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II
«Et facciam dolçi canti»
Studi in onore di Agostino Ziino
in occasione del suo 65° compleanno
LIM
a cura di
Bianca Maria Antolini
Teresa M. Gialdroni
Annunziato Pugliese
TOMO I
VI
SOMMARIO
TOMO II
VIII
SOMMARIO
IX
SOMMARIO
tenze e recuperi (1946-1961), da Mantelli a Pirrotta, con una cauda sul linguaggio
radiofonico
1357 Antonino Marcellino
«“Un Wozzeck italiano”! o forse… un “Pizzetti dodecafonico”!». La nuova
colonia di Alfredo Sangiorgi: appunti per un’edizione
1383 Guido Salvetti
Le opere sinfoniche di Ottavio Ziino
1407 Giovanni Morelli
Caratteri e forme di «virtuous unsal(e)ability» nella «Begleitungsmusik op.34»: da
Schoenberg 1929-1930 agli Straub 1973
1435 Guido Olivieri
Problems of Attribution in a Sketch for Luciano Berio’s Tempi concertati
1447 Philip Gossett
Staging Italian Opera: Dario Fo and Il viaggio a Reims
1467 Enrico Fubini
La musica e il linguaggio degli affetti
1477 Giorgio Adamo
L’endecasillabo nei canti di tradizione orale. Strutture profonde e strutture di super-
ficie
1497 Francesco Giannattasio
L’etnomusicologia e l’asse di equilibrio. Alcune riflessioni a partire da un recentis-
simo scritto di Agostino Ziino
X
Luigi Ferdinando Tagliavini
Con le parole scelte quale titolo del presente scritto inizia il recitativo con cui si
apre la sezione vocale del finale della nona sinfonia beethoveniana, recitativo che
era già stato annunciato nella sezione introduttiva del movimento dai violoncelli
e contrabassi. Un confronto tra le due versioni, strumentale e vocale, della con-
clusione della prima frase mostra un singolare, ma – tengo subito a precisare –
apparente divario. Gli strumenti concludono la frase sulle due differenti note
Sol-Fa, il cantante sulla ripetizione della stessa nota Fa:
nicht die - se Tö - ne!
È chiaro qui che un’esecuzione alla lettera, senza l’integrazione delle corri-
spondenti appoggiature al canto, creerebbe una fastidiosa dissonanza, oltre che
una vera e propria assurda inversione di ruoli (linea melodica ‘ornata’ dagli stru-
menti e conservata ‘piatta’ dalla cantante).
Innumerevoli stilizzazioni strumentali del recitativo vocale sono esplicite su
questo problema: le conclusioni piane (o femminili, che dir si voglia) delle frasi
o dei membri di frase non vengono qui mai espresse graficamente da due note
di eguale altezza, ma la prima di esse è scritta quale appoggiatura superiore o,
meno frequentemente, inferiore. Mi limiterò a ricordare, dello stesso Beetho-
ven, i recitativi che figurano in due Sonate per pianoforte, rispettivamente
all’inizio della ripresa del primo movimento dell’op. 31 n° 2 in Re minore e
nell’Adagio ma non troppo dell’op. 110 in La bemolle maggiore, di Weber il reci-
tativo intercalato nella Romanza del Concerto per clarinetto in Mi bemolle
maggiore op. 74 e, se mi è consentito citare un ‘minore’, tra i fedeli seguaci della
maniera rossiniana, il primo dei tre movimenti di un’Elevazione in Re minore
per organo di Padre Davide da Bergamo, alias Felice Moretti:1
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«O FREUNDE, NICHT DIESE TÖNE!»
Ci si potrebbe chiedere perché nel campo della musica vocale, sino ad Otto-
cento inoltrato, tale appoggiatura, d’obbligo nel recitativo, ma di prammatica
pure su tante parole finali piane e sdrucciole dell’aria e di forme consimili, non
venisse notata come tale, ma scritta alla stessa altezza di quella finale risolutiva. Si
tratta evidentemente d’una sorta di ‘ipocrisia’: quando la prassi ebbe inizio il
compositore si faceva scrupolo di scrivere, in deroga alle classiche norme, una
nota dissonante non preparata, presa spesso, per di più, di salto, sul tempo forte.
L’iniziativa ne veniva allora lasciata al cantante, in bocca al quale ciò che al com-
positore sarebbe stato vietato scrivere diveniva una lecita ornamentazione inter-
pretativa. E l’abitudine di questo ‘scambio di ruoli’ si radicò a tal punto da
indurre Pier Francesco Tosi ad affermare nel 1723 che all’allievo di canto le
appoggiature «diventeranno dal continuo esercizio così famigliari che a pena
uscito delle lezioni si riderà di que’ compositori che le marcano per esser creduti
moderni o per dar ad intendere che sanno cantar meglio dei vocalisti».2
La discrepanza tra espressione grafica ed esecuzione poteva, è vero, mettere in
difficoltà coloro che non avevano completa familiarità con la prassi del canto
italiano. Benché tale prassi fosse assai diffusa in Germania ove persino nel campo
della musica sacra protestante s’era adottata dagli inizi del Settecento – non
senza contrasti e polemiche – la poesia ‘madrigalesca’ coniata su modello ita-
liano e si era adeguata la forma della cantata da chiesa a quella dell’opera italiana,
imperniata sull’avvicendamento di aria e recitativo, Telemann si sentiva in
dovere, dando alle stampe nel 1725/26 la sua raccolta di cantate Harmonischer
2 PIER FRANCESCO TOSI, Opinioni de’ cantori antichi e moderni o sieno Osservazioni sopra il canto figurato,
Dalla Volpe, Bologna, 1723 (edizione anastatica, assieme alla traduzione tedesca pubblicata e com-
mentata da Johann Friedrich Agricola nel 1757 quale Anleitung zur Singkunst a c. di Erwin R.
Jacobi, Moeck, Celle 1966), p. 29.
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Gottesdienst, di chiarire che «nel recitativo i cantanti non devono cantar sempre
come sta scritto nelle note, ma devono di quando in quando servirsi d’un cosid-
detto accento», parole corredate di eloquenti esempi musicali.3 Il termine Accent
riferito all’appoggiatura esprime bene la funzione di traduzione musicale
dell’accento prosodico e verrà impiegato anche da autori italiani, tra cui Giam-
battista Mancini, secondo cui «tutto il merito del recitativo consiste, e sta nel
ben collocare l’appoggiatura, o sia accento musicale qual suol chiamarsi comu-
nemente».4
Ancora nel penultimo decennio del XVIII secolo un compositore italiano
attivo in Inghilterra, Domenico Corri,5 si preoccuperà di richiamare l’atten-
zione sulla difficoltà che nella musica vocale italiana è creata dalla divergenza tra
notazione ed esecuzione: «Infatti, sia un’aria sia un recitativo, se cantati esatta-
3 GEORG PHILIPP TELEMANN, Harmonischer Gottesdienst oder geistliche Cantaten zum allgemeinen
Gebrauche […], [Hamburg 1735/26], edizione moderna in G. PH. TELEMANN, Musikalische Werke
hrsg. im Auftrag der Gesellschaft für Musikforschung, vol. II (a c. di G. Fock). L’istruzione e gli
esempi si trovano nel Vorbericht, che nella citata edizione moderna è riprodotto in grafia normaliz-
zata. Nella forma originale esso si può leggere in G. PH. TELEMANN, Singen ist das Fundament zur
Music in allen Dingen – Eine Dokumentenaussammlung, Wilhelmshaven 1981 (Taschenbücher zur
Musikwissenschaft, 80), pp. 130-138, ove tuttavia gli esempi musicali sono riprodotti privi del
testo poetico. L’istruzione (che nell’originale suona «Beym Recitatif […] haben die Sänger in
acht zu nehmen, daß sie nicht allemal so singen, wie die Noten da stehen, sondern sich hin und
wieder eines so genannten Accents bedienen») è riprodotta, tra l’altro, assieme agli esempi, in
LUIGI FERDINANDO TAGLIAVINI, «Sposa! Euridice!» – Prosodischer und musikalischer Akzent, in De
Editione Musices – Festschrift Gerhard Croll zum 65. Geburtstag, Laaber, Laaber 1992, pp. 177-202, in
particolare p. 182.
4 GIAMBATTISTA MANCINI, Pensieri, e riflessioni pratiche sopra il canto figurato, Stamp. Ghelen, Vienna
1774, pp. 167-168; edizione corretta e ampliata sotto il titolo di Riflessioni pratiche sul canto figurato,
Stamp. Galeazzi, Milano 1777 (ristampa anastatica Forni, Bologna 1970), p. 239.
5 DOMENICO CORRI, A Select Collection of the Most Admired Songs, Duets &c. From Operas in the
highest esteem, And from other Works, in Italian, English, French, Scotch, Irish, &c. &c. In three Books,
John Corri, Edinburgh s.a. (1781-1785); in seguito (tra il 1794 e il 1799) è apparso un quarto
volume: Select Collection of the Most Admired Songs, Duetts […] in Four Books […] The Fourth of
Songs, Rondos, Duetts, Trios […] in the English, French & Scotch Languages […], Corri, Dusseck &
C°, London & Edinburgh, s. a. (edizione anastatica dei quattro volumi a c. di Paola Bernardi e
Gino Nappo, Associazione Clavicembalista Bolognese, Bologna-Roma 1990-1993, con tradu-
zione italiana della parte teorico-didattica; prefazione del quarto volume a c. di Pio Pellizzari, a
cui si deve l’accertamento dell’esistenza di tale volume). La raccolta di Corri è redatta al fine di
ovviare alle inesattezze e alle lacune che Corri stesso deplora nella notazione corrente; egli adotta
così una scrittura il più possibile vicina alla realtà esecutiva, notando ornamenti, colorature,
cadenze, segni dinamici, di fraseggio e di respiro, realizzazione del basso continuo per il cembalo
e, ciò che più qui ci interessa, tutte le appoggiature necessarie o da lui ritenute opportune. Sulla
datazione di quest’opera cfr. TAGLIAVINI, «Sposa, Euridice!», pp. 201-202. Quanto all’importanza
della testimonianza di Corri cfr. La vocalità nel Settecento attraverso la testimonianza di D. Corri compo-
sitore, editore e didatta, a. c. di Paola Bernardi e Gino Nappo – Il Recitativo nella prassi esecutiva del
XVIII secolo – Interventi [ai seminari sulla vocalità nel ’700, Viterbo, 29 novembre 1988-23 dicembre
1991] di Alfonso Antoniozzi, Paola Bernardi, Alessandra Campana, Carlo Marinelli, Gino Nappo,
Gescom, Viterbo 1992 (Gruppo di ricerca e sperimentazione musicale - Anno XVIII).
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6 Le istruzioni di Corri si trovano all’inizio del primo volume nella Explanation of the Nature and
Design of the following Work, abbracciante le pp. (1)-(10) (la numerazione delle pagine introduttive
tra parentesi è originale). I passi qui citati si leggono a p. (2) e così suonano nell’originale inglese:
«Indeed, either an air, or recitative, sung exactly as it is commonly noted, would be a very inex-
pressive, nay, a very uncouth performance» e «not only the respective duration of the notes is scar-
cerly even hinted at, but one note is frequently marked instead of another, as in the case where a
note is repeated, instead of that note with its proper appoggiatura or grace».
7 La problematica del rapporto tra metrica del verso e prosodia musicale è stata da me più ampia-
mente trattata nel già citato articolo «Sposa! Euridice».
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tica mi sono più volte soffermato su tali testimonianze.8 Mi limiterò qui a ricor-
dare per il XVIII secolo i nomi, in parte qui già citati, di Giovambattista Man-
cini,9 Vincenzo Manfredini10 e Domenico Corri,11 per il secolo seguente quelli
di Nicola Vaccai12 e di Manuel Garcia.13 Quest’ultimo è certo la maggiore auto-
rità nel mondo del canto ottocentesco, autorità resa ancor più significativa dagli
stretti legami ch’egli, al pari del padre Manuel del Pòpulo Vicente Rodríguez
(in arte Manuel Garcia) e delle sorelle Maria Malibran e Pauline Viardot, ebbe
con Rossini e il suo ambiente. L’‘obbligo’ dell’appoggiatura trova in lui il più
rigoroso assertore; egli giunge persino a sfidare il lettore, proponendogli tre
grandi recitativi, Sposa, Euridice dall’Orfeo di Gluck, Ma qual mai s’offre, oh Dei!
dal Don Giovanni di Mozart e Chi per pietà mi dice dal Sacrificio d’Abramo (dramma
8 Oltre al già citato articolo «Sposa! Euridice», mi permetto di rinviare alle prefazioni delle edizioni
critiche da me curate di W. A. MOZART: Mitridate, Ascanio in Alba e Betulia liberata (W. A. MOZART,
Neue Ausgabe sämtlicher Werke, Serie II, Werkgruppe 5, Bände 4 e 5 e Serie I, Werkgruppe 4, Band
2, Bärenreiter, Kassel, rispettivamente 1966, 1956 e 1960).
9 Cfr. MANCINI, Riflessioni pratiche.
10 VINCENZO MANFREDINI, Regole armoniche o siano precetti ragionati per apprendere i principi della musica
- Seconda edizione corretta ed accresciuta, Adolfo Cesare, Venezia 1797, Parte III, Capitolo III, § 1 (p.
65): Dell’Appoggiatura: «se il sonatore non è rigorosamente obbligato di eseguire un’appoggiatura,
che non è indicata dal compositore, non è lo stesso del cantante, il quale (specialmente nel recita-
tivo) vedendo due note uguali di valore, e di suono, la prima di esse, soprattutto quando è posta in
un tempo forte, deve considerarla come un’appoggiatura all’insù, cioè eseguirla un tono, o un
mezzo tono più alta [… ]».
11 Cfr. CORRI, A Select Collection.
12 NICOLA VACCAJ, Metodo pratico di canto italiano per camera, presso l’autore, Londra 1833, Lezione
XIV: Il Recitativo. Quest’opera ha avuto innumerevoli riedizioni e traduzioni. Mi servo di quella di
Ricordi, con testo francese a fronte, databile 1837 (n° edit. 9768).
13 MANUEL GARCIA, Ecole de Garcia - Traité complet de l’art du chant, Chez l’auteur, Paris 1840 (recte
1841); si tratta della prima edizione, limitata alla prima parte del trattato; la seconda parte, assieme
alla seconda edizione della prima parte apparve sotto lo stesso titolo nel 1847, ibidem (ristampa
anastatica Minkoff, Genève 1985). Già nel 1842 Ricordi pubblicò la versione italiana della prima
parte, a cura di Alberto Mazzucato (n. ed. 13081), ripubblicandola poi assieme alla seconda parte
(n. ed. 13082) come seconda edizione. Sotto gli stessi numeri editoriali è poi riapparsa come
Scuola di Garcia - Trattato completo dell’arte del canto di EMANUELE GARCIA (figlio) tradotto dal francese da
ALBERTO MAZZUCATO - Terza edizione riveduta e corretta dal traduttore, Ricordi s.a. Le vicende edi-
toriali di quello che può essere considerato come il più celebre e ampio trattato di canto e che ha
avuto enorme diffusione in varie lingue sino alla nostra epoca sono chiaramente delineate da
MARCO BEGHELLI, I trattati di canto italiani dell’Ottocento - Bibliografia - Caratteri generali - Prassi esecu-
tiva - Lessico (Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bologna, a.a. 1993-94), Bologna 1995.
Questo importante lavoro, non ancora disponibile in forma di pubblicazione, mi è stato offerto
dallo stesso Beghelli e la sua consultazione è stata preziosa per la stesura del presente articolo. È
stata recentemente ripubblicata, corredata di traduzione italiana a fronte, da apparato critico, da
note e da un’appendice, l’edizione del 1872: MANUEL GARCIA, Traité complet de l’art du chant en
deux parties / Trattato completo dell’arte del canto in due parti (1872) francese/italiano a c. di Stefano
Ginevra, G. Zedde, Torino 2001 (I metodi classici per la vocalità - Collezione di trattati del secolo
XIX sul canto in edizione critica). Salvo indicazione contraria, tutte le citazioni e i riferimenti al
trattato di Garcia verrano fatti nel presente articolo sulla base della citata Terza edizione italiana
riveduta e corretta da A. Mazzucato, che l’ha corredata di alcune interessanti annotazioni.
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LUIGI FERDINANDO TAGLIAVINI
17 BERNARD PAUMGARTNER, Von der sogenannten Appoggiatur in der älteren Gesangsmusik und der
Notwendigkeit ihrer Anwendung in der heutigen Aufführungspraxis «Schweizer pädagogische Blätter»,
XIV, gennaio 1953, pp. 1-15, rist. in «Jahresbericht der Akademie für Musik und darstellende
Kunst ‘Mozarteum’», Salzburg 1954-55, pp. 7 e seguenti. Paumgartner riporta, tra l’altro, i signifi-
cavi esempi offerti dalla nona sinfonia di Beethoven, da Così fan tutte e dal Freischütz or ora citati.
18 CASPAR ZIEGLER, Von den Madrigalien, einer schönen und zur Musik bequemsten Art Verse, wie sie nach
der Italiener Manier in unserer Deutschen Sprache auszuarbeiten […], Hartmann, Wittenberg 1653. La
versione originale tedesca del passo qui citato è riprodotta in LUIGI FERDINANDO TAGLIAVINI,
Studi sui testi delle cantate sacre di J. S. Bach, CEDAM-Bärenreiter, Padova-Kassel 1956, pp. 17-18.
19 Cfr. i testi cit. alla nota 3.
20 JOHANN FRIEDRICH AGRICOLA, Anleitung zur Singkunst - aus dem Italienischen des Herrn Peter Franz
Tosi […] mit Erläuterungen und Zusätzen, Winter, Berlin 1757; ristampa anastatica con prefazione
ed appendice di Erwin R. Jacobi e, in allegato, il facsimile dell’edizione originale (1723) delle
Opinioni di Tosi, Moeck, Celle 1966; cfr. sopra nota 2.
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che qui l’appoggiatura può essere sostituita dal prolungamento della nota accen-
tata, ma soggiunge che «ciò non di meno, in molti casi l’appoggiatura può
impiegarsi vantaggiosamente»; aggiunge poi che è bene, se ciò viene fatto, che
le due sillabe (cioè quella accentata e la finale) appartengano alla stessa parola.21
Ma già all’inizio del XIX secolo nella Méthode de chant du Conservatoire de Paris,
basata sulla scuola dell’italiano Bernardo Mengozzi ed adottata nel 1803 quale
testo scolastico dal Conservatorio parigino, si dedica largo spazio al problema
dell’appoggiatura nel recitativo e si patrocina l’adozione del metodo italiano, se
pur «avec quelques restrictions».22
Se l’appoggiatura è parte integrante del recitativo, il suo impiego, come già
s’è accennato, va esteso anche all’aria allorché le due ultime sillabe d’un verso
piano o, talora, d’una parola piana concludente una sezione del verso vengono a
corrispondere a due note che, nella loro espressione grafica, sono d’eguale
altezza e sono seguite da una pausa (anche qui, nel caso di parole sdrucciole, si
tratta di tre note, la prima delle quali va tramutata in appoggiatura). Il primo
volume dell’antologia di Corri offre un’eloquente e coerente esemplificazione
di questa prassi di cui anche Garcia proclamerà l’esigenza affermando: «Allorché
le due prime note della misura terminano un membro di frase, la prima nota
porta l’accento prosodiaco, e per questo è d’uopo convertirla in un’appoggia-
tura» e dichiarando che «l’effetto delle due note eguali non sarebbe sopporta-
bile».23
V’è tuttavia nell’aria la possibilità, soprattutto – sempre secondo Garcia –
allorché l’armonia «non permette che si alteri la prima delle due note», di collo-
care una o più note ornamentali (che Garcia designa egualmente come «appog-
giature») tra i due suoni. L’essenziale è di «sfuggire la monotonia delle due note
eguali» consecutive, che Garcia considera inammissibili; di tale maniera egli
offre ben diciassette varianti,24 delle quali alcune risultano radicate in un’antica
tradizione di cui ancora una volta troviamo testimonianza nell’antologia di
Corri. Talora poi esse vengono espressamente notate dai compositori, come la
quarta formula dell’elenco di Garcia, che vediamo tra l’altro impiegata da
Mozart nel recitativo di Susanna Giunse alfin il momento (Le Nozze di Figaro, Atto
IV, Scena X) alla fine del verso «Oh come par che all’amoroso foco», ove l’anda-
mento per salti della linea melodica avrebbe reso poco plausibile la normale
appoggiatura:
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A parte isolati casi in cui l’appoggiatura viene scritta per evitare equivoci o
per imporre una scelta (ad esempio tra appoggiatura discendente o ascen-
dente25), o ancora nel caso di formule meno usuali,26 è soprattutto a cominciare
25 L’eccezionale indicazione delle appoggiature superiori scritte in note reali (crome) nel citato reci-
tativo accompagnato di Donna Anna, sulle parole «Quel sangue … quella piaga … quel volto…»
(Don Giovanni, Atto I, Scena III, Recitativo accompagnato Ma qual mai s’offre, oh Dei, bb. 18-23)
può certo essere attribuibile al loro carattere di accenti espressivi, oltre che tonici e prosodici, ma
può altresì spiegarsi considerando che il cantante avrebbe avuto qui la possibilità, suggerita dagli
intervalli di semitono, d’impiegare appoggiature ascendenti.
26 È il caso d’un particolare tipo di clausola melodica peculiare soprattutto del recitativo della prima
metà del XVIII secolo e frequentissima, tra l’altro, nelle cantate ed oratori di J. S. Bach e di cui
riporto qui uno degli esempi di Telemann (cfr. nota 3):
Benché non mi sia mai accaduto di sentirla eseguita, in quanto completamente ostica al ‘gusto’ di
ogni interprete odierno (a causa della doppia ricorrenza consecutiva dello stesso intervallo di
seconda discendente), l’appoggiatura era anche qui ritenuta necessaria, come ci dimostra a due
riprese Telemann; la cosa è confermata da Corri, che la propone nel recitativo accompagnato Non
temer, idol mio dal Perseo di Sacchini (Select Collection, vol. I, p. 48, b. 5) e ancora da Vaccai (presso
cui ricorre uno degli ultimissimi, allora sporadici, esempi di tale formula, sulla parola «difendi» nel
recitativo riportato per illustrare l’impiego dell’appoggiatura, su cui cfr. VACCAJ, Metodo pratico,
Lezione XIV: Il Recitativo). Due altre ricorrenze s’incontrano nel Barbiere di Siviglia di Paisiello
(recitativo precedente l’aria del conte Saper bramate alla fine del verso «su l’aria e strofe di questa
canzone» e alla penultima del recitativo di Don Basilio prima dell’aria La calunnia, mio signore).
L’appoggiatura è in entrambi i casi eccezionalmente notata, quasi ad ammonire il cantante che
anche in questa formula, allora ormai poco consueta, essa va impiegata. Presenti nelle edizioni
dell’opera, tra cui segnalo la Partitura a piena orchestra pubblicata da Guidi a Firenze nel 1868, le
appoggiature si confermano presenti nell’autografo di Paisiello, su cui è basata la recente edizione
critica a c. di Francesco Paolo Russo, Laaber Verlag, Laaber 2001 (Concentus Musicus, Band 11/
1-2); cfr. il vol. I, pp. 196 e 276.
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dal quarto decennio del XIX secolo che compositori ed editori iniziano a notare
esplicitamente le appoggiature, avvalendosi tuttavia normalmente d’una nota-
zione, da tempo in vigore, che potrebbe prestarsi ad equivoci, e precisamente
e non
era già stato precisato da Joseph Haydn27 ed è certo in tal senso che va intesa la
parola «intieramente» dell’avvertimento di Vaccai: «Allorché s’incontrano due
note simili nel finire d’un periodo o anche più note simili nel mezzo, quella ove
cade l’accento della parola dev’essere intieramente convertita in appoggiatura
della seguente».28
Va tuttavia osservato che la notazione delle appoggiature nelle edizioni e nei
manoscritti musicali ottocenteschi29 si presenta per lo più lacunosa e incoerente,
sì da poter ingenerare incertezze ed equivoci.
La ricchezza della documentazione sulla prassi dell’appoggiatura è tale che si
può affermare che si tratta d’uno dei problemi di prassi esecutiva sui quali
dovrebbero sussistere meno dubbi. Ma così non è. E l’ignoranza o la voluta
inosservanza di questo vero e proprio ‘obbligo’ costituisce tuttora un punctum
dolens nel quadro dell’interpretazione della musica vocale sette-ottocentesca,
anche quando essa ci viene proposta da specialisti o da chi pretenderebbe di
27 Si vedano i chiarimenti di Haydn sull’esecuzione dell’Applausus da lui composto nel 1768 per
l’abbazia cistercense di Zwettl, edito a c. di H. Wiens e I. Becker-Glauch, München-Duisburg
1969 (JOSEPH HAYDN, Werke, hrsg. vom J. Haydn-Institut Köln, XXVII/2). L’esempio qui dato è
appunto quello proposto da Haydn.
28 VACCAJ, Metodo pratico, Lezione XIV: Il Recitativo.
29 Tra i compositori che con più accuratezza hanno notato le appoggiature dei recitativi va annove-
rato Bellini. Ciò non solo trova riflesso nelle correnti edizioni delle sue opere, ma può essere con-
statato nei suoi autografi, tra cui spicca quello di Norma. Cfr. VINCENZO BELLINI, Norma - Facsimile
della Partitura Autografa, Reale Accademia d’Italia, Roma 1935 (in due voll.). Su tale aspetto s’è
soffermato Marco Beghelli nel suo saggio D’acciaccature, d’accenti e d’altre minuzie, di imminente
pubblicazione negli atti del convegno «Vincenzo Bellini: verso l’edizione critica» organizzato
dall’Accademia Musicale Chigiana di Siena dall’1 al 3 giugno 2000.
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godere di tale qualifica. E vorrei qui far ritorno al punto da cui ho preso le
mosse, al recitativo della Nona beethoveniana. Si tratta d’un caso straordinario in
cui il compositore stesso suggerisce al cantante la corretta esecuzione
dell’appoggiatura; il compito di ‘suggeritore’ è da lui affidato ai bassi degli archi
che, come s’è già sottolineato, alcuni minuti prima dell’entrata del Baß-Bariton,
gli fanno ascoltare nella maniera in cui vanno esattamente eseguite le note della
prima frase che egli dovrà cantare. Sembrerebbe assurdo che il suggerimento
non venisse seguito;30 eppure tale assurdità (ovverosia un grave errore di lettura
dettato dall’inveterata abitudine d’una cieca ‘fedeltà’ al testo scritto) caratterizza
la maggioranza delle interpretazioni immortalate da registrazioni discografiche,
da quelle d’esecuzioni dirette da venerati maestri degli anni Trenta e Quaranta a
quelle recentissime, tra le quali spiccano per l’inosservanza della prassi d’obbligo
– incredibile dictu – persino un paio di esecuzioni con strumenti d’epoca. Delle
felici eccezioni31 fanno parte le interpretazioni di Toscanini,32 e ciò non meravi-
glia troppo, sapendo quanto il maestro parmense fosse solidamente radicato
nella più autentica tradizione.
Ma com’è possibile tutto questo? La ragione va cercata in ciò che definirei un
‘complesso anti-appoggiatura’ che ha contaminato il mondo musicale da
quando, ormai più d’un secolo fa, con la buona intenzione di combattere gli
‘arbìtri’ dei cantanti, s’è voluto ‘finalmente’ iniziare ad eseguire la musica del
passato ‘così come sta scritta’, cestinando indiscriminatamente al tempo stesso
iniziative arbitrarie e tradizioni preziose. Ancor oggi riesce a molti estrema-
mente difficile liberarsi da tale condizionamento. Così, nel migliore dei casi,
30 L’appoggiatura sulla prima sillaba della parola Töne è del resto resa esplicita in tante edizioni per
pianoforte, ad iniziare da quelle per pianoforte solo (Breitkopf & Härtel, Lepzig 1864) e per due
pianoforti (Schott, Mainz 1851) di Franz Liszt. La necessità della sua applicazione è poi indicata,
con l’appoggio di testimonianze autorevoli, dalla recente edizione critica: LUDWIG VAN BEETHO-
VEN, Symphonie Nr. 9 in d moll Op. 125 - Urtext a c. di Jonathan Del Mar, Bärenreiter, Kassel 20012
con apparato critico (Critical Commentary ) in volume separato.
31 Ricorderò tra la rare eccezioni quelle delle esecuzioni dei Wiener Philarmoniker diretti da Felix
Weingarten, con il cantante Richard Mayr nel 1935 e dell’orchestra del Concertgebouw di
Amsterdam diretta da Willem Mengelberg nel 1940, con il cantante Willem Revelli.
32 Mi riferisco alle esecuzioni toscaniniane del 1936, del 6 febbraio 1938 rispettivamente alla testa
del New York Philarmonic Orchestra e del NBC Symphonic Orchestra, entrambe con Ezio
Pinza (edite nei CD LYS 4 581 «Arturo Toscanini conducting the New York Philarmonic-Sym-
phony Orchestra», voll. 3/2 e 4, la seconda esecuzione, registrata da una trasmissione radiofonica,
ascoltabile anche nel disco ATRA 3007 a cura della A. Toscanini Recording Association), quella del
1939 con la stessa orchestra e, come mi informa Marco Beghelli, con il basso Nicola Moscona
(divulgata, assieme all’intero ciclo delle sinfonie beethoveniane dirette da Toscanini in tale anno,
tramite il disco ATS 1120/7, ove purtroppo non figurano i nomi dei cantanti) e infine quella
notissima registrata il 31 marzo e il 1° aprile 1952 sempre con l’orchestra della NBC e con il bari-
tono Norman Scott (ascoltabile, tra l’altro, nel disco LP RCA VL 46002). Per le indicazioni rela-
tive alle esecuzioni e alle registrazioni discografiche mi sono stati di prezioso aiuto i colleghi
Marco Beghelli e Maurizio Giani.
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33 CORRI, Select Collection, Vol. IV, pp. 67-69. Devo a Pio Pellizzari la segnalazione di questo interes-
sante caso.
34 Mi riferisco, per l’ultimo verso citato, alla batt. 37. Curiosamente, alla batt. 12 Corri omette l’ori-
ginale appoggiatura di quinta discendente.
35 Ove Masetto è curiosamente mutato in ma zitto…
36 LOUIS LABLACHE, Méthode complète de Chant ou Analyse raisonnée des Principes d’après lesquels on doit
diriger les Etudes pour développer la Voix, la rendre legère [sic] et pour former le goût avec Exemples
démonstratifs Exercices et Vocalises gradués, Canaux, Paris 1840. Mi servo dell’edizione con testo fran-
cese e traduzione tedesca a fianco), Schott, Mayence s.a. (num. edit 5920: per soprano o tenore [il
numero editoriale per basso o baritono è 6686]). Pare che questo trattato, scritto in francese, non
sia del napoletano Lablache ma, come afferma tra l’altro Garcia, semplicemente pubblicato sotto il
suo nome (Scuola di Garcia, Parte prima, p. 40, in nota); cfr. anche BEGHELLI, I trattati di canto ita-
liani, pp. 94-95.
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Alla fine della frase questa sostituzione può anche farsi mediante una nota inferiore,
se essa è preparata e se si trova a distanza d’un solo semitono.37
È un’affermazione che coincide con quelle di tanti altri autori, salvo che qui
si dice che l’appoggiatura non «deve», ma «può» essere fatta.38
Ma il guaio avviene allorché i detrattori della prassi dell’appoggiatura, anzi-
ché citare obbiettive testimonianze, offrono interpretazioni tendenziose e
quindi errate dei testi. È il caso di Erik Smith che, in un suo commento ad
un’edizione discografica dell’Italiana in Algeri,39 afferma sprezzosamente che
«purtroppo l’inflessibilità di quei critici che ritengono che l’appoggiatura debba
essere fatta in ogni possibile occasione sembra essere inversamente proporzio-
nale alla loro conoscenza dell’argomento». Ma proprio la ‘flessibilità’ di cui
Smith si fa difensore dimostra, ahimé, di non essere in proporzione diretta con
la conoscenza del problema da parte di questo autore; viene infatti fatta una
totale confusione tra l’appoggiatura impiegata quale ‘accento’ nel recitativo e
l’appoggiatura quale può essere introdotta ad libitum e con il dovuto criterio
nell’aria e viene a tal uopo invocata l’autorità di Mancini che mette in guardia
contro un uso indiscriminato di tale ornamento su tutte le parole del tipo di
«tiranno», «crudele», «spietato» in un’aria, in particolare in un’‘aria d’invettiva’.40
Il tentativo che mi sembra più apprezzabile compiuto al fine di ‘ridimensio-
nare’ l’uso dell’appoggiatura, sia pur limitatamente al recitativo mozartiano, è
quello di Frederick Neumann.41 Quest’autore si spinge tuttavia sulla pericolosa
via di voler ridimensionare anche il valore e l’importanza di autorevoli testimo-
37 LABLACHE, Méthode complète, Section troisième, Article 2. Du Récitatif, pp. 96-97: «Depuis longtemps
les chanteurs Italiens ont introduit l’usage de faire fréquemment des Appoggiature ou plutôt des
Substitutions de notes dans certains endroits du Récitatif: cela donne en effet plus d’élégance et
détruit un peu la monotonie résultant de la répétition fréquente des mêmes Sons.
Il est impossible de déterminer d’avance tous les endroits où cette substitution de note est pratica-
ble: mais en général partout où le Tems fort d’un commencement ou d’une fin de phrase de
Récitatif est formé de deux notes on peut en mettre une d’un degré plus haut. [Seguono qui i tre
esempi 19-21].
A la fin de la phrase, cette substitution peut même se faire quelquefois par une note inférieure si
elle est préparée et si elle est à la distance de demi-ton seulement» [segue l’esempio 22].
Si aggiunge (p. 98) che le appoggiature si fanno meno sovente nel recitativo francese; è bene, se si
eseguono, che le due sillabe appartengano alla stessa parola (seguono i due esempi 23 e 24).
L’ultima raccomandazione verrà ribadita da Garcia (Scuola di Garcia, Parte Seconda, pp. 66-67).
38 Se, come s’è detto, il trattato non è stato scritto da Lablache e il non meglio identificabile vero
autore va cercato, com’è ben verosimile, in Francia, ove, come s’è visto, la pratica dell’appoggia-
tura non era generalizzata, la mancanza di rigore nel richiederne l’impiego può essere perfetta-
mente spiegata.
39 Quaderno annesso all’edizione discografica dell’Italiana in Algeri registrata a Londra nel 1964 sotto
la direzione di Silvio Varvisio, disco Decca ZAL 6191-6196, SET 262-264.
40 MANCINI, Riflessioni pratiche, p. 143.
41 FREDERICK NEUMANN, Vorschlag und Appoggiatur in Mozarts Rezitativ, «Mozart-Jahrbuch» 1980-
1983, pp. 363-384.
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42 LUDWIG FINSCHER, «Che farò senza Euridice?» - Ein Beitrag zur Gluck-Interpretation, in Festschrift
Hans Engel, hrsg. von Horst Heussner, Bärenreiter, Kassel 1964, pp. 96-110.
43 NEUMANN, Vorschlag und Appoggiatur, p. 369.
44 TAGLIAVINI, «Sposa! Euridice!», p. 190.
45 CORRI, A Select Collection, vol. 1, p. (4).
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mai rigettare Garcia quale «infido testimone per il recitativo di Mozart» sempli-
cemente per i suoi suggerimenti46 sull’esecuzione della frase di Donna Anna
«Padre mio, caro padre» (Don Giovanni, Atto I, Scena III, Recitativo accompa-
gnato, batt. 31-32)? Forse per la breve, inoffensiva appoggiatura sulla seconda
sillaba di «caro»? Le altre appoggiature sono quelle ‘obbligatorie’, del resto per-
tinentemente suggerite nell’edizione critica a cura di Wolfgang Rehn e Wolf-
gang Plath.47 E su che si basa l’affermazione che nel dialogo tra Don Giovanni e
Zerlina (Atto I, Scena IX) Garcia, «evidentemente irritato» dalla triplice ricor-
renza delle note dello stesso accordo sulle parole «quegli occhi bricconcelli, quei
labbretti sì belli, quelle ditucce candide e odorose», si sarebbe concesso la libertà
di modificare (umkomponieren) il testo mozartiano per «correggere» una pretesa
monotonia?48 In realtà Garcia49 riproduce con assoluta fedeltà il testo di Mozart
e si limita a commentare che «i buoni cantanti […] evitano i valori eguali, il
ritorno delle pause a distanze eguali, la ripetizione degli stessi suoni e la simme-
tria degli accenti»; nulla ci dice che qui Garcia suggerisca di ritoccare il testo
mozartiano che sembra citato solo quale eccezione alla regola; l’«abile cantante»
può tutt’al più scorgervi il suggerimento di mascherarne la simmetria sul piano
dell’interpretazione. È vero che fa storcere il naso l’osservazione di Garcia
secondo cui nei recitativi secchi, da lui definiti «parlanti» ed esclusivi alla sua
epoca dell’opera buffa, trattandosi generamente di «una specie di luoghi
comuni, l’artista è libero, senza offendere il compositore, di cangiarne la melo-
dia».50 Ma non mi sembra che tale asserzione basti da sola a controbilanciare
negativamente le messe preziosa di insegnamenti ch’egli ci offre nella sua scuola
di canto e, come afferma Neumann, a «squalificarlo», quanto piuttosto a farne
portavoce di un’usanza che – piaccia o non piaccia – era probabilmente radicata
da tempo immemorabile e s’inseriva perfettamente nella convinzione della sem-
pre più frequente «anonimità» compositiva del recitativo secco.51
46 Scuola di Garcia, Parte II, Cap. IV, sezione Dell’Espressione, p. 55. Cfr. NEUMANN, Vorschlag und
Appoggiatur, p. 370.
47 W. A. MOZART, Neue Ausgabe sämtlicher Werke, Serie II, Werkgruppe 5, Band 17, Bärenreiter, Kas-
sel 1968, p. 49.
48 NEUMANN, Vorschlag und Appoggiatur, p. 370.
49 Scuola di Garcia, Parte II, Cap. V, sezione Recitativo parlante, p. 66. Ritengo opportuno in questo
caso riprodurre il testo originale francese (dall’edizione del 1847 su cui afferma basarsi Neumann,
edizione qui sopra citata alla nota 13, p. 64): «Les chanteurs habiles ont grand soin d’introduire
une certaine variété dans la forme et dans le mouvement des cantilènes, c’est-à-dire qu’ils évitent
les valeurs égales, le retour des repos placés à distances égales, les répétitions des mêmes intona-
tions et la symétrie des accents».
50 Ivi, p. 65.
51 Mi fa notare Marco Beghelli che, tra i tanti, Rossini s’avvalse di anonimi collaboratori per la
composizione dei recitativi secchi almeno a partire da La pietra del paragone, già quindi al suo
secondo anno di carriera operistica.
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Un tipo d’appoggiatura che Neumann rifiuta, sempre nel quadro del linguag-
gio mozartiano, è quella che io stesso ipotizzai («deplorevolmente» secondo Neu-
mann) allorché curai per la Neue Mozart-Ausgabe l’edizione critica di Ascanio in
Alba:52 l’appoggiatura ascendente di quarta, anziché quella di seconda discen-
dente, dopo un salto ascendente da dominante a tonica, soluzione poi adottata di
quando in quando anche da altri curatori della stessa edizione mozartiana. Con-
fesso, a distanza di oltre quarantacinque anni, che non sono affatto sicuro che tale
formula convenga al recitativo mozartiano. Ma vorrei precisare che non si tratta
d’una mia ‘trovata’, bensì d’una movenza che ricorre frequentemente presso innu-
merevoli autori, da Rossini a Verdi,53 qui accertabile perché esplicitata in note
reali, ma non verificabile in epoca precedente, allorché ogni appoggiatura veniva
sottintesa. Eccone un esempio tratto da Il Pirata di Bellini:54
Per il resto Neumann si sforza di stabilire principi per l’uso o il non uso
dell’appoggiatura nel recitativo mozartiano, sforzi lodevoli ma, a mio avviso,
basati su criteri di giudizio e di gusto personali, che non trovano riscontro nelle
testimonianze di trattatisti e musicisti. Egli definisce fuori luogo l’appoggiatura
quando «è in contrasto con il carattere della linea melodica», quando essa
dovesse cadere su parole banali (alltäglich) nello stile ‘parlante’, oppure su parole
«esprimenti fermezza, risolutezza, decisione, odio, orrore o simili sentimenti, ai
quali non si addice il carattere tondo, gradevole dell’appoggiatura». Infine
l’appoggiatura potrebbe essere eseguita o piuttosto omessa a piacere nel caso di
movimenti ascendenti di grado o di salto, «ove l’ascesa melodica da sola è suscet-
tibile di esprimere l’accento prosodico». Per quanto riguarda il presunto condi-
zionamento dell’appoggiatura dal carattere della parola, ripeterò che ciò
riguarda semmai l’appoggiatura impiegata quale ornamento dal cantante
nell’aria e indipendentemente dall’accento prosodico; ma nel recitativo l’appog-
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57 WOLFGANG AMADEUS MOZART, Neue Ausgabe sämtlicher Werke, Serie II, Werkgruppe 5, Band 16,
Bärenreiter, Kassel 1973, vol. 2, pp. 507-509.
58 RUDOLF STEGLICH, Die Auszierungsweisen in der Musik W. A. Mozarts, «Mozart-Jahrbuch» 1955,
Salzburg 1956, pp. 181-237, in particolare p. 218 (ove correggo il rimando di Neumann alla p.
217).
59 Cfr. La lezione di Toscanini - Atti del Convegno di studi toscaniniani al XXX Maggio musicale fioren-
tino [6-11 giugno 1967] a c. di Fedele D’Amico e Rosanna Paumgartner con appendici a c. di
Franco Serpa, Giorgio Gualerzi, Raffaele Vègeto, Vallecchi, Firenze 1970: Quinta seduta, pp. 201-
202.
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Parte del saggio di Neumann è dedicato al repertorio italiano nel XIX secolo,
con particolare riguardo a Bellini e Verdi, e ciò perché l’instaurarsi dell’abitu-
dine di notare esplicitamente le appoggiature nel campo del canto in una lingua
«che deve aver subìto ben pochi cambiamenti» permetterebbe (come effettiva-
mente, almeno in parte, permette) di «trarre importanti conclusioni sulla recita-
zione musicale italiana dell’epoca di Mozart». Lascia tuttavia perplessi il fatto
che vengano tratte conclusioni da una notazione che, come già osservato,
mostra incoerenze e lacune e non consente affatto di affermare che l’appoggia-
tura sia da eseguire veramente solo dove essa è scritta. Ma l’excursus di Neumann
è di indiscutibile interesse e permette di seguire rapidamente l’evoluzione della
recitazione musicale sino all’ultimo Verdi, evoluzione che comporta radicali
cambiamenti, tra i quali proprio l’abbandono, in un contesto del tutto nuovo,
dell’obbligo dell’appoggiatura.60
Il primo caso altamente significativo – e perciò frequentemente citato – è
offerto dalle parole di Rigoletto «Venti scudi hai tu detto?» all’inizio della scena
della tempesta, ove Verdi prescrive che «Questo Recitativo dovrà essere detto
senza le solite appoggiature». La prassi doveva essere così radicata nei cantanti
che Verdi si sentì nuovamente in dovere di prescrivere una declamazione «senza
appoggiature» nell’ultimo atto di Otello, sulle parole di Emilia «Stolto! e tu il cre-
desti?». Ma il caso forse più sintomatico del mutato ductus melodico è dato dalla
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scena finale di Otello, ove il salto discendente di terza alla fine della frase «sotto
maligna stella» sembrerebbe proprio (per usare un’espressione di Neumann61) il
locus classicus dell’appoggiatura. Eppure abbiamo la prova che Verdi non la
volesse, prova offerta dalle tre registrazioni su disco che ci ha lasciato Francesco
Tamagno, primo interprete del ruolo.62
Vorrei qui ancora una volta ritornare al punto di partenza della presente
disquisizione, al recitativo della Nona sinfonia di Beethoven e, in particolare, alla
sua interpretazione sotto la bacchetta di Toscanini. Non solo Toscanini è uno
dei non molti maestri che esige dal cantante la doverosa esecuzione dell’appog-
giatura ma è anche il solo, a mia conoscenza, che si conceda una singolare
‘libertà’: anziché, come è notato nella partitura beethoveniana, attaccare il
primo ‘ritornello’ orchestrale esattamente sul secondo tempo della battuta, in
concomitanza della nota finale della prima frase del recitativo (dunque
sull’ultima sillaba di Töne), egli ritarda lievemente l’inizio della frase orchestrale,
sì da separarla da quella vocale.63 Con ciò egli, profondamente radicato nella tra-
dizione, si ricollega ad un’antica prassi che, attestata sin dalla metà del Sette-
cento, perdura per circa un secolo. Già Agricola nel 1757 afferma che
i brevi brani che gli strumenti devono suonare nel corso del recitativo accompagnato
devono essere eseguiti dopo l’inizio di battuta. E così pure il cantante non è legato
[alla battuta], ma deve solo attendere la fine di tali brevi brani, se non deve entrare in
concomitanza con quelli; così come, viceversa, gli strumentisti devono attederlo.64
Circa un secolo dopo il principio è ribadito da Garcia che afferma: «Nel reci-
tativo strumentale, la voce deve restar interamente sciolta dall’accompagna-
mento. Quindi gli accordi non si eseguiranno se non quando il canto avrà ces-
sato».65 Il primo e più significativo esempio offerto è tratto dal recitativo Ma qual
mai s’offre, o dei del Don Giovanni, notato conformemente al testo originale
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66 Ibidem.
67 CORRI, A Select Collection, vol. I, p. (3): Example II, Nr. 1. Tutto il brano di Giordani (recitativo
Come d’un tradimento seguito dall’aria Se al labbro mio non credi) è riprodotto poi alle pp. 1-4 del
primo volume dell’antologia.
68 «These staves are used in Recitative where the Bars are lengthened to show what addition of time
has been made». La spiegazione è ribadita nelle Explanations of Signs, Words, and Abbreviations figu-
ranti nel vol. I, pp. (8)-(9)
69 Ivi, vol. I, pp. 38-41.
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La prassi perdura nell’opera italiana sino al Verdi della prima maturità e ancor
oggi (se pur sempre più raramente) alcuni direttori d’orchestra ne sono consape-
voli. Ma l’esempio forse più straordinario e sconcertante è offerto da Donizetti
nella sua Maria di Rohan. Non si tratta qui d’un recitativo, ma del passo di carat-
tere arioso «Ogni mio bene» facente seguito al cantabile di Chevreuse Bella e di
sol vestita e preparante la cabaletta Si, ma fra poco di sangue un rio. Benché il brano
sia in apparenza metricamente e ritmicamente squadrato, Donizetti prescrive
che la figurazione orchestrale sottolineante la fine d’ogni breve verso del can-
tante (si tratta di quinari) sia eseguita «sempre dopo le parole»,70 il che dovrebbe
comportare, come nei brani editi da Corri, l’aggiunta di tempi sovrabbondanti,
quindi un vero e proprio sconvolgimento della battuta, ciò che gli esecutori
odierni si guardano bene dal fare…:
Tutto ciò rientra nella tendenza, che si manifesta sotto molteplici aspetti nel
corso evolutivo dell’opera italiana, a lasciare il più possibile ‘libero’ il canto. È
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una tendenza che nel recitativo si può constatare nel graduale abbandono
dell’antico tipo di cadenza in cui le ultime due note del canto (normalmente
tonica e dominante) si sovrappongono alla dominante del basso strumentale,
che risolve poi sulla tonica.71 Nella seconda metà del Settecento questo tipo di
cadenza è ormai sostituito dalla cadenza ‘ritardata’ degli strumenti dopo l’esecu-
zione della clausola vocale conclusiva.72 Ma ne rimangono ancora tracce nella
notazione, ove la penultima nota del basso (normalmente una semiminima sulla
dominante) può essere scritta contemporaneamente alle due note conclusive del
canto (crome tonica-dominante o secondo grado73-tonica). È normale in tal
caso lasciare la voce ‘scoperta’, aggiungendo alla battuta un tempo sovrabbon-
dante e concludendo con la sola cadenza strumentale, ma vi sono casi in cui
possono sussistere dubbi.74
Sembra doversi attribuire ad un’analoga tendenza il mutamento che si veri-
fica allorché nell’opera seria si abbandona il recitativo secco: le formule vocali
rimangono praticamente le stesse, ma gli accordi strumentali, trasposti dal cem-
71 Su questo problema cfr. in particolare JACK WESTRUP, The Cadence in Baroque Recitative, in Natali-
cia Musicologica Knud Jeppesen a c. di Biørn Hjelmborg & Søren Sørensen, Copenhagen 1962, pp.
243-252; SVEN HOSTRUP HANSELL, The Cadence in 18th-Century Recitative, «The Musical Quar-
terly», LIV 1968, pp. 228-248; WINTON DEAN, The Performance of Recitative in Late Baroque Opera,
«Music and Letters», LVIII 1977, pp. 389-402.
72 Nei recitativi delle cantate e degli oratori di J. S. Bach la cadenza strumentale è per lo più ‘ritar-
data’, ma ricorrono anche numerosi casi di cadenza ‘contemporanea’, armonizzata con 4/6 - 3/5.
Ne citerò qualche esempio: secondo recitativo (accompagnato) della cantata Gelobet seist du, Jesu
Christ (BWV 91) con cadenza ritardata alla batt. 5 e contemporanea alla batt. 11: primo recitativo
(secco) di Christus wir sollen loben schon (BWV 121) con cadenze ritardate alle batt. 4 e 9 e cadenza
contemporanea finale; secondo recitativo (secco) di Tritt auf die Glaubensbahn (BWV152): cadenza
finale contemporanea; primo recitativo (accompagnato) di Das neugeborne Kindelein (BWV 122):
cadenze contemporanee alle batt. 6 e 12, cadenza finale ritardata.
73 Nella grafia figura invariabilmente quale penultima nota il primo grado, da sostituirsi nell’esecu-
zione con l’appoggiatura superiore, cioè col secondo grado.
74 Nelle edizioni da me curate di Mitridate, Ascanio in Alba e Betulia liberata (cfr. nota 8) ho interpre-
tato come ‘ritardate’ le non molte cadenze notate (a mio giudizio solo apparentemente) come
‘contemporanee’. Non sono stati dello stesso avviso curatori di altre opere mozartiane giovanili,
in particolare Kathleen Kuzmick Hansell, curatrice del Lucio Silla (WOLFGANG AMADEUS MOZART,
Neue Ausgabe sämtlicher Werke, Serie II, Werkgruppe 5, Band 7, Bärenreiter, Kassel 1986). Nel
recitativo Che intesi, eterni Dei (Atto II, Scena IX) ricorrono due casi di cadenza d’inganno in cui la
nota del basso sul quinto grado è notata contemporaneamente alle due note conclusive del canto
(discendenti dal primo al quinto grado) e precisamente sulle parole «è questo» (b. 50) e «un
pegno» (b. 115, ultima del recitativo). In entrambi i casi la signora Hansell ha creduto di dover
seguire alla lettera il testo, ritenendo trattarsi effettivamente di ciò che ella chiama «cadenza
tronca» e armonizzando di conseguenza la nota del basso con 6/4 -3/5 (ma incorrendo nel primo
caso nell’infortunio di due quinte consecutive).
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75 Il passo sopra citato tratto da Il Pirata di Bellini ne offre un esempio. Una tardiva opera comica
(più precisamente «commedia lirica»), Tutti in Maschera di Carlo Pedrotti, risalente al 1856, con-
tiene ancora recitativi secchi scritti nella maniera tradizionale con lunghe note al basso strumen-
tale (che l’antica prassi voleva quasi sempre abbreviate a un solo quarto od ottavo) notate in
battere, ma altresì recitativi in cui la voce è accompagnata da accordi brevissimi dell’orchestra
notati per lo più in corrispondenza delle pause del canto, dunque anche in questo caso ‘dopo le
parole’. Tra le testimonianze più significative della prassi di ridurre a valori di breve durata (nor-
malmente a un solo quarto) le note del basso strumentale dei recitativi, convenzionalmente notate
in valori lunghi, v’è la parte autografa di basso continuo della Matthäuspassion di Bach, così espli-
citamente notata ad uso d’un esecutore a cui probabilmente la prassi non era familiare, a differenza
della partitura autografa, che presenta nei recitativi le convenzionali note lunghe. Al riguardo cfr.
tra l’altro LUIGI FERDINANDO TAGLIAVINI, Interpretatorische Probleme bei J. S. Bachs Orgeltranskription
(BWV 594) des «Gross-Mogul»-Konzertes von Antonio Vivaldi, in Orgel, Orgelmusik und Orgelspiel -
Festschrift Michael Schneider zum 75. Geburtstag, Bärenreiter, Kassel, 1985, pp. 11-24, note 35 e 36,
versione riveduta Bach’s Organ Transcription of Vivaldi’s «Grosso Mogul» Concerto, in J. S. Bach as
Organist a c. di George Stauffer & Ernest May, Indiana University Press, 1986, Paperback Edition
1999, pp. 240-255, note 36-37) ove viene citata anche la testimonianza offerta dall’articolo ade-
spota Welche ist für die Bässe die beste und zweckmässigste Art, das einfache Rezitativ zu begleiten? in
«Allgemeine musikalische Zeitung», XII 1810, col. 969-974.
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