Anita Cappelluti, Andrea Vanaco-
re, Enzo Piccolo, Rossella Ciocca. Regia di A. Ruccello. Il forte cambiamento rispetto a Le
cinque rose di Jennifer (presentato nel 1980), spiazza una parte della critica: «Diciamo su-
bito che “Hollywood-Napoli” non mantiene le premesse de “Le cinque rose di Jennifer” o
almeno lo fa solo in parte. Annibale Ruccello sembra infatti con questo lavoro aver scelto la
strada del puro intrattenimento, e anche se non mancano interessanti spunti di analisi di lin-
guaggi comparati, appaiono costantemente posti al servizio del divertimento degli spettatori
in un’atmosfera ludica fine a se stessa» Umberto Serra, Una farsa e niente più, «il Matti-
no», 28 novembre 1982.
38
Anche le musiche dello spettacolo confermano la natura da hellzapoppin di questo
lavoro spaziando da celebri canzoni dell’oleografia napoletana a Goldfinger, La gazza la-
dra, La traviata, il Gospel, oltre le musiche originali composte da Carlo De Nonno.

75
Se cantar mi fai d’amore...

gton Square (1880) e dall’omonimo film del 1950 diretto da William


Wyler. La storia narra di una ragazza ricca, ma non particolarmente
avvenente, corteggiata da un affascinante avventuriero, Morris To-
wnsend. L’intervento del padre della giovane, contrario all’unione fra i
due, fa allontanare il pretendente, rendendo manifesta la sua avidità.
Dopo la morte del dottore l’interessato potrebbe finalmente sposare
l’ereditiera, ma ormai è lei a respingerlo con gelido disprezzo. Sebbene
l’adattamento proposto segua a grandi linee la trama del testo origina-
rio39, tanto il romanzo quanto la versione cinematografica fungono da
semplice pretesto iniziale per un’indagine tragicomica nella tradizione
teatrale partenopea a cavallo fra Ottocento e Novecento. Si ironizza sia
sui modelli falsamente romantici del film che suoi luoghi comuni par-
tenopei da cartolina. Gli stereotipi dello star system e delle sceneggia-
ture confezionate per incontrare i gusti di vastissime platee inclini alla
commozione, lasciano il posto ad altri stereotipi, quelli degli spaghetti
e dei mandolini, falsi gli uni e gli altri, maschere fumogene sollevate
per nascondere realtà amare.
Da New York, l’azione si sposta a Sorrento, i personaggi acquista-
no identità locali: il Dott. Austin Sloper diventa don Benedetto Morlic-
chio «’o Primmo miereco ’e Surriento!»40; sua figlia Caterina Sloper
diventa Caterina Morlicchio; la cugina della ragazza Marianna Almond
diventa Margherita Scarnecchi; la governante Miss Thompson diventa
la cameriera Teresa; Arturo Townsend, da giovane e brillante agente di
cambio newyorkese si trasforma nell’avvocato Giovanni Brandizio di
Casamicciola; Lavinia Sloper diventa Zia Caterina «vedova del Cava-
lier Avvocato e Oblato del Cuore di Maria don Goacchino Gambardel-
la»41; Morris Townsend diventa don Felice Sciosciammocca (incarna-
zione più evidente del passaggio da James a Scarpetta). Dal personag-
gio di James, don Felice eredita l’esperienza di gran viaggiatore del
mondo. Attraverso i racconti dei suoi viaggi trapela la felice vena co-
mico/surreale che permea questo adattamento:

39
Nell’adattamento si registra l’assenza della sorella di Morris: la signora Montgomery.
40
Il testo non è stato pubblicato. Questa e le seguenti citazioni sono tratte dal copione
depositato in SIAE il 30 giugno 1982. Guida, Ruccello, L’ereditiera, p. 11.
41
Ivi, p. 8.

76
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

FELICE così dal Nepal mi avventurai fino all’insidiosa Bangkok, la


città dai mille templi! Di lì dovetti scappare perché ero ve-
nuto in possesso […] dello smeraldo della terribile dea Kalì
e mi rifugiai a Menfi, sulle sponde del Nilo, la città dai mil-
le templi. Qui un ambiguo egiziano di nome Sinueh con
l’inganno mi derubò di tutti i miei averi, abbandonandomi
lacero e nudo in mezzo al deserto. Non mi restava altra
scelta: la legione straniera! Mi arruolai ad Algeri, la città
dai mille templi. Qui per due anni con l’amico Beu Geste
vivemmo sotto la sferza di un terribile capitano finchè in
una tremenda e livida alba cademmo in un’imboscata dei
feroci Tuareg. La guarnigione fu dimezzata ed io nell’ora
del pericolo io… Facette nu voto a chella bella Madonna
d’’o Rusario e a botta ’e sfuorze e stiente…Giunsi fino a
Pompei, la città dai mille templi42.

Ma ritroviamo in scena anche un’altra maschera simbolo del teatro


napoletano ottocentesco (grazie all’interpretazione di Antonio Petito)
Pulcinella, quale «voce dell’accorata tristezza delle popolazioni dei
mari del Sud»43. Il personaggio, tutto fare di casa Morlicchio, entra in
scena con relativo corredo di stereotipi e banalità da sempre suoi com-
pagni di viaggio44. La narrazione evidenzia la posizione periferica di
questo personaggio rispetto ad altre figure (in particolar modo rispetto
a don Felice). Questa collocazione è frutto di un approccio critico da
parte di Ruccello verso i luoghi comuni appiccicati alla cultura parte-
nopea45. Tornano in mente le parole usate dall’autore a conclusione di
uno scritto dedicato alla genesi di questa maschera:

42
Ivi, 15.
43
Ivi, p. 4.
44
PULCINELLA (Appare cantando con un piatto di spaghetti). Ma ’o paese cchiù bello
è d’’o mio/Ciele azzurre a canzone r’ammore… Ivi, p. 4.
45
Quest’aspetto viene sottolineato anche da alcuni critici in occasione del primo alle-
stimento dello spettacolo: «Un’ottima foérie di teatro del divertimento costruita sulla rifles-
sione e affidata alla risata liberatoria, alla coscienza del luogo comune. E poi la vigoria, la
poliedricità, la verve, il piacere del cuore che fa rima con amore, ma impiegati per demolire
gli stereotipi rosa» Rita Sala, Catarì torna a Surriento, «Il Messaggero», 11 novembre

77
Se cantar mi fai d’amore...

Dopo Petito inizierà il definitivo declino di Pulcinella. Ridotto a rappre-


sentante del più logoro folklore e dei più beceri luoghi comuni su Napoli
e sui napoletani, sopravvivrà, con tutta la sua valenza demoniaca ed in-
fernale, solo nei carnevali popolari, in campagna, ritornando cioè là dove
era partito46.

Attraverso Guida e Ruccello, Petito e Scarpetta tornano, ancora una


volta, a calcare le scene. Registri diversi s’alternano vorticosamente in
questa rilettura, o ancor meglio satirico sberleffo verso i padri della scena
partenopea (e non solo). Citazioni dei classici del cinema americano so-
no disseminate lungo tutto il testo, in particolar modo Via col Vento:

Musica: Via col vento.


TERESA È arrivata la badrongina! È arrivata la badrongina!
CATERINA (Entrando) Oh! Mamy, Mamy, come sono contenta di esse-
re tornata a casa!
TERESA Bendornata a Dara Badrona! Oh! Gome si è sciupata la si-
gnorina Kady!
CATERINA Tu, invece, Teresa, sei sempre la stessa!
TERESA Eh! Gli anni bassano anghe ber mamy, signorina! Mamy è
sembre biù vecchia47.

Nel primo atto apprendiamo che la cameriera Teresa aveva già co-
nosciuto don Felice in Spagna nel 1937, quando costui si faceva chia-
mare Josè. I due, in un turbine di bruciante passione, avevano generato

1982. Mentre Fiore scrive: «Un confronto senza pietà fra l’incredibile e struggente mondo
creato dalla Hollywood del ventennio ’40 -’50 e l’ironia partenopea, la disincantata visione
dei sentimenti specifica di una cultura che ha imparato a sue spese a non credere al falso, al-
la retorica, al palpito del cuore e al fremito dell’animo» Id., Se Scarpetta va ad Hollywood,
«Paese Sera», 13 settembre 1982.
46
Id., Pulcinella, in Scritti inediti, cit. p. 148.
47
L’ereditiera, p. 57.

78
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

un figlio. Ma alla nascita del piccolo, Josè era scomparso. Di lì a poco


il bimbo era morto e a Teresa non era rimasta altra possibilità che far
ritorno in Italia, portando con sé solo l’anello del padre mai conosciuto.
In questa scena, con un chiaro riferimento alla popolarissima sceneg-
giata ’O Zappatore con Mario Merola, si svela l’identità del genitore:

BENEDETTO Famme vedè st’aniello!


TERESA Eccolo qua! Perché?
BENEDETTO Chi te lo ha dato?
TERESA La mia povera madre prima di morire!
BENEDETTO Come si chiamava tua madre!
TERESA Maria Consuelo Conception Segnora de Guadalupe y vir-
ghen de los siete dolores Zubieta y Garcienda!
BENEDETTO È lei! È tua madre!
TERESA Lo so, Signore!
BENEDETTO E io sono tuo padre, sono il padre, so ’o pate (canta) songo
’o pate e nun me po’ caccià! Musica, Musicante! Fatevi
molto onore!48

La stessa scena viene riproposta altre tre volte in osservanza alle


dinamiche narrative delle telenovelas. Ogni volta Teresa cambia ver-
sione ed interlocutore, ed ogni volta l’identità del genitore muta, unico
trait union è l’anello quale strumento per riconoscere il presunto padre.
Nella seconda scena la donna racconta a Pulcinella del suo lontano in-
contro con Felice, stavolta lo aveva conosciuto a Napoli durante la se-
conda guerra mondiale, lei «vendeva il suo corpo a Forcella»49, lui era
un marinaio americano di nome Joe; stavolta è il malcapitato Pulcinella
che si scopre essere padre di Teresa. Nella terza scena in un pirotecnico
coup de théâtre, il padre che Teresa aveva tanto a lungo cercato è pro-

48
Ivi, pp. 33-34.
49
Ivi, pp. 42-43.

79
Se cantar mi fai d’amore...

prio Felice, incontrato e amato nel maggio del ’52 in una locanda in
Transilvania, a Klausberg50. Ma non è finita, l’identità del genitore mu-
terà ancora una volta. Nella quarta scena la donna scopre che il cugino
di Caterina, Ciccillo è il suo vero padre. Il giovane aveva vissuto
un’intensa storia d’amore a Parigi con Juliette, ma:

CICCILLO […] Ma la notte di San Giovanni, mentre lei passeggiava


come al solito lungo uno dei mille Boulevard di Parigi un
rapace gigolò me la portò via. Rimasi solo a Parigi, senza
lavoro, senza un soldo e con una bambina che dimenticai
nel giro di tre giorni. Tornai a Sorrento con quest’anello,
unico ricordo di quell’avventura…51.

In questa disinvolta carrellata di generi52 non manca l’Eduardo di


Natale in casa Cupiello, non a caso il testo con cui il figlio di Scarpetta
s’era imposto come figura cardine della tradizione teatrale partenopea.
Diversi sono i riferimenti al lavoro di De Filippo, in particolare al prese-
pe. Ad esempio, nel secondo atto, in punto di morte, don Benedetto Mor-
licchio, laddove Luca Cupiello (anch’egli in punto di morte) affermava:

LUCA Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!53

Don Benedetto sospira:

BENEDETTO Lavì! Caterì!…Che bel presepe! (spira)54.

50
Ivi, p. 49.
51
Ivi, p. 52.
52
Da notare un accenno anche al festival della canzone napoletana. VOCE MASCHILE
REGISTRATA: «[…] Al culmine della serata la fertile fantasia dell’ammiraglio Lauro, un ge-
niale ed intraprendente amico di famiglia inventò una simpatica gara canora che raccolse
subito l’entusiasta partecipazione dei presenti e che sarebbe diventata storia fra quelle inge-
nue popolazioni dei mari del sud», ivi, p. 60. Inoltre, in occasione della gita sul Vesuvio,
Pulcinella canta una canzone di Ernesto Murolo: Tarantelluccia. Ivi, pp.38-39.
53
Id., Natale in casa Cupiello, in Teatro, a cura di Nicola De Blasi e Paola Quarenghi,
Milano, Mondadori, 2000, p. 812.

80
L’osteria del melograno, L’asino d’oro, L’ereditiera

La morte di don Benedetto sembrerebbe suggerire che il rapporto


fra Ruccello e la tradizione partenopea sia ormai giunto a conclusione.
In realtà Eduardo tornerà ancora, sia in Notturno di donna con ospiti
che in Ferdinando. Fino alla fine delle sua breve parabola teatrale lo
scrittore stabiese guarderà puntualmente alla tradizione quale momento
ispirativo di una scrittura nata per affrontare criticamente il presente.

54
L’ereditiera, p. 61. Seppure in questo caso la citazione del presepe vada intesa co-
me omaggio al testo di Eduardo, Ruccello aveva maturato una dettagliata conoscenza dei
presepi napoletani. Già ne Il Sole e la Maschera, ne parlava lungamente proponendo una
differenza fra modello “popolare ” e “gesuitico”: «La prima cosa che risulta evidente
all’osservatore è che nel presepe gesuitico l’intera rappresentazione è completamente capo-
volta rispetto a quella popolare. Il presepe popolare tradizionale è caratterizzato da una serie
di discese in sughero che conducono a tre grotte, di cui la centrale contiene la natività […].
Il presepe gesuitico, invece, tende innanzitutto a una rappresentazione verso l’alto, con tre
colli. Sul più alto è collocata la Natività». Id., Il Sole e la Maschera, cit., p. 56.

81
Lavorando su commissione:
I gingilli indiscreti, La ciociara,
La fiaccola sotto il moggio

Su invito del regista televisivo Delle Haye, nel 1980 Ruccello scri-
ve I gingilli indiscreti. Il testo prende spunto dal lavoro di Diderot (Les
bijoux indiscrets)1, tuttavia Ruccello, frequentatore, in questo periodo,
di ambiti narrativi intessuti di antropologia e fiaba, aggiunge un breve
prologo perché sia chiaro che la vicenda si svolge durante il periodo di
carnevale. La collocazione si rivela funzionale per immettere nella tra-
ma elementi di scherzo e dissolutezza, oltre che figure paradossali e-
spressione di quello spirito di libertà epurato da obblighi sociali e da
gerarchie, in vita durante le dionisiache greche o i saturnali romani (fe-
stività durante le quali l'autorità ed il potere dei padroni sugli schiavi era
temporaneamente sospesa. Questi ultimi cambiavano i propri abiti con
quelli dei loro signori ed eleggevano un re per le feste). Allo stesso modo
qui vengono scelti come regnanti due straccioni eletti sovrani pro tempo-
re da un singolarissimo papa durante una cerimonia corredata di espliciti
riferimenti sessuali e libertini (quale ulteriore riferimento al clima orgia-
stico del carnevale Greco/Romano):

1
Il testo di Diderot viene pubblicato per la prima volta, in forma anonima, nel 1748.
La trovata di far parlare i genitali femminili (i gioielli, appunto), attraverso l'intervento pro-
digioso di una magia, è una citazione ripresa da un racconto del 1747 del Conte Caylus.

83
Se cantar mi fai d’amore...

Sopraggiunge una donna vestita da papa. Lo strascico è


retto da due uomini con il culo scoperto. Avanti un altro
attore con un incensiere di forma fallica. All’arrivo del
“papa” tutti le si inginocchiano davanti e le baciano il
basso ventre. […]
PAPA Vulva et penis penarum fallo rum in vaginam agredientem
et uscentem et risalentem et discendentem et fellatio et for-
nicatio et sodomia et caetera peccato rum […] Nomino te,
re del gran regno di Banza, con nome di Mangogul e tu sa-
rai la favorita di sua maestà con il nome di Mirzoza.
Il primo chierichetto rutta, mentre il secondo fa una scor-
reggia2.

Dell’originale francese sopravvivono sia l’ambientazione, il regno di


Banza, che i due protagonisti, la coppia di sovrani Mirzoza e Mangogul.
Si noti, tuttavia, un altro significativo cambiamento. Laddove in Diderot
Mirzoza ha solo ventidue anni, nel testo di Ruccello la favorita del re ap-
pare alquanto più anziana del suo amante, come si evince dalla didasca-
lia iniziale:

[…] Mirzoza allontana da sé Mangogul, rivelandosi una


vecchia smunta3.

Il sovrano a sua volta viene descritto come: «giovane efebo dallo


sguardo e dal comportamento infantile»4. Questa seconda descrizione
non solo conferisce al rapporto fra i due amanti un significato sottil-
mente incestuoso5 ma anticipa anche una tipologia di maschio/ragazzo

2
Id., I gingilli indiscreti, p. 3 (del prologo) Le citazioni sono tratte dal testo depositato
in SIAE nel gennaio del 1980.
3
Ivi, p. 1.
4
Ibidem.
5
Nel prologo Ruccello fa intendere che i due attori scelti per questi ruoli siano effetti-
vamente madre e figlio:
4
DONNA …A proposito… Chi hanno scelto quest’anno come re e regina del Carnevale?

84
I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

che tornerà costantemente nella drammaturgia di Ruccello (vedi Narci-


so in Week end «È di una bellezza efebica e quasi femminea nella sua
delicatezza»6 o Ferdinando nel testo omonimo « È un giovane di circa
sedici anni, di una bellezza apollinea»)7.
Nondimeno, lo spunto narrativo dell’azione resta immutato: la
noia, male endemico di cui soffre il giovane sovrano. Per alleviare tan-
to malessere la sua sposa invoca con una filastrocca il mago Cucufa:

MIRZOZA C’era una volta nel regno do Banza


Una fontana in mezzo a una stanza
Che non gettava acqua abbastanza
Per dissetare il re di Valenza
Il genio Cucufa fu interpellato
E dopo averlo ben pizzicato
Adulato lavato e asciugato
Davanti al re fu presentato
Come in quel tempo passato e lontano
Cucufa torna a darci una mano
Il principino ha bisogno di te
Tetterepè perepè teretè8.

Mangogul confida al mago il suo desiderio: egli vuol divertirsi alle


spalle delle dame di corte e udire «dalla loro bocca tutte le avventure amo-
rose che hanno …(ripensandoci)… E tutte quelle che hanno avuto …»9.

5
DONNA … Ah… Due straccioni… stavano in galera da non so quanto tempo… Sai…
lei è la vecchia Maria… quella che se la intendeva con il figlio… Ibid., p. 2 (del prologo).
6
La descrizione è presente nella prima versione del testo in Annibale Ruccello, Week-
end, in Teatro,Napoli, Guida editori, 1993, p. 168.
7
Id., Ferdinando, in Teatro, Milano, Ubulibri, 2005, p. 150.
8
Ivi, p. 3. In sintonia con i travestimenti del carnevale, la didascalia ci presenta il ma-
go come: «Un bambino travestito da vecchio eremita con barba finta, saio monacale e una
sorta di lanterna magica luminosa.» Ivi, p. 3. Sebbene il nome dato al personaggio sia lo
stesso, in Diderot questo travestimento è assente. Il genio è descritto come: «un vecchio i-
pocondriaco», Denis Diderot, I gioielli indiscreti, Firenze, Sansoni, 1966, p. 31.
9
I gingilli indiscreti, p. 3.

85
Se cantar mi fai d’amore...

Ascoltata la singolare richiesta, Cucufa estrae un anello dal suo saio e


lo consegna al giovane sovrano:

CUCUFA […] Vedete questo anello, Maestà…mettetevelo al dito…


Tutte le donne verso cui lo dirigerete racconteranno i propri
amori a voce alta, chiara e intellegibile […] però non state
mica a credere che parleranno con la bocca…
MANGOGUL […] E con che parleranno allora…perdincibacco?
CUCUFA […] Con la parte più sincera del loro corpo […] Con il
gingillo…10.

Ottenuta dal consorte la promessa che non userà mai su di lei


l’anello, i due sovrani decidono di dare una gran festa per sperimentare
i poteri del nuovo giocattolo. Vi partecipano le cortigiane Alcina, gio-
vane e graziosa dama, Siberina, bassa e grassoccia, Zelmaide, vecchiet-
ta e segaligna, Egle, dolce e riservata ed, infine, Cidalisa, prorompente
e vivace11. Durante il ricevimento il re punta l’anello verso alcune cor-
tigiane i cui gingilli inesorabilmente acquistano voce12. Colte dal pani-
co, due di loro, Zelmaide e Siberina, si rivolgono al giovane e piacente
gioielliere Frenicol13 che propone loro di indossare due grosse muse-
ruole al fine di «rendere discreto il gingillo»14. Seppur scettiche, le due
cortigiane accettano la proposta. Intanto, lo sconquasso per gli accadi-

10
Ivi, p. 4.
11
Ivi, p. 7.
12
Una nota spiega in che modo le attrici daranno voce ai loro gingilli: «Ogni donna,
esclusa Mirzoza è provvista di una maschera che viene impugnata dalla mano sinistra. Nel
momento in cui è il gingillo a parlare l’attrice porterà la maschera al volto e con questo mo-
vimento si apriranno le gonne a tendina». Ivi, p. 9.
13
In Diderot questo personaggio ha il nome di Eolipilo, non è un gioielliere bensì e-
sponente di una categoria di persone che: «la miseria rende industriosa. Non ruba né rubac-
chia, ma sta ai ladruncoli come questi stanno agli imbroglioni. Sa tutto, fa tutto, ha rimedi
per tutti». D. Diderot, I gingilli indiscreti, cit., p. 101.
14
I gingilli indiscreti, p. 14.

86
I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

menti legati a questi imbarazzanti episodi è tale che vengono convocati


a corte illustri professori perché possano offrire una spiegazione:

MANGOGUL Signori…Professori, e dame che qui tutte siete convenute,


vi ho riunito, come alcuno di voi già saprà per trattare
scientificamente dei gravi episodi che stanno turbando la
pace del nostro reame di Banza […]. Ed essendo noi, come
è normale, assolutamente ignari delle cause che hanno po-
tuto provocare un sì drammatico sconvolgimento nella
quieta nostra Patria, chiedo a voi professori, che con l’aiuto
della vostra ragione, possiate apportare nuovo lume alle
nostre scarsissime conoscenze sull’argomento15.

Ne segue un acceso dibattito fra i vari accademici che si distinguo-


no esponendo una serie di teorie altamente fantasiose e contraddittorie.
C’è chi come Olibri propone di «dichiarare fin d’ora lo stato d’assedio
e soffocare nel sangue ogni tentativo di ribellione…»16, Reciproco in-
vece, immagina che «attraverso i gingilli parli la voce stessa di Dio»17,
ma questa teoria non incontra l’approvazione di Circino che convinta-
mente asserisce: «non è Dio certo ad esprimersi per le oscene bocche
inferiori di queste sventurate creature, ma il suo più temibile avversa-
rio, signori, Satana in persona…»18. Il primo atto si conclude con il re
che, stufo di tanto inutile parlare, invoca i suoi attori perché lo facciano
divertire ancora19. Ma la compagnia dispone di un repertorio alquanto
limitato e per l’ennesima volta propone al sovrano La Didone Abban-
donata del Metastasio. Il secondo atto presenta Mangogul ancora rapito
dall’anello e dai suoi poteri20. Ma il divertimento dura poco, di lì a bre-

15
Ivi, p. 20.
16
Ivi, pp. 20-21.
17
Ivi, p. 21.
18
Ibidem.
19
Gli attori sono interpretati dagli accademici: «I professori si liberano delle toghe
professorali esibendo smaglianti costumi teatrali». Ivi, p. 22.
20
Da notare l’inserimento in questo atto della favola di Ilade e Ifide, due giovani con-
dannati dagli dei a non poter godere del proprio sesso e quindi costretti ad amarsi di amore

87
Se cantar mi fai d’amore...

ve il sovrano è ancora una volta preda della noia. È così che, tradendo
la promessa fatta alla sua consorte, Mangogul rivolge l’anello verso la
regina. Il gingillo della sovrana dichiara eterna fedeltà al suo re, ma la
donna, sopraffatta dalla vergogna ne muore:

MANGOGUL Mirzosa?...Mirzosa?...su smettila…rispondi (ride) vuoi


portarmi il broncio lo so… ti chiedo scusa… dai rispondi-
mi… ho detto che ti chiedo scusa… perdio rispondimi…
(grida) Mirzosa!... tu non puoi farmi questo… alzati…
muoviti!...(piange)… (arrabbiato)… puttana! … puttana!...
puttana!... (la schiaffeggia, poi dolce)… ma non ti preoc-
cupare…il tuo Mangogul ti farà stare bene […]21.

Diderot conclude il suo racconto all’insegna dell’happy ending,


laddove Mangogul ascolta il suggerimento di Mirzoza e accetta di resti-
tuire l’anello a Cucufa, lasciando che il loro amore prosegua serena-
mente. Diversamente, Ruccello inserisce la morte dell’amata, procurata
e violenta22, preludio di una drammaticità che, come già accennato ne
Il Rione, caratterizzerà stabilmente il rapporto uomo/donna nei suoi la-
vori, da Jennifer in poi. Questo tipo di rapporto viene epurato di ogni
contorno netto, lasciando che l’incertezza che accompagna i mutamenti
sociali in atto in quegli anni finisca col porre in discussione anche la
solidità di dinamiche tanto intime. Non a caso, sia esso di natura senti-
mentale o puramente sessuale, questo rapporto si presenta quale costan-
te luogo della sopraffazione, della vendetta, del dolore, dell’irrealtà.
L’uomo e la donna non possono amarsi, il loro incontro è destinato a
tramutarsi in uno scontro in cui uno dei due troverà la morte o cadrà
vittima della follia.

spirituale finché: «l’incantesimo fu rotto». Ivi, pp. 3-4 (secondo atto). L’inserimento di una
fiaba, talvolta avulsa dallo svolgimento della trama, ricorre in altri testi di Ruccello,
L’osteria del melograno, Una tranquilla notte d’estate, Week-end e Mamma.
21
Ivi, p. 17 (secondo atto).
22
La didascalia finale dell’atto descrive la comparsa delle donne che si avvicinano
minacciose a Mangogul: «sull’urlo di Mangogul si richiude la conchiglia». Ivi, p.17 (se-
condo atto).

88
I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

Su invito di Caterina Costantini e Aldo Reggiani, nel 1985 Ruccel-


lo adatta per le scene La ciociara23 dal romanzo di Moravia24. Il mondo
del romanzo che contiene e promuove lo stupro della giovane Rosetta,
invano difesa dalla madre, è quello spietato e indecifrabile della Se-
conda Guerra Mondiale nelle campagne a sud di Roma, dissolte dai
bombardamenti, dai rigurgiti fascisti dell’ultima ora, dal disorienta-
mento degli sfollati, dalla marcia delle truppe d’occupazione. Ruccello
crea una sorta di flash-forward interrogandosi su cosa sia accaduto ai
personaggi del romanzo dopo la guerra. Ritroviamo così le due donne
nel 1955, madre e figlia sembrano tornate ad una salda normalità, ad
una vita piccolo-borghese al di là di ogni loro speranza. Cesira non è
più quella madre sconvolta sul ciglio della strada polverosa nell’atto
d’implorare pietà per sua figlia violata, colei che aveva riversato su Ro-
setta tutte le sue speranze, tutto il suo modo di intendere il mondo, per
quanto lei, contadina di Ciociaria e bottegaia di Roma potesse ritenere
giusto. Allo stesso modo, Rosetta non è la creatura che non sarà mai
più come prima dopo aver subito l’offesa di mani estranee sul suo cor-
po di bambina. Il fantasma di quella violenza si è tramutato in quoti-
diana banalità, siamo in piena era televisiva, ai tempi duri della guerra
sono subentrati quelli comodi di un consumismo invadente che giusti-
fica tutto, che tutto autorizza a dimenticare. Il dolente passaggio dalla
cultura contadina a quella neo-consumistica è avvenuto, ha prevalso un
desiderio di omologazione che stride con il passato. La prima scena
mostra le due donne mentre discutono dell'acquisto di un’automobile
nuova, ennesima pretesa della figlia, stavolta a beneficio del marito:

CESIRA […] Che frutto mi darebbe, a me, dare i soldi a Roberto per
la macchina? Che me ne entrerebbe a me?
ROSETTA A te no, ma a me sì! E specialmente a Roberto! Non può
andare ancora al lavoro con la lambretta. Tutti ci hanno la

23
La ciociara, con la regia di Aldo Reggiani, debutta a Frosinone il 5 novembre,
1985. Fanno parte del cast: Caterina Costantini, Patrizia Captano, Luigi Maria Burrano,
Francesca Faccini, Francesco Alderuccio, Sergio Coalizzi, Claudio Rosa, Luigi Moretti.
24
Moravia pubblica il suo romanzo nel 1957.

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Se cantar mi fai d’amore...

macchina! Che figura ci facciamo!


CESIRA Ecco la parola: Tutti!..Me l’aspettavo! Tutti! Ma chi sono
questi tutti? Chi? Io non li vedo tutti questi che dici tu!
“Tutti c’hanno i vestiti”… “Tutti vanno a fare le vacanze!”
“Tutti vanno al cinema la domenica!” E voi non siete tutti!
Voi siete due cristiani con tre figli e un solo stipendio mise-
rello! E alla fine del mese io devo già sborsare abbastanza
soldi per farvi mangiare tutti! E adesso basta!25

Lo stesso Michele, il giovane antifascista morto per salvare altre


vite, torna ciclicamente nei pensieri della donna come suo confessore
laico, sua coscienza civile e pedagogica. Se nel romanzo il ragazzo e-
sprimeva un forte disincanto verso il futuro, urlando agli altri sfolla-
ti:«siete tutti morti, siamo tutti morti e crediamo di essere vivi…»26, nel
suo adattamento, Ruccello lascia a questo personaggio la funzione di
occhio critico del presente:

MICHELE Vedi, Cesira, Rosetta tua non è stata cambiata dai maroc-
chini, dalla violenza, dalla guerra. Certo, tutto questo ha
contribuito. Ma non solo per Rosetta. È tutto intorno che è
cambiato. E se è così è giusto ormai che cambi anche lei...
CESIRA Ma tu l'hai sentita prima? Hai visto come pretende? E te la
ricordi com'era?
MICHELE Mi dispiace, Cesira, ma è solo l'inizio. È solo l'inizio di
un’orrenda rivoluzione che non è la bella rivoluzione che
sognavo io. Questa è una rivoluzione invisibile, che cor-
roderà inesorabilmente e impercettibilmente prima gli a-
nimi e poi i corpi stessi. Ha inizio adesso un processo di
omologazione ...27.

25
Questa e le successive citazioni sono tratte dal copione depositato in SIAE il 18 set-
tembre 1985. Id., La ciociara, p. 4.
26
Alberto Moravia, La ciociara, Milano, Rizzoli, 1957, p. 164.
27
La ciociara, p. 7.

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I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

Le parole di Michele riflettono fatalmente le critiche di Ruccello sul


disfacimento della propria cultura ad opera di un processo di omologa-
zione subito dalle classi meno privilegiate. E dunque, ecco che prima di
sparire, quell'inutile fantasma può solo sbottare, avvilito e disperato:

MICHELE […] Sai che ti dico? Comprala, comprala la macchina a tua


figlia! E comprale tutto quello che vuole! È figlia a te! È tua
figlia e vuole tutto quello che tu le hai insegnato a volere!28

È questo il risultato di una contaminazione totale all’interno della


quale si materializza il terremoto psicologico in cui sono maturate la
disillusione di Cesira e lo sbandamento di Rosetta: il passaggio dalla
fede alla negazione di ogni credo se non quello del denaro.
Sebbene la storia cominci dagli anni ’50, lo svolgimento della tra-
ma avviene a ritroso. Il drammaturgo stabiese lavora sulla scomposi-
zione della storia (il testo è composto in due atti e trentuno scene), a-
dottando un approccio da editing cinematografico, montando e smon-
tando i pezzi della trama a mo’ di moviola, evocando così i momenti
salienti del plot attraverso una serie di flashback. Come conferma lo
stesso Ruccello:

[…] poiché il testo ha già dei connotati visivo cinematografici una strut-
tura on the road (un viaggio, una storia di sfollati che si spostano conti-
nuamente) abbiamo montato il lavoro immaginando di seguire il processo
della memoria, con il passare delle immagini l’una nell’altra29.

28
Ivi, p. 8.
29
Maria Pia Fusco, “La Ciociara” arriva anche in palcoscenico, «la Repubblica», 30
ottobre 1985. In realtà, al debutto alcuni critici contestano proprio l’impianto cinematogra-
fico dell’adattamento: «L’operazione complessiva però, risente di una sceneggiatura direi,
cinematografica, della storia che impedisce di cogliere reali sviluppi e progressioni
dell’azione scenica, della psicologia dei personaggi, del loro realistico essere “fettine” di
storie ed, al tempo stesso, allusive metafore degli eventi di trasmigrazione di culture in

91
Se cantar mi fai d’amore...

Così dopo una breve sortita nel 1955 si torna al 1944. In questa fa-
se del racconto il drammaturgo segue fedelmente l’ordine cronologico
degli avvenimenti indicati nel romanzo di Moravia, agevolando il pas-
saggio da una scena all’altra con una serie di dissolvenze incrociate.
Ritroviamo Cesira, eroina perdente del ceto bottegaio, modesta inter-
prete del mercato nero, in un frangente della storia che esalta il culto
dei viveri, della clandestinità alimentare, degli ideali del nutrirsi mentre
la guerra degenera in meschinità predatoria. Terrorizzata dai bombar-
damenti la donna decide di lasciare Roma per tornarsene con la figlia in
campagna, in Ciociaria. Segue il soggiorno a casa di Concetta30, l’aiuto
di Tommasino, l’alloggio da Filippo, l’incontro con Michele, lo stupro:

CESIRA […] Un lampo bianco…una faccia nera! I denti rotti! Che


brutta risata! SIAMO SFOLLATE! SIAMO SFOLLATE! CHE FA-
TEEEE! SIAMO SFOLLATE!!!!!!!!!
La valigia per terra! SIAMO SFOLLATE!
Lo scatolone per terra! SIAMO SFOLLATE!
Un Turco! Un Turco! UN TURCO!
Due! Tre!
TANTI!
Rosetta! ROSETTAAAAAAAA!31.

Dopo l’atto di barbarie, la vita delle due donne continua, come può.
Rosetta, orfana dei suoi sogni d’adolescente, affronta il presente con
inedito cinismo e praticità32. Laddove le ultime pagine del romanzo
mostrano le due donne alle porte di Roma, Ruccello propone un ultimo
flash-forward catapultandoci nel 1960:

grandi rivolgimenti sociali e politici.» E. P., Se una ciociara ricorda…, «La Gazzetta del
Mezzogiorno», 11 gennaio 1986.
30
La didascalia di presentazione di questo personaggio rivela la formazione da antro-
pologo di Ruccello: «[…] una contadina rumorosa e fastidiosa. La sua apparizione dovreb-
be essere improvvisa come quella di una divinità malefica. Uno spiritello contadino del ma-
le, un mazzamauriello, o un monaciello» La ciociara, p. 16.
31
Ivi, p. 53.
32
Ne è esempio il breve flirt della ragazza con il commerciante Clorindo.

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[…]
ROSETTA Due mesi passano presto, mamma! Quante storie che fai!
CESIRA Ma non potevo venire pure io? Che c’ho la rogna?
ROSETTA Il villino è piccolo te l’ho detto. C’è giusto il posto per me,
mio marito, i pupi e la donna…
CESIRA Il posto per la cameriera c’è e per tua madre no!
ROSETTA La cameriera pulisce e ci tiene apposto i pupi! I bambini ci
sono affezionati ormai!
CESIRA E certo. Stanno più con lei che con la nonna!
ROSSETTA Mamma! Ma perché devi essere sempre così tragica! Ogni
volta che ci vediamo è una litigata! Non mi fai partire tran-
quilla e quelle poche vacanze diventano un inferno!
CESIRA Vai! Vai! Parti tranquilla! Non ti preoccupare…(Fra sé e
sé) Aveva ragione Michele…
ROSETTA Chi?
CESIRA Niente, niente!
ROSETTA A proposito. La macchina nuova è una cannonata. Fra un
anno abbiamo finito di pagare anche le cambiali e posso
comprarmi un’utilitaria per me! (guarda l’ora) Beh! Mam-
ma ciao, è tardi! Ti telefono domani mattina prima di parti-
re! Ciao!
CESIRA Ciao. […]33.

33
La ciociara, pp. 60-61. Questa secondo flash-forward viene criticato da Osvaldo
Guerrieri: «C’è un momento di troppo ne La Ciociara […] è il momento in cui Cesira e Ro-
setta, uscite mutate e ferite dalla guerra ci appaiono come due donne degli anni Sessanta.
Nel tinello del “quartierino” sopra la bottega di pane e pasta c’è il televisore, Rosetta è spo-
sata, sta per andarsene in villeggiatura con il marito, i figli e la domestica […] Con questa
scena da commedia borghese il riduttore Annibale Ruccello stempera e annulla la tragica
epopea delle due donne in fuga e insieme vittime della violenza, la violenza collettiva della
guerra e quella individuale della guerra.» Id., Guerra, ricordo lontano nella Ciociara anni
60, «La Stampa», 3 aprile 1986.

93
Se cantar mi fai d’amore...

Il finale intriso di pessimismo è in sintonia con quanto scritto dal no-


stro autore in lavori precedenti. Alla fine anche Rosetta è diventata un’al-
tra di quelle mamme sconfitte che Ruccello aveva disegnato con grande
acume. Donne precipitate dalle fiabe della tradizione alla quotidianità
composta di sterile materialismo e insulsi nomi affibbiati ai figli sulla
traccia di un immaginario d'accatto diviso fra telenovela e calcio.
L’ultimo lavoro al quale questo drammaturgo si dedica è l’adatta-
mento de La fiaccola sotto il moggio di D’Annunzio34. Intriso di rife-
rimenti tanto alla tragedia greca (basti pensare a Elettra e Antigone)
quanto a Shakespeare (Amleto), nonché composto in osservanza delle
tre unità aristoteliche, il dramma è ambientato nel XX secolo agli albori
della Grande Guerra. Si narra della famiglia dei de Sangro, degli ultimi
istanti della loro reggenza al Castello normanno di Anversa degli A-
bruzzi. Qui, alla vigilia di Pentecoste, nel castello di famiglia, si con-
suma la vicenda che porta Gigliola a vendicare la morte violenta della
madre Monica, uccisa un anno prima da Angizia, la serva che con que-
sto delitto è diventata la nuova moglie di suo padre, il principe Tibaldo,
di cui da tempo era amante. Perseguire la vendetta è per Gigliola un
cammino segnato dalla sofferenza e dal sacrificio di sé e della propria
giovinezza. La donna vaga per le molte stanze del palazzo in preda ad
un’incontrollabile agitazione interiore, ad una grande inquietudine della
coscienza, inseguendo i fantasmi e le allucinazioni della sua mente de-
vastata da un pensiero ossessivo: raggiungere la madre morta dopo a-
ver ucciso Angizia. A lungo meditato, il progetto di Gigliola non si li-
mita all’eliminazione della matrigna ma include anche il suicidio per
lavare così l’onta della complicità paterna nell’assassinio della madre. Il
piano pare realizzarsi grazie all’ospitalità che i de Sangro hanno conces-
so al serparo Edia Furia, padre di Angizia, da lei rinnegato. Gigliola sot-
trarrà, infatti, delle serpi velenose a Edia e si farà mordere, per poi corre-
re nella stanza di Angizia a ucciderla, ma la troverà già morta. L’ha sop-

34
Il testo sarà depositato in SIAE dopo la scomparsa dell’autore, il 20 ottobre 1986.
Lo spettacolo viene poi allestito da Piero Maccarinelli con un cast diverso ma con due col-
laboratori storici di Ruccello, Franco Autiero alle scenografie e Carlo De Nonno autore del-
le musiche. L’originale di D’Annunzio era andato in scena per la prima volta a Milano il 27
marzo 1905 con la Compagnia Drammatica di Mario Fumagalli.

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I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

pressa Tibaldo che ha così voluto evitare che la purezza dei figli venisse
contaminata da un delitto, ma soprattutto ha provato a seppellire
nell’oblio le sue colpe nei confronti della defunta moglie Monica:

TIBALDO Io sì, l’ho spenta.


Il suo sangue è su di me. T’ho vendicata.
GIGLIOLA Tu non potevi, non potevi. Il voto
Era mio solo. Vittima per vittima!
Tu l’hai sottratta al mio diritto santo.
TIBALDO Perché la mano tua
non si contaminasse,
figlia, io l’ho fatto.
GIGLIOLA Ma la tua non era
pura per questo sacrificio.
TIBALDO In questo
Sacrificio ho lavato
la mia vergogna35.

In merito al finale della tragedia, Valentini fa notare:

Le critiche si appuntavano soprattutto sul finale dell’opera che appariva


incongruente perché le numerose morti dei protagonisti non portavano al-
la catarsi: si contestava il fatto che Gigliola non perdonasse il padre della
complicità nell’uccisione della madre, nonostante Tibaldo avesse tentato
di riscattarsi dalla colpa uccidendo Angizia. L’atto delittusoso appariva
inutile poiché non trovava riscontro in un mutato atteggiamento della fi-
glia nei confronti del padre. D’Annunzio, dopo la prima, modificò il finale
della tragedia inserendo una scena – molto breve – in cui Gigliola veniva
quasi costretta da donna Aldegrina a tendere le braccia, in atto di ricon-

35
Id., La fiaccola sotto il moggio, p. 78.

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Se cantar mi fai d’amore...

giungimento e di perdono. Questa modifica contribuì a far accettare la tra-


gedia al pubblico delle piazze dove successivamente venne rappresentata36.

Eppure, nella versione data alle stampe, la scena di riavvicinamen-


to fra padre e figlia manca. Allo stesso modo nella versione di Ruccello
Gigliola s’avvia solitaria verso la sua morte:

GIGLIOLA Io lo so, io lo so.


Non potete aiutarmi.
Medicina non vale.
Quando mi mossi, io volli
Non più tornare in dietro.
M’ha chiamata, mi chiama.
Andare debbo, ho il letto
Per l’agonia: la pietra
che fu chiusa da due…37.

Se già con La ciociara Ruccello aveva preferito lavorare in preva-


lenza sulla scomposizione della trama, in questo caso il drammaturgo si
mostra ancor più prudente operando solo alcuni tagli interni al copione
ed ottenendo uno snellimento della struttura che passa così da quattro
atti a soli due tempi (senza suddivisione in scene)38. Vengono tagliate
anche le didascalie del testo, in particolar modo la prima descrizione
del palazzo. In D’Annunzio si legge:

Appare un’aula vastissima nella casa antica dei Sangro costruita sul dos-
so ineguale del monte. Alla robustezza della primitiva ossatura normanna
tutte le età han sovrapposto le loro testimonianze di pietra e di cotto, dal
regno degli Angioini al regno dei Borboni. Ricorre all’intorno un balla-
toio ricco di sculture, sopra arcate profonde; delle quali alcune sono

36
Valentina Valentini, Il poema invisibile. Le prime messe in scena delle tragedie di
Gabriele D’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1993, p. 339.
37
La fiaccola sotto il moggio, p. 79.
38
Si noti che la tragedia è scritta in versi endecasillabi e settenari.

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I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

tutt’ora aperte, altre sono rinchiuse, altre sono rette da puntelli. Delle tre
in prospetto, la mediana prolunga la sua volta verso il giardino […]; la
destra mette a una scala che ascende e si perde nell’ombra; la sinistra
[…]s’incurva su la porta della cappella gentilizia […]. A destra gli archi
[…] si aprono su una loggetta del Rinascimento [….]. E il tutto è vetusto,
consunto, corroso, fenduto, coperto di polvere, condannato a perire.39

Con Ruccello diventa:

Un’aula vastissima nella casa antica dei Sangro40.

La lunghezza della didascalia in D’Annunzio non è frutto di un


certo barocchismo descrittivo, ma risponde all’intento di disegnare in-
torno a questa grande dimora una vasta ontologia del declino. La scon-
fitta è percepibile nell’aria pesante e torbida, nei muri screpolati specu-
lari alla condizione morale vissuta dai personaggi che appaiono come
posseduti da un inarrestabile delirio di dissolvimento, come a porsi in
stretta sintonia con quanto accade al castello che da tempo non è più in
grado di sostenere la propria funzione di dimora, assumendo le fattezze
di una carcassa disagevole e inospitale41.

39
Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, 1940, pp. 37-38.
40
La fiaccola sotto il moggio, cit., p. 2.
41
Nel testo di D’Annunzio ci sono vari esempi di questo disfacimento: la Regina
Giovanna rotola dalla sua nicchia, il simulacro del re Roberto oscilla pericolosamente, il
pietrame si sfarina tra le mani dei manovali come fosse di sabbia e i mattoni ritornano molli
come fossero ancora crudi, le logge pendono e i puntelli non tengono. In merito alla sceno-
grafia il critico Nico Garrone scrive: […] il castello dei de Sangro è diventato un castello di
cartapesta, che non rimanda tanto ai fasti teatrali dell’Opera, neanche a Caracalla, nella sta-
gione estiva per turisti. Si avvicina semmai a una versione dello sfascio aristocratico di una
«Dynasty» molto disneyano con quelle finestrelle ai due lati che sembrano affacciarsi su un
paesaggio da «cartoon» come se il castello dei de Sangro fosse il castello della strega di
Biancaneve.” Id., Metti D’Annunzio nel castello della strega cattiva, «la Repubblica», 8
novembre 1986.

97
Se cantar mi fai d’amore...

Allo stesso modo collocare lo svolgimento dell’azione durante la


Pentecoste ha per il Vate un suo fine. La Pentecoste non è soltanto il
momento in cui si celebra la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli
radunati nel Cenacolo, ma è anche la festa della mietitura e del raccol-
to, qualcosa per cui si è molto lavorato e che ora viene a maturazione,
la stessa maturazione per la quale, sebbene su un piano diverso, Giglio-
la ha molto lavorato e molto atteso. Ma evidentemente il senso
dell’operazione Ruccelliana non va ricercato nel lavoro di riscrittura
del testo ma nella lettura antropologica che il drammaturgo avrebbe in-
teso darne attraverso la sua regia. Come conferma Maccarinelli:

Annibale stava lavorando su un’ipotesi di lettura antropologica della


Fiaccola: “Al tempo di Re Ferdinando I di Borbone ad Anversa […].
Ferdinando tornava il RE, tornavano i Borboni, il Sud e le sue contraddi-
zioni, i suoi dati folclorici e no, in una lettura che si sarebbe presentata di
grande interesse. Avevo letto la prima stesura e mi sembrava ottima, il te-
sto era stato sfrondato di tanta retorica anche di certo lirismo e decadenti-
smo e il tutto era diventato più violento, più “forte” ed emozionante42.

Alla luce delle precedenti produzioni, si possono rintracciare alcuni


elementi che aiutano a capire l’accostamento di Ruccello a quest’opera.
In primis c’è il radicamento del testo in un Sud fatto di ombre, di deca-
denza e di immobilità. A differenza di quello pastorale raffigurato nella
Figlia di Jorio, l’Abruzzo qui disegnato dal Vate non è un archetipico
luogo senza tempo bensì un ben preciso ambiente storicamente defini-
to, qual è Anversa, posta «presso le gole del Sagittario al tempo del Re
Borbone Ferdinando I»43. Tale radicamento territoriale44 si esprime an-

42
Piero Maccarinelli, Quasi un diario di bordo, «Sipario», 466, 1987.
43
Gabriele D’Annunzio La fiaccola sotto il moggio, Milano, Arnoldo Mondadori Edi-
tore, 1981, p. 36.
44
Il titolo stesso dell’opera esprime il radicamento in questione. Il moggio, una sorta
di piccolo tino usato come unità di misura per le granaglie, rimanda al mondo contadino,
nel cui ambito si svolge la storia. Il detto “tenere una fiaccola sotto il moggio” significa
“possedere una verità nascosta” che è appunto quella di Gigliola la quale intuisce la vera
causa della morte materna, ma non la manifesta, se non alla fine.

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I gingilli indiscreti, La ciociara, La fiaccola sotto il moggio

che attraverso i personaggi ed in particolar modo mediate il serparo


Edia45. Al pari dei Sangro, anche lui ha alle spalle un ceppo antico, è
discendente di una progenie dalla quale ha ereditato l’arte di cacciare le
serpi che incanta con il suono del suo flauto, trascinandole fuori dalla
terra dove vivono e si nascondono. L’uomo conosce la maniera di
strappare alla terra anche oggetti e cose, ha, infatti, dissotterrato presso
le rovine della sua città morta dei monili che ora offre in dono a Giglio-
la: un pettine a doppia dentatura con la costola intagliata di cervi e di
leoni, una collana di grani d’oro giallo e acini di vetro verderame e un
crinale fatto come un lungo spillo; quest’ultimo suscita la preferenza
della donna, probabilmente attratta dalla somiglianza dell’oggetto ad
uno stiletto e come tale adatto all’esecuzione dei progetti che ha in a-
nimo di compiere. I doni, pur provenendo dalle mani del serparo sem-
brano aver origine non tanto dall’uomo, quanto dallo spirito della terra,
da una sepoltura in cui anche la madre si trova e da dove la madre stes-
sa avrebbe potuto volerli inviare46.
Si riscontrano, inoltre, almeno due elementi che accostano questo
testo a Ferdinando. Il primo è la collocazione temporale, immediata-
mente precedente, induce a credere che Ruccello abbia immaginato la
possibilità di portare a compimento con La fiaccola l’analisi di un de-
terminato periodo storico. Il secondo riguarda i contenuti. Come in

45
Il personaggio di Edia è uno dei pochi ad ottenere l’apprezzamento della critica nel
1905: «Questo personaggio è di una meravigliosa potenza evocativa, ed è veramente
l’Abruzzo selvaggio; l’Abruzzo con le sue superstizioni e i suoi sortilegi, i suoi spiriti paga-
ni inutilmente combattuti dal Cristianesimo» Ettore Moschino, La Fiaccola sotto il moggio
al Manzoni di Milano: l’Abruzzo nella tragedia, «Il Marzocco», 2 aprile 1905.
46
In merito al rapporto fra D’Annunzio e la figura del serparo, Fernando Trebbi scri-
ve: «D’Annunzio racconta di averlo incrociato, un giorno d’estate, nella sua terra
d’Abruzzo e di aver ascoltato, sotto il portale di una Chiesa, la magica melodia ricavata da
un osso di cervo a cinque buchi che un antenato aveva rinvenuto in uno dei sepolcri che si
trovano lungo la strada romana. Analogamente al serparo della Fiaccola, anch’egli si pre-
senta come l’ultimo discendente di una dinastia sacerdotale che nel corso dei secoli ha for-
nito serpenti sacri alla cisterna del Santuario; anch’egli conosce le tecniche che i suoi avi gli
hanno trasmesso, e anche al suono del suo incanto la genia serpigna si agita nel sacco di
cuoio a forma di otre sospeso alla spalla marcata con il segno Tutelare.» Id., Le porte
dell’ombra. Sul teatro di D’Annunzio, Roma, Bulzoni Editore, 1998, p. 122.

99
Se cantar mi fai d’amore...

Ferdinando, il crollo della vecchia aristocrazia è causato dall’irrefre-


nabile sete di ascesa sociale delle classi subalterne che non si fermano
neanche di fronte al delitto, incarnate, entrambe, dal personaggio di
Angizia, diventata padrona con la frode e con il delitto.

100
Una nuova direzione:
Le cinque rose di Jennifer

Lo spettacolo che pone Ruccello al centro del proprio presente stori-


co, rivelandone la modernità interpretativa, è Le cinque rose di Jennifer
(1980)1. Nel sancire il definitivo abbandono del tetto desimoniano, il te-
sto, divenuto campo sperimentale sul futuro, rappresenta una significati-
va svolta nel percorso drammaturgico di quest’autore. È un lungo atto
unico. In osservanza delle tre unità tragiche definite da Aristotele (spa-
zio, tempo e azione) la storia ha luogo in un unico ambiente (il monolo-
cale di Jennifer), l’azione si svolge nell’arco di ventiquattro ore e vi è un

1
Lo spettacolo debutta a Na babele Theatre di Napoli il 16 dicembre 1980 (il testo era
stato depositato in SIAE il 10 ottobre dello stesso anno). La regia dello spettacolo è firmata da
Michele di Nocera, Ruccello interpreta Jennifer mentre a Francesco Silvestri viene affidato il
ruolo di Anna. Avendo riscosso un notevole interesse presso i critici napoletani, lo spettacolo
viene poi ripreso nel marzo del 1981 al Teatro della Tammorra di Napoli. In maggio lo spetta-
colo si sposta a Roma al Teatro Convento Occupato riscuotendo la stessa approvazione da par-
te della critica, come conferma la seguente recensione: «Il più convincente, aggressivo, duro
pezzo di teatro en travestì visto da parecchio tempo a questa parte. Recitato benissimo […]
Storia di ordinaria follia metropolitana, che riesce ad unire la scioltezza, la naturalezza del tea-
tro dialettale di tradizione partenopea con umori comici, surreali e grotteschi da commedia
dell’assurdo» Nico Garrone, Le rose di Jennifer fioriranno, «la Repubblica», 26 maggio 1981.
Esiste anche una versione cinematografica di questo lavoro (il titolo è inalterato) realizzata nel
1989 da Tommaso Sherman con interprete principale Francesco Silvestri.

101
Se cantar mi fai d’amore...

unico elemento a guida dell’incipit principale, l’attesa di Franco2. Attra-


verso le didascalie iniziali, il drammaturgo fornisce indicazioni dettaglia-
te sullo spazio scenico, sul tipo di immagine da conferire allo spettatore e
sui costumi del protagonista. La scena si presenta affollata da un’infinità
di oggetti di dubbio gusto, espressione dell’illusione di un raggiunto sta-
tus quasi borghese (oltre che evidente metafora della totale immersione
del personaggio nella propria contemporaneità):

un appartamento in penombra. Dalla luce del giorno che filtra dalle tap-
parelle dell’unica finestra, peraltro molto ampia, si intravede un notevole
disordine. Indumenti femminili sparsi un po’ dovunque, un tavolo in-
gombro dei resti di una cena, un vaso con delle rose rosse appassite, un
letto sfatto, rotocalchi popolari, trucchi ecc. La luce esterna, per un invo-
lontario gioco delle tapparelle, pone in evidenza soprattutto una radio e il
telefono, bianco […] La luce metterà in evidenza tutto l’orribile kitsch
dei mobili e dei soprammobili affastellati nell’appartamento3.

Protagonista del dramma è Jennifer, un travestito. Ruccello lo mo-


stra nella sua casa situata in uno dei tanti quartieri popolari sorti a Na-
poli tra il secondo dopoguerra e gli anni del boom economico. Luogo
non definito, ma comunque limitrofo e abitato solo da travestiti. Mentre
aspetta da mesi che torni il Franco conosciuto una sera di tanto tempo
fa, Jennifer vive una vita domestica costantemente accompagnata da
due elementi: la radio e il telefono, terminali attraverso cui i frammenti
dell’immaginario erotico-urbano del personaggio prendono corpo. Ed è
attorno ad essi che l’autore fa ruotare l’azione drammatica. Agli inizi
degli anni Ottanta, dopo aver assorbito la novità delle televisioni com-
merciali, la sottocultura di massa s’impossessa di un altro fenomeno
mediatico, le emittenti radiofoniche private, caratterizzate dalla possibi-

2
Franco è un ingegnere del nord che dopo aver trascorso una notte con Jennifer, tre
mesi prima, promette di tornare.
3
Id., Le cinque rose di Jennifer, in Teatro, Milano, Ubulibri, 2005, p. 21. Un detta-
gliato resoconto dello stretto rapporto fra status culturale dei personaggi e scenografia nei
lavori di Ruccello viene fornito da Rita Picchi in Scenografia e oggetti di scena fra tradi-
zione e Kitsch in Scritti inediti, cit., pp. 31-33.

102
Le cinque rose di Jennifer

lità di mandare dediche personalizzate ai propri cari in ascolto. Questa


singolare interazione con il mezzo radiofonico ne decreta l’immediata
popolarità. All’antropologo Ruccello non sfugge la novità. Ecco, quin-
di, che nel suo essere espressione viva di quella sottocultura, anche
Jennifer non esita a mandare dediche radiofoniche ogni sera:

JENNIFER (molto “signora”) Pronto?...Radio Cuore Libero?...Vorrei


fare una dedica…Sì…Sono io Jennifer…Sì appunto…Se
perdo te…(Volgarissimo) Eh! ’O saccio ca so’ tre mmise ca
faccio ’a stessa dedica […] A Franco! Da parte di Jennifer
che lo aspetta fidente […] Avete capito signorina?...Tutto a
posto signorina?...Mille grazie signorina…Arrivederci, si-
gnorina… (Riattaccando)… Sta stronza!4

Lasciando la radio perennemente in funzione (fatta eccezione per le


telefonate e le visite di Anna), l’autore pone in evidenza la marcata con-
dizione di solitudine del suo protagonista. Nondimeno, attraverso le varie
telefonate in radio, apprendiamo che tale condizione non appartiene solo
a Jennifer ma sembra attanagliare anche altri personaggi, non a caso e-
spressione di quello stesso microcosmo culturale (anch’essi travestiti):

VOCE DI TRAVESTITO/SONIA Io volevo dire, no, che certe volte mi sento


troppo sola…Me sento sola, sola, sola…Nun c’ ’a faccio cchiù,
no…Quando mi ritiro la sera, no…A volte me sento ’e ascì pazza… me
trovo sul’io…In mezzo a quattro mura…E certe sere, no io urlo…5.

Coinvolgendo in questo stato di alienante solitudine altri perso-


naggi presenti nel dramma, Ruccello rende universale la condizione di
Jennifer ed ancor più cupo il percorso narrativo del suo testo. Ma radio
significa anche musica. Ecco quindi che le canzoni si presentano come

4
Le cinque rose di Jennifer, p. 29.
5
Ivi, p. 27.

103
Se cantar mi fai d’amore...

commento alle azioni più intime del quotidiano esistere del travestito in
scena, stabilendo un dialogo tra musica e memoria, tra musica e vita:

Mentre la radio trasmette la canzone […] Jennifer ha un moto di gioia nel


riconoscere la voce di Mina. Prende distratto uno specchio gettato su un
mobile, si osserva. Decide. Si dirige verso la toilette, si libera dagli orec-
chini e dall’orologio, prende un flacone di crema, se ne versa una dose suf-
ficiente nel cavo della mano. Nell’asciugarsi le mani con un candido asciu-
gamani, preso da una fantasia repentina poggia sul capo l’asciugamani ed
elettrizzato dal gioco, si impossessa di alcuni fiori di plastica giacenti in un
vaso nelle vicinanze. Con molto sussiego incede per la scena, impossibile
“sposa” del suo Franco. […] Terminata la canzone trasmessa e al suo posto
si ode come un galoppare di nacchere mentre prepotente e melodrammatica
si concretizza la voce di Milva in una sua antica canzone […]. Quasi in
trance estatica, Jennifer si libera della vestaglia e volteggiando per
l’appartamento si addobba in un lunghissimo abito nero estratto dallo sca-
tolone con cui era entrato all’inizio dello spettacolo6.

Si trasmettono i programmi di una emittente locale, Radio Cuore


Libero, interrotti solo da comunicati in cui si dà notizia di un maniaco
che va uccidendo travestiti, sparandogli in bocca e lasciando sul cada-
vere cinque rose rosse7.

6
Ivi, p. 29. In occasione dell’ultima ripresa dello spettacolo da parte di Ruccello, am-
mirato da questa scena, Franco Cordelli cita Scende giù per Toledo di Patroni Griffi (dimen-
ticando il più vicino Persone naturali e strafottenti): «La sua idea più intelligente, il mo-
mento in cui Jennifer fa roteare il vestito che si è appena tolto sul capo, il momento in cui
apre la toletta per il trucco, quando si finge lui il cantante… Qui siamo in presenza di una
vera drammaturgia sul testo (artistico) più italiano che ci sia, la canzone d’amore. Non sono
un appassionato di canzoni, ma ho l’impressione che non ci sia film neorealista o stilismo
Armani che dica altrettanto bene che cosa sia essere italiani. Tra l’altro Ruccello, a questo
punto, si è anche liberato dal fantasma di Patroni Griffi, dall’eroe di «Scende giù per Tole-
do» Id., La canzone dell’amore, «Paese Sera», 8 gennaio 1986.
7
VOCE DELLO SPEAKER Si infittisce il mistero inerente agli omicidi nel nuovo quartiere
dei travestiti. Stamani alle nove è stato scoperto un nuovo cadavere in un monolocale al ter-
zo piano del numero sette di via del Cespuglio… Le cinque rose di Jennifer, p. 2. L’assas-
sinio di uomini gay da parte di un maniaco rimanda al film Cruising di William Friedkin
con Al Pacino, uscito nel 1980.

104
Le cinque rose di Jennifer

Il telefono, a sua volta, squilla di continuo8. Sembra che le linee te-


lefoniche siano impazzite, tant’è che non si riesce mai a comunicare
con la persona desiderata, colpa delle troppe linee che s’incrociano nel
quartiere:

JENNIFER (con voce improvvisamente suadente)…Pronto… (Eccitandosi)


Franco sei tu!...Ah…(Delusissimo si accascia su di uno
sgabello) Scusate, tenevate la stessa voce…(Con dolcezza)
A chi volete?...A Concetta?...E avete sbagliato numero, mi
dispiace…Questo è…(gentilissimo) il 42 61 66…Concetta
invece è il 25 51 64…(Ridendo compiaciuto) No, grazie
ma quello poi con tutte le interferenze che ci stanno dalla
mattina alla sera me li sono imparati a memoria tutti i nu-
meri del quartiere…9.

Nel testo di Ruccello apparentemente il “dentro” diventa luogo in


cui proteggersi e nel quale il personaggio lascia respirare la propria vita
intima, mentre l’esterno potrebbe essere visto come qualcosa di oscuro,
di minaccioso (in questo caso la minaccia del killer). In realtà, il pre-
sunto pericolo esterno è solo la materializzazione di un’inquietudine
che già abita nel personaggio. Il finale, dove è la stessa Jennifer a to-
gliersi la vita, ne è la riprova.
Ruccello sceglie un travestito quale protagonista del dramma10.
Una scelta che si presta a varie interpretazioni. Nell’ambito di quel
grande ininterrotto flusso di personaggi prodotti dalla drammaturgia

8
I continui guasti nella linea, il ruolo di veicolo unico attraverso il quale transitano le
inquietudini di Jennifer, rendono la funzione del telefono in quest’opera simile a quella ne
La Voix humaine (1930) di J. Cocteau. Anche in questo caso, in scena è presente soltanto
una donna, costantemente al telefono. Dopo essere stata lasciata, la donna chiama il suo
amante (del quale non si sente mai la voce all'altro capo del telefono). La protagonista tenta
anche il suicidio. A causa del basso livello del servizio telefonico di Parigi la conversazione
viene interrotta più volte.
9
Le cinque rose di Jennifer, p. 24.
10
Un’approfondita analisi della figura del travestito nei carnevali campani è sviluppa-
ta da De Simone in Il travestimento da donna e altre maschere in Annabella Rossi, Roberto
De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca Editore, 1977, pp. 209-222.

105
Se cantar mi fai d’amore...

napoletana nel Novecento, Jennifer appare come naturale epigono della


Mariacallàs di Persone naturali e strafottenti. Quando, nel 1974, Pa-
troni Griffi presenta in scena questo personaggio apre una direzione i-
nedita nel teatro partenopeo (e non solo), della quale la nuova leva di
autori napoletani tiene pienamente conto11. Nondimeno il travestito, in
Ruccello, formalmente esprime la fase evolutiva della ricerca artistica,
esempio di una scrittura in costante mutazione. Una categoria teatrale
ancor prima che personaggio, un topos. Un impietoso ragionamento
sulla degradazione della solitudine, sullo svilimento dei miti e dei mo-
delli, sulla corruzione dei linguaggi, quel doppio che, pur fondandosi
nell’ordine sociale, non trova spazio nell’ordine sociale stesso. La con-
dizione sessualmente mascherata di Jennifer è metafora di una condi-
zione esistenziale anch’essa indefinita, testimone di una metamorfosi
estetica e morale, un luogo limbico dal quale non è possibile fuggire. In
merito all’uso di questo personaggio l’autore dichiara di voler:

Analizzare in chiave antropologica l’universo dei travestiti, e più in gene-


rale quello della solitudine che a causa di modelli comportamentistici,
culturalmente imposti, finisce per diventare una gabbia che impedisce di
riscattarsi moralmente dalla solitudine. […] L’essere travestito non è una
scelta, bensì un’imposizione, è un ricalcare modelli già bruciati, a livello
di conoscenza femminile12.

C’è poi un’ulteriore funzione del travestito per Ruccello, l’essere

11
Lo stesso Ruccello conferma la sua familiarità con l’opera di Patroni Griffi: «[…] non
mi identifico con una drammaturgia nazionale. L’unica che esista, in questo momento, è napo-
letana. Qui c’è una tradizione, qui ci sono ben due padri spirituali tra i quali scegliere, Viviani
ed Eduardo, c’è un suo sviluppo successivo con Patroni Griffi […]» Titti Marrone, Dalle «Ro-
se» al «Weekend». È il momento di Ruccello, «Il Mattino», 28 gennaio 1986, p. 21.
12
Rossella Santilli, Jennifer o dell’ossessione, «Napoli Oggi», 15 aprile 1981. La
condizione metaforica del travestito trova conferma anche nella recensione di Antonio Tri-
comi: «I protagonisti de Le Cinque rose di Jennifer sono due travestiti, ma potrebbero an-
che non esserlo: quello che conta è la loro dimensione di povere anime perdute, confinate in
un ghetto metaforico dove non c’è spazio per la dignità del pudore, e dove si è disposti a
tutto per elemosinare un po’ d’affetto, o almeno qualche parola attraverso il filo del telefo-
no». Id., Solo me ne vo, «Paese Sera», 20 maggio 1983.

106
Le cinque rose di Jennifer

elemento di connessione con il teatro popolare, espressione polifunzio-


nale dei riti dell’inversione carnevaleschi:

Il segno infatti del travestirsi è alla base stessa del teatro popolare campa-
no. Il travestimento più frequente è quello dell’uomo vestito da donna. Le
motivazioni alla base sono molteplici. […] il travestimento corrisponde
all’esigenza di far emergere nel momento del rituale tutto il represso quo-
tidiano e quindi anche l’ermafroditismo13.

Ma si possono contare almeno altre due chiavi di lettura in merito


a questo personaggio: una sociologica, l’altra culturale (sebbene le due
siano strettamente collegate). Dal punto di vista sociologico il travestito
innalza il rapporto simbiotico fra città e teatro al punto più alto, egli, in-
fatti, incarna la smarrita identità di Napoli negli anni Settanta/Ottanta.
Simbolo di una città che, avendo perso se stessa (espressione con la
quale facciamo riferimento alla perdita di una propria identità cultura-
le), si è di fatto auto emarginata, abbandonandosi nell’attesa di un ipo-
tetico domani migliore (come l’attesa da parte di Jennifer del suo a-
mante Franco, figura forse mai esistita ma, probabilmente, nella sua i-
dealità, frutto dell’immaginazione del personaggio). Se Mariacallàs,
trincerata dietro una maschera d’arroganza e strafottenza, riesce a far
passare in secondo piano questa sua condizione14, diversamente, in
Jennifer, tale processo sembra ormai giunto a compimento. Ogni bar-
lume di esibito eroismo è decaduto15, il personaggio non solo appare

13
Annibale Ruccello, Il teatro popolare in Campania, in Scritti inediti, cit. pp. 135-36.
14
MARIA CALLAS […] Io proclamo. Sono una trombetta che strepita per le strade: fuo-
ri, fuori dalle case, vigliacchi, a raccolta! Sbalordimento e scandalo. G. Patroni Griffi, Per-
sone naturali e strafottenti, in Tutto il teatro, Milano, Mondadori, 1999, p. 391.
15
Ruccello sottolinea l’intenzione dello spettacolo di: «[…] rappresentare l’impos-
sibilità, per la solitudine, di rappresentarsi oggi come evento eroico» Enrico Fiore, Tutti i
travestiti confinati in un ghetto, «Paese sera», 30 marzo 1981. Nella successiva recensione
allo spettacolo, lo stesso Fiore mette in risalto questo aspetto: «Un testo che, per dirla con
un termine preso in prestito dalla new wave, non si evolve, ma viene inesorabilmente de-
evoluto e insomma, continuamente devitalizzato com’è, non trasmette la solitudine, ma è la

107
Se cantar mi fai d’amore...

privo di una vita sociale ed affettiva, ma le uniche relazioni con il


mondo esterno sono rappresentate da una serie di grottesche telefonate
e dalle visite di Anna (anch’egli un travestito). Non è più d’amore che
si muore, ma di solitudine16. Dal punto di vista culturale, questo novel-
lo «pulcinella virato dal color bianco al nero»17 esprime la condizione
bifronte della cultura napoletana contemporanea: da un lato quella uffi-
ciale (o dello stereotipo, potremmo dire) per quanti la percepiscono
dall’esterno, dall’altro quella reale, per quanti la vivono dall’interno. Il
duplice comportamento di Jennifer ne è la conferma. Di notte, quando
la città ristagna in una secolare innocenza, le sue inquietudini le offu-
scano la mente, di giorno celebra una personale epifania della rimozio-
ne vivendo come vorrebbe essere, uguale agli altri, con i luoghi comuni
e le leziosità di qualunque altra donna di casa. Questo desiderio di fuga
dalla realtà passa attraverso la finzione e attraverso il sogno di un corpo
altro da sé. Finzione che acquista ulteriore evidenza durante gli incontri
con Anna, il suo doppio. L’incontro fra i due diventa un fiero scontro
di solitudini, metafora della disintegrazione delle coscienze dentro la
città simbolo. I loro dialoghi, come fossero signore piccolo borghesi al-
le prese con i relativi problemi familiari, rendono ancor più manifesto
lo stato di surreale isolamento e di incomunicabilità:

JENNIFER … Eh… Siete sposata?


ANNA (visibilmente sorpreso) No!!... (Dubitativo) Signora… (Ac-
cettando il gioco) O almeno non ancora…E voi?

solitudine». Id., Per la solitudine dei giorni solo il viatico della paura, «Paese sera», 5 no-
vembre 1981.
16
Il riferimento è ancora a Patroni Griffi e alla sua prima commedia D’amore si muo-
re (1958) contenuta in Id., Tutto il teatro, cit., pp. 33-111.
17
Ferdinando Taviani usa questa espressione riferendosi alla ricorrente presenza del
travestito nella nuova drammaturgia napoletana, «[…] ritorna di commedia in commedia
quasi come il nuovo “tipo” d’una tradizione, un nuovo trasgressore, temerario - vigliacco
fuori casta, un figlio del destino che è quasi un Pulcinella virato dal color bianco al nero».
Id, Uomini di scena. Uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 195-96.

108
Le cinque rose di Jennifer

JENNIFER (spedito) Eh!... la storia mia è complicata! Nu romanzo


va’!... Sono stata sposata ben due volte… E mo’ forse…mi
sposo per la terza volta… (Molto “tè alle cinque”) Eh!...
Non ho avuto fortuna con i miei precedenti matrimoni…
ANNA E…avete bambini?
JENNIFER (prendendo il bricco del caffé) Sì… Due!... Un maschietto
e una femminuccia…il primo sta col padre… La seconda
invece l’ho messa in collegio…Sta dalle Dorotee… A Ro-
ma…Sapete un bel collegio…
ANNA (“meravigliato”)… E come mai non l’avete tenuta con
voi?!... Quella poteva essere una compagnia…
JENNIFER (mamma moderata) No Signora…Per carità! Io, i legami
non mi piacciono…A me mi piace di essere libera…Ogni
anno ci vediamo e passiamo insieme un mese di villeggia-
tura a Forte dei Marmi… (Epico) …Sapete …Dove va Mi-
na!... (Abituale) …Io la incontro sempre …Ogni anno…
Prima veniva con Paciuchino… Ma da quando è cresciuto,
il ragazzo vuole la sua indipendenza e logicamente. Lei…
ogni tanto… si lamenta che si sente sola, si sente sola…
Ma io ce lo dico: “Mina sora mia, non ti attaccare troppo ai
figli che dopo è peggio!” Del resto, come si dice… Devono
fare la loro strada…18.

Lo smarrimento delle proprie coordinate esistenziali, l’aggressione


ai danni della propria cultura trovano espressione nella lingua adopera-
ta dai personaggi in scena. Il dialogo sopra esposto mette in evidenza i
diversi registri linguistici adottati dai due personaggi. Un miscuglio di
dialetto basso, saturo di volgarità e di italiano privo di dignità linguisti-
ca nel caso di Jennifer, e un italiano che, seppur caratterizzato da regio-

18
Le cinque rose di Jennifer, p. 31. In realtà Mina è presente nel testo anche, e soprat-
tutto come interprete musicale. Nella scaletta indicata dall’autore, compaiono cinque suoi
brani: Quattr’ore e’ tiempo, Grande Grande Grande, Ancora Ancora Ancora, Vorrei che
fosse amore, Bugiardo e incosciente.

109
Se cantar mi fai d’amore...

nalismi, si presenta in chiave formale e rigida, nel caso di Anna19. Solo


quando in seguito parlerà dell’assassinio della sua gatta Rusinella20, An-
na si lascerà andare al dialetto:

ANNA […] Quant’è vero Iddio… ’O ’cciro… A s’ ’a piglià accus-


sì cu ’na povera bestia… M’accereva a me era meglio…
Ma no a Rusinella mia… Che ce faccio senza Rusinella…
N’è meglio ca moro…21.

L’autore comprende che proprio la lingua è espressione viva dei


cambiamenti della norma culturale che sostiene il tessuto sociale parte-
nopeo. Egli sceglie di non affidarsi all’uso del napoletano tout court,
ma crea una versione resa impura dall’interferenza con nuovi standard
linguistici impostisi attraverso i mass media, espressione più fedele del-
la condizione subordinata dei personaggi rappresentati. Al dialetto, or-
mai privo di identità culturale, si aggiunge l’uso maccheronico di lin-
gue straniere. Una delle telefonate che affollano il testo ne è esempio:

JENNIFER Pronto…(Sorpreso) Prego?... Non capisco! Inglish?!... Yes,


J am Jennifer you chi si’?... (Decifrando) Want, me, you,
inglish?... Mh… Sorry…J not understandt… Comprì…
Ouì… Yes? No!... Nun saccio manche ’o marucchino!22

Al pari di altri personaggi di Ruccello, anche Jennifer si presenta

19
Interessante notare come al Nord, il diverso milieu linguistico non impedisce allo
spettacolo di ottenere successo al Teatro Quartiere di Milano. Renato Palazzi scrive: «le po-
che novità dotate di un minimo di interesse vengono da gruppi minori, o nascono comunque
nell’ambito di proposte estemporanee o marginali…». Id., Nel ghetto dei travestiti un as-
sassino ama le rose, «Corriere della Sera», 9 gennaio 1982.
20
La presenza della gatta, nell’introdurre una dimensione infera, evoca Basile, raccon-
ti orali e filastrocche popolari campane.
21
Le cinque rose di Jennifer, p. 41.
22
Pronto… prego?... Non comprendo! Inglese?!... Yes I am Jennifer, tu chi sei?...
Want me, are you English?... Mh… Sorry… I don’t understand… Comprì… Ouì… yes?
No!... Non conosco nemmeno la lingua marocchina! Ivi, p. 27.

110
Le cinque rose di Jennifer

come una figura “deportata”23, ma la sua condizione di anello debole di


un contesto sociale che spinge verso l’emarginazione è solo apparente.
In realtà, il personaggio (suo malgrado) esprime pienamente il buio di
una cultura non più cultura, bombardata da una modernità intenzional-
mente aggressiva, fino a smarrirsi in essa.
Il processo di imbarbarimento delle proprie coordinate identitarie
passa anche attraverso la perdita della fede, antica roccaforte della cul-
tura partenopea:

ANNA (Fingendo un’uscita dalla stanza) Signora! Voi scherzate e


prendete alla leggera le mie parole ispirate soltanto dalla
contemplazione reale e della vera essenza (Tornando per-
suasivo alla calma) Dio!... È in ogni atto nostro… Ed è
l’idea di Dio che mi aiuta ad affrontare la giornata… (Leg-
giadro) Signora, io la mattina mi sveglio? Penso a Dio?... E
canto…
JENNIFER (Sarcastico) Eh, io penso a Dio e gghjastemmo!24

La trasformazione della fede da sentimento dell’anima a contenitore


vuoto esprime il rapporto problematico dei personaggi di Ruccello con la
propria cultura. Ciò che rende tragico il loro agire è l’incapacità
d’intravedere, seppur minimamente, un orizzonte salvifico. La loro è una
tragedia della libertà, quella di agire o meno in ordine al piano di salvez-
za voluto dal disegno divino. Questa incapacità diviene ideale comple-
tamento della condizione di solitudine, già elemento caratterizzante di
queste figure (basti pensare ad Adriana in Notturno di donna con ospiti,
Don Catellino in Ferdinando ma anche Carmela in Mamma)25.

23
Sulla collocazione di “deportati” dei personaggi di Ruccello (seguendo una defini-
zione dello stesso autore, Enrico Fiore offre una serie di osservazioni in Id., Ripensando a
Ruccello: le figure deportate, in Annibale Ruccello. catalogo della mostra di Antonio Gar-
giulo «Ricordando Annibale», Castellammare di Stabia, Eidos, 2000, p. 7.
24
Le cinque rose di Jennifer, p. 33.
25
Quanto scrive Rita Picchi sembra confermare il rapporto problematico dello stesso
Ruccello con la religione: «Comunque già al terzo anno di università aveva smesso di andare
in Chiesa, il suo atteggiamento era diventato critico un po’ per i nuovi amici che frequentava,

111
Se cantar mi fai d’amore...

Negli anni in cui scrive, dirige ed interpreta i suoi testi, non è inu-
suale per il drammaturgo stabiese (come per altri) ritoccare i propri lavo-
ri (in particolar modo all’indomani della prova con il pubblico). Ma
Ruccello non altera la struttura profonda del testo limitandosi ad agire
sulla superficie, si notano, infatti, tagli di battute (talvolta maggiori altre
minori, arrivando a semplici correzioni) in varie parti del copione26. Nel-
la versione pubblicata nel 1993, nella prima telefonata di Jennifer tro-
viamo un breve riferimento alla televisione, poi tagliato nella versione
successiva:

JENNIFER […] Ho fatto pure la domanda per il quiz di Mike Bongior-


no… Eh… Ma pare che ci sono delle difficoltà…Non ho ca-
pito di che genere… Sapete poi com’è la televisione… Sì ma
quello secondo me è stata Sabina che non mi ha volu-
to…Quella poi era gelosa che le pigliavo il posto… Perché
io poi mandai pure la fotografia… Mi hanno risposto che
forse non era il caso… Che non ero adatta… Scuse… Però
forse quest’anno, se lo fanno un’altra volta vado a Portobel-
lo27…

Allo stesso modo il fraintendimento comico presente nella dedica


radiofonica a Franco sarà tagliato nella versione successiva:

JENNIFER […] Auffà e come state spiritosa signurì…E quanta

un po’ per il tipo di ricerche antropologiche che effettuava sul campo, al fianco di De Simo-
ne», Rita Picchi, Annibale e il suo rapporto con la religione, in Scritti inediti, cit., p. 33.
26
I riferimenti musicali, largamente diffusi già nella prima versione, pubblicata da Guida
nel 1993, acquistano ulteriore corposità nella seconda versione attraverso una scaletta di brani
indicata dall’autore in appendice al testo. Id., Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 43.
Inoltre, in questa seconda versione risulta l’inserimento nel testo di vari brani cantati dalla
stessa Jennifer: Purtatele ’sti rrose (ivi, p.21), Paraviso e fuoco eterno (ivi, pp.22-23), Se tele-
fonando (ivi, p. 26) ed, infine, un collage di canzoni composto da "Verde luna" (tema del film
"Sangue e Arena"), primi 4 versi; "Tema di Lara" (tema del film "Il Dottor Zivago"), versi 5-
13; "Quando mi innamoro" versi 14-23; "El Borriquito versi 24 a finire, (ivi, p. 37).
27
Id., Le cinque rose di Jennifer, Napoli, Guida editori, 1993, p. 26.

112
Le cinque rose di Jennifer

vuommeche. Allora: a Franco …Da parte di Jennifer che lo


aspetta fidente…No fetente…fidente…Te pare a te c’ ’o
’spettavo fetente…’a ggente pe’ chi l’ha pigliata?28

Compensato a sua volta dall’inserimento di un altro riferimento


comico durante il dialogo con Anna in merito al significato della parola
“nemesi”:

JENNIFER (Ospedaliero)… Quello pure un’amica mia una volta no?...


Non mi sento bene, non mi sento bene… Andò dal dottore
e il dottore ce lo disse… Disse: “Signora, voi qua… Tenete
una brutta nemesi…”29.

Fra le correzioni “minori” spicca il cambiamento di location


dell’ultimo omicidio del serial killer. Inizialmente è «al terzo piano del
numero 7 di Via della Rosa»30, in seguito risulta «al numero 7 di via
del cespuglio»31. Da notare anche il cambiamento del titolo del
magazine religioso al quale fa riferimento Anna, da «Famiglia Cristia-
na»32 si passa alla «Torre di Guardia»33. Un cambiamento che esprime
una maggiore attenzione ai dettagli da parte dell’autore. «Famiglia Cri-
stiana» è, infatti, espressione della comunità cattolica, mentre la «Torre
di Guardia» è il giornale divulgativo della comunità dei testimoni di

28
Uffa e quanto siete spiritosa signorina… E quanto parlare inutile. Allora: a Fran-
co… Da parte di Jennifer che lo aspetta fidente…Non fetente…fidente…ma le pare che
l’aspettavo fetente… ma con chi crede di parlare. Ivi, p. 31.
29
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 32.
30
Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 27.
31
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 25. Si sente persino uno sparo nella
prima versione, accompagnato da squilli di telefono: «Si sente uno sparo. I solito squilli di
telefono in lontananza» Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 37. Sostituito nella secon-
da versione da: «Lunga pausa» Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 34.
32
Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 37.
33
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 34.

113
Se cantar mi fai d’amore...

Geova (confessione alla quale Anna dichiara di appartenere)34. Cambia,


inoltre, anche il nome dell’emittente radiofonica, da Radio Cuore Libero
si passa a Radio Enola Gay35. L’alternarsi di tagli e integrazioni investe
anche le didascalie. La descrizione del travestito si riduce nel passaggio
da una versione all’altra. Inizialmente Jennifer viene così descritta:

È vestita nello stesso modo con cui ha arredato la sua casa: indossa una
gonna ed una giacca di un tessuto pesante ed una camicetta di chiffon con
un fiocco grande. Il modello rappresentativo è quello della «signora»
borghese sul finire degli anni sessanta, come si vedono circolare ancora
in tanti sceneggiati televisivi. Ha qualcosa di vistoso, ma insomma non è
la classica rappresentazione del travestito36.

In seguito l’autore offre una descrizione più sintetica del personag-


gio:

È vestito come una massaia che sia scesa a far compere e infatti è straca-
rico di pacchettini, scatole, buste….37

Altre didascalie, invece, nella seconda versione acquistano corpo


diventando per l’autore un mezzo per descrivere con maggiore chiarez-
za la psicologia del protagonista. All’ inizio della quarta telefonata,
convinta che sia Franco, Jennifer:

34
ANNA […] E così sono diventata testimoniatrice di Geova. Le cinque rose di Jenni-
fer, Guida, cit., p. 35.
35
In merito a questo cambiamento accolgo l’interessante riflessione che Enrico Fiore
ha offerto durante la giornata organizzata a Castellammare di Stabia “25 anni senza Anniba-
le” il 17 settembre 2011: «Enola Gay è il nome del bombardiere B-29 Superfortress che il 6
agosto 1945, poco prima del termine della Seconda Guerra Mondiale, sganciò sulla città
giapponese di Hiroshima la prima bomba atomica della storia ad essere stata utilizzata in
guerra. La scelta di Ruccello suggerisce proprio questo: il bombardamento, il devastamento
subìto dalla nostra cultura».
36
Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., pp. 23-24.
37
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 21.

114
Le cinque rose di Jennifer

Corre alla radio, la spegne, si precipita al telefono, poi, immotivatamente


si rassetterà i capelli e, per essere più sexy con il suo interlocutore, si de-
nuderà una spalla abbassando la spallina della sottoveste38.

Ed ancora, durante il primo incontro fra Jennifer e Anna, l’aggiun-


ta di una didascalia ben chiarisce la condizione di reciproco imbarazzo
vissuta dai due personaggi:

Jennifer offre ad Anna una sigaretta da estrarre da un preziosissimo por-


tasigarette da tavolo a forma di mappamondo con carillon incorporato.
Anna è attratta dal lusso della musichetta, accende goffo la sigaretta e i-
nizia subito a tossire. Jennifer voluttuosamente aspira il fumo poi, mentre
Anna celatamente spegne lo strumento del demonio, si siede discosto da
lei, sfogliando nervosamente e vistosamente una rivista. Lunga pausa39.

Un altro cambiamento di didascalia è presente nel finale e riguarda


il modo in cui viene presentato il suicidio del protagonista. Nella prima
versione Jennifer:

(Apre un cassetto. Estrae una rivoltella. Per un attimo si ferma. Sorride.


Punta la rivoltella verso la bocca. Tira il colpo e si accascia per terra.
Squilla il telefono)40.

Nella seconda, un buio interviene a coprirne il gesto:

[…] La pistola. La punta. La bocca. L’avvicina. Cazzo sembra di fare un


pompino.
Buio…
Torna la luce. La luce dell’abat-jour. Lui è lì. Riverso per terra. La casa in

38
Ivi, p. 24. Nella versione precedente la didascalia appare notevolmente ridotta: (Ab-
bassa il volume, poi torna al telefono) Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 26.
39
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., pp. 33-34.
40
Ivi, p. 45.

115
Se cantar mi fai d’amore...

disordine, le solite cinque rose rosse sul corpo. La pistola. Indifferente,


squilla il telefono41.

Infine, seguendo un metodo già intrapreso da Eduardo, anche Ruc-


cello, al di là di alcune correzioni fonetiche (Romina Power diventa
Romina Pauèr) opta per un parziale ridimensionamento del napoletano:

T’arapro ’o mazzo e ce pastino ’o putrusino arinte?42

diventa:
43
…Ti uccido... .

Oppure:
44
E non pozzo perdere ’o tiempo appriesso a te…

diventa:

E non posso perdere il tempo appresso a te!...45.

E ancora:

41
Ivi, p. 43.
42
Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 28. Nello stesso monologo si può notare
come, pur conservando il dialetto, l’espressione viene edulcorata. «So’ cazze r’ ’e tuoie (so-
no cazzi tuoi?)» diventa: «so’ fatte d’ ’e tuoie? (sono fatti tuoi?)». E ancora nello stesso
monologo, «scassavuallera» (rompipalle) diventa: «scassacazzo». In altre occasioni alcune
bestemmie di Jennifer vengono tagliate. Ad esempio, la battuta detta al termine delle telefo-
nata di Sonia in Radio: «…C’he cacato ’o cazzo…» (ivi, p. 30), viene poi eliminata nella
seconda versione.
43
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 26.
44
Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 28.
45
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 26.

116
Le cinque rose di Jennifer

Rice azzo’…Ce tiene cchiù p’ ’a gatta ca pe mme…Chillo accussì se


schifa e se ne và…46

diventa:

Dice… Gesù, tu ci tieni più per la gatta che per me… Quello così si schi-
fa e se ne va…47.

Ma Jennifer è per il suo autore simbolo di una pratica di scrittura


“in divenire” basata anche sull’evoluzione o involuzione dell’ambiente
socio-economico nel quale il personaggio vive. Negli anni immediata-
mente successivi al terremoto del novembre 1980, si spendono a Napo-
li cinquantamila miliardi di lire, dando vita a non meno di ventimila
nuove abitazioni (Pianura e le “vele” di Scampia risalgono a quegli an-
ni). È interessante notare come nella prima versione del dicembre 1980,
Jennifer abiti in una casa dei quartieri popolari e limitrofi (tipo Socca-
vo, o il Rione Traiano), in un ambiente dai tratti marcatamente kitsch,
ma pur sempre modesto, mentre negli allestimenti successivi il perso-
naggio si trasferisce in una zona nuova della città48. La sua casa appare
arredata con veneziane, adornata con lacche nere e uccelli d’oro, asetti-
ca nei funzionali cassetti che rientrano nelle pareti come la toilette e il
secchio per l’immondizia. Anche i costumi sono segno dei mutamenti
avvenuti. Jennifer ora indossa una vestaglia di raso bianco, un turbante,
un abito di lamè, e per il suo lavoro di prostituta usa il vestito e la par-
rucca di China Blue, protagonista dell’omonimo film di Ken Russell49.

46
Le cinque rose di Jennifer, Guida, cit., p. 39.
47
Le cinque rose di Jennifer, Ubulibri, cit., p. 36.
48
Stefano De Stefano identifica l’abitazione post terremoto di Jennifer a «Scampia,
alcuni insediamenti di edilizia popolare di Secondigliano, la periferia di San Giovanni, o
quella di Ponticelli, la lista purtroppo è lunga». Id., Le cinque rose di Jennifer, in Annibale
Ruccello e il teatro nel secondo novecento, a cura di Pasquale Sabbatino, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 2009, p. 120.
49
Nel programma di sala del 1986 Ruccello conferma i riferimenti cinematografici e
sociali del testo: «L’attuale spettacolo vuole mettere in evidenza innanzitutto la doppia tes-
situra che hanno sempre i miei testi. Da un lato, appunto, la storia, una storia banale, in que-

117
Se cantar mi fai d’amore...

Del resto il riferimento a questo film non è episodio isolato. Ruccello


mostra grande apprezzamento per il genere thriller (suoi registi preferiti
sono Hitchcock e De Palma) e spesso quel tipo di atmosfera risulterà
funzionale alle sue trame50.

sto caso la giornata tipo di una persona in casa, le sue alienazioni, le sue manie, i suoi rituali
privati, le sue vergogne e, soprattutto, il suo sentimento. Dall’altro il gioco delle citazioni,
dei riferimenti, dei riporti da un fantastico principalmente filmico nella consapevolezza che
oggi non è più possibile raccontare una storia se non soltanto per ammiccamenti, virgolet-
tandola quasi, rendendola anch’essa null’altro che un repertorio di un immaginario il più
possibilmente collettivo…». Annibale Ruccello, Programma di sala (1986).
50
In merito ai rapporti che Jennifer esprime con altre drammaturgie, si evince che e-
lementi quali la solitudine, l’incombente senso di minaccia, il sentimento di angoscia esi-
stenziale, il senso di suspense in questo testo sono speculari a quelli riscontrabili in The
Dumb Waiter (1958) di Pinter.

118
Provincia di sangue:
Notturno di donna con ospiti1

Con questo lavoro Ruccello prosegue il suo viaggio all’interno del-


le sottoculture campane post-industriali, nel panorama desolato dei
quartieri ghetto, delle campagne degradate, nella frustrazione di deside-
ri neocapitalistici spostati in periferie prive di cultura, fra la selva di TV
e radio private, di supermarket, di mobili di serie e di rotocalchi popo-
lari. Il testo si ricollega a Le cinque rose di Jennifer mostrando simili-
tudini anche nella struttura drammaturgica laddove entrambi i lavori
procedono con ritmo da thrilling, efficace nel dimostrare quanto possa
divenire labile il confine fra reale e immaginario2. Eppure, stabilendo

1
Il 3 marzo del 1982 l’autore deposita in SIAE una prima versione del testo intitolan-
dola Una tranquilla notte d’estate. In seguito Ruccello ne scrive una seconda versione dal
titolo Notturno di donna con ospiti (depositata il 9 luglio 1983). Entrambe vengono pubbli-
cate in Id., Teatro, Napoli, Guida editori, 1993. L’ultima versione del testo, anch’essa inti-
tolata Notturno di donna con ospiti, viene pubblicata in Id., Teatro, Milano, Ubulibri, 2005.
2
In merito al rapporto fra i due testi l’autore dichiara: «[…] mentre nelle Cinque rose
di Jennifer il riferimento più evidente era il cinema di Hitchcock qui ci rifacciamo in manie-
ra più palese a una cinematografia di serie C in voga nei primi anni Settanta e oggi ripropo-
sta in dose massiccia dalle emittenti private, in cui si trova il ‘topos’ della casa isolata nella
notte, la donna isolata nella casa e dei minacciosi individui che seminano sgomento e orrore
[…]». Annibale Ruccello, Programma di sala, in «Patalogo», 7, cit., pp. 26-27. Questa con-
nessione con il cinema non incontra il favore di alcuni critici: «Patito di cinema – come
stranamente molti dei giovani che oggi fanno teatro – Ruccello ricalca a sua volta, e forse
con insufficiente distacco critico, una certa produzione filmica o tele filmica intesa a rispec-

119
Se cantar mi fai d’amore...

un singolare collegamento, l’autore lascia che il film di Wyler sia spun-


to iniziale dell’azione tanto ne L’ereditiera quanto in Notturno di don-
na con ospiti. Se nel primo caso la voce narrante fa riferimento al film
con Montgomery Clift3, nel secondo l’annunciatrice televisiva presenta
lo stesso film:

ALTRA DONNA Ed ora, per la nostra serata con sentimento continua il ci-
clo dedicato a una grande interprete di Hollywood: Olivia
de Havilland. Accanto a lei l’allora esordiente Montgo-
mery Clift nel film L’ereditiera di William Wyler4.

Protagonista della storia è la casalinga Adriana, in attesa del terzo


figlio, appartenente a quel ceto medio di provincia oggetto d’analisi
dell’autore. Sebbene la collocazione della protagonista sia espressione
di un organico tentativo di rinnovare la drammaturgia partenopea
strappandola dal tradizionale contesto dei Quartieri Spagnoli per e-
sprimere lo sradicamento, le frustrazioni della stravolta provincia napo-
letana5, la fragile identità di Adriana non è definita puramente dalla sua

chiare l’orrore (ovvero l’horror) dell’esistenza quotidiana». Aggeo Savioli, Quando


«l’horror» invade la periferia di Napoli, «L’Unità», 17 marzo 1984.
3
VOCE MASCHILE (Roboante) Nel 1898 dalla penna di Henry James nacque Piazza
Washington: Un grande romanzo!!! Nel 1960 la Paramount ne trasse un film: L’ereditiera!
E fu un trionfo!!! Due generazioni di spettatori si sono commossi per la patetica vicenda
della sventurata Caterina Sloper e del diabolico Morris Towensend!!!. L’ereditiera, cit. p. 2.
4
Notturno di donna con ospiti, Ubulibri, cit., p. 53. Il riferimento al film di Wyler è
presente solo in questo caso. Sebbene in tutte le versioni del testo il film di Franchi e In-
grassia rimanga l’ultimo programma sul quale Adriana si sintonizza prima di addormentar-
si, nelle prime due versioni il film di Wyler è assente. Nella prima, il televisore trasmette:
«la canzone «Sognando» cantata da Mina» Una tranquilla notte d’estate, cit. p. 52. Nella
seconda, Adriana volge una breve occhiata a un telegiornale «le cui notizie risultano stra-
namente contrastanti fra loro. Ad esempio ad una notizia su di una sfilata di moda come
poteva essere formulata agli inizi degli ani sessanta, si alternano comunicati plausibili in
una società post-datata almeno di vent’anni all’epoca dell’azione» Notturno di donna con
ospiti, Guida, cit., p. 83.
5
Si chiarisce fin dall’inizio come la storia sia ambientata in una casa posta in periferia
con qualche pretesa di moderna eleganza negli arredi:«Una cucina moderna in un appar-

120
Notturno di donna con ospiti

collocazione urbanistica, quanto dall’essere vittima di patologie che


esprimono il senso di inadeguatezza al contesto sociale nel quale vive.
L’irrazionale che affiora dalle pieghe della mente e della psiche della
donna invade il suo quotidiano, deformandolo. Avviene così che, in
una notte d’estate, provenienti dai labirinti della sua immaginazione più
che da spazi reali, la donna si ritrovi ad affrontare figure che, in vario
modo, hanno inciso sulla sua esistenza presente e passata. Tanto i vivi
(l’ex compagna di scuola Rosanna con il marito Arturo, l’ex fidanzato
Sandro, suo marito e sua madre), quanto i morti (suo padre) sono pro-
tagonisti di una violenta girandola di apparizioni e ricordi che scatena-
no un crudele clima di gioco al massacro, che ridà voce ad affetti sopiti,
desideri inespressi, implosioni nevrotiche e frustrazioni che la trascina-
no verso la follia.
Se Ruccello, come già Eduardo, lascia che il dramma si svolga in
un ambiente domestico6, la notevole differenza fra passato e presente
nella drammaturgia napoletana si manifesta attraverso i contenuti e la
tipologia dei personaggi che abitano la scena. Il drammaturgo stabiese
disegna una figura di madre concettualmente molto distante da Filume-
na Marturano, ma drammaticamente vicina a Medea. In aggiunta,
l’assassinio dei propri figli, semmai compiuto realmente, mette in di-
scussione la mitizzata immagine eduardiana della famiglia i cui mem-
bri appaiono come soggetti “sani”, genericamente minacciati dall’ester-
no (ad esempio la guerra, la miseria, le cattive compagnie e così via).
Per Ruccello, attento indagatore delle strutture di vita, la famiglia non è
più un’entità coesa ma esprime verso il sociale un comportamento am-
bivalente. Sebbene l’esterno permanga come fonte di minaccia, il ma-
lessere alberga già all’interno del nucleo familiare, instaurando una sor-

tamento alla periferia di una cittadina di provincia. L’arredamento è nuovissimo e preten-


zioso con elettrodomestici e mobili tirati impeccabilmente a lucido». Notturno di donna con
ospiti, Ubulibri, cit., p. 49.
6
Fa eccezione Il rione, interamente ambientato all’esterno, non a caso omaggio a Vi-
viani i cui drammi hanno costantemente ambientazioni all’aperto. A tal riguardo, si veda
Matteo Palumbo, La funzione degli spazi: da Raffaele Viviani ad Annibale Ruccello, in La
civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo, Napoli,
Liguori, 2002, Vol. II, pp. 201-12.

121
Se cantar mi fai d’amore...

ta di osmosi fatale fra devianze proprie e suggestioni esterne. In un


contesto partenopeo, estremamente complesso da decifrare, i personag-
gi di Ruccello danno prova di aver superato la soglia del conflitto mo-
rale (tanto importante per De Filippo)7 nutrendosi delle proprie nevrosi.
Il male è di natura endemica, prodotto dalla famiglia stessa, dai legami
esercitati al suo interno, dall’accostamento, dal destino di vivere l’uno
accanto all’altro all’insegna di rapporti mai pacifici. È il dentro che
graffia, dilania, uccide. Incapace di recuperare tanto la propria unità
quanto una visione integra della società e della realtà, la famiglia ruc-
celliana, denudata di ogni moralismo pedagogico, implode, come si e-
vince dalle figure che ruotano intorno alla protagonista. Non saranno
solo Rosanna, Arturo o Sandro a minare pericolosamente l’equilibrio
mentale della donna ma, soprattutto, i suoi genitori (opportunamente
immaginati per essere interpretati da un unico interprete maschile)8, un
padre iperaffettivo versus una madre castrante.
Le tre versioni pubblicate presentano alcune differenze9. Sebbene,
come già in Jennifer i cambiamenti apportati non alterino mai radical-
mente il plot, stavolta si riscontrano modifiche più sostanziali. La se-
conda e la terza versione mostrano una struttura diversa, passando

7
Pino Simonelli traccia un parallelo linguistico con Eduardo: «Certo la più recente
creazione di Ruccello si situa in quell’area della creatività teatrale a Napoli legata profon-
damente alle radici culturali del territorio, piuttosto che tentare la fuga nell’idea della nevro-
si napoletana. Una evoluzione che, distaccandosi progressivamente dall’universo simbolico
del folklore, di cui conserva forse un tratto irrealista di sogno, si situa nuovamente in nuclei
e in dinamiche familiari espresse in un dialetto fortemente italianizzato, procedendo in una
direzione più legata al messaggio di Eduardo che a sperimentalismi di rottura». Id., Nottur-
no di Ruccello, «Paese Sera», 26 novembre 1984.
8
Nel primo allestimento i due ruoli vengono interpretati dallo stesso Ruccello.
9
L’età della protagonista subisce delle piccole variazioni. Nella prima versione A-
driana «è una donna di al massimo venticinque anni», cit., p. 49; nella seconda «è una don-
na di cerca ventisette anni», cit., p. 80; nella terza è nuovamente «una giovane donna di
circa venticinque anni», cit. p. 49. Inoltre la sua gravidanza risulta evidente solo nella se-
conda e terza versione. Nel primo caso ne accenna Michele: «…E poi è meglio che non ti
stanchi… (Indica il pancione)», cit. p. 81; Nel secondo caso viene menzionata già nella di-
dascalia iniziale: «incinta di qualche mese», cit., p. 49. Anche la professione di Michele
cambia da «guardia notturna» nella prima versione, cit., p. 51, a «casellante d’autostrada»
nella seconda versione, cit. p. 81. Nella terza l’autore non specifica.

122
Notturno di donna con ospiti

dall’atto unico alla divisione in due tempi; mentre nella terza versione
si riduce il numero dei personaggi, scompaiono Salvatore e Giovanna.
La loro funzione è legata a Rosanna e Arturo piombati in casa di A-
driana quali emissari di un supermarket locale che intende premiarla
come loro millesima cliente offrendole «una serata speciale…in-di-
men-ti-ca-bi-le…»10. Giovanna e Salvatore sono loro complici, in par-
ticolar modo Salvatore, ingaggiato per sedurre Adriana. Nella terza
versione sarà Arturo ad assumere questo compito, mentre Rosanna as-
sorbe buona parte delle istanze drammaturgiche di Giovanna11. Inoltre,
fra la prima e la terza versione acquistano maggiore evidenza le figure
dei genitori di Adriana, in particolar modo la madre che, inizialmente
presente solo come interlocutore telefonico12, già dalla seconda versio-
ne, diventa protagonista di una serie di flash-back della memoria, du-
rante i quali la ragazza rivive i momenti più bui della sua adolescenza,
momenti di un passato ancora fortemente vivo. Significativo il
flashback in cui Adriana si vede costretta a rivelare la sua gravidanza
(il padre è Sandro). La madre non esita ad imporre la soluzione più
“opportuna”:

MADRE E quanta mise so’?


ADRIANA Ruie mise…
MADRE E chi è chisto! Che fa? A qua’ famiglia appartene se po’
sapè?
ADRIANA ’O ssaie chi è! È Sandro.

10
Una tranquilla notte d’estate, Guida, cit., p. 53.
11
Muta inoltre il pretesto iniziale della loro visita notturna. Rosanna, ora sposata con
Arturo e non più promoter di un supermercato, irrompe in casa di Adriana per sfuggire a
un’aggressione:
ROSANNA […] Mi stanno ammazzando! Apra!
ADRIANA Sentite, andatevene o chiamo la polizia!
ROSANNA Ma Cristo in croce! La chiamiamo insieme la polizia! Mi faccia entrare!
ADRIANA (cedendo) Ma insomma siete sicura…
ROSANNA (categorica) Apra! Notturno di donna con ospiti, Ubulibri, cit., p. 53.
12
Vedi monologo di Adriana in Una tranquilla notte d’estate, Guida, cit., p. 51.

123
Se cantar mi fai d’amore...

MADRE Puozz’ jettà ’o sanghe! O figlio d’’o funtanaro? Io ’o ssape-


vo!
[…] Ma piccerè, chisto nunn’’a sponta! Tu putarraje essere
scema quanto vuo’ tu ma si’ ll’unica figlia ca io tengo e
nun te jetto accussì c’’o primme pezzente ca passa! Ca nun
tene né arte! Né parte! Na bella pulezzata e torna tutte cose
comme apprimma! […]13.

Il processo di degradazione mentale della protagonista si evidenzia


nella trasfigurazione mostruosa degli altri avventori della casa che, nel
corso della notte, riversano su di lei atti di immotivata crudeltà14. Que-
ste dinamiche riportano alla mente alcuni personaggi di Fassbinder in
Libertà a Brema. Si pensi, ad esempio, al rapporto fra Geeshe e i suoi
due mariti. Nella prima scena leggiamo:

MILTENBERGER Su, di’ che hai una voglia matta di me.


GEESHE Ho una… (Corre via, lui la rincorre, l’abbraccia, la ba-
cia)
MILTENBERGER E allora?!
GEESHE (piano) Ho una voglia matta di te. (Tutti ridono, Geeshe
piange).

13
Notturno di donna con ospiti, Ubulibri, cit., pp.70-71.
MADRE E di quanti mesi sei?
ADRIANA Due mesi…
MADRE E chi è lui?! Che fa? A quale famiglia appartiene si può sapere?
ADRIANA Lo sai chi è! È Sandro.
MADRE Che ti venga un colpo! Il figlio dell’idraulico? Lo sapevo!
[…] Ma piccola, questo non l’avrà vinta! Tu sei libera di essere scema quanto vuoi ma
sei la mia unica figlia e io non ti lascio andare con il primo pezzente che passa! Senza arte
né parte! Una bella ripulita e torna tutto come prima ! […].
Questa scena, in forma di monologo, sarà poi inclusa in Mamma. Piccole tragedie mi-
nimali.
14
Ad esempio: «Rosanna afferra per i capelli Adriana e prende a trascinarla per la
stanza mentre Sandro inizia a schiaffeggiarla», oppure «Sandro le molla un calcio nella
pancia» Notturno di donna con ospiti, Guida, cit., p. 112.

124
Notturno di donna con ospiti

MILTENBERGER (Si risiede) Questa donna sì che sa chi è il suo pa-


drone. Vai a prendere altra grappa! (Geeshe esce). Quella
è una donna che sa come si ubbidisce […]15

Ucciso il primo marito, Geeshe si unisce con Gottfried, ma il rap-


porto mantiene dinamiche umilianti alquanto identiche (portando
all’uccisione, stavolta involontaria, anche del secondo marito):

GOTTFRIED Ma guardati. (L’afferra, la trascina davanti a uno specchio)


Ma guardati: ti pare di vedere qualcosa con cui si possa desi-
derare di vivere in eterno? Con questa maschera rinsecchita,
con questa espressione in volto? (La scaraventa a terra) Mio
Dio, quanto mi fai schifo. Se avessi anche solo sospettato
che uno può provare tanto schifo per un’altra persona, allora
avrei anche saputo che nella mia vita quell’altra persona sei
tu […]16.

Ma nel testo di Ruccello la violenza sembra esplodere in un’atmo-


sfera profondamente alterata nella quale gli individui acquistano fattez-
ze irreali fino a diventare manichini:

(Si apre lo scatolone ed all’interno appaiono due manichini rappresentanti


Adriana e Michele. I due manichini iniziano a ballare sulla musica di
«Montagne verdi» eseguita a carillon […]. All’improvviso il fantoccio
Michele punta la pistola contro il fantoccio Adriana e le spara. Il fantoc-
cio Adriana piange come piangono le bambole per bambini […])17.

La presenza surreale dei fantocci invade la scena in un crescendo


che conduce allo scatenamento della follia omicida di Adriana. Il cla-
moroso atto finale che svela la profonda débâcle della donna viene ri-

15
R. W. Fassbinder, Libertà a Brema, in «Sipario», cit., p. 73.
16
Ivi, p. 77.
17
Notturno di donna con ospiti, Guida, cit., p. 113. La scena è presente solo nella
prima e seconda versione del testo.

125
Se cantar mi fai d’amore...

scritto dall’autore in varie occasioni. Prima di giungere al tragico epilogo


(solo nella seconda versione del testo), Ruccello si serve di un topos lar-
gamente utilizzato agli inizi della sua esperienza di drammaturgo: la fia-
ba. Attraverso la figura del padre, si narra di una maga: «Figlia r’ ’o so-
le… Putente assaie…Ca steva ’e casa dint’a’ ’na grotta… ncoppa’ a na
muntagna r’ ‘e parte ’e ll’Uriente luntano»18. Un bel giorno la maga in-
contra un giovane che, innamoratosi perdutamente di lei, la porta nelle
sue terre e la sposa. Sennonché, non sapendo che la ragazza è figlia del
sole, la madre dello sposo, le sorelle e poi il paese intero incominciano a
deridere la sua pelle scura, influenzando anche lo sposo che ben presto la
prende in odio. In preda alla disperazione, la maga invoca l’aiuto del pa-
dre che prontamente le indica l’unica soluzione possibile:

PADRE […] Sta gente barbara nun te putarrà maje cunside-


rà…Piglia ’e figlie tuoie…Lavalle…Piglia nu curtiello e
comme a pecurielle tagliace ’e cannarine…Sule tanne te ne
putarraie saglì ’ncielo cu me ’ncoppe a na trave ’e fuoco!
(Adriana, urlando sempre più la sua filastrocca striscia fi-
no al lavabo e da qui prende un coltellaccio da cucina. Si
rialza e con una luce fiera negli occhi si dirige verso la
camera da letto dei bambini)19.

La fiaba viene inserita nel plot perché Adriana possa identificarsi


con la protagonista al punto da ripeterne le azioni. Il mito è qui inteso
come inconscio collettivo, forma sublimata e fantastica dell’agire uma-
no al quale Adriana sente di dover ubbidire20.

18
«La Figlia del sole…Molto potente…abitava dentro una grotta…in cima ad una
montagna verso il lontano oriente». Ivi, p. 115.
19
PADRE […] Questa gente barbara non potrà mai capirti… Prenditi i tuoi figli… La-
vali… Afferra un coltello e come fossero agnelli, taglia loro la gola… Solo allora potrai sa-
lire in cielo con me su una trave di fuoco! Notturno di donna con ospiti, Guida, cit., p. 117.
20
Oltre quella citata, nel testo si menzionano altre due fiabe, AcciaBellaccia e ’O cun-
to ’e Catarinella (quest’ultima già presente ne L’osteria del melograno). Ivi, pp. 92-93. I-
noltre, in questa seconda versione, troviamo un riferimento anche ad un altro elemento ri-
corrente nel teatro di Ruccello, la filastrocca, ancora una volta, affidata alla figura del padre:

126
Notturno di donna con ospiti

Anche nella prima versione del testo la donna si rivolge al padre


per chiedere indicazioni su come “agire” con i figli:

ADRIANA Allora?... Aspetta papà… ho capito… va bene papà… Vado


di là… No… Cioè… Prima prendo il coltello… Sì, quello
grande… Il più grande sì… Poi vado di là… Prima Alfredi-
no, poi Giovanni… Così… Va bene… Come?... Sì… qui…
Il cuore… Poi la faccia… La testa… Le braccia le taglio?
...Le taglio le gambe, la pancia… Il naso la bocca gli oc-
chi… E tutto tutto tutto… Sì… Ho capito… E loro se ne
vanno… Sì… Pure Michele? ...Sì papà… Sì…21

Dopo l’efferato gesto:

(Adriana, con la sottana imbrattata è seduta come un fan-


toccio svuotato leccando il coltello sporco di sangue. Mi-
chele è accasciato al telefono con la testa fra le mani. Il ri-

[…] (Iniziando un gioco a filastrocca) E piripinnecchia marinaio e vott’ ’a necchia, uh che


pereto fetente ca ce tiene int’ ’a stu ventre. E ce tengo quatto alice, quatto alice rint’ ’o piat-
to, vene ’o miereco e t’ ’e ntacca cu ’e fasule (iniziando un tocco) e Adriana te-ne ’a pe-sta
’ngu-lo.” (E piripinnecchia marinaio senti un po’, uh che puzza orrenda hai in questo tuo
ventre. E ci tengo quattro alici, quattro alici dentro al piatto, viene il medico e ci mette i fa-
gioli (iniziando un tocco) e Adriana ha la peste nel sedere.) Ivi. p. 92.
21
Una tranquilla notte d’estate, Guida, cit., p. 75. Le indicazioni del padre ad Adriana
ricordano la scena ne L’osteria in cui la Madre della Luna riceve indicazioni su come ucci-
dere lo sposo:
MADRE DELLA LUNA Comme?... Ch’ he ritto? ...Parla forte ca nun te sent’! ...C’avimma
fa?...Comme?... ’O curtielle… ’O sanghe, l’anema rannata…(Come? Cos’hai detto? Parla for-
te che non ti sento! Che dobbiamo fare? Come? Il coltello …il sangue, l’anima dannata),
L’osteria del melograno, cit., p. 57. Al coltello si fa rifermento anche ne Le cinque rose nella
scena in cui Anna minaccia di uccidere Jennifer (con un coltello appunto) rea di averle assas-
sinato la gatta Rusinella, per poi rivolgere l’arma verso se stessa. Il coltello ricomparirà in We-
ek-end nella scena in cui Marco, allievo di Ida, confessa di essersi intrufolato in casa sua e di
averla vista con Narciso. Ida l’invita a rivivere con lei la scena «[…] E io tenevo in mano un
coltello! Ti ricordi del coltello, no? Eccolo. Ecco il coltello! Questo! Ti ricordi? E lui mi toc-
cava! E tocca! Tocca pure tu! Tocca! » Id., Week-end, in Teatro, Milano, Ubulibri, p. 98.

127
Se cantar mi fai d’amore...

cevitore penzola. Si sente una sirena. Michele alza il capo.


Guarda Adriana).
MICHELE Perché?
(Adriana fa un gesto vago. Come se volesse spiegare ma
non può. Entrano in scena Sandro e Salvatore vestiti da in-
fermieri con una barella. Si dirigono verso l’altra stanza.
Appare Arturo vestito da dottore seguito da Rosanna e
Giovanna)
DOTTORE (alle infermiere) – con cautela. Levatele il coltello. Ecco
così brava…portatela via…
(Mentre le infermiere portano via Adriana, ripassano San-
dro e Salvatore con la barella con i corpi dei bambini. E-
scono).
DOTTORE (a Michele) – farebbe bene a prendersi un calmante. Dovrà
ancora affrontare tutte le domande e le pratiche della poli-
zia… bè… Buongiorno.
(Va via. Michele si alza.)
VOCE DEL TELEVISORE Buongiorno a tutti. Oggi 27 luglio è San Celesti-
no. Auguri a tutti i nati in questo giorno. E prima del con-
sueto oroscopo della giornata vi trasmettiamo le canzoni
del mattino (Stacchetto musicale. Poi la voce di Julio Igle-
sias in «Pensami». Dopo pochi istanti appare sulla soglia
Giovanna. In abito da sera22.

22
Una tranquilla notte d’estate, Guida, cit., pp.75-76. La figura del medico, soprag-
giunto per portar via Adriana, ricorda il finale di Un tram chiamato desiderio di Tennessee
William. Nella seconda versione Giovanna sostituisce il medico, in seguito, dopo la canzo-
ne di Iglesias, la sua ricomparsa segue dinamiche diverse: «[…] Dopo pochi istanti si apro-
no di colpo i battenti dell’armadio. Nell’armadio, spoglio, appare Giovanna in abito da se-
ra. Mentre rovescia il capo all’indietro in una irresistibile risata, buio improvviso» Nottur-
no di donna con ospiti, Guida, cit., p. 118. Nella terza versione vengono eliminati i ruoli del
dottore e degli infermieri.

128
Notturno di donna con ospiti

Nella versione pubblicata nel 2005 il finale appare libero da alcuni


dettagli dal sapore vagamente horror. Adriana è sola al centro della
scena:

(Adriana avrà un sobbalzo poi impugnerà il coltello e, de-


cisa, si dirigerà verso la camera dei bambini da cui rien-
trerà in scena dopo poco con il vestito e il coltello imbrat-
tati di sangue. Esausta e felice si siederà presso il divano
poi prenderà a dialogare, ansimante, con una immaginaria
figura del padre).
ADRIANA […] Siente papà, t’aggia dicere na cosa! Però nun l’aje fà
sapè a mammà, m’’o prummiette? Io nun l’aggio fatto ap-
posta. Nun saccio manch’io comm’è potuto succedere! Ma
Alfredino e Giovanni…Alfredino e Giovanni…
(Adriana si accascia al suolo singhiozzando. Le stecche
delle veneziane del giardino si riaprono lentamente mo-
strando il giardino/ripostiglio invaso dagli “altri”, che con
aria di insolente sfida guardano verso la casa di Adriana
mentre la luce del televisore acceso si confonde e perde nei
primi chiarori dell’alba)23.

L’esempio sopra citato mostra come (nella seconda e terza versio-


ne del testo) Adriana cambi registro linguistico passando dall’italiano
regionale al napoletano. Il passaggio avviene in occasione della regres-
sione nel ricordo e configura il dialetto come lingua arcaica dell’infan-
zia della protagonista, espressione di un’innocenza irrimediabilmente
compromessa.

23
Notturno di donna con ospiti, Ubulibri, cit., p.77. Anche la modalità con cui la don-
na uccide i suoi bambini riporta alla mente il testo di Fassbinder: (Fuori scena si sentono i
bambini piangere e gridare; Geeshe s’accascia piangendo, ma poi fa forza su se stessa, e-
sce fuori dai bambini, che dopo un momento cominciano a gridare più forte. Geeshe rien-
tra. S’inginocchia davanti al crocefisso, comincia a cantare. Durante la seconda strofa i
bambini tacciono improvvisamente. È un silenzio di morte) R. W. Fassbinder, Libertà a
Brema, in «Sipario», cit., p. 76.

129
Se cantar mi fai d’amore...

L’atto estremo della donna ricalca il suicidio di Jennifer24, ancora


una volta la catarsi del delitto (vero o immaginario che sia) si configura
come unica possibilità di equilibrio. Il gesto di Adriana rientra in una
serie di tragici finali utilizzati da Ruccello nel suo indagare le reazioni
di fragili individui del ceto medio-basso quando posti dinanzi ad avve-
nimenti assolutamente inconsueti o quando la loro soglia di sopporta-
zione risulta satura25. Si noti, inoltre, come in ognuno dei finali analiz-
zati, rimane costante la figura del padre quale interlocutore unico di
un’Adriana ormai in preda a deliri irrefrenabili. Momenti nei quali, la
donna, con il viatico della follia, cerca di colmare quel vuoto creatosi in
vita con la figura paterna. Ma la condizione marginale del padre della
ragazza non è un unicum nella drammaturgia di quest’autore che co-
stantemente sceglie di posizionare la donna al centro della scena, affi-
dandole le sorti della trama26. Perso il ruolo di pater familias (eduar-
diano), la figura maschile risulta appannata da incertezze che investono
la sua funzione di maschio/guida27. L’omosessualità di Aurelio, Jenni-
fer e Don Catello sono la manifestazione più facilmente riconoscibile.

24
Jennifer è l’unico fra i personaggi di Ruccello a non avere una famiglia di riferi-
mento. Nondimeno anche quando, in seguito, i personaggi avranno rimandi familiari, il loro
stato di solitudine non cambierà. Al contrario, i problematici rapporti con i parenti eviden-
zieranno ancor di più questa condizione.
25
La critica non è compatta nell’apprezzare il lavoro: «Letta a suo tempo la comme-
dia non mi era parsa del tutto convincente e il vederla realizzata non ha diradato completa-
mente le perplessità suscitate all’epoca. Siamo lontani, infatti, dalla fresca, provocatoria ve-
na de “Le cinque rose di Jennifer” ed anche dall’eloquente pregnanza culturale di “Ipata”.
In questa storia contorta, piuttosto involuta, domina un cerebralismo che neanche l’uso,
spesso felice di una parlata quotidiana e svilita riesce a nascondere» Umberto Serra, Ospiti
da incubo, «Il Mattino », 24 ottobre 1983.
26
Lo stesso Ruccello conferma: «teatralmente mi stimolano di più i personaggi fem-
minili» in Rodolfo di Giammarco, Non chiamatemi autore, sono un “allestitore” e un ex
antropologo, «la Repubblica», 27 marzo 1984.
27
Sebbene portata ad estreme conseguenze, la scelta drammaturgica di Ruccello foto-
grafa qualcosa effettivamente in atto nella società italiana in quegli anni: «È ricorrente nella
riflessione socio-antropologica l’idea che la perdita di autorità paterna possa corrispondere
all’emergere di quella materna, con un alternarsi di autorità patriarcale e matriarcale nella
gestione familiare». Bianca Barberio Avanzini, Famiglia e donna, in Id. (a cura di), Primo
rapporto sulla famiglia in Italia, cit., p. 51.

130
Notturno di donna con ospiti

In Notturno… l’insolenza di Michele e Sandro verso Adriana risulta


inversamente speculare alla condizione di subalternità di suo padre ver-
so la madre virago (i vari flashback del testo mostrano un uomo forte-
mente succube della moglie)28. Inoltre, Tonino di Anna Cappelli è
strumento nelle mani della protagonista per completare il proprio dise-
gno di vita, ma gelidamente eliminato quando minaccia di abbandonare
la donna. Allo stesso modo Narciso in Week-end altro ruolo non occu-
pa se non quello di puro svago sessuale per Ida (che successivamente lo
lascia, senza rimpianti). Proprio in quel testo, il delirante monologo
della donna contro la madre e le sorelle esprime pienamente la tipolo-
gia dei rapporti fra uomini e donne nella famiglia ruccelliana:

IDA E voi? ...Voi non siete vacche? Che il midollo ci avete suc-
chiato ai mariti vostri! Il midollo!...Il midollo del caz-
zo!...Voi succhiavate e loro sempre più gialli, secchi, brutti,
deperiti… E voi chiatte! Chiatte abboffate di sangue di
sperma!... Puttane! Puttane!...29.

28
PADRE […] Sanghe d’’a marina fetente, mmano a te so’ addeventato ll’urdemo
strunzo?! Tutt’ e sante dummeneche ca ’o Pataterno ha criato chella adda vedè comme me
l’adda ’ntussecà! Na femmena ca tene ’o diavolo ’ncuorpe! […] Tu me staie facenne scuntà
’nterra tutt’ ’e pene ’e l’inferno! Cchiù d’ ’e peccate c’aggio fatto! Io vulesse sapè che male,
vulesse sapè!... (Maledizione, fra le tue mani sono diventato l’ultimo dei fessi?! Quella
donna cerca di rovinarmi ogni santa domenica che il buon Dio ha creato! Una femmina che
ha il diavolo in corpo! […] Tu mi stai facendo pagare in terra tutte le pene dell’inferno! Più
dei peccati che ho fatto! Io vorrei sapere che male, vorrei sapere!...) Notturno di donna con
ospiti, Ubulibri, cit., p. 57.
29
Id., Week-end, in Teatro, Ubulibri, 2005, p. 100.

131
Interno borghese:
Week-end

La chiave interpretativa lungo la quale si svolge Notturno… viene


riproposta in Week-end 1, storia di Ida, insegnante di mezza età affetta
da leggera zoppia a causa di una caduta mal curata2. Le banali giornate
della donna trascorrono monotone, fra lezioni poco seguite a scuola e,
nel pomeriggio, lezioni private ancor meno seguite, metafore di una vi-
ta senza ideali né soddisfazioni o interessi. Finché un giorno, non entra
in casa Narciso, giovane idraulico. Ancora un kammerspiel (dramma da
camera strutturato in due tempi, divisi in tre quadri ciascuno), ancora

1
Depositato in SIAE il 24 giugno 1983, Week-end vince il Premio IDI under 35 e de-
butta il 2 novembre dello stesso anno al Teatro dell’Orologio di Roma. Regia: Marco Ga-
gliardo, interprete principale: Barbara Valmorin. Nel 1986 Ruccello riallestisce lo spettaco-
lo al Teatro Nuovo di Napoli, con la sua regia e mantenendo la stessa interprete. Mario Pro-
speri coglie la condizione del personaggio di Ida nel suo essere espressione di una transi-
zione fra la realtà contadina e quella metropolitana: «Dello psicopatico si dice che la sua vi-
ta è uno psicodramma al quale non riesce a dare una conclusione. Potrebbe essere questa la
metafora assunta da Ruccello per fissare una condizione umana così caratteristica della cul-
tura che stiamo vivendo: dal trauma ancora aperto dell’esodo da un contesto contadino
all’indistinto panorama di agglomerati «in via di sottosviluppo», in cui il soggetto accede
alla catarsi primaria del delitto come unica possibilità di equilibrio.». Id., “Week-end”
all’Orologio, «Il Tempo», 5 novembre 1983.
2
Come già accennato, il personaggio di Ida è un condensato di riferimenti a lavori di
Tennessee Williams: la zoppia richiama Laura di Zoo di vetro mentre la sua inclinazione
all’alcool e la condizione di single ricordano la Blanche di Un tram chiamato desiderio.

133
Se cantar mi fai d’amore...

una volta la squallida uniformità di un interno borghese (tutta l’azione ha


luogo nel soggiorno di casa) a riprova che la dimensione apparentemente
mansueta di questo ambiente si presenta come ideale elemento contrasti-
vo rispetto alle storie d’improvvisa follia che Ruccello ama narrare3.
Luogo simbolico dell’inconscio, l’interno domestico si prefigura, anche
in questo lavoro, quale testimone unico del viaggio della protagonista nei
meandri inesplorati e misteriosi della propria psiche violata.
Non siamo in Campania, sebbene il Meridione sia presente tanto
nelle origini di Ida: «[…] di origini meridionali e trapiantata a Roma
da molti anni»4, che in quelle di Narciso: «Quando parla avrà uno
spiccato accento meridionale»5. È il ragazzo stesso a dar conferma del-
le sue origini:

IDA Come ti chiami?


NARCISO Narciso.
IDA (Scoppiando a ridere) Ah, che fine per una professoressa…
Narciso! ...Comunque mi sembra giusto…Anche tu meri-
dionale
NARCISO No. Napoletano. […]6.

La descrizione di questo personaggio cambia nel tempo. Inizial-


mente il giovane idraulico viene descritto come:

3
I riferimenti cinematografici sono mutati rispetto ai primi due testi della “trilogia da
camera”, come dichiara l’autore: «Negli altri due lavori della trilogia ho assorbito l’influsso
di film americani, ma in questo caso la matrice è noir, francese, o più confidenziale alla
Commissario Maigret, anche se emerge un forte contrasto con la disco music Erotic&Esotic
di peggior gusto anni ’80, diffuse dalle radioline e TV.» Intervista ad Annibale Ruccello di
Rodolfo di Giammarco, In una storia da quattro soldi i deliri di una professoressa, «la Re-
pubblica», 15 febbraio 1986.
4
Week-end, Ubulibri, cit., p. 81.
5
Ivi, p. 84.
6
Ivi, p. 86.

134
Week-end

[…] poco più che un adolescente o almeno non dimostra più di


vent’anni. È di una bellezza efebica e quasi femminea nella sua delica-
tezza, nei suoi riccioli biondi, eppure da tutto il corpo emana una tran-
quilla forza già virile)7 […].

Nella seconda versione Narciso ha acquistato qualche anno:

È un ragazzetto non più che venticinquenne, piccoletto, scuro, in bilico


fra l’arroganza del maschietto e la tenerezza del bambino8.

Il testo, interrompendo quell’atmosfera di routine borghese volu-


tamente contenuta nelle prime pagine, in seguito all’incontro dei due
protagonisti acquista un desiderio di viva carnalità che si condensa in
un’attrazione sessuale divampata fra loro senza mediazioni o incertez-
ze, al punto che ognuno dei tre quadri del primo tempo si conclude con
un loro amplesso9. Tale sessualità è accompagnata, in particolar modo

7
Week-end, Guida, p. 126.
8
Week-end, Ubulibri, cit., p. 84.
9
Alla fine del primo quadro si legge: «Ida si inginocchia ai piedi di Narciso. Buio».
Ivi, p. 86. Alla fine del secondo quadro, la scena segue dinamiche pressoché simili: «[…]
Ida rimane col braccio teso, poi gli si inginocchia davanti. Narciso le afferra la testa e se la
spinge verso il ventre. Buio». Ivi, p.89. Da notare che le dinamiche del primo approccio ses-
suale fra i due sono meglio dettagliate nella versione pubblicata da Ubulibri. Infatti, nella
prima versione si legge:
NARCISO La chiavetta era aperta, signorina.
(Si incammina verso il divano ed è la prima volta dall’inizio della rappresentazione
che Ida esibirà in presenza di qualcuno la sua menomazione. Si siede e gli porge lo Strega.
Narciso beve, poi prende una mano di Ida e se la mette fra le cosce divaricate). Week-end,
Guida, cit., p. 127. In seguito il dialogo viene ampliato:
NARCISO La chiavetta era aperta, signorina…
IDA Aperta? E com’è allora che non perde più?
NARCISO E che ne so…
IDA Oh Gesù! Questa è proprio bella. Posso giurare che ha perduto per tre giorni di
seguito. Lo giuro!
NARCISO E no’ non perde più…

135
Se cantar mi fai d’amore...

nella prima versione, da scene di nudo, in seguito moderate. Ne è e-


sempio l’esibizione di Narciso che esce dal bagno «nudo, mentre si a-
sciuga i capelli con un asciugamano»10 (e rimanendo tale per tutto il
secondo quadro). E ancora, l’esposizione del seno di Ida alla fine del
secondo quadro: «Narciso intanto le ha scoperto un seno e lo accarez-
za distrattamente»11. Ma soprattutto la descrizione della lotta amorosa
fra i due amanti che chiude il primo tempo:

[…] Narciso si è liberato dall’asciugamano e tira Ida per terra. Nel ca-
dere Ida si impossesserà di un coltello sul tavolo con il quale minaccia
Narciso. La colluttazione fra i due è in bilico fra il coito e la lotta. Narci-
so tenta di baciarla. Ida si divincola. I due si rotoleranno fino alla came-
ra da letto da cui giungeranno in scena dei sospiri e degli ansimi molto
forti […] un urlo di Narciso porrà fine al primo tempo12.

IDA Oh povera Ida! Che figura col Sor Mario! Dopo che ho insistito tanto…(Ridendo)
Povera Ida… Appresso a quei ragazzi ti sei proprio rimbecillita… Eppure è strano… perché
perdeva… Ma ha controllato bene, sì?
NARCISO Se volete posso ridarci un’occhiata…
IDA Oh! Ecco, bravo! Perché non si può mai sapere… Alle volte fanno certi scherzi.
Grazie. Un altro già mi avrebbe mandato a quel paese.
Narciso torna in camera da letto. Ida sempre immobile vicino al tavolo aspetta. Riappa-
re Narciso con in mano il vestito rosso indossato da Ida nella scena precedente. Lo appogge-
rà significativamente su di una poltroncina poi si siederà sul divano a gambe divaricate.
IDA Niente?
NARCISO Niente.
Ida versa in un bicchierino dello Strega. Si volta verso Narciso.
IDA Uno strega?
Si incammina verso il divano ed è la prima volta dall’inizio della commedia che esibirà
in presenza di estranei la sua menomazione alla gamba. Si siede accanto a Narciso, gli porge
il bicchiere, Narciso beve, poggia il bicchiere sul tavolino nei pressi del divano, prende una
mano di Ida e se la poggia fra le gambe divaricate. Week-end, Ubulibri, cit., pp. 85-86.
10
Week-end, Guida, cit., p. 127. Nella versione successiva, quello stesso asciugamano
sarà usato per cingergli la vita. Week-end, Ubulibri, cit., p. 86.
11
Week-end, Guida, cit., p. 130
12
Ivi, p. 134.

136
Week-end

Ancora la radio presente in scena13, ma più che in Jennifer, qui è


elemento preposto a definire l’identità culturale dei personaggi. Ida
ama la musica classica che ascolta a volume moderato14, mentre il suo
amante/idraulico è un avido fruitore di musica leggera italiana/inglese15
che ascolta a tutto volume16. Come in Notturno di donna con ospiti, re-
ale ed onirico procedono su piani intersecanti. Laddove il primo atto si
chiude dopo aver mostrato un fine settimana all’insegna della passione
e dei giochi erotici più intensi fra i due protagonisti, ad inizio del se-
condo atto, tornati nel quotidiano malessere, l’incontro fra i due viene
riferito come mai avvenuto:

IDA Sor Mario?.. E sono la signorina Ida!... Come che c’è… vo-
levo ringraziavi per il servizio di venerdì! Quale servizio?...
Fino alle nove ho aspettato! Come una cretina!... No, che
non è venuto! Non è venuto nessuno!...Come?! Non ci credo
che me l’avete mandato!... Allora non mi credete? Vi dico
che qua non è venuto nessuno17.

13
Dalla didascalia iniziale apprendiamo che è presente in scena anche un televisore,
sebbene mai in funzione.
14
La prima didascalia del testo introduce al genere di musica amata da Ida: «Si dirige
poi verso il giradischi e mette su un disco di musica classica (Mozart, Eine kleine Na-
chtmusik)». Ivi, p. 83. Nella versione di Guida, in questo primo quadro c’è anche un breve
riferimento alla TV: «Accende, distratta il televisore che trasmetterà alcune scene di Scan-
dalo con Lisa Gastoni». Ivi, p. 125.
15
I gusti musicali di Narciso nella prima versione sono più nostrani: «Dal bagno una
radiolina a tutto volume trasmette «Piccolo amore» dei Ricchi e Poveri» ivi, p. 127. In se-
guito il ragazzo preferirà ascoltare musica inglese: «Dal bagno una radiolina trasmette una
canzonetta inglese da discoteca» Week-end, Ubulibri, cit., p. 86.
16
Si registrano anche altri cambiamenti nella colonna sonora del testo. Alla fine del
terzo quadro, nella prima versione arrivavano dall’esterno le note di: «L’amore è bestia
l’amore è poeta» cantata da Mina» Week-end, Guida, cit., p. 134.
Nella seconda versione Mina viene sostituita da: «una canzonetta rock mandata da un
autoradio» Week-end, Ubulibri, cit., p. 92. Allo stesso modo, la canzone di: «Lucio Dalla
(Balla ballerina)» Week-end, Guida, cit., p. 135, viene sostituita da: «un pezzo rock italia-
no» Week-end, Ubulibri, cit., p. 93.
17
Ivi, p. 94.

137
Se cantar mi fai d’amore...

Narciso esprime quella condizione liminare fra realtà e audace


proiezione della mente di Ida, elemento speculare/onirico del proprio sé
attraverso il quale esplorare mondi in cui la pudica “zitella” non ose-
rebbe metter piede, impegnata nel rappresentarsi come rispettabile ma-
estrina piccolo-borghese18. Ma ancor più, il giovane idraulico rappre-
senta l’elemento generante una propria forza interiore, preludio ad in-
contri carnali che di lì a breve avverranno “realmente”, ma con l’allie-
vo quattordicenne Marco:

IDA Ah erano belle le cosce di Ida! Avresti voluto toccarle le


mie cosce! Ti sarebbe piaciuto! E tocca! Toccale! Avanti!
Puoi toccarle! Guarda come sono belle! Guardale! Toccami
le cosce! […] (Lo spinge per terra e gli si butta sopra
scomparendo con lui in camera da letto)…19.

Nel suo intimo Ida non ha mai superato l’antica condizione di zop-
pa del paese coltivando una rabbia sorda verso il mondo e verso la vita
che l’ha segnata dalla nascita. Ruccello veicola questo rancore, usando,
come in Notturno…, il rapporto madre-figlia, ancora nutrito di frustra-
zioni inespresse e laceranti sensi di colpa. Questo rapporto in Week-end
acquista toni densamente problematici, esprimendo una marcata con-
flittualità, talvolta estesa anche ad altri membri del nucleo familiare.
Consumato l’atto sessuale con Marco, in un lungo monologo liberato-

18
Torna ancora una volta Pinter: «Ora «il gioco» di cui Ruccello – o per meglio dire il
suo stile – è un falso naturalismo che deriva da Pinter il gusto dell’ambiguità tra reale e im-
maginario: si assiste alla penetrazione dei fantasmi e degli atti semplicemente desiderati nel
pieno contesto della realtà, che in tal modo – deformata dagli «a priori» della soggettività
dei personaggi – acquista un aspetto inquietante.» Mario Prosperi, “Week-end”
all’Orologio, cit.
19
Week-end, Ubulibri, cit., p. 98. Gli incontri sessuali, sia con Narciso che con Marco,
si consumano fuori scena. Lo stesso autore conferma l’intenzionalità della scelta: «In verità
in scena non avverrà mai niente di veramente importante, per lo svolgimento dell’azione.
Le cose importanti avvengono nelle scene che non si vedono, di cui si parla soltanto.» In-
tervista ad Annibale Ruccello, in Giulio Baffi, Il morboso giallo firmato Ruccello, «Il Gior-
nale di Napoli», 28 gennaio 1986.

138
Week-end

rio, Ida sembra incolpare le sorelle e la madre delle sue azioni, vomi-
tando l’amarezza, la delusione, i ricatti che l’hanno fatta esiliare dalla
famiglia e dall’amore. Invade la scena la rabbia forsennata di una don-
na che ha a lungo macerato la propria diversità e la sconfitta ed è ora
pronta a rendere partecipe il mondo delle verità segrete di famiglie in
cui donne arpie succhiano la vita dei loro uomini, riducendoli allo
stremo per consumo sessuale. Api regine dalla sessualità vorace che
s’ingrossano ingurgitando sangue e sperma:

IDA […] Sì sono una vacca! Una vacca! Una vacca! Una vacca!
Una grande vacca!... E voi?... Voi non siete vacche? Che il
midollo ci avete succhiato ai mariti vostri! Il midollo!... Il
midollo del cazzo!...Voi succhiavate e loro sempre più gial-
li, secchi, brutti, deperiti… E voi chiatte! Chiatte abboffate
di sangue di sperma!... Puttane! Puttane!... Io poi sarei la
puttana? ...Io? ...Voi siete le puttane! Voi! ...E pure tu
mammà! Tu sei più puttana di loro!... Sì… Ti puoi fare tut-
te le comunioni che vuoi… Sbattiti le ponje npietto!
...Sbatti! Sbatti! Puttana! Che ci vai a fare in chiesa? Pure
l’assoluzione di Don Benedetto ti sei comprata! Pure quel-
la! E papà! ...Chi l’ha zucato a papà! Chi l’ha zucato? Tu!
... E quelle zoccole delle sorelle mie!...20.

Nel corso di questo delirio/monologo, narrato in condizione di


trance, torna prepotentemente in scena la lingua del Sud (in questo ca-
so si tratta di un idioma fatto di napoletano, pugliese, romano e sicilia-
no)21 quale espressione viva delle proprie origini culturali22. Espressio-

20
Week-end, Ubulibri, cit., p. 100. Queste ultime battute sul rapporto ipocrita della
madre con la Chiesa riecheggiano un rimprovero già avanzato da Adriana alla genitrice in
Notturno:
ADRIANA E tu sarisse ’a cattolica? Chella ca se fa scrupelo ’e trasì dint’ ’a na chiesa cu
’e vracce scummigliate! Tu si’ n’ipocrita! Chesto si’! N’ipocrita! (E tu saresti la cattolica?
Quella che ha timore di entrare in Chiesa con le braccia scoperte! Tu sei un’ipocrita! Questo
sei! Un’ipocrita!) Notturno di donna con ospiti, Ubulibri, cit., p. 71.
21
Si pensi che il testo nasce su suggerimento dell’attrice Barbara Valmorin, di origini
pugliesi.

139
Se cantar mi fai d’amore...

ne in realtà pluri-composta laddove la lingua diventa strumento vivo


nelle mani dell’antropologo che inserisce la favola della “Signora cu lu
zampone” (la stessa che la madre di Ida le raccontava da bambina),
stabilendo una simbolica trasfigurazione fra leggenda e realtà, fra la
menomazione della signora e quella di Ida:

IDA Ce steva a Roccapetrosa na signora ricca… Ma ricca as-


saie… E bella! Quant’era bella la signora!... Aveta! Bion-
da!... Cu ’e ricce d’oro ca le scendevano fino allu culo! …
Duie uocchie azzurre tante! Na vucchella rossa e aggrazia-
ta… Nu pietto de marmole!... Ddoie cosce turnite toste! A
signora però teneva no piecco!... Era zoppa!... Era zoppa
alla coscia sinistra…23.

Ma lo smarrimento ha vita breve e ben presto Ida torna a rifugiarsi


nel suo guscio piccolo borghese. Quando, nel finale, Narciso si ripre-
senta ancora a lei, Ida lo liquida con freddezza:

IDA E che ci fai qua?


NARCISO Niente passavo
IDA Ma tu sei morto
NARCISO Lo so. Me lo hai già detto stamattina.
IDA Io ti ho ucciso. Tu non esisti più. Morto. Sepolto. Digerito.
NARCISO Non ti sono rimasto nemmeno un poco sullo stomaco?
IDA Adesso. È come se avessi un rigurgito.
NARCISO Non mi piace essere liquidato dalle donne. Io devo lasciar-
le. Non loro.

22
In merito alla lingua da usare durante le conversazioni di Ida con la madre, Ruccello
scrive: «Le battute di questa telefonata andranno elaborate dall’attrice nel più stretto dialetto
della sua regione di provenienza» Week-end, Ubulibri, p. 93.
23
Ivi, p. 100.

140
Week-end

IDA E con me sei capitato male24.

Nonostante, nella prima parte del racconto, il personaggio dell’in-


segnante si ponga come riverbero di mutazioni sociali e culturali incon-
sapevoli sull’individuo (frutto dell’esodo da un contesto contadino
all’indistinto panorama degli agglomerati urbani) aprendosi a realtà di
esclusione (ancora una volta, è la solitudine a determinarne i compor-
tamenti), lo scatto d’indipendenza nel finale dimostra come la donna
abbia acquisito sufficiente confidenza in se stessa, aggiustandosi la vita
non secondo le imposizioni della comunità, ma secondo le proprie vo-
glie e le proprie esigenze. Ida insegue il godimento fino al piacere della
perversione (reale o finta che sia), ma soprattutto, mostra di aver accol-
to gli aneliti fondanti della “questione femminile”. Quelli degli anni
’70, centrati sull’idea della liberalizzazione della donna da ogni pres-
sione autoritaria, intra ed extrafamiliare, e quelli degli anni ’80 che sem-
brano sottolineare la tendenza socio-culturale all’autorealizzazione e va-
lorizzazione della donna.

24
Ivi, p. 102.

141
Sesso e morte:
Ferdinando

Il testo, scritto nel 1984 e insignito di numerosi riconoscimenti1


esprime la piena maturità raggiunta dal drammaturgo Ruccello2. Gli in-
tenti che permeano la stesura di questo lavoro sono diversi rispetto alle
opere precedenti (rappresentando quindi un’ulteriore svolta). Se in pas-
sato quest’autore ha inteso fotografare trance de vie, descrivendo, co-
me nel caso de Le cinque rose di Jennifer, uno spaccato di vita ai mar-
gini della metropoli marcato da rovinosa solitudine, con Ferdinando
passa a strutture più complesse, procedendo per metafore dalle quali la-
sciar emergere una visione maggiormente corale della propria cultura,
o meglio dei mutamenti da essa subiti3.

1
Ferdinando vince il premio IDI nel 1985, il Premio IDI migliore novità dell’anno
nel 1986, il Premio Lauro d’Oro alla protagonista Isa Danieli e il Premio Nazionale della
Critica nel 1986.
2
Il testo viene depositato in SIAE il 15 giugno 1984. Lo spettacolo debutta in ante-
prima a San Severo di Foggia il 28 febbraio 1986. Il cast è così composto, Donna Clotilde:
Isa Danieli, Donna Gesualda: Fulvia Carotenuto, Don Catello: Annibale Ruccello, Ferdi-
nando: Pierluigi Cuomo. Regia dello stesso Ruccello. A marzo lo spettacolo viene presenta-
to al Teatro Cilea di Napoli. Ad aprile Ferdinando è riproposto per una sola sera al Teatro
Quirino di Roma. Il testo avrà anche una versione cinematografica, nel 1990 viene realizza-
to Ferdinando uomo d’amore, con la regia di Memè Perlini e protagonista Ida Di Benedet-
to. Mentre nel 1998 Giuseppe Bertolucci cura la regia della riduzione televisiva di Ferdi-
nando (andato poi in onda su Rai Due per “Palcoscenico”).
3
Incentrando il testo così fortemente sul napoletano e sulla sua cultura, Ruccello non

143
Se cantar mi fai d’amore...

La storia è ambientata all’indomani dell’Unità d’Italia ed analizza


il disfacimento di una famiglia attraverso la figura di due donne: Donna
Clotilde (Baronessa di Lucanigro) e Donna Gesualda, sua cugina. Dopo
la morte del marito, Clotilde decide di evitare ogni confronto con un
mondo che cambia troppo velocemente, rintanandosi nel proprio letto4.
Gesualda svolge mansioni di dama di compagnia e di serva. In osser-
vanza alle dinamiche contenute nei Kammerspiel strindberghiani, i due
personaggi sono uniti da un sentimento d’amore e odio, di diffidenza e
rancore, ma, allo stesso tempo, di reciproca dipendenza. Il loro aiutarsi
e combattersi è parte di un gioco al massacro che termina solo con il
calare del sipario. Inoltre, la collocazione domestica del testo porta a
compimento un’operazione di progressivo restringimento dell’ambien-
tazione che Ruccello opera fin da Le cinque rose di Jennifer, arrivando
a dare al luogo scelto una dimensione quasi claustrofobica5. In questo
caso, luogo dell’azione è la camera da letto di Clotilde, terreno d’in-
contro/scontro fra i quattro personaggi rappresentati, fortino eretto dalla
nobildonna a difesa della propria identità. Già in questa decisione della
protagonista s’intravedono i primi riferimenti letterari. Tornano in
mente il Pirandello de I Vecchi e i giovani, in cui Don Ippolito Lauren-
tano sceglie di auto esiliarsi in un suo feudo, protetto da un corpo di
guardia di venticinque uomini in divisa borbonica, per non dover vede-

manca di lanciare un messaggio polemico a quelle compagnie partenopee che avevano cer-
cato una propria identità utilizzando drammaturghi stranieri. Si pensi, per esempio, al grup-
po teatrale napoletano che in quegli anni riscuoteva larghi consensi, «Falso Movimento».
Le loro produzioni di maggior successo, fino a quel momento, includevano: Il desiderio
preso per la coda da Picasso (1985), Coltelli nel cuore da Brecht (1985), Ritorno ad Alpha-
ville da Godard (1986).
4
La storia si svolge nel palazzo di Clotilde sulla costa napoletana fra Ercolano e Torre
del Greco. Non a caso zona prediletta dai Borbone per le vacanze estive.
5
Matteo Palumbo mette in evidenza «la dilatazione della vita interiore dei personag-
gi» in contrasto con «la limitazione carceraria dei luoghi» nei personaggi femminili di Ruc-
cello: «Per ognuna di esse la casa, più che costruire un contenitore naturalisticamente pre-
sente o un centro di raccordo che collega personaggi distinti per il loro carattere e per i loro
comportamenti, diventa il luogo di un’avventura mentale, in cui ciò che accade realmente
può perfino confondersi con la possibilità o con il timore che accada.» Id., Le «Piccole tra-
gedie minimali» di Annibale Ruccello, in «Nord e Sud», 4, 2000, p. 119.

144
Ferdinando

re la nuova realtà politica dell’Italia unitaria6, o Des Esseintes, il prota-


gonista di Controcorrente di Huysmans, ultimo discendente di una ric-
ca famiglia francese che si ritira in una casa fuori Parigi per attuare il
suo progetto esistenziale: vivere fuori dal tempo.
Il quotidiano delle due donne in questo paesino dell’entroterra ve-
suviano è scandito da cure mediche e visite del parroco locale, Don Ca-
tello. Ma gli immobili equilibri della convivenza tra la Baronessa mala-
ta immaginaria, la cugina vergine presunta e il prete opportunista, tra
complicità, sadismi e repressioni, vengono sconvolti dall'irrompere di
un intruso, il giovane e bel nipote Ferdinando. Inviato in quella casa dal
Notaio Trinchera7, il ragazzo sconvolge i tormentati equilibri scorgen-
do la loro condizione di anime accomunate dalle pulsioni del ventre e
del sesso. Metodicamente il ragazzo innesca la miccia di una progres-
siva dissoluzione intrecciando subdolamente legami sessuali con gli al-
tri personaggi. Con ognuno di loro egli mette in pratica tecniche sedut-
tive ad hoc. Inizia con Clotilde, usando il suo profilo efebico/adole-
scenziale8, una notte il ragazzo s’infila nel letto della zia fingendo di
aver paura a dormire solo. Nel secondo tempo appare evidente come la
donna, ormai guarita da ogni presunto male, sia in preda ad una violen-
ta passione per il nipote:

CLOTILDE […] Fatte tuccà! Astregnere! Pezzecà! Voglio essere sicura


ca sì overo e ca nun si’ nu suonno! Fatte mettere ’e mmane
dint’’e cazune! (Toccandogli il membro nei calzoni) Chisto
oì! Chistu ccà! Adda essere sulo d’’o mio! Si saccio ca ’o
daie a quaccherun’ata, t’o taglio! M’’o mangio! N’’straccio

6
Cfr. Luigi Pirandello, Tutti i romanzi. I vecchi e i giovani, Milano, Mondadori, 1941.
7
Si noti che il cognome del personaggio è lo stesso del celebre drammaturgo napole-
tano del Settecento Pietro Trinchera (1702-1755), non a caso anch’egli Notaio (almeno fin
quando non abbandonò la professione per dedicarsi pienamente al teatro).
8
In una didascalia l’autore descrive così il suo personaggio: «È un giovane di circa
sedici anni, di una bellezza apollinea, con lunghi riccioli biondi che gli scendono quasi fin
sulle spalle, un corpo esile e slanciato e un’aria di ingenua tristezza che gli conferisce mag-
gior fascino». Ferdinando, cit., p. 151.

145
Se cantar mi fai d’amore...

e mm’’o stipo! Sulo d’’o mio adda essere! sulo d’’o mio! E
nisciun’ata!9

Con Gesualda, invece, Ferdinando mostra una virilità prorompen-


te, fermo nel suo intento di scansare la concorrenza di Don Catello:

FERDINANDO […] Guardame! E toccame! Nun so’ megl’io ca Don Catel-


lino! […]Guarda ccà! Chesta è carna fresca! Tosta! ’Ncera-
ta! Siente ’o profumo ca tengo! È ’nu profumo ca ’On Ca-
tellino maie e poie maie te putarrà fa sentì! ’O ccapisce?
(La bacia in bocca) Te sapeva vasà accussì ’On Catelli-
no!10 […].

E, infine, mostrando una certa disinvoltura sessuale, il ragazzo rie-


sce a condurre a sé anche il sacerdote al punto che, perso d’amore per
lui, Don Catello cadrà nella trappola mortale delle due donne che, ti-
morose di perdere le attenzioni di Ferdinando, decidono di avvelenare
il prete:

GESUALDA […] (Tendendo un bicchiere al prete) Padre…


CLOTILDE (con il bicchiere in mano) ’On Catellì! Addo’ va!
DON CATELLO (dopo aver bevuto) E vuie nun vevite?

CLOTILDE (strana) Io? E sapite ca pozzo vevere ’o nucillo io?


DON CATELLO (a Gesualda) E voi?... Nemmeno bevete?

9
Fatti toccare! Stringere! Pizzicare! Voglio essere sicura che sei vero e non un sogno!
Fatti mettere le mani nei pantaloni! (Toccandogli il membro nei calzoni) Questo! Questo qua!
Deve essere solo mio! Se vengo a sapere che lo dai a qualcun altro, te lo taglio! Me lo mangio!
Lo strappo via e me lo conservo! Solo mio deve essere! E di nessun altro. Ivi, p. 174.
10
Guardami! E toccami! Non sono meglio io di Don Catellino! […]Guarda qua! Questa
carne fresca! Soda! Di cera! Senti il mio profumo! È un profumo che Don Catellino mai potrà
farti sentire! Lo capisci? (La bacia in bocca) Ti sapeva baciare così Don Catellino! Ivi, p. 170.

146
Ferdinando

GESUALDA (dura) A me ’o nucillo me fa n’effetto strano. Me rummane


ncoppo ’o stomeco! Invece ’e me fa diggerì me fa acido…
DON CATELLO (inquieto) Che brinnese strano…

GESUALDA (repentinamente Clotilde si allontana) Nun passarranno


diece minute e sarraie muorto!
DON CATELLO Che ddice?!

GESUALDA ’O nucillo era avvelenato!11

Il gesto si rivela fatale per Clotilde e la cugina poiché il ragazzo


userà l’omicidio per ricattarle e farsi consegnare la cassetta contenente
l’oro (gelosamente nascosta per anni dalla Baronessa) per poi ripartire
e abbandonarle. Se già in Week-end, Ruccello aveva mostrato di voler
sfidare il comune senso del pudore, in questo caso la sua “sfrontatezza”
è tale che, sopraffatto dalla moltitudine di dettagli peccaminosi che affol-
lano i dialoghi, lo spettatore/lettore viene a trovarsi inaspettatamente in
una condizione di forte disagio, quasi fosse al cospetto di storie delle
quali non è bene sapere, ma verso le quali prova un’oscura attrazione12.
Il concertato drammaturgico del testo raccoglie in un unico sviluppo
la metafora storico-sociale, il teatro d’intreccio, la parodia colta13, il
disegno analitico-psicologico e la satira morale. La collocazione storica

11
Ivi, p. 183. Il brindisi è preceduto dalla scrittura di una lettera da parte di Don Catello.
Nella missiva, sotto dettatura di Clotilde, il Parroco scrive : «[…] Sento che le mie colpe sono
un fardello troppo pesante, e non posso ulteriormente sopportarle. Per questo ho deciso, pur fra
mille dubbi e ripensamenti, pur fra mille paure, di compiere ciò che fino a ieri mi sembrava
impossibile». Ivi, p. 182. L’utilizzo di due missive per lo sviluppo della trama (la prima è quel-
la in cui si annuncia l’arrivo di Ferdinando) mostrano la familiarità di Ruccello con la tecnica
delle “pièce bien faite” ideate dal drammaturgo francese Eugène Scribe nel 1825.
12
Si pensi almeno al dialogo fra Gesualda e Don Catello sulle loro pratiche sessuali.
Ferdinando, p. 165-168.
13
Palladini scrive: «[…] A tale modernità strutturale fa da contraltare in Ruccello un
solido, antico impianto di comicità popolare, e l’uso anch’esso noto di sottili strategie lin-
guistiche dove un napoletano ricco e incandescente viene qua e là intervallato, secondo pre-
cipue connotazioni psicologico – narrative, con il latino, il francese e l’italiano.» Id., Canta
Napoli, Napoli Millenaria, «Paese Sera», 14 aprile 1986.

147
Se cantar mi fai d’amore...

della trama è elemento cruciale nella dinamica costitutiva della storia.


In seguito all’Unità del paese il mondo della Baronessa, di sua cugina e
del prete è passato dal Regno di Napoli a quello d'Italia, dai Borboni ai
Savoia, una storia è finita e un'altra sta cominciando. Nella descrizione
critica di questo passaggio si condensa il rifiuto verso la decadenza di
una civiltà postunitaria, vista come afasica e vuota.
Il personaggio di Ferdinando esprime il nuovo che incede, l'avven-
to di un presente senza tradizioni, senza passato e senza parole, ma al
cui fascino non ci si può sottrarre. L’autore osserva il passaggio dalla
vecchia classe nobiliare che, sebbene lacerata e corrotta, possedeva una
propria tradizione, ad una borghesia moderna marcatamente avida e
mediocre14. Lo dimostrano le parole con cui Ferdinando, alla fine, rive-
la la sua vera identità:

FERDINANDO Nun ve so’ nipote, nun ve so’ parente, nun ve so’ niente.
So’ figlio ’o nutaro Trinchera, ca lentamente, cu pacienze,
negli anni, sotto i nomi più svariati se ’mpussessato ’e tutte
ll’ipoteche voste, ’e tutte ’e cambiale, e tutte ’e diebbete…
’A primma famiglia burbonica veramente fedele ai Sa-
voia… Pe’ chesto me chiamo Filiberto. P’ammore d’ ’o
rre. No re Burbone ma ’o rrè… Chillo ’e mo’!15

Dinanzi a tanta fredda aggressività, furbizia e spregiudicatezza


messa in campo dalle nuove generazioni, le vecchie non possono che
incassare il colpo e ritirarsi in attesa della morte. Del resto, lungo tutto
l’arco narrativo Ruccello presenta Donna Clotilde quale espressione
piena di una cultura ottocentesca che, coerente con il proprio rifiuto

14
Ruccello definisce la propria generazione: «dell’immagine, che non ha più un pas-
sato alle spalle…non avendo memoria non si ha nemmeno futuro» Luciana Libero, Ferdi-
nando non solo, «Il Mattino», 12 dicembre 1986.
15
Non sono vostro nipote, non vi sono parente, non vi sono niente. Sono figlio del no-
taio Trinchera che lentamente, con pazienza, negli anni, sotto i nomi più svariati si è impos-
sessato di tutte le vostre ipoteche, di tutte le cambiali, di tutti i debiti… La prima famiglia
borbonica veramente fedele ai Savoia…Per questo il mio nome è Filiberto. Per amore verso
il Re. Non il Re Borbone ma il Re…quello che c’è ora. Ferdinando, p. 184.

148
Ferdinando

della modernità, non accetta che l’italiano (la lingua dei vincitori) fac-
cia ingresso in casa sua, usando il napoletano quale baluardo a difesa
della propria identità:

CLOTILDE E non parlare italiano! Hai capito! Nun voglio sentì ’o tta-
liano dint’a sta casa…Io e isso c’avimme appiccicate il 13
febbraio del 1861 […] Contemporaneamente all’ammai-
narsi della gloriosa bannera ’e re Bburbone s’ammainaie
pure ll’italiano dint’ ’o core mio…Na lengua stranie-
ra!...Barbara!...E senza sapore, senza storia! ...Na lengua ’e
mmerda! ...Na lengua senza Ddio!16 ...

In fondo questa lingua che ha sconfitto il dialetto risulta certo for-


bita ma libresca ed inespressiva, come dimostrato fin dal primo incon-
tro tra Ferdinando e Donna Clotilde:

FERDINANDO Perdonate zia. A casa avevo tanto sentito parlare di voi che
è come se vi conoscessi da sempre. Il vedervi, perciò, mi fa
quasi rivivere davanti gli occhi le voci dei miei cari… Il
papà… La mamma …17.

È pur vero che lo stesso personaggio, quando rivelerà la sua identi-


tà, smetterà la farsa linguistica dell’italiano per tornare al napoletano.
Gli esempi citati dimostrano come l’interesse linguistico dell’autore si
sia spostato da un napoletano contemporaneo infarcito di barbarismi
moderni ad una lingua antica in cui si rivela una particolare cura filolo-
gica. Il napoletano di Ruccello, tra lessico quotidiano e preziosi voca-
boli ottocenteschi recuperati all'archeologia, ma anche al teatro “bas-

16
E non parlare italiano! Hai capito! Non voglio sentire l’italiano in questa casa… Io
e lui ci siamo divisi il 13 febbraio del 1861 […] Contemporaneamente all’ammainarsi della
gloriosa bandiera del Re Borbone si ammainò anche l’italiano nel mio cuore…Una lingua
straniera!... Barbara!... E senza sapore, senza storia!... Una lingua di merda!... Una lingua
senza Dio!... Ivi, p. 141.
17
Ivi, p. 151.

149
Se cantar mi fai d’amore...

so”, non parlato solo istintivamente, è scelto consapevolmente dall'au-


tore come patrimonio di civiltà e d’arte18.
Ferdinando è il testo che dimostra la capacità della drammaturgia
napoletana di confrontarsi con altre culture inglobandole e reinterpre-
tandole. Non a caso il dramma appare disseminato di riferimenti ad al-
tre opere ma, diversamente dal passato, le citazioni non rischiano più di
minare l’originalità del lavoro ruccelliano, risultando perfettamente in-
globate nell’ordito drammaturgico. Lo stesso autore sostiene la necessi-
tà di leggere questo lavoro:

Su due livelli, inseguendo due storie. La prima è quella dei sentimenti,


della realtà, dei personaggi, dell’intreccio narrativo. La seconda è una
storia di citazioni, di scrittura a strati dove confluiscono le più svariate
suggestioni letterarie, pittoriche, cinematografiche, teatrali19.

Il modello teatrale che costituisce la base della costruzione “a stra-


ti” è Pirandello. È, infatti, il drammaturgo di Agrigento a fornire i rife-
rimenti della recita nella recita e della scomposizione testuale, oltre che
del gioco di rifrazione dei personaggi20, ma soprattutto è da Pirandello
che Ruccello prende in prestito l’idea del palcoscenico come luogo do-
ve “mettere sotto processo” le ipocrisie, le vergogne e le falsità della
società contemporanea. Non manca, poi, una citazione del padre nobile
del teatro napoletano moderno: De Filippo. Il terzo e quarto quadro di

18
G. G., L. G., Ruccello una drammaturgia sui corpi, cit., p. 74. L’alta cifra linguisti-
ca del testo colpisce significativamente i recensori in occasione del debutto napoletano dello
spettacolo. Rodolfo Di Giammarco scrive: «[Ferdinando] appartiene a quell’ordine di eventi
che linguisticamente e formalmente dovrebbero fare storia, riaprire capitoli.» Id., Moliere
col Vesuvio tra vecchi gattopardi, «la Repubblica», 9 marzo 1986. Anche Savioli sottolinea
l’importanza della lingua nello spettacolo: «un vernacolo denso di umori, corposo, plastico,
innervato di arcaici fraseggi e di vigore plebeo, vera struttura portante dell’azione e suo
commento polemico» Id., Ferdinando re del dialetto, «L’Unità», 8 marzo 1986.
19
Annibale Ruccello, Presentazione di Ferdinando, a cura di Luciana Libero, op.
cit., p. 84.
20
Basti pensare ad opere quali: I sei personaggi in cerca d’autore, Così è se vi pare,
Enrico IV, etc.

150
Ferdinando

Ferdinando si aprono con riferimenti a nenie e recite natalizie che ri-


cordano alcuni momenti di Natale in casa Cupiello. Se nell’ultima par-
te del secondo atto del classico di De Filippo, Luca, Pasquale e Tomma-
sino provano il canto Tu scendi dalle stelle per fare una sorpresa a Con-
cetta21, allo stesso modo in Ferdinando, il ragazzo, Don Catello e Ge-
sualda preparano La cantata per Clotilde22. Ma in particolare si fa riferi-
mento a Masillo Reppone autore della Posillecheata, arduo difensore
della lingua napoletana contro il Toscano, come conferma la battuta in
cui Gesualda legge un passo di quest’opera su invito di Clotilde:

GESUALDA Allora… (Inizia a leggere) “E po’ co sta lengua toscana a-


vite frusciato lo tafanario a miezo munno! Vale cchiù na
parola napoletana chiantuta ca tutte li vocabole da la Cru-
sca! ...”23.

Ci sono poi altri riferimenti letterari. Il testo si apre all’ora del Ve-
spro con le due donne intente a recitare il Rosario. La stessa scena si
trova all’inizio del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. An-
che in quel caso una famiglia di nobili (siciliani) si è riunita per il Ve-
spro24. Ma al di là del singolo episodio si nota una similitudine nel pro-
filo dei due protagonisti. Al pari di Donna Clotilde, il Principe di Salina
non accetta l’Unità d’Italia. Illusoriamente ha creduto di poter fermare
la storia. Nondimeno dinanzi agli inevitabili cambiamenti culturali, di
stile e di cerimoniali imposti dalla classe dominate, egli non può che

21
Eduardo De Filippo, Natale in casa Cupiello, in Teatro, cit., pp. 797-798.
22
Ferdinando si presenta travestito da Arcangelo Gabriele, con la spada sguainata,
proprio nel momento in cui Clotilde e Gesualda avvelenano Don Catello.
23
Allora…(Inizia a leggere) “E poi con questa lingua toscana avete rotto l’anima a
mezzo mondo! Vale più una parola napoletana sentita che tutti i vocaboli della Crusca!...”.
Ferdinando, p. 143.
24
«La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del
Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; […] Adesso, taciutasi la voce, tutto
rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto». Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gatto-
pardo, Milano, Feltrinelli, 1958, p. 17.

151
Se cantar mi fai d’amore...

prender atto della propria sconfitta25. Diversamente, Donna Clotilde si


ostina fino alla fine a non riconoscere l’avvenuto cambiamento trince-
randosi dietro l’uso pervicace della propria lingua.
Altro riferimento è alla Recherche di Proust e, in particolar modo,
al personaggio di Zia Léonie. Le abitudini di vita di Clotilde ricalcano
fedelmente quelle di Léonie che:

[…] dopo la morte del marito […] non aveva voluto lasciare, prima
Combray, poi a Combray la sua casa, poi la sua stanza, infine il suo letto,
e non scendeva più, sempre giacendo in uno stato incerto di dolore, di
debolezza fisica, di malattia, d’idea fissa di devozione26.

La volontaria reclusione non impedisce a Léonie (né a Clotilde)


d’informarsi su quanto avviene al di fuori del perimetro domestico e
commentare i vari accadimenti con la cameriera Françoise. Del resto,
come sentenzia la Baronessa:

[…] ’o ’nciucio, il pettegolezzo,, è un r’ ’e poche cose ca veramente rie-


sceno a te fà campà… A te fà sciatà a te fà piglià interesse a na vita ac-
cussì bbrutta e accussì amara…27.
Completa il quadro dei riferimenti al romanzo di Proust la figura
del prete. Da un lato Don Catello “nu pezzente sagliuto”28, dall’altro il
curato di Combray assiduo frequentatore della casa di Zia Léonie. Seb-
bene Don Catello si differenzi dal personaggio proustiano per l’indole

25
Il Principe preferisce rinunciare al seggio offertogli in Parlamento proponendo, al
suo posto, il nipote Tancredi.
26
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Torino, Einaudi, 2008, p. 38. Inoltre,
anche Clotilde (prima della venuta di Ferdinando), come la Zia Lèonie: «non riceveva nes-
sun altro all’infuori del signor curato», M. Proust, op. cit., p. 53.
27
Il pettegolezzo è una delle poche cose che veramente riescono a farti vivere, a farti re-
spirare ed avere un minimo di interesse verso una vita così brutta e amara. Ferdinando, p. 152.
28
Un povero arricchitosi. Ivi, p. 154.

152
Ferdinando

omosessuale (o bisessuale, visto il suo rapporto con Gesualda)29 che lo


porta ad innamorarsi di Ferdinando, questa tematica non è assente nella
Recherche. La liaison fra il signor di Charlus e Charlie Morel ne è la
conferma. Ma il gioco delle citazioni non finisce ancora e riguarda in
particolar modo il personaggio di Ferdinando i cui riferimenti spaziano
dalla letteratura al teatro, toccando anche il cinema. Lo stordimento
sessuale provocato dalla comparsa di Pepe il romano in casa di Bernar-
da Alba nell’omonimo testo di Garcia Lorca (1936), non è dissimile
dall’inquietudine che porta con sé la comparsa di Ferdinando nella casa
di Donna Clotilde30. Allo stesso modo, al di là di analogie nella trama,
tanto le fattezze fisiche31 quanto la condizione di bisessuale32 accostano
il personaggio a schemi narrativi indagati a metà anni Sessanta in In-
ghilterra da Joe Orton in Entertaining Mr Sloane. Ci sono, poi, i riferi-
menti di carattere cinematografico. Il primo è al film Teorema di Pier
Paolo Pasolini (1968). Nella pellicola del poeta friulano un ricco espo-
nente della borghesia milanese, Paolo, riceve la notizia (attraverso un
telegramma) dell’arrivo di un ospite che sconvolgerà la vita della sua
famiglia. E così sarà, poiché tutti i membri del suo nucleo familiare si
mostreranno molto attratti da lui e ognuno di loro farà l’amore con

29
Anche questa figura mostra delle ascendenze proustiane inglobando due personaggi
della Recherche, Françoise (la domestica) e Eulalie (una protégée povera).
30
Si noti, tuttavia, che Pepe il romano non compare mai in scena.
31
Rivolgendosi a Sloane Kath afferma: You have a skin on you like a princess […] I
like a lad with a smooth body (Hai la pelle di una principessa […] Mi piacciono gli uomini
con corpi così soavi. Id., Entertaining Mr Sloane, cit., p. 77.
32
Pur di non perdere i favori di Ed, Sloane non esita ad offrirsi a lui:
SLOANE Let me live with you. I’d wear my jeans out in your service. Cook for you.
ED I eat out.
SLOANE Bring you your tea in bed.
ED Only women drink tea in bed.
SLOANE You bring me tea in bed, then. Any arrangement you fancy. (SLOANE. La-
sciami vivere con te. Farei di tutto per te. Potrei cucinare per te. ED Mangio fuori. SLOANE.
Portarti il tè a letto. ED Solo le donne bevono il tè a letto. SLOANE. Potresti portarmi tu il tè a
letto, allora. Come preferisci.) Ivi, p. 135.
Tornando al romanzo di Proust, si noti che la condizione di Morel quale “gigolò”
sembra un buon precedente per il giovane Ferdinando. Id., Sodoma e Gomorra. Alla Ricer-
ca del tempo perduto, cit. pp. 1165-1555.

153
Se cantar mi fai d’amore...

l’ospite. L’arrivo di un nuovo telegramma ne motiverà la partenza.


Strutturalmente le due storie sono molto vicine (anche in Ferdinando
una lettera annuncia l’arrivo dell’ospite), ma se nel primo caso il ragaz-
zo acquista i contorni di una figura angelica, portando amore e verità in
un mondo d’individui appartenenti ad un contesto mediocremente bor-
ghese, nel caso di Ferdinando l’ospite, officiante di una cerimonia cupa,
si rivela figura ingannatrice che sfrutta il suo fascino per portare morte e
dolore nella vita degli altri personaggi. Il secondo riferimento è al film di
Visconti Morte a Venezia (1971). L’efebica bellezza di Ferdinando e-
sprime un’estetica non dissimile da quella del giovane protagonista del
romanzo di Mann (da cui il film è tratto), Tadzio. L’estasi amorosa pro-
vata da von Aschenbach verso il ragazzo altro epilogo non produce se
non la morte, al pari di don Catellino con il suo Ferdinando33.

Nel finale torna ancora Pirandello. Dinanzi alla sconfitta, quando


Ferdinando/Filiberto è ormai andato via con la cassetta contenente i
preziosi, Clotilde si lascia andare ad un’ultima riflessione:

CLOTILDE (quasi sorridente) E mo’!... E mo’ ’o colpo p’’a morte ’e


’on Catellino, probabilmente sarrà troppo forte pe’
mme…’A partenza inaspettata ’e Ferdinando… Troppe
emozioni… Probabilmente me sentaraggio n’ata vota deb-
bole… Accussì debbole ca m’avraggia mettere n’ata vota
dint’’o lietto… E forse stavota penzo ca difficilmente
m’aizarraggio cchiù!34

Le parole riecheggiano quelle pronunciate nell’Enrico IV, anche lì,


si torna alla situazione di partenza. Sia Enrico che Clotilde tornano con

33
DON CATELLO […] Ma m’ha ’cciso l’ammor…l’ammore ca te fa perdere ’e sienze e
nun te fa capì cchiù niente! (Mi ha ucciso l’amore…l’amore che ti fa perdere i sensi e non ti
fa capire più nulla!) Ferdinando, p. 183.
34
E desso!... E adesso il colpo per la morte di Don Catellino, probabilmente sarà trop-
po forte per me… La partenza inaspettata di Ferdinando…Troppe emozioni… Probabil-
mente mi sentirò un’altra volta debole… talmente debole che dovrò rimettermi a letto… E
forse stavolta penso che difficilmente mi alzerò più! Ivi, p. 186.

154
Ferdinando

più determinazione alla loro condizione di auto reclusione, prima che


l’irruzione di figure esterne ne alterasse la sequenza quotidiana. Dopo
aver ucciso Belcredi, Enrico si rinchiude nell’isolamento della propria
follia, convocando intorno a sé i propri fedeli consiglieri:

ENRICO IV Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per
sempre!35

Ma Ruccello conclude il suo dramma con un felice colpo d’amara


ironia:

CLOTIDLE (Iniziando a ridere) Gesualdì… Gesualdì… Ce pienze…


Nun se chiammava manco Ferdinando!36

35
Id., Enrico IV, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1969, p. 219.
36
Gesualdì… Gesualdì… Ci pensi… Non si chiamava nemmeno Ferdinando! Ferdi-
nando, p. 186.

155
Divertissement sul presente:
Mamma. Piccole tragedie minimali1

Con questo lavoro/collage, ancora una volta Ruccello marca la sua


diversità rispetto alla drammaturgia tradizionale partenopea rendendo
protagoniste uniche delle storie narrate quattro figure femminili. Al cen-
tro dell’azione il rapporto di queste donne con la maternità. La struttura
del testo, composto di quattro distinti monologhi, le scarse didascalie che
introducono l’azione2, nonché la riduzione al minimo degli elementi ne-
cessari alla messa in scena, configurano questo lavoro come espressione
di un laboratorio costantemente attivo, mezzo per sviluppare un ragio-
namento a tappe sulle nuove generazioni orfane di una tradizione che va
a configurarsi come perdita e delirio, solitudine e offuscamento dell’io.
Lingua e condizione sociale delle protagoniste sono le due coordinate
lungo le quali si sviluppa la narrazione, i filtri attraverso cui far passare
l’inesorabile corrosione dello status morale del ceto popolare3. Si ag-

1
Lo spettacolo, scritto fra il 1983 e il 1986, depositato in SIAE il 28 giugno 1986, de-
butta al Teatro Oriente di Torre del Greco nel luglio dello stesso anno. Regista e interprete
unico: Annibale Ruccello.
2
Ad esempio, la prima parte Le fiabe viene così introdotta: «Il personaggio entra dal
fondo della scena. il palco è vuoto, solo una sedia e un piccolo tavolinetto con il telefono.»
Id., Mamma. Piccole tragedie minimali, Ubulibri, cit., p. 119.
3
Anche le recensioni mettono in rilievo questo aspetto. In riferimento alle quattro
donne rappresentate, Andrea Manzi scrive: «Compongono un affresco dell’impoverimento
del popolo». Id., Donne di ordinaria follia, «Il Mattino», 15 ottobre 1987.

157
Se cantar mi fai d’amore...

giunga a tutto ciò che il testo (proprio in virtù della sua struttura) è una
summa simbolica dei temi presentati da Ruccello in larga parte della sua
produzione drammaturgica. Non a caso, una parte del monologo
d’apertura Le fiabe, appare già ne L’osteria del melograno4, allo stesso
modo Il mal di denti è ripreso da Notturno di donna con ospiti.
La prima delle quattro donne racconta delle fiabe servendosi di un
napoletano in bilico fra arcaico e contemporaneo:

MAMMA ….Piccerì… Piccerì, viene accà, viene… E nun te mettere


appaura…Viene, viene ca mo’ mamma te conta li storie…
Viene… Viene… (Si siede) Ce steva na vota… nu pate, na
mamma e ddoje figlie… Una se chiamava Rosetta e
ll’ata…’a chiù grossa… se chiamava Catarinella. ‘mamma,
mo’, ’e vvuleva fà venì assennate, giudiziose, sistemate, a
sti creature… Faceva: “Facite ’e liette, scupate nterra… pu-
lizzate ’o cesso… sbattite ’e tappete”… ma sti guaglione
nun tenevano voglia ’e fa niente!5.

Il ritorno al passato, finalizzato al recupero di un patrimonio favo-


listico orale campano in via d’estinzione, è in sintonia con la prima fase
del lavoro drammaturgico di Ruccello, quando l’ascendenza di De Si-
mone e la formazione da antropologo sono ancora ben presenti. Ma già
in questa fase l’autore opera un’importante variazione dal punto di vi-

4
Tanto la storia di Miezuculillo quanto il personaggio di Catarinella (sebbene, come
già visto, siano effettivamente presenti ne L’osteria del melograno) provengono dalla tradi-
zione campana e compaiono in Roberto De Simone, Fiabe campane, cit. Un breve riferi-
mento alla filastrocca Il re dei piriti è presente anche in Notturno…. Il padre della protago-
nista recita: «E piripinnecchia marinaio e vott’’a necchia, uh che pereto fetente ca ce tiene
int’ ’a stu ventre. E ce tengo quatto alice, quatto alice rint’ ’o piatto, vene ’o miereco e t’ ’e
n’tacca, e te ’ntacca cu ’e fasule…» Notturno di donna con ospiti, Guida, cit. p. 92.
5
Piccola… Piccola, vieni qua, vieni… E non aver paura… Vieni, vieni, adesso la
mamma ti racconta le favole…Vieni…Vieni…C’era una volta…un padre, una mamma e
due figliole…Una si chiamava Rosetta e l’altra… la maggiore… si chiamava Catarinella.
La mamma, voleva far crescere queste bambine sagge, giudiziose, sistemate… Diceva loro:
Fate i letti, spazzate il pavimento… pulite il gabinetto…spolverate i tappeti” …ma queste
ragazze non avevano voglia di fare niente. Mamma. Piccole tragedie minimali, p. 119.

158
Mamma. Piccole tragedie minimali

sta dei contenuti. La fiaba narrata contiene nomi volgari, termini scurrili
ed elementi dissacratori, inoltre è priva di accenni consolatori e presenta
una smitizzazione della figura materna qui assurta a male costante dal
quale purificarsi (non a caso la prima madre di cui si narra nella fiaba
viene uccisa dalla figlia Catarinella su suggerimento della futura matri-
gna, ricevendo sulla testa il coperchio del baule.)6. Alla luce delle opere
successive, il monologo acquista un ruolo di particolare rilievo laddove
lo stato di conflitto qui in corso tra madre e figlia, diventa elemento ri-
corrente e determinante la psicologia dei personaggi femminili in almeno
altre due opere di Ruccello, Notturno di donna con ospiti e Week-end.

Protagonista del secondo monologo Maria di Carmela ovvero «pic-


colo delirio manicomiale» è la barbona Carmela che, ritenuta pazza (poi-
ché a seguito della caduta da una scala crede di essere la Madre per ec-
cellenza, la Madonna), viene rinchiusa in un istituto di Suore. Sebbene
questo monologo sia inedito, le contaminazioni linguistiche ed i continui
riferimenti al mondo della televisione esprimono quell’invadenza dei
mass media nel vissuto dei ceti popolari che Ruccello aveva già affronta-
to in precedenza (basti pensare a Jennifer e Notturno…). La lingua, anco-
ra una volta, rivela fedelmente i costumi e la mentalità del personaggio.
Il seguente frammento in cui la donna racconta dell’apparizione dell’An-
gelo del Signore alla sua porta ben esprime questa condizione:

CARMELA Nu juorne me ne stevo cujeta cujeta dint’ ’a cammarella


mia a leggere “Sorrisi e Canzoni” cu ’a radietta appicciata
ca mannava na canzone dei Ricchi e Poveri quanne puoz-
zeno tuzzuleà ’a porta! […]Vaco a raperì e chisto puzze fà:
“Ave Maria!”. “No me dispiace”, facett’io, ma mammà è
all’antica e dice ca comme se trova bbona c’’o sapone ’e
piazza e c’ ’a lisciva, nun se trova cu ’e detersive! […]
dint’’a sta casa né Ava, né Sole piatti, né Svelto, né Dash,

6
È interessante notare come questa modalità sia la stessa usata dalla serva Angizia ne
La fiaccola sotto il moggio di D’Annunzio per uccidere Monica, moglie del Principe Tibal-
do del quale la donna punta a diventar consorte. In quel periodo Ruccello sta lavorando
proprio all’adattamento del testo di D’Annunzio.

159
Se cantar mi fai d’amore...

pone mettere pede! Figuratevi ca na vota venette pure Mr.


Dixan, ma patemo nu cacciava a cavece nculo!7.

Il percorso linguistico del brano è inversamente proporzionale alla


tipologia del personaggio scelto. Laddove la lingua si presenta infarcita
di riferimenti a prodotti di largo consumo, Carmela, in quanto barbona,
si colloca ai margini di quella stessa società di cui è inconsapevole por-
tavoce. Ma anche in questo caso, fedele all’assunto ideologico per cui
nessuno dei suoi personaggi è vittima gratuita della società in cui vive,
Ruccello regala alla donna un momento di ribellione finale (sebbene
comica):

CARMELA ’O ssapite che ve dico? Io m’aggio scucciata ’e fa ’a Maron-


na incompresa! Stanotte, quanno m’ ’o sonno c’ ’o ddico ca
s’è sbagliato! Io non sono la Madonna! Lo Spirito Santo si è
sbagliato! Io non sono Maria! Io mi chiamo Orietta! Orietta
Berti8.

Il motivo della madre virago viene affrontato con maggiore evi-


denza nel terzo brano: Il mal di denti ovvero «madre e figlia». Sebbene
si sia già menzionata questa scena parlando di Notturno di donna con
ospiti, si noti che, in questa occasione, l’autore opta per un finale diver-
so. Dinanzi all’imposizione materna di abortire, la figlia sceglie il sui-
cidio. Esemplare il commento della madre dinanzi al gesto estremo del-
la ragazza:

7
Un giorno me ne stavo tranquilla e beata in camera mia a leggere “Sorrisi e Canzo-
ni” con la radiolina accesa che trasmetteva una canzone dei Ricchi e Poveri, a un certo pun-
to bussarono alla porta! […]Vado ad aprire e questo mi dice: “Ave Maria!”. “No mi dispia-
ce”, risposi io, mia madre è all’antica e dice che il detersivo non lava altrettanto bene del
sapone grezzo! […] in questa casa né Ava, né Sole piatti, né Svelto, né Dash, possono en-
trare! Pensate che una volta venne anche Mr. Dixan, ma mio padre lo cacciò a calci nel se-
dere! Ivi, p. 126.
8
Sapete che vi dico? Io mi sono stufata di fare la Madonna incompresa! Stanotte,
quando mi viene in sogno glielo dico che s’è sbagliato! Io non sono la Madonna! Lo Spirito
Santo si è sbagliato! Io non sono Maria! Il mio nome è Orietta! Orietta Berti. Ivi, p. 127.

160
Mamma. Piccole tragedie minimali

MADRE Proprie ogge ca tenevo male ‘e riente!9

L’atto estremo della ragazza induce a riflettere sul fatto che sebbene
il ruolo predominante in scena sia svolto dalle madri, l’attenzione va po-
sta sulla famiglia nella sua interezza. Anche il rapporto fra genitori e figli
rivela la modernità di Ruccello laddove la prole non è più fonte d’amore
ma destinataria primaria dei comportamenti vessatori, irrazionali e terro-
rizzanti del genitore. Siamo ormai non più nel campo dell’invenzione
drammaturgica ma al cospetto di donne che vivono il rapporto con i pro-
pri figli come momento estremamente problematico. Fonti di nevrosi,
ansie, turbamenti, istinti omicidi, tali comportamenti vengono largamen-
te documentati dalla letteratura sociale sulle “madri disturbate”10.

Quanto i mass media siano stati assorbiti e riciclati dall’onnivora


fantasia popolare e le vette grottesche che un tale processo è in grado di
raggiungere si evidenzia nell’ultimo episodio: La telefonata ovvero
«Piccola tragedia familiare» (anch’esso inedito). Protagonista è Maria,
ancora una madre, residente a Forcella, al telefono con una paren-
te/amica Nunzia. Seppur inizialmente la conversazione ha come ogget-
to i piccoli problemi del quotidiano (il menu del pranzo, la spesa da fare,
visitare la vecchia zia in ospedale, etc.), il monologo raggiunge il mo-
mento più surreale quando si tratta di scegliere i nomi dei due gemelli
nascituri di Nunzia e organizzare la spedizione dei propri figli alla tra-
smissione televisiva «Piccoli Fans»:

MARIA E comme ’e miette a nomme? ...Mhm… nun me piace pro-


prio…Siente…Pecché n’ ’e chiame Maurizio e Costanzo ac-
cussì po’ essere ca gghjesce pe’ dirti ’o retequattro […] però
Pippo e Maiche manche me piaceno, mo!... Maiche al quan-
to al quanto… Ma Pippo… fosse stata pure ne femmena fa-
cive Pippo e Katia puteva pur’io… No! […] Po’ è meglio

9
Proprio oggi che avevo il mal di denti. Ivi. p. 135.
10
Edi Gatti Pertegato, Madri disturbate, in Dietro la maschera. Sulla formazione del
Sé e del falso Sé, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. 142-149.

161
Se cantar mi fai d’amore...

Corrado, scusa… […] Io mo’ invece aggio fatto ’a domanda


pe’ purtà a Ursula e Pier Paolo ai Piccoli Fans… Eh! ’A cosa
’e Sandra Milo…No pecchè io aggio penzato: ce sta Pier
Paolo ca tene ’e lente e è nu poco curtulillo…Ursula ca già è
altina cu ’e capille nire luonghe luonghe…’E faccio fà Alba-
no e Romina11…

Intanto mentre parla al telefono, Maria cerca di tenere a bada i suoi


molti pargoli (e quelli di un’amica). Naturalmente i nomi dei bambini
ricalcano quelli dei divi della TV e del calcio: Ursula, Isaura, Luis An-
tonio, Marianna, Andrea Celeste, Morgan, Raffaella, Dieguito (negli
anni Ottanta Diego Maradona giocava nella squadra di calcio del Na-
poli). Ma anche questa figura di madre oltre ad essere veicolo espressi-
vo di un degrado linguistico, viene adoperata dall’autore principalmen-
te come metafora di una modernità in equilibrio precario. Sebbene una
ricca letteratura sociale, in quegli anni, continui a registrare l’alto nu-
mero di figli generati dalle donne del Sud12, l’abbondante figliolanza

11
E che nome gli darai?.. Mhm…non mi piace proprio…Senti…Perché non li chiami
Maurizio e Costanzo così magari appariranno su retequattro […] però Pippo e Mike nean-
che mi piacciono molto! ...Mike magari sì …Ma Pippo …si fosse trattato di una femmina
facevi Pippo e Katia e poteva anche andare …No! […] A quel punto meglio Corrado, scusa
… […] Io invece ho già presentato domanda per portare Ursula e Pier Paolo a Piccoli Fans
…Eh! La trasmissione di Sandra Milo …No perchè ho pensato: Pier Paolo porta gli occhiali
ed è un po’ bassino…Ursula invece è già altina e con i capelli neri lunghi …gli faccio fare
Albano e Romina. Mamma. Piccole tragedie minimali, cit., p. 133.
12
Le analisi sociali condotte sulla composizione delle famiglie napoletane conferma-
no che: «Campania is distinguished in the 1980s by having the largest family size and the
highest fertility rate in the country. In 1979 the natural rate of increase of the population for
Campania was 9.1 (compared to a national rate of 2.5)» (la Campania si distingue nel 1980
per la presenza di famiglie più numerose e il tasso di fertilità più alto nel paese. Nel 1979
l’aumento della popolazione procedeva ad un tasso di 9.1 (paragonato al tasso nazionale di
2.5) V. A. Goddard, Gender, Family and Work in Naples, Oxford, Berg, 1996, p. 171. E
ancora: «But regardless of a woman’s qualities and accomplishments, motherhood was re-
garded as making her a full and proper woman. Not surprisingly, few women were willing
to envisage a future without children. Indeed, children were often considered to be the natu-
ral product of all sexual relationships, but were also seen as the cement that kept a couple
together» (ma a dispetto della qualità della donna e dei suoi raggiungimenti, la maternità

162
Mamma. Piccole tragedie minimali

della donna qui rappresentata non è intesa come espressione di un in-


contenibile amore materno bensì come condizione subita. Ne è riprova
la battuta sui figli:

MARIA Certi vvote, me cride?... ’E cceresse ’mparanza! Accussì


comme stanno’o vvi’!... Arapresse ’a chiavina d’’o gass e
ce facesse fà ’a fine ’e gli ebbreie …13.

veniva vista come l’unico elemento perché una donna fosse completamente realizzata. Non
a caso, poche donne erano disposte ad immaginare un futuro senza figli. In effetti, i figli e-
rano spesso considerati come il frutto naturale di ogni rapporto sessuale, ma erano visti an-
che come il collante che tiene una coppia unita) ivi, p. 186.
13
Delle volte, mi credi?... Li ucciderei tutti! Lì sul posto!...Aprirei la chiavetta del gas
e gli farei fare la fine degli Ebrei… Mamma. Piccole tragedie minimali, p. 132.

163
Un allestimento postumo:
Anna Cappelli

La parabola del drammaturgo Ruccello non si esaurisce con la sua


scomparsa. Due settimane dopo la sua morte viene allestito il monolo-
go Anna Cappelli1. Come ennesimo colpo d’ala, fedele alla sua anima
di libero battitore, dopo Ferdinando, viaggio nella provincia napoletana
post unitaria e scritto in napoletano ottocentesco, ecco che Anna Cap-
pelli si differenzia tanto nella collocazione temporale (siamo negli anni
Sessanta), quanto nella lingua di scena poiché il testo si presenta privo
di accenti partenopei. Quest’ultima scelta deriva dall’aver usato l’inter-
land romano come location della trama (la protagonista è di Orvieto
ma lavora, in qualità di impiegata, presso il comune di Latina)2. Tutta-
via la città, per la sua collocazione, esprime un elemento di continuità
con larga parte dei testi precedenti, l’ambientazione di provincia. Dagli
altri lavori, in particolar modo da Notturno e Weekend, Anna Cappelli
eredita anche il binomio amore-morte, ma si direbbe che in questo caso
Ruccello abbia maturato una confidenza inedita. Se in precedenza le
protagoniste mostravano tratti comuni: l’adolescenza trascorsa in op-

1
Il testo viene allestito al Teatro Tenda di Roma il 26 settembre 1986. Interprete e re-
gista: Benedetta Buccellato. L’autore lo aveva depositato in SIAE il 29 agosto 1986.
2
L’ispirazione del monologo può essere rintracciata, ancora una volta, nella cronaca.
Nel 1981 suscita notevole scalpore la storia dello studente giapponese Issei Sagawa che a
Parigi uccide e divora la sua compagna di corso, Renée Hartevelt.

165
Se cantar mi fai d’amore...

primenti realtà del Sud, una famiglia piccolo-borghese ed una madre


virago, l’identità instabile di questa donna è solo parzialmente ricondu-
cibile ai problematici rapporti con la famiglia d’origine. Unico accenno
ai familiari è il momento in cui Anna racconta la perdita della sua ca-
meretta nella casa dei genitori:

ANNA Mi sono presa un’arrabbiatura con mio padre oggi per tele-
fono! Vuole dare la mia camera a Giovanna…No! Che non
gliela darei mai! Né a Giuliana né a Teresa e nemmeno se
scendesse il Padreterno in terra con tutto il paradiso e tutti i
santi in riga per settanta!3

Inoltre i mass media non intervengono a deformarne il presente, e


ancor di più, laddove in Notturno e Weekend piano onirico e reale pro-
cedono in parallelo, in questo caso prevale una narrazione lineare. Ini-
zialmente alloggiata in una camera ammobiliata nell’appartamento del-
la Signora Tavernini, un giorno Anna conosce un collega di lavoro, il
ricco ragioniere Scarpa che vive da solo in una casa con dodici stanze.
Dopo sei mesi di corteggiamento, Anna va a convivere con il ragionie-
re sospinta da un amore che (almeno agli occhi della donna) avrebbe
presto avuto felice epilogo nelle nozze:

ANNA […] Sì, lo so, lo so Tonino, che è solo una formalità ma io


a questa formalità do una mia importanza… Che non è la
stessa importanza che ci danno quelle quattro cretine su al
municipio o le altre donne in genere… È… È… È un con-
tratto, ecco è come se fosse un contratto e mi sembra che
con questo contratto tu, tu un uomo insomma prende un
impegno definitivo …4.

Ma le cose vanno diversamente, Anna dovrà accontentarsi di con-


vivere, affrontando il perbenismo ipocrita della gente e l’aperta ostilità

3
Id., Anna Cappelli, Ubulibri, cit., p. 107.
4
Ivi, p. 110.

166
Anna Cappelli

di Maria, l’anziana governante di casa. Trascorrono due anni, d’im-


provviso Anna apprende di dover lasciare la casa, l’immobile è in ven-
dita poiché di lì a breve il ragioniere intende trasferirsi per lavoro in Si-
cilia. Non avendo incluso la propria compagna nei suoi progetti, an-
dando via, Tonino porta via con sé non solo l’onore che Anna gli ha
donato ma, soprattutto, egli distrugge quel microcosmo mentale (fatto
di amore e possesso materiale) che la donna aveva costruito intorno a
quelle mura. Perché possa sentirsi nuovamente padrona di se stessa e
del suo Tonino, Anna comprende che l’unica via possibile è l’assas-
sinio del proprio amato. Ma persino un gesto tanto clamoroso non
sembra lenire la sua ferita. Dopo averlo ucciso, in preda alla sua lucida
follia d’amore, la donna si appresta a mangiare il compagno per custo-
dirne dentro di sé il corpo. Successivamente distruggerà la casa, il tem-
pio della loro felicità, usando la fiamma delle candele ricavate dalle os-
sa del ragioniere5:

ANNA Sai Tonino tu non mi abbandonerai mai più […] E sai per-
ché… Perché io adesso… Ti mangio… Sì, ti mangio… Ti
mangio tutto […] Ho fatto il calcolo che mi ci vorranno
una quindicina di giorni […] Dunque devi sapere che in
questi giorni mi sono informata molto… E ho letto che ti
perderei di nuovo… Capisci… E io non posso assolutamente
concedermi il lusso di perderti di nuovo […] Pensa che non
andrò nemmeno in bagno per non perderti in parte…6.

Anna ha messo a nudo la propria interiorità. Le parole del monolo-


go, nel porsi quale materializzazione sonora di una psiche ormai in
frantumi, non pongono domande, ma sanciscono il proprio stato di di-
laniante follia. A suo modo, pur nell’evidenza della sconfitta, ad un
passo dal soccombere, la donna tenta illusoriamente di ridisegnare la

5
Un episodio di antropofagismo è già presente nell’opera di Ruccello. Ne L’osteria
del melograno, il personaggio di Miezuculillo, per punire la ragazza che ha osato servirgli
escrementi al posto della carne, la divora, cit., pp.12-13.
6
Anna Cappelli, p. 114.

167
Se cantar mi fai d’amore...

propria sorte. È evidente che questa storia trascende la sfera dei motivi
puramente sentimentali per porsi quale ragionamento teatrale sull’emar-
ginazione (tanto fisica quanto psicologica), causa primaria di quell’alte-
razione patologica del vissuto quotidiano che spinge Anna a un tale at-
to, simbolico finale di una favola nera, a metà fra realtà e immaginario.
Come si è già visto in precedenza, Ruccello ama chiudere i suoi lavori
con finali estremi ricorrendo ad atti clamorosi, solo parzialmente scalfi-
ti da pentimenti postumi. Dopotutto, il mutato contesto sociale permette
al drammaturgo di liberare i suoi personaggi femminili da una sorta di
clausura culturale7. È lancinante in queste donne il desiderio di essere
protagoniste del proprio destino. I loro gesti estremi si pongono in una
cornice profondamente personale, interpretabili come rivendicazione di
libertà individuale. Il costo da pagare per giungere a quest'agognato
stato salvifico è molto alto: la morte. Atto finale al quale si giunge at-
traverso una via dolorosa puntualmente percorsa, dove le componenti
base dell’esistenza umana subiscono profonde mutazioni assumendo
toni cupi, espressione della degradazione dell’individuo. Ne è esempio
il sesso che nei drammi di Ruccello è spesso anticamera di morte o por-
tatore d’infelicità. Se l’amore fra Anna e Tonino sfocia nell’assassinio
di quest’ultimo ad opera di Anna, in Ferdinando l’eros esploso in se-
guito all’arrivo del ragazzo è causa dell’avvelenamento di Don Catello.
E ancora, Jennifer vive il sesso come triste professione, l’unico mo-
mento d’amore desiderato, quello con Franco, le è costantemente nega-
to; Adriana subisce uno stupro che le cambia irrimediabilmente l’ado-
lescenza, costretta poi dalla madre ad un aborto; gli amplessi fra Narci-
so e Ida avvengono attraverso dinamiche di ambigua sottomissione.
Vittime di rapporti impari con il proprio partner, queste donne espri-

7
Ancora una volta le analisi sociologiche svolte in quegli anni sembrano sostenere
l’interpretazione di Ruccello. Rita Randazzo scrive: «Gli anni ’70 sono decisivi per l’avvio
di uno studio attento della condizione della donna e di un’esatta comprensione della rile-
vanza economico-sociale del suo ruolo familiare. […] oggi il concetto di “doppia presenza”
riassume la condizione di passaggio dal “dentro” al “fuori” la famiglia e di presenza paralle-
la entro mondi collegati a logiche diverse. […] esso precisa la volontà delle donne di andare
alla ricerca di una propria identità, di essere appunto “presenti” nella vita sociale e persona-
le» in Id., Strategie familiari, ruolo e identità femminili in trasformazione nell’Italia meri-
dionale, in «Inchiesta», 74, 1986, p. 25.

168
Anna Cappelli

mono un erotismo immaturo, morboso, mai solare o consapevole. Una


sessualità così inappagante, diventa naturalmente metafora dell’incapa-
cità dell’individuo di riconoscersi, vagante in un universo profonda-
mente precario e stagnante. Le donne di Ruccello ristabiliscono una
personale forma di equilibro attraverso il delitto assurto ad unico, pos-
sibile mezzo per erompere e travolgere la banalità del quotidiano. Di
conseguenza, la morte alla quale guarda quest’autore non è mai il natu-
rale atto conclusorio della propria o altrui esistenza sebbene presentata
attraverso dinamiche variabili, ma è sempre frutto di tragica violenza.
Ecco allora il suicidio di Jennifer o il martirio di Alfredino e Giovanni
ad opera di Adriana o l’assassinio di Tonino da parte di Anna o ancora
l’avvelenamento di Don Catello da parte di Clotilde e Gesualda. Il pes-
simismo che permea la scrittura di Ruccello emerge da questi suoi ine-
vitabili finali che, sebbene non sempre pienamente conformi alla strut-
tura della tragedia classica, non solo perché l’atto omicida avviene in
scena (Ferdinando)8, ma soprattutto perché non portano con sé alcun
valore catartico, appaiono perfettamente idonei nel certificare
l’esistenza di un sole nero che incombe su questi personaggi. Divenuti
simbolo, essi esprimono la condizione della cultura contemporanea9.

8
Anche Jennifer si suicida in scena, ma l’autore non mostra l’atto, bensì solo il prima
e il dopo: «La pistola. La punta. La bocca. L’avvicina. Cazzo sembra di fare un pompino.
Buio…
Torna la luce. La luce dell’abat-jour. Lui è lì. Riverso per terra». Le cinque rose di
Jennifer, Ubulibri, cit., p. 43.
9
L’equazione donna-Napoli viene confermata dallo stesso Ruccello in un suo saggio:
«E in un gioco angosciante e indecifrabile in cui ogni ruolo è ribaltato alla ricerca di
un’impossibile ricomposizione finale, la donna diviene la stessa città di Napoli che costan-
temente ricuce i pezzi smembrati della propria cultura (o del proprio sposo-figlio-fratello-
padre), in attesa di un Gesuita (allucinante se stesso repressivo) che costantemente sbrani,
dilani, tale realtà, senza riconoscerla e riconoscersi, con l’aggressività di tutti i maschi ango-
sciati dalla castrazione o che violentemente la desiderano fino ad esibirla in quanto cultura,
in quanto storia. E Napoli è qui intesa come ventre, come utero, o come luogo privilegiato
dell’inconscio di ognuno di noi.». Id., Mistero napoletano, in Scritti inediti, cit. p. 113.

169
Bibliografia del’autore

Ruccello Annibale, Il Sole e la Maschera, Una lettura antropologica della “Can-


tata dei Pastori”, Napoli, Guida Editori, 1978.
Ruccello Annibale, Villa dei Misteri, in «Babilonia», 45, 1987.
Ruccello Annibale, Ferdinando, «Sipario», 466, 1987.
Ruccello Annibale, Ferdinando, in Dopo Eduardo, a cura di Luciana Libero, Na-
poli, Guida editori, 1988.
Ruccello Annibale, Teatro, a cura di Luciana Libero, Napoli, Guida editori, 1993.
Ruccello Annibale, Scritti inediti. Una commedia e dieci saggi, Roma, Gremese
Editore, 2004.
Ruccello Annibale, Teatro, a cura di Enrico Fiore, Milano, Ubulibri, 2005.
Ruccello Annibale, Il Sole e la Maschera. Una lettura antropologica della “Cantata
dei Pastori”, Napoli, Stamperia del Valentino, 2008.

Bibliografia critica
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dando Annibale”, Castellammare di Stabia, Eidos, 2000.
Baffi Giulio (a cura di), Il sentimento del drammatico, Cataloghi della Mostra La
scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cinquecento ad oggi,
Napoli, Guida Editori, 1982.
Barbagallo Francesco (a cura di) Storia della Campania, Napoli, Guida Editori, 1978.
Basile Giambattista, Lo cunto de li cunti, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti,
1998.

171
Se cantar mi fai d’amore...

Camus Albert, La peste, Milano, R. L. Libri, 2005.


Cuomo Franco, Dei volti che ha medusa: la drammaturgia del rischio. Ermeneu-
tica e testo nel teatro di Autiero, Moscato, Ruccello, Castellammare di Sta-
bia, Nicola Longobardi Editore, 2008.
Cuoco Vincenzo, Saggio storico sopra la rivoluzione napoletana del 1799, a cura
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Di Giammarco Rodolfo, Non chiamatemi autore, sono un “allestitore” e un ex
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176
Bibliogrfia

I giovani drammaturghi napoletani degli anni Ottanta seguono il


convincimento secondo il quale, perché si possa mantenere il tradizio-
nale rapporto con la città, è imperativo immergersi nella propria con-
temporaneità, allontanando, in questo modo, il rischio di ridursi a rap-
presentazione folklorica del proprio presente storico. Le strade, le piaz-
ze, i palazzi, i colori, i suoni di Napoli e della sua provincia tornano al
centro della scena. Nasce una drammaturgia che pone la riflessione lin-
guistica e sociale al centro della scena. Fra i protagonisti di questa rin-
novata idea di teatro spicca la figura di Annibale Ruccello (1956-1986).
Il drammaturgo stabiese sceglie quale soggetto delle sue opere le alte-
razioni prodottesi in seno a quel ceto medio-basso di provincia (corroso
da un pervicace desiderio di assurgere al censo di piccola borghesia)
come conseguenza di transizioni vissute innaturalmente. Egli, infatti,
presenta personaggi che, sprovvisti di una cultura sedimentata, si ag-
giornano nei gusti e nello stile adeguandosi alle nuove maniere, alla ri-
cerca di identificazione e di prodotti in cui rispecchiarsi. I suoi perso-
naggi sono espressione di un’identità napoletana mutata, ma non anco-
ra definita, dispersa in troppe contaminazioni diverse e contraddittorie.

Mariano d’Amora vive e lavora fra Napoli, Roma e Londra. Nel


1992 consegue un Bachelor of Fine Arts alla New York University, nel
2001 una Laurea in Storia del Teatro alla Sapienza di Roma e nel 2010
un Ph.D alla Royal Holloway University of London. Fin dall’inizio del
suo percorso artistico/accademico d’Amora coniuga l’aspetto perfor-
mativo con quello teorico alternando la sua professione di attore-regista
con quella di docente (Royal Holloway University of London, Buckin-
gamshire New University, Università degli studi di Napoli “Partheno-
pe”). Tra i saggi pubblicati si ricordano: ‘Shnitzler’s Hidden Legacy.
An English Playwright Rewrites Reigen’ in Shintzler’s Hidden Manu-
scripts, (Bern, Peter Lang, 2010), ‘Acting in Pasolini’s Theatre’ in La
nuova gioventù? L’eredità intellettuale di Pier Paolo Pasolini (Novi
Ligure: Joker Editore, 2009), Encyclopedia of Italian Literary Studies
(New York: Routledge, 2005). Per l’editore Bulzoni ha pubblicato nel
2001 Respect for Actors e, nel 2007, Viaggio intorno all’attore. Nel
2012 è prevista l’uscita di: D’amore si muore. Il teatro di Giuseppe Pa-
troni Griffi.

177
Opera di Nicola D’Ammora.
Se cantar mi fai d’amore...

Manifesto creato da N. D’Ammora nel 1986 per lo spettacolo Week-end.


Bibliogrfia

Opera di Nicola D’Ammora.


Se cantar mi fai d’amore...

Manifesto creato da N. D’Ammora nel 1982 per lo spettacolo L’ereditiera.


Bibliogrfia

Manifesto creato da N. d’Ammora nel 1986 per la rassegna teatrale Delitti.


Se cantar mi fai d’amore...

Manifesto creato da N. D’Ammora nel 1985 per lo spettacolo Le Cinque rose


di Jennifer.
Bibliogrfia

Manifesto creato da N. D’Ammora nel 1986 per gli spettacoli Anna Cappelli
e Domeniche.
Se cantar mi fai d’amore...

Manifesto creato da N. D’Ammora nel 1986 per lo spettacolo Ferdinando.


Bibliogrfia

Ruccello interpreta Jennifer.


Se cantar mi fai d’amore...

Ruccello interpreta Jennifer.

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