1a Lezione - Introduzione
Boffi inizia il suo saggio “Migrazioni” richiamandosi alla Bibbia nel punto in cui il Signore
dice ad Abramo:
“Va’ via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che ti indicherò. Farò di te
una grande nazione, ti benedirò, renderò grande il tuo nome; sarai una benedizione. Benedirò chi ti
benedice, maledirò chi ti maledice: si benediranno in te tutte le famiglie della terra.” (Genesi 12,13)
Questo è un ordine rivolto a lui, ordine che fu seguito, infatti “Abramo partì come il Signore
gli aveva detto”. Lo stesso autore afferma che Abramo è la figura in cui si identificano tutti
coloro che hanno bisogno di terra e parentela. È la figura in cui si riflettono tutti gli esuli e in
cui trova giustificazione la diaspora degli Ebrei e poi la Terra Promessa. La partenza di Abramo
dà inizio a tutte le migrazioni che sono state una cosante nella storia dell’umanità. Esse nel
corso dei secoli hanno avuto modalità diverse ma le motivazioni sono state sempre da ricercare
nella necessità di condizioni di vita migliori.
Nel momento in cui, però, l’Europa è diventata la meta di migrazioni dall’Asia e dall’Africa e
dai paesi dell’Est, queste migrazioni sono state percepite dalle popolazioni del luogo come un
pericolo tanto che spesso sono state definite invasioni barbariche con riferimento alle invasioni
dei barbari a cui è stato imputato il crollo dell’impero romano, senza tenere conto che queste
sono state solo una concausa. Il riferimento ai Barbari è stato fatto per fare connotare questo
fenomeno come un’invasione, come un evento catastrofico anche perché Barbaro, come
avveniva nell’antichità, è ritenuto colui che parla una lingua diversa, vive fuori dei confini dello
stato con usi e costumi e religioni diversi. Gli Europei, infatti, quando andarono alla scoperta
del Nuovo mondo considerarono selvagge le popolazioni indigene in nome di una superiorità
razziale e culturale che giustificasse lo sfruttamento. Dobbiamo precisare che ciò che accomuna
questi fenomeni molto lontani nel tempo è l’atteggiamento degli abitanti locali.
Ultimamente nell’ Occidente le migrazioni sono state accumunate, come abbiamo detto, alle
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invasioni barbariche e a tutto ciò che minaccia il nostro mondo per connotarle di un senso di
pericolo e catalizzare su di esse i sentimenti di paura e di ostilità motivati sempre dalla paura
dello straniero. Dobbiamo precisare che l’atteggiamento di coloro che abitano i territori verso
cui si dirigono i flussi migratori è stato sempre di paura, ostilità e xenofobo. Bisognerebbe
riflettere ed essere consapevoli che la barbarie, la minaccia e il pericolo non sono di chi non
appartiene alla nostra civiltà, ma di chi fa uso di mezzi tecnologici progrediti per negare
l’umanità degli altri, come le guerre, oppure di chi fa uso del terrorismo. L’Europa, che fino
alla metà del XX secolo era stata terra di migranti in cerca di lavoro verso l’estero, soprattutto
verso l’America, ma anche l’Australia, è oggi una meta ambita per africani e asiatici che
fuggono dalla miseria, e anche, dopo il crollo dei regimi comunisti e del loro sistema
economico, è diventata meta del flusso migratorio interno dall’est all’ovest. Lo stesso nostro
paese, nonostante i suoi problemi economici, è una meta ambita per gli immigrati extraeuropei,
anche se molto spesso solo come punto di arrivo nel continente europeo per poi spostarsi verso
gli altri Stati europei mentre fino a non molti decenni fa era la base di partenza di flussi migratori
verso l’estero, soprattutto verso l’America. L’atteggiamento di ostilità e a volte xenofobo verso
gli immigrati deriva dal fatto che, come è successo al popolo italiano:
ci si è dimenticati di quando il pericolo erano gli italiani, come è documentato da
numerose testimonianze letterarie, cinematografiche e documentarie su cui ci
soffermeremo in seguito;
che lo spostamento delle popolazioni è un fenomeno che ha accompagnato tutta la storia
dell’umanità;
che spesso questi spostamenti, nel periodo precedente alla rivoluzione industriale, sono
stati una risorsa per i paesi accoglienti, anche perché, quando parliamo di migrazione,
non ci riferiamo solo alla migrazione di massa del periodo della rivoluzione industriale
o dei movimenti di massa dei paesi poveri, quando la migrazione era avvertita sempre
come pericolo e lo straniero percepito come elemento di disturbo da emarginare e
ghettizzare.
Le migrazioni di grandi masse, che sono una costante nella storia umana, sono svariate e
soprattutto sono state motivate dalla volontà di sfuggire da situazioni insostenibili che possiamo
così sintetizzare:
cause naturali: inondazioni, frane, risvegli di vulcani che spingono le popolazioni del
luogo a spostarsi dal momento che non possono più svolgere le attività necessarie per
la propria sopravvivenza;
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cause religiose: per intolleranze religiose di ogni genere che vanno dall’impossibilità di
praticare il proprio culto alle persecuzioni e alle soppressioni fisiche;
cause sociali: che sono le più varie, ad esempio la disoccupazione che nel 1800 fece
emigrare in massa gli Irlandesi verso il Nord America a causa della rogna nera della
patata che era stata importata dalla stessa America. Ciò ha provocato una caduta
rovinosa dell’economia, carestie e ha messo in moto il flusso migratorio;
cause economiche: in queste possiamo inserire anche la migrazione coatta degli schiavi,
ritenuti merce destinata alla compravendita;
cause etniche: che direttamente o indirettamente sono migrazioni coatte, come ad
esempio quella degli Ebrei verso la Palestina dalla Germania e dall’Europa nazista;
cause politiche o militari: determinate da patti, leggi, guerre e loro conseguenze (per
esempio, gli spostamenti avvenuti dopo la seconda guerra mondiale).
Queste sono le cause congiunturali che sono alla base della migrazione tra cui bisogna inserire
la distribuzione squilibrata delle risorse. Quello che è cambiato è il modo in cui sono avvenute
come dimostrano alcune migrazioni che ormai fanno parte della storia e di cui tutti siamo a
conoscenza:
le migrazioni dei popoli greci verso il vicino medio Oriente e il Mediterraneo in cui
hanno fondato colonie e che hanno contribuito anche allo sviluppo della nostra civiltà.
In questo caso erano intere comunità che si spostano in maniera programmata e sotto la
guida di capi;
le migrazioni dei popoli germanici del V secolo dopo Cristo, durante la crisi dell’Impero
Romano, anch’esse caratterizzate dal fatto di essere costituite da interi popoli
organizzati e sotto la guida di un capo;
i movimenti organizzati di contadini tedeschi verso l’Est, alla conquista di terre nel XII
secolo;
l’immigrazione, incentivata dalla Zarina Caterina II di Russia, di agricoltori provenienti
dalla Germania;
la tratta di milioni di neri dall’Africa verso l’America, che fu uno spostamento
certamente non spontaneo per quanto concerne i neri, ma gestito e pilotato dalle grandi
compagnie commerciali europee e dai sovrani delle coste africane. Attraverso questa
tratta i coloni europei si assicurarono una mano d’opera più affidabile e più economica
rendendo schiavi i neri che sono stati costretti a subire una migrazione forzata, una
deportazione e ha determinato la schiavitù di un popolo che, nonostante oggi sia
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emancipato, ancora viene emarginato.
Accanto a queste migrazioni di grandi masse ci sono state quelle che, provocate dai
colonizzatori nella loro avanzata alla conquista dei territori che ritenevano giusto fare propri, o
quelle di persone o di gruppi che fuggivano nel Novecento dai diversi regimi autoritari. La
colonizzazione dei territori americani ha messo in contatto i coloni con persone estranee alla
loro civiltà che chiamavano dispregiativamente selvaggi e sfruttavano ma anche spesso
sopprimevano in nome della loro superiorità raziale.
Intanto dobbiamo precisare che la mobilità, soprattutto nell’era della globalizzazione dovrebbe
essere ritenuta normalità in quanto oggi non assistiamo soltanto a migrazione di persone che
fuggono dalla fame e dalle guerre, ma all’esodo di persone con titoli di studio, capacità e
competenze spesso di alto profilo che sono costrette a cercare una collocazione professionale e
si spostano volontariamente. Essi rendono così possibile migliorare il proprio status sociale ma
nello stesso mettono a disposizione di altre realtà competenze che altrimenti non avrebbero.
Noi, quindi, in questo lavoro ci soffermeremo su:
le mobilità territoriali e diaspore religiose dell’età preindustriale;
le migrazioni e il colonialismo;
le migrazioni in seguito all’industrializzazione;
le migrazioni transoceaniche;
la guerra, le migrazioni forzate, eredità della guerra e diaspore in Palestina;
le migrazioni nella seconda metà del Novecento, decolonizzazione e conseguenza delle
emigrazioni nei paesi di partenza;
i nuovi movimenti migratori.
Ci soffermeremo, poi, a riflettere su quando il pericolo eravamo noi.
Riteniamo infatti importante approfondire anche l’emigrazione italiana che è stata un fenomeno
molto importante sia perché ha avuto caratteristiche di esodo sia per le ripercussioni avute in
Italia, ma collegandolo sempre con quelle verso l’Italia. Soffermarci anche sui collegamenti ci
sembra importante e doveroso in quanto ci darà la possibilità di riflettere su comportamenti e
atteggiamenti soprattutto perché oggi siamo il paese europeo che sta affrontando la presenza
sul nostro territorio di stranieri per lo più clandestini e anche come punto di approdo per
transitare, poi, verso gli altri paesi dell’Europa. È necessario sempre ricordare che fino a metà
Novecento siamo stati il paese con il maggior numero di emigranti.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
L’uomo non è mai stato sedentario e la mobilità è stata sempre presente sia nelle campagne che
nelle città ed è stata sempre ritenuta necessaria per la sopravvivenza, per esercitare mestieri e
professioni, ma anche per imparare attività artigiane o pratiche commerciali e nell’età
preindustriale la mobilità era considerata una risorsa e un fenomeno normale. Essa era
collegata:
al matrimonio; i giovani, infatti tra i 15 e 25 anni venivano allontanati dalle famiglie sia
per contribuire economicamente alla famiglia sia per accumulare un reddito proprio in
funzione del matrimonio. In Inghilterra era un’usanza molto diffusa e veniva
denominata life-cycle-servants. Essi facevano un lavoro servile lavorando come
domestici o nelle campagne. Era questa una pratica diffusa in tutta Europa. Lo stesso
avveniva per le ragazze che erano impegnate in lavori domestici o di cucito, tessitura,
nelle seterie e anche in viticoltura. Si muovevano su percorsi a lungo raggio come i
maschi. In Norvegia, ad esempio, si recavano in Olanda per lavori domestici;
alla colonizzazione agricola, era questa una mobilità che prevedeva un insediamento
stabile, era praticata in molti paesi di Europa specialmente nel XVII secolo e per
esempio i tedeschi si spostavano nell’Europa Sud Orientale, in Ungheria ecc. Questa
mobilità era stimolata anche dai sovrani per poter risanare le zone paludose. Gli
Olandesi erano molto bravi nella bonifica per la necessità di difendere i territori dal
mare;
alla bravura di idraulici e di ingegneri olandesi, ritenuti particolarmente esperti nella
bonifica e che si spostavano, quindi, dall’Olanda negli altri paesi perché chiamati a
risolvere problemi di bonifica;
al movimento circolare stagionale nei campi o in attività legate all’agricoltura o alla
manifattura: in queste attività erano coinvolti centinaia di migliaia di lavoratori.
Un’inchiesta di Napoleone ha registrato che tra il XVIII e XIX secolo esistevano venti
sistemi di movimenti circolari che avvenivano tra paesi poveri di risorse, con salari bassi
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e un alto sviluppo demografico e paesi ricchi, con alti salari. Essi venivano impegnati
nei vari sistemi di coltivazione, nelle manifatture e nelle attività minerarie. Le zone
erano i bacini del Mare del Nord, l’Inghilterra, le zone rurali e urbane di Parigi, la
Catalogna, la Provenza, Castiglia, la pianura padana e città come Milano e Torino e i
lavoratori venivano soprattutto dalle montagne dove c’era abbondanza di uomini e
povertà;
alle attività di commercio che erano soprattutto attività di commercio ambulante, spesso
ad opera di abitanti delle montagne: il colportage era il piccolo commercio ambulante
di vari prodotti alimentari e suppellettili, ma accanto c’erano anche fiorenti attività
economiche che formarono le elites locali nei villaggi montani e hanno formato dinastie
di commercianti che hanno impiantato reti commerciali come ad esempio quella del
commercio ambulante dei libri;
le migrazioni artigianali, erano una forma molto antica di migrazioni e infatti era
praticata dalle corporazioni medievali. Il garzone di un artigiano, infatti, dopo un certo
numero di anni in cui aveva fatto pratica, andava a perfezionarsi un luogo in cui l’attività
era più avanzata, perché praticata da più tempo. Da qui si svilupparono dei movimenti
di artigiani che scendevano dalle Alpi italiane e si spostavano seguendo gli architetti e
i mastri che costruivano palazzi nelle città rinascimentali;
gli spostamenti verso i centri urbani in quanto la città suscitava una forte attrazione
perché offriva possibilità di impiego e le stesse città avevano bisogno di immigrazioni
anche a causa dell’alta mortalità per cui esse erano un riequilibrio demografico. Il XVI
secolo è caratterizzato dallo sviluppo urbano determinato anche dall’incremento
demografico tale che alla fine del secolo quasi tutte le città italiane avevano raddoppiato
il numero degli abitanti e tra queste Messina, Palermo, Catania e Napoli. Le città
continuano a richiamare le persone più povere, persone provenienti dal mondo rurale,
soprattutto giovani per potere che volevano esercitare i mestieri, ma si verificano anche
flussi dalle città minori alle città più grandi, e ciò comporta la richiesta di nuovi edifici,
di funzionari, di università, richieste dalle classi privilegiate, e anche la presenza di
militari.
Accanto a queste migrazioni di natura economica e volontaria ci sono state quelle causate:
Dalle guerre: in questo periodo le numerose guerre civili hanno causato grandi
movimenti soprattutto per gli spostamenti degli eserciti e la guerra dei cento anni è un
esempio eclatante che ha portato morti, carestie, epidemie e spostamenti anche perché
gli eserciti erano seguiti da donne, giovani, servi e profughi che cercavano scampo:
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fuggivano anche i contadini perché i soldati consumavano tutto ciò che era
commestibile e/o distruggevano case e raccolto. Questi spesso spostamenti
incrementavano la popolazione delle città anche perché erano più protette dalla guerra.
Migrazioni della stessa entità ci furono anche nelle guerre trai vari imperi.
Dalle diaspore religiose: in questo caso si tratta di migrazioni che non erano volontarie
e nemmeno motivate da cause economiche e si tratta dell’esodo di minoranze religiose
sia perché perseguitate sia perché allontanate per decisioni politiche. Le più conosciute
sono quelle degli ebrei scacciati dall’Inghilterra nel XIII Sec., in un secondo momento
dalla Francia nel XIV secolo e nel XVI secolo dalla Spagna, ma gli Ebrei furono
perseguitati anche dagli stati tedeschi. Ricordiamo anche la cacciata dei moriscos dalla
Spagna e quella degli Ugonotti dalla Francia. Durante la Riforma e la Controriforma ci
furono un milione di profughi perseguitati dagli Stati perché dissidenti ed erano perciò
considerati pericolosi per l’autorità degli Stati. Contro queste minoranze si usarono sia
provvedimenti legislativi per emarginarli dalla vita sociale sia violente espulsioni.
Questo tipo di migranti dai paesi ospitanti fu accolto, però, come una possibilità di
arricchimento dal punto di vista economico e culturale. In seguito alla cacciata degli
ebrei dalla Spagna e alla loro diaspora, in Europa si formarono comunità di matrice
ebraica che hanno sviluppato reti di commercio, mentre nelle zone della Spagna, che
erano state abbandonate ci fu un periodo di crisi. La città di Valencia fu depauperata di
270.000 moriscos che andarono a rafforzare l’economia dei paesi ospitanti. Lo stesso
avvenne in Francia con la cacciata degli Ugonotti che erano persone molto colte e anche
elevate economicamente. Essi si spostarono nei Paesi Bassi, Inghilterra e altri Stai
protestanti e contribuirono attivamente alla loro crescita economica e culturale. I
profughi di guerra e i dissidenti politici e religiosi determinarono l’incremento
demografico delle città europee e, soprattutto di Amsterdam di cui era riconosciuta la
tolleranza, dove si riversarono ricchi commercianti francesi che provenivano dalla
Spagna o da Anversa.
Dai trattati internazionali: in questo caso si tratta di azioni prettamente politiche messe
in atto in relazione a trattati internazionali relativi a definizioni dei confini che venivano
sempre ridisegnati. Questo ha provocato nelle popolazioni interessate continui esodi.
Già in quel tempo si era cercato di regolarne i flussi, anche se non si può parlare di
migrazioni di massa, in base agli interessi dello Stato, quindi a interessi economici,
militari e sociali. Nel periodo dell’ancien regime il problema non era quello di regolare
la quantità delle persone che immigravano, ma l’inverso. La vigente teoria economica
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del mercantilismo considerava ricchezza l’aumento demografico e le continue guerre, a
causa delle morti in battaglia, avevano anche la necessità di ingrossare le fila
dell’esercito per cui l’emigrazione veniva osteggiata. Furono quindi emanati
provvedimenti legislativi nel XV e XVI secolo per impedire alla popolazione di
spostarsi e nello stesso tempo furono fatti tentativi di attrarre migranti. Per quanto
concerne, poi, la ridefinizione dei confini determinata dalle varie guerre che si erano
succedute in Europa tra il XVII e XVIII secolo, i trattati internazionali hanno avuto
ripercussioni sulle migrazioni, poiché col variare dei confini esse diventavano interne o
internazionali. Questa ridefinizione di confini ha comportato situazioni di conflitto
proprio per i rapporti tra gruppi di differente nazionalità. Un esempio di appartenenza
variabile per i vari gruppi è il caso dell’Alsazia e Lorena che si trovano sul confine tra
Francia e Germania ma furono interessate anche altre aree che si trovavano sulle linee
di confine dei grandi imperi tra cui quelle italiane sul confine con la Francia e l’Austria
che hanno subito fino a tempi recenti migrazioni volontarie e forzate di singoli o gruppi.
Dalle scoperte geografiche, dalla colonizzazione e dall’opera dei missionari. In seguito
alle scoperte geografiche sono iniziate le migrazioni transoceaniche. Inizialmente il
popolamento delle terre fu attuato attraverso spostamenti coatti dei nativi che venivano
usati come manodopera poi invece, vennero usate persone che per pagarsi il viaggio
diventavano servi di chi li trasportava. I primi migranti volontari erano quelli che si
erano mescolati alle truppe per poter appropriarsi alle risorse d’oro e argento ma anche
i missionari cattolici che volevano convertire gli indigeni. All’inizio, dal momento che
le grandi potenze temevano di veder ridursi ancora di più la popolazione già esigua, le
migrazioni nel XV secolo furono molto contenute così come anche quelle verso il Sud
Africa e Asia. I Conquitatores sono stati i primi a migrare e furono la causa di uno
scontro di civiltà, violenze e perdite umane che nell’America meridionale si realizzò
con la caccia all’indiano soprattutto per avere manodopera gratuita per le stesse terre
che i nativi erano stati costretti ad abbandonare. In seguito è stata utilizzata quella che
può essere chiamata deportazione dei neri d’Africa che venivano ridotti in schiavitù. Gli
schiavi venivano scambiati con prodotti delle colonie, questi poi con lo zucchero e lo
zucchero poi veniva venduto nei mercati europei. Il primo carico di schiavi è del 1503
e ad organizzare questa tratta sono stati Spagna, Portogallo e Olanda, poi Francia e Gran
Bretagna. Inizialmente erano destinati alle piantagioni di zucchero e all’Ameria
Meridionale, in un secondo momento, solo alla fine del XVII secolo comparvero anche
nell’America del Nord, soprattutto nella parte meridionale. Le prime leggi che
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proibivano la schiavitù risalgono a fine Settecento ma la schiavitù fu presente fino al
1865 e si ritiene che dall’Africa furono prelevati cinque milioni di neri e un numero
imprecisa tra il 10 -20% morì durante le traversate. Questo tipo di migrazione forzata
fu fatta anche verso l’Asia, l’India e Indonesia.
Durante l’Ottocento per sostituire gli schiavi si usarono lavoratori a contratto
(indentured workers) che provenivano soprattutto dall’Asia il cui lavoro spesso era
meno caro di quello degli schiavi che in cambio delle alte tariffe del viaggio avevano
paghe molto contenute e nessuna garanzia. Spesso gli europei utilizzavano questo tipo
di contratto. Possiamo concludere dicendo che buona parte delle migrazioni
intercontinentali e i primi flussi migratori erano costituiti da schiavi o da indentured
workers.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Come abbiamo già detto, nell’età preindustriale la caratteristica delle migrazioni era quella di
essere soprattutto periodiche e circolari. Alla fine del XVII secolo, invece, la situazione cambia
radicalmente sia per la durata di queste migrazioni sia per la quantità di migranti. Queste
migrazioni di massa erano dirette soprattutto al di là dell’oceano. A determinare questa nuova
fisionomia della migrazione è stata la trasformazione della società che è connotata da:
transizione demografica, cioè dalla trasformazione dei movimenti della popolazione nel
momento in cui diminuisce la forte mortalità. Ciò è la conseguenza dei nuovi
comportamenti igienico-sanitari acquisiti in seguito alla ricerca scientifica e medica che
hanno determinato un nuovo equilibrio tra mortalità e natalità. È questa una
caratteristica soprattutto dell’Inghilterra e dei paesi scandinavi dove si verifica un
incremento della natalità. Nel resto d’Europa, invece, a causa di una crisi agraria
l’aumento della popolazione si è registrato molto più tardi;
nuova economia determinata dalla rivoluzione industriale che ha avuto effetti molto
rilevanti sui suddetti movimenti. La migrazione ha risentito molto dei mutamenti
prodotti nell’ambito dell’economia e del lavoro. In questo periodo, infatti, le spinte ad
emigrare non sono più legate a problemi climatici o alle conseguenze di una crisi
agricola, ma sono correlate alla crisi dell’industria. Lo sviluppo tecnologico, inoltre,
aveva reso più celere e sicuro il trasporto marittimo per cui il traffico passeggeri e merci
era aumentato. Il lavoratore che si recava all’estero era condizionato dal costo del
biglietto, ma soprattutto dalla perdita delle giornate lavorative e, quindi, la
velocizzazione del viaggio permetteva di risparmiare molto tempo e ha reso più facile
le partenze. Le società di navigazione, poi, facevano una grande propaganda al nuovo
mondo dipingendolo come un paradiso che li attendeva, un luogo dove c’erano
possibilità di occupazioni, salari alti, gran possibilità di risparmio e, quindi, di potere
fare rimesse a chi restava in patria. La necessità, la volontà di conquistare una nuova
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qualità della vita e di assicurare un futuro migliore ai propri figli, unito alla propaganda
delle compagnie di navigazione ha stimolato l’incremento delle partenze e della
migrazione di massa;
cambiamenti politici originati dalla Rivoluzione Francese e dalla Rivoluzione
Americana. Grande ripercussione hanno avuto anche le rivoluzioni politiche che hanno
trasformato i rapporti tra i paesi europei e le colonie e determinato un tipo diverso di
migrazione. In questo periodo e fino alla prima guerra mondiale dall’Italia e dalla
Germania c’è stata una corsa al colonialismo. Bisogna anche precisare che ormai il
lavoro nelle colonie non era più caratterizzato dall’esser un servizio coloniale e si
creavano movimenti di lavoratori anche non europei;
formazione degli Stati Nazionali;
rivoluzioni liberali a causa dell’emergere di una nuova ideologia e cultura.
La Rivoluzione Francese aveva diffuso gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza e aveva
fatto superare il mercantilismo; la libera circolazione di merci e persone era stata inserita anche
nella legislazione. Questa Rivoluzione, inoltre, ha originato quelle che possiamo chiamare
migrazioni politiche che sono diventate una caratteristica del Diciannovesimo secolo.
All’origine di questo esodo politico possiamo affermare con sicurezza che erano tutti quei
problemi che la restaurazione post-napoleonica aveva lasciato irrisolti che sono alla base delle
diaspore dopo le rivoluzioni degli anni Venti, degli anni Trenta e del 1848. A queste si
aggiunsero poi quelle successive alla Comune di Parigi e quelle dei sovversivi, diventati ormai
obiettivo di repressione della polizia da parte dei governi liberali.
È bene soffermarci su quella che è conosciuta come “la grande migrazione dall’Europa”.
All’inizio questa ha come protagonisti soprattutto deportati e avventurieri, ma con il passare
del tempo si è trasformata in migrazione di massa e ha interessato sia l’Europa nord-occidentale
sia l’Europa meridionale e orientale. Gli studiosi hanno differenziato le due ondate migratorie
sia dal punto di vista cronologico e geografico sia punto di vista qualitativo:
la old migration (18845-1915). Con questa locuzione si indica la migrazione dai paesi
anglosassoni o dall’Europa centro-settentrionale, ma anche quella dei paesi del
Mediterraneo proprio per la presenza di grandi zone costiere. Qualitativamente
possiamo anche dire che non si può fare una differenziazione. Questa migrazione era
anche caratterizzata dalla provenienza urbana e artigiana dei migranti;
la new migration riguarda soprattutto l’Europa mediterranea e orientale, caratterizzata
da una mancanza di specializzazione e di provenienza esclusivamente rurale.
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Naturalmente non è possibile tracciare una linea di demarcazione rigida perché, ad esempio,
molti studiosi sostengono che la old migration è stata una caratteristica dei paesi nord-
occidentali, soprattutto perché avevano grandi coste e porti, ma questo era anche dell’Italia e di
altri paesi mediterranei e, infatti, dalla Liguria c’erano state delle migrazioni precoci. Anche
per quanto riguarda le differenze qualitative che contrapponevano la provenienza urbana della
prima e quella rurale della seconda, nonché della differenza di qualificazione delle due ondate,
bisogna dire che anche qui ci sono delle eccezioni perché dall’Irlanda ci fu un enorme
migrazione rurale soprattutto perché colpita da una carestia che rese imponente la quantità dei
flussi dal Regno Unito. Nello stesso modo, riferendoci alla dequalificazione delle correnti
dell’Europa meridionale, bisogna dire che in queste zone, soprattutto in quelle montane c’erano
delle professionalità qualificate nell’edilizia e nel commercio. Concludendo possiamo dire,
però, che la Gran Bretagna ha avuto il primato quantitativo con il 40% degli emigranti, al
secondo posto l’Italia con il 16% e la Germania con il 13%. A questi movimenti ha partecipato
poco la Francia sia per il basso tasso di natalità sia per la mancanza di propensione alla
migrazione che sarà una sua costante e che l’ha portata ad essere, fino ai nostri giorni, uno dei
più importanti paesi d’accoglienza d’Europa.
I poli di attrazione della migrazione europea sono stati:
gli Stati Uniti d’America verso cui, tra il 1840 e il 1915, si era diretto il 70% della massa
migratoria proveniente dall’Europa, mentre il 10% aveva preferito l’Argentina e il 5%
l’Australia, il Canada e il Brasile. Come abbiamo già detto, nel XVI-XVII secolo ad
emigrare negli Stati Uniti erano quasi tutti inglesi, nobili, mercanti, proprietari terrieri,
dissidenti religiosi e politici a cui si erano unite le persone in condizioni di servitù per
poter raggiungere l’America. Gli Stati Uniti diventano il sogno di tutti, soprattutto
quando diventano Stato Nazionale. Nell’Ottocento gli emigranti erano spinti dalle
carestie, dalla crisi economica e erano, ancora, esuli politici della Rivoluzione Francese
e Inglese. La prima emigrazione è stata suddivisa in due periodi; quella del primo
periodo era caratterizzata dalla conquista della frontiera, dalla colonizzazione delle terre
Lo slittamento della frontiera spingeva tutti alla corsa alla terra che era il sogno
americano di tutti gli inglesi, irlandesi e tedeschi che sono stati i protagonisti della prima
colonizzazione; nel periodo 1890-1914 è caratterizzata da lavoro edilizio, minerario ed
industriale. Nella seconda e più massiccia ondata migratoria arrivarono dall’Europa
meridionale quasi quindici milioni di abitanti, e quando ormai non c’erano più terre da
conquistare e nemmeno oro da estrarre. In questa fase erano richiesti operai per costruire
le infrastrutture e anche da utilizzare nello sviluppo urbano, quindi era una manodopera
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non qualificata, possibilmente di provenienza rurale che poteva essere spostata
facilmente a secondo delle esigenze.
L’America latina che aveva conquistato l’indipendenza dalle corone iberiche nella
prima metà del XIX secolo. In queste zone si era sviluppata la monocoltura su grandi
estensioni a causa dell’enorme richiesta del mercato per cui i proprietari terrieri
dell’Argentina e del Brasile avevano preferito cercare manodopera immigrata più che
toglierla dalle proprie campagne. Oltre tutto, inoltre, avevano bisogno di aumentare la
densità demografica che era molto bassa. Inizialmente sono stati i contadini tedeschi a
immigrare e, in seguito, Italiani e Spagnoli.
L’Australia che, anche se era stata scoperta prima da Cook, inizia la sua colonizzazione
nel 1788; fino al 1945 vi si sono recati sette milioni di migranti tanto che alla fine della
seconda guerra mondiale è stato necessario programmare l’emigrazione degli sfollati
provenienti dai paesi dell’Europa devastati dalla guerra anche perché erano richieste
maestranze qualificate. I primi migranti sono stati missionari. All’inizio l’Australia era
nata come colonia penale per risolvere l’affollamento delle carceri inglesi, ma gli ex
galeotti provocavano molti problemi anche perché c’era penuria di cibo. Nasce così la
necessità di creare fattorie e incentivare le persone a fermarsi per coltivare la terra
attraverso una politica di aiuti. Gli aborigeni vengono sempre spinti fuori dalla loro terra
e molte volte uccisi. Vedremo in seguito come ad un certo punto l’Australia è stata
costretta a limitare gli ingressi dei migranti con un’adeguata legislazione.
La Nuova Zelanda che è entrata a far parte della corona britannica soltanto nel 1776 ad
opera di Cook e soltanto nel 1840 ha avviato il processo di popolamento poiché i Maori
avevano riconosciuto la sovranità britannica e, dal canto loro, gli Inglesi avevano
riconosciuto i diritti ereditari degli indigeni. Viene dichiarata colonia autonoma nel
1852 e inizialmente ci sono stati scontri tra i coloni bianchi e i Maori per il possesso
della terra. Già alla fine del Settecento alcuni Italiani avevano tentato di insediarvisi,
ma il vero flusso si ebbe nel 1874 quando l’immigrazione è incoraggiata soprattutto a
causa della necessità di costruire infrastrutture. La Nuova Zelanda diventa una meta
ambita proprio per i giacimenti auriferi e la popolazione passa dalle poche migliaia di
individui della metà dell’Ottocento ai duecentocinquantamila abitanti del 1871.
Le migrazioni interne all’Europa continuano sempre e vedono sempre lo spostamento di
lavoratori dalle zone più arretrate economicamente a quelle più ricche. In questo caso l’Italia
ha fornito all’Europa circa un milione di emigranti. Naturalmente dobbiamo considerare queste
cifre indicative in quanto non tengono conto dei lavoratori stagionali. Mete privilegiate sono la
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Francia e la Svizzera.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
L’immigrazione, sentita dai vari Stati come necessità, fa sì che essi adottino una politica diversa
dal mercantilismo che era una politica economica protezionistica. Tutti gli Stati cercano di
adottare politiche liberistiche e, quindi, emanano documenti legislativi, anche se in tempi
diversi e con modalità diverse, per permettere la circolazione dei migranti senza vincoli basata
sulla libera circolazione di merci e persone.
Nel 1840 l’Inghilterra per prima adotta questa politica, anzi negli anni successivi incentiva le
immigrazioni con varie forme di sostegno cercando di garantire anche migliori condizioni di
viaggio. Dopo l’Inghilterra tali forme di legislazione vengono adottate anche dai paesi
scandinavi e dalla Francia che, nonostante questa avesse una migrazione debole, emana leggi a
favore degli immigrati a cui assicurava anche assistenza. Seguono, poi, la Germania dopo 1897,
la Russia, l’Ungheria e ancora più tardi l’Austria. Questi paesi riconoscono il diritto
all’emigrazione che prima, ad esempio, in Austria veniva considerata un tradimento e
perseguita. La partenza, però, doveva avvenire solo nel caso in cui i migranti potevano
affrontare il costo del viaggio e nella Russia degli anni Sessanta, nonostante fossero già state
approvate leggi liberali, si poteva emigrare solo se lo Stato concedeva l’autorizzazione.
L’Europa meridionale approva leggi liberali solo nell’ultimo ventennio anche se continuano
interventi polizieschi e limitazioni e, per esempio, in Spagna i maschi potevano emigrare solo
se avevano il congedo militare o dietro un pagamento di una tassa. In Italia, dove si registra un
esodo massiccio, viene approvata una legge nel 1888 che però prevedeva un controllo
poliziesco e solo nel 1901viene approvata una legge liberale che prevede anche tutale e
assistenza; questa legge resterà valida fino al Fascismo e riconosceva il diritto di emigrare e,
nello stesso tempo, istituiva il Commissariato Generale dell’Emigrazione.
Nell’America latina si ha anche una legislazione liberistica, anche perché questi paesi attraverso
l’immigrazione cercavano di risolvere problemi economici sia all’interno del proprio paese sia
all’esterno. In Brasile la prima legge viene emanata nel 1808, ma la maggior parte di questi
paesi promulga le leggi permissive solo nella seconda metà del secolo. Questa legislazione
15
prevedeva una grande apertura alle migrazioni e anche incentivi e in Argentina veniva anche
garantito il trasporto marittimo gratuito. Questo perché era necessario risolvere il problema
della manodopera nelle piantagioni dal momento che era stata abolita la schiavitù. Anche gli
altri paesi latinoamericani promulgano leggi similari.
Una situazione diversa, invece, si registra nei paesi del Nord America e dell’Australia che fino
a quel momento avevano avuto una migrazione libera. Mentre gli altri paesi aprivano ai flussi
migratori per sostenere la propria economia questi, ad esempio gli Stati Uniti dove nove
immigrati su dieci erano europei, già nel corso dell’Ottocento avevano introdotto misure
restrittive soprattutto per discriminare alcuni gruppi provenienti dall’Asia. L’alibi è stata
un’epidemia di tifo nel 1847 e altre epidemie a fine Ottocento e inizio Novecento; per cui queste
limitazioni vengono giustificate con problemi sanitari. Bisogna sottolineare che la politica
relativa alla migrazione cinese è stata sempre contraddittoria. Anche se i Cinesi chiedevano
salari molto bassi e sono stati una risorsa per la costruzione delle ferrovie, viene emanato nel
1882 il Chinese Exclusion Act e i Cinesi diventano l’oggetto della xenofobia soprattutto per le
loro caratteristiche somatiche e culturale.
Il Canada, dove tra il 1820 e il 1915 erano arrivati quattro milioni di immigrati soprattutto
anglosassoni, prende provvedimenti restrittivi soprattutto verso i Cinesi nel 1885.
L’Australia, che come abbiamo visto, aveva accolto anch’essa quattro milioni di immigrati
soprattutto di origine anglosassone, dal 1901 emana leggi restrittive verso Cinesi e neri ma
anche bianchi che non fossero di origine anglosassone.
La prima espansione coloniale è alimentata e supportata da personale legato ai porti, alla
navigazione, agli ambienti militari e soprattutto agli ordini religiosi e, quindi, ai missionari. In
questo primo momento la migrazione è caratterizzata dalla formazione di vere e proprie colonie
di insediamento da parte degli Europei e questo l’abbiamo chiaramente visto parlando
dell’Australia e nella Nuova Zelanda. L’espansione coloniale però non è limitata solo verso
questi paesi transoceanici, ma è rivolta anche verso il Sud del Mediterraneo. Queste migrazioni
però hanno caratteristiche completamente diverse; finora abbiamo visto che i coloni si
organizzavano rispettando le regole che vigevano nei paesi di accoglienza, questa, invece, è
una migrazione che ha le caratteristiche della conquista. I bianchi infatti utilizzano i lavoratori
del luogo e organizzano movimenti migratori coatti per cui il lavoratore, spesso, era costretto a
lavorare agli ordini dell’altro sul suo stesso terreno. Questa migrazione era diretta anche verso
l’Algeria francese, il Sud Africa inglese, la Rhodesia, il Kenya e l’Africa sud-orientale tedesca.
In Asia le migrazioni sono state una costante anche prima della penetrazione coloniale. Gli
Indiani si dirigevano verso l’Est e i Cinesi verso Sud. La circolazione dei Cinesi è stata molto
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importante perché i migranti provenivano dalle città e spesso provenivano da un’elite
economica politica e militare. Solo nella metà dell’Ottocento l’emigrazione cinese diventa
un’emigrazione di massa e coinvolge anche la popolazione rurale. Le cause di ciò sono state le
guerre dell’oppio, varie rivolte e l’abolizione della schiavitù. Dalle colonie olandesi, inglesi e
francesi, che si trovavano nella stessa Asia, venivano richiesti lavoratori per le piantagioni e le
miniere. Questo ha provocato il fenomeno dei coolie trade da parte delle potenze coloniali. Con
questo sistema vengono reclutati contadini senza terra e poveri. Molti altri Cinesi si sono
riversati sulle coste orientali del Pacifico e nella sola Cuba i Cinesi era centoventimila. Come
abbiamo già detto, anche negli Stati Uniti si è registrata la presenza di Cinesi verso i quali sono
state adottate politiche di discriminazione. La presenza dei Cinesi viene considerata un
problema anche nell’America latina, nonostante il loro lavoro fosse di enorme vantaggio per i
grandi proprietari. I principali assi di migrazione dei Cinesi sono stati il Sud-Est asiatico, le
vecchie aree della schiavitù e il nuovo mondo.
Per quanto riguarda il Giappone inizialmente le migrazioni erano di media distanza ma
lentamente anch’essi si sono interessate a spostamenti transoceanici. Soprattutto dopo il 1868
in cui inizia il loro processo di modernizzazione. La spinta all’emigrazione è data dall’aumento
demografico (78%) che non permetteva di assorbire la manodopera nella produzione locale per
cui il Giappone è stato costretto a emanare leggi per incentivare la migrazione rivolta soprattutto
verso gli Stati Uniti, le Hawaii e le aree coloniali del Pacifico, ma anche verso le aree
latinoamericane.
I flussi migratori in Africa sono stati discontinui e in un primo momento limitati a migrazioni
interne. La grossa emigrazione, se così si può chiamare, è quella avvenuta durante la tratta degli
schiavi che ha avuto effetti devastanti anche perché ha interessato le parti meno abitate e la
popolazione maschile in età riproduttiva. Nella stessa Africa essi sono stati costretti con la forza
a lavorare e ciò ha provocato un elevato costo di vite umane. Durante il periodo della grande
migrazione si registrano da parte degli Africani traiettorie inverse da quelle degli altri popoli in
quanto si può parlare anche di un “ritorno” degli schiavi neri dai vari paesi dopo che era stata
abolita la schiavitù.
Abbiamo parlato fino ad ora in generale delle correnti migratorie e delle disposizioni legislative
miranti a regolare o agevolare i flussi migratori. Ora vorremmo evidenziare i caratteri di questa
mobilità soffermandoci soprattutto su quelle che erano le motivazioni individuali dei migranti,
le relazioni di queste migrazioni con le famiglie e le reti che mettevano in moto queste.
Naturalmente alla base di queste migrazioni di massa un elemento molto importante sono state,
oltre alle necessità economiche, le informazioni che a vario titolo giungevano dal paese
17
accogliente che hanno innestato meccanismi di richiamo, collegamenti tra i migranti che
potevano essere di natura professionale ma anche di ricongiungimento familiare e il bisogno di
circondarsi di persone della propria cultura. Gli studiosi parlano di catene migratorie come
sistema di comunicazione tra i migranti e coloro che erano rimasti nel paese di origine per
richiamare parenti, amici e connazionali ma questa stessa locuzione si usa anche per indicare
le politiche che si possono attivare tra i due paesi coinvolti nelle migrazioni. Ecco perché di
solito si usa catene migratorie per indicare le politiche migratorie che prevedono catene e il
richiamo di natura etniche che si attiva quando il paese ospitante vuole organizzare le
migrazioni per effettuare scelte di manodopera. I primi migranti possono attivare una catena di
persone con cui hanno legami familiari e fanno da richiamo a nuovi emigranti attivando le
migrazioni a catena e dando origine alla cultura della mobilità.
Le catene migratorie, come sostengono molti studiosi, sono soprattutto migrazioni professionali
di alcune categorie e sono una costante dell’Europa dell’ancien regime, come abbiamo già visto
e dei paesi orientali, soprattutto della Cina che hanno mantenuto sempre le stesse caratteristiche
seguendo sempre gli stessi percorsi che poi hanno ampliato nell’Ottocento.
A esemplificazione di ciò viene portato:
il caso di Qingtian, città di un’area montuosa della Cina del Nord che è un esempio delle
abitudini migratorie con finalità di commercio. Questa pratica ha coinvolto alcune
centinaia di venditori ambulanti provenienti dalla Cina che, attraverso la Russia, si
dirigevano verso Mosca e Berlino per vendere le pietre dure che erano l’unico prodotto
della loro terra nella seconda metà del XIX secolo. I Qingtian sono arrivati anche in
Italia, Germania, Russia e America del Nord. Queste migrazioni del Nord della Cina
sono completamente diverse da quelle del Sud in quanto sono individuali, basate su reti
e sul commercio e, quindi, sulla tradizione del colportage e sono all’origine dei
successivi insediamenti;
in Europa c’è stata anche questa cultura della mobilità e alcune reti migratorie trans-
oceaniche nascono proprio dalla cultura dei colporteurs che, come abbiamo già visto,
erano venditori ambulanti di libri, pietre, mercanzie varie delle aree montane. Su questa
scia si formano le catene di alcune categorie qualificate di lavoratori che già nell’ancien
regime percorrevano l’Europa. La punta massima di queste migrazioni si ebbe quando
in America si costruirono le ferrovie e le grandi infrastrutture e in Europa si costruirono
le ferrovie tra Europa orientale ed Asia, la Transiberiana e i grandi trafori alpini.
In base ai legami di lavoro si creano le catene migratorie che permettono agli emigranti di
risolvere i problemi di alloggio, trasporti e occupazione e tramite le informazioni vengono
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attirati laddove sono presenti più insediamenti. I lavoratori tramite queste informazioni possono
recarsi laddove il mercato del lavoro è migliore, possono conoscere le varie opportunità e le
leggi dei vari paesi e insediarsi stabilmente.
L esperienze che abbiamo esaminato hanno coinvolto persone di sesso maschile e ciò ha
determinato la “femminilizzazione” di quelle società da cui gli uomini erano emigrati e ha
prodotto una autonomia femminile tale che talvolta le donne hanno potuto gestire i patrimoni
familiari. Anche le donne però hanno partecipato a catene migratorie stagionali nonostante
queste siano state sottovalutate soprattutto perché mancano dati certi e spesso sono viste
nell’ottica di un semplice ricongiungimento familiare. Le donne invece hanno partecipato
attivamente alle migrazioni temporanee e non solo in base al life-cycle-servants. I movimenti
delle donne hanno interessato balie, domestiche e tessitrici ed erano presenti nel corso
dell’Ottocento e i primi del Novecento. Le donne sul confine alpino si recavano verso le
manifatture francesi, svizzere e austriache e hanno prodotto una informal work culture simile a
quella maschile. Erano donne di varia fascia di età tra cui emergevano le “maestre” che erano
le donne che organizzavano la mobilità e provvedevano a stipulare i contratti. Questo
movimento ha aperto la strada ad un inserimento duraturo nelle nuove sedi di lavoro.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Nel periodo tra le due guerre mondiali l’emigrazione ha assunto delle caratteristiche peculiari
completamente diverse, anche se già negli anni precedenti il primo conflitto si erano registrati
atteggiamenti premonitori che erano collegati alla formazione degli Stati Nazionali e alle
degenerazioni dei nazionalismi che hanno esacerbato e minato i rapporti internazionali e
accelerato gli avvenimenti che poi sfoceranno nella Grande Guerra. L’affermazione degli Stati
Nazionali, infatti, ha avuto ripercussioni sul mercato del lavoro nazionale e internazionale
anche a causa della realizzazione di apparati militari difensivi, della corsa alle colonie e alla
conseguente erezione di barriere protezionistiche. Tutto ciò ha determinato una differenza tra i
diritti economici e politici a favore dei propri sudditi e una discriminazione e atteggiamenti
xenofobi verso i lavoratori degli altri paesi.
Negli ultimi venti anni dell’Ottocento erano già state promulgate leggi che proteggevano gli
autoctoni e, nello stesso periodo, si erano registrati episodi di xenofobia che erano finiti nel
sangue e nelle stragi. Vediamo quindi che la difesa degli Stati Nazionali ha provocato:
discriminazioni dal punto di vista legislativo;
legittimazione della conflittualità tra le etnie;
normative a livello sovranazionale di difesa e controllo;
stipula di trattati e accordi tra i paesi interessati alle migrazioni che è diventata il tratto
distintivo dei paesi coinvolti nella guerra durante e dopo il conflitto.
La guerra, poi, ha generato cambiamenti che hanno inciso sia a breve termine sia a lungo
termine in quanto:
chi si trovava all’estero ha dovuto scegliere se tornare in patria e arruolarsi o restare
definitivamente nel nuovo paese;
i lavoratori, che si trovavano in paesi nemici a causa dei movimenti xenofobi o
dell’espulsione da parte delle autorità, sono stati costretti a fuggire;
si accentua la mobilità a causa di rimpatri o di migrazioni per sfuggire agli eventi;
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gli Stati europei per arruolare manodopera favoriscono la circolazione di forza lavoro
dall’Africa e dell’Asia con trattamenti e condizioni di vita molto discutibili. E elementi
distintivi di questo periodo sono la fuga, le persecuzioni e le migrazioni forzate;
la fine dei grandi Imperi in cui erano state tenute insieme etnie e nazionalità diverse
determina la ridefinizione delle frontiere così come stabilito dai trattati di pace e ciò
portò a nuove oppressioni e nuovi esodi. Si dice che la Grande Guerra in Europa ha
costretto ad abbandonare i territori europei cinque milioni di persone;
la migrazione di massa dei Tedeschi, dopo la firma del Trattato di Versailles, per
rientrare in Germania ha comportato l’allestimento di campi profughi;
nel 1923 con la fine della guerra tra Grecia e Turchia un milione e mezzo di Greci
abbandonano i territori insieme a quattrocentomila turchi;
la guerra civile in Russia provocò migrazioni di vastissima portata che coinvolgono
circa due milioni di persone;
gli Ebrei, vittime di persecuzioni e in fuga dalla Russia, hanno originato una diaspora.
Essi, però, sono stati perseguitati anche nel luogo d’arrivo e l’odio popolare si è
riversato proprio su di loro. In seguito a ciò si comincia a parlare di cittadini senza Stato
perché i Russi privavano gli emigrati della cittadinanza e nello stesso tempo non si
trovavano altri Stati disposti ad accogliere questi rifugiati e a riconoscerne i diritti.
Questo problema è stato affrontato nel 1921 dalla Società delle Nazioni ed è stato il
primo problema che questa ha affrontato.
Non possiamo non ricordare che durante la prima guerra mondiale sono state emanate delle
leggi che sono alla base della politica migratoria degli anni successivi.
C’è stato quindi un brusco calo delle migrazioni dovuto a:
le restrizioni legislative, già nel 1921 e poi nel 1924, in quanto gli USA avevano
emanato la Quota Act in cui si indicava la quota massima di migranti da ammettere
soprattutto di quelli provenienti dai paesi non più graditi come l’Italia;
la crisi del ’29;
la politica restrittiva e anti-migratoria del Fascismo messa in atto sia per il prestigio sia
per il potenziamento bellico. L’Italia poi come valvola di sfogo ha fato uso dei piani di
colonizzazione di alcune aree agricole e della colonizzazione dell’Africa.
Vediamo, quindi, che dopo trent’anni in cui si era adottato il liberismo e una circolazione
illimitata di merci e persone, tra le due guerre si ha un arresto soprattutto delle migrazioni trans-
oceaniche. Su questa restrizione ha influito molto anche la sempre più crescente xenofobia
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fomentata anche dagli scontri tra lavoratori autoctoni e stranieri, i regimi totalitari che hanno
generato paura e fatto emergere il problema degli stranieri. È fuor di dubbio che le nuove
politiche migratorie siano state condizionate dalla nuova percezione dello straniero non solo da
parte della popolazione ma anche da parte della classe dirigente. È radicata infatti la paura del
nemico interno, paura che durante la guerra aveva portato anche agli arresti degli immigrati.
Questa paura è aumentata anche in seguito alla Rivoluzione Russa e alla diaspora di militanti e
antifascisti dei regimi totalitari.
In America Latina erano convinti che gli stranieri erano portatori di idee eversive e ciò anche
in seguito al fatto che essi avevano organizzato scioperi a partire dai primi del Novecento per
ottenere miglioramenti salariali e degli orari di lavoro e anche tutela delle condizioni di vita. In
seguito alle tensioni sociali le classi dirigenti additavano come responsabili gli stranieri e, in
occasione delle agitazioni tra il 1916 e il 1919, si verificano episodi di xenofobia. La repressione
del governo contro gli agitatori è stata accompagnata da iniziative di gruppi di cittadini autori
di pogrom contro ebrei russi che venivano accusati di portare le idee bolsceviche.
L’Argentina e il Brasile, ad esempio, si sono posti il problema dei rapporti tra le varie etnie
degli emigrati e dei rapporti tra queste e gli autoctoni e hanno accentuato la loro convinzione
che gli immigrati dal momento che continuavano ad essere legati sempre più alle loro radici e
ai rapporti solo con la rete dei connazionali, rappresentavano un freno allo sviluppo economico
e, in conseguenza di ciò, hanno esercitato un controllo maggiore sugli immigrati soprattutto sui
gruppi minoritari.
Negli USA continuavano gli attacchi contro i Cinesi, ma cominciavano anche a svilupparsi
sentimenti ostili verso le nuove ondate migratorie dall’Europa. Questi nuovi immigrati erano
accusati di fare concorrenza ai lavoratori locali, di provenire da aree ritenute inferiori e di essere
eccessivamente politicizzati e sindacalizzati. Erano queste accuse prive di fondamento
soprattutto perché i nuovi immigrati erano richiesti per sostituire nelle mansioni dequalificate
gli immigrati delle ondate precedenti. Il fatto di essere inferiori era legittimato solo dalla
presunta superiorità degli Statunitensi per giustificare il loro razzismo che risorgeva con il Ku
Klux Klan nel dopoguerra. La politicizzazione e sindacalizzazione poteva al massimo essere
solo di alcuni elementi. Tutte queste accuse sono giustificate dalle discriminazioni che gli
immigrati sono stati costretti a subire dalle organizzazioni sindacali americane.
La xenofobia americana, nonostante il millantato melting pot nella decantata identità nazionale
frutto di un processo di fusione di varie etnie, porta alla caccia allo straniero già a fine Ottocento
e anche a processi ed esecuzioni che hanno avuto risonanza internazionale come l’ingiusta
condanna di Sacco e Vanzetti che vengono giustiziati ingiustamente nel 1927. Gli Stati Uniti
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non solo adottano misure restrittive ma intraprendono iniziative per combattere la diversità
etnica e avviano provvedimenti miranti alla americanizzazione attraverso organismi
assistenziali (i social workers) che miravano a un’educazione capillare soprattutto delle donne
per eliminare quei comportamenti che erano ritenuti distanti dal loro modello di vita. Questo
processo di americanizzazione è continuato fino agli anni Sessanta del Novecento quando si
cominciò a riconoscere la varietà delle etnie presenti nel paese.
Nel mondo del lavoro gli atteggiamenti xenofobi ebbero più spazio, qui, infatti, gli stranieri
venivano considerati intrusi, lavoratori di seconda categoria che accettavano paghe inferiori e,
in caso di scioperi, facevano azione di crumiraggio. Anche i sindacati non rappresentavano tutti
e l’unica organizzazione che accolse operai di tutte le etnie fu l’Industrial Workers of the World.
I sindacati non avevano nessuna intenzione di tutelare gli operai non qualificati e stranieri e
hanno escluso deliberatamente i lavoratori che provenivano dall’Asia, dall’Europa orientale e
dall’Europa meridionale e anzi hanno preso iniziative nei confronti degli immigrati e promosso
una politica restrittiva. Soltanto a partire dal primo quindicennio del Novecento negli scioperi,
soprattutto tessili sono stati coinvolti operai di diversa provenienza, ma era una novità isolata
perché in seguito alla grande depressione, dopo il crollo di Wall Street del 1929, la conseguente
disoccupazione colpisce soprattutto gli immigrati e nel 1932 molti Stati americani hanno
proibito l’uso degli stranieri nelle opere pubbliche tanto che, mentre nel 1908 nell’industria
dell’acciaio c’erano sei operai stranieri su dieci, nel 1938 il rapporto era di 1 a 10.
Anche in Europa ci sono stati casi di discriminazione e di feroci attacchi xenofobi, soprattutto
in Francia, causati dalla concorrenza tra stranieri e autoctoni e dagli effetti della crisi
internazionale. In Francia, però, già alla fine dell’Ottocento c’era un’atmosfera piena di
tensione perché i Francesi erano spaventati dalla concorrenza italiana e vedevano questa
presenza come un’invasine. Gli Italiani, poi, erano considerati tirannicidi e crumiri e contro di
loro misero in atto dei veri e propri attacchi e scontri sanguinosi soprattutto nelle città portuali
come Marsiglia e in altri centri minori della Francia meridionale. Un vero eccidio degli italiani,
di cui parleremo più diffusamente in seguito, ha avuto luogo nel 1893 nelle saline di Aigues-
Mortes. Nei periodi di crisi soprattutto i lavoratori stranieri diventano le vittime dell’opinione
pubblica e anche al Parlamento furono richieste misure restrittive non soltanto dai conservatori
ma anche dai radicali e perfino dalla Confederazione Generale del Lavoro, la più grande
organizzazione sindacale, si era schierata contro gli immigrati.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
A cambiare il volto dell’emigrazione nel periodo tra le due guerre mondiali è stata la nascita
dei regimi totalitari in Spagna, Italia e Germania che ha provocato una consistente diaspora di
nuovi soggetti a causa delle leggi liberticide. A queste motivazioni si devono aggiungere anche
quelle causate dalle persecuzioni etniche del nazismo che hanno costretto una moltitudine di
persone all’esilio e cioè oltre ai dissidenti politici tutti quelli che erano colpiti dalle leggi razziali
che avevano privato dei diritti elementari e della possibilità di esercitare la professione tutti
quelli che erano considerati appartenenti a una razza nemica inferiore. Queste persecuzioni e le
relative diaspore sono avvenute per ondate:
prima fase: a iniziare dal 1933, anno della vittoria di Hitler, sono fuggiti dalla Germania
i funzionari dei partiti socialdemocratici e comunisti a cominciare da Gennaio dopo lo
scioglimento dei sindacati e dei partiti politici;
seconda fase: inizia nel 1935 in seguito all’approvazione delle leggi di Norimberga
contro gli Ebrei che venivano così privati del diritto di cittadinanza e di matrimonio con
i Cristiani;
terza fase: inizia nel 1938 nel momento in cui sono cominciati i pogrom e si conclude
con lo scoppio della guerra del 1939 quando inizia lo sterminio programmato nei campi
di concentramento di sei milioni di ebrei, prigionieri politici, oppositori al regime e
zingari (da duecentomila a quattrocentomila).
Inizialmente, anche perché si pensava a un esilio temporaneo, i profughi si erano riversati in
Francia e questa prima ondata di esuli tedeschi era formata soprattutto da rappresentanti del
ceto medio. Di questi, infatti, l’8% erano operai e il 20% impiegati. C’erano molti
professionisti, intellettuali e uomini d’affari ma anche emigranti di origine polacca, russa, etc.,
cioè di quelli che appartenevano alle nazionalità che si erano rifugiate in Germania quando
erano fuggiti dall’Europa Nord-orientale e dai Balcani.
In seguito, quando si comincia a capire che l’esilio non era limitato nel tempo, i profughi si
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sono diretti in paesi diversi, un’ottantina circa. Gli Ebrei hanno raggiunto:
gli Stati Uniti per la maggior parte e, infatti, rappresentavano l’80% del flusso
migratorio;
l’Argentina;
la Gran Bretagna.
Tra questi gli esuli politici erano una minima parte e si sono diretti soprattutto in Francia, Gran
Bretagna ed Unione Sovietica.
In Italia, tra il 1922 e il 1937, sessantamila persone si sono rifugiate soprattutto nei paesi europei
in quanto pensavano che, essendo vicini all’Italia, avrebbero potuto lottare da clandestini. La
più importante sede di accoglienza è stata la Francia dove i dissidenti politici erano cominciati
ad arrivare già fin dal 1920 quando lo squadrismo fascista aveva cominciato a colpire
organizzazioni politiche e sindacali, ma anche singoli militanti. La Francia era un paese
democratico quindi l’opinione pubblica era favorevole e inoltre esisteva una rete di
connazionali che riusciva a organizzare queste migrazioni. Ciò dimostra che le catene
migratorie che erano state importanti nell’orientare le migrazioni per lavoro lo sono state anche
nell’organizzare la diaspora politica. Gli antifascisti emigrati in Francia sono stati intorno ai
ventimila e anche in questo movimento sono state individuate anche tre fasi:
1. nel biennio 1921-1922 ad andare in esilio sono stati soprattutto gli operai per sfuggire
alle violenze degli squadristi;
2. nel biennio 1924-1926 ad emigrare sono stati i leader dell’opposizione politica a
Mussolini;
3. nel biennio 1926-1927 a emigrare è stata una massa formata da cittadini che sfuggivano
al regime che aveva consolidato e istituzionalizzato la repressione.
Altra meta degli esuli italiani è stata l’America latina soprattutto l’Argentina, verso la quale,
sin dai tempi del Risorgimento, era iniziato un esodo politico. La maggior parte dei dirigenti
sindacali contadini ed operai si erano concentrati a Buenos Aires. Questi erano partiti senza
avere punti di riferimento e, in seguito, loro stessi hanno creato una catena migratoria: hanno
formato dei gruppi quali il gruppo di Alleanza Proletaria organizzato dai Piemontesi e nell’anno
dell’assassinio di Matteotti hanno fondato l’Unione Antifascista Italiana che raccoglieva
anarchici, socialisti, comunisti e repubblicani. Questi fuoriusciti Argentini hanno intrecciato
rapporti con il Brasile dove c’erano altri nuclei antifascisti italiani e con la Francia dove c’era
la più grande concentrazione di fuoriusciti che però era diversa da quella dell’America latina.
In America latina, infatti, soltanto dopo il delitto Matteotti le organizzazioni antifasciste hanno
elaborato dei programmi ben definiti.
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I fuoriusciti Italiani si sono diretti anche negli Stati Uniti d’America dove sono arrivati in diversi
momenti:
all’inizio degli anni ’30 vi si sono stabiliti i maggiori oppositori al regime tra cui
Gaetano Salvemini;
dal 1939 raggiungono gli USA militanti ed intellettuali italiani provenienti dalla Francia
dopo che c’era stata l’occupazione nazista del paese. Questi arrivati negli Stati Uniti
hanno dovuto fare capire ai connazionali, che avevano subito una grande propaganda
da parte del regime, la vera realtà del Fascismo e nello stesso tempo promuovere sia
presso il governo americano sia presso l’opinione pubblica la propria causa. Dobbiamo
precisare che il movimento italiano antifascista era numericamente ristretto,
frammentato e, quindi, non ha avuto una grande influenza sull’opinione pubblica
americana;
l’ultima ondata di antifascisti provenienti sempre dalla Francia ha provocato una
massiccia adesione di iscritti alle associazioni italiana antifasciste. Tra cui ricordiamo
la Mazzini Society fondata da Salvemini nel 1939.
I rifugiati politici provenienti dalla Spagna si erano riversati in Francia già durante la dittatura
di Primo Rivera tra il 1923 e il 1930. Dal 1936 aveva avuto inizio, però, un massiccio esodo
formato da tutti coloro che volevano fuggire dai combattimenti e che, quindi, si dirigevano
verso la frontiera dei Pirenei. Questa prima ondata di migranti era formata per la maggior parte
da Baschi che erano circa cinquantamila. La seconda ondata migratoria, invece, del 1939 era
formata da Aragonesi e Catalani. Di tutti questi fuoriusciti la maggior parte erano operai delle
industrie e un terzo di contadini e impiegati, la maggior parte dei quadri politici e sindacali e
gran parte degli intellettuali. Gli Spagnoli avevano scelto la Francia perché potevano contare
sugli immigrati che già vi si trovavano e sulla accoglienza che di solito la Francia riservava agli
esuli. Bisogna però dire chela crisi economica del 1938 aveva portato la Francia ad assumere
un atteggiamento ostile verso gli stranieri e, con molta difficoltà, concedeva il diritto di asilo.
Gli Spagnoli, infatti, vennero sistemati in alloggi di fortuna e i militari e i civili sbandati vennero
messi in veri e propri campi di concentramento.
Nel periodo della dittatura e durante la seconda guerra mondiale ci sono state anche molte
emigrazioni forzate che non sono collegate esclusivamente alla politica criminale dei regimi
autoritari, ma sono collegate alle migrazioni coatte che sono state una costante nella storia
dell’emigrazione come ad esempio le migrazioni degli Americani alla conquista del West e così
via. Nel corso della seconda guerra mondiale intere popolazioni scappavano davanti
all’avanzare dell’occupazione militare tedesca. Questi movimenti di militari e civili sono stati
28
molto più consistenti di quelli che avevano avuto luogo durante la prima guerra mondiale
perché tra il 1939 e il 1943 hanno coinvolto il 5% della popolazione. È stato stabilito che si è
spostata una massa di otto milioni di persone di cui sei milioni di civili e due milioni di militari,
a riprova anche dell’efferatezza del progetto di Hitler che voleva sostenere l’economia di guerra
con il lavoro forzato dei paesi occupati.
Inizialmente, in seguito agli accordi fatti con Mussolini, l’Italia aveva fornito dei lavoratori, ma
nel 1939 questa pratica ha assunto caratteristiche di migrazione forzata.
Bisogna precisare che Hitler aveva elaborato un piano di ristrutturazione politico-etnico-
razziale dell’Europa per il quale aveva costituito un Commissariato del Reich per il
consolidamento delle zone alla cui guida aveva posto Himmler. Questi doveva:
fare rientrare in Germania i cittadini tedeschi che si trovavano all’estero;
eliminare l’influenza perniciosa delle popolazioni estranee alla razza ariana;
creare, attraverso trasferimenti, nuove aree di colonizzazione tedesca mediante
l’insediamento di cittadini tedeschi ed elementi di nazionalità germanica rientrati
dall’estero.
Il piano di trapianto delle popolazioni indesiderate con popolazioni di origine tedesca è
facilmente collegabile all’internamento e all’eliminazione fisica degli Ebrei prelevati da tutti i
ghetti d’Europa e trasportati nei campi di concentramento per essere eliminati. Per Hitler gli
Ebrei erano all’ultimo posto della “scala delle razze” e, quindi, dovevano essere eliminati,
mentre al penultimo posto c’erano Slavi, Russi, Ucraini, Polacchi, Gitani e Zingari. I lavoratori
polacchi, dunque non dovevano essere eliminati ma ridotti in schiavitù dopo averne annientato
l’identità nazionale e culturale attraverso l’eliminazione fisica di dirigenti, intellettuali e
borghesi. Del popolo polacco dovevano essere mantenuti in vita solo operai e contadini che
dovevano essere asserviti. I lavoratori polacchi venivano deportati in Germania e, inseguito,
venivano anche reclutati lavoratori dai paesi conquistati tanto che, nel 1944, un terzo della
manodopera tedesca occupata nelle campagne e nelle miniere era straniera. Molti sono stati
anche utilizzati in operazioni militari in seguito alla formazione di divisioni volontarie delle SS
formate da Danesi, Francesi ed Europei del Sud Est. Come abbiamo già detto Hitler aveva
progettato il trasferimento di intere popolazioni tedesche che avrebbero dovuto abbandonare i
territori per andare a vivere nei paesi occupati sostituendosi agli abitanti del luogo.
29
MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Con la fine della seconda guerra mondiale si assiste a un cambiamento nella composizione dei
flussi migratori. Precedentemente, infatti, erano costituiti da individui che si spostavano per
ragioni soprattutto politiche, ora, invece, sono costituiti dai prigionieri di guerra che tornano a
casa. Il numero degli individui che si sposta è molto consistente, basti pensare che i prigionieri
italiani in mano a Francesi, Inglesi e Americani erano un milione e mezzo tanto che questo
enorme numero ha fatto in modo che l’Italia chiedesse a queste nazioni che queste persone
fossero trattenute come emigrati per evitare che andassero ad aumentare le fila dei disoccupati.
L’Unione Sovietica, invece, chiese agli USA e alla Gran Bretagna il rimpatrio forzato dei
prigionieri, cosa che ottenne.
Fino agli anni Cinquanta c’è stato un gran movimento di profughi e rimpatri. È stato, infatti,
calcolato che, tra il 1939 e il 1949, quarantacinque milioni di persone si sono mosse: deportati
nazisti e stalinisti, rimpatriati e intere popolazioni che erano state costrette ad abbandonare i
territori. Il rimpatrio di questi profughi ha costituito un problema che ha diviso i paesi
occidentali e l’Unione Sovietica e messo in essere alcune tensioni che saranno alla base della
guerra fredda.
Le potenze occidentali, proprio in seno all’ONU, tendono a rispettare i diritti umani dei
profughi, l’URSS, invece, ne reclama il rientro immediato anche se forzato. In seguito a ciò gli
Stati Uniti nel 1948 emanano il Displaced Persons Act. A questo punto sembra opportuno
riflettere su due termini che vengono coniati dalla politica internazionale:
con il termine rifugiati si indicano le persone che sono state costrette ad allontanarsi
dalla propria terra perché perseguitate dalla politica corrente o per timore di esserlo e
che non vogliono e non possono ritornare in patria;
con displaced person si intendono coloro che per ordine delle autorità, alla fine della
guerra, si trovano in paesi diversi dal proprio e a causa delle disposizioni dei paesi
belligeranti non possono tornare in patria.
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Questa, però, non è una distinzione netta in quanto le displaced person che si rifiutano di
rientrare in patria per timore di essere perseguitati rientrano nella categoria dei rifugiati. Questa
distinzione è stata fatta soprattutto alla fine della seconda guerra mondiale in riferimento ai
profughi russi che si erano allontanati dalla patria dopo la rivoluzione del 1917.
Con l’emanazione del Displaced Persons Act gli Stati Uniti intendono programmare piani di
immigrazione. Dobbiamo intanto precisare che nei paesi dell’Est l’emigrazione è considerata
un crimine contro lo Stato tanto che viene eretto nel 1961 il Muro di Berlino per impedire la
fuga delle persone. In seguito all’erezione del muro gli Stati Uniti hanno varato dei
provvedimenti in cui i profughi che venivano dai paesi oltre la cortina di ferro venivano
considerati rifugiati politici. In seguito a ciò si sono trasferiti negli Stati Uniti quattrocentomila
rifugiati così come è avvenuto anche in altri Stati che avevano aperto le frontiere varando dei
provvedimenti ad hoc. In Argentina, inoltre, viene creata l’Organizzazione Internazionale dei
Rifugiati e vi arrivano trentatremila profughi.
Alla fine della seconda guerra mondiale c’è stato grande flusso migratorio verso le colonie
ebree in Palestina dove nel 1948 viene costituito lo Stato di Israele nei territori della Palestina.
Bisogna precisare che l’insediamento degli Ebrei in Palestina in seguito alla Shoah non fu la
causa della formazione di questo Stato in quanto questa va ricercata alla fine della prima guerra
mondiale. L’insediamento degli Ebrei in terra di Palestina, come abbiamo detto, non è avvenuto
solo a causa delle persecuzioni naziste, ma il flusso migratorio risale alla fine del Settecento e
inizio Ottocento in seguito alle persecuzioni degli Ebrei soprattutto nell’Est europeo e nella
Russia zarista dove è stato molto esteso e feroce il fenomeno dei pogrom, cioè dei saccheggi,
devastazioni e violenze.
Nella prima metà dell’Ottocento in terra di Palestina erano già presenti cinquantamila Ebrei che
si erano insediati in queste terre in seguito all’acquisto da parte di alcuni finanziatori di terre
che poi venivano affidate ai coloni Ebrei e alla manodopera locale. Nel 1901 vennero
acquistate, poi, altre terre ad opera del Fondo Nazionale Ebraico che hanno aumentato il
fenomeno della colonizzazione in Palestina dove si cominciano a costruire anche centri abitati:
nel 1909 fu costruita Tel Aviv, e il numero dei migranti ha continuato a lievitare.
Ci sembra opportuno soffermarci un po’ e vedere come è sorta la questione palestinese che non
ha permesso ancora di raggiungere la pace. Nel Maggio del 1948 Ben Gurion unilateralmente
dichiara la nascita dello Stato di Israele. L’idea di questo Stato era nata:
nel 1917 quando, in seguito alla prima guerra mondiale per effetto della spartizione dei
territori, la Palestina passò dalle mani dei Turchi agli Inglesi;
la Dichiarazione di Balfour (1917), appoggiata dagli Inglesi con cui si esprime la
31
volontà della “fondazione di una Madre Patria ebraica in Palestina”, dichiarazione che
i Palestinesi definiscono dichiarazione della vergogna;
la nascita, ad opera di Theodor Herzl in Svizzera nel Congresso di Basilea, del
Movimento Sionista per la creazione di uno Stato ebraico in Palestina del 1897. Il
Sionismo, propagato da Herzl, promuove un’idea politica-religiosa del ritorno alla terra
dei padri e a Sion, il colle di Gerusalemme.
Naturalmente la fine della guerra e l’Olocausto avevano cambiato gli equilibri e avviato
processi di decolonizzazione in Medio Oriente e, quindi, il disimpegno degli Inglesi nei
confronti della Palestina così come quello dei Francesi nei confronti della Siria. Gli USA fanno
propria l’idea sionista e viene affidata all’ONU la gestione della questione palestinese.
Nella nostra trattazione più che la storia e le problematiche connesse alla fondazione e alla
legittimazione dello Stato di Palestina, interessano le migrazioni dal punto di vista storico ma
anche dal punto di vista delle traversie e dell’impatto che hanno suscitato non solo nei profughi
ma anche nell’opinione pubblica. Ci sembra interessante ripensare a Brecht che nell’Abicì della
guerra ha raccontato la seconda guerra mondiale per immagini. Questo racconto è stato
realizzato con ritagli di giornali e di riviste dell’epoca incollate su sfondo nero e accompagnate
da un ‘epigramma. Egli inventa così l’epigramma fotografico realizzando un atlante di
fotografie di sessantanove tavole, sono fotografie di personaggi che vogliono catturare le
vicende del secondo conflitto mondiale dal riarmo della Germania alla sconfitta di Hitler. Con
queste fotografie Brecht vuole produrre lo stesso effetto di straniamento che ha voluto suscitare
con le liriche e il teatro. La prima e l’ultima tavola riproducono Hitler su un pulpito. Citiamo
ora l’analisi di Boffi della tavola 48:
“A commentare la tavola 48 dovrebbero essere le cronache stesse dei nostri tempi, che vi rifrangono
gli eventi da cui ho preso le mosse in questo saggio. Senza aggiungervi altro. La riproduzione
fotografica mostra dall’alto, quasi a mezza figura, una madre che sembra supplicare qualcuno, con lo
sguardo e la bocca semiaperta, mentre tiene in braccio un bambino di un paio di anni circa. Il testo che
accompagna in didascalia originaria la foto questa volta non è breve ma vale la pena riportarlo per
intero:
Rifugiati senza rifugio. Questa madre ebrea e il suo bambino sono stati ripescati dal mare insieme con
180 altre persone, che cercavano rifugio in Palestina. Ma 200 sono annegate quando il Salvator si
sfracellò contro le coste rocciose della Turchia, il Salvator non era la prima nave. La Patria esplose
con a bordo 1771 persone. La Pentcho si incagliò con 500 su un’isola italiana. La Pacific fu costretta,
con 1062 profughi, a proseguire il viaggio senza sbarcare in Palestina e la stessa sorte toccò alla Milos
con 710. A parte l’odissea dei 500 ebrei su una nave che fu rimandata di porto in porto per quattro
32
mesi. Vengono da tutte le parti d’Europa, ammassati come bestie su carrette incapaci di tenere il mare.
Dove possono andare, questi sette milioni di ebrei europei? La quota di immigrazione in Palestina ne
prevede 12.000 all’anno. Le navi da carico e per il bestiame portano un carico nuovo, una nuova specie
di contrabbando umano. Nell’ultimo anno 26.000 persone sono state introdotte clandestinamente in
Palestina. Ma che ne sarà dei sette milioni? Il bambino può giocare con il suo piede - si sente a casa in
braccio alla madre. Non sa che suo padre è annegato nel mare di Marmara. Solo la madre sa che la
morte per annegamento in vista della costa è doppiamente atroce.”
L’epigramma di Brecht suona: “E molti di noi affondarono nei pressi / delle coste, dopo lunga notte,
alla prima aurora / Verrebbero, dicevamo, e solo sapessero. / Che sapevano noi non lo sapevano
ancora”.
“Sappiamo che lo sanno”, ora: gli uni e, di contro, gli altri. Come potremmo fare? Come agire?
Non aspettare l’evento senza esercitarvi passioni e ragioni dei corpi, dei gesti anche minimi. Forse
Brecht non aveva tutti i torti nell’accusare il processo rivoluzionario benjaminiamo di misticismo; forse
Benjamin non aveva tutti i torti nel criticare l’eccessiva fiducia brechtiana nella dialettica.” (Boffi,
2014, pp. 307-308)
Israele è la terra promessa. Il popolo ebreo, senza alcuno Stato in cui avvengono le relazioni
effettuali, senza vivere alcun rapporto di potere aveva avuto la sola certezza della diaspora e
della sua narrazione nella quale ha proiettato la nazione, la sua storia e i suoi sistemi culturali.
La terra promessa per gli Ebrei è la percezione del paesaggio immaginato, costruito e
desiderato. In questo spazio la moltitudine cammina sperando o disperando di arrivare, di finire
l’esilio ricordando la propria storia e le proprie origini. È uno spazio pieno di una moltitudine
di migranti che immagine di essere una nazione. Possiamo dire che l’Antico Testamento,
l’Odissea, l’Eneide, le saghe, le epopee africane e chanson de geste diventano i libri dell’esilio.
33
MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
La fine della seconda guerra mondiale è stata accompagnata dalla fine dei grandi imperi
coloniali e dal loro progressivo smembramento attraverso un processo di decolonizzazione che
ha interessato prima l’Asia e poi l’Africa e l’America latina. Questo è stato un evento epocale
che ha sconvolto l’organizzazione politica e fisica, soprattutto dell’Africa ma anche di altre
realtà e ah avuto come effetto nuovi e imponenti flussi migratori e ha innescato guerre e
conflittualità che ancora oggi continuano e sono alla base dei movimenti migratori
contemporanei. Bisogna ricorda che, come afferma Yacono, nel volume di Villari (1971) gli
effetti del colonialismo sono stati molteplici. La colonizzazione, infatti, ha fornito alla
popolazione europea dei capitali tali da risvegliarla dal torpore in cui si trovava. Ciò ha avuto
come conseguenza un’esplosione economica e demografica che ha fatto sì che l’Europa
abbandonasse il suo ruolo che era pari a quello di un paese del Terzo Mondo.
In queste migrazioni possiamo individuare tre movimenti:
1. quello che ha interessato soprattutto gli Europei: coloni, militari e funzionari che erano
andati nelle colonie per prestare servizio;
2. quello che ha interessato la popolazione nativa che, dal momento che aveva collaborato
con il governo, temeva ritorsioni e, quindi, aveva deciso di abbandonare il paese;
3. i profughi in seguito allo smantellamento dell’Impero e alla ridefinizione dei confini dei
vari Stati che avevano prodotto guerre civili.
Gli effetti della decolonizzazione sono stati molteplici e soprattutto hanno determinato un
capovolgimento nella rotta delle migrazioni: dal 1492 fino alla seconda guerra mondiale i flussi
migratori erano diretti dall’Europa, considerata il centro del sistema mondiale costituito, verso
le periferie cioè Asia, Africa, America e Oceania; ora, invece, il movimento migratorio si
muove dalle periferie al centro in cui è inserita anche l’America. Questo periodo è caratterizzato
da:
formazione di due grandi blocchi politici, economici, ideologici e militari in
34
contrapposizione;
fine dei grandi Imperi coloniali e corsa all’indipendenza e alla autonomia da parte delle
ex colonie;
formazione dello Stato di Israele e conseguenti conflitti in Palestina e Medio Oriente;
rivoluzioni sociali nei paesi del Terzo Mondo prima in Asia e poi Algeria in Africa e
Cuba in America;
cambio della direttrice dei flussi migratori dalle periferie verso il centro, cosa che viene
considerata come un effetto della decolonizzazione e non come continuazione dei flussi
migratori.
Nell’ondata migratoria avvenuta in seguito alla seconda guerra mondiale si possono individuare
tre momenti:
1. 1940-1975, in questa fase sono coinvolti circa sette milioni di persone, cioè tutti quelli
che avevano abbandonato l’Europa alla fine dell’Ottocento ma che avevano mantenuto
contatti con le madrepatrie e, quindi, è caratterizzato dal rientro in:
Gran Bretagna dall’India, Kenya e Malesia;
Olanda dall’Indonesia;
Belgio dal Congo;
Francia dal Nord Africa;
Portogallo dall’Angola e Mozambico;
Italia dalla Somalia, Eritrea, Libia ed Etiopia.
Le migrazioni indigene dei collaborazionisti hanno le stesse caratteristiche sia come
direttrici sia come scansione temporale, ma, a differenza di chi tornava nella
madrepatria, hanno incontrato difficoltà in quanto:
si ripropongono i rapporti di subordinazione economica che c’erano nelle
colonie;
diventano vittime di episodi di razzismo,
vengono discriminati anche dal punto di vista giuridico;
Gran Bretagna e Francia cominciano a emanare provvedimenti restrittivi.
Per quanto concerne il terzo tipo di migrazioni post-coloniali, cioè quelle dei profughi,
che sono determinate dalla nuova configurazione geopolitica derivante dalla
delimitazione di nuovi confini e frontiere, queste si estese a macchia d’olio in Asia,
Africa e America. A causa, infatti, della cessazione dei vincoli coloniali gli Stati
indipendenti nelle ex colonie sono aumentati vistosamente per cui:
35
in Asia il numero degli Stati indipendenti si quintuplica;
in Africa dove nel 1939 c’era un solo Stato indipendente a fine decolonizzazione
ce ne sono cinquanta;
nei paesi americani, dove nell’area latino-americana c’erano venti repubbliche
ora se ne aggiungono altre dodici.
Bisogna riflettere sul fatto che nel momento di tracciare le frontiere dei nuovi Stati sono
stati adottati criteri diplomatici e non si è tenuto conto della storia dei popoli coinvolti,
della loro situazione pre-coloniale e della loro connotazione etica e religiosa. Tutto ciò,
infatti, sarà alla base dei conflitti che ancora continuano derivati da scelte strategiche ed
economiche delle grandi potenze e anche dai contrasti tra USA e URSS durante la
guerra fredda che hanno generato migrazioni:
intercontinentali, che sono quelle conseguenti alle espulsioni (push factors) nei
paesi di esodo dovute a crisi politiche ed economiche che hanno accompagnato
la decolonizzazione sfociate in conflitti (India-Pakistan), violenze in Africa
(prima e dopo l’indipendenza Kenya e Uganda), fughe verso Hong Kong (che
rimane colonia inglese fino al 1997) e verso il Belgio (scontro tra Rwanda e
Burundi);
continentali, quelle che, invece, sono frutto di attrazione (pull factors) dei paesi
di approdo: richieste di manodopera per la ricostruzione post-bellica. Quasi tutti
i paesi dell’Europa meridionale si muovono verso l’Europa centro settentrionale.
Un esempio delle migrazioni dipendenti dalla decolonizzazione, connesso a guerre
etniche e di religione, è il caso dell’India che era ritenuta il fiore all’occhiello delle
colonie inglesi. Alla fine della colonizzazione c’è stato uno “scambio di popolazione”
che ha interessato milioni di persone musulmane e indù. Qui, nel 1947, in seguito alle
spartizioni e ai conflitti etnico-religiosi, circa sei milioni di musulmani si sono trasferiti
in Pakistan, uno stato di nuova formazione musulmano, e i non musulmani di egual
numero sono passati, invece, nell’Unione Indiana. In seguito all’indipendenza birmana,
circa cinquecentomila persone di religione indù si sono spostate nell’unione indiana.
In Africa il processo di decolonizzazione avviene più tardi e questo processo è stato
accompagnato da guerre e conflitti molto più devastanti in quanto le etnie erano molto
frammentate e suddivise nei vari Stati e quindi:
la mescolanza di etnie,
le differenze religiose, linguistiche e culturali che non avevano una storia
36
plurisecolare come in Asia,
hanno portato a migrazioni costanti anche perché fomentate dalle potenze a causa delle
nuove risorse minerarie individuate negli ex possedimenti per cui si ingeriscono
nuovamente. Ad esempio, la Nigeria aveva avuto l’indipendenza nel 1960 in seguito si
è rivelata un territorio ricco di giacimenti petroliferi. Il paese, che aveva raggiunto
l’autonomia in modo molto pacifico, dopo un decennio, a causa della costituzione dello
Stato del Biafra sostenuto da un gruppo di Cristiani con l’ingerenza delle compagnie
petrolifere, è stato teatro di una guerra che ha generato milioni di morti e profughi.
In tutti i territori ex coloniali ci sono stati movimenti di profughi che si sono intrecciati
con migrazioni di lavoro e migrazioni economiche promosse da alcuni stati del Terzo
Mondo a causa del sovrappopolamento che è uno dei problemi endemici di quelle aree.
Ad esempio, nel 1949 sono state trasferite migliaia di famiglie dall’isola di Giava alle
altre isole meno popolate dell’arcipelago come Sumatra. In Cina, dopo la vittoria
comunista del 1949, le autorità hanno spostato uomini, donne e intere famiglie a
secondo della pressione demografica o verso le campagne o verso le città. Inizialmente
quando si voleva seguire l’industrializzazione lo spostamento era indirizzato verso la
città, ma nel momento in cui le città diventavano sovraffollate sono state indirizzate
verso la campagna. Durante la rivoluzione culturale degli anni Sessanta i movimenti
migratori sono stati indirizzati sia verso le campagne sia verso la città. Possiamo
affermare che le conseguenze del nuovo assetto mondiale generato della
decolonizzazione sono state ingenti a causa di tre fenomeni che saranno la costante delle
migrazioni:
dissoluzione di vecchie potenze e costituzione di nuovi Stati;
conflitti interetnici;
esplosione demografica dei paesi del Terzo Mondo.
2. 1973-1992, questa fase è caratterizzata dalla crisi petrolifera del 1973-1974 che ha
portato all’aumento del costo del lavoro nel Nord del mondo. I paesi hanno chiuso le
frontiere, si sono verificate colpi di Stato in Cina e Argentina.
3. 1992-fino ai primi decenni del nuovo secolo, questa fase è caratterizzata da ripresa
economica, dal crollo del muro di Berlino, dalla crisi dell’Unione Sovietica, dalla
formazione dell’Unione Europea, dalla crisi dei Balcani, dall’attentato alle Torri
Gemelle e dalla guerra al terrorismo. Un evento molto importante è il crollo del muro
di Berlino nel 1989 e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica del 1991 che hanno
comportato massicci spostamenti all’interno della CSI (Confederazione degli Stati
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Indipendenti) in cui sono raggruppati dodici delle quindici entità autonome e che ha
coinvolto nove milioni di persone escludendo quelli che si sono spostati per motivi
economici e i militari rimpatriati.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo visto che c’è stato un grosso flusso migratorio in
seguito alla decolonizzazione degli Imperi coloniali. Questa migrazione però si intreccia con
altri flussi migratori transoceanici originati dal rilancio dell’economia nei paesi occidentali e
ha interessato in modo particolare Italia e Germania.
L’Italia e la Germania erano i paesi che avevano perso la guerra e, quindi, nelle loro terre c’era
crisi economica e sociale e disoccupazione. Per la maggior parte dei casi la direttrice migratoria
di questi spostamenti era l’America latina e l’Oceania che erano i paesi verso cui la precedente
emigrazione era stata poco interessata. Questo fenomeno migratorio, anche se molto
consistente, non ha raggiunto i numeri della migrazione precedente del 1914. Molti migranti
ora vi si recavano autonomamente, altri invece erano aiutati da Organizzazioni internazionali
per i rifugiati, che sono state poi sciolte nel 1951. Alcuni si dirigevano in USA, Canada e
Australia e il contingente più numeroso era quello formato dagli Italiani. Abbiamo già detto
che la meta preferita era l’America meridionale che, non avendo partecipato al conflitto, aveva
avuto un’espansione economica soprattutto per quanto concerne l’Argentina, il Brasile e
l’Uruguay.
A migrare non erano più solo gli appartenenti al mondo rurale, ma soprattutto erano
commercianti, impiegati e professionisti, tra cui si mescolavano i nazisti che avevano compiuto
gli efferati crimini di guerra e venivano aiutati in questa migrazione da organizzazioni
compiacenti e reti di militari. Molti responsabili degli eccidi saranno scoperti e processati i
primi in Israele e, poi, negli altri Stati.
A metà degli anni Cinquanta la migrazione verso l’America meridionale si era ridotta perché
c’era un ritorno all’economia basata sulle esportazioni delle materie prime, ritorno che era stato
causato da crisi economiche e sociali che erano sfociate in rivolte militari e in dittature che
avevano effettuato sanguinose repressioni. La migrazione in questo periodo continua ma
coinvolge soprattutto tecnici e dirigenti.
La migrazione verso gli USA e l’Oceania riprende soprattutto a causa degli allentamenti dei
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vincoli legislativi. In Australia sono ancora vietate le migrazioni dall’Asia, ma viene aperta la
migrazione agli Europei.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra, la migrazione in USA ha coinvolto per il
60% gli Europei, ma in seguito ha interessato anche i paesi extraeuropei spinti all’emigrazione
dai problemi economici e demografici endemici del terzo mondo, e anche dall’allentamento dei
vincoli migratori. Gli USA, infatti, avevano abolito la politica delle quote degli emigrati asiatici,
che durante la guerra erano stati discriminati e i Giapponesi, infatti, che nei primi del Novecento
si erano insediati nelle Little Tokyo a Los Angeles, San Francisco, Seattle e Chicago vennero
rinchiusi, insieme ad altri immigrati, in campi di concentramento dopo Pearl Harbour. Dopo le
leggi del 1960 sono rientrati negli USA popolazioni provenienti dal Giappone, dalla Corea,
dalla Cina e dal Vietnam che insieme agli Africani costituivano il 12% della popolazione
immigrata, mentre il 52% era formata dalle popolazioni latino-americane. In questo momento
si delinea quella che sarà la costante delle recenti migrazioni.
Dobbiamo puntualizzare che l’immigrazione dall’Europa era diminuita soprattutto per quello
che viene definito il miracolo economico che ha comportato:
la trasformazione economica di alcuni paesi;
l’emergere di nuovi poli di attrazione di manodopera dei flussi migratori.
Le migrazioni di lavoro all’interno dell’Europa sono ricominciate nell’immediato dopoguerra
anche a causa:
della ricostruzione delle città che avevano subito bombardamenti devastanti e che
avevano bisogno di lavoratori edili e i paesi vincitori utilizzavano i prigionieri che in
questo modo venivano trasformati in lavoratori liberi;
dell’allargamento dei diritti ai Francesi delle colonie e dell’agevolazione della
circolazione all’interno dei domini coloniali per attrarre manodopera;
della stipula di contratti tra Francia e Italia che vengono ripetuti nel tempo per favorire
l’immigrazione di lavoratori con una cultura più vicina alla propria;
delle nuove esigenze produttive in Francia che si manifestano alla conclusione della
ricostruzione bellica avvenuta intorno agli anni Cinquanta. In Francia si verifica uno
slancio della produzione che porta:
al calo della disoccupazione;
alla redistribuzione dei consumi;
al miglioramento del tenore di vita.
In Europa, come abbiamo già accennato si assiste al miracolo economico perché i paesi europei
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tra gli anni 1950-1960 recuperano e superano i livelli economici che avevano precedentemente
superando anche gli Stati Uniti per vari motivi:
stabilità monetaria;
stimoli all’industrializzazione che provenivano sia dalle politiche economiche
nazionali sia dagli aiuti internazionali;
nascita del mercato economico europeo.
Ciò ha comportato la necessità di forza lavoro che viene richiesta ai paesi europei che ancora
non avevano raggiunto questi livelli come l’Italia. Gli immigrati meridionali contribuiscono al
mercato del lavoro dei paesi dell’Europa settentrionale e tra i paesi dell’Europa che vengono
esclusi sono quelli che hanno regimi totalitari quali la Spagna franchista, il Portogallo di Salazar
e i paesi dell’Est.
L’Italia ha tratto vantaggio dalle emigrazioni perché:
era uno sfogo per le tensioni sociali prodotte dalla disoccupazione;
permetteva un controllo politico della conflittualità sociale;
favoriva la disponibilità finanziaria dello Stato;
diventava moneta di scambio per ottenere dall’estero le materie prime.
Gli Italiani cominciano a emigrare in maniera massiccia in Francia, nelle aree minerarie in
seguito ad accordi con il Belgio, la Svizzera, la Gran Bretagna e la Cecoslovacchia. Negli anni
Cinquanta c’erano nei paesi del MEC (Mercato Economico Europeo), che si era costituito nel
1957, il 50% degli immigrati italiani e l’Italia, all’interno del circuito comunitario, aveva il
ruolo di esportatore di forza lavoro.
Innanzitutto dobbiamo soffermarci a riflettere sul ruolo che le migrazioni mediterranee hanno
svolto:
sullo sviluppo del paese;
sulle dinamiche interne alla società di partenza.
Abbiamo già detto che le motivazioni all’esodo erano determinate dallo scarso sviluppo
economico di cui sono responsabili:
l’arretratezza della società agricola;
la diversità tra la condizione urbana e quella rurale sia dal punto di vista dell’economia
sia da quello dei servizi.
E quanto detto ha spinto gli abitanti delle zone rurali a cercare miglioramenti delle condizioni
di vita. Ciò premesso ci sembra opportuno esaminare l’effetto che queste migrazioni hanno
prodotto sull’economia e sulle società mediterranee. La chiusura delle frontiere produce un
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effetto non desiderato sull’economia dei paesi degli emigranti in quanto vengono meno le
rimesse degli emigranti che erano servite a riequilibrare i rapporti con l’estero e a finanziare il
decollo industriale nord occidentale con il contributo dei contadini delle zone arretrate.
Studi recenti hanno evidenziato la corrispondenza tra l’intensità dell’emigrazione e gli introiti
delle rimesse e la crescita economica. Le rimesse non hanno avuto un esito positivo sulla società
e le dinamiche sociali perché:
non viene eliminata l’arretratezza;
permane la disuguaglianza delle distribuzioni fondiarie e gli squilibri territoriali;
non ci furono nuovi impulsi nella vita economica dei luoghi di partenza;
gli emigrati che tornavano tendevano a integrarsi nei centri urbani e a dedicarsi ad
attività autonome in quanto avevano acquisito nuove abitudini all’estero;
vengono incrementate le aree di servizi che già erano in via di sviluppo.
Nell’Italia meridionale, come in Grecia, Spagna, Portogallo e Turchia, il ritorno nei paesi di
origine degli emigranti non fu da stimolo alla produttività, ma aumentò l’urbanizzazione, i
servizi, le costruzioni e non l’industria.
Questi problemi che abbiamo accennato sono problemi di tutte le realtà urbane del pianeta e
che sono gli stessi problemi che hanno provocato le immigrazioni contemporanee.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
La crisi del petrolio del 1973 ha comportato l’aumento del prezzo del petrolio, l’aumento
dell’inflazione e i limiti alla migrazione, anche se già in alcuni paesi erano stati fissati dei limiti
all’immigrazione della manodopera (Svizzera, Germania, Francia e Benelux). Ha innescato,
inoltre, una recessione che ha portato a:
il calo di richiesta di manodopera ai fini dell’immigrazione motivato soprattutto dalla
paura che gli stranieri una volta giunti si sarebbero insediati nel territorio e avrebbero
pesato sul welfare;
la maggiore presenza di gruppi di religione musulmana extraeuropea: in Francia gli
Algerini erano diventati il secondo gruppo in quanto a “consistenza” di immigrati e
questo ha suscitato fenomeni di xenofobia, aumento dei Turchi in Germania e in Gran
Bretagna, dove gli stranieri erano entrati in virtù della libera circolazione dei residenti
nel Commonwealth e hanno avuto inizio reazioni xenofobe verso il colored people che
si era insediato nelle città, nelle zone che la classe media aveva abbandonato.
Non appena sono iniziati i provvedimenti restrittivi si sono intensificati i fenomeni migratori
per paura del loro aumento e, siccome era previsto per il turn over nel lavoro il
ricongiungimento familiare, questo si è intensificato a tal punto che la Francia dava incentivi a
chi tornava a casa.
In questo periodo, quindi, si ha:
la contrazione numerica del fenomeno migratorio;
il mutamento del profilo demografico e occupazionale e aumento della disoccupazione;
l’assunzione da parte dei paesi fornitori di materia prima occupazionale di un ruolo
strategico e, quindi, formazione di nuovi poli di attrazione per cui alcuni paesi adottano
provvedimenti per favorire l’occupazione, altri (Marocco, Tunisia, Portogallo e
Jugoslavia) cercano di dirottare le migrazioni verso paesi che avevano necessità di
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manodopera soprattutto collegati alla produzione del petrolio;
un cambiamento del ruolo del Medio Oriente che diventa polo di attrazione e richiede
manodopera per le grandi opere infrastrutturali. Vi migrano soprattutto Arabi, Egiziani
e Palestinesi e, dopo il 1973, i paesi del Golfo avviano opere infrastrutturali grandiose
e gli immigrati sono occupati in vari settori di attività. La maggior parte di essi
proveniva dai paesi asiatici sempre per il fatto che avevano richieste di salario molto
basse. Negli anni Ottanta, quando la produzione petrolifera è scesa, si cominciano a
selezionare gli immigrati in base alla nazionalità, professionalità e settori di
occupazione.
Prima di affrontare il problema delle ondate migratorie che hanno interessato l’Europa e hanno
trasformato l’Italia da paese di emigranti a paese di immigrati, è bene delineare le caratteristiche
dei movimenti migratori negli ultimi venti anni dell’Ottocento e soffermarci anche su alcuni
documenti che testimoniano il modo in cui venivano trattati gli italiani quando emigravano sia
in Europa sia oltre oceano.
Nell’ultimo ventennio del Novecento si verificano cambiamenti nell’economia e nella politica,
che hanno avuto ripercussioni sui processi migratori. Essi hanno cambiato le direttrici di questi
flussi e le relative traiettorie, hanno ampliato la dimensione di questi flussi e ne hanno cambiato
anche la composizione professionale, etnica e religiosa. Questi mutamenti intervenuti alla fine
del Novecento si possono così sintetizzare:
le nuove restrizioni nelle politiche migratorie dei principali paesi verso cui si dirigono
tali flussi;
il passaggio da una società industriale a una società post-industriale;
il crollo politico-economico del sistema sovietico in seguito alla caduta del muro di
Berlino;
l’endemica sovrappopolazione che caratterizza i paesi asiatici, africani e centro e sud
americani e la conseguente fuga dalla povertà;
il costante movimento di profughi e rifugiati che fuggono dalla guerra o da repressioni
poliziesche;
la globalizzazione e le conseguenti nuove forme di investimento nei paesi fino ad ora
esclusi dai processi di modernizzazione;
la terza rivoluzione industriale e lo sviluppo della microelettronica che ha:
modificato il sistema di relazione del lavoro;
contratto il numero della manodopera meno qualificata nell’industria;
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dilatato il numero degli addetti al terziario;
la richiesta da parte del mondo del lavoro di alta qualificazione professionale;
l’aumento delle occupazioni più precarie e dequalificate;
l’aumento di settori economici informali.
Vediamo, quindi, come ormai la crescita economica non significa più maggiore occupazione,
ma si afferma un nuovo sistema economico in cui:
non c’è più necessità del mercato di manodopera;
sono diventati rilevanti i fattori sociali, politici e culturali;
nel nuovo mercato del lavoro la differenza tra autoctoni e immigrati consiste nella
qualità del lavoro.
Tutto ciò ha avuto dei riflessi sulla migrazione di cui ha ampliato il numero delle aree interessate
a questo fenomeno:
la maggior parte di queste sono paesi dell’Africa centrale e dell’Europa orientale che
prima non erano interessati alla migrazione per problemi politici ed economici;
le direttrici dei flussi sono da Sud a Nord e da Est ad Ovest;
i paesi di migrazione sono diversi da quelli del periodo del miracolo economico che
aveva interessato il Nord Ovest dell’Europa, mentre ora sono quelli dell’Europa del Sud
e Italia e Spagna sono diventati nel Mediterraneo poli di attrazione per i profughi
dell’Africa e dall’Asia.
Un peso importante nei flussi migratori è quello dei rifugiati politici e dei profughi in seguito a
guerre e repressioni. Negli anni Ottanta erano concentrati nelle zone delle guerre interetniche
in seguito alla decolonizzazione o a causa di dittature e regimi militari come in America
centrale, Africa meridionale e orientale, Asia occidentale e sud-occidentale e Medio Oriente. I
paesi accoglienti erano USA, Svezia, Svizzera, Belgio e Francia. Negli anni Novanta questo
tipo di migrazioni interessano anche alcune zone europee a causa del sistema bipolare, quindi
si sviluppano nuove traiettorie e si creano nuovi paesi di accoglienza. In Europa Jugoslavi,
Rumeni, Turchi, migranti dallo Sri Lanka e dalla Somalia, Iraniani, Bulgari e così via migrano.
Sappiamo dall’Alto Commissariato dei Profughi dell’ONU che nel 1994 avevano avuto
assistenza tredici milioni di profughi riconosciuti tali tra i centoquaranta milioni. Il numero,
poi, aumenta se consideriamo i movimenti interni. Possiamo, quindi, affermare che:
nonostante le misure restrittive messe in atto dai paesi accoglienti nel periodo degli anni
Ottanta e Novanta, i flussi migratori dei paesi meno sviluppati sono in crescita;
si registrano flussi migratori dai paesi del Sud del mondo verso i paesi asiatici che si
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erano appena industrializzati;
tra i rifugiati e i migranti il numero delle donne presenti è sempre in crescita.
Negli anni Settanta c’era stato un irrigidimento delle politiche migratorie anche se ora
cominciano ad affermarsi politiche di integrazione e di libera circolazione (in Europa nel 1992
il Trattato Maastricht). Non c’è stata una politica comune nei confronti della popolazione da
parte degli Stati esteri ed è stato anche difficoltoso concludere accordi bilaterali tra i paesi di
partenza e di arrivo.
Oggi sembra che l’obiettivo principale sia quello di ostacolare i flussi migratori, ad esempio
con l’accordo di Schengen, con il forte controllo sulla frontiera degli Stati Uniti, con le misure
di espulsione da parte degli Stai asiatici, con la costruzione di cortine contro gli indesiderati da
parte di Israele, Malesia e Africa del Sud e con i drastici provvedimenti che comprendono anche
la carcerazione e le pene fisiche in Stati asiatici e africani o con le sanzioni verso chi recluta i
migranti (Giappone e Sud Africa)
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Negli ultimi anni del Novecento continuano ancora le migrazioni anche se sono regolate da
rigide politiche migratorie restrittive del governo federale in cui vigono le quote della selezione
in base alla provenienza e alle professionalità. Sin dagli anni Settanta erano stati richiamati
tecnici e professionisti per la necessità di queste professionalità, ma soprattutto perché si
favoriva un’emigrazione qualificata. Le stesse misure sono state prese da Australia, Argentina,
Brasile e Africa del Sud.
Questo tipo di migrazione, però, ha avuto a ben pensarci ripercussioni negative nei paesi da cui
si migrava perché:
ha favorito la “fuga dei cervelli” verso aree economicamente avanzate;
ha provocato perdite di risorse nelle aree svantaggiate;
si sono perse le risorse finanziarie investite dagli Stati per la formazione di questi;
si sono perse le risorse che avrebbero potuto migliorare le condizioni di vita dei paesi
di origine.
Nel decennio 1969-1979 circa cinquecentomila individui provenivano dall’Asia e il 30% di
questi erano medici. In seguito, con l’inasprimento delle quote, la migrazione ha riguardato i
ricongiungimenti familiari e i rifugiati politici diretti verso gli USA, il Canada dall’Asia.
In America latina si realizza, invece, un’inversione di tendenza ed emerge il fenomeno della
corrente frontaliera dei Brasiguayos. I Brasiguayos sono i figli di piccoli proprietari terrieri
brasiliani i cui genitori erano migrati e avevano comprato grandi proprietà terriere a prezzi
vantaggiosi soprattutto in Paraguay, dove hanno condizionato la vita democratica con
l’accaparramento delle terre e gli investimenti su larga scala e hanno così controllato le risorse
non solo per quanto riguarda i metalli preziosi ma anche per le risorse idriche e la produzione
dei beni. I terreni erano ottenuti comprando dai politici i documenti che ne autorizzavano
l’occupazione. Essi hanno coltivato utilizzando semi transgenici e hanno partecipato al progetto
idroelettrico del 1986.
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Altro fenomeno importante di questo periodo è l’emergere della migrazione clandestina in molti
paesi; migrazione che, come abbiamo già detto, è gestita da criminali soprattutto in quei paesi
dove per la conformazione geografica è difficile il controllo delle coste. Interessa soprattutto
l’India e la Cina che sono i paesi più poveri del mondo dove l’emigrazione diventa l’unica
risorsa non solo per un problema di sussistenza ma anche per la salvaguardia dell’integrità fisica
(conflitti interetnici, epidemie e catastrofi ambientali).
In Africa continuano le emigrazioni a causa delle spinte demografiche, dell’instabilità politica,
della conflittualità etnica. L’emigrazione interessa molto i lavoratori regolari, nomadi e in
condizioni di estrema povertà a causa anche di provvedimenti legislativi del loro Stato per cui
la migrazione diventa una strategia familiare che porta i figli maggiori a migrare e sostenere,
con una parte del salario, le famiglie. Si notano in queste migrazioni anche le donne e vengono
utilizzate nuove traiettorie verso i nuovi poli di attrazione dell’Europa meridionale per coloro
che vengono dal sud del Mediterraneo Queste attrazione è determinata dal fatto che:
in Europa c’è un forte invecchiamento della popolazione;
le frontiere sono permeabili;
l’economia è informale;
c’è un mercato del lavoro che accoglie manodopera dequalificata.
Ecco perché il nostro paese che prima inviava i propri cittadini all’estero è diventato, sin dagli
anni Novanta, luogo di accoglienza e si registrano in questa data già 200.000 stranieri che nel
1991 diventeranno 968.000. Accanto all’Italia, come poli di attrazione, emergono anche Spagna
e Grecia. I dati che abbiamo non sono completi perché non tengono conto dell’emigrazione
clandestina, però fanno da stimolo al riflettere sull’economia sommersa che in Spagna e in Italia
rappresenta il 30% del reddito nazionale. Questo lavoro nero:
mantiene il costo del lavoro a livello basso;
non aumenta il gettito fiscale.
Il basso costo del lavoro, quindi, ci spiega perché siamo diventati polo di attrazione: ad esempio
l’attività domestica di cui si fanno carico molti migranti sopperisce all’assenza dell’assistenza
pubblica e, inoltre, gli immigrati ricoprono ruolo sottopagati e dequalificati nelle attività di
agricoltura, manifattura e terziario.
In queste migrazioni degli ultimi anni del Novecento hanno assunto un ruolo cospicuo gli
immigrati dell’area ex sovietica in cui si è registrata una forte migrazione per lavoro, ma anche
per instabilità politica diretta soprattutto verso la Germania dopo la caduta del muro di Berlino
ma anche verso gli altri paesi.
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Ricapitolando e focalizzando la nostra attenzione sull’Italia dobbiamo affermare che l’Italia è
stato uno dei paesi che ha partecipato massivamente alle migrazioni di fine Ottocento, a quelle
dopo il conflitto mondiale e a quelle del 1973. L’Italia, infatti, a fine Ottocento aveva
un’economia prevalentemente agricola, i poderi erano frammentati e i rapporti di lavoro erano
precari. I motivi per cui c’è stata questa grande migrazione sono:
la crisi economica e demografica che ha avuto inizio nelle aree montane e poi si è estesa
nelle pianure;
la pressione fiscale sulle fasce rurali;
le scelte politiche finalizzate a favorire l’industrializzazione;
il crollo dei lavori di artigianato e manifattura;
la crisi agraria a causa della concorrenza russa e americana.
Ad emigrare erano contadini, piccoli proprietari, artigiani che speravano in un futuro migliore
e consideravano questa migrazione solo temporanea credendo, fiduciosi. nella possibilità al loro
ritorno di potere comprare una proprietà. Questa visione di migrazione temporanea ha fatto sì
che gli emigranti inviassero rimesse di denaro in patria. Queste rimesse degli emigranti hanno
contribuito a riequilibrare il bilancio dello Stato e proprio per questo nel secondo dopoguerra
si è ricorso di nuovo all’emigrazione. Ora però i contadini sono solo meridionali mentre prima
erano Veneti, Piemontesi e Lombardi.
Tra gli anni Cinquanta dell’Ottocento e i primi quindici anni del Novecento sono migrati circa
tredici milioni e mezzo di italiani; in seguito l’emigrazione comincia a diminuire perché in Italia
c’era necessità di manodopera per la ricostruzione e negli anni Venti per le scelte fasciste e le
misure protezionistiche a livello internazionale. L’emigrazione ricomincerà come opposizione
al regime e, dopo la seconda guerra mondiale, sarà facilitata dalla fine delle restrizioni fasciste
e motivata dalla situazione economica e dal disagio sociale. Tra il 1961 e il 1976 sono emigrati
tre milioni di italiani. Tra il 1876 e il 1976, quindi, sono emigrati più di venticinque milioni di
italiani, alcuni in Europa, altri al di là dell’Oceano e pochi negli altri continenti. Circa otto
milioni sono ritornati in patria. Nel 1973 si conclude l’emigrazione di massa ma continua quella
delle aree mediterranee dal sud al nord.
I discendenti degli emigranti sono ormai parte integrante della società, occupano anche
posizioni di rilievo e, come risulta da indagini, molti italiani hanno raggiunto un grado di
successo elevato, sono ben integrati nel tessuto sociale soprattutto perché hanno avuto accesso
all’istruzione.
I permessi di soggiorno rilasciati in Italia agli stranieri nel 1996 hanno raggiunto il milione e
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hanno interessato migranti provenienti da centrotrenta nazioni ma, soprattutto, dal Marocco,
dall’Albania, dall’ex Jugoslavia e dalle Filippine. Ormai si registra un insediamento più stabile,
i lavori sono più articolati e il livello di scolarità è più elevato non solo di quello che avevano
gli emigranti italiani di prima generazione che erano per lo più analfabeti, ma anche di quelli
dell’Italia del dopoguerra. Si sono diffuse attività lavorative autonome soprattutto da parte dei
cinesi nel commercio, alimentari, abbigliamento, edilizia e artigianato e a Milano, nel 1994,
sono iscritti alla Camera di Commercio 1.500 titolari di impresa stranieri. A Torino, nel biennio
2000-2001, tremila aziende sono state avviate da immigrati nella provincia di cui il 27% da
donne.
Altri dati ci confermano la tendenza alla stabilizzazione:
la scolarizzazione dei figli;
la naturalizzazione.
L’emigrazione italiana è stata complessa e dinamica, i movimenti migratori si sono trasformati
nel lungo periodo da quando la mobilità era quasi un privilegio per espandere le attività
qualificate fino ai movimenti di massa. Come sostiene Corti:
“(…) nella lunga parabola dell’emigrazione italiana è del resto possibile individuare l’estesa gamma
delle motivazioni che spingono gli individui o intere famiglie a emigrare nonché l’articolata
composizione sociale dei soggetti coinvolti nei flussi, sia nelle singole fasi del movimento, sia nell’estesa
scansione temporale lungo cui esso si dipana. Se infatti già nel passato preindustriale tali movimenti
avevano come protagonisti i mercanti, gli artigiani e gli artisti, neppure negli anni della più elevata
migrazione di massa essi coinvolsero esclusivamente le frange più povere e marginali della
popolazione.
Quanto si legge mettendo a confronto questa esperienza con quelle più recenti consente di valutare in
modo meno preoccupato anche i fenomeni recenti. Benché ancora in gran parte in fieri e meno definite
nei loro esiti immediati e futuri, in certe zone del paese le migrazioni extracomunitarie si stanno
trasformando in forme di insediamento più stabile […] si ritiene comunque opportuno porre a confronto
le due esperienze migratorie, che con ruoli diversi, hanno investito e investono l’Italia. Le loro
dinamiche collettive e i loro percorsi individuali, come si è cercato di sottolineare, risultano meno
lontani di quanto si possa ritenere. Di fatto, nonostante la recente storia dell’immigrazione nel nostro
paese, tra gli stranieri presenti regolarmente in alcune aree dell’Italia si registra una maggiore
tendenza alla stabilizzazione del lavoro, una certa diffusione del business etnico, la più diffusa presenza
di nuclei familiari e una crescente scolarizzazione dei figli. Si tratta di quei requisiti che non solo hanno
consentito di raggiungere delle posizioni sociali di rilievo agli Italiani all’estero, ma hanno favorito
l’integrazione.” (Corti, 2003, pp. 133-134).
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Naturalmente ci sono molte frange di disoccupazione, precariato, marginalità e criminalità che
fanno ritenere difficile l’adattamento, l’integrazione e l’insediamento. Certamente bisogna
pensare che la trasformazione di questi migranti in membri stabili della nostra società e la loro
integrazione non può essere lasciata alla spontanea evoluzione ma devono essere programmata
in modo da risultare esito di provvedimenti meno episodici e meno allarmistici. I
provvedimenti, poi, dovrebbero disciplinare l’ingresso ma anche assicurare la tutela dei
cittadini stranieri che sono presenti e legalmente attivi sul nostro territorio. Concludendo con le
parole di Corti:
“(…) queste forme di iniziativa, del resto, non possono essere di esclusiva pertinenza delle autorità
pubbliche nazionali. Sono obiettivi che devono cementare l’intervento dell’intera comunità europea e
riuscire a coinvolgere anche gli altri partner internazionali nell’edificazione di una normativa delle
migrazioni: una normativa che punti maggiormente alla tutela dei soggetti coinvolti anziché alla
salvaguardia di frontiere nazionali che sono oggi più permeabili del passato a ogni tipo di circolazione.
Si tratta di una disciplina che viene invocata con molta chiarezza in autorevoli sedi scientifiche e
istituzionali di vari paesi nell’intento di garantire i diritti “transnazionali” di una popolazione che
nell’odierna realtà globale, rivela “vocazioni” o “necessità” di emigrare assai più diffuse che nel
passato” (Corti, 2003, p.135).
53
MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Prima di entrare nello specifico dei flussi migratori e dei problemi ad essi collegati soprattutto
a causa della presenza di clandestini arrivati su “carrette del mare” con l’aiuto di organizzazioni
vicine alla criminalità nelle cui mani ormai è la migrazione verso l’Italia, diventata polo di
attrazione di questi flussi che hanno suscitato sentimenti xenofobi e prodotto restrizioni a livello
legislativo, riteniamo opportuno:
soffermarci sulle migrazioni interne in Italia;
analizzare la percezione che hanno avuto gli emigranti del nuovo mondo;
riflettere sugli episodi e sentimenti di razzismo che i nostri connazionali hanno dovuto
subire sia nei paesi europei sia nella stessa Italia in cui i Meridionali venivano
emarginati e designati con l’epiteto “terroni” ai quali non si dovevano affittare
nemmeno le case;
accennare e riflettere sulla congrua letteratura e documentazione relativa a questi
fenomeni.
Negli ultimi anni, infatti, sono stati eseguiti degli studi sul fenomeno migratorio che hanno
coinvolto sia le storiche discipline sociali, quali demografia, sociologia, storia e geografia, sia
le “scienze dure”, quali ingegneria e informatica, che si sono interessate della misurazione dei
flussi migratori.
Per quanto concerne la migrazione interna e i motivi che l’hanno provocata è importante
sottolineare che in quella migrazione è stata coinvolta sia la popolazione italiana sia quella
straniera che si sono mosse all’interno del paese.
La direttrice dei flussi migratori dal Sud al Nord è una direttrice tipica del mondo
contemporaneo legata a:
l’industrializzazione delle regioni settentrionali;
la crescita delle funzioni amministrative della capitale che ha subito un aumento a inizio
Ottocento e che, poi, è esplosa durante la prima guerra mondiale, i cui esiti si sono avuti
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nel secondo dopo guerra.
Ciò ha determinato la mobilità che ha promosso lo sviluppo delle reti urbane e l’aumento delle
difficoltà nell’agricoltura e nell’economia rurale. Quanto detto non esaurisce il problema, ma è
importante per capire il fenomeno e costituisce solo l’ossatura, lo scheletro della mobilità su
cui si sono innestati tutti quei movimenti legati agli squilibri interni e alle scelte politiche,
economiche e dell’industrializzazione italiana.
Accanto a questo tipo di mobilità c’è poi quella legata agli studenti universitari in cerca di
Atenei di prestigio su cui ci soffermeremo in seguito e una mobilità legata ai lavori stagionali
agricoli che è quella mobilità che ha, nella tradizione, cristallizzato la figura del “migrante
interno” nella figura di una vittima evidenziandone la sua marginalità e il suo sacrificio. Tutti
questi studi e considerazioni non hanno però tenuto adeguatamente conto dell’effetto che
l’emigrazione ha avuto su:
i luoghi di partenza e di arrivo;
le trasformazioni sociali;
le esperienze.
Per quanto concerne questo tipo di migrazione dobbiamo dire che essa ha interessato sia il
periodo del miracolo economico sia quello della ricostruzione e della crisi degli anni Settanta
fino ad ora. Come riportano Colucci e Gallo:
“I migranti interni non solo si sono “fatti spazio”, nel senso di riuscire a trovare la propria collocazione
nei contesti di arrivo, fino a delineare percorsi biografici di vero e proprio riscatto sociale, ma hanno
anche “fatto lo spazio”, nel senso di costruire con la propria mobilità deli habitat nuovi, modificare i
panorami fisici e culturali inserendo nel paesaggio italiano anche l’impronta di una storia di
movimenti. Al riguardo risulta emblematica la vicenda della colonizzazione di Ostia e Maccarese,
protagonista del saggio di Paola Corti in cui il movimento migratorio di gruppi di lavoratori si è
intrecciato con l’opera di bonifica e il recupero dell’agricoltura di zone malariche e paludose. Il
cambiamento del territorio a opera dei migranti si è presentato qui nella sua forma più radicale: la
conquista della nuova terra da coltivare. Non si è trattato di un evento raro nella storia del Novecento.
Si veda, solo per fare un esempio, il caso dei Greci costretti a scappare dalla Turchia negli ani Venti:
il governo greco approntò dei piani di bonifica della piana macedone proprio per fare posto a questa
nuova porzione di cittadinanza. Anche senza ricorrere a casi estremi, rimane valido il punto centrale:
la fabbricazione dello spazio è un elemento centrale nei processi migratori.” (Colucci, Gallo, 2016, pp.
XII-XIII).
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elemento necessario per catalogare le varie migrazioni. Dalla fine degli anni Cinquanta, i
confini appaiono sempre più ampi e nello stesso tempo, più ristretti:
“(…) un confine più ampio è quello della dimensione europea che nel suo progressivo allargamento
ha portato prima gli Italiani (fine anni cinquanta), poi gli altri paesi dell’Europa meridionale (primi
anni ottanta), poi numerosi paesi dell’Europa orientale (anni duemila) a condividere un perimetro
comune nel quale si è manifestata una seppur parziale libertà di movimento. Recentemente proprio tale
libertà di movimento è entrata in crisi ed è stata messa in discussione: le tensioni sulla normativa di
Schengen alla frontiera di Ventimiglia e al valico del Brennero, ad esempio, o la presenza nel dibattito
della Brexit in Gran Bretagna proprio del tema delle migrazioni intraeuropee, ci danno una conferma
della centralità di questa dimensione. Il confine della mobilità è però allo stesso tempo anche più
ristretto del confine nazionale. Dentro i confini nazionali dell’Italia esiste oggi una serie di frontiere –
materiali e immateriali- legate ai diversi sistemi di accesso welfare, alla diversa gestione di
procedimenti amministrativi da parte degli enti locali quali il diritto di residenza, ai processi di
espulsione e di accoglienza verso determinati gruppi sociali, al complesso tema delle chiusure legate
alla definizione di identità territoriali, che devono necessariamente farci riflettere sull’allargamento
dei confini delle mobilità e sulle sue progressive restrizioni.” (Colucci, Gallo, 2016, p. XIII).
In Italia si sono registrati cambiamenti nelle dinamiche migratorie dopo la seconda guerra
mondiale legate alla crescita demografica delle aree urbane perché l’industria richiedeva
manodopera nelle fabbriche del triangolo industriale del Nord.
Altro aspetto degno di nota della migrazione interna è quello della mobilità studentesca perché
l’analisi di questo fenomeno permette di valutare il sistema educativo. L’Ateneo, oltre che per
la qualità del servizio e il prestigio, attrae per il mercato del lavoro in cui l’Università è inserita.
La scelta dell’Ateneo, infatti, influenza la residenza del giovane negli anni futuri. Questa scelta
è una scelta di percorso di vita e della possibilità di fare carriera. Ormai quasi tutte le regioni
d’Italia hanno centri universitari, infatti, dopo la riforma universitaria del “3+2”, che doveva
armonizzare a livello europeo i titoli di studio e che fu perfezionata nel 2004, c’è stato un
proliferare di sedi didattiche decentrate e una notevole espansione delle infrastrutture
universitarie nel meridione che avrebbe dovuto portare a una riduzione di costi in quanto era
venuta meno la necessità di spostarsi. La mobilità per studio, invece, non diminuisce anzi,
soprattutto nel Mezzogiorno, aumenta verso il Centro-Nord. Tra il 2003 e il 2016 uno studente
su quindici si è iscritto a un corso di laurea con sede diversa dalla sua area di residenza,
fenomeno che si spiega solo con il prestigio di alcune Università e per la possibilità di accedere
a un mercato di lavoro. Se confrontiamo, infatti, la mobilità per lavoro con quella per motivi di
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studio possiamo facilmente capire come l’attrattiva per motivi di studio è determinata dal
prestigio dell’Università e della possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.
Ci sembra importante parlare dell’Ecomuseo del litorale romano che accoglie una buona parte
della storia della mobilità interna che si trova a Ostia e che in questo caso ci fa dimenticare
l’associazione fatta dalla cronaca giudiziaria con “mafia capitale”. Questa esperienza affonda
le radici nella mobilità agricola di fine Ottocento a cui è dedicato questo museo. Nello stesso
litorale laziale, però, si trovano altre due sedi espositive che fanno parte di un solo polo museale,
l’Ecomuseo del litorale romano dove hanno lavorato braccianti romagnoli, veneti e lombardi,
che come abbiamo detto avevano lavorato nella zona del maccarese. È un’esperienza museale
poco nota ma molto significativa perché raccoglie quasi tutta la storia delle migrazioni interne
al paese. Molti musei hanno carattere regionale e locale, alcuni, invece, erano definiti “Centri
studio, ricerca, documentazione e informazione” e tredici di questi avevano carattere nazionale
e gli altri diciannove una dimensione, invece, locale e regionale. Come ha scritto Sanfilippo:
“(…) dopo gli anni Settanta, quando il flusso migratorio decresce, questo sviluppo è accelerato dalla
politica delle nuove amministrazioni regionali italiane. Esse infatti stringono legami con i propri
emigranti in Europa, nelle Americhe e in Australia, sovvenzionando scambi commerciali e culturali,
finanziano ricerche e perfino sfruttano ricorrenze di ogni tipo per rinforzare la propria presenza.”
(Sanfilippo, 2002, p.148).
La proliferazione di questi enti è stata favorita dalla scoperta del ruolo che hanno avuto gli
emigranti all’estero e del loro ruolo economico. Si sono favoriti questi enti e istituzioni museali
per ricomporre un rapporto che era stato molto difficile nel passato con i connazionali che erano
migrati. Oltre a queste ragioni ci sono state quelle che nei migration studies hanno escluso i
fenomeni migratori dalla mobilità interna. Solo da poco più di un decennio la mobilità interna
è stata inserita nel quadro degli studi sulle migrazioni e, quindi, esse vengono approfondite.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Quando parliamo di emigrazione non ci riferiamo solo a quella transoceanica ma anche, come
abbiamo visto, a quella verso altri paesi dell’Europa e, nel nostro caso, a quella soprattutto verso
la Francia. L’emigrazione italiana in Francia è stata un fenomeno di lunga durata che viene
sinteticamente raccontata da Conti, dell’Università di Torino nella collana della Fondazione
Agnelli. L’emigrazione in Francia non è stata percepita come fattore rilevante dai Francesi fino
alla metà dell’Ottocento, soprattutto perché la loro presenza non era quantitativamente rilevante
e non aveva ancora suscitato sentimenti xenofobi. In seguito, invece, gli italiani sono diventati
il bersaglio di un’accesa xenofobia che all’inizio del Novecento viene espressa anche in un
romanzo L’invasione in cui Bertrand tratteggia uno stereotipo dell’italiano, che si manterrà a
lungo nella mentalità francese, cioè di italiani violenti, accoltellatori e ubriaconi. Soltanto dal
censimento del 1851 quando per la prima volta erano censiti anche gli stranieri, i francesi si
sono resi conto della consistente presenza italiana, anche se l’emigrazione di massa verso la
Francia si realizza dopo il 1860. Nei censimenti non erano inseriti gli emigranti stagionali e
temporanei che erano la stragrande maggioranza soprattutto nei paesi di confine, che erano
circa trentamila l’anno. Venivano chiamati Francais de Coni (francesi di Cuneo, italiani che si
spacciavano per transalpini) e riservavano a questi lavoratori comportamenti disumani che
emergono anche da una canzone in ricordo del massacro di Aigues Mortes in Linguadoca En
arribent a Peccais in cui ci furono nove morti accertati, parecchi dispersi e un centinaio di feriti
massacrati a colpi di randello e pietre dai compagni di lavoro francesi e dagli abitanti del luogo.
Uno degli episodi di razzismo, infatti, nei confronti di lavoratori italiani per lungo tempo
dimenticato è il Massacro di Aigues Mortes del1893, quando gli italiani emigravano in Francia
in questo caso per lavori stagionali nelle Saline. Nel 1876 in Francia c’erano 165.000 Italiani,
la maggior parte dei quali gravitava nella zona meridionale intorno a Marsiglia.
Nel 1893 gli Italiani furono oggetto della furia del razzismo francese che si manifestò come una
caccia all’uomo e nella Cronaca Prealpina di Varese del 20 Agosto 1893 si legge:
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“(…) la caccia durò il mercoledì e il giovedì (16/ 17 Agosto) 150 sorpresi sul lavoro e assediati in una
capanna, furono forzati a rientrare in città: durante il tragitto furono feriti e gittati in canale dove 20 o 30
morirono, i più sbandatisi, furono inseguiti per le campagne; 40 soli si ridussero in città, sempre
accompagnati da una folla ubriaca. Furono chiusi in un torrione e quivi assediati. Altri 150che si trovavano
in città furono del pari assaliti. Dei fuggenti 38 si rinchiusero in una bottega da fornaio, dove furono tenuti
assediati 30 ore … Sulle mura delle città si leggeva: Morte agli italiani. Facciamone salsicce.”
Tutto ciò ha suscitato sdegno, cortei spontanei, sono stati bruciati giornali francesi e si era
deciso di non comprare profumi francesi.
Questo massacro evidenzia la concorrenza tra i lavoratori di diversi paesi e a questo episodio
Francia e Italia hanno reagito blandamente tanto che i diciassette imputati sono stati tutti assolti.
Ad Augues Mortes, sulle Bocche del Rodano, alle Saline, lavoravano molti stagionali italiani
che erano preferiti ai lavoratori francesi perché erano meno sindacalizzati e si accontentavano
di salari molto più bassi. Prima la Compagnia assumeva ex- galeotti ora, invece, assume italiani
e francesi. Gli italiani sono 600, i Francesi, invece, sono 150 sugli 800 che si erano presentati.
Vivevano in capanni con tetti di frasche, alcuni all’aperto e con poca acqua potabile a
disposizione. I rapporti si sono fatti sempre più tesi fino alla rivolta scaturita per futili motivi.
C’è stata una caccia all’italiano per due giorni e non si è fatta nemmeno una conta precisa delle
vittime anche perché molti corpi sono stati buttati nei canali e il prefetto aveva deciso di non
intervenire. Gli operai italiani sono stati uccisi deliberatamente perché accusati di rubare il
lavoro ai Francesi. Ciò ha comportato una crisi diplomatica e numerose manifestazioni e Crispi
ha cavalcato l’onda nazionalistica, ma appena eletto ha lasciato perdere. Dopo le due guerre
mondiali l’episodio messo sotto silenzio e i due governi hanno insabbiato la vicenda in nome
dell’amicizia e della fratellanza. Ci siamo soffermati su questo episodio per riflettere sul
razzismo e sul fatto che in quel caso il pericolo eravamo noi, ma anche perché in seguito questo
episodio è stato recuperato. Sono state scritte, infatti, due opere, una da un italiano e l’altra da
un francese, che ci permettono di confrontare il clima di allora con quello di oggi, riflettere sul
fatto che venivano usate le stesse parole solo che erano rivolte contro gli Italiani e c’era la stessa
paura e la stessa psicosi. È chiaro che il massacro è nato dalla psicosi dell’invasione che la
stampa ripete continuamente, dalla convinzione che gli italiani tolgono di bocca il pane ai
francesi e dalla paura di perdere il lavoro. Questa paure, inoltre, si mescolano ai ritratti razzisti
che vengono propagandati degli Italiani che li mostrano sporchi tristi e straccioni e al grande
problema dell’invasione e della minaccia che la Francia venga sommersa. Questo nervosismo
generale alle saline si è mescolato al fatto che il lavoro era massacrante e pagato a cottimo per
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cui gli Italiani, abituati al lavoro duro, erano più resistenti e guadagnavano di più.
Questa vicenda in questi ultimi anni è stata oggetto di due libri che ci danno notizie ben
dettagliate:
Morte agli Italiani! Il massacro di Aigues Mortes, 1893, di Barnabà;
Le Massacre des Italiens di Noiriel.
Barnabà, dopo un’accurata ricerca su giornali, documenti italiani e stranieri, fa un’accurata
analisi storica e sociologica del massacro. Nella Prefazione del libro di Barnabà si legge:
“[…] è una boccata di ossigeno. Perché solo ricordando che siamo stati un popolo di migranti, vittima
di odio razzista, come ha fatto il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo denunciando “segni di paura e
di insicurezza che talvolta rasentano il razzismo e la xenofobia, spesso cavalcati da correnti ideologiche
e falsati da un’informazione che deforma la realtà “si può evitare che oggi, domani o dopodomani si
ripetano altre caccie all’uomo, mai più Aigues Mortes, mai più” (Barnabà, 2008, p.10).
Vengono poi individuate correlazioni tra passato e presente per dimostrare come i fatti si
ripetono:
se leggiamo quello che ha scritto su Le Figaro nel 1893 Maurice Barres nell’articolo
Contre les etrangers:
“Il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia […] hanno
portato all’invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che si adoperano per
sottometterci.”
“Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania tredici o quindici milioni di immigrati,
per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza
eletta.”
“Gli Italiani presto ci tratteranno come un paese conquistato e fanno concorrenza alla nostra
manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi.”
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Il sindaco di Treviso nel 2002 dice:
“Gli immigrati annacquano la nostra civiltà e rovinano la razza Piave […] occorre liberare
l’Italia da queste orde selvagge che entrano da tutte le parti senza freni per rifare l’Italia,
l’Italia sana.”
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erano ai livelli più bassi. Erano trasandati e alcuni incutevano paura, non erano tutti ignoranti,
anzi la protagonista del romanzo è una maestra che raggiunge il marito che lavorava in miniera.
Una donna e i suoi figli si recano a Marsiglia per ricongiungersi col marito che non si fa trovare
e la donna va a vivere in un quartiere operaio. Quando in seguito il marito la raggiunge si rivela
violento. Gli Italiani sono rappresentati come elementi di disordine e pericolo sociale e anche
politico perché potrebbero portare idee sovversive. Vivono in quartieri periferici, in casermoni
sudici dall’odore penetrante, parlano a voce alta, cantano e mettono facilmente le mani al
coltello. Il quartiere è una sacca di disagio sociale ed è un’esposizione di miseria e sporcizia.
Essi sono per lo più Piemontesi che già nel 1893, come abbiamo visto, hanno subito l’odio dei
Francesi con una caccia all’uomo ad Augues Mortes. Questo non è un libro denuncia del
razzismo, ma un libro denuncia del pericolo italiano che in fondo era una risorsa e una necessità
per l’economia. La sua storia è incentrata su personaggi immigrati piemontesi che hanno tutti i
difetti possibili, sono tutti violenti, bugiardi e assassini.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
A questo punto della trattazione ci sembra importante soffermarci anche sui problemi che hanno
dovuto affrontare gli emigranti italiani quando, dopo aver attraversato l’Oceano, hanno
raggiunto il nuovo mondo. Tale necessità nasce dal fatto che ormai viviamo in un clima di odio
e di xenofobia ed è giusto ricordare quando il pericolo eravamo noi ed eravamo spinti
all’emigrazione per gli stessi motivi degli emigranti di oggi e abbiamo incontrato le stesse
difficoltà. Nella lezione precedente abbiamo parlato dei problemi e degli atteggiamenti
xenofobi suscitati dai nostri connazionali in Francia, ora ci soffermeremo sulle difficoltà degli
emigrati oltre oceano su cui c’è un’ampia letteratura e oggi possiamo contare e trarre importanti
informazioni dalle lettere che alcune Fondazioni hanno raccolto. Esse sono la testimonianza
della loro vita quotidiana, dei problemi d’inserimento nella nuova società, della nostalgia e delle
difficolta a comunicare. Le difficoltà a comunicare non erano solo quelle inerenti alla
comunicazione orale in inglese, ma anche quelle con i familiari rimasti in patria. Gli emigranti,
come sappiamo, erano per la maggior parte analfabeti e dovevano ricorrere ad amici e
connazionali sia per scrivere le lettere sia per farsi leggere quelle che arrivavano loro dall’Italia
e la stessa cosa succedeva in Italia. Le lettere sono la testimonianza della nostalgia e del ritorno
alla famiglia e alle proprie abitudini, ed è questo pensiero del ritorno che fa loro sopportare la
lontananza e il lavoro che era vissuto non come riscatto o qualificazione, ma come qualcosa di
temporaneo. Le lettere dimostrano che col passare del tempo gli emigranti cercano di adattarsi
alla nuova società, a convivere, ad assimilare la lingua e le abitudini per cui continuano a
rimpiangere la patria, ma nello stesso tempo cercano di integrarsi e vivere la loro condizione di
emigranti in maniera meno negativa. L’atteggiamento di chiusura iniziale nei confronti dei
residenti che li portava a riunirsi con i connazionali dipendeva soprattutto dal voler lenire la
nostalgia e dalla paura di dimenticare le abitudini e perdere l’identità culturale. Da queste
testimonianze si evince chiaramente la motivazione dell’emigrazione:
mancanza di lavoro;
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desiderio di migliorare le proprie condizioni economiche e di vita;
desiderio di un futuro migliore per i propri figli;
così come emergono le principali difficoltà che sono:
le difficoltà linguistiche;
le difficoltà di integrazione;
le difficoltà di trovare un lavoro.
L’emigrazione risulta un grosso affare per molti e vi giocano un ruolo importante gli
intermediari: in Italia prima del 1901 a gestire il reclutamento erano le grandi Agenzie delle
città di mare, che furono soppresse dalla legge e sostituite dalle agenzie di comunicazione. Per
gli emigranti non cambia niente, solo il vettore. Questi, procacciatori di emigranti erano figure
con una certa credibilità: sindaci, parroci, maestri, autorità comunali e poi c’erano opuscoli,
guide ed altro ancora.
I problemi degli emigranti italiani, però, iniziavano già dal viaggio in treno per raggiungere la
città di partenza. Rosati scrive:
“(…) accordando agli emigranti il ribasso del 50% sulla tariffa ordinaria insaccavano quei disperati
in carrozzoni di quarta classe, facendoli viaggiare più lentamente che i treni merci, e dando financo la
preferenza di transito ai treni con bestiame.” (Rosati, 1908, p.69).
Arrivati a destinazione, spesso dopo aver cambiato carrozza in alcune stazioni, trovavano
rappresentanti delle compagnie di navigazione riconoscibili da distintivi o da capi di vestiario
dai colori specifici. L’emigrante era costretto a fidarsi dei consigli di sconosciuti, spesso
imbroglioni o truffatori e proprio per questo spesso nei terminal delle Stazioni c’erano
rappresentanti di società umanitarie. C’era, infatti, un mercato internazionale di migranti la cui
pratica era prevista dal Diritto Internazionale e che si svolgeva alla luce del sole.
Scesi dal treno, i migranti dovevano pernottare e il pernottamento fino al 1901 in Italia era a
carico dei mediatori. Non esistevano Hotel o case degli emigranti, solo locande autorizzate e
nei quattro porti italiani abilitati: a Messina, Palermo, Napoli e Genova i posti letto non erano
sufficienti: a Napoli c’erano novantasette locande e 2400 posti letto, a Genova 333 e 720 posti
letto, a Palermo 25 e 770 posti letto, mente a Messina 18 e 341 posti letto. A tenere conto del
numero degli imbarchi prima della guerra mondiale i posti letto non erano sufficienti e quindi
i mediatori si affidavano a locande abusive che formavano una vera lobby tanto che a Napoli
fecero chiudere una casa per migranti. Queste locande abusive erano super affollate, scure e
fetide e i migranti al porto avevano un assaggio dell’affollamento e della promiscuità che
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avrebbero avuto durante la traversata
Di questi viaggi abbiamo testimonianza sia dalle lettere sia da un’abbondante letteratura. Nel
1902 Butkowski scrive ai genitori:
“13 giorni di miseria e fetore, imprigionati in un oscuro steerage affollato di migranti terrorizzati che
piangevano e vomitavano.” (Capra, 2016, p. 5).
Il viaggio era lungo e monotono e rendeva il distacco più doloroso, come si legge in Dagli
Appennini alle Ande di De Amicis, in cui il giovane Marco si reca da Genova in Argentina alla
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ricerca della madre e alterna momenti di sofferenza e paura per il mare agitato che si alternava
a giornate di caldo insopportabile e il viaggio sembrava non finire ma c’era sempre mare e
cielo, cielo e mare, oggi come ieri e domani come oggi.
Il viaggio da alcuni poeti meridionali viene chiamato spartenza, cioè separazione, e Tommaso
Bordonaro, un contadino della Sicilia, chiama Spartenza la propria autobiografia scritta in un
linguaggio siculo americano in cui afferma che essa è stata dolorosa e straziante e dice che gli
emigranti soffrivano spesso di mal di mare, subivano abusi da parte dell’equipaggio, avevano
paura del naufragio e delle malattie. Erano privi di protezione da parte della legge e le
compagnie di navigazione rendevano il viaggio rischioso.
Nel 1894 De Amicis si reca da Genova in Argentina sul Nord America con 1600 migranti e nel
Romanzo Sull’Oceano racconta ventidue giorni di viaggio e per descrivere le sofferenze dei
viaggiatori di 3° classe utilizza l’immagine dell’Inferno dantesco. Egli afferma che se Dante
avesse conosciuto quelle che erano le terze classi nel 1885 dei transatlantici certamente lo
avrebbe descritto e allocato nell’Inferno e vi avrebbe inchiodato i peccatori dei più neri peccati.
I passeggeri erano divisi per sesso in compartimenti diversi. Gli uomini nella parte anteriore, in
quello centrale le coppie sposate e le donne sole nella parte posteriore. Niente sala da pranzo e
i pasti si consumavano nella stanza comune per gruppi di sei persone, uno dei quali a turno
ritirava le vivande nella cucina. Il viaggio durava da due a quattro settimane. Era impossibile
respirare e i letti erano sacchi di paglia maleodoranti. Molinari scrive:
“Sulle rotte di emigrazioni vengono utilizzate, ancora nei primi anni del Novecento le “carrette del
mare”, vecchi piroscafi, privi dei requisiti essenziali di sicurezza e igiene. Non erano pochi gli emigranti
che morivano durante il viaggio o che venivano respinti nei paesi di arrivo perché gravemente
ammalati. Il viaggio transoceanico era un’esperienza ad alto rischio. Si poteva fare naufragio, essere
sbarcati in un paese diverso da quello di arrivo. La cosa che accadeva con maggiore frequenza era di
contrarre malattie contagiose a causa delle condizioni di affollamento e sporcizia in cui avveniva la
traversata” (Molinari, 20001, p. 241).
“La temperatura non è il solo fattore che rende irrespirabile l’atmosfera dei dormitori, vi concorre il
vapore acqueo e l’acido carbonico della respirazione, i prodotti tossici che svolgono dalla secrezione
dei corpi, dagli indumenti dei bambini e talora degli adulti che per tema o per pigrizia non esitano a
emettere urina e feci negli angoli dei locali dove stanno alloggiati. L’impressione di disgustosa
ripugnanza che si riceve scendendo in una stiva dove hanno dormito gli emigranti è tale che, provata
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una sola volta non si dimentica più.” (AA.VV., 1895, p. 13).
Solo nel 1901 vengono emanate leggi per l’emigrazione, viene istituito l’Ispettorato dei
migranti nei porti e il Commissario viaggiatore che era scelto tra gli ufficiali della marina
mercantile che erano responsabili della salute dei passeggeri. In seguito a queste leggi viene
aumentato lo spazio. Con la legge del 1901 si tutelano gli emigranti e si inizia un controllo,
anche se inizialmente blando, dello stato delle navi e si comincia ad ammodernare le flotte.
Questo processo si è intensificato e velocizzato nel momento in cui gli USA hanno cominciato
a controllare la qualità degli emigranti che arrivavano provocando il ritiro dalle rotte
transatlantiche delle carrette del mare. La legge non aveva finalità restrittiva ma solo di
selezione psicofisica dei flussi migratori. Dal 1907 chi sbarcava ad Ellis Island, che era
diventata la porta dell’America, doveva essere sano, non avere carichi pendenti con la legge e
avere i soldi per il rimpatrio. L’anno successivo viene emessa una legge che crea molti problemi
alle compagnie di navigazione perché stabilisce che ogni migrante sulle navi doveva avere 2,75
metri cubi e alcune compagnie hanno modificato le rotte e invece che a New York hanno fatto
scalo a New Orleans.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Il momento magico del viaggio era quando si avvistava la terra, era il momento in cui dell’arrivo
si cominciava ad avere la certezza che qualcosa stava veramente cambiando, come ci dice
Mizzan:
“Quando poi dopo una lunga navigazione di 30 giorni finalmente il giorno 11 Gennaio di bel mattino
sià principiato a vedere le montagne del Brasile alora tutti siamo messi a strillare e viva e viva la
Merica” (Mizzan, 1994, p.81).
In quel momento tutti si affollano ai parapetti, si lavano, si radono, mettono i vestiti migliori ai
bambini che devono incontrarsi coi padri, chiedono consigli su come rispondere ai funzionari
dell’immigrazione. Ancora, infatti non si è sicuri del buon esito soprattutto per chi è diretto a
New York.
In America latina la procedura di accettazione è invece meno rigida, i migranti venivano accolti
in strutture simili alle locande e agli alberghi per emigranti, le Hospedarias e come dice Rosati:
“Un grande stabilimento costituito da un complesso di grossi cameroni separati da cortili e riuniti da
passaggi coperti dove gli emigranti si arrestavano per tre o quattro giorni prima di avviarsi all’interno.
Quivi si fanno i contratti di lavoro con i famosi fazenderos. Nell’Hospedaria gli emigranti hanno
alloggio e vitto gratuito; ma quale alloggio e vitto! Il letto è per lo più una stuoia sulla nuda terra, e
l’alimento è il pane e della minestra. Le condizioni igieniche di questo locale sono così poco lusinghiere
che se ne tace nelle stesse pubblicazioni ufficiali del paese” (Rosati, 1908, p.254).
Una volta espletate le formalità si avviavano a piedi, in carrozza, in nave o in battello secondo
la destinazione, ma in molti casi si prolungava il viaggio che sembrava interminabile:
“Intorno ai 12 primo di giorno siamo arrivati al porto di Rio Zenzero sono nati 3 morti 7…Dopo Rio
Zenzero siamo voltati per Santa Caterina e poi a Rio Grande e poi a porto alegro e poi a Rio Pardo
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Siamo discesi in terra ma tutto al naviglio di mare abiamo messi 42 giorni qui a Rio Pardo siamo
Fermati 6 giorni e poi siamo montati su carri bagagli e done e picoli su cari e no altri chi voleva
caminavano ma da rio pardo a Santa Maria Bocca di Monti avemmo strapassati pradarie selve e Boschi
fecimo da mangiare in campi dormire sotto le tende ma la nostra navigazione del carro a duratto 15
giorni il vitto era sufficiente per tutti capavino un manzo al giorno minestra e pane sufficiente e caffè
bondante, fin almente nusiano movati tutti in un bosco ceh si vedeva legni e Cielo la poi erino tutti
disperati non sapevino cosa fare finalmente io e altri tre amici Bilunesi abiamo principato a caminare
a Santa Maria che erino 6 ore distanti per provvedersi Colonia di particolari che avevino terre
disponibili finalmente dopo diversi giorni di camino siamo andati in diversi punti mami pareva troppo
Cara, ma zirando e dimandando finalmente abiamo trovato un buono Colonia.” (Mizzan, 1994, pp. 81-
82).
La situazione era molto diversa per chi sbarcava a New York. Fino al 1891 si sbarcava a Garden
Castle Immigration Deport di Manahattan, ma, a causa del continuo enorme flusso di migranti,
si era reso necessario abbandonare la vecchia struttura. Viene utilizzato Ellis Island, un isolotto
artificiale costruito con i detriti degli scavi della metropolitana e a lungo conteso tra New York
e New Jersey, nella baia di New York alla foce del fiume Hudson. Era conosciuto dai nativi
come isola delle ostriche, era stati rifugio dei pirati e deposito di munizioni. Nel tempo ha avuto
tanti nomi tra cui quello di Samuel Ellis che era uno dei proprietari. Agli inizi del XIX secolo
diventa parte integrante del sistema di fortificazione del golfo dopo l’occupazione degli inglesi
e vi viene costruito un forte, che viene abbandonato dopo la guerra civile. Questo isolotto viene
utilizzato come immigration station e vi si realizza una grande grande struttura formata da vari
edifici dove venivano passati al setaccio gli immigrati che avevano viaggiato in terza classe
sulle navi. Il primo Gennaio del 1892 vi sbarcano i primi 700 italiani e i migranti vanno sempre
aumentando fino a toccare il picco di un milione di arrivi nel 1907 per cui la struttura fu ampliata
e fu nominato un Commissario dell’immigrazione per gestire il personale. Inizialmente la
struttura era in legno e, distrutta da un grande incendio nel 1987, fu ricostruita in muratura con
grandi ambienti destinati ai controlli sanitari e doganali, un vasto deposito di bagagli, ristoranti
e biglietteria ferroviaria, mense e ospedale. Durante la prima guerra mondiale viene utilizzato
come luogo di detenzione per stranieri sospetti nemici o per coloro che, anche se in America da
anni, erano originari dai paesi considerati nemici in guerra con gli USA. Nel 1920 torna ad
essere Stazione federale per l’immigrazione fino al 1954 quando viene chiuso per diventare
centro di detenzione per i prigionieri di guerra e in seguito centro di addestramento per la
Guardia Costiera. Nel 1965 il presidente Lindon Johnson dichiara Ellis Island, insieme col
Parco della Statua della Libertà, monumento Nazionale e dal 10 Settembre 1990 è diventato
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Museo Federale per l’immigrazione. Dopo questa breve storia del luogo, di cui si è sentita
l’esigenza, anche se in maniera sintetica è bene ritornare a quello che è lo scopo principale della
nostra trattazione.
Dopo il 1892, in seguito all’Immigration Act, appena la nave attraccava al porto, avevano inizio
le procedure di sbarco che prevedevano vari step:
controllo della nave per assicurarsi se erano state rispettate le regole della navigazione;
verifica da parte di un medico dell’esistenza di epidemia a bordo
breve colloquio con i passeggeri di prima e seconda classe alla fine del quale questi
erano liberi di sbarcare;
trasferimento dei passeggeri di terza classe a Ellis Island che, con in mano i bagagli su
cui avevano scritto il nome o, se analfabeti, fatto un simbolo identificativo, salivano su
un steamboat, un vaporetto e poi lasciavano i bagagli nel Baggage Dormitory Center;
la line inspection, che dal 1905 aveva sostituito la visita medica singola per l’eccessivo
numero di migranti, consisteva nel far sfilare davanti ai medici gli immigrati in modo
da rendersi conto di eventuali menomazioni. In caso di individui sospetti si mettevano
sui loro vestiti segni che erano abbinati a malattie. Se poi, in seguito a visita, venivano
riscontrate malattie infettive o mentali venivano essi rimpatriati a spese della
Compagnia di navigazione con cui erano arrivati. Per le malattie mentali venivano fatte
domande di logica semplici, ma gli esaminatori si insospettivano facilmente e l’essere
eccitato, l’essere molto gentile, impaziente, nervoso, il ridere troppo, piangere, ecc.
potevano essere considerati sintomo di malattie mentali;
esame dell’eyeman per controllare che i nuovi arrivati non avessero il tracoma e per fare
ciò veniva usato un attrezzo simile al forcipe con cui si sollevava la palpebra ed era una
visita fastidiosa e molto dolorosa;
ispezione legale con domande, secondo la legge del 1907, rivolte ad accertare che
possedessero il denaro, almeno 25 dollari, per poter vivere un mese o almeno il recapito
di un amico o parente che garantiva l’assistenza, se erano diretti in località in cui non
c’era bisogno di manodopera.
Non potevano entrare in America:
coloro che avevano già con un contratto di lavoro, un’assicurazione di lavoro o anche
erano in possesso in possesso prima della partenza di lettere o scritti che assicuravano
un lavoro per una somma prefissata. Ciò perché si voleva che si andasse spontaneamente
e si trovasse lavoro con chi si voleva e alle condizioni che avrebbe stabilito loro stessi
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in loco;
idioti, dementi, persone povere che potrebbero essere a carico della pubblica
beneficienza, emigranti affetti da malattie ributtanti o mali contagiosi. È la commissione
a decidere chi tra gli emigranti poteva poi essere a carico della pubblica beneficienza
(chi è vecchio e non ha parenti negli USA, i minori da soli, tranne che siano figli di
genitori cittadini americani e se orfani vengono adottati); molti minori espulsi sono stati
affidati alla Società di San Raffale, fondata nel 1892;
chi è stato condannato per reati infamanti o turpi (omicidio, aggressione a mano armata,
stupro, furto o truffa). Proprio per questo era consigliato agli emigranti di essere
provvisti di un certificato penale recente perché poteva essere richiesto dalla
Commissione.
Il 10 Settembre del 1990 Ellis Island, che era stato il principale ingresso negli Stati Uniti per
Italiani, Russi, Tedeschi, abitanti dei Paesi Bassi, irlandesi e altri dal 1892, diventa museo
federale dell’immigrazione, il più moderno complesso pubblico degli USA. È un prezioso
museo della memoria in quanto è l’unico museo che documenta l’intera storia
dell’immigrazione dall’era coloniale ai nostri giorni. Vi si può:
vedere il trattamento riservato agli emigranti;
cercare negli archivi digitalizzati i nomi di tutti quelli che sono passati da questo centro
ritenuti fondamentali per la storia dell’America. Il database dei documenti è accessibile
via internet, ma anche dalla biblioteca: si può cercare per nome, anno di arrivo, anno di
nascita, città o paese di partenza, nome della nave con cui si è arrivati tra il 1892 e il
1924. Sono notizie stampabili, ma si può avere copia digitale del manifesto della nave
con cui sono arrivati;
nell’atrio principale vedere un video interattivo che mostra i volti degli immigrati di
ieri, ma anche di quelli di oggi che compongono la bandiera americana (Flag of photos)
a cui si possono aggiungere altre foto su richiesta e invio delle stesse;
vedere l’alto riconoscimento del contributo dedicato agli immigrati nel muro di fronte
al Main Building, il muro celebrativo, il Wall of honour più lungo del mondo con oltre
700.000 nomi a cui si può fare inserire, su richiesta, il nome di un proprio caro;
vedere l’enorme sala di registrazione lasciata volutamente vuota per permettere al
visitatore di mettersi nei panni di chi attendeva il responso con ansia;
assistere alla proiezione di un documentario della durata di 30 minuti “Isola della
speranza, isola delle lacrime”.
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E poi sono presenti molte fotografie, video, registrazioni audio e vari reperti. Il Museo ha
mantenuto le caratteristiche di un edificio di accoglienza anche se c’è una parte moderna che
espone documenti di quelle che sono state le principali tappe della storia americana. Dal piano
terra partono le rampe per i piani superiori dove le stanze sono ricoperte di vecchie mattonelle
bianche e ogni migrante veniva iscritto in registri. Le pareti sono tappezzate di foto di migranti
e nelle stanze dopo le grandi vetrate si respira l’atmosfera di allora, di stanze spoglie, fredde
Tra i nomi illustri che sono entrati in America da Ellis Island ricordiamo: Kipling nel 1892,
Caruso nel 1904, Puccini nel 1907, Jung e Freud nel 1909, Chaplin nel 1912, Walt Disney nel
1919 e Einstein nel 1921.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Bibliografia
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Fayard.
Pani, G. (2017). Sulle onde delle migrazioni: Dalla paura all’incontro. Roma: Ancora
Editore.
Rosati, T. (1908). Assistenza sanitaria degli emigranti e dei marinai. Milano: Francesco
Vallardi.
Sanfilippo, M. (2002). Problemi di storiografia dell’emigrazione. Viterbo: Sette città.
Taliani, S., & Vacchiano, F. (2006). Altri corpi. Antropologie e etnopsicologia della
migrazione. Milano: Unicopli.
Thomas, W.I., & Znaimecki, F. (1968). Il contadino polacco in Europa e in America.
Milano: Edizioni di Comunità.
Zanfrini, L (2014). Sociologia delle migrazioni. Bari: Laterza.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Circola sul web un testo di cui si cita come fonte La Relazione dell’Ispettorato per
l’immigrazione del Congresso degli Stati Uniti ottobre 1919, testo che è stato ripreso da Rai
News 24, pubblicato sul web ad un indirizzo non valido, ma ancora accessibile che presenta
alcune differenze ed è riferito alla relazione dello stesso ispettorato, ma relativo al 1912. Ciò ha
suscitato un’ampia discussione e la volontà di verificarne l’autenticità soprattutto per il
momento storico in cui viviamo in cui il discredito si riversa sui nuovi immigrati e abbiamo
dimenticato di quando il pericolo eravamo noi. È questa comunque una citazione di almeno
terza mano anche perché è una traduzione ma il problema non è individuare esattamente la
fonte, l’anno della relazione o la sua veridicità perché, lasciando da parte la sua autenticità, la
discriminazione degli stranieri negli Stati Uniti è documentata. La citazione recita:
“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito
per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo un appartamento fatiscente. Si presentano in due e cercano una stanza con uso
cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili forse dialetti. Molti
bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina; spesso davanti alle chiese uomini e donne
invocano pietà con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai
uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia
perché pochi attraenti e selvatici sia perché e voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano
dal lavoro. I governa ti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo
selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti,
o addirittura di attività di crimine.”
Della pessima reputazione degli immigrati italiani parla anche Stella in Some aspects of italian
Immigration to the United States (1924) in cui questa reputazione è dimostrata chiaramente
dalle statistiche. Il libro di Veronesi, Italians–Americans and their communities of Cleveland
(1977), cita i casi di Petrosino e Sacco e Vanzetti e alcuni stralci della storia del Watergate in
cui il Presidente Nixon rivela un forte sentimento anti-italiano. Il libro L’Orda (2003) di Stella
75
riporta citazioni di varie pubblicazioni americane che denotano un atteggiamento razzista anche
delle autorità nei confronti degli Italiani e la discriminazione tra Italiani del Nord e Italiani del
Sud, tanto che i dati statistici della Immigration Commission vengono divisi tra i due gruppi. A
questo punto possiamo dire che, vera o falsa, la citazione rispecchia il sentimento dell’epoca e
se è inventata è verosimile.
Abbiamo avuto per molti anni l’etichetta di Bel Paese, brutta gente, non potevamo entrare nei
tribunali dell’Alabama perché non ci consideravano di razza bianca, non potevamo accedere
alle sale di aspetto di terza classe nella stazione di Basilea, la stampa ci dipingeva come una
maledetta razza di assassini, eravamo definiti sporchi come maiali, non potevamo portarci
dietro i bambini e venivamo chiamati crumiri e siciliani. In tutta Europa era diffusa il luogo
comune “Bel Paese e brutta gente” usato da Gatterer (2014) come titolo di un romanzo. Ormai
abbiamo rimosso la storia, ci ha affascinato l’idea di essere stati poveri ma belli e pensare che,
a differenza dei migranti di altre etnie, dovunque andavamo venivamo accolti subito bene e ci
guadagnavamo immediatamente stima e rispetto. Questo, naturalmente è stato vero per molti
anni infatti abbiamo esportato in Francia Cezanne, il cui nome era Cesana, scrittori, eroi
nazionali, attori, ma non è stato sempre così. È stata soprattutto la politica fascista a voler
occultare la realtà. Ad esempio, in occasione del naufragio della nave italiana, colata a picco a
90 miglia dalle coste di Rio de Janerio con il carico di emigranti, il Corriere della Sera del
27/1/1927 riserva al fatto tre colonne e titola “Il Principessa Mafalda naufragato al largo del
Brasile – Sette navi accorse all’appello – 1200 salvati – poche decine le vittime”, i morti invece
erano 314, ma se ne è parlato sette giorni dopo in un titolino dove, invece, di elencare i nomi
delle vittime si parlava dei sopravvissuti. L’Italia stessa non considerava chi viaggiava in terza
classe. Dai rapporti dei Consoli emergeva la preoccupazione che i nostri connazionali facevano
fare brutta figura perché sporchi, rumorosi, mendicavano ed erano delinquenti. Basta pensare
al tira e molla per approvare la legge sul voto agli emigranti. Le lettere raccolte in Merica!
Merica!, tra cui quella di Sartori, sono la testimonianza della considerazione riservata ai nostri
connazionali. Sartori racconta il disagio che ha vissuto sulla nave su cui è emigrato. Racconta
che sono stati fermi a Marsiglia quattordici giorni e la difficoltà ad alimentarsi in quanto ci dice
che quattro giorni lui e i suoi compagni hanno mangiato ciò che avevano, i successivi quattro
hanno dato loro un franco al giorno e per i restanti sei, con questi soldi, hanno dovuto comprare
cibo a bordo. Egli ci dice pure che, negli ultimi sei giorni, ha mangiato solo tre perché i soldi
non erano sufficienti.
Anche la poesia di De Amicis Gli emigranti offre un quadro molto doloroso del distacco degli
emigranti dalla Patria, dalle famiglie e mostra la loro povertà.
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“Cogli occhi spenti, con lo guancie cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s’ascende il palco de la morte.
E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra.
Altri un misero involto, altri un patito
Bimbo, che gli s’afferra
Al collo, dalle immense acque atterrito.
Salgono in lunga fila, umili e muti,
E sopra i volti appar bruni e sparuti
Umido ancora il desolato affanno
Degli estremi saluti
Dati ai monti che più non rivedranno.
Salgono, e ognuno la pupilla mesta
Sulla ricca e gentil Genova arresta,
Intento in atto di stupor profondo,
Come sopra una festa
Fisserebbe lo sguardo un moribondo.
Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.
Traditi da un mercante menzognero,
Vanno, oggetto di scherno allo straniero,
Bestie da soma, dispregiati iloti,
Carne da cimitero,
Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.
Vanno, ignari di tutto, ove li porta
La fame, in terre ove altra gente è morta;
Come il pezzente cieco o vagabondo
Erra di porta in porta,
Essi così vanno di mondo in mondo.
Vanno coi figli come un gran tesoro
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Celando in petto una moneta d’oro,
Frutto segreto d’infiniti stonti,
E le donne con loro,
Istupidite martiri piangenti […]” (De Amicis, 1882).
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e con un patrimonio artistico invidiato da molti, siamo diventati razzisti dimenticando che lo
stesso Dickens, in patria paladino dei deboli ed emarginati, si dimostra altezzoso nei confronti
degli Italiani e Sartre, nel 1936, a proposito dei napoletani diceva che la pelle delle napoletane
aveva un aspetto di bollito sotto il sudiciume. Gli Italiani hanno suscitato repulsione anche
perché erano propensi alla rissa e all’accoltellamento e ciò faceva dimenticare l’operosità di
molti. Abbiamo dimenticato, ma tutto quello che diciamo dei nuovi invasori si diceva di noi:
sono clandestini, e noi lo eravamo tanto è vero che i Consolati raccomandavano all’Italia
di controllare i passi alpini e le coste per evitare che partissimo;
si accalcano in case in condizioni igieniche rivoltanti, e noi eravamo famosi per questo
tanto che un prete irlandese a New York diceva che gli Italiani riuscivano a stare in uno
spazio così piccolo che nessun appartenente ad altro popolo avrebbe potuto farlo, ad
eccezione, forse, del popolo cinese;
si vendono le donne e noi le vendevamo nelle case di appuntamento di Porto Said;
sfruttano i bambini e noi li vendevamo per cento lire a chi poi li vendeva per farli
lavorare in miniera;
rubano il lavoro ai disoccupati e noi siamo stati massacrati per questo;
importano criminalità, noi dappertutto abbiamo esportato mafia, camorra, etc.;
fanno troppi figli, noi lo stesso. Basta leggere i reportage della giornalista Amy Bernard,
i libri sull’Australia di Cecilia e di Massarotto che scriveva che i nostri migranti
facevano in media 8,5 figli a coppia, ma nel Rio Grande do Sul fino a dieci, dodici e
anche quattordici, come anche nelle campagne del Veneto, del Friuli e del Trentino
tanto che, come afferma Pittalis nel Viaggio Dalle tre Venezie al Nord Est Benito
Mussolini un giorno è arrivato a salutare novantacinque madri con complessivi 1310
figli, quattordici a testa;
ci sono tra loro un sacco di terroristi dopo l’attacco alle torri gemelle, anche noi però
abbiamo esportato l’anarchico romagnolo Mario Buda, considerato l’inventore
dell’autobomba che il 16 settembre 1920, alcuni giorni dopo l’incriminazione di Sacco
e Vanzetti, dopo aver piazzato una bomba in un carretto tra la banca Morgan &Stanley
e la Banca Valori fece esplodere Wall Street a New York. Riuscì a fuggire ma fu
arrestato, l’azione fu definita un atto di guerra, ci furono 23 morti e oltre 200 feriti e
danni per due milioni di dollari. Ciò avvenne ottanta anni prima di Bin Laden.
Vediamo quindi che l’emigrazione italiana è una storia di verità e bugie. È vero che eravamo
sporchi, ma non tutti, come non è vero che eravamo tutti mafiosi.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Dagli anni Ottanta del secolo scorso, dopo la caduta del muro di Berlino, nei paesi del bacino
del Mediterraneo, soprattutto in Grecia, Italia meridionale, Spagna e Francia, continuano ad
approdare incessantemente disperati che provengono dal Medio Oriente e dall’Africa. Essi sono
quasi tutti clandestini, arrivano su “carrette del mare” e, dopo avere attraversato e affrontato
indicibili sofferenze e pericoli, essersi affidati a organizzazioni criminali che li sfruttano e li
vessano, spesso muoiono durante la traversata tanto che il Mediterraneo è stato definito un
immenso cimitero.
Essi non costituiscono una massa minacciosa, ma sono donne, uomini e bambini che, nati nella
parte sbagliata del Mediterraneo, vanno alla ricerca di un piccolo spazio. Questi però vengono
percepiti dall’opinione pubblica come “un’orda”, come “invasori” e suscitano sentimenti di
xenofobia e razzismo.
È un fenomeno questo conosciuto da tutti in quanto quasi quotidianamente dai mass media
arrivano notizie di sbarchi, di tentativi di sbarchi, di navi bloccate e di morti nel mare
Mediterraneo per cui riteniamo opportuno affidarci, per quanto concerne i dati, a fonti
accreditate e istituzionali, che per maggiore completezza verranno esplicitamente riportati, e ci
limiteremo soltanto a esaminare le motivazioni di questi flussi, i luoghi di partenza, i problemi
di ordine generale e anche quelli particolari di alcuni punti di approdo, nonché un esempio di
accoglienza italiano conosciuto in tutto il mondo, anche se controverso.
Naturalmente l’arrivo di questi immigrati provoca dei problemi relativi:
all’ordine pubblico: molti pensano che l’immigrazione clandestina è strettamente
connessa alla delinquenza e in base a questa idea invocano la chiusura dei porti
soprattutto per le persone che non sono bianche. Relativamente a ciò dobbiamo dire che
spesso alcuni migranti sono coinvolti in azioni criminali; ma in tutte le nazioni esistono
i delinquenti e oltre tutto dobbiamo anche considerare che spesso la disperazione li butta
nelle braccia della delinquenza;
all’ordine organizzativo. Naturalmente altro problema è quello che deriva da un’equa
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ripartizione degli immigrati tra le nazioni europee, anche perché l’economia europea
occidentale non può fare a meno di questi lavoratori extraeuropei che, come sappiamo
tutti, vengono utilizzati per lavori dequalificati, umili e sottopagati che gli Europei non
tengono in considerazione;
all’ordine religioso. L’impatto tra le religioni giudaiche-cristiane e le altre genera spesso
problemi perché sono difficili da conciliare soprattutto per gli aspetti esteriori del culto.
Certamente gli episodi di intransigenza si potrebbero superare rimanendo nella
posizione del rispetto reciproco e nella libertà di culto anche nella forma di
manifestazioni collettive. Ad esempio, la fine del Ramadan islamico prevede un
momento di preghiera e raccoglimento collettivo che spesso ha luogo nelle pubbliche
piazze per permettere la partecipazione del maggior numero possibile di fedeli. Ciò ha
causato momenti di tensione e dissapori con alcuni cittadini italiani che ritenevano che
l’occupazione del suolo pubblico non fosse lecita;
al ruolo e funzione dell’Europa. Nel momento in cui, dopo la seconda guerra mondiale,
i padri fondatori dell’Europa decisero di organizzare un’unione per evitare che si
ripetessero tragedie quali quelle del 1914-1915 e del 1939-1945, è nata l’Unione
Europea. La sua nascita non è stata facile e ora, a maggior ragione, dal momento che ne
sono entrati a far parte nuovi Stati, l’Europa si presenta diversa da quella che era al
tempo della firma del Trattato di Roma del 1958.
A questo punto è necessario capire le cause dei flussi migratori attuali e individuare i paesi di
partenza e le rotte.
Dall’analisi dei paesi di provenienza si intuisce chiaramente che questi migranti non si
muovono più per motivi economici ma politici, essi infatti provengono da paesi come la Siria,
il Mali, la Nigeria e il Corno d’Africa e possono partire facilmente perché in questi paesi
mancano controllo e sicurezza. Essi partono soprattutto dalla Libia dove manca un’autorità
centrale per controllare i flussi che vengono gestiti da organizzazioni criminali.
Sarebbe auspicabile stabilizzare i paesi di provenienza e di traffico perché fermare i trafficanti
di vite umane non basta e non è applicabile il motto “Aiutiamoli a casa loro” che, come
vedremo, non ha senso in quanto:
la Libia, da dove parte la maggior parte dei migranti, è un paese in guerra, con due
governi in carica e un pezzo di territorio sotto il controllo dell’ISIS. Non ha, quindi, un
potere centrale, c’è un conflitto civile in atto, instabilità e ciò ha permesso a Jidhaisti e
criminali di lucrare sul traffico umano. Bisognerebbe, quindi, cercare in tutti i modi di
favorire un governo libico legittimo che realizzi l’accordo tra le parti. È il punto di
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raccolta della rotta dei migranti che vengono dall’Africa subsahariana e dal Medio
Oriente, da dove partono i barconi;
la Siria è il paese da cui parte la maggior parte dei profughi e fino a che la crisi in Siria
non sarà risolta questi migranti aumenteranno sempre più in quanto i paesi confinanti,
quali Giordania, Libano e Turchia, non sono più in grado di affrontare milioni di
rifugiati;
il Mali è entrato in crisi in concomitanza con la crisi libica ed è spaccato in due da una
guerra civile complicata anche dalla presenza di gruppi islamisti. Anche l’Italia ha dato
supporto logistico. Il conflitto è ancora in corso e l’ONU lamenta l’uso di bambini
soldato;
il Corno d’Africa è un crocevia di immigrazione e di emigrazione. È punto di partenza
di Eritrei, Somali ed Etiopi. I paesi del Corno d’Africa sono in una situazione di
insicurezza e instabilità. Ad esempio, la Somalia dal 1991 è piombata nel caos ed è
diventata un paese senza Stato in cui si sono avvicendati governi deboli ed è in preda
alla guerra civile. Chi scappa dalla Somalia ha diritto all’asilo. L’Eritrea, poi, dal 1993
è sotto una dittatura spietata che obbliga i ragazzi e le ragazze a un servizio militare
infinito e che sbatte gli oppositori, presunti o reali, in carcere da cui non escono vivi.
L’economia è in ginocchio, mancano i beni di prima necessità che sono reperibili solo
al mercato nero gestito da militari;
la Nigeria è il paese dell’Africa ricco di giacimenti petroliferi ma povero perché corrotto
e, dal 2002, in lotta con il gruppo terroristico jidhaista di Boko Haram. I Nigeriani
emigrano per problemi economici ma anche per problemi ambientali in quanto
l’estrazione del petrolio ha devastato l’ecosistema e la zona è diventata la più inquinata
del mondo;
lo Yemen è in guerra per cui un enorme massa di individui è costretta a spostarsi e tra
questi sono inseriti i profughi, ma anche gli internal displaced people che rimangono
all’interno del territorio hanno bisogno di assistenza umanitaria. Si stima che il 60%
della popolazione ha bisogno di tale assistenza. A questa massa di profughi yemenita si
devono aggiungere anche le altre persone provenienti da altre nazioni anch’esse teatro
di guerra, quali i Somali. Lo Yemen infatti è ed è stato un paese di transizione per i
migranti provenienti dal Corno d’Africa.
Dai dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) si evince
che, prima del Gennaio 2015, nello Yemen vi erano circa 246.000 rifugiati registrati e
82
di questi il 95% era originario della Somalia. Sempre gli stessi dati ci dicono che, in
seguito all’inizio dei combattimenti tra Houthi e Governo centrale, molti dei rifugiati
hanno lasciato il paese. Nonostante fosse lecito ipotizzare un loro ritorno in Somalia, si
sono diretti, invece, verso la sponda africana del Golfo di Aden. Secondo i dati dell’OIM
(Organizzazione Mondiale per le Migrazioni), quasi 30.000 individui, dopo avere
abbandonato lo Yemen, avrebbero raggiunto la Somalia e questa moltitudine è così
ripartita: l’89% sono Somali rimpatriati, l’1% immigrati di altre nazionalità e il 10%
Yemeniti. L’UNCHR sostiene che l’esodo dallo Yemen alla Somalia continua anche se
da Agosto a inizio Ottobre 2016 il numero di Yemeniti e Somali che arrivano dallo
Yemen alla Somalia si è ridotto e ciò è imputabile ad un peggioramento della situazione
yemenita. A causa del conflitto, infatti, le persone sono impossibilitate a raggiungere i
porti da cui partono i flussi migratori, Mokha e Mukalla, e i costi dei viaggi sono
notevolmente aumentati. Per cercare di risolvere questa situazione si sta considerando
un piano regionale che permetta di gestire la questione e dovrebbe coinvolgere i Paesi
del Golfo Persico e quelli del Corno d’Africa. Secondo le stime di OIM e UNHCR,
grazie a questo piano di intervento, verrebbe garantita una vita dignitosa agli individui
che scappano dallo Yemen.
Una grande massa di profughi e di migranti anche economici, quindi, si è riversata e continua
a riversarsi sulle rive del Mediterraneo tentando di raggiungere l’Europa. I governi europei si
incolpano l’un l’altro e attraverso i mass media incolpano i trafficanti di esseri umani e chiedono
alla Libia di bloccare le partenze. Gli scafisti, però, non sono la causa delle migrazioni, ma sono
l’effetto dei conflitti e dei drammi umanitari anche perché chi fugge da guerre e persecuzioni
non ha canali legali per accedere ai paesi sicuri e non ha alternative. I governi accusano gli
scafisti di essere i responsabili dell’aumento dei flussi e gli scafisti, a causa dell’irrigidimento
dei controlli, usano mezzi sempre più vecchi dove stipano al massimo le persone e utilizzano
piloti improvvisati talvolta presi tra i migranti stessi che in questo modo si pagano il viaggio.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
A questo punto della nostra trattazione ospitiamo la riflessione di Villa dal titolo “Gli sbarchi
in Italia: il costo delle politiche della deterrenza” consultabile al sito:
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/sbarchi-italia-il-costo-delle-politiche-di-deterrenza-
21326
“Dal 16 settembre, il periodo di calo degli sbarchi in Italia è entrato nel suo quindicesimo mese.
Lo scorso agosto in Italia sono sbarcate meno di 1.500 persone: il numero più basso per un
mese estivo dal 2012, l’anno che ha preceduto l’inizio della “crisi migratoria” in Italia. E,
nonostante da inizio settembre l’instabilità politica in Libia sia ulteriormente aumentata, le
partenze dal paese sono rimaste comunque molto basse.
È dunque giunto il momento di domandarsi: quanto conviene all’Italia inasprire ulteriormente
le azioni e le politiche volte a scoraggiare gli arrivi via mare? È una questione di costo-
opportunità, che deve includere una riflessione su quanto capitale politico l’Italia intenda
spendere sul fronte della questione migratoria, e dove. La risposta non può prescindere dal costo
in termini di vite umane che accompagna, a oggi, l’ulteriore stretta sui salvataggi in mare
inaugurata dal nuovo governo italiano.
Le politiche di deterrenza nei confronti dei salvataggi in mare non sono nuove. Il 2017 era già
stato costellato dal montare delle polemiche sul ruolo delle Ong, accusate da molti di costituire
un pull factor, ovvero di incoraggiare, con il loro spingersi quasi a ridosso del mare territoriale
libico, le partenze dalla Libia. Malgrado la plausibilità dell’ipotesi, urge ricordare che i dati ci
dicono qualcosa di diverso, ovvero che le attività di salvataggio in mare delle Ong non hanno
avuto alcuna influenza sull’intensità dei flussi migratori irregolari dalla Libia. Al contrario, il
grande calo delle partenze dalla Libia e degli sbarchi in Italia ha una causa ben precisa, che va
ricercata sulla terraferma libica: la decisione di iniziare a collaborare con l’Italia e con l’Ue,
presa nel luglio 2017 da una serie di milizie libiche che gestivano o tolleravano i traffici
irregolari.
Va inoltre ricordato che, nonostante il governo Gentiloni avesse chiesto alle Ong di firmare un
controverso “codice di condotta” o sospendere le operazioni in mare, fino a maggio di
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quest’anno le azioni di ricerca e soccorso non sono mai state apertamente e attivamente
osteggiate dal governo italiano. Dallo scorso giugno, con l’entrata in carica del governo Conte,
la strategia è cambiata. Alla cooperazione con gli attori che in terra libica gestiscono i traffici
si sono affiancate vere e proprie azioni di deterrenza nei confronti non soltanto delle Ong, ma
di chiunque operi salvataggi in mare lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Incluse navi
mercantili, assetti navali di Frontex e persino della Guardia costiera italiana.
Proprio il cambio di passo della strategia italiana consente una riflessione più precisa sulle
possibili conseguenze dell’ulteriore stretta nei confronti delle operazioni di soccorso in mare,
utilizzando i dati di cui si dispone a oggi.
Per poter confrontare le conseguenze delle diverse politiche migratorie, è utile suddividere il
recente passato in tre periodi:
I dodici mesi precedenti al calo degli sbarchi: dal 16 luglio 2016 al 15 luglio 2017;
Il periodo delle “politiche Minniti”, che va dall’inizio del calo degli sbarchi all’entrata
in carica del governo Conte: dal 16 luglio 2017 al 31 maggio 2018;
Il periodo delle “politiche Salvini”, ovvero quello successivo all’entrata in carica
dell’attuale compagine di governo: dal 1 giugno al 30 settembre 2018.
Osserviamo perciò cos’è accaduto nei tre periodi sia sul fronte degli sbarchi in Italia, sia su
quellodel numero (stimato) di morti e dispersi in mare. Per rendere facilmente confrontabili
periodi di durata differente, utilizziamo dati calcolati su base giornaliera.
Prima di continuare, va sottolineato che questo esercizio considera come assodate e impossibili
da quantificare le terribili condizioni dei migranti in Libia. Questi ultimi sono quasi sempre
detenuti per lunghi periodi di tempo e soggetti a trattamenti inumani e
degradanti (secondo MEDU, questa sorte è toccata ad almeno l’85% di chi è sbarcato in
Italia negli ultimi anni), o addirittura a torture.
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Sbarchi in Italia. Nei dodici mesi precedenti al calo degli sbarchi, in Italia sono arrivate dal
mare in maniera irregolare circa 195.000 persone. Con il passaggio alle politiche Minniti si è
invece osservato un netto calo degli arrivi, proseguito in maniera molto lineare per circa 11
mesi.
Utilizzando i dati su base giornaliera si può notare come, nei 12 mesi precedenti al calo degli
sbarchi, in Italia arrivassero irregolarmente dal mare 532 persone al giorno (vedi fig. 1). Nel
periodo che coincide con l’attuazione delle politiche Minniti, tale numero è sceso del 78%, per
un totale di 117 persone al giorno. Il periodo che corrisponde alle politiche Salvini ha fatto
registrare un’ulteriore riduzione degli sbarchi (circa 61 al giorno): una contrazione equivalente
al 48% rispetto al periodo delle politiche Minniti, e all’89% se confrontata con l’ultima fase
della “crisi migratoria” in Italia.
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Morti e dispersi nel Mediterraneo centrale. Spesso, le analisi che studiano le morti in mare nel
Mediterraneo pongono l’accento sul rischio di morte, calcolando la probabilità di perdere la
vita nel corso della traversata. Questo settembre, per esempio, il 19% di chi sappiamo avere
tentato la traversata dalla Libia è risultato morto o disperso – una percentuale mai
registrata lungo la rotta del Mediterraneo centrale da quando si dispone di statistiche
sufficientemente accurate.
Tuttavia, anche se rischio di morte rimane una variabile importante, non è quella dirimente: se
dalle coste libiche partissero solo tre persone e una risultasse morta o dispersa, il rischio sarebbe
altissimo (33%), ma la rilevanza politica dell’evento sarebbe molto bassa. Il decisore politico
dovrebbe essere invece molto più interessato alla stima del numero assoluto delle persone
effettivamente morte o disperse in mare in un dato periodo di tempo.
Basandoci proprio su questo dato emerge una dinamica molto diversa rispetto a quella di
costante diminuzione riferibile agli sbarchi in Italia. Nel periodo precedente al calo degli
sbarchi, infatti, si stima che siano morte poco meno di 12 persone al giorno (vedi fig. 2). Il
periodo che coincide con le politiche Minniti è stato accompagnato da una netta diminuzione
del numero assoluto dei morti, sceso a circa 3 persone al giorno. Ai quattro mesi di politiche
Salvini corrisponde invece un nuovo forte aumento del numero di morti e dispersi, tornati ad
aumentare fino a raggiungere le 8 persone al giorno. Il trend delle morti in mare segue una
caratteristica curva a “V”: si è drasticamente ridotto nel corso della prima fase del calo degli
sbarchi, ma ha poi fatto registrare un nuovo balzo verso l’alto durante gli ultimi quattro mesi.
Per comprendere le effettive dimensioni del fenomeno, basti pensare che il numero di morti e
dispersi al giorno registrato in corrispondenza delle politiche Minniti sarebbe raggiungibile dal
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periodo di politiche Salvini solo se, lungo la tratta libica, non venissero registrati morti e
dispersi per i prossimi sei mesi.
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periodo Minniti.
In conclusione, le politiche Salvini di ulteriore deterrenza in mare sono coincise con un calo
degli sbarchi di circa 28.000 unità, equivalente a meno del 20% rispetto al calo di 150.000 unità
fatto registrare con le politiche Minniti. Allo stesso tempo, il periodo di politiche Salvini ha
coinciso con un forte aumento delle morti in mare, che hanno invertito il trend di netta
diminuzione del periodo precedente.
Nella valutazione delle politiche pubbliche non dovrebbe mai mancare una riflessione sul
costo-opportunità di ciascuna decisione. A quattro mesi dall’inizio della stretta sui salvataggi
in mare, alla luce dei numeri in nostro possesso, appare come minimo dubbia l’utilità delle
politiche di deterrenza nei confronti del soccorso in mare che, a fronte di una riduzione
relativamente modesta degli sbarchi in Italia, ha coinciso con un forte aumento del numero di
morti e dispersi.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Come abbiamo già osservato, le migrazioni dal Medio Oriente e dall’Africa riguardano solo in
piccola parte la migrazione economica. I flussi migratori, nella quasi totalità, sono formati da
rifugiati che fuggono per motivi umanitari dalle loro terre devastate da guerre civili senza fine
e da condizioni di vita disumane.
Questi migranti, nel momento in cui lasciano la loro terra, hanno perso la protezione dello Stato
di appartenenza ma anche i diritti di cittadinanza e sono diventati persone senza patria. Mentre
nel periodo dei regimi totalitari europei e nel periodo dopo la guerra i rifugiati erano considerati
oppositori al regime, questi, nella migliore delle ipotesi, sono considerati vittime traumatizzate.
A tal proposito alcuni critici sostengono che nel momento in cui si fa un appello ai valori
umanitari si ha un effetto controproducente perché si rimpiazza il riconoscimento di un diritto.
Il riconoscimento dello status di rifugiato non deve essere, infatti, un atto di generosità verso lo
straniero sofferente, ma un atto dovuto. Ormai si parla di questi migranti come di immigrati
illegali e vengono etichettati come clandestini e l’atteggiamento nei loro confronti oscilla tra
repressione e compassione. Certamente i flussi migratori, che hanno una consistenza non
indifferente, non possono essere ignorati ed è necessario che vengano regolamentati attraverso
chiare indicazioni normative da parte dell’Europa. È necessario che vengano istituiti canali per
la protezione umanitaria, si regolamentino in modo adeguato le richieste di asilo presso
Ambasciate e Consolati e si creino aree di reinserimento vicino alle aree di crisi.
Sostenere che bisogna pattugliare e chiudere le rotte non garantisce nulla in quanto ultimamente
si sono aperte altre rotte, come ad esempio quella marittima dalla Turchia alle isole greche e
quella terrestre dalla Turchia attraverso i Balcani. Ormai in tutta l’Europa la gestione di questi
flussi migratori è diventata difficile ed è diventata un problema che spesso viene enfatizzato
per propaganda politica. Ci sono stati anche pattugliamenti delle frontiere da parte degli Stati
europei, pattugliamenti che sono previsti dalla normativa europea. Questi pattugliamenti, però,
dovrebbero essere l’ultima ratio e limitati nel tempo. Se anche si è arrivati al punto di chiudere
le frontiere e bloccare gli accessi e sono ricomparsi i muri. Certamente la situazione è
complessa, ma si dovrebbe riflettere sul fatto che queste persone per la maggior parte dei casi
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non hanno canali alternativi e non possono esibire nemmeno una documentazione.
Purtroppo se alla fine della seconda guerra mondiale, il migrante era considerato meritevole di
protezione, oggi, invece, è considerato un migrante internazionale non autorizzato.
Nonostante i blocchi delle ONG, i respingimenti in Libia e i pattugliamenti da parte della
Guardia Costiera libica, i flussi, anche se diminuiti, continuano.
È bene ricordare che è stata istituita la Giornata della memoria dei naufraghi, che ricade il 3
Ottobre, per ricordare la morte di 368 naufraghi al largo di Lampedusa nel 2013. È stata istituita
con la legge del 21 Marzo 2016, n.45, per ricordare:
“chi ha perso la vita nel tentativo di migrare verso il nostro paese per sfuggire alle guerre, alle
persecuzioni, alla miseria.”
Lampedusa in seguito alla Primavera Araba e le successive rivolte del 2011, è stata il punto di
arrivo di molte persone che si sono riversate sulle coste meridionali del continente europeo
battendo, soprattutto, la rotta centrale verso Lampedusa che è a soli 167 Km dalla Tunisia.
È bene ricordare che nella notte tra il 2 e il 3 Marzo del 2013, al largo delle coste dell’isola di
Lampedusa, un barcone di venti metri si è capovolto ed è colato a picco. Era partito da Misurata
e a bordo c’erano 500 tra Eritrei e Somali di cui ne sono sopravvissuti solo 155 tra cui anche
41minorenni non accompagnati (solo uno era con la famiglia). Al largo di Lampedusa sono
morti centinaia di migranti e il Mediterraneo è stato considerato uno dei luoghi più pericolosi
del mondo tra i paesi non in guerra. Questa tragedia colpisce l’opinione pubblica e suscita un
enorme emozione la vista di centinaia di bare che era stato difficile reperire sull’isola ed era
stato necessario trasportare dalla terraferma. Lo stesso Governo chiede l’intervento dell’Europa
per risolvere la crisi umanitaria e in conseguenza di ciò il Governo italiano autorizza
l’operazione Mare Nostrum per evitare nuove stragi, salvare le vite e combattere il traffico degli
esseri umani. Le operazioni di pattugliamento durano un anno e questo programma viene
sostituito con Tritone che ha un budget ridotto e i controlli sono limitati ai confini.
A questo punto, invece di discutere su ciò che bene e ciò che è male, al di là di ogni valutazione
politica, riteniamo opportuno allegare la lettera dell’allora Sindaco di Lampedusa Nicolini, che
ha gestito grandi flussi migratori e che per la sua opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra
cui il premio per la pace Felix Houphouet-Boigny dell’UNESCO, al Governo e alle Nazioni
Unite. Ormai i profughi non li vuole più nessuno così come nemmeno le ONG, che impediscono
alle motovedette libiche di fare i pattugliamenti per cui sono finanziate dall’Europa, riporteremo
anche la prefazione al libro dei giornalisti Viviano e Ziniti, Non lasciamoli soli: Storie e
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testimonianze dall’inferno della Libia. Quello che l’Italia e l’Europa non vogliono ammettere.
Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate
mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per
Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la
Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme,
perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una
domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si
possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8
giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato
scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne
sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al
numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal
silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una
strage che ha i numeri di una vera e propria guerra.
Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di
vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il
viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare
debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore.
In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio
ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140
miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato
scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente
governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette
vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando
pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.
Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e
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all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese
e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i
telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la
pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza”.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
La Nicolini ripropone con più forza e chiarezza il suo pensiero nella prefazione del libro Non
lasciamoli soli: Storie e testimonianze dall’inferno della Libia. Quello che l’Italia e l’Europa
non vogliono ammettere.
“Una macchia per tutta l’Europa
Sarebbe stato doveroso interrogarsi su ciò che sta succedendo in Africa e in Libia e, anzi,
cominciare a riflettere seriamente su cosa accadrà nei decenni a venire con gli effetti dei
cambiamenti climatici; combattere la tratta di esseri umani anche e soprattutto con l’apertura di
canali d’ingresso legali e sicuri per i rifugiati; riconoscere che le politiche di chiusura non
servono a proteggere i confini dagli ingressi, ma a condannare a morte migliaia di persone
l’anno; costringere l’Europa intera a riconoscere che trentamila morti in quindici anni sono una
strage e una macchia indelebili per tutti noi; rivoluzionare l’approccio nell’accoglienza
innanzitutto a casa nostra e poi in sede europea; estendere, potenziare e coordinare le politiche
di cooperazione e sviluppo; chiedere la presa in carico, da parte della comunità internazionale,
di tutti i campi profughi africani, al fine di proteggere le persone là dove, come in Libia, i diritti
umani vengono crudelmente violati, e sostenere invece quei paesi poverissimi ma virtuosissimi
come l’Uganda, che accoglie un milione e mezzo di rifugiati sud-sudanesi. Si è invece preferito
criminalizzare prima Mare Nostrum, in modo da ottenerne la chiusura, e poi le ong (che a un
certo punto erano diventate l’unico ostacolo alla legittimazione dei “respingimenti” in mare,
effettuati con la consegna dei naufraghi alle motovedette della Libia), nell’ottica di
esternalizzare le frontiere anche nell’area sudmediterranea, in linea con quanto già fatto sui
Balcani, dopo l’accordo con la Turchia. Ciò che trovo grave e imperdonabile nella persecuzione
e nel contrasto delle attività di soccorso delle ong è il messaggio trasmesso ai giovani, che
invece dovrebbero essere sensibilizzati alla cultura della sacralità della vita e dei diritti, dei
valori del volontariato, della cittadinanza attiva, della pratica del principio di solidarietà
necessaria a costruire legami e ad abbattere barriere di ogni genere. È spaventosa la velocità
con cui è avanzata la barbarie in questi anni: ricordiamo la durissima omelia pronunciata da
Papa Bergoglio a Lampedusa l’8 luglio 2013 e lo sdegno collettivo davanti alle 366 bare del 3
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ottobre dello stesso anno, cui fece seguito, come ricordato, l’avvio dell’operazione umanitaria
Mare nostrum poi soppressa sotto il fuoco incrociato delle opposizioni interne e dell’Europa.
Da quel momento abbiamo assistito all’irrigidimento della fortezza Europa e al sostanziale
fallimento del piano di ricollocamento dei rifugiati in proporzione alla capacità di accoglienza
di ciascun paese: piano rimasto tuttora in gran parte inattuato, non solo per la ferma opposizione
dei paesi dell’Est Europa.
Intanto, con l’imposizione degli hotspot a Italia e Grecia, si è reso effettivo il principio stabilito
dal Regolamento di Dublino, in base al quale tutti coloro che sono sbarcati dal 2015 non
possono più raggiungere nessun altro paese dell’Europa. Per il nostro paese l’hotspot è stato un
punto di crisi inevitabile perché sono diventati massivi i “respingimenti” verso l’Italia di tutti
coloro che cercano altri stati europei attraversando le Alpi. Dimenticati in fretta la foto del
piccolo Aylan morto sulla spiaggia e il coraggio di Angela Merkel nell’aprire le porte del suo
paese a oltre un milione di siriani, ora si respinge senza vergogna: meglio non conoscere nomi,
età, storie, non guardare della Libia. Nel tempo di Trump e dei populismi più feroci, della crisi
epocale della sinistra e dei calori di riferimento, dello smarrimento generato dai cambiamenti
indotti dalla globalizzazione e di fronte alla complessità delle sfide che i paesi più ricchi del
pianeta non sanno o non vogliono raccogliere, quello che noi possiamo fare è costringere le
persone, ogni persona, a guardare in faccia i respinti. Nominandoli, raccontando i loro sogni
insieme alla loro sofferenza, schierandoci dalla parte dei diritti e della vita, prestando la nostra
voce a chi non ce l’ha più. Costruendo umanità a poco a poco e contaminando le esperienze.
Sono sicura che questa è la strada per restare umani, perché è quella percorsa dalla mia isola,
che è stata capace di accogliere senza spopolarsi, anzi aumentando le presenze turistiche, dopo
essere stata per tanto tempo vittima della speculazione politica e del pregiudizio pubblico.
Nel 2011 Lampedusa è stata utilizzata dalla Lega come teatro di quella che si può definire
l’“invasione perfetta”, perché il governo Berlusconi vi lasciò per ben due mesi, come in una
prigione a cielo aperto, un numero di ragazzi tunisini ancor più grande della popolazione
residente sull’isola. L’operazione era pensata per mostrare al resto del paese come si
trasformano i territori invasi dai migranti. Lo ripeto sempre, a rischio di diventare noiosa: se
Lampedusa è stata un laboratorio per xenofobi e nuovi fascismi, a maggior ragione deve esserlo
per chi vuole capire i meccanismi perversi da smantellare per uscire dal tunnel e ricominciare
a sperare. Lampedusa, nel 2009, è stata anche laboratorio dei “respingimenti” in mare. Il circolo
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di Legambiente di cui sono stata responsabile per tanto tempo dall’Aprile di quell’anno porta il
nome di Esther Ada, la giovanissima ragazza nigeriana che, diversamente da suo fratello e da
tutti i compagni di viaggio recuperati in mare dal mercantile turco Pinar, non riuscì a salvarsi.
Tirata a bordo già morta, il suo corpo avvolto da una coperta rimase sul mercantile per cinque
lunghi giorni, insieme a tutti gli altri superstiti, perché la Pinar veniva respinta da tutti i porti
d’Italia, oltre che da Malta. L’ordine era di riportare in Libia quel carico. La tenacia del valoroso
comandante turco, che alla fine decise di rimanere fermo al largo di Lampedusa, e il blitz
giornalistico di Francesco Viviano a bordo della Pinar, con la conseguente diffusione delle
immagini di quello strazio, costrinsero il governo Berlusconi ad autorizzare l’attracco a
Lampedusa, dove si celebrò un funerale e dove Esther fu sepolta.
Ero quasi a fine mandato quando da sindaca, l’anno scorso, ho condotto su quella tomba Matteo
Salvini il quale, anziché entrare nel merito della tragedia, ha preferito scandalizzarsi per un
gruppo di ragazzini che giocavano a pallone nel campetto dove Bergoglio aveva denunciato la
“globalizzazione dell’indifferenza” (e dove oggi c’è il primo vero campo sportivo di
Lampedusa, realizzato dalla Lega calcio di serie B come gesto concreto di solidarietà verso i
ragazzi che vivono sull’isola o vi sbarcano).
Era comunque un segno: da giugno 2017 io non sono più sindaca e il 4 marzo 2018, per la prima
volta nella storia, la Lega ha fatto il boom di voti anche a Lampedusa.
Ma nessuno mi convince che sia stato uno sbaglio trasformare la porta dell’inferno nella porta
d’Europa, avere rispetto dei vivi e dei morti, rappresentare degnamente quella Lampedusa che
si è accesa come un faro nel buio pesto di questo presente. Sono testardamente convinta,
conoscendo uno a uno gli elettori e gli interessi in gioco, che le elezioni, nei piccoli territori,
non si vincono e non si perdono sui temi dell’immigrazione e dell’accoglienza.
Ma c’è di più: sono testardamente convinta che se non si trova il coraggio di investire a medio
e lungo termine nell’accoglienza e nell’inclusione, nella cultura e nella pratica della solidarietà,
nell’importanza dell’etica della responsabilità, non sarà mai possibile eliminare dallo scontro
politico nazionale il tema più facilmente strumentalizzato dai populismi di tutti i tempi e di ogni
luogo. Il nodo dell’immigrazione continuerà comunque ad agitare la sfera dell’irrazionale negli
anni a venire, dato che i movimenti migratori forzati cresceranno più in fretta del buon senso
dei paesi ricchi, che infatti non solo continuano a costruire muri, ma non mostrano alcuna
intenzione reale di “aiutarli a casa loro”, anzi, non mostrano di avere neppure compreso che la
fortissima interdipendenza accentuata dalla globalizzazione richiede uno sforzo esattamente
opposto alle azioni dissennate attuate con l’uscita di Trump dall’accordo di Parigi, o in Europa,
con la Brexit e la rinascita delle pulsioni nazionaliste. Questo significa che nessuno può
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chiamarsi fuori dal compito di rigenerare il senso di umanità che sembra perduto e di risvegliare
la ragione sopita (che poi è la stessa cosa).
Nell’ultimo rapporto Oxfam sono stati pubblicati dati sconcertanti sulla crescita dei divari e
delle disuguaglianze nel mondo e all’interno dei singoli paesi. Come si può continuare a
combattere la solidarietà invece che la povertà, se l’un per cento più ricco della popolazione
mondiale ha beneficiato dell’82 per cento dell’incremento della ricchezza globale registrata nel
2017, mentre il 50 per cento più povero della popolazione mondiale non ha beneficiato di
nessun incremento?
In Stranieri alle porte di Zygmunt Bauman si legge. “Noi siamo un solo pianeta, una sola
umanità. Quali che siano gli ostacoli, e quale che sia la loro apparente enormità, la conoscenza
reciproca e la fusione di orizzonti rimangono la via maestra per arrivare alla convivenza pacifica
e vantaggiosa per tutti, collaborativa e solidale.
Non ci sono alternative praticabili. La “crisi migratoria” ci rivela l’attuale stato del mondo, il
destino che abbiamo in comune”.
Ecco: il presente volume serve proprio a questo.
A costruire coscienze e consapevolezze che facciano indignare sempre più persone per la sorte
riservata a coloro che fuggono da guerre, persecuzioni e miserie. Costretti a divenire merci nelle
mani dei criminali e condannati a morire in mare o a essere salvati, solo per essere riconsegnati
ai libici e ricondotti nelle prigioni in cui le donne vengono stuprate e gli uomini torturati o
venduti all’asta come schiavi,
Tutto questo deve finire, al più presto.”
Abbiamo deciso di accennare all’esperienza di Riace che è meglio conosciuta come il “modello
Riace” in tutto il mondo.
Ciò che è avvenuto a Riace è un esempio di accoglienza e di rinascita sia per i profughi sia per
il paese accogliente e Riace, ad opera di Lucano, è diventato un modello di integrazione e
accoglienza, conosciuto e studiato in tutto il mondo. È un modello che, come racconta lo stesso
Lucano, è nato per caso quando nel 1998 sulle coste della Calabria Jonica approda una barca
carica di Curdi. Lucano decide di accogliere gli immigrati e integrarli nella comunità e per fare
ciò utilizza il Programma Nazionale di Asilo (dal 2002) e, poi, coinvolge il Comune di cui è
diventato Sindaco dal 2004 per tre mandati.
Egli ha accolto i profughi ma, nello stesso tempo, ha rilanciato il paese che, come tanti paesi
dell’Italia e soprattutto del Meridione, era destinato a diventare un paese fantasma in quanto la
maggior parte della popolazione era emigrata ed erano rimasti soltanto anziani.
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Egli con la sua opera di accoglienza:
recupera le case abbandonate che rinnova con l’aiuto degli stessi migranti rendendole
abitabili per dare a questi un insediamento decoroso;
rilancia i vecchi mestieri e le attività artigiane;
ripopola il paese anche se non tutti si fermano a lungo;
usa i fondi pubblici per fare nascere laboratori;
crea un welfare in cui coinvolge anche i privati;
utilizza i pocket money giornalieri attraverso una moneta complementare in modo che i
migranti possano fare la spesa dai commercianti del luogo;
rinvigorisce il commercio permettendo al commercio di Riace di sopravvivere.
Lucano è stato inserito nella rivista Fortune tra le cinquanta personalità più influenti del mondo
e alla domanda del reporter se il modello Riace è esportabile risponde che lo è, ma con
gradualità e solo laddove prevale l’umanità. Nella rivista si legge:
“Ha salvato la città la cui popolazione oggi include migranti provenienti da venti nazioni rinvigorendo
l’economia del comune (Riace ha infatti ospitato seimila richiedenti asilo. Anche se la sua posizione pro-
rifugiati lo ha messo contro la mafia e lo Stato, il modello di Lucano ormai è stato adottato e studiato come
esempio nell’ambito dei rifugiati in Europa.”
Attraverso quel modello un piccolo paese è conosciuto in tutto il mondo e certamente non tutti
i profughi si sono fermati a Riace per sempre, ma si sono fermati in attesa del permesso di
soggiorno e Riace da paese fantasma è diventato paese dell’accoglienza e dell’integrazione.
Erano sbarcate trecento persone partite dall’Iraq e dalla Turchia e Lucano ha approfittato di
questa occasione per cambiare il volto del paese. Nel corso degli anni molti si sono interessati
a Riace, ad esempio il regista tedesco Wim Wenders ha realizzato un cortometraggio, La voce,
su questo modello e il regista al ritorno in Germania riferisce che Riace è il luogo in cui cadono
muri più importanti di quello abbattuto a Berlino. Il Sindaco ha ricevuto, poi, a Dresda il premio
per la pace e da più parti si chiede che Riace sia dichiarata Patrimonio dell’Umanità.
A Riace, infatti, convivono senza frizioni anziani e immigrati che si occupano chi della raccolta
differenziata, chi di lavoro nei laboratori o sulla stessa spiaggia del paese. La comunità di Riace
è una comunità felice perché l’integrazione conviene a tutti: riaprono le scuole e i ristoranti, la
natalità supera la mortalità, vi vivono cinquecento profughi e gli immigrati rappresentano un
terzo della popolazione, c’è chi tesse, chi lavora il legno, chi lavora il ferro, chi ricama e così
via. L’esperienza è stata contagiosa e il modello è stato adottato anche a Caulonia e a Stignano
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dove sono state aperte le case disabitate e viene offerta assistenza. La rete dei comuni solidali
si allarga e ci sono diverse associazioni che lavorano per l’immigrazione. I progetti sono legati
al sistema di protezione dei richiedenti asilo e si è sviluppato anche il turismo solidale.
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Bibliografia
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Taliani, S., Vacchiano, F. (2006). Altri corpi. Antropologie e etnopsicologia della
migrazione. Milano: Unicopli.
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Zanfrini, L (2014). Sociologia delle migrazioni. Bari: Laterza.
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MODULO 7 - STORIA E POLITICA DELLE MIGRAZIONI
Sitografia
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