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Bernardo Bertenasco
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“Ai miei avi che emigrarono in Argentina nel 1897
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Introduzione
Oggi, erroneamente, nel nostro Paese ci si concentra maggiormente sul fenomeno
dell’immigrazione, ignorando sia la grande storia migrante dei nostri avi sia l’attuale
esodo dei giovani. La storia d’Italia, dalla sua fondazione in poi, è intimamente
legata a quella dell’Argentina, si tratta infatti di un continuo susseguirsi di migrazioni
verso la Merica. Per fare chiarezza potremmo enumerarne quattro: la prima alla fine
del XIX secolo, la seconda tra le due guerre, la terza nell’immediato dopoguerra e
l’ultima a cavallo tra il XX e il XXI secolo.
La terza fase del movimento migratorio verso l’Argentina, concentrata nei primi anni
del dopoguerra (1945-1960), si caratterizza per motivazioni diverse dalle prime due,
oltre che per un’altra composizione. Se, tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’20 del
Novecento, la maggior parte degli immigrati italiani in Argentina proveniva dalle
regioni del nord (Veneto, Piemonte, Friuli e Liguria) in conseguenza alla Grande
Depressione che decretò una crisi nella pianura padana; adesso invece, mentre il
boom economico post bellico traina l’economia dell’Italia settentrionale, è formata
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principalmente da meridionali, soprattutto campani, calabresi e siciliani. Inoltre la
motivazione non è più quasi esclusivamente dettata da problemi di sussistenza, ora
vi sono infatti diversi casi di migranti aventi una buona istruzione, nonché
organizzati per coprire ruoli di rilievo una volta arrivati in loco. Si diffonde quindi la
prima immigrazione qualificata e pianificata, codificata dai trattati tra Italia e
Argentina del 1947 e fortemente voluta dai presidenti Perón e De Gasperi.
Questi sono anche gli anni in cui, forti in Europa i postumi del nazifascismo, in tanti
preferiscono iniziare una nuova vita altrove, magari proprio dall’altre parte del
mondo, da zero, senza compromessi, paure o fantasmi del passato. Nell’epoca
peronista, infatti, ad un’immigrazione di ex partigiani e combattenti, si aggiunge
quella di gerarchi nazisti ed ex funzionari fascisti.
Per certi versi maggiormente interessante ai fini della nostra ricerca, anche perché
molto più numeroso, è il fenomeno della cosiddetta “immigrazione di ritorno” verso
l’Italia, grazie alla quale possiamo comprendere quale sia la percezione del nostro
Paese da parte degli Argentini, soprattutto per coloro che hanno ascendenza italiana
(oriundi) e che, quasi sempre, possiedono anche la doppia cittadinanza.
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Subito dopo lo sbarco
Non esiste quasi più argentino che non abbia avi italiani, spagnoli, tedeschi o
francesi. La storia dell’Argentina contemporanea coincide con la storia
dell’immigrazione europea. Forse per questo motivo in Latinoamérica è diffuso il
seguente detto: “los mexicanos descienden de los aztecas, los peruanos de los incas,
los argentinos de los barcos.”
Nell’Ottocento infatti buona parte degli indígenas erano già stati sterminati nel
genocidio cominciato nel ‘500 dagli spagnoli e poi ultimato con le spedizioni
patagoniche del General Roca durante la Conquista del desierto. Così i “nuovi
autoctoni” erano i criollos, cioè i nati sul continente americano, ma di origine
europea. Da lì in poi si inaugura una “invenzione” o “creazione identitaria” che farà
dell’Argentina il paese degli indigeni prima (al nord soprattutto guaraníes, kollas e
quechuas, al centro huarpes e rankulches, al sud mapuches), liberi di disporre dei
terreni e dell’allevamento degli animali come credevano, poi dei criollos, proprietari
di grandi tenute agricole e fautori della “modernità” e infine degli europei, con una
forte propensione per gli spagnoli, detti gallegos e gli italiani, detti tanos.
Ma quale è stata la reazione dei criollos alla prima immigrazione degli italiani?
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A fine ottocento l’Argentina era una nazione giovane, immensa, ricca di risorse e
quasi interamente spopolata. Il sogno degli italiani, in un’Europa caratterizzata da
una grandissima crescita demografica, era quello di “hacer la America” (fare
l’America), di andare a cercare fortuna oltreoceano, soprattutto negli Stati Uniti, in
Brasile e nell’area rio platense, nel piccolo Uruguay e in Argentina, all’epoca sesta
economia al mondo con un tasso di crescita del 3,8% annuo, doppio a quello della
maggior parte dei Paesi del vecchio continente.
“Cien mil inmigrantes desembarcaban por aňo, el país se iba a las nubes, marchaba
viento en popa..” (Cambaceres E., 2007)
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Ciononostante i pochi aneliti di cosmopolitismo (ideologico, politico, volto a
sfruttare il migrante..) si scontravano contro il diffuso e comprensibile pregiudizio
nei confronti dell’immigrato: un uomo in età da lavoro (le donne erano molto
poche), generalmente povero, incapace di parlare spagnolo e spesso anche italiano
correttamente, in molti casi addirittura descritto come “puzzolente”, non
specializzato e, raramente, anche potenziale portatore di epidemie (da ricordare il
caso della nave Perseo nel 1886) oltre che, a seconda dei punti di vista, distruttore
(desnacionalización) o creatore della nuova identità nazionale.
“Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe, dei quali più di
quattrocento tra donne e bambini: non compresi nel numero gli uomini
dell’equipaggio, che toccavan quasi i duecento. Tutti i posti erano occupati. La
maggior parte degli emigranti, come sempre, proveniva dall’Italia alta, e otto su
dieci dalla campagna. Molti Valsusini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia e
dell’alta Valtellina: dei contadini d’Alba e d’Alessandria che andavano in Argentina
non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre
mesi, navigando quaranta giorni. Molti della Val di Sesia, molti pure di que’ bei paesi
che fanno corona ai nostri laghi, così belli che pare non possa venir in mente a
nessuno d’abbandonarli: tessitori di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese.
Della Liguria il contingente solito, dato in massima parte dai circondari d’Albenga, di
Savona e di Chiavari” (De Amicis E., 2013)
In viaggio su queste navi, tra le quali mi piace ricordare la Scandia e l’Orione del
1897 perché fu su queste imbarcazioni che viaggiarono i miei avi, incluso il piccolo
Ernesto di un solo anno d’età, c’erano “las muchas Italias” descritte da Sarmiento,
ossia i rappresentanti delle diverse culture regionali, dei diversi dialetti e delle più
svariate maniere di concepire il mondo e la vita, che potevano differire anche molto
tra un veneziano, un ligure ed un torinese.
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Fu così che a fine ‘800 i Bertenasco sbarcarono in Argentina: tra questi c’era Carlo,
che entrò nel Paese nel 1897 la prima volta e poi uscì sicuramente altre due volte
(almeno per quanto ci è possibile sapere grazie ai dati diffusi dal Centro
Internazionale Studi Emigrazione Italiana), magari pensando in un primo tempo di
attuare la cosiddetta emigración golondrina, cioè quella temporanea, spesso
agricola, finalizzata a creare profitti rapidi per rientrare in patria con maggiori
possibilità economiche dopo il período de cosecha; tuttavia non fu così e, alcuni anni
dopo, imbarcato in terza classe sulla nave San Giovanni arrivò Giuseppe Bertenasco,
registrato anch’egli come agricultor, nonché considerato capace di leggere e
scrivere.
I primi immigrati, tra i quali molto probabilmente devono essere annoverati anche i
miei parenti paterni di origine piemontese, non erano dunque “italiani”, ma più che
altri liguri, veneti, friulani che solo una volta arrivati oltreoceano sarebbero stati
riconosciuti dagli argentini come italiani e si sarebbero essi stessi riconosciuti come
tali, per aiutarsi e cooperare sia in senso morale e psicologico sia mediante la
creazione di scuole, ospedali, società di mutuo soccorso e comunità italiane, con
tutti i limiti che può avere l’utilizzo di questo termine negli anni ’70 e ’80
dell’Ottocento.
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Buona parte degli italiani, fino all’inizio del Novecento, si vergognava delle proprie
radici, voleva togliersi di dosso l’eredità dei padri, la loro miseria, il loro spagnolo
contaminato che diede vita al cocoliche e al lunfardo. Non amavano le proprie origini
in quanto spesso oggetto di scherno e disprezzo da parte dei criollos. In un’epoca di
nazionalismo quale fu il secolo XIX, essere stranieri non era semplice da nessuna
parte, nemmeno in Argentina, oggi riconosciuta mondialmente come immenso
melting pot.
Nel Martín Fierro, “libro nacional de los argentinos” secondo lo scrittore Lugones,
domina il nacionalismo gauchesco anti immigrati. In quell’opera, riflesso dei tempi,
si cerca di imporre come modello dell’argentino puro il gaucho, un americano
avente avi spagnoli: il diretto erede del passato coloniale. Al gaucho, al criollo,
all’autoctono si oppone il gringo, l’immigrato di ultima generazione.
A differenza dei negros, nei confronti dei quali il gaucho non teme l’invasione,
perché sono pochi e culturalmente “troppo diversi”, i nostri avi facevano molta
paura in quanto cominciavano a rappresentare una grande parte della popolazione
e perché, forse più per necessità che per vocazione, grandi lavoratori e, in certi
campi, come ad esempio la ristorazione, l’edilizia e la vitivinicoltura, anche ottimi
imprenditori.
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Nel 1885 gli immigrati europei, dei quali più di un terzo sono nostri connazionali,
rappresentano circa il 20-25% della popolazione argentina. I nostri antenati vengono
spesso percepiti e definiti come “trabajadores infaticables” (Funes L., 1936), come
se avessero delle caratteristiche, oltre che dei limiti, principalmente economici,
sociali e linguistici, che assumono caratteri quasi “biologici”; ciononostante il mito
dell’italiano “gran lavoratore” si caratterizza in certi casi come prejuicio positivo
(Devoto F., 1992) nel momento della ricerca di un impiego.
Si diffonde così l’idea da un lato dell’italiano come “contaminato alla nascita” da una
cultura differente considerata ancora inferiore, dall’altra quella di un popolo di
grandi lavoratori. Così, nel 1864, solo tre anni dopo la distruzione di Mendoza a
causa di un terremoto, la città del Cuyo incentiva un incremento dell’immigrazione
europea, soprattutto italiana, cominciando la lenta e graduale integrazione dei
nostri connazionali in diverse parti del suolo argentino e non solo nell’area
Bonaerense e di Santa Fe.
Le zone maggiormente interessate dall’immigrazione alla fine del XIX secolo furono
appunto Buenos Aires, la pampa nella quale gli italiani furono maggiormente
coinvolti nella produzione di cereali e lino (la cosiddetta “pampa gringa”), La Plata,
Rosario, Córdoba e Mendoza; quasi nullo fu invece l’apporto in Patagonia, popolata
a fine ‘800 da tedeschi e poi ancora da tedeschi nel secondo dopoguerra, nonché
nella zone settentrionali come Salta, Tucumán, Jujuy e Rioja (dove invece arrivarono
molti siriani), il nord est del Paese era comunque generalmente meno propenso a
ricevere immigrati a causa di limiti principalmente economici e conseguentemente
risultava povero di servizi quali scuole, ospedali e attività culturali che si andavano
formando anche grazie all’arrivo degli europei.
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Si vergogna di se stesso, di suo padre e delle tare che da questi ha ereditato, la sua è
un’eterna lotta contro le proprie origini e contro il germe dell’ignoranza e della
povertà che risiede “en la sangre”.
Studia, si trasferisce nel centro della città, investe i risparmi paterni in abiti eleganti
e serate al Teatro Colón per dimostrare a se stesso e alla società che anche un “hijo
de gringo trachero” (pag.54) può essere orgoglioso delle proprie azioni e del proprio
mestiere, degno di avere onori e di vedere il proprio nome sui giornali e sulle riviste
come qualsiasi altro criollo, perché “les había de probar él que, hijo de gringo y todo,
valía diez veces más que ellos!” (pag. 37).
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L’epoca dell’integrazione e della presunta rinuncia identitaria
Agli inizi del Novecento il problema dell’integrazione viene sostituito da quello della
“argentinizzazione” degli italiani, della loro perdita di identità, caratterizzata
soprattutto dalla non conoscenza della lingua italiana da parte della seconda
generazione migrante già nata in America e dall’assimilazione di usi e costumi diversi
da quelli originari.
“El tiempo pasa en esta patria tan noble, tan hermosa (…) Aprendimos a tomar mate
en bombilla y a comer asado” (Blanco A. 2005)
Quindi forse i dubbi espressi da molti italiani di inizio Novecento sono solo
parzialmente veri: gli italiani si stanno “argentinizzando”, ma l’Argentina si sta
“italianizzando” (anche spagnolizzando, germanizzando, francesizzando..).
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“Finalmente arribamos a la cuestión de la identidad o mejor de las identidades. No
es abusivo sostener que los inmigrantes creyeron ser italianos, espaňoles, alemanes
o franceses. Sin embargo, lo eran de un modo diferente al de quello que habían
permanecido en el país de origen. Sus hijos, la gran mayoría, creyeron ser
plenamente argentinos. Sin embargo, más allá de la identidad verbalizada y de
tantos otros rasgos culturales, conservaban mucho de la memoria social (en tanto
que memoria familiar) de sus ancestros aunque no pudieses seňalar con precisión su
proveniencia (…) muchos de los hábitos y creencias traídos por los inmigrantes
terminaron por impregnar y transformar a la Argentina conviertiéndose, con el
tiempo, en patrimonio de una sociedad heterogénea” (Devoto F., 1992)
Tale idea di influenza reciproca, che è alla base del nascente crisol de culturas che
caratterizzerà l’Argentina da inizio secolo in poi, ormai piena di nuovi migranti che
continuano a sbarcare, ma anche di molti oriundi, viene magistralmente sintetizzata
nella poesia di Alvaro Yunque Elogio del mate e per questo motivo ne riporto una
parte:
Mate, eres un vehículo de paz y fuente de amor es tu tibio cuenco aquí, sabroso
mate,
por estos poliglotas, babélicos y únicos
conventillos de Buenos Aires.
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¡Sucia, áspera, terrible!
Que, simpáticamente, llaman: “Hacer la América” (Yunque A., 1932)
“Ci troviamo di fronte a questa dura verità; che se tutti i francesi parlano — più o
meno — il francese, tutti gl’inglesi l’inglese, i tedeschi il tedesco e i russi il russo, la
maggioranza del popolo italiano non parla italiano (…) Ora, possono i figli di questi
nostri emigranti conoscere l’italiano, se non è noto nemmeno ai loro genitori?
Certamente no. E mancando la lingua italiana manca loro la base dell’italianità, il
vincolo più forte con la Patria d’origine” (Barzini L. 1902)
A inizio Novecento Buenos Aires è la nuova Babilonia, città cosmopolita che, passati
i primi decenni di miseria, disprezzo, emarginazione professionale e segregazione
dei migranti nei conventillos, comincia ad apprezzare le tradizioni da questi
importate o create direttamente sul suolo argentino, come ad esempio il tango e il
lunfardo; è la città descritta da Arlt in Aguafuertes porteňas, quella di una nuova
mezcla culturale che non è più qualcosa di “altro” o diverso rispetto alla patria, ma è
la patria stessa, la nuova nazione formata da un crogiolo di popoli sedimentato nei
decenni e che continua a ingrossarsi a causa del perpetrarsi degli sbarchi, nonché a
rinforzare la concezione condivisa da molti studiosi secondo i quali, pur con le
dovute riserve, il concetto di inmigración coincide con quello di argentinidad.
“No temáis la confusión de razas y lenguas. De la Babel, del caos, saldrá algún día la
nacionalidad sudamericana”
Gli italiani, come gli spagnoli, i turchi, gli ebrei, i francesi, i russi e i tedeschi,
cominciano ad abitare in centro città o a possedere terreni, a partecipare alla vita
sociale e culturale del Paese non più solo come spettatori, ma come attori principali:
ora si parla di loro sui giornali, nei romanzi e nelle poesie, senza farlo in maniera
dispregiativa come avveniva fino a uno o due decenni prima.
A tal proposito propongo due poesie, pubblicate sulla rivista d’epoca Caras y
Caretas, che mostrano di quale nuova considerazione godessero gli immigrati
europei durante la belle époque.
(...) ahí están los desgraciados de hoy, tal vez los felices de mañana. No los miremos
con desprecio: acaso los veamos un día con las riendas de poder en la mano, árbitros
de la riqueza y de los negocios. En ningún sitio como en el Hotel de Inmigrantes es
necesario de revestirse de una gran humildad. De esos inmigrantes esta hecha la
grandeza del país. Sobre tan pequeños pilares ha querido el destino levantar la
cúpula argentina.
El pulpo del cosmopolitismo que ha extendido sus tentáculos sobre nuestra ciudad,
va convirtiendo a Buenos Aires en un gigantesco trasatlántico en el que viajan
infinidad de gentes de todas las nacionalidades y en el que apenas el capitán y los
marineros son hijos del país...
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Come giustamente osserva Devoto (Devoto F., 1992) uno dei maggiori problemi
degli storici fu ed è quello di stabilire la ragione per cui molti migranti europei, pur
aventi un retroterra agricolo, si sono velocemente ritrovati a lavorare nelle grandi
città e a ricoprire ruoli, di rilievo e non, nella realtà urbana a scapito di quella rurale.
A tal riguardo occorre ricordare sia il fallimento del piano di Sarmiento e Avellaneda
nella popolazione della “pampa gringa” (pur se vi furono migranti che la popolarono
e la coltivarono), sia che buona parte degli immigrati italiani entrati in Argentina tra
il 1870 e il 1910 – 1920 vengono registrati come agricultor (ad esempio tutti i
Bertenasco), tuttavia non sappiamo con precisione se si tratti della verità o di una
forma burocratizzata magari simile ma non del tutto coincidente con la realtà
fattuale; lo stesso avviene per quanto concerne il grado di alfabetizzazione e
istruzione di chi sbarca a Buenos Aires, dove troviamo scritto, con
un’approssimazione che non può non colpirci, “leggere e scrivere: sa / non sa”
(fonte: Centro Internazionali Studi Emigrazione Italiana)
“Sarmientos se trajo a los italianos porque él creía que entendían de trigo, y en lugar
de irse al campo y fundar colonias se prendieron a las ciudades y fundaron quintas;
en lugar de sembrar trigo sembraron verduras y mandaron al centro a sus hijos para
que figuraran lo mismo que los hijos de los otros. (Anzoátegui, 2005: 101).” (Bravo
Herrera F., 2016)
Così i continui progressi socioeconomici dei migranti urbani dello stivale fanno sì che
nel 1909 il quotidiano “La Patria degli Italiani”, guidato da Basilio Cittadini, è il terzo
giornale più venduto in Argentina, dopo La Prensa e La Nación e, solo dieci anni
dopo, l’integrazione degli italiani, o sarebbe meglio dire dei figli e dei nipoti dei primi
migranti, socialmente e numericamente più forti rispetto ai ”nuovi immigrati”, è
sorprendente.
“Osserviamo una fotografia scattata in Argentina alla fine degli anni venti: il capo
dei senatori del Partito Radicale, cioè il partito di maggioranza, si chiama Molinari, il
capo dell’esercito si chiama Dellepiane, l’arcivescovo di Buenos Aires, vale a dire la
massima carica della chiesa argentina, si chiama Bottaro, il preside della mia facoltà
di Lettere e Filosofia all’Università di Buenos Aires si chiama Ravignani. E due dei tre-
quattro uomini di spicco dell’Unione Industriale si chiamano Colombo e Valdani”
(Devoto F., 2003)
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A inizio novecento il mondo nuovo, pieno di risorse e spazi liberi, fu letteralmente
riempito dall’alluvione di migranti provenienti da ogni dove e che hanno fatto
dell’America il continente del secolo e di città come New York e Buenos Aires le
nuove grandi mete internazionali.
“Los otros tres varones, todos mayores que Mario, se habían ido a América, a la
Argentina. Escribían de tanto en tanto, contaban que estaban bien, que sobraba el
trabajo y corría la plata. En realidad el primero que había estado a la Argentina era
su padre, hizo varios viajes (…) todo el mundo habla de la abundancia de aquel país”
(Dal Masetto A., 1990)
Tuttavia, per quanto riguarda l’identità dei migranti ed il loro contributo politico nei
Paesi ospitanti occorre chiarificare una differenza significativa tra Stati Uniti, nei
quali la maggior parte dei “nuovi arrivati” prendeva la nazionalità americana e
l’Argentina dove, nonostante il crescente apporto economico e culturale di
imprenditori ed operai italiani che ormai formavano parte della classe media, non
avveniva la naturalizzazione di questi “nuovi argentini”, formalmente italiani,
concretamente apolidi.
Si stima che nel 1905 solo il 2% degli immigrati italiani possedeva la cittadinanza
argentina, creando così da un lato un minore coinvolgimento politico nelle elezioni e
nelle decisioni comunali e dall’altro un sempre crescente interesse per l’anarchismo
e il socialismo nonché per le comunità italiane o i gruppi di lavoratori, ad esempio
quello dei panettieri di Buenos Aires, che funzionavano sempre di più come
parasindacati di matrice “straniera”.
La storia mondiale ci mostra quindi come l’emigrazione sia un fenomeno cardine
delle società umane, da questa sempre plasmate e caratterizzate. Tuttavia
l’immigrazione italiana in Argentina e in generale quella americana degli europei ci
invita a riflettere su alcune caratteristiche specifiche.
La prima è quella di un’immigrazione che non si inserisce in contesti già del tutto
indipendenti culturalmente, ma di un’immigrazione che crea, forma la nuova realtà;
le città del vecchio continente sono cambiate grazie all’arrivo di stranieri, ma non
sono nate come qualcosa di nuovo, unico e diverso rispetto a ciò che erano prima
come avvenne nel nuovo mondo, non solo a Buenos Aires, ma anche a Córdoba,
Rosario e Mendoza. La seconda è che l’emigrazione verso ultramar mostra di essere
tanto slegata da ragioni culturali, che certo non rappresentano la motivazione del
lungo viaggio, quanto legata al sistema capitalista avanzato; si va oltre oceano per
“fare fortuna”, si insegue il “sogno americano”.
Si tratta dunque di una nuova tipologia migratoria nella quale il movimento di merci
e la libera circolazione di capitali fomenta quella (voluta, necessitata, imposta o
indotta) di esseri umani, di forza lavoro giovane e motivata a dare tutto per hacerse
la America.
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Il dopoguerra
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Alla scarsità di generi alimentari si mischia la paura di una nuova guerra civile, ecco
perché vengono subito abolite le regole fasciste, restrittive in materia di
emigrazione (Mussolini mascherava l’emigrazione parlando di coloni interni nella
bonifica dell’Agro Pontino e conquistatori d’Africa nella “quarta sponda” in Libia),
adesso invece proposta come prospettiva allettante.
In quegli anni nel nostro Paese vi erano infatti 2 milioni di disoccupati e, siccome gli
Stati Uniti erano determinati a non ricevere altri immigrati italiani, il Governo di De
Gasperi riconfermò lo storico legame con l’Argentina.
Il 21 febbraio 1947 viene stipulato un trattato tra Roma e Buenos Aires per
regolamentare l’immigrazione italiana in Argentina; il governo di Perón necessita sia
manodopera a basso costo sia lavoratori qualificati, il governo italiano ha bisogno di
creare una valvola di sfogo. Tale trattato riafferma un’intensa e ottima attività
diplomatica, sicuramente cementificata anche dalla Chiesa cattolica, ormai quasi
secolare tra i due Paesi, e stabilisce l’importanza di controlli sanitari prima di entrare
in America, garantendo inoltre la libertà d’emigrazione per la legge Italiana e di
immigrazione per quella argentina, nella quale, come sancito dalla costituzione, i
nuovi immigrati avrebbero goduto di tutti i diritti sociali, politici e civili, esattamente
come i cittadini argentini; rimane tuttavia irrisolto il tema del lavoro che, secondo gli
italiani sarebbe dovuto essere certo e garantito prima della partenza, mentre per gli
argentini era da formalizzare, per quanto magari vi fossero accordi precedenti, nel
porto di sbarco.
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È iniziata la “stagione d’oro” degli accordi bilaterali in tema d’immigrazione, l’epoca
in cui il presidente De Gasperi esortava i giovani a imparare le lingue e a “percorrere
le strade del mondo”. In questi anni infatti il Governo italiano firmerà, credendo
fosse questa una delle possibili strade per la ripresa economica del Paese, accordi di
emigrazione con diverse nazioni (oltre quello con l’Argentina del 1947): con il Belgio
(accordo del giugno 1946), nel quale i nostri connazionali si dedicarono
principalmente al lavoro nelle mine di carbone, reso celebre dalla tragica strage di
Marcinelle del 1956, dove persero la vita 262 lavoratori, dei quali 136 erano
immigrati italiani; con il Brasile (accordo del luglio 1950) dove si lavorava sia
nell’agricoltura sia nell’industria, con la Germania (accordo del dicembre 1955) e
infine con la Svizzera (accordo dell’agosto 1964) nella quale gli impieghi erano
principalmente stagionali.
“Nel 1947 Juan Domingo Perón, al suo primo mandato presidenziale (è eletto il 24
febbraio 1946), vara il primo piano quinquennale che comprende una ambiziosa
politica di incremento dell’immigrazione (si prevede di ricevere 4 milioni di immigrati
tra 1947 e 1951), nell’intento di dare sviluppo all’agricoltura e soprattutto
all’industria in un paese che ha ancora un forte bisogno di manodopera. A
differenza, però, di quanto era avvenuto durante la grande ondata migratoria tra
fine Ottocento e inizio Novecento, che rispondeva ad una necessità indiscriminata di
mero popolamento, il governo peronista preferisce operare una selezione dei flussi
migratori attraverso l’attivazione di organismi ufficiali, in modo da accogliere nel
paese una immigrazione qualificata che si radichi stabilmente sul territorio. Una
selezione da effettuarsi non solo sulle competenze, ma, in via preventiva, anche
sull’origine e l’orientamento ideologico degli immigrati stessi, che si vorrebbero
«mediterranei, cattolici, di sicura affiliazione anticomunista.. »” (Campanini P., 2012)
“Il Messaggero di Roma, nel maggio 1946, pubblica in prima pagina un articolo dal
titolo «In Argentina c’è posto per gli italiani» (…) Il Corriere della Sera del 27 ottobre
1946 riporta, ancora in prima pagina, un resoconto di viaggio di Guido de Ruggiero
dal titolo «Conoscersi e volersi bene fra Italiani e Argentini», seguito da un altro,
dell’8 novembre dello stesso anno, dal titolo «Argentina terra promessa. Gli oriundi
del nostro Paese fanno prevalere le ragioni di sentimento e le tradizioni spirituali
anche nei rapporti economici» (Campanini P., 2012)
Nel 1947, all’arrivo della nave Santa Fé al porto di Buenos Aires, vi sono migliaia di
compatrioti ad accogliere i nuovi immigrati, nonché Perón in persona, il quale dice
chiaramente che “quattro milioni di italiani vivono felicemente in Argentina. Perciò
voi, immigrati, non siete gente straniera, siete nostri fratelli”. È dello stesso periodo
il viaggio di Evita Perón a Roma, dove incontra il presidente De Gasperi e Papa Pio
XII, rafforzando la grande amicizia e intesa tra il popolo italiano e quello argentino.
Nella riforma costituzionale del 1949 Perón tratta, cercando di risolvere, una delle
questioni più spinose ed irrisolte a proposito degli immigrati: la nazionalità;
mostrando, ancora una volta, l’interesse riguardante la nuova grande manovra
burocratica, giuridica e legislativa nei confronti della comunità italiana in Argentina.
Nei primi anni ’50, ancora durante il mandato di Alcide De Gasperi, l’emigrazione
non era più appoggiata solo da Chiesa e Governo, ma anche dalla CGIL, che, se in un
primo momento aveva criticato “l’esodo americano” dei lavoratori italiani, ora lo
considerava un “male necessario” alla crescita economica del Paese, all’esubero di
manodopera che doveva essere in qualche modo ricollocata.
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Tra gli anni ’40 e gli anni ’50 mezzo milione di italiani, di cui i tre quarti provenienti
dal Mezzogiorno, arrivò in Argentina e l’emigrazione italiana in generale fu, ancora
una volta, principalmente transoceanica, diretta anche verso Canada, Brasile, Stati
Uniti e Venezuela.
“Si configura ben presto in una serie di facilitazioni e vantaggi nei confronti di
‘emigranti’ di riguardo: fascisti e collaborazionisti troppo compromessi con il passato
regime (…) viene accertata infatti la falsità delle dichiarazioni della professione di
operaio di un buon numero emigranti che operai non sono e che, oltre tutto, portano
con se’ ingenti capitali. La Delegazione è accusata di concedere indubbi favori a
«pezzi grossi fascisti» e a personaggi che hanno «smobilitato i loro patrimoni in
Italia» e che cercano dall’altra parte del mondo una nuova verginità politica”
(Campanini P., 2012)
I nuovi arrivati inoltre, sono spesso disinteressati a creare legami con i propri
connazionali delle prime emigrazioni, dai quali si sentono “diversi” per formazione,
cultura e classe sociale; non si interessano dei giornali italiani locali o delle forme
comunitarie sviluppate nei decenni precedenti, sono homini noves volti al mero
successo politico sociale ed economico, svincolati da qualsiasi sentimento nei
confronti della patria e probabilmente meno attaccati all’importanza di mantenere
un certo rapporto con le origini (questa è la posizione preponderante, tuttavia vi
sono diversi italiani arrivati nel dopoguerra che non appartengono a classi sociali
alte, come altri che sentono fortissimo il problema dello sradicamento, tra questi,
oltre allo scrittore Dal Masetto, ci sono anche tanti signori da me personalmente
conosciuti nelle associazioni regionali di Mendoza).
L’immigrazione del dopoguerra, nella quale tutti si sentono dottori e ingegneri anche
quando non lo sono (Campanini P., 2012), è quella della rivincita, della nuova
percezione del “migrante riuscito e arrivato”, nella quale a contare non è più tanto
l’identità nazionale o regionale del “nuovo americano” come per le generazioni
precedenti, quanto il suo inserimento nella società argentina.
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Scomparsi i complessi dei gringos e dei tanos, i “neoargentini” plasmano la propria
identità in maniera differente rispetto agli altri, con una consapevolezza diversa dei
propri diritti.
È certo che, pur con i suoi limiti, l’emigrazione italiana in Argentina del secondo
dopoguerra fu meno traumatica sia rispetto a quelle precedenti sia rispetto a quella
coeva in Belgio (dove morti, malati di silicosi e internati in manicomio furono
migliaia, infatti “la malattia mentale è considerata una conseguenza delle condizioni
di sfruttamento economico e di isolamento sociale vissute nel corso dell’esperienza
migratoria” (Molinari A., 2010)); inoltre l’inserimento lavorativo e sociale dei nostri
connazionali oltreoceano, ovviamente caratterizzato da una grande eterogeneità
che non si può rappresentare adeguatamente, fu generalmente buono o discreto.
Tuttavia ciò non eliminò il sentimento di sradicamento ancora oggi molto vivo e
presente; ecco perché concludo con alcune considerazioni riguardanti il romanzo
Oscuramente fuerte es la vida di Antonio Dal Masetto.
Visse a Buenos Aires quasi tutta la sua vita, eppure i suoi libri più importanti, raccolti
in una trilogia, possiedono come tematiche principali l’emigrazione e l’Italia.
La ferita del desarraigo quindi non coglieva solo i primi migranti che venivano (come
si dice in Argentina) con una mano atrás y otra adelante, ma anche coloro che, pur
con prospettive generalmente migliori o comunque meno cupe, arrivarono negli
anni ’40 e ’50 del secolo breve.
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“Faltaba poco para irnos. A la curiosidad que despertaba el viaje se mezclaba el
desconcierto por el viaje. Contaba los días. Me habían entregado el pasaporte, los
certificados de vacunas, los pasajes. Comencé a embalar. Del altillo bajamos dos
grandes baúles que habían pertenecido a mi madrina. Metimos todo lo que pudimos
(…) yo no querría desprenderme de nada (…)
Salimos por última vez de aquella puerta, cruzamos el patio por última vez, bajamos
por el sendero y nos fuimos por la calle ancha. A cada paso giraba la cabeza para
mirar la casa, hasta que la casa desapareció y sólo quedó la copa del nogal y un poco
más adelante ni siquiera eso. Después hubo un ómnibus, un tren, otro tren, el puerto
de Genova,un barco y América” (Dal Masetto A., 1990)
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Dagli anni ’60 al XXI secolo
L’immigrazione italiana in Argentina, almeno come fenomeno di massa, termina nei
primi anni ’60. In quegli anni il saldo migratorio argentino diventa negativo, infatti
non solo tanti italiani decidono di tornare in patria, ma anche molti argentini privi di
ascendenza italiana optano per l’emigrazione in Europa, principalmente, almeno in
un primo momento, proprio nei Paesi con cui hanno un legame molto forte: l’Italia e
la Spagna.
Come preannunciato i casi di immigrazione italiana in Argentina sono, dagli anni ‘60
in poi, numericamente esigui; diverso è il discorso riguardante la cosiddetta
“emigrazione di ritorno”. Oggi non solo la percezione dell’Italia e degli italiani in
Argentina è incredibilmente buona (l’ho potuto comprovare io stesso vivendo a
lungo a Mendoza e occupandomi di promozione della lingua e della cultura italiana
all’Universidad Nacional de Cuyo nonché collaborando con il consolato e con le
associazioni regionali in loco), ma al “sogno americano” di fine Ottocento e inizio
Novecento, si sostituisce il “sogno europeo” del nuovo millennio (ed anche in questo
caso il rischio di rimanere delusi non è basso).
In questa realtà che si è venuta a creare è difficile stabilire quanto peso abbiano le
origini italiane e quanto le questioni materiali, ossia se si tratti maggiormente di
migranti identitari o di migranti economici.
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Credo che le due componenti siano ugualmente determinanti nella scelta migratoria
di molti argentini, in quanto la mera ragione economica non è sufficiente per
spiegare la grande scelta, sennò nel 2001 il Paese si sarebbe interamente spopolato,
contemporaneamente la sola motivazione di ricerca delle proprie origini e di
recupero di un’identità “perduta” non basta da sola per decidere di vivere e lavorare
dall’altra parte del mondo: molti argentini, pur essendo (almeno per noi) totalmente
argentini, parlano di “ritorno in Italia”, infatti posseggono la doppia cittadinanza in
virtù dell’ascendenza italiana (ius sanguinis), ma molto spesso non sono al corrente
dell’attuale realtà sociale e lavorativa del Paese e non conoscono la nostra lingua,
oltre ad essere nati e ad aver vissuto sempre in America.
“El colosal protagonismo de los inmigrantes del Viejo Mundo eclipsó el papel de las
migraciones limítrofes –que, por cierto, se solapaban con las migraciones internas–
en la configuración demográfica e identitaria del país” (Bjerg M., 2016)
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Bibliografia e altre fonti:
Barzini Luigi, L’Argentina vista come è / i figli degli italiani, in Wikisource, dal
Corriere della Sera 11/09/1902
Burch Noel, Aller simple: 3 historias del Rio de la Plata, Francia – Argentina, 1998
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Cambaceres Eugenio, En la sangre, Buenos Aires, Plus Ultra, 1968
Campanini Paola, Caro Mario, Maria mia adorata. Argentina 1947, Archivio storico
dell’emigrazione italiana, 09/09/2012
Daccò Dm, L’emigrazione italiana in Argentina, Conf. Cephalal. 2016; Vol. 26, N. 2:
43-56
Dal Masetto Antonio, Oscuramente fuerte es la vida, Editorial Planeta, Buenos Aires,
1990
Devoto Fernando J., Italiani in Argentina: ieri e oggi, testo integrale della Conferenza
del professor Fernando J. Devoto tenutasi a Torino, presso la Fondazione Giovanni
Agnelli, il 20 maggio 2003
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Yunque Alvaro, Poemas y relatos, poemasyrelatos.com
Molinari Augusta, Emigrazione e follia nel primo Novecento. Una storia poco nota
dell’emigrazione transoceanica italiana, in Rivista sperimentale di freniatria, la
rivista della salute mentale, Volume CXXXV, n. 3 2010
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