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ADOLPHE APPIA E I SUOI SCRITTI.

Un viaggio attraverso la regia teatrale primo novecentesca.

Anna Digiovanni - 943790

«La luce è nell’economia della rappresentazione


ciò che la musica è nella partitura: l’elemento
espressivo opposto al segno»

Adolphe Appia, 1899


Introduzione

Adolphe Appia è fra i «padri fondatori» della regia teatrale moderna, che emerge e si rinnova fra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel 1919, dopo decenni di attenti studi sulla pratica teatrale e
numerose critiche ricevute a causa dei suoi progetti non in linea con l’estetica tradizionale, il «maestro»
descrive il suo ultimo lavoro pubblicato, L’opera d’arte vivente, attraverso la metafora del viaggio e,
consapevole dei rischi a cui si espone, avverte il lettore: «Spetterà poi a voi sapere se avete fatto bene
a intraprendere il viaggio»1.

Prima di iniziare questo viaggio, è necessario qualche cenno sulla biografia dell’autore: proveniente
dalla Svizzera francofona, Adolphe François Appia (Ginevra, 1863 – Nyon, 1928) conduce una vita
tranquilla ma nello stato di irrequietudine tipico di un periodo di grandi incertezze come la
Jahrhundertwende fra XIX e XX secolo. Cresce in un ambiente rigido e chiuso mentalmente, a cui
reagisce rintanandosi in biblioteca e dedicandosi ai suoi studi, e in ciò egli stesso individua la causa della
sua balbuzie e delle difficoltà relazionali; in un manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia
di Brema, il teorico ginevrino esterna le sue difficoltà comunicative che rispecchiano la Sprachkrise
vissuta anche da altri suoi contemporanei2:

è una specie di interruzione nell’esercizio normale delle mie facoltà applicate alla vita sociale. I
rapporti d’amicizia e le relazioni puramente sociali mi riescono relativamente facili (…); ma non
appena si tratta di prender parte all’attività positiva degli altri, oppure di portare gli altri nell’attività
che io desidero avere, ne divento, improvvisamente, del tutto incapace, non per timidezza, ma per
3
totale ignoranza .

In uno dei suoi saggi Ferruccio Marotti definisce Appia con queste parole: «Uno svizzero di lingua
francese, (…) ma di mentalità germanica», infatti egli si appassiona ben presto alla musica, e in
particolare alle opere di Wagner, alle cui rivoluzioni dedicherà buona parte del suo lavoro, sia come
teorico e sia come regista. Wagner era all’epoca ammirato e detestato come esponente della
modernità, o come scrive Nietzsche nella sua polemica antiwagneriana, «Wagner est une névrose. (…) è

1
APPIA Adolphe, L’opera d’arte vivente, in Attore, musica e scena, a cura di MAROTTI Ferruccio, Bologna, Cue Press,
2015, p. 149.
2
La crisi linguistica che affligge Appia sembra ricordare Ein Brief, lettera pubblicata da Hofmannsthal nel 1902, il cui
autore immaginario è uno scrittore inglese che rinuncia alla propria attività letteraria perché incapace di esprimersi
nella propria lingua. HOFMANNSTHAL Hugo, Lettera di Lord Chandos, a cura di LACCHIN Giancarlo, Milano, Mimesis,
2007, p. 22: «In breve, questo è il mio caso: ho completamente perduto la facoltà di pensare e di parlare di qualsiasi
cosa in maniera consequenziale».
3
APPIA Adolphe, Attore, musica e scena, cit., p. 29.

1
l’artista moderno par excellence»4; la sua influenza era tanto forte da instaurare in Europa una
«teatrocrazia wagneriana»5. In realtà le rivoluzioni wagneriane riguardano esclusivamente l’aspetto
musicale e drammaturgico, ma i suoi allestimenti risultano piuttosto antiquati e Appia, ritenendo che il
Wort-Tondrama avesse delle esigenze nuove rispetto ai drammi tradizionali, propone un teatro
antirealistico e fortemente concentrato sull’interiorità.

Il pensiero di Appia si perfeziona con l’avanzare dei suoi studi e delle poche esperienze registiche, ma
resta fondato su alcuni principi: la musica è al vertice della «gerarchia rappresentativa» e detta ogni
aspetto della messa in scena; lo spazio è astratto, sgombro da ogni elemento superfluo e interamente
praticabile, in modo da consentire all’attore maggiori possibilità di movimento; l’attore è il mediatore
fra musica e scena, e il suo corpo, unico elemento vivente in scena, muovendosi a ritmo di musica dà
vita allo spazio; l’illuminotecnica assume un importante valore perché permette di rendere lo spazio
mobile e tridimensionale grazie agli effetti di luci ed ombre. L’incontro e la collaborazione con Émile
Jaques-Dalcroze, inventore dell’euritmica, a partire dal 1906 segna un’evoluzione nelle teorie di Appia,
con l’introduzione dei cosiddetti «spazi ritmici» e l’enfasi sul corpo umano e sul valore sociale di quella
che egli chiamerà opera d’arte vivente. La sua attività artistica può essere suddivisa in quattro fasi: 1)
periodo romantico, dal 1892 al 1906, in cui scrive i primi trattati, realizza dei bozzetti scenici e le sue
prime messe in scena (tratte dalla Carmen di Bizet e dal Manfred di Byron con musiche di Schumann);
2) spazi ritmici a partire dal 1906, collaborando con Jaques-Dalcroze a Hellerau; 3) ritorno ai soggetti
wagneriani fra il 1922 e il 1924, con il «fallimento di successo» 6 al Teatro alla Scala (Tristano e Isotta
diretto da Toscanini); 4) fase finale fino alla sua morte, in cui continua a realizzare bozzetti stilizzati.

Seppur con poetiche differenti fra loro, Appia e gli altri «grandi maestri» della regia teatrale di primo
Novecento sono accomunati dal desiderio di rinnovare un teatro ormai vecchio e inadatto alla società
moderna, creando una «molteplicità di reti, fatte di scambio, interdipendenza, confronto e relazioni» 7.
Ad un secolo di distanza possiamo considerare Adolphe Appia non solo come un teorico e precursore
della pratica registica moderna, ma anche come un grande artista, la cui eredità è individuabile nella
regia teatrale contemporanea.

1.L La messa in scena del dramma wagneriano8

In questo breve scritto datato 1895 Appia fa delle considerazioni teoriche e pratiche sugli allestimenti
della Gesamtkunstwerk wagneriana, proponendo soluzioni con le sue note per un’ipotetica messa in
scena della tetralogia.

Sebbene gli allestimenti operistici siano ancora oggi tendenti al realismo, non sono rare messe in scene
antitradizionali come La Traviata di Brian Large (Salisburgo 2005), la Turandot di Robert Wilson
(Madrid 2018) o il Rigoletto di Philipp Stölzl (Bregenz 2019). Soprattutto le opere wagneriane
sembrano prestarsi bene a tipi di regia che ambiscono a portare sulla scena il paesaggio interiore

4
NIETSCHE Friedrich, Il caso Wagner, in Scritti su Wagner, traduzione di MASINI Ferruccio e GIAMETTA Sossio, Milano,
Adelphi, 1979, p. 175.
5
SACCHI Annalisa, Il posto del re. Estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo, Roma, Bulzoni,
2012, pp. 21-27.
6
TARGA Marco, Due fallimenti di successo alla Scala: il Tristano e Isotta di Appia e il Ring des Nibelungen incompiuto di
Ronconi, in Mettere in scena Wagner, a cura di TARGA Marco e BRIGHENTI Marco, Lucca, Libreria Musicale Italiana,
2019, pp. 137-145.
7
SCHINO Mirella, Teatro come bene comune. La regia al suo nascere e il Novecento, in La regia in Italia, oggi. Per Luca
Ronconi, dalla rivista «Culture Teatrali», n.25, a cura di LONGHI Claudio, Lucca, La casa Usher, 2016, pp. 55-56.
8
Titolo originale: La mise en scène du drame wagnérien.

2
vissuto dagli eroi della Gesamtkunstwerk, anche se gli allestimenti di Wagner non fossero carichi di
innovazione come la sua musica: il Parsifal con la regia di Romeo Castellucci ne è un esempio, e proprio
a questo proposito De Marinis ricorda il lavoro di Adolphe Appia, che «inventa la regia moderna
teatrale proprio a partire da Wagner creatore musicale e rifiutando il Wagner allestitore scenico,
attardato su moduli tardo romantici di gusto alquanto kitsch»9. Secondo Appia le difficoltà riscontrate
dai suoi contemporanei nel portare in scena le opere di Wagner derivano da due cause principali: 1) gli
espedienti impiegati negli allestimenti del teatro di prosa e nel teatro musicale non erano adeguati,
poiché il Wort-Tondrama costituisce una sintesi fra i due generi teatrali e lo stesso Wagner non è stato
in grado di proporre allestimenti degni delle sue opere; 2) il pubblico è abituato ad avere tutto sotto i
propri occhi, è passivo di fronte allo spettacolo e non riesce a comprenderlo, per cui ne critica ciò che
trova incomprensibile.

Quello che Wagner definisce Wort-Tondrama persegue lo scopo di fondere in sé tutte le componenti
che permettono di esprimere le drame intérieur dei suoi eroi. La musica è gerarchicamente al di sopra
di tutto: essa scandisce il tempo, canto e movimenti degli attori e, di conseguenza, determina anche lo
spazio, pertanto va presa in considerazione da coloro che decidono di mettere in scena una delle sue
opere. Per prima cosa Appia si pone il problema della «durata»: se nel dramma di parola è la vita stessa
a stabilire la durata dell’interpretazione, che quindi risulta «libera», nelle opere wagneriane è la musica
a fissarla, per cui l’interprete si deve attenere esclusivamente a quanto riportato sulla partitura e non
può essere libero nella durata delle parole intonate, dei suoi gesti o dei suoi movimenti. Ciononostante
non la si può neanche paragonare alla durata delle opere liriche non-wagneriane, perché in esse la
musica è solo una delle tante componenti e non ha una valenza drammaturgica, ma si limita a dilatare il
tempo per dilettare il pubblico con effusioni liriche e virtuosismi dei cantanti. Pertanto, i mezzi
rappresentativi del dramma parlato e dell’opera non sono adeguati alla rappresentazione del dramma
interiore10, e occorre adottare una nuova «tecnica teatrale» che impieghi tutte le risorse che sono già
fornite dal dramma stesso: «Ogni dramma determina dunque una propria messa in scena».

Altro ostacolo per chi tenta di portare a teatro il Wort-Tondrama è costituito dal pubblico, il quale a sua
volta costituisce la parte essenziale della rappresentazione, o essa non avrebbe ragione di esistere.
Appia scrive che «il pubblico è debole», rintracciando le cause di tale debolezza: è abituato ad un
«dramma sotto una forma che non possa prestarsi ad alcun malinteso», dunque fa fatica ad accettare
novità formali più complesse; è affetto da una «impotenza a subire l’intensità musicale» e necessita un
altrettanto intenso spettacolo visivo che compensi la potenza della musica; l’ultima deficienza sta nella
sua «incapacità di concentrazione», che tuttavia può essere superata nel caso in cui il pubblico si lasci
coinvolgere dall’«opera d’arte del futuro», come la definisce Wagner stesso nel suo saggio del 1849.

In seguito Appia approfondisce il problema della rappresentazione, che può essere solo analizzato per
via teorica perché allora non esistevano esempi di spettacoli in grado di descrivere la sua intuizione, e
gli stessi allestimenti ad opera di Wagner appaiono in linea con le tecniche di rappresentazione
tradizionali, dalla scena inanimata: «Per quanto il loro autore li abbia inseriti nelle condizioni

9
DE MARINIS Marco, Introduzione. Il “teatro elementale” di Romeo Castellucci, in Toccare il reale. L’arte di Romeo
Castellucci, a cura di DI MATTEO Piersandra, Napoli, Cronopio, 2015, p. 23.
10
APPIA Adolphe, La messa in scena del dramma wagneriano, in Attore, musica e scena, cit., p. 60: «Si tratta dunque
di un dramma in cui tutte le proporzioni di durata e di successione che la vita fornisce al dramma parlato sono
alterate, e a cui viene ad aggiungersi una durata nuova: quella del dramma interiore, che la vita non gli fornisce (…). I
mezzi rappresentativi del dramma parlato non gli potrebbero dunque servire; e quelli dell’opera, che per la loro
durata sarebbero di comodo impiego, devono essere egualmente scartati, perché non sono motivati che da un
prolungamento arbitrario del tempo, senza necessità drammatica».

3
rappresentative attuali, queste condizioni – come abbiamo visto – non possono (…) essere adeguate
alla vita del dramma. Poiché questa vita è data dalla musica». La risposta a questa problematica viene
individuata nel rapporto spazio-attore: nel dramma di parola l’attore ha bisogno di uno spazio scenico
dominato dalla pittura, elemento in grado di esplicitare attraverso «segni inanimati» dove il fatto
avviene. L’opera wagneriana al contrario esprime il «dramma interiore», che non lo si può manifestare
se non attraverso l’illuminazione, «il più importante elemento di fusione della messa in scena».
Riassumendo: la scena inanimata dominata dalla pittura è adatta al dramma parlato, in cui l’attore
funge da mediatore fra dramma e spazio scenico; nell’opera wagneriana ogni elemento è fissato dalla
musica e il dramma interiore si manifesta attraverso la fusione dell’attore nella scena. Quest’ultimo
non interagisce con lo spazio scenico, ma si fonde in esso, per cui deve rinunciare a una libera
interpretazione: «Questo fine supremo dell’attore del dramma wagneriano è la Rinuncia: rinuncia di
tutto il proprio essere, per divenire strettamente musicale, (…) cioè per potersi manifestare nel Tempo
musicale con tutta la vita drammatica richiesta»11.

La parte conclusiva del saggio riporta le «note sulla messa in scena de L’anello del Nibelungo», sebbene
si tratti solamente di argomenti teorici, essendo, secondo Appia, i teatri di fine Ottocento inadatti ad
una dimostrazione pratica. Presupponendo che la vita del dramma dipenda dalla volontà del dio
Wotan, e che egli debba essere sempre al centro della scena, il regista propone alcune soluzioni di
messa in scena, motivando come esse siano dettate dalla partitura poetico-notazionale di Wagner. Per
prima cosa Appia suddivide la tetralogia in due parti essenziali: L’oro del Reno e La Valchiria mettono in
scena la volontà attiva del dio, mentre Sigfrido e Il crepuscolo degli dei sono la manifestazione della
volontà passiva del dio, infatti nell’ultima sezione della saga Wotan è fisicamente assente dalla scena,
dove comunque viene rappresentata la sua volontà. La «caduta» dal mondo eroico alla società dei
mortali si concretizza nel Götterdämmerung nella presenza in scena della pittura, «senza fare tuttavia
troppo torto all’illuminazione né al grado di praticabilità che l’azione esige»: l’illuminazione è un
elemento cruciale e il teorico colloca i rappresentanti del mondo eroico in «una affastellata varietà di
colori» che «renderà evidente la possibilità di una relazione tra la suggestione musicale e lo
spettacolo»12.

Come accennato, lo spazio scenico è dominato dall’illuminazione, che varia a seconda dell’intensità del
dramma interiore degli eroi e della «melodia infinita». Alcuni momenti della seconda opera della
tetralogia, Die Walküre, descrivono perfettamente l’immaginario di Appia: nel primo atto Hundig
costituisce un personaggio secondario, che ostacola l’unione incestuosa di Siegmund e Sieglinde: per
questo motivo, nel momento della cena la sorgente luminosa, la fiaccola, sarà posta dietro Hundig, in
modo che quest’ultimo resti in ombra mentre i due eroi siano risaltati dalla luce; in seguito, dopo che lo
sposo di Sieglinde si addormenta, avviene il riconoscimento dei due amanti, che dopo essere rimasti
oscurati dall’ombra della notte, tornano ad essere visibili nel momento in cui il figlio di Wotan declama
la parola vereint (= riuniti).

Il valore della costruzione scenica è evidente nell’ultimo atto dell’opera, che si svolge sulla cima
scoscesa ove le Valchirie sono solite incontrarsi: il paesaggio roccioso del Valhalla si ripresenta allo
stesso modo nel Siegfried (terzo atto) e nel Götterdämmerung (prologo e terza scena del primo atto),
per cui occorre prestare molta attenzione al numero di comparse che vi appaiono e ai praticabili dove si
muovono. Il disegno (I) mostra come Appia immaginasse questo paesaggio, che non è una semplice

11
Cit., pp. 62-67.
12
Cit., p. 68.

4
cornice decorativa ma assume qui un ruolo drammaturgico.
drammaturgico Wotan ancora non è presente in scena, scena
quando la sua ira si manifesta sotto forma di tempesta: in scena ci sono solo le valchirie, che si fondono
nel tutto e risultano essere un semplice elemento decorativo; al contrario, nella scena di maggiore
intensità fra Wotan e Brünnhilde,, gli eroi sono soli sulla piattaforma posta in primo piano, instaurando
una maggiore intimità col pubblico.

(I)LRichard
Richard Wagner, La Valchiria,
Atto III, L’arrivo di Wotan

Nonostante la sua tendenza a preoccuparsi degli aspetti più evidenti ed evocativi,, rinunciando a ogni
ostentazione artificiosa, in alcune sezioni Appia si preoccupa dei particolari, come costumi e ornamenti:
alcuni esempi riguardano Das Rheingold,
Rheingold, dove il costume dei Nibelunghi e delle Figlie del Reno «non
deve essere visibile»,
», mentre gli dei vestiranno con semplici stoffe a tinta unita e senza indossare
dell’oro, perché nel «preludio» alla tetralogia non deve apparire altro oro oltre all’anello. Secondo
Appia occorre
rre abbandonare il superfluo: «Riducendo il materiale decorativ
decorativo o alle strette necessità, lo si
avrà tutto praticabile, il che favorirà l’illuminazione e accentuerà la fluidità ambientale». Solo in questo
modo l’apparato scenico può raggiungere un’intensità comparabile a quella della musica, «cosa a cui
ento può giungere se si mira al realismo»13.
nessun procedimento

Appia conclude il saggio dimostrando come tutti gli elementi menzionati riguardo alla messa in scena
siano dettati da «un’unica volontà», quella di Wagner, che per mezzo della partitura è in grado di
definire ogni aspetto dell’allestimento; motivo per cui «lo studio dello spartito, battuta per battuta,
diviene indispensabile»14.

2.L La musica e la messa in scena15

Scritto a partire dal 1892 e pubblicato


blicato nel 1899, La musica e la messa in scena è un trattato di riflessioni
teatrali dal carattere più filosofico che Appia dedica all’amico
all’amic e filosofo inglese Houston Stewart
Chamberlain. Nella prefazione
refazione scritta nel 1897 l’autore esordisce con una problematica di tipo estetico
estetico-
teoreticoo che si potrebbe riassumere nell nella domanda: come giudicare un’opera’opera d’arte, se non
attraverso l’opera d’arte stessa? Questo problema è il risultato di una lunga prassi teatrale che separa
la «concezione originaria»
iginaria» dell’opera d’arte (testo tramandato nel tempo) dalla forma che essa assume
sulla scena, variabile a seconda del gusto e dell’epoca. Come osserva Appia, «la concezione originaria di
ogni opera d’arte (…) non si elabora che in un solo cervello»
cervello», per cui la messa in scena non può essere

13
Cit., pp. 71-77.
14
Cit., p. 78.
15
Titolo originale: La musique et la mise en scène.
un prodotto cangiante e non può essere considerata un mezzo di espressione se non è fondata su un
«principio regolatore» che la renda indipendente da ogni volontà esterna alla concezione originaria
dell’opera stessa. Attraverso gli esempi della pantomima (dove tempo e azione sono scanditi dalla
musica), dell’opera lirica (dove tuttavia la dilatazione temporale della musica non svolge un ruolo
drammaturgico) e del Wort-Tondrama wagneriano (dove «la musica è il Tempo»), il ginevrino propone
una «riforma rappresentativa», valida «sia per i drammi di Wagner che per i drammi successivi»16.

Il corpo del saggio è costruito su dei principi teorici, seguiti poi dalla descrizione dei risultati tecnici.
Ricapitolando quanto scritto in precedenza, perché la messa in scena possa essere considerata un
Ausdrucksmittel, deve essere determinata da un «principio regolatore» che detti «le proporzioni nello
spazio e il loro svolgersi nel tempo, nella loro interdipendenza»: questo principio si ritrova nel testo
completo della partitura, dove musica e parole permettono di definire tempo e spazio. Già nel saggio
del 1895 venivano definiti gli elementi di cui si compone la messa in scena, distinguendone la parte
«animata» (mimica e gestualità dell’attore, determinata dalla musica, portatrice di sentimenti) e la
parte «inanimata» (illuminazione, costruzione scenica e pittura): partendo da questi presupposti il
teorico afferma la superiorità della luce, la quale gioca un «ruolo attivo» nella messa in scena, al
contrario della pittura, che deriva dal dramma tradizionale e dal suo «debole» pubblico (che necessita
di segni che gli permettano di comprendere dove si svolge l’azione) e che, a differenza di piantazione e
illuminazione, non possiede la «praticabilità». Quest’ultima è la qualità che permette all’attore di
entrare in relazione con la parte inanimata della messa in scena e, di conseguenza, fondersi con il
dramma stesso, che così prende vita. Nel seguente schema (II) Appia descrive una «gerarchia della
rappresentazione», che vive e si sviluppa dalla partitura musicale17.

(II) Schema riassuntivo non


presente nell’edizione del
manoscritto francese, ma
solo nella traduzione tedesca
del saggio, datata 1899.

Nei «risultati tecnici» Appia approfondisce la gerarchia della messa in scena del Wort-Tondrama,
«mezzo di espressione» governato dalla musica: la partitura poetico-musicale definisce in modo diretto

16
APPIA Adolphe, La messa in scena come mezzo di espressione, in Attore, musica e scena, cit., pp. 83-90.
17
Cit., pp. 95-96: «Il poeta musicista estrae quindi la sua visione dal senso stesso della musica. Attraverso il linguaggio
parlato le dà una forma drammatica positiva e costituisce il testo poetico musicale, la partitura; questo testo impone
all’attore il suo ruolo, già vivente della sua vita definitiva; non deve far altro che impadronirsene. Le proporzioni di
questo ruolo propongono all’evocazione scenica delle condizioni formali per mezzo della praticabilità (il punto di
contatto tra l’attore vivente e il quadro scenico inanimato); dal grado e dalla natura di questa praticabilità dipende poi
la piantazione della scenografia, e questa trascina a sua volta l’illuminazione e la pittura».
gli aspetti temporali e «la forma animata del corpo umano» che, muovendosi all’interno dello spazio
scenico, ne definisce «il quadro scenico inanimato», ossia composizione scenografica, illuminazione e
pittura. La partitura dunque definisce lo spazio solo in modo indiretto, per cui va tradotta in forma
rappresentativa o, utilizzando le parole di Appia, «occorrerà trovare un procedimento di notazione
rappresentativa che possa corrispondervi visivamente»18. Per fare ciò egli affronta, uno per uno, gli
aspetti della mise en scène:

 Illusione scenica: deriva dal desiderio e dalla necessità del pubblico, che la rappresentazione
assuma una parvenza di realtà, rendendo l’oggetto della rappresentazione comprensibile e
condivisibile; tuttavia il trompe-l’oeil si concretizza in un grossolano tentativo di realismo
mediante l’uso della pittura e di oggetti superflui, «rinunciando allo spettacolo vivo» possibile
grazie a un abbondante uso dell’illuminazione. Nel dramma wagneriano la musica prende il
sopravvento e impone allo spettatore la visione del poeta-musicista, che sia condivisibile o no;
 Attore: nel Wort-Tondrama «rinuncia alla sua attività normale per diventare solo mezzo
d’espressione». Così come gli attori dell’Antica Grecia facevano del proprio corpo un’opera
d’arte, l’attore della Kunstwerk der Zukunft raggiunge attraverso la musica (canto e danza) una
«spersonalizzazione» che gli consente di fondersi con gli elementi inanimati della messa in
scena. La musica dunque permette all’attore di trasformarsi nel «mezzo di espressione» del
poeta-musicista, alla cui volontà l’attore deve obbedire in un atteggiamento di sudditanza.
A questo punto Appia, consapevole del ruolo del metteur en scène che si affermava in quegli
anni, distingue il lavoro del creatore dell’opera da chi si occupa dell’aspetto registico,
dimostrando una visione simile a quella del regista-direttore d’orchestra del suo amico Edward
Gordon Craig19;
 Piantazione: si contrappone alla costruzione e alla scenografia del teatro tradizionale, che
separa nettamente la zona del pubblico da quella adibita all’illusione e tenta di compensare i
suoi limiti con pitture e mobili fastosi, che altro non sono che un impedimento per l’attore, il
quale si trova «al servizio del quadro inanimato» senza poter interagire con esso. La
concezione rappresentativa del Wort-Tondrama è contro ogni intento realistico: «non vuole
l’illusione che un oggetto estraneo tende a distruggere, non vuole il segno che tende a dare un
senso a ogni e qualsiasi oggetto. Essa vuole l’espressione»20.
Lo spazio architettonico deve essere vuoto e indeterminato, aperto a tutte le possibilità offerte
dalla musica: è come uno spazio magico che stimola l’immaginazione attraverso la potenza
della poesia e della musica. Quanto alla scenografia, il metteur en scène dispone di strumenti
inanimati che possono essere distinti fra quelli strettamente legati all’attore (scenografia
spoglia e interamente praticabile, che permette all’attore di determinare lo spazio in cui egli
stesso si muove) e quelli legati all’illuminazione (che si oppone al vecchio principio scenico
della pittura inanimata e, con la sua souplesse naturale, funge da mediazione tra realizzazione
plastica e tele dipinte in scena). Attraverso i dettami della partitura musicale, dunque, ogni
tentativo di verosimiglianza del teatro tradizionale viene sostituito dalla forza espressiva21;

18
Cit., p. 98.
19
APPIA Adolphe, La messa in scena come mezzo di espressione, cit., p. 105: «Colui che oggi chiamiamo metteur en
scène (…) assume invece il ruolo di un dispotico istruttore per presiedere alla ginnastica preparatoria del quadro
scenico. Egli tenta di operare artificialmente la sintesi degli elementi rappresentativi».
20
Cit., p. 117.
21
Cit., p. 123: «per essere espressivo, lo spettacolo che risulta da una tale partitura deve rinunciare alla ricerca di
illusione (…). La messa in scena del Wort-Tondrama in questo senso è ideale, ché la sua realtà materiale è subordinata
a considerazioni estetiche superiori alla sua forma intellegibile».

7
 Illuminazione: riferendosi al concetto schopenhaueriano della musica come «essenza intima
del fenomeno», Appia afferma la stretta relazione fra musica e luce: entrambe costituiscono un
elemento vivo nella messa in scena, la quale acquista un carattere espressivo che muta la
propria intensità a seconda della volontà del poeta-musicista. Dopo un’accurata descrizione
delle forme impiegate nell’illuminotecnica teatrale a lui contemporanea22, Appia ne denuncia
l’inconsistenza poiché la luce, come elemento reale e vivo, mette in risalto altri corpi reali,
dunque in un teatro dove prevale la pittura, la luce illuminerà la tela e non l’oggetto inanimato
raffigurato sulla tela, evidenziandone l’aspetto fittizio. Nel dramma del poeta-musicista occorre
sfruttare le qualità della luce, per cui vengono distinte: luce diffusa che serve semplicemente a
«veder chiaro» e luce attiva che mette in evidenza i particolari e le ombre. È possibile creare
una gamma infinita di effetti luminosi, sia attraverso il movimento degli attori e delle sorgenti
luminose e sia per mezzo della variazione d’intensità dei due tipi di luce, che possono essere
presenti contemporaneamente;
 Pittura: deve essere sottomessa all’illuminazione, che possiede realismo, dinamicità e colore.
La pittura al contrario è fittizia, statica, entra in contrasto con la vita di luci ed ombre e,
soprattutto, è incompatibile col Wort-Tondrama, la cui messa in scena è determinata dalla
volontà di un’unica mente creatrice. Entrando in contrasto con la vitalità della musica, degli
attori, e di colori, forme e movimenti prodotti dalla luce, non può fondersi nella
rappresentazione, facendole perdere l’espressività. La pittura infatti, così come la scelta dei
costumi, assume nel teatro tradizionale quello che Appia definisce un «ruolo moltiplicatore»
che compensa, con la varietà di finzioni, ciò che non è possibile attuare sulla scena23;
 Sala: Appia riflette sull’acustica e sull’ottica del teatro tradizionale, che separa nettamente il
pubblico dalla scena, così come la Festspielhaus di Bayreuth. Entrambi i modelli non
corrispondono al suo teatro ideale, dove solo il posto a sedere dello spettatore deve essere
stabilito, mentre tutto il resto si deve adattare all’opera messa in scena.

3.L L’opera d’arte vivente24

A distanza di alcuni decenni dalla sua ultima pubblicazione, Appia raggiunge nel suo ultimo scritto
maggiore maturità e consapevolezza del suo ruolo e dei mezzi di cui dispone. Incompreso e tormentato
dagli insuccessi in ambito teatrale e dall’impossibilità di definire un’arte tanto affascinante quanto
sfuggente come il teatro, descrive le proprie speranze e i propri timori nella prefazione, datata agosto
1919: si tratta di due pagine ricche di tensione che esprimono il «carattere tragico» dell’arte, che «ha il
potere di farci vivere la nostra vita senza imporcene contemporaneamente le sofferenze», ma «ci
chiede, in compenso (…) di aver sofferto in precedenza»25. Pubblicato nel 1921, L’opera d’arte vivente
è allo stesso tempo un trattato teorico e un diario di viaggio, dove l’autore che scrive di sé in terza
persona è «guida e viaggiatore» nell’esplorazione del teatro primo novecentesco.

Partendo da una riflessione sulla nomenclatura che definisce i diversi ambiti artistici, Appia riflette sulla
dialettica fra arte drammatica e le altre «arti», spaziali (pittura, scultura e architettura) e temporali
(scrittura del testo e della musica). Le belle arti sono quelle che Appia denomina «arti dello spazio» e

22
Egli distingue: luci fisse, luce di ribalta, apparecchi completamente mobili e illuminazione per trasparenza.
23
Cit., p. 133: «Il principio scenografico attuale dà alla pittura un ruolo moltiplicatore, incaricandola di supplire col
numero e la varietà delle sue finzioni all’infinita povertà delle realizzazioni nello spazio; col diminuire di questa
povertà, il ruolo moltiplicatore della pittura ha meno importanza».
24
Titolo originale: L’oeuvre d’art vivant.
25
APPIA Adolphe, L’opera d’arte vivente, in Attore, musica e scena, cit., p. 150.

8
sono caratterizzate dall’immobilità, che permette loro di resistere al passare del tempo: tuttavia
scultura e architettura sono plastiche e, per mezzo delle tecniche di illuminazione e della creazione di
ombre, acquisiscono colore e capacità di movimento; il corpo dell’attore è l’unico elemento vivente
sulla scena e la caratteristica della plasticità lo avvicina alle belle arti, fatta eccezione per la pittura, che
deve restare esclusa dalla messa in scena perché non si può fondere nel dramma. Le «arti del tempo»,
sebbene il concetto stesso di tempo sia qualcosa di ideale26, sono il testo (organizzato a seconda del
significato che veicola), la cui durata può essere stabilita dal segno scritto, a condizione che si tratti di
una partitura vocale, e la musica, portatrice di sentimenti e che «rappresenta il tempo, senza
intermediari»; entrambe sono caratterizzate da una durata definita dal segno, che pone l’attore in una
condizione di mobilità. Polemizzando con chi afferma che l’opera d’arte dell’avvenire sia data dalla
comunione di tutte le arti (la pittura infatti non può e non deve rientrare nella messa in scena), il
ginevrino fa notare che è la «mobilità» la caratteristica comune alle arti dello spazio e del tempo, e che
le pone reciprocamente in relazione: «Le arti del tempo trovano così nella mobilità il tramite
indispensabile alla loro presenza invisibile sulla scena. E, reciprocamente, le arti dello spazio saranno in
grado, grazie alle arti del tempo, di manifestarsi in una durata che sarebbe loro rimasta estranea senza
di queste»27.

Gli elementi del teatro immaginato da Appia vivono sulla scena grazie alla musica, che resta al vertice
della gerarchia rappresentativa. Menzionando filosofi come Arthur Schopenhauer, per quanto riguarda
il concetto di essenza intima del fenomeno (la musica è l’essenza del fenomeno, invisibile, che dà vita al
fenomeno; quest’ultimo si manifesta nel corpo dell’attore), e Hippolyte Taine, secondo cui lo scopo
dell’opera d’arte è «di manifestare alcuni caratteri essenziali (…) più chiaramente e più compiutamente
che non facciano gli oggetti reali» (per cui l’artista deve modificare i valori naturali in un’opera d’arte),
nei capitoli successivi distingue i tre elementi cardine dell’opera d’arte vivente28:

 Durata vivente: Appia la definisce «l’arte di esprimere, nel tempo e nello spazio
simultaneamente, un’idea essenziale», e ciò avviene grazie all’appropriazione e manifestazione
delle durate musicali nel corpo dell’attore, che canta e recita seguendo la durata della musica.
La durata musicale, quindi, acquista vita tramite il corpo dell’attore che ne assorbe la durata;
 Spazio vivente: allo stesso modo della durata, lo spazio riceve la vita dall’interazione con il
corpo vivo dell’attore, i cui gesti e movimenti sono a loro volta dettati dalla musica. Affinché ciò
avvenga, deve esserci un forte contrasto fra le forme sinuose del corpo umano e quelle
geometriche dello spazio scenico, mentre lo spazio deve essere caratterizzato dalla
«pesantezza» che gli consente di opporre resistenza al corpo dell’attore che le pratica; perciò è
necessario rinunciare al superfluo, tipico del teatro tradizionale, come gli ingombranti costumi
che modificano la forma e i movimenti del corpo umano, o mobili e oggetti decorativi che, non
dotati di praticabilità, altro non sono per l’attore che un impedimento che limita le possibilità
motorie. In questo senso lo spazio vivente «rappresenta la vittoria delle forme corporee sulle
forme inanimate», che prendono vita anch’esse;

26
In merito a ciò, l’autore sembra alludere alle teorie sulla qualità del tempo di Henri Bergson. Cit., p. 157: «Allo
stesso modo che un lungo sogno può occupare solo cinque minuti e, di conseguenza, contenere una durata
sproporzionata rispetto a quella del tempo normale, così le arti del tempo si servono del tempo normale solo come un
contenitore in cui collocano la loro durata speciale. Durante il sogno noi abbiamo creduto alla sua durata; durante la
lettura del testo o l’ascolto della musica di un dramma, crediamo alla loro durata particolare, e non ci viene in mente
di consultare a questo riguardo l’orologio: sentiamo che mentirebbe!».
27
Cit., p. 158.
28
Cit., pp. 160-171.

9
 Colore vivente: è il colore della luce e dei corpi colorati che si trovano in scena e si oppongono,
per la loro mobilità, alla scenografia dipinta. Secondo Appia la pittura è un controsenso in
un’opera d’arte vivente perché il corpo dell’attore non può essere immerso all’interno di un
paesaggio dipinto, ma soltanto davanti ad una tela che rappresenta questo paesaggio e che si
oppone alla fusione degli elementi. Perché il paesaggio acquisti vita occorre che il colore entri
in contatto con la luce e coi movimenti dei corpi, che producono ombre e, di conseguenza,
movimento.

L’utopica opera di Appia consiste nella fusione di questi elementi, che prendono vita sulla scena;
tuttavia egli è consapevole della realtà del teatro e dei tentativi di rinnovamento dei primi anni del XX
secolo, e identifica il problema nella netta separazione fra drammaturgia e regia: il drammaturgo deve
essere anche regista, perché «la fusione tecnica degli elementi rappresentativi trova la sua origine
nell’idea iniziale dell’arte drammatica»29 e l’errore degli autori drammatici è che essi tendono a
raccontare storie - determinando personaggi, spazio e tempo dell’azione - come se fossero autori di un
romanzo, genere che può raccontare una storia che avviene in un momento e in un luogo determinato,
proprio perché non vive. La drammaturgia deve adattarsi alle necessità della rappresentazione e per
questo richiede specifiche conoscenze da parte dell’artista che concepisce l’idea originaria dell’opera.

La novità della proposta di Appia sta proprio nella sua critica al testocentrismo:

per noi le parole sono sufficienti. I nostri autori drammatici sono scrittori di parole. (…) Il teatro si è
intellettualizzato: in esso il corpo è solo il portatore e il rappresentante di un testo letterario, e si
rivolge ai nostri occhi solo in questa veste. I suoi gesti e le sue evoluzioni non sono ordinate dal testo,
30
ma semplicemente ispirate da esso. L’attore interpreta a suo gradimento ciò che ha scritto l’autore .

L’autore del saggio afferma l’esistenza di due sole tipologie di opere d’arte: quelle immobili, in cui
rientrano le belle arti e la letteratura, e l’arte mobille e viva, ovvero l’opera d’arte vivente. Al centro di
questa opera d’arte ideale vi è il corpo umano nella sua plasticità e nella sua vitalità, che si fonde con gli
elementi della messa in scena in modo che anch’essi possano vivere. L’oeuvre d’art vivant esiste a
prescindere dallo spettatore, proprio perché viene prima di tutto vissuta dall’artista che la crea, e poi
dall’attore: «L’opera vive da sola e senza lo spettatore. L’autore la esprime, la possiede e la contempla
contemporaneamente», e così come afferma Hippolyte Taine, che l’arte drammatica sia il risultato di
una «modificazione dei rapporti» con la realtà, il corpo dell’attore deve lasciarsi modificare dalla
musica: «Incorporare l’arte dei suoni e del ritmo nel nostro stesso organismo costituisce il primo passo
verso l’opera d’arte vivente»31. L’idea di movimento, e quindi vitalità, a partire dalla musica, avvicina
molto Appia a Vsevolod Meherchol’d: anch’egli propone un tipo di «ginnastica» per l’attore, la
biomeccanica, e sostiene l’importanza della conoscenza della musica per un regista32.

29
Cit., p. 175: «chi dice drammaturgo dice anche regista: è sacrilego specializzare le due funzioni. (…) se l’autore non le
assume da solo entrambe, non sarà capace di esercitare né l’una né l’altra, dal momento che è dalla loro reciproca
compenetrazione che l’arte vivente deve nascere. A parte pochissime eccezioni, quest’arte non l’abbiamo ancora;
come non abbiamo ancora questo artista».
30
Cit., pp. 178-179.
31
Cit., pp. 181-182.
32
DE MARINIS Marco, Wagner e i suoi doppi. L’estetica del Gesamtkunstwerk prima, durante e dopo la regia, in
Mettere in scena Wagner, a cura di TARGA Marco e BRIGHENTI Marco, cit., p. 97: «È ben nota l’importanza che la
musica ha sempre rivestito nella visione teatrale del teorico russo della Biomeccanica, non solo come componente
dello spettacolo (…) ma proprio come modello drammaturgico e compositivo, quindi registico: nelle scuole di regia che
aprirà egli vorrà sempre un insegnamento di Armonia e contrappunto».

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Nell’idea di Appia la musica rappresenta una sintesi fra arti «immobili» (belle arti e letteratura) e l’arte
«mobile» e vivente, e pertanto funge da «principio regolatore», contrapponendosi alle anarchiche
creazioni artistiche contemporanee. Affinché la fusione degli elementi avvenga, occorre che l’artista si
affidi all’idea di «collaborazione» fra il suo desiderio creativo e la sua vita stessa, che egli dona all’opera
d’arte facendola diventare vivente. Dal momento in cui vive, l’opera d’arte è sfuggente: essa si crea da
uno scambio di energie fra forze contrastanti, fra poeta e musicista, fra segno e espressione, in una
oscillazione «che le impedisce di cristallizzarsi in un codice estetico formale»33. Queste idee si
concretizzano secondo Appia nello spettacolo patriottico composto e portato in scena nel 1914 da
Émile Jaques-Dalcroze in commemorazione dell’entrata di Ginevra nella Confederazione svizzera:
secondo la testimonianza del teorico dell’opera d’arte vivente, Jaques-Dalcroze «ha dato di questo
fenomeno estetico un esempio grandioso e certamente senza precedenti. Esso realizzava la
simultaneità dei due principi».

La collaborazione con Jaques-Dalcroze, inventore dell’euritmica, permette ad Appia di perfezionare le


sue teorie raggiungendo la sua massima maturità incentrando la propria attenzione più sul corpo
dell’attore che sulle innovazioni musicali di Wagner. Nelle ultime pagine del trattato compare un vero e
proprio elogio al corpo umano, testimonianza della Körperkultur che andava diffondendosi nella società
del XX secolo: qui Appia si schiera contro l’idea di corpo nudo come qualcosa di cui vergognarsi, dunque
da nascondere, esaltando la bellezza e l’energia del nostro corpo, vivo e libero, che dà vita all’opera
d’arte e che è l’opera d’arte stessa:

Il magnifico sviluppo degli sport, dell’igiene generale, ci ha dato il piacere del movimento, dell’aria
aperta, della luce; con la salute, anche la bellezza fisica se n’è certamente accresciuta e la forza
34
corporea conferisce a essa un’aria di libertà (…). Il corpo ricomincia a esistere per i nostri occhi .

Così come il corpo è dotato di vitalità e di libertà, anche l’opera d’arte incomincia a vivere, in tutta la
sua energia, in tutte le sue capacità di movimento e in tutta la sua libertà. Se, fino ad allora, il corpo
nudo era solo accettato nei musei, nelle creazioni artistiche immobili e non dotate di vita, oggi viene
riscoperto come qualcosa di straordinario che ci accomuna, e l’opera d’arte vivente acquisisce così
valore sociale, in quanto «espressione dell’umanità». Attraverso l’opera d’arte gli artisti donano se
stessi, che è «l’atto essenziale, indispensabile all’opera d’arte», di fronte alla quale dobbiamo
riconoscere che il corpo dell’artista è il nostro corpo, e solo così potremo viverla fino in fondo e
ripagare l’artista della sua creazione.

Dopo aver riportato dei versi di Jacques Chenevière, che dipingono gli artisti come dei «portatori
d’invisibili fiaccole» che illuminano la vita pubblica, Appia conclude con un attacco a quegli artisti che si
rinchiudono nella propria torre d’avorio senza condividere la propria arte, affermando così il valore
sociale della sua utopia: «l’arte vivente è un atteggiamento personale che deve aspirare a diventare
comune a tutti».

33
APPIA Adolphe, L’opera d’arte vivente, cit., pp. 186-187: «Questa oscillazione sostiene l’attenzione, stimola
l’emozione per mezzo degli elementi contrastanti che oppone, e permette all’individuo di manifestarsi più
completamente che in un’unica forma esclusiva».
34
APPIA Adolphe, L’opera d’arte vivente, cit., p. 189.

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Bibliografia primaria

APPIA Adolphe, Attore, musica e scena , a cura di MARIOTTI Ferruccio, Bologna, Cue Press, 2015.

SACCHI Annalisa, Il posto del re. Estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo,
Roma, Bulzoni, 2012.

TARGA Marco e BRIGHENTI Marco, Mettere in scena Wagner. Opera e regia tra Ottocento e
contemporaneità, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2019.

Bibliografia secondaria

DI MATTEO Piersandra, Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, Napoli, Cronopio, 2015.

HOFMANNSTHAL Hugo, Lettera di Lord Chandos, a cura di LACCHIN Giancarlo, Milano, Mimesis, 2007.

LONGHI Claudio, La regia in Italia, oggi. Per Luca Ronconi, dalla rivista «Culture Teatrali», n.25, Lucca, La
casa Usher, 2016.

NIETSCHE Friedrich, Scritti su Wagner, traduzione di MASINI Ferruccio e GIAMETTA Sossio, Milano,
Adelphi, 1979.

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