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STUDI

GOLDONIANI
Quaderni annuali di storia del teatro
e della letteratura veneziana nel Settecento

x · 2 n.s. · 201 3

estr atto

PISA · ROMA
FABRIZIO SERRA EDITORE
MMXIII
Direttori
Cesare De Michelis · Gilberto Pizzamiglio

Comitato direttivo
Carmelo Alberti · Gabriella Belli · Anna Laura Bellina
Ilaria Crotti · Ricciarda Ricorda
Anna Scannapieco · Piermario Vescovo

Comitato scientifico
Roberto Alonge · Rossend Arqués · Andrea Fabiano
Siro Ferrone · Ginette Herry · Marzia Pieri
Fabio Soldini · Roberta Turchi

Segreteria di direzione e redazione


Anna Scannapieco

Casa di Carlo Goldoni, San Polo 2794, i 30125 Venezia

*
Fondazione Musei Civici Venezia
con la collaborazione di
cisve, Centro Interuniversitario di Studi Veneti,
Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università
degli Studi di Padova, Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali
e Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari
di Venezia, Edizione Nazionale delle Opere di Carlo Goldoni,
Teatro Stabile del Veneto

*
«Studi Goldoniani» is an International Peer-Reviewed Journal.
The eContent is Archived with Clockss and Portico.

*
Si invitano gli autori ad attenersi, nel predisporre i materiali da consegnare alla
redazione e alla casa editrice, alle norme specificate nel volume Fabrizio Serra,
Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa · Roma, Serra, 20092 (ordini a: fse@libraweb.net).
Il capitolo Norme redazionali, estratto dalle Regole, cit., è consultabile Online
alla pagina «Pubblicare con noi» di www.libraweb.net
LA TRAGEDIA POSSIBILE SECONDO GOLDONI
E L’ESPERIMENTO FALLITO
DELLE ‘NOVE MUSE’*
Marzia Pieri

1.

D i recente mi sono occupata di Artemisia – una dimenticata tragedia del 1759 – per
l’Edizione Nazionale delle opere di Goldoni che la Marsilio sta conducendo con
encomiabile e creativa perseveranza, ed è stata l’occasione per riesaminare la natura
e il senso del progetto delle ‘Nove Muse’ di cui faceva parte : progetto naufragato e

rimosso, ma carico di implicazioni e a suo modo fecondo, che si potrebbe affiancare –


sia pure in minore – ad altre celebri « invenzioni sprecate » del teatro italiano. 1 L’ipotesi
   

da cui è nata la mia attenzione per un testo apparentemente così peregrino si colloca
entro un laboratorio critico – ormai lungo un ventennio e animato da una affiatata
comunità di studiosi – che ha prodotto finora l’edizione nazionale di una sessantina
di componimenti di prima e seconda grandezza. 2 Così oggi, al cospetto di un quadro
filologico e documentale mosso e articolato, e forti di acquisizioni testuali e edito-
riali assai più scaltrite circa le dinamiche compositive e la storia scenica e recitativa
dell’opera goldoniana, siamo in grado di spostare l’attenzione sugli snodi segreti, su-
gli architesti di transizione che la legano alla più vasta storia spettacolare circostante
e al gusto del pubblico coevo.
Perché, se crediamo di aver capito i ‘capolavori’ che reggono bene il palcoscenico
e la lettura a due secoli di distanza, continuiamo a sapere poco dell’humus dramma-
turgica da cui attinge l’enorme lavoro creativo dell’autore, con il suo backstage datato
e contingente ; parecchi componimenti sono andati perduti, 3 altrettanti ne sopravvi-

vono che ci risultano quasi illeggibili, e su di essi tendiamo a glissare rammaricati,


giudicandoli cadute, o zavorre obbligate dalla routine commerciale, senza riflettere
che proprio questi ‘vuoti’ ingombranti e le loro connessioni interne con il resto che

* Nel testo si utilizzeranno le seguenti abbreviazioni : mn = Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giu-

seppe Ortolani, Milano, Mondadori, voll. xiv, 1935-1956 ; en = Idem, Le Opere, Edizione Nazionale, Venezia,

Marsilio, 1993-.
1
  Il riferimento è al celebre saggio di Claudio Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal
teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987.
2
  Cfr. Anna Scannapieco, Bilanci e progetti da un centenario all’altro : l’Edizione Nazionale di Goldoni, in

Parola, musica, scena, lettura. Percorsi nel teatro di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi, Atti del Convegno (Venezia, 12-15
dicembre 2007), a cura di Giulietta Bazoli e Maria Ghelfi, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 419-434.
3
  Nella sua preziosa ricostruzione della cartografia goldoniana Anna Scannapieco individua 200 titoli,
cinquanta dei quali rimasti inediti, talvolta per non essere stati rappresentati, in altri casi per un voluto
accantonamento da parte dell’autore che « colpisce indifferentemente tutte le possibili tipologie testuali (e

relativamente ad opere realizzate in varie fasi dell’itinerario artistico goldoniano) » (Eadem, Scrittoio, scena,

torchio : per una mappa della produzione goldoniana, « Problemi di critica goldoniana », vii, 2000, p. 37). L’Arte-
     

misia è un caso ibrido di rimozione dimidiata.


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crediamo di aver decifrato potrebbero avere ancora qualcosa da dirci. Goldoni – lo
sappiamo bene – contribuisce alla grande a confondere le acque, depistando, omet-
tendo, mistificando in tutti i modi possibili (il caso Artemisia è da questo punto di
vista esemplare), eppure non è difficile smascherare le rettilinee mitopoiesi natura-
listiche che ci ammannisce guardando all’imponente porzione della sua opera di cui
non sappiamo più riconoscere l’anima, ma che ha goduto a suo tempo – a Venezia
e in Europa – una fortuna talvolta maggiore di quella toccata ai testi consacrati dal
nostro canone di posteri.
Se l’Artemisia, nel 1759, piaceva più degli Innamorati, 1 o La sposa persiana sovrastava
La locandiera (mentre la Trilogia della villeggiatura sarebbe stata un mezzo fiasco), 2 vale
dunque la pena di provare a rileggerla, insieme ad altre sue consorelle desaparecide,
sulle tracce di un dna teatrale e antropologico che potrebbe rivelare qualche sorpresa.
Come spesso accade negli studi di spettacolo, sono gli indizi più labili e disomogenei
– restaurati e messi in sequenza – a restituirci affreschi originari dalle tinte inaspettata-
mente vivide. Proveremo dunque, con tutti i rischi del caso, a ricostruire il dinosauro
a partire da un frammento biologico imprigionato in un pezzo d’ambra.

2.
Cominciamo dal contesto in cui nasce Artemisia, e cioè quell’anno 1759 in cui l’autore
– dopo aver tentato invano di allargare le maglie del contratto che lo legano al Teatro
San Luca fino al 28 febbraio 1767 – propone al Vendramin il famoso progetto delle
‘Nove Muse’. La sua situazione è di nuovo faticosa e precaria, con il fratello e i nipoti a
carico. 3 Non siamo alla crisi dell’annus horribilis 1754, ma lo angustiano, come sempre,
le ristrettezze economiche e il sovraccarico di lavoro. Lo premia tuttavia un successo
notevole, moltiplicato dalle edizioni che si susseguono in varie parti d’Italia dopo
l’audace inventio della Bettinelli nel 1750, l’ottimo esito commerciale della Paperini
(1753-1757) e il varo fortunato della Pitteri nel 1757 : dal 1752 hanno preso inoltre a uscire

i tomi bolognesi della San Tommaso d’Aquino, dal 1753 quelli napoletani del Venac-
cia, e quelli pesaresi del Gavelli ; dal 1756 quelli torinesi di Rocco Fantino e Agostino

Olzati, senza contare singoli libretti che compaiono un po’ in tutta Italia a latere degli
spettacoli. 4 Stampe non autorizzate e di diversa qualità, di cui magari egli si lamenta,
ma che contribuiscono a farne un autore familiare e accessibile, una lettura per tutti
destinata a circolare in profondità a livelli ancora in parte da esplorare, mentre comici
e accademici recitano dovunque i suoi testi, che vengono tradotti spesso in tempo
reale sulle piazze d’Europa.
Eppure da anni Goldoni sta come andando a tentoni, e ha deposto la limpida pro-
1
  Le repliche della commedia nell’autunno 1759 furono 8, con una ripresa nel carnevale successivo e
un’altra nell’autunno 1760, come si evince dalla Nota sulla fortuna nell’edizione della commedia (en, 2002),
a cura di Siro Ferrone, pp. 157-159.
2
  Si veda la Nota sulla fortuna di Michele Bordin nell’ed. a cura di Franco Fido (en, 2005), pp. 367 sgg.
3
  « Ho qui mio fratello con dei debiti fatti a Modena per campare, ho da rivestirlo, e provvederlo per

l’avvenire. Sono senza danari, e oggi ho dovuto chiedere sei zecchini in prestito. V. E., che ha della benignità
per me, può arrivar colla mano dove non arrivano le gambe del suo esattore, e favorirmi sul piede, che le
indicai nell’altra mia, dei 150 ducati. Son certo, ch’ella non vorrà sconsolarmi ; ma in ogni caso avverso, son

pronto a mandarle tutte le commedie promesse in qualunque modo » (lettera a Francesco Vendramin del

28 agosto 1759, in mn, xiv, pp. 227-228).


4
  Cfr. Scannapieco, Scrittoio, scena, torchio, cit., pp. 56 e 66.
la tragedia possibile secondo goldoni 101
gettualità esibita ai tempi del Teatro comico : il passaggio al San Luca non è stato facile,

e lo obbliga a uno sperimentalismo quasi affannoso, carico di valenze autobiografi-


che e metateatrali, 1 che intreccia incursioni iperletterarie, ripescaggi fortunosi dalla
librettistica e dal romanzo, esotismi vicini e lontani, traduzioni e riadattamenti, men-
tre si imbatte in Shakespeare, ridimensiona la centralità della commedia realistica e
domestica e deve fare i conti con i successi dell’abate Chiari. Sono anni di « illusioni »    

e di « mostri », 2 come si sa, dominati dall’astro nevrotico di Caterina Bresciani, il cui


   

primato divistico gli consente di variare all’infinito il tema della passione femminile
eccessiva e anomala, in sintonia con la sensiblerie alla moda e con il gusto per gli arti-
fici spettacolari e melodrammatici che sta investendo in profondità anche l’opera e il
balletto.
Le novità teatrali, sul mercato veneziano, restano tutto sommato poche, e sono co-
stantemente sovrastate dal primato di un repertorio – come attesta lo Squarzo del San
Luca – dove Goldoni è una presenza costante, ma in condominio con un passatismo
teatrale in apparenza inossidabile. 3 La commedia regolare, che piace alle avanguardie
aristocratiche, marca il passo, e il repertorio di tragicommedie, sedicenti ‘tragedie’,
libretti per musica recitati in prosa, allestimenti romanzeschi e storici in costume visti
e rivisti, e di tutto il ciarpame del cosiddetto vecchio teatro non accenna a tramontare
nel gusto degli spettatori. 4 Su una piazza teatrale così affollata e poliforme, dove le
polemiche sono spesso gonfiate strumentalmente e cariche di virulenza, il valore ag-
giunto è sempre quello dei forti chiaroscuri, dei contrasti esasperati, della ricerca del
nuovo a tutti i costi ; la nicchia del comico naturalistico è minoritaria ; le commedie di
   

carattere, che alcuni ammiratori gli consigliano neanche tanto velatamente di pratica-
re in esclusiva, vanno bene solo nelle recite private di villa o di collegio. 5

1
  Su questa fase del suo lavoro rimando a Piermario Vescovo, Carlo Goldoni : la meccanica e il vero, in

Ilaria Crotti, Piermario Vescovo, Ricciarda Ricorda, Il “mondo vivo”. Aspetti del romanzo, del teatro e del
giornalismo nel Settecento italiano, Padova, Il Poligrafo, 2001, pp. 103-116, e al mio Mettersi in scena. Paratesti a
confronto, in Parola, musica, scena, lettura, cit., pp. 437-451.
2
  Così recitava il titolo di un famoso saggio di Franco Fido, Le illusioni e i mostri degli anni difficili al
teatro San Luca, compreso nel volume Guida a Goldoni. Teatro e società nel Settecento, Torino, Einaudi, 1977,
pp. 121-137.
3
  Si rimanda alla parziale edizione del documento fornita da Maria Luisa Pagnacco, Squarzo degli utili
del teatro per le recite relative degli Autunni e Carnovali 1758-1770. Anni 1758-1762, Teatro di San Luca, in Tra libro
e scena. Carlo Goldoni, a cura di Carmelo Alberti e Ginette Herry, Venezia, il Cardo, 1996, pp. 103-119, e alle
considerazioni critiche di Vescovo, Carlo Goldoni : la meccanica e il vero, cit., pp. 98-101, e di Anna Scannapie-

co, « …gli erarii vastissimi del Goldoniano repertorio ». Per una storia della fortuna goldoniana tra Sette e Ottocento,
   

« Problemi di critica goldoniana », vi, 1999, pp. 143-238.


   

4
  Il 28 aprile 1759 Goldoni scrive, con lucida e disincantata consapevolezza, all’amico Gabriele Cornet,
che si trovava in Francia : « Voi andate in traccia di nuovi corrispondenti. Io di nuovi caratteri. […]. La com-
   

media si abbevera a un vasto fonte, ma alcuni rivoli più fecondi non soffrono esser toccati, e alcune volte
le conviene soffrire l’astinenza nell’abbondanza ; quindi è che, esaurite le comuni sorgenti, annoiati della

verità ripetuta, si conducono a desiderare o il sorprendente o il ridicolo sciagurato […]. Io che ho operato,
se non con lo stesso metodo, almeno collo stesso genio [di Molière], avrò sempre la compiacenza di avere
persuaso l’Italia di un miglior gusto, e se dalla volubile inclinazione del pubblico sarò strascinato fuori del
mio sentiero, non si dirà essere ciò provenuto dal mio capriccio, ma dalla necessità di piacere » (mn, xiv, p.

216).
5
  Su questo stato di cose è illuminante una riflessione epistolare che Stefano Sciugliaga – portavoce e
sodale di Goldoni dopo la sua partenza per la Francia – scambia con Francesco Vendramin appena qualche
anno dopo, il 7 novembre 1764, a proposito di un copione arrivato da Parigi per il San Luca, ipotizzandone
fruizione e apprezzamenti differenziati presso fasce diverse di pubblico : « trattandosi di commedia di ca-
   
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Il Teatro comico all’Osteria del Pellegrino di Carlo Gozzi coglie questa mostruosa
polisemia, inchiodando Goldoni come un manipolatore truffaldino che pretende di
conciliare gli inconciliabili, ma fotografa perfettamente la realtà dei fatti. 1 Il progetto
delle ‘Nove Muse’ va collocato all’interno di questo delicato frangente, quale onni-
comprensivo contenitore di una drammaturgia che copra a 360 gradi tutte le forme
possibili, traghettando la forza della tradizione e le consuetudini della recitazione mo-
derna nelle plaghe alte della poesia. Come ai tempi del Sant’Angelo aveva lanciato la
riforma senza buttare a mare l’eredità della commedia cittadina veneziana e l’apporto
delle maschere, così ora Goldoni prova a ridisegnare e modernizzare questo multifor-
me arcipelago di forme sceniche, aggiungendo al binomio Mondo e Teatro il terzo
polo della Letteratura.
C’era un precedente illustre e un ideale padre putativo in questo progetto : quel  

Pier Jacopo Martello, che egli aveva celebrato a Bologna qualche anno prima, e di
cui confermerà convinto l’elogio nei Mémoires, proprio in quanto unico esempio di
drammaturgo italiano capace di frequentare tutti i linguaggi e le forme sceniche (dai
burattini alla tragedia), 2 ma c’era anche, all’orizzonte, un nuovo, ingombrante padre
nobile (da onorare e da uccidere) che stava rinnovando in profondità la scena euro-
pea, rifacendosi in parte proprio al suo lavoro : quel Voltaire 3 che l’anno successivo lo

avrebbe consacrato eccellente pittore della Natura con grandi ricadute mediatiche,
e a cui egli tributerà, di rimando, un omaggio tanto entusiastico nelle forme quanto
sottilmente revanchistico nella sostanza. 4

rattere accompagnata da spettacolo, io credo che per gli ultimi di Carnovale sia appunto quello che può
giovare. La gente colta gusterà principalmente la commedia, e per accessorio lo spettacolo ; e il popolo

avrà lo spettacolo per principale, e la commedia per accessorio » (Carlo Goldoni e il Teatro San Luca a Venezia.

Carteggio inedito (1755-1765), a cura di Dino Mantovani, Milano, Treves, 1885, p. 218).
1
  « L’intelligenza aguzza del conte coglie qui, insieme e dietro a Goldoni e al suo mestiere – dietro cioè

alla sua variata alternanza, tra la scena borghese e familiare, quella cittadina e popolana, quella eroica ed
esotica –, l’incombere del panorama del repertorio attoriale, al quale il pubblico manifestava il proprio at-
taccamento, talora al di là della stessa volontà dei comici. […] Gozzi ha perfetta coscienza che l’avventura
goldoniana – come la sua del resto – si gioca all’interno della tradizione attoriale » (Vescovo, Carlo Goldoni :
   

la meccanica e il vero, cit., p. 102).


2
  Cfr. ancora ivi, pp. 61-62, 104 e 113, per un’analisi dell’encomio in versi letto a Bologna nel 1752 Nell’ac-
cademia degli Ardenti eretta in onore del Santissimo Cuor di Gesù, e riconfermato nella sostanza in Mémoires, p.
i, chap. xvii.
3
  Il teatro di Voltaire è un fondamentale riferimento per i riformatori emiliani che fanno capo a France-
sco Albergati e ad Agostino Paradisi, fautori di una scena educativa e civile nutrita di realismo e naturalezza,
ugualmente debitrice nei confronti dei repertori francesi, delle commedie goldoniane e di Metastasio. In
questo bacino di sperimentazioni recitative, scritture, traduzioni e teorizzazioni (dove all’estrema libertà
delle discussioni interne fanno riscontro le dure battaglie con i censori quando si tratta di andare in stampa)
è importante ricordare che la commedia e la tragedia godono di una considerazione paritaria e comple-
mentare ; è tramite costoro che Voltaire, corrispondente attivo e partecipe, conosce e apprezza il teatro

di Goldoni, che, per parte sua, ricava probabilmente da questi contatti l’input decisivo per il progetto delle
‘Nove Muse’. Sull’argomento, che merita ancora di essere approfondito, si rimanda a Susi Davoli, Agostino
Paradisi uomo di teatro, in Teatro a Reggio Emilia, i, Dal Rinascimento alla Rivoluzione francese, a cura di Sergio
Romagnoli e Elvira Garbero, Firenze, Sansoni, 1980, pp. 247-262 ; Marco Cerruti, L’esperienza teatrale di

Agostino Paradisi : fra traduzione e invenzione, in Civiltà teatrale e Settecento emiliano, a cura di Susi Davoli,

Bologna, il Mulino, 1986, pp. 75-95, e Roberta Turchi, La commedia italiana del Settecento, Firenze, Sansoni,
1985, pp. 213-227.
4
  Sul complesso rapporto che lega Goldoni a Voltaire, su cui torneremo ripetutamente in questa sede,
rimando intanto a Françoise Decroisette, De la traduction à l’appropriation dans la “Scozzese” di Carlo
Goldoni, in La France et l’Italie : traductions et échanges culturels, par Françoise Decroisette, Caen, Université

la tragedia possibile secondo goldoni 103
1
Costantemente in balia del burrascoso mar delle scene, Carlo fronteggia con
ostentata serenità le polemiche, le concorrenze moleste, gli attacchi dei gazzettieri, le
minacce sempre incombenti dei censori teatrali, i capricci e i ricatti dei comici, ma è
stanco : Venezia comincia ad andargli stretta 2 e da tempo cerca di allargare la propria

cerchia intellettuale e commerciale di riferimento fra gli attori e i musicisti, ma anche


fra i letterati e i circoli accademici, per allentare i ritmi gravosi del lavoro di poeta di
compagnia e sfuggire alle pressioni politiche e teatrali che lo oppongono al Chiari e
ai Granelleschi, andandosi a misurare su altre piazze. Ci ha provato con il duca di Par-
ma, ricevendone la nomina a poeta di corte nel 1756, 3 e poi ha tentato di ricollocarsi
anche a Roma e a Napoli.
A Roma ha incontrato Niccolò Piccinni, a cui fornisce il libretto della Buona figliu-
ola, destinato a rivoluzionare la scena musicale, 4 è stato ricevuto dal papa Clemente
XIII, 5 si è imbattuto nelle suggestioni del neoclassicismo di Winckelmann, 6 ma non è

de Caen, 1992, pp. 29-51 ; a Franco Fido, Goldoni e Voltaire, in Idem. Le inquietudini di Goldoni. Saggi e letture,

Genova, Costa & Nolan, 1995, pp. 125-145, e alla mia introduzione all’edizione della Scozzese (en, 2006).
1
  In una lettera del 24 dicembre 1757 a Giambattista Vicini aveva così descritto la propria routine quoti-
diana : « sono quindici giorni ch’io mi riduco a pranzar col lume per lavorare da bestia. Ho due teatri sopra
   

le spalle, e le monache mi tormentano, e i matrimoni mi seccano », e nel febbraio successivo, illustrando


a Giovanni Lami le proprie attività editoriali, soggiungeva : « che dirà ella di un uomo che scrive tanto ? Mi
     

dirà : scrivi meno, e scrivi meglio. Ma in Italia chi scrive poco, mangia poco » (mn, xiv, risp. pp. 200 e 201).
   

2
  Sulla necessità di riconsiderare la storia e geografia goldoniana, il senso e i precedenti dell’‘esilio’ fran-
cese e persino la sua monolitica venezianità, riflette Piermario Vescovo, « J’avois grande envie d’aller à Na-

ples ». Goldoni, L’erudito cavaliere Baron di Liveri, e i sistemi di produzione del teatro comico settecentesco, in Oltre

la Serenissima. Goldoni, Napoli e la cultura meridionale, Atti della Giornata di Studio (Benevento, 9 settembre
2008), a cura di Antonia Lezza e Anna Scannapieco, Napoli, Liguori, 2012, pp. 64-68.
3
  Nomina prestigiosa, immediatamente esibita nel frontespizio del primo tomo Pitteri (« Poeta di S. A. R.  

il Serenissimo Infante di Spagna Don Filippo, duca di Parma, Piacenza, Guastalla ecc… »), ma soprattutto  

‘monetizzata’ nella riscrittura contrattuale con il San Luca del 9 ottobre 1756, come spiega compiaciuto
all’Arconati Visconti in una lettera del 9 ottobre, in cui allude a una « pensione per ora di tremila lire di

Parma annuali [ma saranno, in verità, un po’ meno], senz’obbligo di nulla per questo, mentre le ordinazioni
[…] saranno ad arbitrio ricompensate » (mn, xiv, p. 194). Sul tema, si veda ora l’articolo di Chiara Biagioli in

questo stesso numero alle pp. 71-97.


4
  L’opera era andata già in scena a Parma, con intonazione di Egidio Duni, nel 1756 ; nella nuova versione

di Piccinni, allestita a Roma al Teatro delle Dame nel 1760, « fece epoca nella transizione verso la nuova vena

sentimentale dell’opera buffa ». Parma, che per volere del ministro Du Tillot ospita dal 1755 una compagnia

francese di balletto e opera seria con cui Goldoni ha stretti contatti, è sede di audaci esperimenti sull’opera
seria (che certamente influenzano a loro volta il progetto delle ‘Nove Muse’), che mirano a riscriverla sulla
falsariga, appunto, della tragédie lyrique di Rameau (cfr. Daniel Heartz, Da Garrick a Gluck : la riforma del te-  

atro e dell’opera in musica a metà Settecento, in La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Bologna,
il Mulino, 1986, p. 67). Con il potente ministro parmense, così intendente di teatro, Goldoni mantiene nel
tempo stretti e cordiali rapporti anche dopo la partenza per la Francia.
5
  Ricordiamo che il pontefice, asceso al soglio il 6 luglio 1758, apparteneva alla famiglia Rezzonico, al
centro di alcune importanti relazioni goldoniane di questi anni : a Ludovico Rezzonico era stata dedicata

nel 1754 La cameriera brillante, alla suocera Marina Savorgnan nel 1758 l’Ircana in Julfa ; una Rezzonico,  

Quintilia, aveva inoltre sposato Lodovico Widmann (dedicatario della Bottega del caffè nel 1753), anfitrione
e attore dilettante a Bagnoli, nel padovano, dove Carlo soggiornò in due occasioni, tessendo importanti
rapporti letterari e sociali – cfr. il commento di Roberto Cuppone all’ed. della Cameriera brillante (en,
2002), con introduzione di Paolo Puppa, pp. 195-206, e il mio all’ed. della trilogia persiana (en, 1996), pp.
482-484.
6
  Egli si mostra, anzi, seccato che il Vendramin, male informato, dubiti dei suoi successi romani, in una
lettera del 17 marzo 1759 : « le mie avventure romane non erano sì luttuose, quali forse gli sono state da altri
   

rappresentate, poiché, se non in un teatro, nell’altro certamente il mio nome non poteva risuonare con
maggior strepito, e Roma non poteva caricarmi di maggiori finezze. Sta in mia mano l’accettare o no in
104 marzia pieri
entrato in sintonia con una civiltà spettacolare remota dalla sua, né con gli attori na-
poletani che, recitando en travesti, fanno cadere la Vedova spiritosa, anche se ha avviato
importanti contatti musicali. 1 Da Napoli – l’altra grande capitale teatrale italiana che
resterà per lui un appuntamento mancato (di cui, al solito, tace nei Mémoires) 2 – gli
stanno venendo, nel frattempo, « offerte non indifferenti » di ingaggio, 3 che lo allette-
   

rebbero ma che il secco divieto del Vendramin gli impedisce di prendere in conside-
razione ; 4 intanto i primi contatti con la Francia – che irritano e preoccupano il sagace

impresario – risalgano proprio al settembre di quest’anno inquieto. 5


Deve dunque tornare a tutti i costi, ma se la prende comoda, 6 approfittando del
viaggio verso Venezia per riallacciare collaborazioni con molteplici interlocutori : 7  

con i circoli teatrali arcadici, e in particolare con l’Albergati, per cui scrive una serie di

questa città per l’anno venturo l’impegno non solo di uno, ma di due teatri » (mn, xiv, p. 212). Sulle sugge-

stioni ‘neoclassiche’ contigue al progetto delle ‘Nove Muse’ che possono legarsi al soggiorno romano cfr.
Vescovo, Carlo Goldoni : la meccanica e il vero, cit., p. 112.

1
  È significativo ricordare che il Vendramin, da Venezia, si preoccupava di controllare i suoi movimenti
e i suoi guadagni romani, come testimonia una lettera di Giovanni Maria Baldi a Giacomo Zanichelli che
fornisce « colla maggior sincerità, e secretezza […] le più esatte e veridiche informazioni sopra il Sig.r Av-

vocato Goldoni », di cui resta copia nell’archivio del Teatro di San Luca (cfr. Carlo Goldoni e il Teatro di San

Luca, cit., pp. 89-90) .


2
  Di questa relazione ‘mancata’, così importante, si occupa ora il già ricordato volume, a cura di Antonia
Lezza e Anna Scannapieco, Oltre la Serenissima.
3
  Cfr. la già ricordata lettera al Vendramin del 17 marzo (mn, xiv, p. 212).
4
  Proprio in questi mesi del 1759 la compagnia Sacchi, rientrata forzosamente in Italia dopo il terremoto
di Lisbona, conta ugualmente d’impiegarsi come compagnia reale presso la corte di Ferdinando IV di Bor-
bone, il re bambino tutelato da quel Bernardo Tanucci che usava i testi goldoniani come aforismi e aneddoti
oratori (Voltaire, del resto, ci insegnava la grammatica italiana a sua nipote e le grammatiche tedesche
coeve lo utilizzano come prontuario di traduzioni ed exempla linguistici). Ma Carlo III era stato appena
nominato sul trono di Spagna e altri affari urgevano. Goldoni torna a Venezia continuando a guardarsi
attorno, Sacchi pure. Lì si metterà a lavorare con Carlo Gozzi, rifacitore delle Fiabe di Basile, destinate a una
grande fortuna napoletana ancora tutta da esplorare, in un’osmosi misteriosa e affascinante che comprende
persino l’abbozzo (appena ritrovato) di una Gatta cova cenere, che avrà forse visitato in sogno De Simone
quando inventò la sua meravigliosa Gatta Cenerentola (cfr. Vescovo, « J’avois grande envie d’aller à Naples »,
   

cit., pp. 66-68).


5
  Per una puntuale contestualizzazione cronologica del complesso itinerario verso Parigi, si rimanda a
Andrea Fabiano, L’amore paterno, ovvero la poetica messa in commedia. Per una nuova lettura del primo lavoro pa-
rigino del Goldoni, « Problemi di critica goldoniana », v, 1998, pp. 131-174. La vibrata contrarietà di Vendramin
   

per questa partenza è affidata a una lettera del 28 agosto 1761 a Giovanni Fontana (cfr. Carlo Goldoni e il Teatro
di San Luca, cit., pp. 156-158). Ricordiamo che proprio il 23 maggio 1759 va in scena alla Comédie Française la
prima commedia goldoniana, e cioè La serva amorosa tradotta da Charles Sablier, con una certa eco critica,
illustrata da Paola Daniela Giovannelli, 1759 : aspetti trascurati e controversi della polemica Diderot-Goldoni,

in Parola, musica, scena, lettura, cit., pp. 227-247.


6
  Goldoni era partito da Venezia per Roma il 23 novembre 1758 con il dichiarato proposito di trattenervisi
fino a Pasqua (come annuncia all’Arconati Visconti in una lettera del 18 novembre, in mn, xiv, p. 206), ma
tornò soltanto nell’autunno del 1759. In un’altra lettera del 13 ottobre 1759 (a destinatario ignoto) scrive con
una certa iattanza : « due mesi e mezzo mi sono trattenuto a Bologna, e se ella avesse per avventura inteso
   

a interpretare sinistramente questa mia dimora, l’eccellentissimo signor cavalier Querini difenderà la mia
innocenza. Le invio una copia del mio prologo, in cui vedrà che razza di impegno mi ho preso quest’anno :  

ella si compiaccia di leggerlo e compatirlo com’è, e voglia il Cielo non le riesca sciapito, come il caffè in
tavolette » (ivi, p. 231).

7
  Su questo cruciale snodo della carriera e dell’esistenza privata goldoniana, si veda ora Piermario Ve-
scovo, Ritratto del poeta teatrale da disegnatore. In margine a « Una delle ultime sere di carnovale », in Carlo Goldoni.
   

Mestieri e professioni in scena con inediti dagli archivi pisani, a cura di Roberta Turchi, « La Rassegna della lette-

ratura italiana », 111, 2 luglio-dicembre 2007, pp. 134-153 : 145.


   
la tragedia possibile secondo goldoni 105
componimenti destinati al teatrino di Zola poi accolti nella Pitteri (l’edizione che fo-
tografa bene il doppio profilo, erudito e teatralissimo, di questa fase del suo lavoro), 1
e con i dedicatari toscani e padani di molti componimenti (a loro volta cultori di
teatro o traduttori in proprio). La sua carriera, per quanto luminosa, non è affatto
garantita e non gli consente rendite di posizione : si è esaurita la fase terenziana del

Sant’Angelo, dominata dal ‘semplice’ e dal ‘naturale’ e dalla centralità di personaggi


e contesti veneziani, ma anche la serie delle tragicommedie esotiche e dialettali in
martelliani (nate da un audace colpo di testa drammaturgico) comincia a mostrare la
corda, minacciata di saturazione dalla soverchiante concorrenza del Chiari. 2

3.
L’epistolario con il Vendramin registra in tempo quasi reale le ansie che lo attanaglia-
no e l’insofferenza frustrata del subalterno, e ci consente di penetrare in profondità
nel laboratorio drammaturgico delle ‘Nove Muse’. Il 10 marzo Carlo si dichiara « assai  

penetrato dal poco incontro delle […] commedie dell’anno scorso » ; il 17 marzo, in    

cerca di « cosa vi vorrebbe per risarcire », ribadisce « il cattivo esito in quest’anno delle
     

sue commedie », lamenta l’« inquietezza » e le « dicerie dei comici » a suo danno, è offe-
         

so e deluso dal loro rifiuto a ingaggiare come terzo amoroso quel Giovanni Simoni,
che tanto gli sta a cuore, 3 anche se reagisce allo smarrimento facendo dignitosamente
buon viso a cattivo gioco :  

V. E., che ha della bontà per me, interpreti questa mia lunga lettera, non per una lamentazio-
ne, ma come un sincero sfogo di un suo servitore ossequioso, e se non è disposta a concedermi
la libertà, che Le chiedo, almeno non mi sia rimproverato il cattivo esito delle mie fatiche, allo-
ra quando fo quel che posso, per adempiere al mio dovere. Io non ho mai imputato ai comici
la sfortuna delle tre commedie in quest’anno ad essi lasciate ; ma non posso nemmeno rimpro-  

verare a me stesso di averle fatte col capo sventato. Venezia è stanca dei caratteri famigliari,
Venezia vuol novità ; cerchiamo di soddisfarla, ma per la via blanda di una reciproca onesta

corrispondenza fra gli attori e l’autore, e sia questa animata dalla giustizia, e dalla equità di V.
E. a cui ossequiosamente m’inchino. 4
La risposta, che alterna abilmente la durezza aristocratica del ‘padrone’ con l’amabi-
lità comprensiva del sodale, è nella sostanza assai aspra :  

1
  Mi permetto di rimandare, in proposito, al mio saggio Ancora su Goldoni tragico e tragicomico, « Problemi  

di critica goldoniana », xvi, 2009, pp. 193-212 (che raccoglie gli Atti di un Convegno intitolato Goldoni e la

modernità, tenutosi a Padova il 29-31 ottobre 2008).


2
  In quegli anni, fra le violente satire dei Granelleschi, ricorreva contro di lui l’accusa di abuso di martel-
liani noiosamente cadenzati, a cui allude, ad es., il sonetto satirico Piange il Dottor spoetato a cald’occhi, che
recita ai vv. 9-11 : « Delle Persiane è terminato l’ecco, / muto l’esaltatore tacche ticchi / a’ martelliani che
   

gl’escon dal becco » (Paolo Bosisio, Carlo Gozzi e Goldoni. Una polemica letteraria con versi inediti e rari, Firen-

ze, Olschki, 1979, p. 116). Nella trasposizione italiana in prosa delle Morbinose, realizzata per l’allestimento
romano del 1758, Goldoni affida la propria (incerta) risposta al cavalier Odoardo : accusato da Costanza di

avere « un gusto il più depravato del mondo » perché apprezza i martelliani, questi celebra una difesa d’uffi-
   

cio dell’autore della Vedova spiritosa in oggetto : « Pover’uomo, non lo mortificate. Potete credere, ch’ei farà
   

più fatica a scrivere in verso, che in prosa ; s’ei fa questa maggior fatica, vi deve essere una ragione, e la ra-

gione è questa, che qui in Venezia tai versi piacciono, ci hanno preso gusto, ed egli è forzato di continuarli »  

(si cita dalla prima edizione della commedia, l’‘apocrifa’ Venaccia – Le donne di bell’umore, t. xvii, Napoli,
1759 – da cui avrebbe esemplato la Zatta, riprodotta in mn, vi).
3
  mn, xiv, risp. pp. 211 e 212-215. Qualche anno dopo, nel 1762, il Simoni sarebbe stato scritturato dal Gri-
4
mani (cfr. ivi, p. 247).   Ivi, p. 214.
106 marzia pieri

Replico circa la ricercata licenza : da me non le sarà mai accordata. Giacché ella sa come sod-

disfare Venezia, lo faccia, e senza riguardo : già le sarà facile quando vorrà far spiccare la sua

studiosa attenzione, e sollecitudine, lo faccia, e ne abbiano prove i miei comici di tale sua di-
sposizione, sin da Ferrara, quali benché sieno un corpo senza ragione, e pieno d’impeti furiosi,
pure con li benefizii si vincono, perché li conoscono, e ne sanno esser grati ; ma la costanza è  

la più possente arma, che può valere in quest’incontro. Supposta perciò la buona intelligenza,
e veridica dell’autore con li comici tutti, oso promettere per li comici stessi la reciproca onesta
corrispondenza, da lei ricercata. 1
È quasi una sfida, accompagnata dall’invito pressante a rientrare presto : « ella dice,    

che verrà a tempo opportuno per adempire al suo dovere (espressioni della sua lette-
ra), ed io gli dico, che tanto maggiore sarà in me il piacere, quanto più sollecita sarà la
sua venuta a Venezia, o a Ferrara ». 2 Goldoni non ha scelta, ma cede a malincuore : la
   

partenza promessa il 28 aprile sarà infatti posticipata fino al luglio seguente, quando
annuncia all’impresario che durante il viaggio per Bologna ha concepito il disegno di
nove commedie concatenate fra loro da presentare tutte insieme nell’autunno suc-
cessivo, « assegnandone una per ciascheduna delle nove muse con vari metri e vari

pensieri, e l’introduzione sarà il monte Parnaso ». 3  

È il primo accenno a un progetto che egli giudica veramente innovatore, ma a


cui il Vendramin reagisce con cautela e scetticismo, ricordandogli « che le comedie  

in presente piacciono quando sono teatrali, e non di parole, o di solo carattere » ; di    

recente solo la Dalmatina ha avuto qualche riscontro, e le altre cinque non sono parti-
colarmente piaciute, per cui gli sembra più prudente non sbilanciarsi con un annun-
cio troppo impegnativo e a rischio di essere disatteso : « il carnovale è corto, li comici
   

1
  Carlo Goldoni e il Teatro di San Luca, cit, p. 109. La lettera, così perentoria, è della primavera 1759, ma
il braccio di ferro continua, se il 4 settembre Goldoni insiste : « In somma permettami V. E. che con tutta
   

l’umiltà e il rispetto Le dica che capisco benissimo ch’Ella è annoiata di me, o almeno lo saranno i suoi co-
mici, e che con quella rassegnazione con cui ho cesso alle di lei generose sollecitazioni accettando l’onor di
servirla, con altrettanta rassegnazione accetterò la libertà che si compiacerà di volermi dare, o che io sarò
costretto a prendermi dopo quest’anno. Per l’anno corrente sono in impegno di far qualche cosa per la mia
stima e per l’interesse comune, onde poter finire coll’epoca onorata del 1759 » (mn, xiv, p. 229). Un’alter-

nanza – da entrambe le parti – di bastone e carota, guanto di ferro e pugno di velluto, finché l’11 settembre
Goldoni ringrazia per il sospirato invio di una conciliante cambiale di 100 ducati (ivi, p. 230). Ma l’intreccio
di questi complessi rapporti è ora illuminato da nuove prospettive dal saggio di Anna Scannapieco, Carlo
Goldoni direttore e ‘salariato’ dei suoi comici, « Studi Goldoniani », ix, 1 n.s., 2012, pp. 27-37.
   

2
  Carlo Goldoni e il Teatro di San Luca, cit., p. 110. Non bisogna dimenticare che la presenza fisica dell’au-
tore comportava una preziosa direzione di scena che doveva fare, in molti casi, la differenza, ma a cui,
come sappiamo, Carlo cercava sempre più spesso di sottrarsi. Non si trattava soltanto di orientare gli attori
nella recitazione, ma anche di provvedere in tempo reale ad aggiustare i testi, ottemperando alle richieste
dell’ultimo minuto da parte dei Magistrati della Bestemmia ; in una lettera del 30 dicembre 1758, ad es.,

l’impresario si rammarica che l’assenza di Goldoni abbia compromesso l’esito della Donna forte appunto per
queste ragioni (« se io l’ho mai desiderata in Venezia, è stato certamente in quest’incontro, mentre lei po-

teva rimediare alla mala sorte della Donna forte non licenziata dal Magistrato della Bestemmia »), lamenta il  

proprio danno economico, e le mormorazioni degli attori con accenti di forte insofferenza : « Per difendermi
   

ho preso il partito di renderla avvisata, e con tal promesse, ch’Ella sarà per riparare ad un tal danno in buona
maniera non ostante la sua lontananza. Oh lontananza così pregiudiziale ! Oh condiscendenza troppo faci-

le ! In risposta, che desidero subito, mi faccia il piacere di dirigermi in questo imbarazzo, e suggerirmi un

qualche rimedio » (ivi, pp. 78-79). Proprio a partire dall’incidente della Donna forte fu inaugurata la consue-

tudine di pagare all’autore i testi solo dopo che avessero passato il vaglio della censura (cfr. Scannapieco,
3
Carlo Goldoni direttore e ‘salariato’ dei suoi comici, cit., p. 35).   mn, xiv, p. 219.
la tragedia possibile secondo goldoni 107
hanno ad impararle ; chi sa quanti accidenti possono nascere, e non si possono effet-

tuare ».1 Ma Goldoni non si lascia smontare e il 7 agosto – galvanizzato da un anticipo


di 100 ducati e dalla quiete del soggiorno bolognese – gli manda Gli amori di Alessandro
Magno, e poco dopo anche La scuola di ballo. La risposta dell’altro doveva essere ancora
carica di obiezioni, se il 21 agosto, nella famosa lettera-manifesto, Carlo sviscera nei
dettagli l’intero progetto e ne ribadisce i punti di forza (economicità degli apparati ;  

varietà drammaturgica ; ampia copertura di ruoli previsti, tale da accontentare tutta


la compagnia) ; chiede fiducia a scatola chiusa e traccia un piano di lavoro che giudica

praticabile (due componimenti già inviati, tre in dirittura d’arrivo entro la fine di ago-
sto ; altri due in settembre, e gli ultimi quattro da comporre con agio entro carnevale).

Nel suo entusiasmo (« la quiete in cui mi trovo presentemente, mi fa sperare buon


frutto » ; « ella conti d’averne un’altra prestissimo, e fino che la vena è felice, si contenti
     

ch’io scriva ») 2 si slancia persino in dettagli finanziari concilianti, abbastanza insoliti da


parte sua, confidando che possano pesare in modo decisivo nella trattativa.
Alle perplessità ostinate del suo interlocutore oppone la convinzione che sia appun-
to la proposta unitaria di tutti e nove i componimenti, così concatenati e incorniciati, il
punto di forza di una strategia d’urto irresistibile, « decorosa » e « utile » : 3          

si potrà promettere la prima sera la nuova idea, che certamente sarà strepitosa, se non altro
per la nuova immaginazione, per la varietà dei metri, per la novità di alcuni e per la catena
delle cose proposte. Appunto questa tale catena deve accrescere il merito a tutte le rappresen-
tazioni, cosicché se una commedia sarà debole, la concatenazione la renderà più soffribile, e la
curiosità dei vari stili impegnerà il popolo ad intervenire. 4
Non è il caso qui di addentrarci nell’analisi di un documento molto noto ; 5 ricordiamo  

solo che questa ghirlanda di testi, marcatamente « teatrali » – perché « lo stile dramma-
     

tico [...] in teatro fa bene » 6 – prevedeva la tragicommedia storica Gli amori di Alessan-

dro Magno, in martelliani, sotto gli auspici di Clio ; la commedia in terzine La scuola  

di ballo legata a Tersicore ; la nostra Artemisia, tragedia in endecasillabi sciolti quale


si conviene a Melpomene ; una commedia in sdruccioli, Gl’innamorati, di « ridicolo e


   

di passione », presentata da Erato ; una commedia in martelliani di « argomento criti-


     

co e giocoso », cioè, quasi certamente, L’impresario delle Smirne, legata alla musicalità

di Euterpe ; la tragicommedia in ottave di materia astronomica intitolata Zoroastro e


presieduta da Urania ; l’Enea nel Lazio, tragicommedia eroica in esametri promossa da


1
  Carlo Goldoni e il Teatro di San Luca, cit., pp. 117-118. Sul trionfo scenico della Dalmatina nell’autunno del
1758, unico titolo entusiasmante di una stagione piuttosto infelice, si rimanda alla Nota sulla fortuna nell’ed.
2
a cura di Anna Scannapieco (en 2005).   mn, xiv, p. 220.
3
  Una volta preso l’avvio, Goldoni lavora con ritrovato entusiasmo, animato da una fiduciosa energia :  

« Spedisco questa sera al signor Francesco Pitteri il prologo, ossia introduzione per la prima sera, acciò lo

consegni a V. E., e perché favorisca mandarlo a Verona ai signori comici che l’aspettano con ansietà. In
questo prologo sta il mio impegno, e si accerti pure V. E. che se Dio mi dà salute, sarà adempito, e se la
delicatezza della parola d’onore potesse di ciò temere, il prologo non si farà ; ma se, prima di recitarlo, le

commedie fatte saranno cinque, crederei si potesse azzardare. La quarta è bene avanzata, e si spedirà oggi
otto. La quinta o la spedirò o la porterò meco » (lettera dell’11 settembre, in mn, xiv, p. 230).

4
  Ivi, p. 223.
5
  Se ne sono occupati fra gli altri : Scannapieco, Scrittoio, scena, torchio, cit., pp. 31-35 ; Vescovo, Carlo
   

Goldoni : la meccanica e il vero, cit., pp. 111-115 ; Pieri, Ancora su Goldoni tragico e tragicomico, cit., pp. 205-210 ;
     

Roberta Turchi nel volume, a sua cura, Carlo Goldoni, Prefazioni e polemiche, ii, Introduzioni, prologhi,
6
ringraziamenti, en, 2011, pp. 23-34.   mn, xiv, p. 224.
108 marzia pieri
Calliope ; una commedia in endecasillabi sdruccioli di ambientazione esotica legata a

Talia, e un’altra polimetrica sotto il segno di Polimnia.


Si è spesso osservato che in questa invenzione goldoniana c’è un insolito eccesso di
teoria, che ne opacizza l’esito e lo obbligherà ad inevitabili correzioni di tiro in corso
d’opera, eppure l’idea di confezionare un corpus organico di componimenti temati-
camente così variegato, utilizzando altrettante forme metriche che abbraccino nel
loro insieme l’intera tradizione lirica italiana e il ventaglio relativo degli stili possibili,
è audace e originale. Vi si può riconoscere, con le parole di Piermario Vescovo, « uno  

dei progetti organicamente più definiti della carriera goldoniana, forse il più meditato
in assoluto, di cui solo il sostanziale fallimento ha indotto l’autore a non fare parola
nella ricognizione retrospettiva dei Mémoires ». 1  

Ma non bisogna cedere alle apparenze di un Goldoni una volta tanto più uomo di
libro che di scena, perché, come vedremo, egli costruisce il suo palinsesto pescando
più che mai a piene mani negli arnesi collaudati del baule comico, e intreccia ancora
più strettamente del solito le esigenze ‘alte’ della poetica con quelle concretissime
dell’allestimento. Prima di andare a verificarlo all’interno dei testi, ricordiamo subito
che l’etichetta olimpica del progetto non è affatto nuova, come dichiarato, 2 ma ha
un precedente nel Coro delle muse. Serenata da cantarsi da Sua Altezza Reale, ed elettorale
Federico Cristiano figlio del Regnante Augusto di Polonia, ed Elettor di Sassonia, dalle figlie di
Coro del pio Ospitale della Pietà di Venezia. La poesia è del Sig. Dottor Carlo Goldoni Veneto.
La musica è del Sig. Gennaro D’Alessandro, Maestro di cappella dello stesso Pio Ospitale : 3  

siamo nel 1740 e Goldoni ha già offerto al principe straniero in visita a Venezia la
tragedia Enrico, a cui segue, nel marzo, l’offerta di un articolato trattenimento mu-
sicale di cui fa parte questa cantata. La vicenda editoriale dei due componimenti –
stampati entrambi dal Bettinelli e analizzata da Anna Scannapieco 4 – testimonia delle
forti aspettative, non solo finanziarie ma autoriali e drammaturgiche, di cui l’autore li
investe ; ed è ancor più significativo che, a distanza di parecchi anni, nella prefazione

al sedicesimo tomo Pasquali del 1778, il Nostro – questa volta per niente smemo-
rato – descriva il testo della serenata come un brillante patchwork, grazie al quale
aveva risolto, presto e bene, un problema urgente del committente Pietro Foscarini,
governatore del conservatorio. Anche in quella remota occasione aveva rimontato
materiali preesistenti in un nuovo organismo adatto alla circostanza, con una tecnica
consumata e dissimulata, per cui nessuno si era accorto, rovesciando il ricamo, della
sottostante connessione dei fili :  

1
  Vescovo, Carlo Goldoni : la meccanica e il vero, cit., p. 111.

2
  Si trattava, anzi, di un topos teatrale molto sfruttato, che Goldoni parodizza anche nel libretto Le vir-
tuose ridicole, del 1752, in cui prende in giro, memore di Molière, le accademie letterarie delle villeggiature
accademiche, allestendo in scena (ii.12) una « sala magnifica con scalinata, rappresentante la Reggia di Par-

3
naso colle nove Muse » (mn, x, p. 1139).
    mn, xii, pp. 856-864.
4
  La stampa dell’Enrico esce presso il Bettinelli, a ridosso della rappresentazione, senza una dedica espli-
cita, poiché il principe viaggiava ufficialmente in incognito ; ma Goldoni si rifà ampiamente nel libretto che

contiene la cantata, sempre stampato dal Bettinelli, in cui si autocelebra come poeta tragico e musicale, in
sottile competizione con Metastasio. Anna Scannapieco ha ricostruito con grande finezza il contesto e il va-
lore strategico di questo episodio nel suo saggio « Io non soglio scrivere per le stampe.. » : genesi e prima configura-
     

zione della prassi editoriale goldoniana, « Quaderni Veneti », 20, dicembre 1994, pp. 126-136. Il contesto politico
   

e teatrale delle feste veneziane del 1740 in onore del monarca è ricostruito ora da Beatrice Alfonzetti,
Goldoni. Recite e cantate per Federico Cristiano di Sassonia, in Parola, musica, scena, lettura, cit., pp. 45-64.
la tragedia possibile secondo goldoni 109

Feci un nuovo componimento, intitolato le Nove Muse, e senza cambiare una nota, né delle
arie, né de’ recitativi, feci servire la Musica delle tre cantate alle parole della novella composi-
zione ; e facendo parlare le Muse secondo quegli attributi, che hanno loro i poeti accordati, mi

apersi un largo campo per parlare del principe, che vi dovea intervenire. Niuno poteva accor-
gersi di tal lavoro, e avrebbero tutti giurato che parole, e Musica, tutt’era nuovo. Il Maestro
di Cappella restò stordito egli stesso, quando vide la sua Musica trasportata sopra un nuovo
Soggetto, senza aversi da incomodare a cangiar la menoma cosa, trovando non solo la misura
ben conservata ; ma le lunghe e le brevi, e gli accenti, e i respiri, e tutto finalmente a suo luogo.

Io aveva fatto altre volte un simil lavoro per mascherare qualche Aria vecchia, in grazia di qual-
che Cantante, o di qualche Compositore, ma non l’aveva mai fatto per li recitativi, che sono
ancora più difficili a trasportare. Infine la cosa riuscì a comune soddisfazione ; il divertimento  

comparve nuovo ; il Principe lo aggradì ; il Pubblico lo ammirò ; ed io mi confermai sempre più


     

nel credere, che l’uomo coll’ingegno e colla pazienza fa tutto quello, che vuole. 1
Un ricordo vivido e ancora compiaciuto (contaminato, evidentemente, con il senno
del poi), che testimonia il valore strategico assegnato a quell’antico componimento, 2
ma ci dice anche qualcosa circa la sua ripresa di vent’anni più tardi, quando l’autore,
in un frangente altrettanto difficile, fa un’altra incursione in Parnaso, e schiera nuova-
mente le Muse in palcoscenico a fargli da portavoce.
Nella stagione 1759-1760, così carica d’incognite, si trattava, infatti, di riportare a
unità e senso le divaganti incursioni esotiche e romanzesche della scena circostante,
affiancando comico e tragico, attualità e storia, costume e erudizione ; di ricondurre  

all’ordine, con le buone, le striscianti ribellioni degli attori, e di fare molta figura e
molto rumore con poca spesa. L’asse portante di quest’impresa impossibile, affron-
tata con tanta baldanza, è la rima, il cui legittimo uso scenico egli ha già maturato e
discusso su molti fronti in un percorso, tutto in discesa, che era cominciato con Il Mo-
lière del 1751, e si era consolidato, dalla Sposa persiana in poi, attraverso una serie di ben
trenta tragicommedie e commedie in martelliani (in lingua e in dialetto), 3 intervalla-
te dai « versi drammatici » (cioè sciolti) del Campiello nel 1755, e dagli sdruccioli della
   

Pupilla nel 1757. La rima – di cui possiede molti segreti grazie all’indefesso esercizio
di poeta d’occasione e di librettista – ha ai suoi occhi il pregio di un’intrinseca forza
espressiva e di una peculiare capacità di catturare le emozioni di spettatori ad essa
ben avvezzi ; inoltre aiuta gli attori a impadronirsi del testo, copre, come un provvido

maquillage, errori e incongruenze, e smorza efficacemente le tinte più nere e scabrose,


che « in prosa feriscono più facilmente l’orecchio degli uditori ». 4
   

1
  Carlo Goldoni, Prefazioni e polemiche, iii, Memorie italiane, a cura di Roberta Turchi, en, 2008, pp.
280-281.
2
  Anna Scannapieco ne parla giustamente come del « manifesto programmatico » di un autore che sta
   

tentando di autodefinirsi presso il suo pubblico : cfr. « Io non soglio scrivere per le stampe… », cit., p. 135.
     

3
  Fra il 1753 e il 1759, dopo La sposa persiana, Goldoni compone ben 30 componimenti in versi (Filosofo
inglese, Festino, Terenzio, Peruviana, Torquato Tasso, I viaggiatori, Le massere , Le donne de casa soa, Ircana in Julfa,
La donna stravagante, Il campiello, L’amante di se medesimo, Il medico olandese, Ircana in Ispaan, La donna sola,
Il cavaliere di spirito, La vedova spiritosa, Il padre per amore, Lo spirito di contraddizione, Le morbinose, La bella
selvaggia, L’apatista, La donna bizzarra, La dalmatina, Il ricco insidiato, La sposa sagace, La donna di governo, La
sposa fedele, I morbinosi, La vedova spiritosa) e solo 12 in prosa. Tre di esse sono riadattate come tali per delle
recite romane (Il festino, Le donne di buonumore e La vedova spiritosa), due sono destinate a delle recite private
(L’impostore e L’avaro) e le altre 7 sono : La cameriera brillante, Il cortesan vecchio, La madre amorosa, I malconten-

ti, La buona famiglia, La villeggiatura, Il raggiratore. Una proporzione numerica che rende davvero risibile la
vulgata idea che si tratti di un forzato adeguamento alla moda chiarista.
4
  Dalla prefazione a Don Giovanni Tenorio (1754), in mn, ix, p. 218.
110 marzia pieri
Tutte ottime e concrete ragioni per continuare dunque a servirsene, a cui si ag-
giunge l’intuizione – molto felice nella sua semplicità e rubata di peso alla librettistica
musicale – che a vari tipi di verso si possono associare con efficacia altrettanti topoi,
immagini, affetti e generi ben riconoscibili per il pubblico, 1 allestendo un menù tea-
trale ricco e speziato, originalmente ancorato alla grande tradizione lirica italiana e in
grado di abbinare a determinate forme affetti e sentimenti letterariamente codificati
(eroici, patetici, gravi, grotteschi, ecc…). Il progetto ha illustri referenze teatrali –
basti pensare a Lope, che nell’Arte nueva 2 raccomanda di adattare la forma metrica al
soggetto drammaturgico – e un vasto retroterra di polimetrie librettistiche legate ai
codici musicali. Manca un’adeguata nomenclatura tecnica di riferimento, e, al solito,
si attinge al termine ‘commedia’ come ad una categoria larga e onnicomprensiva, ma
poco importa. 3 Come accade ad altri grandi e veri uomini di spettacolo – da Giraldi
Cinzio a Pirandello – le ridondanti e talvolta ripetitive etichette, sottotitoli e didascalie
a cui Goldoni fa ricorso in varie fasi del suo lavoro sono appunto il segno dell’inesau-
sta ricerca, sempre sbilanciata in avanti, di cui il progetto del Monte Parnaso costitui-
sce un acme. Egli ha alle spalle un magma di commedie, tragicommedie, commedie
« di carattere orientale », « di carattere antico romano », « commedie o piuttosto tra-
         

gicommedie », e sottopone al Vendramin una lista altrettanto generica, in cui si pos-


sono distinguere cinque commedie propriamente dette – due di materia veneziana


(Gl’innamorati, La scuola di ballo) e tre di altra ambientazione (L’impresario delle Smirne,
il previsto componimento in prosa per Talia e forse anche quello polimetrico per
Euterpe) – e quattro pezzi ‘seri’ classicheggianti : tre tragicomici (Amori di Alessandro

Magno, Zoroastro e Enea nel Lazio) e uno solo propriamente tragico (Artemisia).

4.
Di tragedie non ne aveva più scritte da parecchio tempo, dopo il Nerone del 1748, ma
sappiamo che la sua ufficiale livrea di ‘scrittor di commedie’ non gli aveva impedito
di frequentare con profitto il registro tragico, sia in molti componimenti di natura
romanzesca e tragicomica, che in un limitato numero di opere serie per musica ad
essi contigue. 4 Nondimeno il progetto di tornare a scrivere una tragedia, dopo dieci

1
  « I vari tipi di verso possono avere la funzione di topoi, nell’accezione di Ernst Robert Curtius : per molte
   

e molte generazioni, determinate immagini o affetti sono stati associati a determinati tipi di verso, ed alla
musica che a questi si adattava. […]. Un […] topos poetico-musicale pilotava subito la fantasia dell’ascolta-
tore nella direzione voluta. Sarebbe comunque del tutto errato pensare di poter classificare ritmi di questo
tipo secondo un criterio puramente schematico-razionale. In quanto creazioni artistiche, essi hanno signifi-
cati molteplici e necessitano dunque di immedesimazione e interpretazione » (Wolfgang Osthoff, Musica

e versificazione : funzioni del verso poetico nell’opera italiana, in La drammaturgia musicale, cit., pp. 127-128). A

proposito di Goldoni versificatore e poeta è prezioso il saggio di Vincenzo Dolla, Il dolce metro di Carlo
Goldoni, « Esperienze letterarie », xx, 4, 1995, pp. 35-54.
   

2
  « Conformi i versi con molta prudenza / ai vari fatti che viene trattando : / le décimas convengono ai
   

lamenti, / il sonetto sta bene se si aspetta, / i racconti domandano i romances, / e anche in ottave riescono
benissimo, / le terzine sono per cose gravi, / le redondillas per quelle d’amore » (Lope de Vega, Nuova arte

di far commedie in questi tempi, a cura di Maria Grazia Profeti, Napoli, Liguori, 1999, p. 67).
3
  Cfr. Scannapieco, Scrittoio, scena, torchio, cit., pp. 30 e 129.
4
  Sui suoi trascorsi tragici giovanili – che nella prefazione Bettinelli ricorda accolti « con compatimento »,
   

per quanto in seguito accantonati in favore della commedia – si rimanda ai contributi di Paola Luciani,
Considerazioni sul Goldoni tragico, in Goldoni in Toscana, « Studi italiani », v, 9-10, 1993, pp. 183-195, ora ripub-
   

blicato in Eadem, Drammaturgie goldoniane, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2012, pp. 3-19 ; Piermario

la tragedia possibile secondo goldoni 111
1
anni di succedanei, segna, come vedremo, una discontinuità significativa. Una let-
tura sinottica delle tre tragicommedie tutte ‘all’antica’ (Amori di Alessandro Magno,
Zoroastro e Enea nel Lazio) le rivela costruite su intrecci molto simili : su un collaudato  

sottotesto melodrammatico vengono aggregati, con montaggi diversi, identici ma-


teriali di base ; in tutti e tre l’autore attinge a un tesoretto di invenzioni sperimentate

con successo nella trilogia persiana e sovente riutilizzate, per esempio, nella fortunata
rielaborazione, tre anni prima, del libretto della Statira, che possiamo considerare
un precedente importante di questo exploit del 1759. Semplificando all’estremo, vi ri-
conosciamo l’esplorazione, entro cornici variamente pittoresche e monumentali, di
conflitti passionali triangolati ; ci sono sempre due donne rivali e un uomo irresoluto

e inadeguato che deve fronteggiarle ; il plot ne ripercorre le sofferenze angosciose e gli


scontri concitati e furenti, sfiorando da vicino la catastrofe per ricomporla in extremis


nel lieto fine.
È un congegno teatrale d’antan, fatto apposta per valorizzare in chiave antagonista
la coppia delle due amorose, che Goldoni ha già sfruttato molte volte con successo
(così come farà Gozzi), 2 e che qui rinverdisce. 3 Se nella remota Rosmonda se ne era
servito in modo inerte e meccanico, contrapponendo Rosmonda ad Alvida, 4 si era
fatto via via sempre più abile, fino al gran salto di qualità della Sposa persiana, dove
la prima amorosa Teresa Gandini – pacata, saggia e eloquente – era stata messa a
confronto con Caterina Bresciani, una schiava subalterna ma sessualmente prediletta,
sfrontata e audace, che era uscita, come sappiamo, scenicamente vincente. Nelle pun-

Vescovo, Le riforme nella riforma. Preliminari goldoniani, « Quaderni Veneti », 16, dicembre 1992, pp. 119-152 ;
     

Scannapieco, « Io non soglio scrivere per le stampe », cit., e al mio Ancora su Goldoni tragico e tragicomico, cit.
   

Sui libretti seri è disponibile ora l’edizione dei Drammi seri per musica, a cura di Silvia Urbani (en, 2010). È
evidente che, nonostante l’imponenza e l’autorevolezza del dibattito critico intorno al genere tragico, la
scrittura di tragedie resta sempre intrecciata a quella librettistica nella pratica scenica, con una reciproca e
stretta contiguità tematica nelle scelte di repertorio.
1
  Consapevole di questo, la musa Melpomene lancia al pubblico una specie di sfida : « Chi sa, dato non
   

siami / Da quei mirar, cui lacrimar non piace, / Una Tragedia tollerata in pace ? / Artemisia destino / Per

oggetto propor. La più costante / Femmina, che serbasse al pio consorte / Amor in vita e fedeltade in mor-
te » (Goldoni, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, cit., p. 193). Ai rapporti di Goldoni con la tradizione

romanzesca, particolarmente importanti in questo esperimento, sta lavorando da tempo Gilberto Pizzami-
glio, che ha anticipato, in molti interventi tenuti a convegni goldoniani degli ultimi anni – e in particolare in
una relazione tenuta a Padova il 20 ottobre 2008 – le linee della sua ricerca.
2
  Su questo aspetto della drammaturgia gozziana, legato appunto alla sovrabbondanza di attrici valenti
presenti nella compagnia Sacchi, rimando al mio Da Andriana Sacchi a Teodora Ricci : percorsi di drammatur-

gia, « Problemi di critica goldoniana », xiii, 2007, pp. 29-50 (che raccoglie gli Atti del Convegno Carlo Gozzi
   

entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur : un carrefour artistique européen, tenutosi a Parigi il 23-25

novembre 2006).
3
  Si veda anche Franco Fido, Eroine esotiche nelle « tragedie galanti » scritte fra Roma e Parigi (1759-1761),
   

« Problemi di critica goldoniana », xvi, 2009, pp. 59-72, che analizza questo manipolo di testi (e di una serie di
   

commedie circostanti) in chiave piuttosto ‘ideologica’ e sociologica, giungendo alla conclusione che « L’ar-  

gomento comune alle tragicommedie del 1759-1761 è il rapporto fra le donne e il potere […] il loro temibile
antagonista, l’uomo che esse devono blandire e manipolare, diventa paradossalmente una banderuola e
uno zimbello : talché dietro gli eroi più celebrati, da Enea ad Alessandro, riconosciamo dei risibili petits

maîtres. Potrebbe stare in questo duplice carattere, di denuncia e di wishful thinking, il superstite interesse
delle nostre povere tragicommedie » (p. 71). Un giudizio corretto, ma decisamente parziale sul piano storico

e teatrale.
4
  Si rimanda all’edizione del testo a cura di Paolo Quazzolo (en, 2009). Di Rosmonda e altri personaggi
femminili di questa fase si è occupata Paola Trivero, Eroine tragiche, « Problemi di critica goldoniana », xv,
   

2008, pp. 189-199.


112 marzia pieri
tate successive della storia, e in altri testi dati in luce dopo la partenza per Dresda della
Gandini – e dopo che la Bresciani era diventata la prima donna e il perno di tutto il
suo lavoro al San Luca – il dispositivo si era complicato, con crescente successo – oltre
la contrapposizione virtù/vizio, mitezza/arroganza – in arcipelaghi sentimentali e
passionali di segno nuovo. 1
Goldoni fa dunque ricorso a dei calchi drammaturgici predeterminati, come a una
specie di pantografo, per elaborare serialmente varianti e costanti che il pubblico
conosce a menadito, e riconosce con piacere, apprezzandone appunto le ingegnose
riproposte. La metafora dello scalco che maneggia con destrezza cibi precotti 2 si atta-
glia perfettamente a questa fase del suo lavoro, in cui ripesca e rimette in circolo temi,
personaggi e intrecci legati agli esordi con l’Imer, il Gori e il Lalli, ma dove il nero
della bulesca e il comico degli zanni sono ora sovrastati dai languori e dai furori di
principi, guerrieri, fanciulle regali, ancelle e subalterni semibuffi, attinti dal romanzo
e dal teatro per musica.
L’avventura del 1759 ha, come si è detto, un antefatto nel 1756, quando riscrive la
Statira, un libretto del 1741, per un allestimento al teatro Grimani commissionatogli
per la festa dell’Ascensione. La stampa Pitteri uscita per l’occasione reca un’interes-
sante dedicatoria : « Alle nobilissime Dame veneziane », in cui l’autore dà conto di que-
     

sto ritorno alla librettistica seria dopo tanti successi di poeta comico, chiedendo am-
menda, ma anche, al solito, perimetrando con precisione il proprio territorio rispetto
al grande modello metastasiano di riferimento :  

Ma che averò fatto io con tutta questa fatica ? Un bel dramma ? No certo ; lo so da me, sen-
     

za che nessuno s’incomodi a rimproverarmelo. È cosa troppo difficile a’ giorni nostri far un
dramma che incontri. Dopo i tanti sì belli e sì elegantemente scritti dal celeberrimo Metasta-
sio, chi può mai lusingarsi di tal fortuna ? Questo sì degno autore, secondo me, è inimitabile ; e
   

chi più si affatica ad imitarlo, va a pericolo di far peggio. Ciascheduno che scrive si dee formare
uno stile. Il mio, facile e schietto, può sperare compatimento nella comica prosa, o nei comici
versi, e sollevandomi alla gravità dell’eroico, veggomi sotto i pié la caduta. 3
Anche nella Statira si fronteggiano due donne rivali, Rosane e la matrigna Statira,
rispettivamente figlia di primo letto e vedova del defunto Dario re di Persia, in un
groviglio di gelosie amorose, equivoci e congiure politiche. 4 Vari indizi ci assicurano
che l’autore giudica riuscito l’esperimento, 5 in cui si confronta con Metastasio dal
proprio versante di autore comico, già avvezzo a maneggiare in commedia i proble-
mi del melodramma. 6 Alla gravità dell’eroico torna dunque, appena tre anni dopo,
rifacendosi al medesimo schema, e sempre ricordandosi dell’ammirato maestro, a cui

1
  A proposito degli slittamenti estetici e drammaturgici che stanno investendo le categorie di « virtù »    

e di « vizio » all’interno del laboratorio goldoniano di questi anni, si rimanda alle lucide riflessioni di Anna
   

Scannapieco nell’introduzione alla sua edizione della Buona madre (en, 2001), pp. 18 sgg.
2 3
  Cfr. Vescovo, Ritratto del poeta teatrale da disegnatore, cit., pp. 134-153.   mn, xii, p. 1171.
4
  Per un’analisi di questo testo, della sua riscrittura, che ne espunge gli originari elementi comici, e della
relazione con Metastasio, si rimanda a Franco Vazzoler, A proposito di Goldoni autore di libretti seri per mu-
sica, in Forme del melodrammatico. Parole e musica (1700-1800). Contributi per la storia di un genere, a cura di Bruno
Gallo, Milano, Guerini e Associati, 1988, pp. 115-143.
5
  Nei Mémoires lo ricorda compiaciuto come un componimento ben riuscito e ben pagato (p. i, chap.
xliv, in mn, i, p. 199).
6
  Cfr. Vazzoler, A proposito di Goldoni autore di libretti seri per musica, cit., p. 132, e Mariasilvia Tatti,
Goldoni e Metastasio, « Problemi di critica goldoniana », xv, 2008, pp. 113-131.
   
la tragedia possibile secondo goldoni 113
1
aveva dedicato, proprio nel 1758, il Terenzio nel terzo tomo Pitteri : gli tributa, in que-  

sta circostanza, un fervido omaggio, quale restauratore sommo del teatro musicale
(giacimento di materiali preziosi anche per quello drammatico), inarrivabile esperto
di passioni, maestro di stile, padrone di tutte le tecniche. Ma non rinuncia, al solito, a
rimarcare sommessamente la propria legittima diversità :  

Permettetemi che con voi mi confessi ; ho avuto anch’io il prurito di battere questa strada.

Portato da un forte genio al teatro, allettavami la dolce lusinga dei componimenti per musica.
Dirò di più : mi sono anche provato, ma lode al Signore, ho conosciuto in tempo la vana im-

presa di essere per questa via compatito, e ritrovando un calle aperto per la via più umile della
Commedia, per quella ho cercato inoltrarmi, non perdendo perciò di vista la vostra guida,
negli argomenti principalmente più nobili e virtuosi. 2
Una dichiarazione che rende conto delle molte presenze metastasiane all’interno
della sua opera, dove il modello dell’abate – come, in direzione inversa, accadrà ad
Alfieri sulle scene musicali ottocentesche – s’inabissa carsicamente, è fatto oggetto di
metamorfosi e manipolazioni di ogni tipo, e metabolizzato in profondità, ben oltre
l’usanza di recitarlo semplicemente senza musica. 3 Goldoni sa bene – e ricorda in più
luoghi – di avere cominciato dal fallimento dell’Amalasunta, « tragédie lyrique » dallo    

stile « plus tragique que musical », 4 scritta col miraggio di guadagni più sostanziosi di
   

quelli assicurati dalle commedie, e poi data alla fiamme d’impulso, decidendo con
rabbia « che l’Italia avea più bisogno di autori comici, che di tragici e di drammatici ». 5
   

Già allora, tuttavia, pur sconfitto dalla propria incapacità di utilizzare le regole corren-
ti della librettistica, aveva vagheggiato di poterne fare « una buona tragedia, e ripor-

tarne, se non dell’utile, almen dell’onore » : 6 un’intuizione che sedimenta lentamente


   

fino a questo sequel di tragicommedie melodrammatiche e antieroiche del 1759, dove


il confronto a distanza è ripreso con rinnovata competenza e sicurezza. Ringraziando
Metastasio di aver sottoscritto l’ed. Paperini, è in grado ora di descrivere con maggior
precisione la propria variante :  

Vi troverete […] un non so che di drammatico, tratto dalla vostra scuola, in me sofferto dal po-
polo in grazie dell’umil titolo di commedia. Lo troverete scritto in un verso comico, di cui non
so se siate voi persuaso, ma le ragioni che m’indussero ad un simil verso, le ho dette altrove, e
il pubblico, a cui dobbiam cercar di piacere, mi obbliga a continuarlo. 7
Per quanto lo ammiri e lo saccheggi (in particolare in questa serie di componimenti),
Goldoni smantella tuttavia dall’interno il sistema metastasiano di ancorare i perso-
1
  Lungi dall’essere l’anti-Metastasio di cui parlava Folena (cfr. Goldoni librettista comico, in Gianfranco
Folena, L’italiano in Europa, Torino, Einaudi, 1983, p. 309), Goldoni ha guardato al grande riformatore del
melodramma con attenzione e acutezza, aspirando a imitarne la prestigiosa avventura professionale, e a rical-
carne le orme drammaturgiche di scandaglio delle passioni e della condotta umana, come vide lucidamente
Arnaldo Momigliano, dichiarando che il suo giudizio è « uno dei più precisi e meno ricordati che si abbiano

su questo poeta, […] non solo quello di un intenditore, ma anche quello di uno spirito consenziente e di un
temperamento artistico affine » (Arnaldo Momigliano, Saggi goldoniani, a cura di Vittore Branca, Venezia,

2
Istituto per la collaborazione culturale, 1959, p. 223).   mn, v, p. 688.
3
  Sulla questione si rimanda a Piermario Vescovo, « L’armonia dei cucchiai » : Metastasio nello specchio dei
     

comici e a Giorgio Mangini, Il Metastasio recitato e altri paradossi, in Il canto di Metastasio, Atti del Convegno
(Venezia, 14-16 dicembre 1999), a cura di Maria Giovanna Miggiani, Bologna, Forni, 2004, ii, risp. pp. 573-585
4
e 587-602.   Cfr. Mémoires, p. i, chapp. xxiv e xxvii.
5
  Così nella prefazione al t. xi delle Memorie italiane, cit., p. 197.
6 7
  Ivi, p. 197.   mn, v, p. 688.
114 marzia pieri
naggi a ruoli predefiniti, e punta piuttosto sugli slittamenti spiazzanti, che ‘deludono’
le aspettative del pubblico ma garantiscono proprio per questo il piacere della sor-
presa. Lo ha già fatto con successo tante volte, dalla Locandiera alla Sposa persiana (e
ora anche negli Innamorati), 1 contando sulle integrazioni dei sottotesti recitativi e sul
contributo degli attori, in genere troppo sottovalutato e trascurato negli allestimenti
operistici. 2 Per disfarsi delle famigerate etichette egli conta infatti, nonostante tutto,
sulla loro decisiva collaborazione. Come scrive al Vendramin :  

Venezia vuol novità. Cerchiamo di soddisfarla, ma per la via blanda di una reciproca onesta
corrispondenza fra gli attori e l’autore, e sia questa animata dalla giustizia e dall’equità. 3
A proposito dunque delle etichette, sento quel che pensa V. E. intorno alla distribuzion delle
parti. Vero è che chi ha parte, va preferito allo spesato, ma nelle mie commedie si è sempre
cercato la proprietà, e non l’etichetta. […]. Nove commedie possono soddisfar tutti i comici :  

per altro poi, se V. E. ha dei motivi particolari per fare diversamente, ella è padrone di tutto. Se
in queste due commedie ho adoprato tutti i personaggi, nelle altre mi regolerò diversamente.
Ma sa che le ho sempre detto che la mutazione de’ personaggi non mi spaventa, e che chi fa
gli orologi, li sa accomodare se sono guasti. 4
La sua baldanza di orologiaio onnipotente era destinata, in realtà, a ridimensionarsi
di molto, ma gli ingranaggi li sapeva senz’altro costruire. Ne Gli amori di Alessandro
Magno (che si apre con la pittoresca scena del narghilè, quasi un obbligato topos sceno-
grafico e iconografico già utilizzato nelle Persiane), 5 ritroviamo l’Oriente della Statira
(e persino l’onomastica di Statira e Rosane) attinto dalle Storie di Alessandro di Curzio
Rufo, serbatoio di tanta drammaturgia seicentesca drammatica e musicale (da Alexan-
dre le Grand di Racine, agli Amori di Alessandro e di Rossane del Cicognini ; dall’Alessan-  

dro in Sidone di Zeno e Pariati, all’Alessandro nelle Indie dello stesso Metastasio), 6 ma il
focus drammatico, come si è detto, è quello dell’irresolutezza dell’eroe protagonista,
che si barcamena goffamente fra diverse ipotesi sentimentali, con un contorno di
complicazioni militari e spettacolari 7 e l’apparizione finale di un fantasma memore di

1
  Tutta la rilettura della commedia condotta di recente da Siro Ferrone, nell’edizione a sua cura (en,
2002), si fonda sulle implicazioni di una serie di ribaltamenti a catena del mansionario consueto di compa-
gnia, per cui « il primo zanni è subentrato al posto del Magnifico ; il Dottore si è fatto secondo zanni ; una
     

servetta è stata promossa a innamorata ; una “seconda donna” è – di fatto – innalzata al ruolo di “prima

donna” », ribaltamenti grazie ai quali Goldoni fu in grado di « sfruttare il linguaggio teatrale per dare corpo
   

visibile a una storia intessuta di infelicità e felicità possibili » (pp. 22-23).


2
  Nella medesima dedicatoria al Terenzio lamenta infatti la cattiva resa dei suoi drammi per la frettolosa e
incongrua scelta degli attori da parte degli impresari : « quante volte ho dovuto compiangere il destino delle
   

opere vostre, da attori barbari maltrattate ! Qual compassione non mi faceva vedere un vecchio panciuto

sostenere la soavissima parte di Alceste ; un burattino sguaiato quella di Jarba, e una preziosa indurita rap-

presentare Cleofide ? » (mn, v, p. 686).


   

3 4
  mn, xiv, pp. 214-215 (lettera del 17 marzo 1759).   Ivi, 225 (lettera del 21 agosto 1759).
5
  Ne La sposa persiana, i.1 e iv.3, o in Ircana in Julfa, ii.1 ; sulle ‘fonti’ iconografiche e l’attualità sociologica e

merceologica di ambientazioni e attrezzerie all’orientale rimando alla mia già citata edizione della ‘trilogia
6
persiana’.   Cfr. Fido, Eroine esotiche, cit., p. 63.
7
  Il carteggio con il Vendramin sottolinea a più riprese che i dispositivi scenici previsti per queste tragi-
commedie possono essere all’occorrenza tagliati e semplificati in caso di necessità : « il campo d’Alessandro
   

si fa con dei padiglioni ; di questi alla compagnia non ne mancano. Il seguito delle Amazzoni ho detto se si

può ; per altro per la scena bastano le due che parlano. Il tempio i comici l’hanno, e un mausoleo di carta

dipinta non costa molto. Io sono avvezzo a far le cose con poca spesa » (mn, xiv, p. 224) ; ma l’impresario
   

gli obietta che « il rappresentare il dramma senza le magnifiche decorazioni in esso enunziate, egli è un

esponerlo ad un grande rischio di cadere. Rappresentarlo con le medesime ell’è un dispendio, che non è
la tragedia possibile secondo goldoni 115
Voltaire (l’altro polo di riferimento, come vedremo, di questo laboratorio). Anche lo
Zoroastro pesca da Metastasio, 1 e farcisce di inserti astrologici abbastanza estrinseci 2
un intreccio dove la ragion di stato è sovrastata dalla gelosia amorosa, dalle rivalità
femminili, dalle disparità sociali, e si conclude con un doppio matrimonio ; domina su  

tutti il personaggio fatale di Semiramide, tessitrice di un audace intrigo politico : ospi-  

te alla reggia dei Battriani, essa fa ingelosire la principessa Nicotri (fidanzata di Zoro-
astro) e anche il principe Nino (suo promesso sposo che l’accompagna sotto mentite
spoglie), ma poi risolve audacemente tutti i disordini che ha suscitato con una renga
appassionata che ricorda quella di siora Felice nei Rusteghi (forse già in incubazione), 3
e congeda il pubblico con brio sentenzioso : « Se la nostra commedia poco vi feo con-
   

tenti, / questi applaudite almeno ultimi sentimenti. / Per iscoprir gl’inganni sia pur
l’amante accorto ; / ma il dubitar di tutto reca alla fede un torto ». 4
   

Gli amari risvolti domestici della regalità, le sofferenze e le bassezze della gelosia,
e una fatale disparità di sentire fra donne appassionate e « regi imbelli » sostanziano   

anche l’Enea nel Lazio, dove la fonte ovidiana dei Fasti, sovrasta di gran lunga quel-
la inizialmente dichiarata dell’Eneide. 5 Un cambiamento non indolore, sul piano sia

per una cassetta di comedianti » (Carlo Goldoni e il Teatro di San Luca, cit., p. 151). Al suo scetticismo verso

Gli amori di Alessandro Magno si affiancano le tiepide e elusive reazioni del Pitteri e dello Sciugliaga, ai quali
anche l’entusiasta autor fa leggere il testo : « Pitteri mi scrive di aver letto la commedia, o sia tragicommedia :
     

egli non mi dice sopra di essa alcuna cosa essenziale. Se ne sarà forse scordato. L’ha letta con lui il mio caro
onoratissimo amico Sciuliaga ; egli mi suggerisce due picciole cose » (mn, xiv, p. 225).
   

1
  Gasparo Gozzi, nella sua recensione del 26 novembre sulla « Gazzetta veneta » (cfr. mn, ix, p. 1361), vi
   

rileva elementi desunti dall’Alessandro nelle Indie. Lo Zoroastro era comunque un soggetto molto à la page :  

nel 1752 Casanova aveva tradotto lo Zoroastre di Rameau del 1749 per il teatro di Dresda, riscuotendo un
trionfale successo, e nel 1755 era uscito a Bologna un romanzo intitolato Zoroastre. Istoria tradotta dal caldeo
in francese e dall’ultimo in italiano (cfr. Adolfo Albertazzi, Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento,
Bologna, Zanichelli, 1891, p. 423).
2
  La preponderante presenza dell’astrologia, dovuta alla connessione con Urania, annoiò gli spettatori,
fu biasimata garbatamente da Gasparo Gozzi e riconosciuta in parte eccessiva persino dall’autore ; ricordia-

mo però, a conferma della compattezza dell’officina drammaturgica di cui stiamo ricostruendo le tracce,
che c’è un Pantalone astrologo anche in un fortunato scenario, Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato, scritto
per il San Samuele e recitato con successo dal Sacchi negli anni ’40 : un testo di eccezionale fortuna, che si

radica stabilmente nei repertori portati in giro per l’Europa dagli attori italiani, e che sarebbe stato di lì a
poco allestito, il 12 luglio 1761, alla Comédie Italienne, suscitando entusiasmo e commozione e accelerando
in modo decisivo la chiamata di Goldoni a Parigi. Non possediamo l’originale italiano – che forse doveva
essere meno patetico e meno erudito dello scenario francese arrangiato dall’attore Zanuzzi – ma sarebbe
interessante poterlo leggere e verificare, nello specifico, la direzione dei prestiti fra canovacci e tragicom-
medie. La loro parentela, resta comunque assodata e significativa, sia nel caso che un’invenzione per le
maschere sia riutilizzata nello Zoroastro, sia in quello opposto che dallo Zoroastro ritorni ad Arlecchino e a
Pantalone. Ma se ha ragione, come credo, Andrea Fabiano circa il fatto che i copioni recitati a Parigi im-
mediatamente prima della stipula ufficiale del contratto siano in realtà di mano goldoniana, la questione
è risolta. Cfr. Andrea Fabiano, Gli allestimenti goldoniani alla Comédie Italienne fra autorialità e attorialità,
« Problemi di critica goldoniana », xvi, 2009, pp. 239-250, e Idem, Le commedie goldoniane del periodo parigino,
   

« Studi goldoniani », ix, 1 n.s., 2012, pp. 105-132.


   

3
  Il deciso affievolimento dell’elemento politico in favore di quello psicologico è rimarcato anche da Bea-
trice Alfonzetti, Zoroastro e gli ultimi eroi tragici, « Problemi di critica goldoniana », xv, 2008, pp. 233-258.
   

4
  mn, ix, p. 1209.
5
  Aveva scritto al Vendramin, il famoso 21 agosto : « Ho pensato trar l’argomento dal bellissimo poema
   

epico di Virgilio, e, per adattarmi allo stile del poeta latino, penso valermi d’alcuni versi chiamati eroici ad
imitazione dei latini esametri, di che ne abbiamo l’esempio in Annibal Caro nelle sue poesie varie, ed in
altri scrittori ; volendo io aggiungere qualche novità a detto verso, che lo renda singolare, e nuovo » (mn,
   

xiv, pp. 222-223).


116 marzia pieri
tematico, che formale (per cui cadrà di conseguenza anche la possibilità di adottare
l’esametro) che si lega, ancora una volta, a Metastasio in modo piuttosto clamoro-
so : la Didone abbandonata di riferimento è utilizzata, infatti, come specifico antefatto

dell’azione : Enea è arrivato nel Lazio, vince Turno e sta per sposare Lavinia, ma si

trova alle prese con Selene – sorella della regina defunta, già innamorata di lui a Car-
tagine 1 – che sbarca in Italia in fuga dalle prepotenze di Jarba, gli rinfaccia la sua viltà
e i suoi tradimenti e ne attizza i rimorsi, ponendolo in una situazione insostenibile
nei confronti della promessa sposa gelosa. Un’altra ospite scomoda e ingombrante,
placata provvidenzialmente dall’amore improvviso (e ricambiato) che la coglie per il
giovane Ascanio, a sua volta impaziente di nozze.
La coppia femminile antagonista (Statira-Rossana ; Semiramide-Nicotri ; Lavinia-
   

Selene) per il possesso di un uomo irresoluto o ostacolato da vincoli imprescindibili


– da cui era partita l’invenzione della Sposa persiana – è dunque il cardine drammatur-
gico sia degli Amori di Alessando, che di Zoroastro e di Enea nel Lazio ; dopo tormenti,  

battibecchi, puntigli, recriminazioni, profferte esagitate di esclusivismo amoroso, pe-


nose autogiustificazioni, gli intrecci si concludono sempre con un doppio matrimo-
nio da commedia, replicando la soluzione che, nell’Ircana in Iulfa, aveva già risolto un
conflitto a rischio di tracimazione tragica. 2 Un dispositivo che negli Innamorati viene
giocato in un interno da tragedia domestica (anche qui la cognata ospite, a cui si deve
riguardo e compagnia, è la causa dei tormenti di Eugenia) ma con identico andamen-
to sussultorio, nel solco, forse, della Donna stravagante, che aveva contrapposto, più
fiaccamente, l’impetuosa Livia alla virtuosa sorella Rosa. Questa commedia del 1756
non aveva riscosso per la verità particolare fortuna, eppure l’autore ci era particolar-
mente affezionato (come spiega nella prefazione per il sesto tomo Pitteri) e, con una
significativa amnesia selettiva, molti anni dopo la colloca, nei Mémoires, proprio in
questi paraggi, nel carnevale 1760, attribuendone il fallimento scenico alla scarsa col-
laborazione di Caterina Bresciani, ma ribadendo che il testo non se lo meritava. 3
In questi tre componimenti gemelli, farciti di dettagli spettacolari e pittoreschi e
attinti da un immaginario attualissimo presso il pubblico, le varianti si giocano dun-
que all’interno di un catalogo di affetti appassionati, dove l’ambita ‘targa’ letteraria
di partenza (Ovidio, Metastasio, la biografia storica) risulta, alla prova dei fatti, mera-
mente estrinseca ; alla fine si tratta di tre cloni modesti, più da baule che da accademia,

e l’autore, frustrato, deve arrendersi a diversi compromessi. L’Introduzione alle recite


per la prima sera dell’autunno 1759, e susseguente carnovale dell’anno 1760 porta in scena in

1
  Nell’Introduzione alle recite Autunnali in Venezia nell’anno 1760. Recitata dalla Signora Caterina Bresciani,
Prima Donna della Compagnia che dicesi di S. Luca si sottolinea questa derivazione metastasiana segnalata
dalla coincidenza onomastica, dopo aver raccontato per sommi capi l’intreccio ovidiano della vicenda, che
ha come protagonista Anna Perenna : « E come d’Anna il nome cambiato in sulle scene / Piacque al celebre
   

Vate, noi la direm Selene. / Piacciavi alla memoria mandar l’avvertimento, / Che serviravvi un giorno di
prologo e argomento » (Goldoni, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, cit., pp. 201-202).

2
  Ricordiamo che in questa seconda puntata della trilogia persiana, dopo la partenza della Gandini per
Dresda che gli lascia mano libera, Goldoni – pressato dall’entusiasmo del pubblico per il personaggio di
Ircana – rovescia spregiudicatamente l’esito della Sposa persiana (dove Tamas, ‘ravvedutosi’, l’aveva scacciata
per scegliere la sposa devota) e ne insegue le tracce fra gli Armeni di Julfa. Qui il giovane, pentito e innamo-
rato, la va a ricercare e, dopo molte peripezie, riesce a sposarla, grazie alla collaborazione dell’amico Alì,
che prende in moglie la ripudiata Fatima, con buona pace di tutti (v.7).
3
  Cfr. Mémoires, p. ii, chap. xlii.
la tragedia possibile secondo goldoni 117
gran pompa Apollo e le nove muse, sullo sfondo del monte Parnaso, ad annunciare,
come previsto, l’intero programma, 1 ma il mediocre esito dell’Alessandro, recitato in
ottobre per sole due sere, consiglia di far slittare all’autunno successivo sia Enea nel
Lazio (steso alla fine in sciolti e non in esametri) che Zoroastro (in martelliani e non in
ottave). Sono, ahimè, altri due fiaschi, rispettivamente di quattro e due repliche.
Della serie promessa, l’anno comico 1759-1760 vede andare in scena in autunno La
scuola di ballo e Artemisia, quindi, in carnevale, Gl’innamorati (in prosa e non in sdruc-
cioli), e L’impresario delle Smirne (nei martelliani previsti). Gli altri due componimenti
comici della serie restano non identificati e forse si perdono per strada.
Fallisce il tandem metrico/drammaturgico in cui Goldoni aveva riposto tante spe-
ranze ; il silenzio assordante dei Mémoires al riguardo è molto chiaro, ma altrettanto

chiare (e molto meno ovvie) sono le ricadute di questi maldestri tentativi di innova-
zione sulle commedie delle due stagioni successive, le ultime del suo lavoro a Venezia :  

nelle varie tappe di questa disastrosa galleria tragicomica riconosciamo agevolmente


le fragilità e le incomprensioni che attanagliano i personaggi degli imminenti ‘capola-
vori’ in cartellone fra il 1760 e il 1762, da sempre celebrati in quanto « non teatro […],  

non palcoscenico, non musica e contrappunto, non letteratura, non artificio, ma vita
e poesia », 2 e dove Goldoni travasa invece l’alchimia melodrammatica sperimentata in

queste lande di cartapesta, come aveva a suo tempo intuito Ludovico Zorzi, 3 ricono-
scendo in controluce i tecnicismi della pièce à canevas sottesi agli Innamorati. Qui – o
ad es. nella Casa nova, nella Buona madre, o nella Trilogia della villeggiatura – l’autore
anima di spunti realistici (persino autobiografici, quali le bizze dei suoi ospiti romani,
un recente trasloco, o un itinerario cittadino particolarmente riconoscibile)4 alcuni
collaudati numeri teatrali, mentre fra la Persia e l’antico Lazio il cortocircuito non era
scattato, anche se il metodo era stato il medesimo.
Caterina Bresciani, presentando le recite autunnali dell’anno comico successivo,
lamenta un intervenuto abbassamento di tono :  

1
  Il testo dell’Introduzione, con la didascalia « la Scena rappresenta il Monte Parnaso », fu distribuito in
   

foglio volante da Pitteri e poi stampato nel 1793 dallo Zatta. In realtà interloquiscono soltanto Apollo e
cinque Muse (Clio, Tersicore, Melpomene, Talia e Urania), ciascuna provvista dei suoi tradizionali attributi
iconografici, le altre quattro, come precisa la didascalia leggermente modificata dall’edizione Zatta, restano
mute in secondo piano « vicino al fonte che scorrerà ai piedi della montagna » ; è Clio a precisare al pubblico
     

che i lavori sono ancora in corso nella parte finale, che è un classico « complimento » teatrale, chiedendo
   

solidarietà e indulgenza per lo « […] stravagante impegno / Di quel meschino ingegno, / Che si lusinga

dei superni auspici, / Fidando sol nei vostri cori amici. / Voi l’Apollo sarete, e voi le Muse, / Che all’ardito
Poeta / Forza darà nella novella impresa » (Goldoni, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, cit., p. 198). Cfr.

la puntuale analisi del documento fatta da Roberta Turchi (ivi, pp. 27-34).
2
  mn, vii, p. 1399. Fra le molte testimonianze di queste – pur legittime – letture, ricordiamo, ad esempio,
che per Luigi Squarzina nella Casa nova « si fa luce la coscienza della inarrestabile decadenza del microcosmo

veneziano. Beninteso, questa coscienza i personaggi di Goldoni, Goldoni stesso, e gli spettatori con cui
aveva a che fare, la sopportano per non più di un attimo, accettano di vedere il crollo della polis della classe
della famiglia dell’io alla luce d’un lampo, purché poi tutto si riassesti nella irridescenza ingannatrice di un
sereno crepuscolo » (Luigi Squarzina, « La Casa Nova », in Idem, Da Dioniso a Brecht. Pensiero teatrale e azione
     

scenica, Bologna, il Mulino, 1988, p. 132).


3
  Ludovico Zorzi, Sul tema degli « Innamorati », in Idem, L’attore, la Commedia, il drammaturgo, Torino, Ei-
   

naudi, 1990, pp. 253-274 (già comparso come introduzione all’edizione, a sua cura, della commedia, Torino,
Einaudi, 1972).
4
  Come osserva Anna Scannapieco a proposito del giro per Venezia descritto nella Buona madre, evocan-
do la casa di un « amigo in Cale delle Balotte », cioè dello stesso Goldoni, da pochissimo trasferitosi in quella
   

nuova abitazione, che già aveva allusivamente alimentato la trama narrativa della Casa nova » (Introduzione

a La buona madre, cit., p. 38).


118 marzia pieri

Dov’è il Monte Parnaso ? Dove Aganippe è andato ?


   

Dove Messer Apollo dell’anno oltrepassato ?  

L’anno cinquantanove tanta dovizia e tanta,


E una miseria simile avvilirà il sessanta ?  

Allor le nove Muse empiêr la vasta arena,


Or verrà a favellarvi una donnetta in scena ?  

Tant’è ; così va il mondo, ed il teatro è un loco


Dove chi gode il molto, ha da soffrire il poco. 1


Appunto : si passa ad altro, ma tanta fatica non resterà senza frutto.

5.
Artemisia marca invece una netta discontinuità nella galleria in costume del 1759. Qui
il trinomio Mondo-Teatro-Poesia trova finalmente un’intima ragion d’essere, e viene
incontro a un orizzonte d’attesa più che disponibile sia alla ‘novità’ di una tragedia
goldoniana, che alla tragedia in generale. Con il suo fiuto da palcoscenico Goldoni
coglie appieno questa diffusa aspettativa di lacrime e di sgomento, e riesce a soddi-
sfarla con meritato successo. Non dimentichiamo che la sua carriera di tragediografo
al San Samuele e al San Giovanni Grisostomo, pur a suo tempo accantonata, era stata
assai fortunata ed egli ne era, alla sua maniera, persino orgoglioso (soprattutto del
Belisario). 2 Il suo ‘ritorno’ al tragico per riempire la casella di Melpomene presuppone
dunque referenze adeguate e lo vede, soprattutto, in buona compagnia. Sono anni
– proprio questi fra il 1759 e il 1760 – in cui c’è un gran discutere di tragico ; anche il  

melodramma sta virando di segno, e comincia ad inclinare all’« orribile delizioso », ai   

sapori acri del pianto, sperimentati da Piccinni, Traetta e Gluck ; il declino del gusto  

metastasiano investe i balletti di Angiolini e Noverre, trasformati da arti decorative


in pantomime tragiche all’antica, i cui finali non lieti scandalizzano all’inizio gli spet-
tatori. 3 Ovunque i confini dei palcoscenici europei si stanno dilatando per accogliere
temi meno rassicuranti del passato, le bienséances hanno le ore contate e il pubblico
è sempre più avido di sapori forti, ombre e scandali, disinnescati e resi decenti dalla
musica, dalla pantomima o dall’esotismo. 4

1
  Introduzione alle recite Autunnali in Venezia nell’anno 1760. Recitata dalla Signora Caterina Bresciani, Prima
Donna della Compagnia che dicesi di S. Luca, in Goldoni, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, cit. p. 201.
L’attrice annuncia quattro « commedie » decontestualizzate dall’impianto ‘parnassiano’ : Un curioso acciden-
     

te, Zoroastro, La donna di maneggio e Enea nel Lazio. Zoroastro è definita semplicemente tragicomica, mentre
Enea nel Lazio « si allontana dal stil della commedia » : « L’Autore non ardisce di dir : sarà tragedia, / Ché dopo
         

l’Artimisia, per lui sì fortunata, / L’impresa alle sue forze gli par sproporzionata. / Sarà quel che sarà. […] ». 

Come si vede, è intervenuto un deciso cambio di rotta.


2
  È da rimarcare che, dopo il 1762, parecchi titoli del San Samuele rientrano stabilmente nei repertorio
del San Luca e vengono persino stampati a latere degli spettacoli, come accade, ad es., alla Griselda, cavallo
di battaglia di Rosa Scalabrini Medebach, di cui lo stampatore Geremia appronta un’edizione nel 1771 (cfr.
Scannapieco, « …gli erarii vastissimi del goldoniano repertorio », cit., pp. 182 e 176).
   

3
  Cfr. Cesare Questa, Semiramide redenta, Archetipi, fonti classiche, censure antropologiche nel melodramma,
Urbino, Quattroventi, 1989, pp. 137 sgg., 151.
4
  È proprio nel 1759, per fare un esempio particolarmente calzante rispetto al nostro percorso, che scop-
pia a Parigi un’animata polemica intorno al quadro di Carle Vanloo – esposto al Salon (cioè nel cuore del
tradizionalismo accademico) con successo straordinario –, che ritraeva la grande attrice tragica Hippolyte
Clairon nei panni di Medea in volo sul suo carro di fuoco davanti ai figli uccisi e a un Giasone sconvolto.
la tragedia possibile secondo goldoni 119
Censure e autocensure, nel frattempo, si fanno particolarmente allarmate e viru-
lente sia dal fronte religioso che da quello massonico, 1 ma senza incidere su un feno-
meno che appare inarrestabile : è come se in palcoscenico si stesse producendo un

gigantesco processo collettivo per allestire in vitro le prove generali di una storia di
là da venire ; più che di provocazioni ideologiche o di manifesti poetici si tratta, per il

momento, di trattamenti d’urto del pubblico, che apprezza. A teatro – come in pol-
trona con un romanzo fra le mani – si prediligono struggenti tenerezze, raccapricci,
terrori e inquietudini : le recite di Garrick, le tragedie di Lessing e di Schiller, Le nozze

di Figaro e il Don Giovanni di Mozart tracceranno, di qui a poco, l’inedita cartografia


delle passioni che l’Europa vivrà dal vero nella sua crudele emancipazione rivoluzio-
naria.
Stiamo in verità forzando un po’ le tinte e precorrendo i tempi, perché Artemisia, a
prima vista, sembra alquanto inoffensiva, eppure esaminandola da vicino ci dovremo
in parte ricredere. Abbiamo detto che l’unica traccia, lacunosa ma inequivocabile, la-
sciata da Goldoni a proposito di questo componimento si trova nel catalogo delle Au-
tres pièces de théâtre de M. Goldoni, dont il n’est pas question dans ses Mémoires : « Artemisia    

(Artemise), Tragédies en cinq actes en vers », con la nota in calce « C’est une imitation
   

de Sémiramis de M. de Voltaire. Elle n’a pas été ni jouée ni imprimée ». 2 Se la recita  

viene dimenticata, il ricordo della fonte resta vivido, e pour cause, come vedremo. La
vicenda di Artemisia, regina di Caria e vedova inconsolabile di Mausolo per cui fa
erigere la famosa tomba monumentale celebrata come una delle sette meraviglie del
mondo antico, si discosta molto dalla fosca leggenda di Semiramide, ma le due regine
orientali sono spesso affiancate nella tradizione, a partire da Erodoto, per l’alone di
eccezionalità che le accompagna (il maschilismo greco, prima, e cristiano, poi, guarda
con diffidenza e censura alle donne regnanti), 3 su cui si costruisce un immaginario
che trova in teatro un’amplificazione straordinaria lunga due secoli.
Fra le due Goldoni sceglie ufficialmente la ‘buona’ Artemisia, ma ne costruisce un
ritratto ambiguo rubato piuttosto alla ‘cattiva’ Semiramide 4 e lo modella sulla falsa-

Fuori dal coro Diderot ne criticò l’impianto troppo decorativo e politamente teatrale (la definì « une Mèdée  

de coulisse », senza alcuna traccia di disordine, terrore e sangue), attivando un’animata serie di repliche, e

persino una seconda, più drammatica, versione del dipinto da parte di Vanloo (ma è significativo che l’attri-
ce destinataria preferisse la prima, giudicandola addirittura una possibile fonte di ispirazione per migliorare
la propria performance). Sull’intera vicenda si rimanda all’esemplare analisi di Renzo Guardenti, Dalla
scena, alla carta e alla tela : traduzioni, sfasature, slittamenti nella memoria visiva del teatro, « Ariel », 24, 71-72,
     

maggio-dicembre 2009, pp. 163-190 : 166-171.


1
  Sui rapporti di Goldoni con la censura teatrale – a cui tanto spesso allude nelle sue lettere – c’è ancora
molto da indagare, ma che il clima, anche a Venezia, si stesse facendo più pesante è un fatto incontrovertibi-
le, che culminerà, nel 1761, con l’arresto di Angelo Querini, coinvolto nella « battaglia antitribunizia di nobili

poveri » (cfr. Vescovo, Carlo Goldoni : la meccanica e il vero, cit., pp. 136-138).
   

2
  mn, i, p. 618. È da notare che in questa lista, che recupera la serie dei componimenti ‘parnassiani’,
manca Zoroastro.
3
  Si veda il bel volume di Anna Maria G. Capomacchia, che ha ricostruito l’intreccio di fonti stratificate su
cui si costruisce questo mito occidentale di mirabilia e di orrori : Semiramis. Una femminilità ribaltata, Roma,

L’« Erma » di Bretschneider, 1986.


   

4
  Nel Trionfo d’Amore di Petrarca (iii, 73-79) si sintetizza questo dualismo complementare : « Vedi tre belle
   

donne innamorate : / Procri, Artemisia con Deidamia / ed altrettante ardite e scelerate, // Semiramis, Biblì

e Mirra ria : / come ciascuna par che si vergogni / de la sua non concessa e torta via ! » (cfr. Questa, Semira-
     

mide redenta, cit., p. 33). Si tratta di veri e propri archetipi, e come tali Goldoni li maneggia. Il personaggio di
Semiramide ricompare, senza mediazioni né travestimenti, anche nello Zoroastro, e Goldoni ne discute con
120 marzia pieri
riga di due famose tragedie di riferimento, con cui stringe il solito patto emulativo a
distanza, che il pubblico contemporaneo è perfettamente in grado di gustare in tutte
le sfumature del caso : vale a dire la Merope di Scipione Maffei e, appunto, la Semirami-

de di Voltaire. Si tratta di due tragedie molto celebri e molto recitate, entrambe assai
familiari alla cultura arcadica emiliana, impregnata di teoresi tragica, da cui Goldoni
dovette attingere l’idea di rifarsi a questi soggetti durante il suo soggiorno bolognese
del 1759 : 1 ricordiamo infatti che la ‘prima’ di Merope sulla scena pubblica italiana si era

tenuta a Modena il 12 giugno 1713, con il patrocinio del duca Rinaldo I e un immediato
riverbero di letture accademiche drammatizzate ; e che la tragedia di Voltaire è tradot-

ta precocemente in italiano, in versi sciolti, dall’abate bolognese Domenico Fabri per


una recita privata in casa Albergati del 1753, quindi ripresa, proprio nell’estate del 1759
(forse con Goldoni fra gli spettatori ?), sulle tavole del teatrino di Zola. 2

L’intreccio di Artemisia ruota attorno al tema del ritrovamento, da parte di una


regina virtuosa e afflitta da un lutto inestinguibile per la morte del marito, di un fi-
glio perduto da piccolo (il principe Nicandro). Costui era stato sacrificato dal re suo
marito a un oracolo che lo preconizzava oscuramente pericoloso per la madre, ma
era stato allevato come pastore, con il nome di Euriso, 3 dal solito cortigiano pietoso,
finché un impulso irresistibile lo aveva indotto a fuggire per venire a visitare il celebre
sepolcro. I due si ritrovano così – senza conoscersi, e separati da incolmabili disparità
di status e di anagrafe – in un frangente drammatico, in cui Artemisia è minacciata da

Gasparo Gozzi, che lo aveva accusato di eccesso e inverosimiglianza : « Circa al carattere di Semiramide, voi
   

sapete qual è, e quale ce la dipinge la storia. Savissimo è il vostro riflesso che la tragicommedia fa diventar
mezzano un carattere grande, e quelli che pensano come voi pensate, non ne saranno contenti. […]. Pare a
me che a una donna, a cui dalla compiacenza del popolo perdonate si erano tante altre maliziose invenzioni,
questa dovesse essere meno delle altre condannata » (mn, xiv, p. 235).

1
  Forse risale a questo l’origine dell’erronea indicazione recata dall’ed. Zatta : « tragedia di cinque atti in
   

versi rappresentata per la prima volta in Bologna l’anno mdcclvii ».  

2
  La prima traduzione italiana di Semiramide (in prosa e in parte tagliata e rimaneggiata, in nome di una
maniera « piana e naturale ») era stata, nel 1752, opera del gesuita padre Anton Maria Ambrogi nel secondo
   

volume del teatro di Voltaire a sua cura (Firenze, presso Girolamo Bolli Libraio alla Condotta), ma l’anno
successivo il Fabri, ben pagato dal marchese Ercolani « con parecchi zecchini », la traduce fedelmente in versi
   

sciolti per una recita carnevalesca di nobili dilettanti che deve tenersi nel « teatro domestico » del marchese
   

Lodovico Albergati. La morte di quest’ultimo impedì tuttavia la rappresentazione. Fu Francesco Albergati


a riprenderla nel 1759 e a darla quindi alle stampe (il traduttore nel frattempo era morto) : « Il primo io fui,
   

che nelle scene italiane esposi questa eccellente tragedia, e con essa ebbe principio nella mia villa il corso
delle tragiche rappresentazioni. La esporrò di bel nuovo nell’estate dell’anno venturo, poiché l’esperienza
m’ha fatto palesemente conoscere, che a questa tragedia inferiore ogni altra riesce » (cfr. Luigi Ferrari, Le

traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli xvii e xviii. Saggio bibliografico, Paris, Champion, 1925, p.
274). È lo stesso Voltaire, direttamente chiamato in causa come consulente, a fornirgli una serie di suggeri-
menti (soprattutto in merito alla tormentatissima resa scenica dell’ombra di Nino) per la rappresentazione
progettata nell’estate successiva, in una lettera del 4 dicembre 1758. I meriti del marchese quale esperto di
tragedie di respiro internazionale, e l’eccellenza degli allestimenti tenuti fra il 1758 e il 1766 nel « villereccio

teatro di Zola », dove « tutto è grandioso, tutto è ottimo », sono sottolineati con entusiasmo da Agostino
     

Paradisi nel Proemio all’edizione che raccoglie i frutti di questo laboratorio, e che, per ragioni di censura,
esce a Modena con la falsa indicazione di Liegi. Si tratta della Scelta di alcune Eccellenti Tragedie Francesi tra-
dotte in verso sciolto italiano (Liegi [ma Modena], Eredi di Bartolomeo Soliani Stampatori Ducali, 1764-1768),
che comprende, nel secondo volume del 1764, anche la Semiramide del Fabri. Goldoni, assai legato come
sappiamo all’entourage di Zola, e appassionato spettatore delle recite che vi si tengono, pensa dunque di
esportare nel teatro pubblico veneziano alcuni di questi esperimenti, opportunamente rivisti e corretti, ma
ne dissimula prudentemente l’apporto, fino a quel tardo Catalogue dei Mémoires.
3
  Euriso, nella Merope di Maffei, è il confidente e l’informatore della regina.
la tragedia possibile secondo goldoni 121
un corteggiatore arrogante e innamorato – il re persiano Farnabaze – che pretende
di sposarla con la connivenza di alcuni notabili avidi di potere, perché è da sempre
innamorato di lei e vuole impadronirsi del regno.
La pièce intreccia il tema politico della congiura di palazzo, che il giovinetto eroica-
mente sventerà, con quello, conturbante, dell’amore che sboccia – indicibile e ingesti-
bile – da un’alchimia di ammirazione reciproca (lui è toccato dall’infelicità e vulnera-
bilità della donna regale ; lei dalla semplicità e dalla bellezza del giovinetto impetuoso)

venata di una sensualità pericolosamente blasfema. Una prevedibilissima agnizione


rimetterà tutto in ordine giusto a un passo dall’irreparabile, e il lieto fine sarà, come
al solito, coronato da un matrimonio : fra il legittimo erede, restituito al trono di Ca-

ria, e la giovane zia, la principessa Eumene, a cui Artemisia aveva ceduto il trono per
liberarsi dal ricatto delle nozze coatte.
L’intreccio – persino un po’ sgangherato così riassunto – assembla materiali dispa-
rati con gerarchie interne ben dissimulate e particolarmente ambigue da riconoscere.
Lo scalco-Goldoni lavora sulla stretta falsariga dei suoi modelli, a loro volta fra loro
reciprocamente intrecciati, che ricalca con intenzionale evidenza : i temi della fedel-  

tà coniugale, celebrata in Merope, e del tabù dell’incesto, affrontato in Semiramide,


sono accostati con effetto dirompente, sfiorando molto da vicino limiti pericolosi, ma
esibendo anche un’impeccabile moralité di facciata, che inganna i censori, ma non –
crediamo – gli spettatori. 1 Il testo di Artemisia è composto in fretta, nell’agosto 1759,
con molto entusiasmo : al Vendramin l’autore ne vanta il giorno 21 il carattere tragico

« ma dilettevole e di poca spesa » ; e ribadisce il 4 settembre : « son sicurissimo della


         

terza, cioè della tragedia che ora le mando […] è tal pezzo che spero farà parlare di
me. S’ella la crede pericolosa per la revisione, non parlo ; so bene, che quando non

scrivo son criticato, e quando scrivo son tormentato ». 2 Un’excusatio non petita che ci

fa sospettare, da parte sua, piena consapevolezza d’intenti.


Diciamo subito che il confronto con i due maestri ha un diverso peso specifico e
differenti ragion d’essere : Maffei (ormai scomparso da quattro anni) è per Goldoni

un mentore sempre riverito in pubblico quanto poco considerato in privato, 3 la cui


benevolenza letteraria (in passato contabilizzata e sfruttata con la consueta saga-
cia) non gli è ormai più necessaria, ma la sua Merope resta pur sempre il modello
italiano di tragedia moderna, che il pubblico continua a vedere e rivedere senza

1
  Vale, in questa circostanza, quanto sottolinea lucidamente Piermario Vescovo : la particolare moralità

di Goldoni « consiste precisamente non nella cancellazione degli elementi di fascino, perturbazione e negati-

vità dalla scena, ma nella loro rappresentazione direzionata » (Vescovo, Carlo Goldoni : la meccanica e il vero,
   

cit., p. 87). Il problema riguarda da vicino Artemisia, ma, come si è già accennato, era emerso, nello stesso
1759, anche nella revisione della Donna forte respinta dall’Agazzi, e divenuta la Sposa fedele, trasformando in
moglie la promessa sposa insidiata della versione originaria (e derubricando di conseguenza la minaccia
di adulterio a minacciata rottura di contratto nuziale) ; sulla questione il Goldoni discute per lettera con il

Vendramin in questi mesi, rivendicando, a propria difesa, i molti esempi teatrali di « donne maritate tentate

ancora più apertamente nell’onore, e di donne maritate che tentano per se stesse » (mn, xiv, p. 207) .

2
  Ivi, pp. 228-229 (lettera del 4 settembre 1759). Nella Nota storica redatta da Giuseppe Ortolani per l’edi-
zione della tragedia negli omnia del Municipio di Venezia (xxv, 1927, pp. 251-253 : 253) troviamo l’affermazio-

ne – non testata documentariamente ma comunque per noi interessante – che il tipografo Zatta la stampò
« recidendo forse qualche passo pericoloso ».
   

3
  Il 28 agosto, discutendo di sdruccioli e del loro infelice esito nelle Cerimonie del Maffei, scrive al Ven-
dramin senza tanti complimenti : « Creda pure che la disgrazia d’allora non è provenuta dal verso, ma dalla
   

commedia seccante all’ultimo segno » (mn, xiv, p. 226).



122 marzia pieri
1
stancarsi ; Voltaire è invece l’astro ben vivo di una modernità teatrale di respiro

europeo ; a lui lo lega un rapporto assai più complesso : il rinnovamento che egli sta
   

operando sulle scene francesi è anche debitore nei confronti dell’opera goldonia-
na 2 (e il filosofo lo sta, del resto, per riconoscere pubblicamente, facendogli molta
pubblicità) ; è un grande uomo di libro, ma un uomo di scena più entusiasta che

competente, come testimonia anche la sua Dissertation sur la tragédie ancienne et mo-
derne 3 (proprio di questo 1759), che affronta i concreti problemi della messinscena
tragica, controversa e discussa sia a Parigi che a Venezia, e su cui Goldoni (che in
verità probabilmente non la conosce) ha qualcosa da dire in proprio.
Fra Maffei e Voltaire sussistono, inoltre, complessi legami reciproci, interni all’eter-
na partita doppia fra tragedia italiana e tragedia francese, e in qualche modo il Nostro
si accredita terzo fra cotanto senno, aggiungendo il proprio tassello, non banale, ai
grandi mitologemi della regina incestuosa e della sposa fedele che affascinano l’im-

1
  Una Merope, non sappiamo se di Maffei o di Voltaire, viene recitata al San Luca sia nell’autunno del 1758
che nel carnevale del 1759 (e resta in cartellone per ben 9 stagioni), una Semiramide, quasi certamente voltai-
riana, nell’autunno del 1759 (Squarzo degli utili del teatro per le recite relative degli Autunni e Carnovali 1758-1770,
cit., pp. 105, 109 e 110 ; e si veda Scannapieco, « …gli erarii vastissimi del Goldoniano repertorio », cit., p. 158). Il
     

discorso andrebbe approfondito esaminando l’intero corpus, ma si tratta di un fenomeno di lunga e costante
durata, che arriva ben addentro il secolo successivo, dove la Merope, tragedia di moralità provvista di una
specialissima ‘madre nobile’, si attaglia perfettamente al nuovo sistema dei ruoli delle compagnie di giro
italiane (cfr. la preziosa edizione di Merope, a cura di Stefano Locatelli, Pisa, ets, 2008, pp. 338-344).
2
  In una lettera a Francesco Albergati, da Parigi il 13 giugno 1763, Goldoni riferisce circa il proprio carteg-
gio con il filosofo, pieno di reciproci complimenti, ricorrendo a una metafora ambigua e azzeccata : « Final-    

mente ho avuto lettera da Voltaire. Mi scrive a proposito delle sue opere che mi ha promesso : Quand j’aurai  

l’honneur de vous faire parvenir mes rêveries, qui ne son pas encore tout à fait prêtes, je ferai avec vous le marché des
Espagnols avec les Indiens ; il donnaient de petits couteaux et des épingles pour du bon or. Io ho più ragione di retor-

quere l’argomento, e di credere me lo Spagnuolo e Voltaire l’Indiano, ma non vorrei che l’oro ch’egli può
darmi tardasse tanto ch’ei si scordasse i coltelli e le spille » (mn, xiv, p. 286). A Parigi va a vedere le tragedie

di Voltaire (« qui le sue tragedie continuano a fare la delizia di Parigi e sono rappresentate in una maniera

che incanta. Mademoiselle Clairon è un’attrice eccellente, padrona del cuor de’ spettatori, che li fa piangere
e adirare come ella vuole. » (ivi, p. 267, lettera all’Albergati del 25 ottobre 1762), ma in genere non apprezza

il palcoscenico tragico parigino, alle cui molte pecche rimediano soltanto gli attori, come accade, ad es.,
nel caso della Zelmira di Du Belloy (cfr. ibidem) ; e di molte commedie scrive : « fa pietà il teatro moderno
     

francese : non si bada più alla condotta, ai caratteri, alla verità. Non badano che alle scene, ai couplets, alle

tirades, alle fautes de détail » (ivi, p. 287). Anche in tema di tragedia, dunque, Goldoni resta ancorato al vero,

e solo in questo senso ne difende una misura scenica sobria e ‘regolare’. Per questo difende le ragioni di
Voltaire a proposito del suo commento critico a Corneille in un’altra lettera all’Albergati del 13 agosto 1764
(ivi, pp. 322-323). La « superba edizione di Cornelio col commento di Voltaire » gli viene donata dall’autore
   

appena uscita, ed è fra i testi della prestigiosa collezione romanzesca e teatrale che, nel maggio 1780, tenterà
di vendere in tempi difficili (cfr. la lettera a Vittore Gradenigo del 5 maggio 1780, ivi, p. 389). La sua severità
di giudizio non fa che confermarsi con il passare del tempo : « veggio di quando in quando le ombre di Mo-
   

lière, di Cornelio, di Racine alla Commedia Francese ; ombre rispettabili, i di cui corpi non sono stati ancora

rimpiazzati. Pare che nelle loro tombe sia sepolto anche il genio della nazione. Non si vedono gli allievi di
questi grand’uomini. La vivacità ha preso il luogo del sentimento, e il sorprendente ha preso quello della
ragione » (a Giambattista Roberti il 18 febbraio 1765, ivi, p. 332) ; oppure : « la ragione che fa poco riescire le
       

commedie e le tragedie francesi presentemente, deriva dal nuovo modo di scrivere. Gli autori oggidì in
Francia pensano più alle parole che alle cose, e contenti di una bella eleganza di stile, abbandonano il sen-
timento e l’intreccio. Ciò fa batter le mani a qualche periodo, ma fa tacere al fine della rappresentazione e
ciò a poco a poco fa abbandonare il teatro » (a Francesco Grisellini, gennaio 1766, ivi, p. 359). I suoi giudizi di

spettatore confermano le sue intuizioni di autore rispetto anche ai testi di Voltaire.


3
  Una traduzione italiana della Dissertation fu premessa all’edizione della Semiramide tradotta da Mel-
chiorre Cesarotti per la Biblioteca de’ più scelti componimenti teatrali d’Europa, Venezia, Dalla Tipografia Pepo-
liana presso Antonio Curti, 1716 [ma 1772], pp. iii-xliv.
la tragedia possibile secondo goldoni 123
maginario teatrale sei e settecentesco, entro un dispositivo drammaturgico rispettoso
di un’accettabile ortodossia aristotelica, ma legato a un dettato ‘realistico’ (il suo),
assai più avvincente e drammatico dei modelli di partenza. Artemisia intreccia dunque
un dialogo a distanza sia con Merope che con Semiramide – che la affiancano del resto
nei repertori del San Luca, offrendo al pubblico la possibilità di immediati confron-
ti –, e le saccheggia e le mescola con esiti imprevedibili e molto goldoniani. Carlo
emenda le cadute tragicomiche e la staticità di Merope (che, separandosi dalla coppia
Lelio-Flaminia sulla cui recitazione era stata modellata, acquista a stampa prestigio di
ortodossia letteraria, mentre perde, di rimando, icasticità scenica), e corregge il rigi-
do moralismo laico di Semiramide, risolvendo in chiave interiore (più correttamente
tragica) le sgangherate soluzioni spettacolari a base di fantasmi a cui Voltaire aveva
affidato lo scioglimento dell’intreccio. La materia prima di un tale audace reimpasto è
naturalmente l’eroina protagonista, interpretata dalla prima donna Caterina Brescia-
ni, solita peraltro a indossare i panni di tutte e tre le regine per gli spettatori del San
Luca. Costei, fra le pieghe di un testo carico di sapienti allusioni, presta ad Artemisia
il dolore di Merope e la seduzione di Semiramide con effetti, al solito, dirompenti.
La affianca un amoroso giovane, Giuseppe Maiani, detto Maianino, perfetto, come
vedremo, nei panni del figlio/amante devoto.
Voltaire aveva conosciuto Maffei a Parigi nel 1733, e aveva letto Merope nell’edizio-
ne curata nel 1718 da Luigi Riccoboni, 1 che si era dovuto rassegnare a divulgarla in
forma libresca dopo il fallimento della recita presso il pubblico della capitale. Richie-
sto dall’autore di tradurla, l’aveva piuttosto riscritta nel 1743, giudicandola anch’egli
inadatta ai palcoscenici francesi. Il confronto con Maffei – che per suo tramite arriva
al teatro europeo – gli interessa soprattutto in relazione ai concreti problemi della
messinscena tragica, su cui egli sta giocando la propria scommessa più alta, deciso ad
eclissare l’astro di Crébillon. Le riscritture sceniche dei classici operate dal marchese
« per uso della scena », e il suo patrimonio di esperienze protoregistiche, gli appaiono
   

preziose, ed è anche molto vicino alla sua idea di un teatro referenziato letterariamen-
te e ideologicamente, ma capace di essere popolare e appassionante senza ricorrere
al puntello amoroso.
Di Maffei il filosofo apprezza « le courage et le talent de donner une tragédie sans

galanterie […] dans laquelle l’amour d’une mère fait tout l’intrigue, et où le plus ten-
dre intérêt naît de la vertu la plus pure », 2 eppure nella prima metà di Merope è in atto

un equivoco ‘erotico’ (la bellezza dello sconosciuto Egisto turba la regina e le riporta
potentemente il ricordo del marito morto), 3 che entrambi i drammaturghi sottovalu-
tano, ma che per i primi spettatori doveva essere veicolato e moltiplicato dal fatto che
a interpretare il personaggio fosse Lelio Riccoboni, primo amoroso della compagnia.
Fra lui e la regina scatta una reciproca attrazione (Merope stessa vi allude in ii.4.303
1
  Lelio e Flaminia, che avevano già preso l’iniziativa di far uscire la princeps di Merope a Modena, presso
il Capponi nel 1714, ignorando e contrariando profondamente l’autore, la fanno ristampare a Parigi dallo
stampatore Coustelier, nel 1718, all’interno del Nouveau Theatre Italien, ou Recueil General de Toutes les Pièces
réprésentées par les Comediens de S. A. R. Monsiegneur le Duc d’Orleans, affiancando al testo italiano la traduzio-
ne francese in prosa di Nicolas Fréret : cfr. la Nota al testo di Stefano Locatelli nell’edizione a cui ci stiamo

così spesso riferendo, pp. 175-207.


2
  Lettera del signor di Voltaire premessa alla sua “Merope”, in La Merope tragedia del signor Marchese Scipione
Maffei, in Verona, nella stamperia di Dionigi Ramanzini, mdccxlv, p. 146.
3
  Cfr. Maffei, Merope, cit., p. 227 (i.3.216-219) e le osservazioni di Locatelli a p. 45.
124 marzia pieri
come a « un lampo di desir »), che sostanzia l’iniziale sviluppo degli avvenimenti, con
   

un forte coinvolgimento del pubblico presente a quelle recite.


Ma negli anni ’30 si era ormai consumato un polemico allontanamento del Maf-
fei dalla coppia Riccoboni, e la sua lunga rielaborazione del testo, affiancato da un
ipertrofico paratesto, cancella e depura l’icasticità quasi tragicomica, e comunque
fortemente performativa, su cuisi era attestato l’iniziale successo dell’opera, smus-
sandone l’energia passionale. Voltaire, infatti, la trova (anche) verbosa e complicata,
e ne semplifica l’intreccio giudicando impraticabili certi passaggi (come quello della
quasi-uccisione del figlio legato, nella concitata quarta scena del terzo atto), che solo
la bravura degli attori italiani aveva consentito, e che negli angusti palcoscenici parigi-
ni dovevano risultare confusi e improponibili. 1
Quel che è certo è che si ricorda di Merope scrivendo la propria Semiramide, rappre-
sentata alla Comédie Française il 28 agosto 1748, che costituisce l’altro fondamentale
riferimento del nostro Goldoni per Artemisia. Qui il filosofo accoglie una sovrabbon-
dante serie di spunti tragici dai classici (Eschilo, Seneca, Euripide), da Shakespeare e da
Racine, riassemblati – anche lui da grand cuisinier – in una nuova dispositio 2 destinata a
rivoluzionare la grande tradizione seicentesca che aveva alle spalle, a incubare le molte
Semiramidi musicali di là da venire, e a riscuotere anche in Italia un notevole successo. 3
Egli riallestisce la storia della bella sovrana che occupa il trono di Babilonia oppres-
sa dai rimorsi per l’omicidio dello sposo Ninus compiuto in combutta con Assur ; ne  

fa, illuministicamente, una « regina saggia legislatrice e guerriera coraggiosa, inflessi-


bile nell’esercizio dell’autorità » che, sollecitata a nuove nozze, si sceglie inconsapevol-


mente come sposo proprio il figlio sconosciuto, Arsace-Ninias. Ma l’ombra del re uc-
ciso interviene a evitare il sacrilegio, e il necessario matricidio riparatore – consumato
inconsapevolmente nel buio del sepolcro – avviene dopo che Semiramide e il figlio si
sono riconosciuti e abbracciati. Nella sua versione della storia – memore di Amleto e di
Don Giovanni – l’autore, fedele al proprio moralismo massonico, espunge gli elementi
lussuriosi che tramano la vecchia leggenda scenica, e insiste piuttosto sui rimorsi,
gli oscuri presagi, le angosce dell’anima, gli oracoli traditori, le insidie di palazzo e
gli ordini soprannaturali del re defunto. Il suo obiettivo principe, molto attuale nella
Francia del 1748, è quello di allestire una storia esemplare di ripristino di una ‘regalità
giusta’, mentre mette in secondo piano l’aspetto nero e passionale della vicenda.

1
  Da parte sua Maffei si dichiara compiaciuto, ma reagisce con una serie di minuziose osservazioni in
punta di penna, in bilico fra gratitudine e irritazione : « Non c’è Italiano di conto che non faccia molta stima
   

de’ Francesi, né Francese di vaglia che non faccia molta stima degl’Italiani », ma « la traduzion vostra o fu in-
   

terrotta, o cambiata, dall’esservi incontrato in cose che vi pareva non potersi far passare sul teatro Francese,
per la differenza delle opinioni e degli usi », anche perché « per gustare i nostri versi […] osta grandemente la
   

poca cura e il pochissimo studio che da assai tempo vien fatto in Francia della nostra lingua », e via di questo

passo (cfr. Risposta alla Lettera del Signor di Voltaire [1745], in Scipione Maffei, De’ teatri antichi e moderni e altri
scritti teatrali, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, pp. 87-115 : risp. 87, 89 e 95).

2
  Cfr. Questa, Semiramide redenta, cit., p. 104.
3
  Sulla storia editoriale del testo in Italia si rimanda a Ferrari, Le traduzioni italiane del teatro tragico fran-
cese, cit. La traduzione più fortunata e longeva fu quella, già ricordata a p. 122, nota 3, che ne fece, nel 1772,
Melchiorre Cesarotti per la Biblioteca de’ più scelti componimenti teatrali d’Europa, utilizzata dalla compagnia
Medebach per le recite al San Giovanni Grisostomo, nel 1773, con protagonista Maddalena Battaglia Torti ;  

una Semiramide di Voltaire fu recitata anche dalla compagnia di Giuseppe Lapy nella primavera del 1777. Cfr.
Questa, Semiramide redenta, cit., p. 139, e Orietta Giardi, I comici dell’arte perduta. Le compagnie comiche
italiane alla fine del secolo xviii, Roma, Bulzoni, 1991, p. 19).
la tragedia possibile secondo goldoni 125
L’enigma che circonda da secoli la regina nera – ripercorso in un numero impres-
sionante di tragedie e opere per musica sei e settecentesche – cambia di segno e si
disfa dunque del suo elemento strutturante. È stato da più parti sottolineato come
l’impatto di questo mito moderno sia in tutto e per tutto parallelo a quello di Don
Giovanni, anche se per noi, nel frattempo, non si è mantenuto altrettanto vivido : 1  

Don Giovanni infrange il tabù che separa la vita dalla morte, Semiramide quello della
sessualità parentale. In entrambe le storie c’è un fantasma (il Commendatore e l’om-
bra di Nino), che interviene a punire e a riportare ordine, ma – lo sappiamo bene – il
colpevole è anche l’eroe protagonista, con tutte le conseguenze del caso in termini
di immedesimazione del pubblico, e con tutte le soluzioni da escogitare per porvi
rimedio.
Questa complementarietà fra Semiramide e Don Giovanni, cui si accennava, dove-
va risultare tanto più evidente al pubblico dell’epoca grazie agli attori che insistevano
a praticare un repertorio tramato di sotterranee intertestualità, citate e costantemen-
te richiamate dagli allestimenti scenici, così come la centralità e la persistenza della
discussione intorno all’incesto nella cultura settecentesca dovevano risultare chiaris-
sime (e teatralmente promettenti) a Goldoni, che non esita a puntarvi l’attenzione,
forzando le tinte là dove i suoi modelli le avevano invece sfumate o rimosse. Ancora
una volta egli sembra dotato di radar particolarmente sensibili, si mostra capace di
tradurre in scena, in linguaggi accessibili, temi scottanti e difficili (non importa se
alti o bassi), facendoli aderire a esperienze medie condivise, con quella formidabile
capacità di rendere riconoscibile la vita in palcoscenico, che entusiasma tante volte
un recensore acuto (e di ciò stupito in prima persona) come Gasparo Gozzi. Siamo
all’interno di una galassia fantastica e simbolica continuamente transcodificata in
scritture, musiche e rappresentazioni, dove gli ingredienti dell’orrore, dello scandalo
e della violenza subiscono di volta in volta trattamenti specifici ; arie di baule con cui

un autore come lui si trova perfettamente a proprio agio. Non gli interessano, benin-
teso, le purificazioni illuminate dei regni gradite a Voltaire, né le edificazioni morali
e letterarie a cui punta Maffei, quanto piuttosto le avventure delle anime, per cui non
esita a recuperare in Artemisia il piatto forte rimosso dell’attrazione fra madre e figlio,
già assai fortunato nella tradizione musicale veneziana. 2 La sua estetica è più vicina
a Diderot e a Lessing 3 – critico della Semiramide voltairiana e dei suoi effettacci – che

1
  « Il tardo Settecento vede insieme la fortuna musicale di Semiramide e Don Giovanni : i due soggetti
   

sono stati trattati dal medesimo compositore (Gluck), oppure vengono presentati al pubblico nella mede-
sima serata o ancora confluiscono variamente l’uno sull’altro (il ballo di Angiolini come esempio di finale
tragico) […] a livello profondo i due racconti, con la valenza di veri miti, affascinano per il contenuto in
apparenza trasgressivo, ma in realtà rassicurano ‘confermando’ il divieto della trasgressione di due codici
della vita civilmente organizzata : quello che regola i vincoli di parentela e quello che regola i rapporti fra i

vivi e i morti » (Questa, Semiramide redenta, cit., pp. 327-328).


2
  Cfr. ivi, cit., p. 84. Ricordiamo che anche Artemisia gode di una specifica fortuna musicale : ad es. c’è

un’Artemisia del bergamasco Nicolò Minato, musicata dal Cavalli e rappresentata a Venezia al Teatro dei
Santi Giovanni e Paolo nel 1665 (si veda la citata Nota storica di Ortolani, p. 252).
3
  Lessing accoglie e fa proprio il radicale spirito di riforma anti-metastasiano di Diderot – auspice che « i  

personaggi principali siano messi direttamente a confronto l’uno con l’altro, che parlino con semplicità, in
situazioni cariche di emozioni forti » (cfr. Daniel Heartz, Da Garrick a Gluck, cit., p. 64) – e stronca impie-

tosamente, nella Drammaturgia d’Amburgo, l’espediente grossolano del fantasma : « lo spirito di Voltaire non
   

sarebbe buono neppure come spauracchio per i bambini ; è un semplice attore travestito, che non ha nulla,

non dice nulla, non fa nulla, neppure quello che presumibilmente potrebbe fare, se fosse davvero quello che
126 marzia pieri
al filosofo di Ferney, del cui modello si serve, da par suo, con selettiva libertà (proprio
come fa con Merope) : ne riprende molti spunti (l’angoscia costante e misteriosa della

regina ; i gemiti che vengono dalla tomba, interdetta ai più come un luogo tabù ; il
   

personaggio della principessa subalterna e filiale ; la catastrofe che si consuma con-


fusamente e casualmente nell’oscurità dell’avello), ma elimina ogni sovrastruttura


ideologica e trasforma il finale in chiave non tanto lieta quanto piuttosto ‘semiseria’,
facendo ricorso ai segreti e alle tecniche della librettistica musicale, già variamente
migrati nella tragedia contemporanea circostante.
Sul traliccio della vecchia storia sciagurata ne rimonta un’altra, meno cruenta, ma
centrata sulle psicologie, sulle ombre, sui non detti di personaggi alle prese con l’in-
dicibile, estranei e sconosciuti a se stessi. Voltaire, pur votato a un progetto ‘alto’ e
moralizzato, aveva pescato a piene mani nella tradizione teatrale più vieta : si era  

ricordato del Commendatore assassinato 1 e dei rimorsi della regina Gertrude, e aveva
affidato al fantasma di Nino la svolta decisiva del plot, salvo rimuoverlo, nella versione
scritta del testo, dalla lista dei personaggi. 2 Goldoni non ha bisogno di simili puntelli,
ma costruisce con maestria un intreccio piano e lineare, verosimile e pacato, riservan-
do agli spettatori brividi e raccapricci meno vistosi e più coinvolgenti.
La dimensione politica della vicenda, con l’elogio del buon monarca, è in Artemisia
totalmente sovrastata da quella affettiva, e in particolare amorosa (con buona pace
di Maffei e degli Arcadi), che ne scardina la logica interna, giacché il sentimento ma-
terno della regina verso il figlio perduto è in partenza tormentato e oscuro, perché
la obbliga a scegliere, dentro di sé, fra le ragioni della creatura innocente e quelle
del marito ; costui l’ha vilmente sacrificata per un amore geloso di cui lei, nella sua

vedovanza, è rimasta ostaggio. Conflitto lacerante e insolubile – e per questo molto


tragico – che essa può fronteggiare solo scegliendo l’autoannientamento del lutto.
Artemisia è un’eroina portatrice di morte, votata alla morte, come Fedra, e ap-
partiene all’affollata schiera di dame malinconiche del teatro spagnolo, con il loro
speciale sottogenere delle vedove inconsolabili, su cui Martello aveva pesantemente
ironizzato, e che piaceranno molto anche a Carlo Gozzi. 3 Le sue visite pluri-quotidia-

rappresenta ; e tutte le circostanze che accompagnano la sua comparsa disturbano l’illusione e tradiscono il

frutto di un poeta senza calore, che vorrebbe suscitare in noi l’illusione ed il terrore, senza però sapere da
dove cominciare » (Questa, Semiramide redenta, cit., p. 115, nota).

1
  In una lettera alla nipote del 15 agosto 1748, in occasione della prima di Semiramide, Voltaire esplicita il
nesso stretto fra Semiramide e Don Giovanni proprio a proposito della resa scenica del fantasma : « il crespo
   

nero è ridicolo. Ci vuole un costume guerresco tutto bianco, una corazza di bronzo, una corona d’oro, uno
scettro d’oro e una maschera tutta bianca come nella statua del convitato di pietra. Vi prego di riferire questa
opinione e non permettere che l’Ombra porti il lutto di se stessa ». Ricavo la citazione da Questa, Semiramide

redenta, cit., p. 328, che analizza le profonde somiglianze del testo voltairiano con il libretto di Da Ponte.
2
  L’ombra di Nino, infatti, non compare in nessuna edizione francese nella lista preliminare dei perso-
naggi, ma viene invece prevista nella traduzione di Cesarotti edita a Venezia nel 1772 (cfr. ivi, p. 44).
3
  Cfr. Alessandro Cinquegrani, Una diagnosi per la dama malinconica di Carlo Gozzi. Per una lettura al-
legorica dei primi drammi d’argomento spagnolo, « Problemi di critica goldoniana », xv, 2008, pp. 7-44. In Che
   

bei pazzi ! del 1723, ambientata a « Cosmopoli nell’ospitale de’ pazzarelli », Martello dichiara di aver voluto
     

parodizzare, sulla scia della Scolastica di Ariosto vista recitare disastrosamente a Venezia da Lelio e Flaminia,
la follia di Sostrata (vedova inconsolabile, femme savante e alla fine amante soddisfatta di un soldato), signifi-
cativamente denominata « Artemisia » (cfr. Pier Jacopo Martello, Teatro, a cura di Hannibal S. Noce, Bari,
   

Laterza, 1980, i, p. 246). Ma il tema è veramente longevo, perché Carlo Gozzi lo rispolvera ancora, con un
successo di 13 repliche, nel 1800 nella Donna contraria al consiglio, dove la testarda e inconsolabile vedova di
turno (al solito dotta e incline a delirare) è Serena, duchessa di Salerno.
la tragedia possibile secondo goldoni 127
ne alla tomba la mantengono in uno stato perenne di trance affannosa ; niente la può  

distogliere e riportare alla vita e ai suoi doveri regali ; nei momenti critici si rivolge

soltanto all’ombra del marito defunto, con cui intreccia dialoghi allucinati e visionari.
All’amore di Farnabaze, carico di passione e di rabbia dopo molti anni di attesa, ri-
sponde con orgoglio regale, ma solo in vista dell’abdicazione al trono in favore della
cognata, cioè di una sorta di morte sociale, che la riconsegni per sempre alla vita cto-
nia consumata nel buio del sepolcro.
Su questa eroina in gramaglie, ardente e dolente, perfetta per le convulsioni e i
furori di Caterina Bresciani, Goldoni fa irrompere il turbine della passione amorosa :  

l’incontro fortuito col giovane pellegrino in cenci di pastore agisce immediatamente


su di lei come un terremoto misterioso : possiamo scambiarlo per la voce del sangue

(e così accadde presumibilmente ai censori veneziani, ben informati sul finale della
storia, e dunque, forse, un po’ distratti), ma si tratta presto di altro. Artemisia resta
turbata ; trasognata confronta il pastore col marito morto e lo giudica, suo malgra-

do, migliore. Un’indefinibile somiglianza la induce, all’inizio, a tentare un’inchiesta,


sperando che possa trattarsi del figlio perduto, ma, quando la storia che Euriso le rac-
conta di sé sembra smentire ogni possibile identificazione con lui, le emozioni virano
in altre direzioni, fino a farle vagheggiare una promessa di vita a cui credeva di aver
rinunciato per sempre. Il pensiero del giovinetto bello e pietoso la invade totalmente
e la distacca ulteriormente da tutto il resto ; è solo il grossolano e geloso Farnabaze a

esplicitare un ipotetico innamoramento, che per tutti gli altri, e per la diretta interes-
sata, è puramente e semplicemente inammissibile (ii.6).
L’azione della tragedia presuppone una gran quantità di pause, controscene, arie
agitate e numeri di pazzia che solo la bravura degli interpreti poteva rendere plausi-
bili, e di cui danno conto le sovrabbondanti e molto precise didascalie (probabilmen-
te d’autore, giacché è sicuro che lo Zatta abbia stampato un suo manoscritto inviato
da Parigi, perlomeno riletto e ‘ripulito’ a distanza di anni). La scommessa tragica di
Goldoni è tutta giocata sull’interiorità, e la peripezia vera avviene nella profondità
delle anime. Egli non ha bisogno di ricorrere ai fantasmi, e, fattosi ben più abile di
quando aveva rinunciato alla Statua del Commendatore nel suo Don Giovanni Teno-
rio, è in grado di eludere con eleganza le seccature e i problemi che tanto avevano
angustiato Voltaire : 1 il fantasma paterno-maritale è interiorizzato dai protagonisti

come un autentico convitato di pietra, un nume avido di sacrifici a cui non si può
sfuggire. Se per il figlio si tratterà di riconquistare il trono, per Artemisia, più sottil-
mente, non esiste la possibilità di riprendersi vita e amore, e di chiudere i conti con le
sue nozze mostruose, e resterà, come premio di consolazione, solo l’appagamento
materno.
Sappiamo quanto i lieti fini goldoniani siano spesso precari e di facciata, e anche
questo non fa eccezione ; la vicenda riconferma, anzi, con forza l’inconciliabilità

(adombrata pure in diverse commedie) fra ragioni del cuore e ragioni morali, che
costituisce, del resto, l’esito ultimo di un possibile tragico borghese. Siamo lontanissi-

1
  Alla prima parigina del 29 agosto 1748 rimasero tristemente famosi il subbuglio e l’ilarità creati dall’ap-
parizione del fantasma di Nino in mezzo agli spettatori seduti, come di consueto, in palcoscenico ; fu uno

smacco che indusse Voltaire alla sua battaglia per eliminare una consuetudine esiziale per la riuscita degli
spettacoli. Cfr. l’Introduzione di Louis Moland premessa a Sémiramis, nell’edizione a sua cura di Voltaire,
Œuvres complètes, Paris, Garnier, 1877, iii, p. 487.
128 marzia pieri
mi dalle « passioni tenere » di Metastasio, in plaghe drammaturgiche di nuovo genere
   

dominate dal demone della versatilità.


Goldoni si azzarda dunque a riscrivere l’antica storia dell’incesto vista dalla parte di
Giocasta per il brivido di un pubblico interclassista, a cui propone in forme ‘tradotte’
e semplificate i temi ardui dibattuti sui palcoscenici dell’Arcadia emiliana ; pur nella  

schematicità legnosa di un plot alquanto usurato, egli focalizza un conflitto interiore


nuovo di zecca – che attanaglia la regina – fra la lealtà dovuta allo sposo innamo-
rato e possessivo e il rancore represso che nutre verso di lui per il figlio sacrificato
senza colpa. C’è una crepa segreta nella sua vedovanza esagerata, che spiega e giu-
stifica il corteggiamento impensabile e proibito a cui suo malgrado si abbandona, e
di cui l’intreccio esplora i meandri pericolosi : più che una madre e un figlio sull’orlo

dell’abisso, Artemisia e Euriso sono una donna matura e bella e un giovane ardente e
ambizioso, che si desiderano, e intrecciano, loro malgrado, una schermaglia amorosa
dall’esito incerto. Siamo lontani da qualsiasi pedagogia tragica, e prossimi, semmai,
a un modello che sarà Alfieri a consacrare, con i suoi personaggi ‘posseduti’ da fanta-
smi interiori orridi e sublimi. 1
Goldoni non è un libertino alla Laclos, beninteso, ma ha uno sguardo onnicom-
prensivo, venato di tinte nere, che dall’originario bacino di commedie cittadine attin-
te dalla tradizione bulesca della Commedia dell’Arte, trasloca ora in regioni sceniche
di nuovissimo conio. 2 Ancora una volta egli si rivela genialmente capace di mediare
e impastare alte istanze culturali con un immaginario diffuso, rielaborando una se-
rie di luoghi comuni, sia sociologici che teatrali, in una formula scenica ‘realistica’,
che coglie in anteprima europea il nuovo che è in gioco : in questo caso, un modello  

tragico rianimato dall’interno in chiave psicologica e affettiva, reso verosimile (e po-


tenzialmente popolare) senza perdere il proprio involucro formale. Era una strada
ragionevolmente percorribile per la tragedia a rischio forte di estinzione e in cerca
di aggiornamenti legati ai tumulti soggettivi del cuore e dei corpi, 3 che l’avrebbe in
parte trasfusa nel dramma, soppiantando la commedia, altrettanto moritura.
Goldoni lavora sulla linea di Garrick, che recita le tragedie di Shakespeare senza

1
  Cfr. Ezio Raimondi, Alfieri 1782 : un teatro « terribile », in Il teatro italiano nel Settecento, a cura di Gerardo
     

Guccini, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 381-402.


2
  Come confermano ora le riflessioni, molto sottili, che Adrienne Ward dedica alle passioni femminili
portate in scena da Goldoni (a prescindere dagli apporti drammaturgici dovuti alle varie attrici che le imper-
sonavano, e di cui – anche in queste pagine – si sottolinea di solito l’importanza prevalente) in riferimento al
circostante dibattito settecentesco europeo in materia di sesso, famiglia e matrimonio : Adrienne Ward, Le  

donne appassionate e il genere della passione ne « La sposa persiana », « Problemi di critica goldoniana », xvi, 2009,
       

pp. 39-57 (contributo presentato al Convegno dedicato a Le donne di Goldoni, e svoltosi a Madison, presso
l’University of Wisconsin, il 25 e 26 aprile 2008, di cui il numero della rivista raccoglie gli Atti). Su questo
versante della sua drammaturgia, si rimanda anche a Roberto Alonge, Goldoni il libertino. Eros, violenza,
morte, Roma-Bari, Laterza, 2010.
3
  In una lettera del 3 gennaio 1765, il solito Stefano Sciugliaga, mediatore presso il Vendramin delle insod-
disfazioni del Goldoni lontano, polemizza vivacemente contro l’incoerenza con cui sono costruiti i cartel-
loni a Venezia, che penalizzano un teatro « ragionato » mettendolo improvvidamente in concorrenza con
   

prodotti fondati sulla « curiosità » o il puro « spettacolo » : « Spettacolo a San Giovanni Grisostomo ; novità per
             

i curiosi a San Samuele. Due teatri d’opera : giorni tutti festivi, eravi egli il tempo per commedia ragionata ?
   

È ella caduta per esser cattiva, o biasimata ? No. Tutti ne dicono bene ; ma è caduta perché la gente era oc-
   

cupata o nella curiosità, o nello spettacolo, o nell’opere. Cose tutte che nelli loro principj abbagliano, e poi
cadono, ma contro i quali principj non v’è cosa che possa, quando non sia sorprendente » (Carlo Goldoni e il  

Teatro San Luca di Venezia, cit., p. 231).


la tragedia possibile secondo goldoni 129
parrucca, affidandosi al naturale dei gesti e degli sguardi, ma non dimentica la lezio-
ne del concertato scenico, punto di forza del teatro italiano ; come Voltaire, vuole  

« chaleur et frisson », ma non ha bisogno di ricorrere al ciarpame del grand spectacle,


   

né alle novità silenziose del tableau pantomimico caro a Diderot. 1 Gli basta attingere
al sostrato professionale e drammaturgico della tradizione attoriale, che ben conosce
e sa governare, indicando una via praticabile per un teatro come sempre legato alla
vita, che possa essere specchio di passioni « nobili non per condizione, ma per senti-

mento ». 2

Era una battaglia difficile, insidiata come sappiamo da molti fronti, 3 ma storicamen-
te quanto mai plausibile e attuale. Artemisia rimase, in quanto tragedia, un unicum, ma
ebbe, come si è visto, parecchio a che fare con l’ultima, trionfale fase del suo lavoro
veneziano. Il confronto polemico con Voltaire, che sottintendeva, rimase implicito e
sottaciuto, salvo essere rilanciato, due anni dopo, da La Scozzese, che – sotto le mo-
deste spoglie di una traduzione e con molte professioni di subalternità – surclassava
decisamente l’Ecossaise con grazia sapiente e un duraturo successo. 4
1
  Cfr. Mara Fazio, Il rinnovamento del Settecento fra attori e autori, in Breve storia del teatro per immagini, a
cura di Luigi Allegri, Roberto Alonge, Francesco Carpanelli, Roma, Carocci, 2008, pp. 161-174.
2
  Una distinzione importante, su cui Goldoni insiste con Stefano Sciugliaga, in una lettera del 1764, in
riferimento all’interpretazione di Camilla-Zelinda nella trilogia che ha scritto a Parigi (mn, xiv, p. 310).
3
  A questo proposito è molto interessante una conferma indiretta che ci viene da Stefano Sciugliaga : l’11  

novembre 1764 egli protesta vivacemente con il Vendramin per aver modificato unilateralmente un prologo
che gli aveva inviato per conto di Goldoni ; al di là dell’episodio contingente, colpisce l’orgoglio geloso con

cui egli rivendica una competenza teatrale che appartiene all’ordine alto della Poesia : « e se v’è cosa, che a
   

V.a E.za non piaccia, o che le renderò ragione, o che cambierò sotto il suo occhio ; ma altri nelle cose del D.r

Goldoni, e nelle mie non ha da metter mano, percioché qualche cosa devo saper anch’io, dacché l’autore
di me si fida, e dacché con netta modestia ardisco dire, che della Poesia Teatrale m’intendo qualche cosa ;  

né per diletto, né per professione, ma per lo studio della Poesia in genere. Io spero, che non accaderà altro
simile incontro, né V.a E.za permetterà che altri cancelli quello che io scrivo » (Carlo Goldoni e il teatro di San

Luca a Venezia, cit., p. 223).


4
  Per l’intera vicenda faccio riferimento all’edizione del testo a mia cura (en, 2006).
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issn 2280-4838
SOMMARIO

studi
Gerardo Guccini, Goldoni scenografo. Con alcune considerazioni di carattere sto-
rico sulle componenti e le funzioni degli spazi comici 11
Roberta Turchi, Don Marzio chez Alfieri 43
Bodo Guthmüller, Il Conte Popolo sposa la Commedia Italiana. Teatro e mercato
a Venezia nel 1755 59
Chiara Biagioli, Goldoni e/a Parma. Nuovi documenti e riflessioni 71
Marzia Pieri, La tragedia possibile secondo Goldoni e l’esperimento fallito delle
‘Nove Muse’ 99
Javier Gutiérrez Carou, Luigi Benedetti e Carlo Gozzi tra teatro aureo spagnolo
e repertorio settecentesco italiano 131
Eduardo Rescigno, ‘Ventagli’ in musica fra Ottocento e primo Novecento 151
Carlo Minnaja, Goldoni in lingua internazionale 177

rassegne
Rossend Arqués, Gira, Goldoni, gira. Sulla messinscena di Lluís Pasqual della ver-
sione catalana dei Rusteghi (Els feréstecs) di Goldoni 197

Sandro Frizziero (a cura di), Bibliografia goldoniana (2001-2005) 203


Indice dei nomi e delle opere 221

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