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Storia dell’immigrazione italiana in Argentina:

dalla creazione dell’identità nazionale alla globalizzazione

Bernardo Bertenasco

Indigenas, criollos, gauchos e gringos nella creazione della nuova nazione


argentina: il ruolo degli italiani nel formarsi dell’argentinidad. Viaggio letterario
nella percezione pubblica degli immigrati italiani: il Martín Fierro, Sull’Oceano,
En la sangre, Caras y Caretas e Oscuramente fuerte es la vida. La paura della
desnacionalización, l'idea di coincidenza tra inmigración e argentinidad, la
ciudad babelica di Roberto Arlt, il crisol de culturas e la formazione della
patria multietnica. Le politiche per l’immigrazione europea di Sarmiento,
Alberdi e Avellaneda, l’epoca della pianificazione e dei trattati bilaterali di
Perón e De Gasperi, l’attualità globalizzata della movilidad e delle nuove forme
migratorie limitrofe e interne all’America Latina. La fine del sogno americano e
la contemporaneità del mito europeo.
Ho scritto questo testo nell'anno accademico 2018/2019, nel quale ho
lavorato come lettore di italiano all'Universidad Nacional de Cuyo di Mendoza

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“Ai miei avi che emigrarono in Argentina nel 1897

A mio cugino Luis”

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Introduzione
Oggi, erroneamente, nel nostro Paese ci si concentra maggiormente sul fenomeno
dell’immigrazione, ignorando sia la grande storia migrante dei nostri avi sia l’attuale
esodo dei giovani. La storia d’Italia, dalla sua fondazione in poi, è intimamente
legata a quella dell’Argentina, si tratta infatti di un continuo susseguirsi di migrazioni
verso la Merica. Per fare chiarezza potremmo enumerarne quattro: la prima alla fine
del XIX secolo, la seconda tra le due guerre, la terza nell’immediato dopoguerra e
l’ultima a cavallo tra il XX e il XXI secolo.

Tali migrazioni sono animate da differenti motivazioni, sogni e aspirazioni, ma tutte


hanno creato e creano una reazione da parte della popolazione locale.

La prima, quella numericamente più importante nonché più conosciuta e studiata,


avvenne in un periodo estremamente interessante: l’età liberale (1861-1914).
Mentre nasceva l’Italia centinaia di migliaia di nostri neo-compatrioti partivano per
dirigersi oltre oceano, non solo verso l’Argentina, ma anche verso il Brasile,
L’Uruguay e gli Stati Uniti. Quella fu l’emigrazione descritta da De Amicis nel
romanzo “Sull’Oceano”; la grande alluvione migratoria dettata principalmente, pur
se non esclusivamente, da fame, speranza e necessità di crearsi opportunità
concrete in terre ancora in buona parte vergini o sconosciute.

La seconda ondata migratoria (1915-1945) condivide con la prima la necessità nella


quale sono partiti la maggior parte degli italiani verso l’America, ma è caratterizzata
anche dal contesto delle guerre e dei nascenti totalitarismi. Chi aveva perso tutto,
chi si trovava senza casa, chi compromesso con regimi o gruppi di guerriglia. Alla
motivazione economica si mischiava un nuovo tema, quello dell’insicurezza e
dell’instabilità politica che caratterizzava non solo l’Italia fascista, ma anche l’altro
Paese che contribuì in maniera fortissima all’immigrazione in Argentina, la Spagna
della guerra civil.

La terza fase del movimento migratorio verso l’Argentina, concentrata nei primi anni
del dopoguerra (1945-1960), si caratterizza per motivazioni diverse dalle prime due,
oltre che per un’altra composizione. Se, tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’20 del
Novecento, la maggior parte degli immigrati italiani in Argentina proveniva dalle
regioni del nord (Veneto, Piemonte, Friuli e Liguria) in conseguenza alla Grande
Depressione che decretò una crisi nella pianura padana; adesso invece, mentre il
boom economico post bellico traina l’economia dell’Italia settentrionale, è formata
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principalmente da meridionali, soprattutto campani, calabresi e siciliani. Inoltre la
motivazione non è più quasi esclusivamente dettata da problemi di sussistenza, ora
vi sono infatti diversi casi di migranti aventi una buona istruzione, nonché
organizzati per coprire ruoli di rilievo una volta arrivati in loco. Si diffonde quindi la
prima immigrazione qualificata e pianificata, codificata dai trattati tra Italia e
Argentina del 1947 e fortemente voluta dai presidenti Perón e De Gasperi.

Questi sono anche gli anni in cui, forti in Europa i postumi del nazifascismo, in tanti
preferiscono iniziare una nuova vita altrove, magari proprio dall’altre parte del
mondo, da zero, senza compromessi, paure o fantasmi del passato. Nell’epoca
peronista, infatti, ad un’immigrazione di ex partigiani e combattenti, si aggiunge
quella di gerarchi nazisti ed ex funzionari fascisti.

L’ultima ondata migratoria di italiani verso l’Argentina, numericamente molto


modesta (per non dire quasi inesistente), è formata principalmente da giovani con
alti livelli di istruzione che si recano nel Paese ospitante per progetti di ricerca o di
lavoro normalmente a termine; in questi casi si parla di movilidad più che di
inmigración e si tratta di un fenomeno mondiale, di un prodotto della
globalizzazione più che di una realtà contestuale.

Per certi versi maggiormente interessante ai fini della nostra ricerca, anche perché
molto più numeroso, è il fenomeno della cosiddetta “immigrazione di ritorno” verso
l’Italia, grazie alla quale possiamo comprendere quale sia la percezione del nostro
Paese da parte degli Argentini, soprattutto per coloro che hanno ascendenza italiana
(oriundi) e che, quasi sempre, possiedono anche la doppia cittadinanza.

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Subito dopo lo sbarco
Non esiste quasi più argentino che non abbia avi italiani, spagnoli, tedeschi o
francesi. La storia dell’Argentina contemporanea coincide con la storia
dell’immigrazione europea. Forse per questo motivo in Latinoamérica è diffuso il
seguente detto: “los mexicanos descienden de los aztecas, los peruanos de los incas,
los argentinos de los barcos.”

Praticamente, secondo quest’idea, non esisterebbero Argentini autoctoni, ma è


proprio così? Per capirlo occorre approfondire le reazione dei criollos all’arrivo dei
primi immigrati europei, giacché i pueblos originarios erano quasi del tutto
scomparsi in quell’epoca, ossia vi era una grande mayoría criolla al fronte di una
esigua minoranza nativa, oggi ridotta a poco più del 2% della popolazione.

Nell’Ottocento infatti buona parte degli indígenas erano già stati sterminati nel
genocidio cominciato nel ‘500 dagli spagnoli e poi ultimato con le spedizioni
patagoniche del General Roca durante la Conquista del desierto. Così i “nuovi
autoctoni” erano i criollos, cioè i nati sul continente americano, ma di origine
europea. Da lì in poi si inaugura una “invenzione” o “creazione identitaria” che farà
dell’Argentina il paese degli indigeni prima (al nord soprattutto guaraníes, kollas e
quechuas, al centro huarpes e rankulches, al sud mapuches), liberi di disporre dei
terreni e dell’allevamento degli animali come credevano, poi dei criollos, proprietari
di grandi tenute agricole e fautori della “modernità” e infine degli europei, con una
forte propensione per gli spagnoli, detti gallegos e gli italiani, detti tanos.

“Este proyecto de inmigración y colonización, criticado desde el humor y la


perspectiva del gaucho, traducía, además, la voluntad política de transformar el
sistema de producción económica, el espacio demográfico y, con ello, ingresar a
cierta forma de Modernidad. La negación, por parte de ese proyecto político, de un
sector de la población –los indígenas y los gauchos– determinó que algunas zonas
del territorio nacional se concibieran como si fueran un desierto que debía
conquistarse, desplazando a quienes no lograban integrarse al nuevo Estado
moderno y no respondían a sus parámetros y valores de pertenencia” (Bravo
Herrera F., 2017)

Ma quale è stata la reazione dei criollos alla prima immigrazione degli italiani?

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A fine ottocento l’Argentina era una nazione giovane, immensa, ricca di risorse e
quasi interamente spopolata. Il sogno degli italiani, in un’Europa caratterizzata da
una grandissima crescita demografica, era quello di “hacer la America” (fare
l’America), di andare a cercare fortuna oltreoceano, soprattutto negli Stati Uniti, in
Brasile e nell’area rio platense, nel piccolo Uruguay e in Argentina, all’epoca sesta
economia al mondo con un tasso di crescita del 3,8% annuo, doppio a quello della
maggior parte dei Paesi del vecchio continente.

“Cien mil inmigrantes desembarcaban por aňo, el país se iba a las nubes, marchaba
viento en popa..” (Cambaceres E., 2007)

Da ricordare che un grande impulso all’integrazione degli italiani in Argentina in quel


tempo avvenne per volere di Faustino Domingo Sarmiento e Juan Bautista Alberdi:
attivi sostenitori della necessità dell’immigrazione europea sia per mere ragioni di
popolamento (il Paese all’epoca contava circa due milioni di abitanti), sia per
questioni economiche e culturali (il progresso dell’alfabetizzazione, ancora molto
carente, e delle scuole andava di pari passo con l’arrivo di nuovi migranti); infine,
grazie al contributo del presidente Avellaneda, promotore della ley de inmigración y
colonización (legge n. 817 dell’anno 1876) che favoriva l’ingresso di immigrati in
Argentina, ai quali venivano forniti terreni da lavorare e, durante un tempo stabilito
per crearsi una propria indipendenza, uno stipendio, vitto e alloggio. Pochi anni
dopo, dall’altra parte dell’oceano, il presidente del consiglio Francesco Crispi
presentava la prima legge sull’emigrazione (1887), la quale sanciva piena libertà di
emigrazione, fatti salvi gli obblighi di leva, nonché la garanzia agli emigranti di
assistenza igienica e sanitaria per tutta la durata del viaggio fino al porto di partenza.

“Sarmiento y Alberdi hablaron con encono de nuestra barbarie y predicaron la


absoluta necesidad de europeizarnos. Tanto nos dijeron que en efecto nos
convencimos de que éramos unos bárbaros y con una admirable tenacidad nos
pusimos en la tarea de hacernos hombres civilizados. Para eso se empezó por traer
de las campañas italianas esas multitudes de gentes rústicas que debían influir tan
prodigiosamente en nuestra desnacionalización. Después se imitó las costumbres
inglesas y francesas, vinieron judíos y anarquistas rusos y se convirtió a Buenos Aires
en mercado de carne humana. En fin, no apuntaré, por ser innecesario, todo lo que
hemos realizado para conseguir nuestra europeización. (Gálvez M. 2001: 116-117)”
(Bravo Herrera F., 2017)

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Ciononostante i pochi aneliti di cosmopolitismo (ideologico, politico, volto a
sfruttare il migrante..) si scontravano contro il diffuso e comprensibile pregiudizio
nei confronti dell’immigrato: un uomo in età da lavoro (le donne erano molto
poche), generalmente povero, incapace di parlare spagnolo e spesso anche italiano
correttamente, in molti casi addirittura descritto come “puzzolente”, non
specializzato e, raramente, anche potenziale portatore di epidemie (da ricordare il
caso della nave Perseo nel 1886) oltre che, a seconda dei punti di vista, distruttore
(desnacionalización) o creatore della nuova identità nazionale.

I primi italiani arrivavano in barche che potevano contenere migliaia di persone


(dette “navi di Lazzaro” e “ospedali galleggianti” per le scarse condizioni igienico-
sanitarie), in viaggi che andavano dalle tre settimane al mese e mezzo. Famosa è la
Galileo, sulla quale viaggiò, in prima classe a differenza delle grandi masse migranti,
Edmondo De Amicis nel 1884, ma erano tutte simili, con la celebre tratta Genova
oppure Palermo o Napoli / Buenos Aires e Montevideo.

“Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe, dei quali più di
quattrocento tra donne e bambini: non compresi nel numero gli uomini
dell’equipaggio, che toccavan quasi i duecento. Tutti i posti erano occupati. La
maggior parte degli emigranti, come sempre, proveniva dall’Italia alta, e otto su
dieci dalla campagna. Molti Valsusini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia e
dell’alta Valtellina: dei contadini d’Alba e d’Alessandria che andavano in Argentina
non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre
mesi, navigando quaranta giorni. Molti della Val di Sesia, molti pure di que’ bei paesi
che fanno corona ai nostri laghi, così belli che pare non possa venir in mente a
nessuno d’abbandonarli: tessitori di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese.
Della Liguria il contingente solito, dato in massima parte dai circondari d’Albenga, di
Savona e di Chiavari” (De Amicis E., 2013)

In viaggio su queste navi, tra le quali mi piace ricordare la Scandia e l’Orione del
1897 perché fu su queste imbarcazioni che viaggiarono i miei avi, incluso il piccolo
Ernesto di un solo anno d’età, c’erano “las muchas Italias” descritte da Sarmiento,
ossia i rappresentanti delle diverse culture regionali, dei diversi dialetti e delle più
svariate maniere di concepire il mondo e la vita, che potevano differire anche molto
tra un veneziano, un ligure ed un torinese.

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Fu così che a fine ‘800 i Bertenasco sbarcarono in Argentina: tra questi c’era Carlo,
che entrò nel Paese nel 1897 la prima volta e poi uscì sicuramente altre due volte
(almeno per quanto ci è possibile sapere grazie ai dati diffusi dal Centro
Internazionale Studi Emigrazione Italiana), magari pensando in un primo tempo di
attuare la cosiddetta emigración golondrina, cioè quella temporanea, spesso
agricola, finalizzata a creare profitti rapidi per rientrare in patria con maggiori
possibilità economiche dopo il período de cosecha; tuttavia non fu così e, alcuni anni
dopo, imbarcato in terza classe sulla nave San Giovanni arrivò Giuseppe Bertenasco,
registrato anch’egli come agricultor, nonché considerato capace di leggere e
scrivere.

Quando sbarcò a Buenos Aires era la Vigilia di Natale del 1912.

I primi immigrati, tra i quali molto probabilmente devono essere annoverati anche i
miei parenti paterni di origine piemontese, non erano dunque “italiani”, ma più che
altri liguri, veneti, friulani che solo una volta arrivati oltreoceano sarebbero stati
riconosciuti dagli argentini come italiani e si sarebbero essi stessi riconosciuti come
tali, per aiutarsi e cooperare sia in senso morale e psicologico sia mediante la
creazione di scuole, ospedali, società di mutuo soccorso e comunità italiane, con
tutti i limiti che può avere l’utilizzo di questo termine negli anni ’70 e ’80
dell’Ottocento.

“En el desembarque se invierten paradójicamente las relaciones entre nación y


región porque al emigrante se lo identifica como “italiano” justamente cuando está
descubriendo la dificultad de comunicación entre las diferentes regiones de la
península” (Blengino V., 2011)

Nacque così “un’Italia fuori dall’Italia”, un sentimento di esilio che si trascina,


parzialmente e in maniera diversa, fino a oggi. I nuovi arrivati, dopo i canonici cinque
giorni all’Hotel de inmigrantes situato davanti a porto (il corrispettivo della coeva
Ellis Island a New York, dove si svolgevano i controlli sanitari, che erano
praticamente nulli nei porti di emigrazione di Genova, Napoli e Palermo), oggi sede
del museo dell’immigrazione di Capital Federal, si disperdevano nei quartieri sud
della città, principalmente a Boca, Barracas e San Telmo, dove vivevano in
conventillos fatiscenti.

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Buona parte degli italiani, fino all’inizio del Novecento, si vergognava delle proprie
radici, voleva togliersi di dosso l’eredità dei padri, la loro miseria, il loro spagnolo
contaminato che diede vita al cocoliche e al lunfardo. Non amavano le proprie origini
in quanto spesso oggetto di scherno e disprezzo da parte dei criollos. In un’epoca di
nazionalismo quale fu il secolo XIX, essere stranieri non era semplice da nessuna
parte, nemmeno in Argentina, oggi riconosciuta mondialmente come immenso
melting pot.

Nel Martín Fierro, “libro nacional de los argentinos” secondo lo scrittore Lugones,
domina il nacionalismo gauchesco anti immigrati. In quell’opera, riflesso dei tempi,
si cerca di imporre come modello dell’argentino puro il gaucho, un americano
avente avi spagnoli: il diretto erede del passato coloniale. Al gaucho, al criollo,
all’autoctono si oppone il gringo, l’immigrato di ultima generazione.

L’italiano rappresenta dunque l’estraneo, il diverso, l’invasore da emarginare;


l’alterità opposta al Paese nascente in cerca di un’identità nazionale definita, che sia
creola americana, oltre che assolutamente non indigena, “inferiore”, “barbara”.

“En el Martín Fierro, de José Hernández, el conflicto entre el gaucho y el gringo


encuentra su escenario en el espacio del “desierto”, de la “frontera”, durante el
proceso de organización del Estado-Nación. Se plantea, entonces, la conflictividad
socio-cultural en un espacio de construcción (geo)política, de definición de límites y,
sobre todo, de exclusiones, en el que las oposiciones se dan entre diferentes grupos,
marginales y marginados, que representan distintos proyectos de identidad nacional.
El conflicto entre gauchos y gringos o inmigrantes se suma al enfrentamiento desde
la metrópolis con la “barbarie”, representada por el componente indígena, que es
combatido y rechazado, cuando no ignorado, por ejemplo, al comprender a esos
territorios habitados por estas comunidades como “desiertos”.” (Bravo Herrera F.,
2016)

A differenza dei negros, nei confronti dei quali il gaucho non teme l’invasione,
perché sono pochi e culturalmente “troppo diversi”, i nostri avi facevano molta
paura in quanto cominciavano a rappresentare una grande parte della popolazione
e perché, forse più per necessità che per vocazione, grandi lavoratori e, in certi
campi, come ad esempio la ristorazione, l’edilizia e la vitivinicoltura, anche ottimi
imprenditori.

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Nel 1885 gli immigrati europei, dei quali più di un terzo sono nostri connazionali,
rappresentano circa il 20-25% della popolazione argentina. I nostri antenati vengono
spesso percepiti e definiti come “trabajadores infaticables” (Funes L., 1936), come
se avessero delle caratteristiche, oltre che dei limiti, principalmente economici,
sociali e linguistici, che assumono caratteri quasi “biologici”; ciononostante il mito
dell’italiano “gran lavoratore” si caratterizza in certi casi come prejuicio positivo
(Devoto F., 1992) nel momento della ricerca di un impiego.

Si diffonde così l’idea da un lato dell’italiano come “contaminato alla nascita” da una
cultura differente considerata ancora inferiore, dall’altra quella di un popolo di
grandi lavoratori. Così, nel 1864, solo tre anni dopo la distruzione di Mendoza a
causa di un terremoto, la città del Cuyo incentiva un incremento dell’immigrazione
europea, soprattutto italiana, cominciando la lenta e graduale integrazione dei
nostri connazionali in diverse parti del suolo argentino e non solo nell’area
Bonaerense e di Santa Fe.

Le zone maggiormente interessate dall’immigrazione alla fine del XIX secolo furono
appunto Buenos Aires, la pampa nella quale gli italiani furono maggiormente
coinvolti nella produzione di cereali e lino (la cosiddetta “pampa gringa”), La Plata,
Rosario, Córdoba e Mendoza; quasi nullo fu invece l’apporto in Patagonia, popolata
a fine ‘800 da tedeschi e poi ancora da tedeschi nel secondo dopoguerra, nonché
nella zone settentrionali come Salta, Tucumán, Jujuy e Rioja (dove invece arrivarono
molti siriani), il nord est del Paese era comunque generalmente meno propenso a
ricevere immigrati a causa di limiti principalmente economici e conseguentemente
risultava povero di servizi quali scuole, ospedali e attività culturali che si andavano
formando anche grazie all’arrivo degli europei.

Per concludere, nel romanzo di Eugenio Cambaceres En la sangre, si percepisce


perfettamente come si sentiva l’immigrato italiano nella Buenos Aires di fine
ottocento e anche quale fosse la considerazione sociale che gli veniva tributata. Il
protagonista, Genaro Piazza, è un papolitano (termine dispregiativo per napolitano)
che vive in un conventillo della calle San Juan. La sua frustrazione viene espressa a
più riprese nel corso del testo, ecco una delle rappresentazioni più incisive:

“(Genaro) se había de dominar, se había de vencer, no había nacido en la Calabria,


había nacido en Buenos Aires, querría ser criollo, generoso y desprendido, como los
otros hijos de la tierra” (pag.74).

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Si vergogna di se stesso, di suo padre e delle tare che da questi ha ereditato, la sua è
un’eterna lotta contro le proprie origini e contro il germe dell’ignoranza e della
povertà che risiede “en la sangre”.

Studia, si trasferisce nel centro della città, investe i risparmi paterni in abiti eleganti
e serate al Teatro Colón per dimostrare a se stesso e alla società che anche un “hijo
de gringo trachero” (pag.54) può essere orgoglioso delle proprie azioni e del proprio
mestiere, degno di avere onori e di vedere il proprio nome sui giornali e sulle riviste
come qualsiasi altro criollo, perché “les había de probar él que, hijo de gringo y todo,
valía diez veces más que ellos!” (pag. 37).

Lo stesso avviene nel romanzo coevo Inocentes o culpables? di Antonio Argerich


dove viene mostrata l’inferiorità degli immigrati italiani, la loro inutilità economica, il
rischio concreto che questi rappresentano per l’argentinidad, nonché l’impossibilità
di integrazione nella società ospitante e la conseguente richiesta politica di espellerli
dal Paese.

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L’epoca dell’integrazione e della presunta rinuncia identitaria
Agli inizi del Novecento il problema dell’integrazione viene sostituito da quello della
“argentinizzazione” degli italiani, della loro perdita di identità, caratterizzata
soprattutto dalla non conoscenza della lingua italiana da parte della seconda
generazione migrante già nata in America e dall’assimilazione di usi e costumi diversi
da quelli originari.

“El tiempo pasa en esta patria tan noble, tan hermosa (…) Aprendimos a tomar mate
en bombilla y a comer asado” (Blanco A. 2005)

I simboli della cultura argentina, il mate e l’asado, come ricorda il nipote di un


immigrato in questo testo, cominciano a essere caratterizzanti degli ormai “ex
italiani”, che, con il passare del tempo, fanno proprio tutto ciò che è argentino. È
tuttavia vero che sono anche gli italiani a influenzare fortemente la cultura locale,
sia dal punto di vista linguistico, basti pensare a parole come mufa, fiaca, atenti!,
laburo che caratterizzano l’argentino parlato oggi e sono diretta conseguenza del
lunfardo, sia dal punto di vista culinario, diffondendo enormemente non solo il
consumo di pasta, ma anche quello di pizza e focacce: le celebri pizza, muzza,
fugazza e fainá, tutte di derivazione ligure.

“El problema de la integración, el crisol o como quiera llamárselo, es mucho más


algo que concierne a los hijos y los nietos de los inmigrantes sobre los que operaron
plenamente nuevos ámbitos de sociabilidad y los intrumentos nacionalizadores del
Estado argentino (la pólitica, la escuela, el servicio militar)” (Devoto F., 1992)

Quindi forse i dubbi espressi da molti italiani di inizio Novecento sono solo
parzialmente veri: gli italiani si stanno “argentinizzando”, ma l’Argentina si sta
“italianizzando” (anche spagnolizzando, germanizzando, francesizzando..).

Così gli ormai italo-argentini, oltre a contribuire (e ad assorbire) in campo linguistico,


culinario e sociale alla realtà nascente della nuova patria, caratterizzata da
un’insieme di culture, portarono con loro, al fine di alleviare il dolore della nostalgia
e del desarraigo, le proprie tradizioni religiose e, siccome erano in buona parte
piemontesi, calabresi, friulani o laziali prima di essere italiani, crearono nuove
riletture di santi cattolici, come ad esempio la Madonna di Tindari per i siciliani e la
Madonna di Loreto per i marchigiani.

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“Finalmente arribamos a la cuestión de la identidad o mejor de las identidades. No
es abusivo sostener que los inmigrantes creyeron ser italianos, espaňoles, alemanes
o franceses. Sin embargo, lo eran de un modo diferente al de quello que habían
permanecido en el país de origen. Sus hijos, la gran mayoría, creyeron ser
plenamente argentinos. Sin embargo, más allá de la identidad verbalizada y de
tantos otros rasgos culturales, conservaban mucho de la memoria social (en tanto
que memoria familiar) de sus ancestros aunque no pudieses seňalar con precisión su
proveniencia (…) muchos de los hábitos y creencias traídos por los inmigrantes
terminaron por impregnar y transformar a la Argentina conviertiéndose, con el
tiempo, en patrimonio de una sociedad heterogénea” (Devoto F., 1992)

Tale idea di influenza reciproca, che è alla base del nascente crisol de culturas che
caratterizzerà l’Argentina da inizio secolo in poi, ormai piena di nuovi migranti che
continuano a sbarcare, ma anche di molti oriundi, viene magistralmente sintetizzata
nella poesia di Alvaro Yunque Elogio del mate e per questo motivo ne riporto una
parte:

“Mate, eres, ante todo,


Por sobre todo, un símbolo:
Símbolo eres de hermandad humana,
Tú que haces casi gauchos a los gringos.

Mate, eres un vehículo de paz y fuente de amor es tu tibio cuenco aquí, sabroso
mate,
por estos poliglotas, babélicos y únicos
conventillos de Buenos Aires.

Mate de Juan Moreira,


Hermano del facón y la guitarra,
Hoy te toman los hijos de Cocoliche y eres
Por ellos el hermano del martillo y la pala.

Mate sabroso y puro, tú le brindas


Voluntad, brío y fuerzas
A españoles o turcos, italianos o ébreos
Que en el taller o en campo se doblan en la brega.

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¡Sucia, áspera, terrible!
Que, simpáticamente, llaman: “Hacer la América” (Yunque A., 1932)

Il mate possiede un enorme potere, quello di rendere i gringos gauchos. La


conquista dell’integrazione nei primi decenni del Novecento è dunque avvenuta, ma
a questa si contrappone la paura della perdita delle origini, prima quasi sempre
nascoste, ora ricercate e valorizzate, soprattutto dai padri, molti dei quali
appartenenti alla nuova classe media argentina. Privi dei complessi che
caratterizzarono i loro primi anni o lustri, orgogliosi di essere tanos, interessati a non
far perdere le radici ai propri figli, molti dei quali nati in Argentina o venuti con soli
cinque o dieci anni d’età; tuttavia impossibilitati a passar loro un bagaglio identitario
unitario, in quanto spesso privi di cultura generale, legati ad un’idea d’Italia vetusta
e arcaica, parlanti dialetti diversi tra loro.

“Ci troviamo di fronte a questa dura verità; che se tutti i francesi parlano — più o
meno — il francese, tutti gl’inglesi l’inglese, i tedeschi il tedesco e i russi il russo, la
maggioranza del popolo italiano non parla italiano (…) Ora, possono i figli di questi
nostri emigranti conoscere l’italiano, se non è noto nemmeno ai loro genitori?
Certamente no. E mancando la lingua italiana manca loro la base dell’italianità, il
vincolo più forte con la Patria d’origine” (Barzini L. 1902)

A inizio Novecento Buenos Aires è la nuova Babilonia, città cosmopolita che, passati
i primi decenni di miseria, disprezzo, emarginazione professionale e segregazione
dei migranti nei conventillos, comincia ad apprezzare le tradizioni da questi
importate o create direttamente sul suolo argentino, come ad esempio il tango e il
lunfardo; è la città descritta da Arlt in Aguafuertes porteňas, quella di una nuova
mezcla culturale che non è più qualcosa di “altro” o diverso rispetto alla patria, ma è
la patria stessa, la nuova nazione formata da un crogiolo di popoli sedimentato nei
decenni e che continua a ingrossarsi a causa del perpetrarsi degli sbarchi, nonché a
rinforzare la concezione condivisa da molti studiosi secondo i quali, pur con le
dovute riserve, il concetto di inmigración coincide con quello di argentinidad.

“En conjunto, los inmigrantes constituían alrededor de dos tercios de la población de


la ciudad (de Buenos Aires) en edad activa entre 1887 (68%) e 1914 (64%). Desde
luego que ello implicaba que estuviesen representados en todos los sectores de la
vida económica” (Devoto F., 1992)
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Fu così che si avverò la profezia di Juan Bautista Alberdi che diceva:

“No temáis la confusión de razas y lenguas. De la Babel, del caos, saldrá algún día la
nacionalidad sudamericana”

Gli italiani, come gli spagnoli, i turchi, gli ebrei, i francesi, i russi e i tedeschi,
cominciano ad abitare in centro città o a possedere terreni, a partecipare alla vita
sociale e culturale del Paese non più solo come spettatori, ma come attori principali:
ora si parla di loro sui giornali, nei romanzi e nelle poesie, senza farlo in maniera
dispregiativa come avveniva fino a uno o due decenni prima.

A tal proposito propongo due poesie, pubblicate sulla rivista d’epoca Caras y
Caretas, che mostrano di quale nuova considerazione godessero gli immigrati
europei durante la belle époque.

“Los futuros millonarios” (José M. Salaverria)

(...) ahí están los desgraciados de hoy, tal vez los felices de mañana. No los miremos
con desprecio: acaso los veamos un día con las riendas de poder en la mano, árbitros
de la riqueza y de los negocios. En ningún sitio como en el Hotel de Inmigrantes es
necesario de revestirse de una gran humildad. De esos inmigrantes esta hecha la
grandeza del país. Sobre tan pequeños pilares ha querido el destino levantar la
cúpula argentina.

“La nueva Babel” (E. Dupuy de Lome)

El pulpo del cosmopolitismo que ha extendido sus tentáculos sobre nuestra ciudad,
va convirtiendo a Buenos Aires en un gigantesco trasatlántico en el que viajan
infinidad de gentes de todas las nacionalidades y en el que apenas el capitán y los
marineros son hijos del país...

Tal es la impresión que se recibe recorriendo el centro: en las cercanías de tribunales,


barrio este materialmente plagado de judíos, así como los otros han sido invadidos
por italianos, árabes, turcos, rusos, etc. (Santi I. 2002)

La visibilità, soprattutto urbana, dei migranti è notevolmente cresciuta, ora non


sono più confinati solo a certi quartieri e a certe realtà sociali e lavorative, ma
formano, insieme ai criollos che tanto avrebbero voluto imitare prima, la nuova
nazione argentina.

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Come giustamente osserva Devoto (Devoto F., 1992) uno dei maggiori problemi
degli storici fu ed è quello di stabilire la ragione per cui molti migranti europei, pur
aventi un retroterra agricolo, si sono velocemente ritrovati a lavorare nelle grandi
città e a ricoprire ruoli, di rilievo e non, nella realtà urbana a scapito di quella rurale.
A tal riguardo occorre ricordare sia il fallimento del piano di Sarmiento e Avellaneda
nella popolazione della “pampa gringa” (pur se vi furono migranti che la popolarono
e la coltivarono), sia che buona parte degli immigrati italiani entrati in Argentina tra
il 1870 e il 1910 – 1920 vengono registrati come agricultor (ad esempio tutti i
Bertenasco), tuttavia non sappiamo con precisione se si tratti della verità o di una
forma burocratizzata magari simile ma non del tutto coincidente con la realtà
fattuale; lo stesso avviene per quanto concerne il grado di alfabetizzazione e
istruzione di chi sbarca a Buenos Aires, dove troviamo scritto, con
un’approssimazione che non può non colpirci, “leggere e scrivere: sa / non sa”
(fonte: Centro Internazionali Studi Emigrazione Italiana)

“Sarmientos se trajo a los italianos porque él creía que entendían de trigo, y en lugar
de irse al campo y fundar colonias se prendieron a las ciudades y fundaron quintas;
en lugar de sembrar trigo sembraron verduras y mandaron al centro a sus hijos para
que figuraran lo mismo que los hijos de los otros. (Anzoátegui, 2005: 101).” (Bravo
Herrera F., 2016)

Così i continui progressi socioeconomici dei migranti urbani dello stivale fanno sì che
nel 1909 il quotidiano “La Patria degli Italiani”, guidato da Basilio Cittadini, è il terzo
giornale più venduto in Argentina, dopo La Prensa e La Nación e, solo dieci anni
dopo, l’integrazione degli italiani, o sarebbe meglio dire dei figli e dei nipoti dei primi
migranti, socialmente e numericamente più forti rispetto ai ”nuovi immigrati”, è
sorprendente.

“Osserviamo una fotografia scattata in Argentina alla fine degli anni venti: il capo
dei senatori del Partito Radicale, cioè il partito di maggioranza, si chiama Molinari, il
capo dell’esercito si chiama Dellepiane, l’arcivescovo di Buenos Aires, vale a dire la
massima carica della chiesa argentina, si chiama Bottaro, il preside della mia facoltà
di Lettere e Filosofia all’Università di Buenos Aires si chiama Ravignani. E due dei tre-
quattro uomini di spicco dell’Unione Industriale si chiamano Colombo e Valdani”
(Devoto F., 2003)

16
A inizio novecento il mondo nuovo, pieno di risorse e spazi liberi, fu letteralmente
riempito dall’alluvione di migranti provenienti da ogni dove e che hanno fatto
dell’America il continente del secolo e di città come New York e Buenos Aires le
nuove grandi mete internazionali.

“Los otros tres varones, todos mayores que Mario, se habían ido a América, a la
Argentina. Escribían de tanto en tanto, contaban que estaban bien, que sobraba el
trabajo y corría la plata. En realidad el primero que había estado a la Argentina era
su padre, hizo varios viajes (…) todo el mundo habla de la abundancia de aquel país”
(Dal Masetto A., 1990)

Tuttavia, per quanto riguarda l’identità dei migranti ed il loro contributo politico nei
Paesi ospitanti occorre chiarificare una differenza significativa tra Stati Uniti, nei
quali la maggior parte dei “nuovi arrivati” prendeva la nazionalità americana e
l’Argentina dove, nonostante il crescente apporto economico e culturale di
imprenditori ed operai italiani che ormai formavano parte della classe media, non
avveniva la naturalizzazione di questi “nuovi argentini”, formalmente italiani,
concretamente apolidi.
Si stima che nel 1905 solo il 2% degli immigrati italiani possedeva la cittadinanza
argentina, creando così da un lato un minore coinvolgimento politico nelle elezioni e
nelle decisioni comunali e dall’altro un sempre crescente interesse per l’anarchismo
e il socialismo nonché per le comunità italiane o i gruppi di lavoratori, ad esempio
quello dei panettieri di Buenos Aires, che funzionavano sempre di più come
parasindacati di matrice “straniera”.
La storia mondiale ci mostra quindi come l’emigrazione sia un fenomeno cardine
delle società umane, da questa sempre plasmate e caratterizzate. Tuttavia
l’immigrazione italiana in Argentina e in generale quella americana degli europei ci
invita a riflettere su alcune caratteristiche specifiche.
La prima è quella di un’immigrazione che non si inserisce in contesti già del tutto
indipendenti culturalmente, ma di un’immigrazione che crea, forma la nuova realtà;
le città del vecchio continente sono cambiate grazie all’arrivo di stranieri, ma non
sono nate come qualcosa di nuovo, unico e diverso rispetto a ciò che erano prima
come avvenne nel nuovo mondo, non solo a Buenos Aires, ma anche a Córdoba,
Rosario e Mendoza. La seconda è che l’emigrazione verso ultramar mostra di essere
tanto slegata da ragioni culturali, che certo non rappresentano la motivazione del
lungo viaggio, quanto legata al sistema capitalista avanzato; si va oltre oceano per
“fare fortuna”, si insegue il “sogno americano”.
Si tratta dunque di una nuova tipologia migratoria nella quale il movimento di merci
e la libera circolazione di capitali fomenta quella (voluta, necessitata, imposta o
indotta) di esseri umani, di forza lavoro giovane e motivata a dare tutto per hacerse
la America.
17
Il dopoguerra

L’immigrazione italiana in Argentina dell’immediato dopoguerra è caratterizzata da


tre fattori principali che la rendono unica rispetto alle precedenti: il tramonto del
fascismo con tutte le sue implicazioni umane, politiche, sociali ed economiche;
l’avvento di una nuova tipologia di immigrazione, in parte maggiormente qualificata,
ma soprattutto pianificata e regolamentata dal governo peronista; la provenienza
dei nuovi arrivati, questa volta quasi esclusivamente meridionali.

Se negli anni ’20 e ’30 arrivarono in Argentina molti intellettuali socialisti e


antifascisti, tra i quali Rodolfo Mandolfo, Filippo Turati, Gino Germani (poi studioso
di immigrazione) e Sigfrido Cicciotti (importante membro del gruppo Giustizia e
Libertà) negli anni ’40 si verifica un fenomeno diverso: il generale Perón, salito al
potere nel 1946, originariamente di simpatie socialiste e popolari, decide di
appoggiare il fascismo e incentiva l’arrivo in Argentina, soprattutto nell’area rio
platense, di ex gerarchi fascisti e, principalmente nella zona di Bariloche, di criminali
di guerra nazisti.

Subito prima dell’inizio del “miracolo economico”, l’emigrazione degli italiani in


Argentina si impenna, ritornando, per alcuni anni, ai livelli grandissimi di inizio
secolo. In questa nuova ondata migratoria si distinguono alcuni lavoratori qualificati,
tra i quali spicca il caso di Agostino Rocca, assessore del piano siderurgico nazionale
durante il governo di Perón, esempio di grande maestria e successo, ex fascista
nonché amministratore delegato dell’Ansaldo di Genova.

Tuttavia, per rendere verità alla complessità e all’eterogeneità delle situazioni


esistenziali, materiali ed affettive dei migranti (certo non erano tutti fascisti né tutti
lavoratori qualificati), occorre ricordare che nell’immediato dopoguerra l’Italia è un
paese povero, privo di cibo, distrutto dai bombardamenti, moralmente sconfitto. I
segni economici e psicologici della guerra e del fascismo sono enormi, subito dopo la
liberazione del 25 aprile 1945, la prima coalizione di governo antifascista considera
l’emigrazione non tanto la panacea di tutti i mali quanto l’unica soluzione possibile
ad una situazione che appare estremamente compromessa, per non dire
irrimediabile.

18
Alla scarsità di generi alimentari si mischia la paura di una nuova guerra civile, ecco
perché vengono subito abolite le regole fasciste, restrittive in materia di
emigrazione (Mussolini mascherava l’emigrazione parlando di coloni interni nella
bonifica dell’Agro Pontino e conquistatori d’Africa nella “quarta sponda” in Libia),
adesso invece proposta come prospettiva allettante.

In quegli anni nel nostro Paese vi erano infatti 2 milioni di disoccupati e, siccome gli
Stati Uniti erano determinati a non ricevere altri immigrati italiani, il Governo di De
Gasperi riconfermò lo storico legame con l’Argentina.

“Hicimos un viaje rápido a Varalta. En el trajecto vimos casas bombardeadas,


puentes volados, taques y vehículos abandonados en los campos (…) vimos cruces
por todas partes. Mientras el tren corría mirábamos en silencio aquellas seňales y yo,
todo el tiempo, tenía la impresión de que sobre pueblos y ciudades había pasado y
quedado atrás un gran sacrificio inútil. Durante la guerra, después de los tiroteos, los
bombardeos, los fusilamientos, sentía que la destrucción y la muerte dejaban bajo el
cielo una marca imborrable, que nada volvería a ser como antes (…) Mientras tanto
había llegado una carta de Argentina. Era de un hermano de Mario (…) El hermano
le ofrecía trabajar juntos, le pagaría el pasaje, le prometía grandes cosas. Mario
partiría solo, pero la separación duraría poco, no tardaría en reunir el dinero para
que nos embarcáramos también nosotros, aquel era un gran país, nos gustaría, las
posibilidades eran muchas y buenas. (Dal Masetto A., 1990)

Il 21 febbraio 1947 viene stipulato un trattato tra Roma e Buenos Aires per
regolamentare l’immigrazione italiana in Argentina; il governo di Perón necessita sia
manodopera a basso costo sia lavoratori qualificati, il governo italiano ha bisogno di
creare una valvola di sfogo. Tale trattato riafferma un’intensa e ottima attività
diplomatica, sicuramente cementificata anche dalla Chiesa cattolica, ormai quasi
secolare tra i due Paesi, e stabilisce l’importanza di controlli sanitari prima di entrare
in America, garantendo inoltre la libertà d’emigrazione per la legge Italiana e di
immigrazione per quella argentina, nella quale, come sancito dalla costituzione, i
nuovi immigrati avrebbero goduto di tutti i diritti sociali, politici e civili, esattamente
come i cittadini argentini; rimane tuttavia irrisolto il tema del lavoro che, secondo gli
italiani sarebbe dovuto essere certo e garantito prima della partenza, mentre per gli
argentini era da formalizzare, per quanto magari vi fossero accordi precedenti, nel
porto di sbarco.

19
È iniziata la “stagione d’oro” degli accordi bilaterali in tema d’immigrazione, l’epoca
in cui il presidente De Gasperi esortava i giovani a imparare le lingue e a “percorrere
le strade del mondo”. In questi anni infatti il Governo italiano firmerà, credendo
fosse questa una delle possibili strade per la ripresa economica del Paese, accordi di
emigrazione con diverse nazioni (oltre quello con l’Argentina del 1947): con il Belgio
(accordo del giugno 1946), nel quale i nostri connazionali si dedicarono
principalmente al lavoro nelle mine di carbone, reso celebre dalla tragica strage di
Marcinelle del 1956, dove persero la vita 262 lavoratori, dei quali 136 erano
immigrati italiani; con il Brasile (accordo del luglio 1950) dove si lavorava sia
nell’agricoltura sia nell’industria, con la Germania (accordo del dicembre 1955) e
infine con la Svizzera (accordo dell’agosto 1964) nella quale gli impieghi erano
principalmente stagionali.

“Nel 1947 Juan Domingo Perón, al suo primo mandato presidenziale (è eletto il 24
febbraio 1946), vara il primo piano quinquennale che comprende una ambiziosa
politica di incremento dell’immigrazione (si prevede di ricevere 4 milioni di immigrati
tra 1947 e 1951), nell’intento di dare sviluppo all’agricoltura e soprattutto
all’industria in un paese che ha ancora un forte bisogno di manodopera. A
differenza, però, di quanto era avvenuto durante la grande ondata migratoria tra
fine Ottocento e inizio Novecento, che rispondeva ad una necessità indiscriminata di
mero popolamento, il governo peronista preferisce operare una selezione dei flussi
migratori attraverso l’attivazione di organismi ufficiali, in modo da accogliere nel
paese una immigrazione qualificata che si radichi stabilmente sul territorio. Una
selezione da effettuarsi non solo sulle competenze, ma, in via preventiva, anche
sull’origine e l’orientamento ideologico degli immigrati stessi, che si vorrebbero
«mediterranei, cattolici, di sicura affiliazione anticomunista.. »” (Campanini P., 2012)

La Democrazia Cristiana e la Chiesa avallano le idee peroniste, forse spaventati


dall’emigrazione verso la vicina Francia, Paese tendenzialmente rivoluzionario, filo-
comunista e sovversivo, che non piaceva per nulla né alla restaurata democrazia
bisognosa di pace e stabilità né a monsignor Montini, futuro Papa Paolo VI. Il corpo
clericale argentino, composto in buona parte da oriundi italiani, dal canto suo
approva e fomenta la nuova immigrazione pianificata da entrambi i governi, così la
propaganda dell’emigrazione non raggiunge solo gli organi di stampa e il cinema (si
veda ad esempio il film Emigrantes di Aldo Fabrizi del 1949), ma anche l’episcopato
che, in pieno delirio anticomunista, crea le condizioni per l’espatrio dei nostri
connazionali in un Paese fortemente cattolico come l’Argentina.
20
Così, il 1946 e il 1950, 250.000 persone lasciano l’Italia alla volta dell’Argentina.

“Il Messaggero di Roma, nel maggio 1946, pubblica in prima pagina un articolo dal
titolo «In Argentina c’è posto per gli italiani» (…) Il Corriere della Sera del 27 ottobre
1946 riporta, ancora in prima pagina, un resoconto di viaggio di Guido de Ruggiero
dal titolo «Conoscersi e volersi bene fra Italiani e Argentini», seguito da un altro,
dell’8 novembre dello stesso anno, dal titolo «Argentina terra promessa. Gli oriundi
del nostro Paese fanno prevalere le ragioni di sentimento e le tradizioni spirituali
anche nei rapporti economici» (Campanini P., 2012)

Nel 1947, all’arrivo della nave Santa Fé al porto di Buenos Aires, vi sono migliaia di
compatrioti ad accogliere i nuovi immigrati, nonché Perón in persona, il quale dice
chiaramente che “quattro milioni di italiani vivono felicemente in Argentina. Perciò
voi, immigrati, non siete gente straniera, siete nostri fratelli”. È dello stesso periodo
il viaggio di Evita Perón a Roma, dove incontra il presidente De Gasperi e Papa Pio
XII, rafforzando la grande amicizia e intesa tra il popolo italiano e quello argentino.

Nella riforma costituzionale del 1949 Perón tratta, cercando di risolvere, una delle
questioni più spinose ed irrisolte a proposito degli immigrati: la nazionalità;
mostrando, ancora una volta, l’interesse riguardante la nuova grande manovra
burocratica, giuridica e legislativa nei confronti della comunità italiana in Argentina.

“Diferentes propuestas se presentaron en el parlamento argentino, entre la década


de 1880 y la primera del siglo XX, para nacionalizar compulsivamente a los
inmigrantes o incluso (proyecto Gonzáles de 1901) para que pudiesen votar sin
renunciar expresamente a la ciudadanía de origen (…) Recién la Constitución
peronista de 1949 estableció que los inmigrantes hacían admisión de ciudadanía a
los cinco aňos de residencia si no manifestaban formalmente su oposición” (Devoto
F., 1992)

Nei primi anni ’50, ancora durante il mandato di Alcide De Gasperi, l’emigrazione
non era più appoggiata solo da Chiesa e Governo, ma anche dalla CGIL, che, se in un
primo momento aveva criticato “l’esodo americano” dei lavoratori italiani, ora lo
considerava un “male necessario” alla crescita economica del Paese, all’esubero di
manodopera che doveva essere in qualche modo ricollocata.

21
Tra gli anni ’40 e gli anni ’50 mezzo milione di italiani, di cui i tre quarti provenienti
dal Mezzogiorno, arrivò in Argentina e l’emigrazione italiana in generale fu, ancora
una volta, principalmente transoceanica, diretta anche verso Canada, Brasile, Stati
Uniti e Venezuela.

Tuttavia dietro il piano d’emigrazione condiviso da Perón, De Gasperi e dalla Chiesa


vi erano due gravi problemi, che comprometteranno la possibilità di continuare sulla
stessa linea a lungo e che porteranno ad una grande flessione di arrivi a Buenos
Aires e ad un’ultima ondata migratoria, ormai autogestita, nella seconda parte degli
anni ’50: il clientelismo e la corruzione.

“Si configura ben presto in una serie di facilitazioni e vantaggi nei confronti di
‘emigranti’ di riguardo: fascisti e collaborazionisti troppo compromessi con il passato
regime (…) viene accertata infatti la falsità delle dichiarazioni della professione di
operaio di un buon numero emigranti che operai non sono e che, oltre tutto, portano
con se’ ingenti capitali. La Delegazione è accusata di concedere indubbi favori a
«pezzi grossi fascisti» e a personaggi che hanno «smobilitato i loro patrimoni in
Italia» e che cercano dall’altra parte del mondo una nuova verginità politica”
(Campanini P., 2012)

I nuovi arrivati inoltre, sono spesso disinteressati a creare legami con i propri
connazionali delle prime emigrazioni, dai quali si sentono “diversi” per formazione,
cultura e classe sociale; non si interessano dei giornali italiani locali o delle forme
comunitarie sviluppate nei decenni precedenti, sono homini noves volti al mero
successo politico sociale ed economico, svincolati da qualsiasi sentimento nei
confronti della patria e probabilmente meno attaccati all’importanza di mantenere
un certo rapporto con le origini (questa è la posizione preponderante, tuttavia vi
sono diversi italiani arrivati nel dopoguerra che non appartengono a classi sociali
alte, come altri che sentono fortissimo il problema dello sradicamento, tra questi,
oltre allo scrittore Dal Masetto, ci sono anche tanti signori da me personalmente
conosciuti nelle associazioni regionali di Mendoza).

L’immigrazione del dopoguerra, nella quale tutti si sentono dottori e ingegneri anche
quando non lo sono (Campanini P., 2012), è quella della rivincita, della nuova
percezione del “migrante riuscito e arrivato”, nella quale a contare non è più tanto
l’identità nazionale o regionale del “nuovo americano” come per le generazioni
precedenti, quanto il suo inserimento nella società argentina.

22
Scomparsi i complessi dei gringos e dei tanos, i “neoargentini” plasmano la propria
identità in maniera differente rispetto agli altri, con una consapevolezza diversa dei
propri diritti.

Cessa, sia realmente sia simbolicamente, il mito dell’italiano “trabajador infaticable”


e, negli stessi rapporti tra connazionali, gli anziani criticano i giovani per la poca
attitudine al lavoro e al sacrificio, dicendo loro di volere tutto e subito e di non
interessarsi a sufficienza della propria storia e della propria identità, di italiani prima
e di migranti poi.

È certo che, pur con i suoi limiti, l’emigrazione italiana in Argentina del secondo
dopoguerra fu meno traumatica sia rispetto a quelle precedenti sia rispetto a quella
coeva in Belgio (dove morti, malati di silicosi e internati in manicomio furono
migliaia, infatti “la malattia mentale è considerata una conseguenza delle condizioni
di sfruttamento economico e di isolamento sociale vissute nel corso dell’esperienza
migratoria” (Molinari A., 2010)); inoltre l’inserimento lavorativo e sociale dei nostri
connazionali oltreoceano, ovviamente caratterizzato da una grande eterogeneità
che non si può rappresentare adeguatamente, fu generalmente buono o discreto.

Tuttavia ciò non eliminò il sentimento di sradicamento ancora oggi molto vivo e
presente; ecco perché concludo con alcune considerazioni riguardanti il romanzo
Oscuramente fuerte es la vida di Antonio Dal Masetto.

L’autore, originario di Verbania in Piemonte, venne in Argentina nell’immediato


dopoguerra, a soli dieci anni d’età.

Visse a Buenos Aires quasi tutta la sua vita, eppure i suoi libri più importanti, raccolti
in una trilogia, possiedono come tematiche principali l’emigrazione e l’Italia.

Un’atmosfera di nostalgia, difficoltà del distacco, paura mista ad emozione


caratterizzano il suo romanzo, dove i protagonisti sono il riflesso delle sue idee e
delle sue sensazioni intime, della mancanza di origini definite, della necessaria
ricerca di un passato lontano dopo aver speso tutta l’esistenza in Argentina.

La ferita del desarraigo quindi non coglieva solo i primi migranti che venivano (come
si dice in Argentina) con una mano atrás y otra adelante, ma anche coloro che, pur
con prospettive generalmente migliori o comunque meno cupe, arrivarono negli
anni ’40 e ’50 del secolo breve.

23
“Faltaba poco para irnos. A la curiosidad que despertaba el viaje se mezclaba el
desconcierto por el viaje. Contaba los días. Me habían entregado el pasaporte, los
certificados de vacunas, los pasajes. Comencé a embalar. Del altillo bajamos dos
grandes baúles que habían pertenecido a mi madrina. Metimos todo lo que pudimos
(…) yo no querría desprenderme de nada (…)

Salimos por última vez de aquella puerta, cruzamos el patio por última vez, bajamos
por el sendero y nos fuimos por la calle ancha. A cada paso giraba la cabeza para
mirar la casa, hasta que la casa desapareció y sólo quedó la copa del nogal y un poco
más adelante ni siquiera eso. Después hubo un ómnibus, un tren, otro tren, el puerto
de Genova,un barco y América” (Dal Masetto A., 1990)

24
Dagli anni ’60 al XXI secolo
L’immigrazione italiana in Argentina, almeno come fenomeno di massa, termina nei
primi anni ’60. In quegli anni il saldo migratorio argentino diventa negativo, infatti
non solo tanti italiani decidono di tornare in patria, ma anche molti argentini privi di
ascendenza italiana optano per l’emigrazione in Europa, principalmente, almeno in
un primo momento, proprio nei Paesi con cui hanno un legame molto forte: l’Italia e
la Spagna.

Dalla dittatura militare (1976-1983) in poi l’Argentina è caratterizzata da continue


crisi politiche ed economiche, l’emigrazione diventa quindi un’opzione sempre più
importante, fino a essere, in alcuni casi (ad esempio nella crisi del 2001), una
necessità. Ad essere avvantaggiati in questa possibilità sono gli italiani, ossia coloro
che possiedono la cittadinanza del nostro Paese, magari perché hanno un bisnonno
di Torino o di Napoli.

La situazione non solo si è capovolta rispetto ad un secolo fa o poco più, quando i


nostri connazionali emarginati nei conventillos o nella pampa gringa venivano
insultati e derisi, ma ora la percezione che si ha della nostra nazione in Argentina è
estremamente positiva; c’è un boom di iscritti ai corsi di italiano, un grande
interesse per l’arte, l’opera, la cucina e le spiagge dello Stivale, delle code
interminabili per ottenere i documenti per la cittadinanza, la quale apre le porte a
tutto il vecchio continente grazie alle politiche di libera circolazione dell’Unione
Europea e del Trattato di Schengen.

Come preannunciato i casi di immigrazione italiana in Argentina sono, dagli anni ‘60
in poi, numericamente esigui; diverso è il discorso riguardante la cosiddetta
“emigrazione di ritorno”. Oggi non solo la percezione dell’Italia e degli italiani in
Argentina è incredibilmente buona (l’ho potuto comprovare io stesso vivendo a
lungo a Mendoza e occupandomi di promozione della lingua e della cultura italiana
all’Universidad Nacional de Cuyo nonché collaborando con il consolato e con le
associazioni regionali in loco), ma al “sogno americano” di fine Ottocento e inizio
Novecento, si sostituisce il “sogno europeo” del nuovo millennio (ed anche in questo
caso il rischio di rimanere delusi non è basso).

In questa realtà che si è venuta a creare è difficile stabilire quanto peso abbiano le
origini italiane e quanto le questioni materiali, ossia se si tratti maggiormente di
migranti identitari o di migranti economici.
25
Credo che le due componenti siano ugualmente determinanti nella scelta migratoria
di molti argentini, in quanto la mera ragione economica non è sufficiente per
spiegare la grande scelta, sennò nel 2001 il Paese si sarebbe interamente spopolato,
contemporaneamente la sola motivazione di ricerca delle proprie origini e di
recupero di un’identità “perduta” non basta da sola per decidere di vivere e lavorare
dall’altra parte del mondo: molti argentini, pur essendo (almeno per noi) totalmente
argentini, parlano di “ritorno in Italia”, infatti posseggono la doppia cittadinanza in
virtù dell’ascendenza italiana (ius sanguinis), ma molto spesso non sono al corrente
dell’attuale realtà sociale e lavorativa del Paese e non conoscono la nostra lingua,
oltre ad essere nati e ad aver vissuto sempre in America.

L’unica vera immigrazione esistente in Argentina (scomparsa quella europea) negli


ultimi decenni è quella interna ai paesi latinoaemericani e, diversamente rispetto a
prima, è in molti casi femminile, temporanea e non coinvolge altri soggetti familiari
rispetto a chi parte. In questo senso le nuove rotte migratorie verso l’Argentina
sembrano seguire le norme generali della globalizzazione: emigrazione sradicante,
precarietà professionale ed esistenziale, mancanza di sostegni familiari nel luogo in
cui si va; scelta solitaria della quale si mostrano troppe volte gli effetti positivi
(multiculturalismo, integrazione, multilinguismo) e troppo poche gli aspetti negativi
(sradicamento, mancanza di stabilità lavorativa ed affettiva).

“El colosal protagonismo de los inmigrantes del Viejo Mundo eclipsó el papel de las
migraciones limítrofes –que, por cierto, se solapaban con las migraciones internas–
en la configuración demográfica e identitaria del país” (Bjerg M., 2016)

Probabilmente offuscata dall’interesse e dal grande numero dell’alluvione


migratoria d’oltreoceano e, forse, come sostiene Bjerg, anche dal protagonismo
degli europei, l’immigrazione di cileni prima (ad esempio a Mendoza molto vicino
alla Plaza Italia si trova la Plaza Chile, entrambe dedicate agli immigrati che
parteciparono alla ricostruzione della città dopo il terremoto del 1861 e al lavoro nel
ferrocarril dopo il 1885) e boliviani, paraguaiani, peruviani, dominicani e venezuelani
poi, deve essere capita, interiorizzata e studiata dagli argentini.

“Desde el inicio de la organización nacional recibimos inmigrantes limítrofes, proceso


que continúa aún hoy. Sin embargo, estos flujos fueron superados por la enorme
corriente migratoria europea que ingresó a Argentina a partir de la segunda mitad
del siglo XIX, que prácticamente los invisibilizó hasta las últimas décadas, cuando
nuevas dinámicas migratorias afectaron el territorio” (Cozzani M., 2011)
26
Contemporaneamente andrebbe compreso il senso ed il valore dei nuovi progetti di
mobilità internazionale che, mediante università, volontariati, associazioni no profit
ed enti vari, propongono periodi di “migrazioni a tempo determinato” (migración
móvil) senza coinvolgimento degli altri componenti del nucleo familiare all’estero.

Bisognerebbe approfondire sia il significato esistenziale di chi partecipa a tali


progetti, le ragioni materiali e sociali che li spingono a prenderne parte, sia ciò che
lasciano nel loro passaggio in terra straniera.

27
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28
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