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LA POPOLAZIONE

I TA L I A N A
La demografia è la scienza
che studia le popolazioni
umane analizzando la loro
struttura, per esempio le
dimensioni e la composizione
per sesso e per età, e i processi
che ne determinano
l'evoluzione, come la natalità,
la mortalità e le migrazioni.
GLOSSARIO

Densità abitativa: il rapporto tra il numero di persone che abitano in un’area e la superficie
dell’area stessa; si misura in numero di abitanti/ km².

Tasso di natalità: il rapporto tra il numero di nascite in una comunità o in un popolo e il suo
numero di abitanti, durante un determinato periodo che generalmente è di un anno.

Tasso di mortalità: il rapporto tra il numero delle morti in una comunità o in un popolo durante
un periodo di tempo (generalmente un anno) e il numero di abitanti.

Saldo naturale: la differenza fra il numero dei nati e il numero dei morti in un certo periodo.

Saldo migratorio: la differenza fra gli immigrati e gli emigrati.

Transizione demografica: il passaggio da livelli di natalità e mortalità elevati, tipici delle società
preindustriali, a livelli bassi, caratteristici delle società mature avanzate.

Speranza di vita: il numero medio di anni che ogni individuo ha la probabilità di vivere.
LA POPOLAZIONE ITALIANA

• Secondo l’ultimo censimento dell’ISTAT (


https://www.istat.it/it/files/2023/04/indicatori-anno-2022.pdf), al 1° gennaio 2023 la
popolazione italiana conta 58.851.717 persone: il 48,7% sono uomini e il 51,3% sono
donne. L’8,6% sono persone con cittadinanza straniera.

• L’Italia è dunque il terzo paese più popoloso dell’Unione Europea, dopo Francia e
Germania, e il ventitreesimo a livello mondiale.

• L’età media della popolazione è di 46,5 anni e la suddivisione per classi di età dice che:
- il 12,5% delle persone ha tra 0 e 14 anni;
- il 63,4% delle persone ha tra 15 e 64 anni;
- il 24,1% delle persone ha dai 65 anni in su e 22.000 persone hanno 100 anni e più.

• Sulla struttura per età della popolazione italiana incidono due indicatori molto importanti,
come la speranza di vita, oggi di 84,8 anni per le donne e di 80,5 anni per gli uomini, e il
numero medio di figli per donna, oggi pari a 1,26.
• Questi fattori implicano, rispettivamente, la crescita del numero degli anziani e un modesto
tasso di natalità (poche nascite). La popolazione italiana sta dunque invecchiando
progressivamente, cioè il numero degli anziani (over 64) supera – e secondo le previsioni
continuerà a farlo – il numero dei giovani (under 15).

• Questa dinamica è ben rappresentata nella piramide delle età, il grafico utilizzato nella
demografia per raffigurare la struttura della popolazione per sesso e per età, e per mostrare la
sua evoluzione nel tempo.

• Per l’Italia, questo grafico ha una caratteristica struttura a «trapezio» (o a «trottola»): si


restringe infatti sia verso l’alto (perché più cresce l’età più diminuisce il numero degli anziani
che arrivano ad essa) sia verso il basso (perché il numero delle nascite è sempre più basso). In
più, occorre considerare che il saldo naturale è negativo: il ridotto numero di nascite non
compensa quello dei decessi.

• Il grafico mostra quindi chiaramente che la popolazione italiana è in decrescita a causa


dell’invecchiamento costante e della scarsa natalità.
• La diminuzione della popolazione è
parzialmente contrastata dal fenomeno
dell’immigrazione. Le famiglie straniere
hanno infatti un saldo naturale positivo,
sono cioè una popolazione in generale
«più giovane» e con un più alto numero
di figli per famiglia.

• Un altro elemento che frena la decrescita


della popolazione è il saldo migratorio
positivo: gli immigrati superano in
numero gli emigrati.
LA DISTRIBUZIONE
DELLA POPOLAZIONE
SUL TERRITORIO

• Secondo l’ultimo censimento dell’ISTAT, la


regione più popolosa d’Italia è la
Lombardia (9.950.742 abitanti), che ha
anche la più elevata densità abitativa (417
abitanti/km²). La regione con il numero di
abitanti e la densità più bassi è la Valle
d’Aosta (122.955 abitanti; 38 abitanti/km²).

• La densità abitativa è in media di 195


abitanti/ km². La densità più alta si ha
nella Pianura Padana, lungo tutta la costa
ligure, nelle aree di Roma e di Napoli.
• L’Italia ha una distribuzione della popolazione diversa da
quella di altri paesi europei, dove una buona parte dei cittadini
risiede nella capitale e nei comuni limitrofi (distribuzione
accentrata). L’Area metropolitana della capitale, Roma, ha
quasi 3 milioni di abitanti ed è la città più popolosa; quella di
Milano, polo economico e industriale dell’Italia, non
raggiunge i due milioni di abitanti. Notevole è dunque la
differenza rispetto alle grandi capitali europee, le cui aree
metropolitane che superano talvolta i dieci milioni di abitanti
(Parigi, Berlino, Londra).

• Solo una parte della popolazione si concentra nelle due città


maggiori e in centri con un numero di abitanti compresi tra un
milione e i 300.000 abitanti (Napoli, Torino, Palermo, Genova,
Bologna, Firenze, Bari, Catania). La maggior parte della
popolazione vive invece in città medio-piccole con meno di
200.000 abitanti, frutto del passato frazionamento politico
dell’Italia, che ha consentito la formazione e la sopravvivenza
di tali e numerosi centri, importanti sotto il profilo
demografico, sociale ed economico. Per questa ragione
l’Italia è definita il «paese delle cento città».

• La distribuzione della popolazione italiana è dunque


fortemente frazionata.
• Oggi 2 italiani su 3 vivono in città, ma non è sempre stato così. Nel
Novecento si è infatti sviluppata, con una forte accelerazione verso la metà
del secolo (negli anni del boom economico) una grande migrazione
interna: la maggiore parte degli italiani ha cioè abbandonato le
campagne e le montagne per trasferirsi in città. Questo fenomeno ha
interessato in particolare le aree rurali del Sud Italia, da cui più di 4
milioni di italiani sono nel tempo partiti per trasferirsi nelle città del Nord,
più sviluppate sotto il profilo industriale e del settore terziario.

• Il fenomeno che consiste nella migrazione di grandi masse di individui


dalle campagne nelle città si chiama urbanesimo (o inurbamento).
BREVE STORIA DEMOGRAFICA D’ITALIA

La storia della popolazione italiana può essere divisa in sei momenti principali,
contrassegnati da grandi eventi storici, politici ed economici:

• Gli anni dall’Unità d’Italia alle soglie della Prima Guerra Mondiale (1861-1914);
• Gli anni della Prima Guerra Mondiale, del Fascismo e della Seconda Guerra
Mondiale (1915-1945);
• I primi trent’anni della Repubblica Italiana (1946-1975);
• Il ventennio del regresso (1975-1995);
• Il periodo a cavallo del XX e del XXI secolo (1996-2006);
• Gli anni della «grande recessione» e della pandemia (2007-2022).
DALL’UNITÀ ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE (1861-1914)

• All’epoca dell’Unità (1861), l’Italia presenta una situazione grave, caratterizzata da


livelli di mortalità molto elevati. La scomparsa della peste (che aveva colpito a più
riprese l’Europa nei secoli precedenti), non garantisce la sicurezza della popolazione,
colpita dalle malattie tipiche della miseria della malnutrizione (malaria, pellagra,
tubercolosi) o da altre dovute alle pessime condizioni igieniche diffuse nelle città e
nelle campagne.

• La speranza di vita è molto bassa: ad esempio, intorno al 1881 raggiungeva a stento i 30


anni nelle regioni del Centro Nord-Italia, tradizionalmente caratterizzate da migliori
condizioni di vita.

• Ad essere altissima è soprattutto la mortalità infantile: in quest’epoca un bambino su


quattro non sopravviveva al primo anno di vita e quasi un terzo dei nati non arriva ai
cinque anni.
• Un punto di svolta importante si registra tra il 1890 e il 1910, quando in Italia si verifica
progressivamente il processo che l’economista Adolphe Landry ha definito transizione demografica:
il passaggio da livelli di natalità e mortalità elevati, tipici delle società preindustriali, a livelli bassi,
caratteristici delle società mature avanzate.

• La mortalità diminuisce grazie a due principali fattori:

- il contributo della medicina;


- i progressi in campo igienico, sia a livello collettivo attraverso la creazione di fognature, sia a livello
individuale, con una maggiore attenzione all’igiene personale e alla cura dei bambini. In questa
prospettiva, è importante sottolineare che il considerevole aumento della sopravvivenza nel periodo
compreso tra il 1890 e la Prima Guerra Mondiale è dovuto soprattutto al calo della mortalità infantile
(in particolare al primo anno di vita).

• I processi di modernizzazione, industrializzazione delle società occidentali fanno aumentare il «costo»


dei figli: rispetto a quanto accade nelle campagne, è soprattutto nelle città (principalmente tra le classi
agiate) che i figli diventano autonomi e produttori di reddito in età più avanzata, richiedendo anche un
maggio investimento in termini di istruzione. Per questa ragione, parallelamente ai fenomeni sopra
descritti, inizia a diminuire il numero di figli per donna, con importanti conseguenze future sulla
struttura della famiglia.
• In questa fase si sviluppa la Questione meridionale. L’unificazione dell’Italia non porta a un generale
livellamento delle condizioni sociali ed economiche dello Stato. Il Mezzogiorno (Sud) non riesce a tenere il passo
nello sviluppo rispetto del Nord: le regioni meridionali si trovano così in una grave condizione di arretratezza
socio-economica rispetto alle regioni settentrionali, destinata a durare a lungo (a tutt’oggi se ne avvertono le
conseguenze). Il divario tra il Nord e il Sud si accentua anche sul piano demografico: il tasso di mortalità continua
ad essere più alto nelle regionali meridionali, dove non si perseguono efficaci politiche in campo igienico e la
povertà è più diffusa.

• In questo contesto si assiste anche all’inizio del processo migratorio (verso l’estero o all’interno dello Stato) .
Se i primi movimenti emigratori importanti si osservano già nel 1870, è ai primi del Novecento che l’emigrazione
italiana verso l’estero si intensifica raggiugendo dimensioni eccezionali: gli espatriati nel decennio 1870-1880
sono circa 1,18 milioni, nel primo decennio del Novecento diventano 6 milioni e 3,8 milioni nel 1911-120. Il
picco di uscite annue si ha nel 1913, con quasi 873.000 espatriati. Tra l’Unità e la Pima Guerra Mondiale, gli
emigrati italiani emigrano in altri paesi europei (Francia, Austria-Ungheria, Svizzera, Germania) o verso
l’America (Stati Uniti, Argentina e Brasile).

• Parallelamente, si assiste al progressivo spopolamento delle montagne e delle campagne: la popolazione inizia è
attratta infatti dalle città, che offrono condizioni economiche e possibilità lavorative. Numerosi, inoltre, i
trasferimenti dal Sud al Nord Italia: l’insieme di questi movimenti migratori prende il nome di mobilità interna.

• Nonostante l’intensa emigrazione, la popolazione italiana cresce a inizio secolo (circa +1% all’anno). Il
censimento del 1911 conta infatti 36,8 milioni di abitanti (10 milioni di individui in più rispetto al 1861).
PRIMA GUERRA MONDIALE, FASCISMO E SECONDA GUERRA MONDIALE (1915-1945)

• La rapida crescita della popolazione italiana è però bruscamente interrotta dal primo conflitto
mondiale, che ebbe per primo e immediato effetto il netto aumento del numero dei morti, non solo
per i combattimenti (tra le fila dell’esercito italiano morirono intorno ai 558.000 soldati). La guerra
portò ad un generale peggioramento della situazione alimentare, igienica e sanitaria, con
conseguenze negative anche sul resto della popolazione. È significativo che in questa fase la
speranza di vita sia scesa a soli 25 anni (ben 14 anni in meno rispetto al valore registrato intorno al
1910).

• Gli effetti devastanti della guerra non si limitano all’alto numero di decessi. La guerra allontana i
giovani dalle loro attività lavorative e dalle loro famiglie, interferendo con i loro progetti
matrimoniali e riproduttivi. Moltissimi matrimoni vengano rinviati, e molti di questi non furono mai
celebrati.

• L’elevatissima mortalità maschile causa anche un evidente squilibrio numerico tra uomini e donne:
in particolare nella fascia d’età tra i 25 e 40 (quella che prevede la maggiore partecipazione al
conflitto), alla fine della guerra gli uomini si trovano ad essere circa il 10% in meno rispetto alle
donne.
• Quando la guerra è ancora in corso arriva un nuovo evento capace di segnare in negativo la storia
demografica italiana: la cosiddetta Spagnola (o influenza spagnola), una terribile pandemia, e
causata da un virus importato dai soldati americani, che colpì l’Europa tra il 1918 e il 1920,
causando tra i 50 e i 100 milioni di morti.

• L’Italia è colpita da diverse ondate della malattia, tra il maggio 1918 e il marzo 1919, registrando
quasi 500.000 morti. Ad accrescere l’impatto della pandemia sono, senza dubbio, le condizioni
critiche in cui si trova la popolazione italiana, stremata dalla guerra, ridotta alla fame e alla
miseria, priva di adeguate condizioni igienico-sanitarie e di un adeguato supporto medico.

• Una caratteristica della Spagnola è quella di colpire prevalentemente i giovani adulti (fascia tra i
20 e i 29 anni).

• L’effetto selettivo sulla parte di popolazione più giovane porta ad accentuare le conseguenze
negative sia demografiche, perché riduce nettamente la speranza di vita e le potenzialità
riproduttive, sia economiche, perché priva i vari settori produttivi di individui in attività e nel
pieno delle forze.
• Dopo la fine della Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo, che prende il potere nel 1922.
Con il Fascismo lo Stato italiano influenza fortemente le dinamiche demografiche: interviene infatti sui
processi migratori e riproduttivi, in maniera forte e diretta, con una calcolata politica demografica.

• La politica demografica fascista ha come obiettivo principale l’aumento della popolazione (da portare
da 40 a 60 milioni entrò la metà del secolo), la limitazione delle emigrazioni verso paesi esteri e
dell’urbanizzazione.

• Per quanto riguarda l’aumento della popolazione, il governo fascista incentiva fortemente le nascite con
varie misure: agevolazioni fiscali e premi a chi ha più figli, tasse più pesanti per chi non è sposato, ecc.

• Nel corso degli anni vengono emanati anche provvedimenti per bloccare i movimenti sul territorio: non
solo l’emigrazione, ma anche i movimenti interni, in particolare il trasferimento delle masse di individui
dalle campagne alle città (urbanizzazione o urbanesimo). Si arriva addirittura, nel 1939, a una legge
che, pur non dichiarandolo apertamente, impedisce di trasferirsi in città abbandonando le campagne, che
si stavano spopolando.

• Nonostante i grandi sforzi, la politica demografica fascista ottiene risultati modesti: la natalità
diminuisce, e rapidamente; la mobilità interna invece cresce, in particolare negli anni Trenta, facendo sì
che questo decennio sia ricordato come «uno dei periodi a più elevata mobilità interna nella storia»
dell’Italia.
• Conseguenze simili a quelle della Prima guerra mondiale furono prodotte, sulla popolazione
italiana, dalla Seconda guerra mondiale.

• Più di 300. 000 italiani persero la vita in battaglia e la speranza di vita degli uomini si ridusse
fortemente.

• L’impatto del conflitto non si limita però all’aumento della mortalità, ma si estende anche ad
altri comportamenti demografici come la nuzialità (la scelta di sposarsi) e la natalità (la scelta di
avere figli). Il clima di incertezza, il peggioramento delle condizioni di vita, l’arruolamento di
masse di giovani hanno come effetto quello di rinviare i matrimoni e ridurre le nascite.

• Sebbene nel complesso l’impatto della Seconda guerra mondiale sulle dinamiche demografiche
sia inferiore a quello della Prima, i traumi causati sulla popolazione non sono minori. Una delle
conseguenze più gravi, oltre alle vittime del conflitto, soprattutto nelle aree colpite dai
combattimenti, è la disgregazione delle famiglie (costrette ad emigrare, lasciando casa e averi),
a causa dei conflitti, delle deportazioni e della generale confusione provocata dalla guerra.
I PRIMI TRENT’ANNI DELLA REPUBBLICA ITALIANA (1946-1975)

• I primi anni Cinquanta sono un momento di svolta per l’Italia, e non solo sul piano politico (il 2
giugno 1946 l’Italia diventa una repubblica). Importanti ed epocali sono anche i fenomeni e le
trasformazioni che interessano la popolazione in senso fortemente positivo, a tal punto che i primi
trent’anni della Repubblica (1946-1975), sono detti «i trenta gloriosi».

• Dopo la fine della guerra, l’Italia riuscì a risollevarsi grazie agli aiuti internazionali (Piano
Marshall) e alla volontà del popolo, forte e determinata, di costruire un’Italia nuova e migliore, su
basi diverse dal passato. Sono questi gli anni in cui l’Italia si riprende prima di tutto sul piano
economico, vivendo una fase di grande crescita e benessere materiale: sono gli anni del boom
economico (o «miracolo economico).

• Sono però, anche gli anni del boom demografico: in soli vent’anni, dal 1951 al 1971, la popolazione
passa da 47,5 a 54,1 milioni. Cresce infatti il numero delle nascite (baby boom), come del resto dei
matrimoni (che nei decenni precedenti erano stati colpiti in negativo dalle guerre ): la maggiore
stabilità sul piano economico e lavorativo, unita a un diffuso e positivo clima di fiducia, spinge
i giovani a mettere su famiglia. In questo senso, boom economico e demografico sono
strettamente legati: il secondo è infatti ampiamento favorito e accelerato dal primo.
• Questa fase è caratterizzata anche una intensa mobilità territoriale. Conclusasi la Seconda guerra
mondiale, le emigrazioni verso l’estero riprendono con grande forza nel periodo del «miracolo
economico», raggiungendo livelli elevati. Le principali mete sono Francia, Svizzera e Belgio,
mentre negli anni successivi le nuove possibilità di occupazione nei servizi, nell’edilizia e
nell’industria rendono la Germania e la Svizzera le destinazioni principali.

• Si registra anche un’elevata mobilità interna allo Stato. Poiché i posti di lavoro nelle campagne
diminuiscono sensibilmente, mentre crescono quelli creati nelle città e nelle fabbriche, ampie
masse di individui abbandonano le campagne per trasferirsi in città.

• Di questi flussi migratori (provenienti in gran parte dal Sud) beneficiano in particolare le città
che formano l’area del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova), che vedono crescere
notevolmente la loro popolazione. Tra il 1955 e il 1975, ad esempio, Torino passa da 70.000 a
100.000 abitanti, grazie soprattutto all’attrazione esercitata dalla FIAT, che vede raddoppiato in
vent’anni il numero di dipendenti (dai 71.000 del 1949 ai 158.000 del 1970).
• A partire dalla fine degli anni Sessanta qualcosa inizia però a cambiare. Si verificano infatti dei
cambiamenti importanti, di natura economica, culturale e sociale, destinati a porre fine ai
«trenta gloriosi» e segnare l’inizio di una nuova fase della storia (anche demografica) dell’Italia,
caratterizzata questa volta da un chiaro regresso:

- la crisi petrolifera del 1973, che segna la fine della crescita economica dell’Italia;

- una serie di misure relative alla famiglia, che intercettano ed esprimono un cambiamento nei
costumi e nella sensibilità della popolazione. Si tratta dell’introduzione del divorzio (con una
legge del 1970, poi confermata con il referendum abrogativo del 1974) e della riforma del
diritto di famiglia (1975), con la quale marito e moglie vengono messi per la prima volta sullo
stesso piano in termini di diritti, di potestà sui figli, di aspetti patrimoniali e di successione.
Queste due misure trasformeranno progressivamente il modello di famiglia italiano, nella sua
composizione e nei suoi equilibri interni. In questo senso, importanti cambiamenti sono legati
alla nuova funzione che la donna ha sul piano sociale e lavorativo, che finiscono con l’incidere
sui tempi e i modi in cui decide di formare la sua famiglia.
IL VENTENNIO DEL REGRESSO (1975-1995)

• La crisi petrolifera del 1973 (in seguito alla Guerra del Kippur) è un duro colpo per l’economia
italiana e mondiale. L’Italia, come gran parte dei paesi avanzati e industrializzati, si trova a
dover fronteggiare una grave crisi energetica, a cui risponde con l’austerity, cioè con una serie
di misure volte a contenere il consumo energetico: tra questi ricordiamo, perché impressi nella
memoria collettiva, il divieto di circolazione nei giorni festivi, l’anticipazione della chiusura
serale dei cinema, la riduzione dell’illuminazione pubblica.

• L’impatto sull’economia (e di conseguenza sulle dinamiche demografiche) è fortissimo e


devastante, perché produce in Italia il fenomeno della recessione. La recessione si verifica
quando il PIL (Prodotto Interno Lordo = la somma dei beni e dei servizi finali prodotti da uno
Stato in un dato periodo di tempo, dunque il principale indicatore del benessere economico e
della ricchezza di uno Stato) diminuisce per almeno due trimestri consecutivi. Questo fenomeno
è generalmente accompagnato dall’aumento del tasso di disoccupazione.
• La crisi economica e la disoccupazione hanno a loro volta un impatto negativo sui tassi di
natalità, favorendo il baby bust, cioè la forte riduzione delle nascite a partire dalla seconda metà
degli anni Settanta. La mancanza di lavoro e stabilità economica è infatti un forte ostacolo alla
formazione delle famiglie: i matrimoni tendono a ridursi o ad essere rinviati nel tempo perché i
giovani, essendo precari, restano per lungo tempo nella famiglia di origine o aspettano che si
verifichino migliori condizioni per potersi finalmente sposare. Per le stesse ragioni si riduce il
numero dei figli, su cui incide anche un altro fattore: l’età della donna (se la sua età quando
avviene il matrimonio è elevata, minori sono le possibilità di avere dei figli).

• Parallelamente alla diminuzione delle nascite, però, si registra l’aumento del tasso di longevità:
grazie ai progressi nella medicina e all’affermazione di una nuova cultura della salute e della
prevenzione, infatti, aumenta la speranza di vita degli italiani. Inizia così ad aumentare la
popolazione anziana, mentre quella giovane diminuisce.

• La piramide dell’età inizia così a rovesciarsi, restringendosi alla base e allargandosi in cima.
IL PERIODO A CAVALLO DEL XX E DEL XXI SECOLO (1996-2006)

• In questa fase si registrano alcune novità importanti:

- nel 1978 viene riconosciuta la legalità dell’aborto, poi confermata con il referendum abrogativo del
1981.
- si ha uno spostamento in avanti dell’età della maternità (l’età in cui le donne hanno figli);
- diminuisce il numero dei matrimoni, mentre cresce progressivamente quello delle convivenze, anche tra
persone dello stesso sesso. La scelta di convivere è spesso legata a fattori economici e lavorativi.
Difficoltà di entrata nel mondo del lavoro, percorsi professionali frammentati e incerti, rendono più
difficile raggiungere quella stabilità psicologica e quella continuità di reddito (sicurezza economica) che
sono necessarie per il matrimonio.

Il numero dei figli per donna (tasso di fecondità) resta invece stabile, ma basso (1,44).

• L’immagine e la struttura tradizionale della famiglia tendono ad evolversi. Rispetto alle famiglie del
passato, con tanti figli, si affermano la famiglia con 1 o 2 figli, la famiglia frammentatasi in seguito a un
divorzio e le numerosissime «famiglie unipersonali», costituite da una sola persona, cioè dai single
oppure da una persona che vive una relazione a distanza. La coppia a distanza o LAT (Living apart
together), in aumento in Italia, è un tipologia di relazione che rende compatibile il vivere da soli con
l’essere in coppia ed è favorita dall’uso delle nuove tecnologie e dal miglioramento dei trasporti (può
• In questa fase si ha invece l’incremento di due fondamentali fenomeni demografiche: i tempi di conquista
dell’autonomia dai genitori e l’invecchiamento della popolazione.

• Elevata è la percentuale dei giovani che ancora a 30 vivono con i genitori e sono a carico di questi. La vera
entrata nella vita adulta (tradizionalmente segnata dal matrimonio) è posticipata, come conseguenza di una
serie di fattori culturali ed economici: la protettività della famiglia italiana, la disoccupazione e la difficoltà a
inserirsi nel mondo del lavoro (anche dopo aver concluso gli studi universitari), incertezze sul futuro e
precarietà.

• L’Italia del nuovo secolo è caratterizzata da un processo di «degiovanimento» quantitativo e qualitativo,


ovvero di indebolimento delle nuove generazioni sia da un punto di vista numerico, sia nella partecipazione
attiva nella società e nel mercato del lavoro. La riduzione della natalità in combinazione con uno scarso
investimento pubblico a sostegno dell’autonomia, dell’ingresso sicuro e della valorizzazione dei giovani nel
mondo del lavoro, fanno sì che l’Italia sia sempre di più caratterizzata da una bassa presenza di giovani e che
essi siano sempre più dipendenti dalla famiglia d’origine (posticipando la creazione della propria famiglia o
rinunciandovi del tutto).

• In soli 20 anni (1980-2000) la popolazione under 25 è scesa dal 37% al 25 %: un crollo che porta l’Italia a
diventare il paese europeo con più bassa incidenza di giovani, senza che questo venga compensato da maggiori
investimenti, da parte dello Stato, in formazione, ricerca, sviluppo, politiche attive e del lavoro.

• Al contrario, la percentuale di over 65 cresce, arrivando a superare il 20% nel 2007. L’Italia si presenta così,
GLI ANNI DELLA «GRANDE RECESSIONE» E DELLA PANDEMIA (2007-2022)

• Agli estremi di questa fase si collocano due eventi drammatici, su scala mondiale: la «grande
recessione», una gravissima crisi economica sviluppatasi tra il 2007 e il 2013 (la più grave del
dopoguerra, paragonabile solo a quella del 1929), e la pandemia scoppiata nel 2019.

• Le difficoltà economiche a cui l’Italia deve far fronte, partendo peraltro da una situazione di
debolezza e criticità, hanno un impatto negativo sui fenomeni demografici, accelerando e
peggiorando alcune delle dinamiche caratteristiche della precedente fase.

• I più colpiti sono i giovani, a causa innanzitutto del tasso di disoccupazione che continua a
crescere (seguendo un trend europeo). La situazione è tale da sollecitare l’intervento
dell’Unione Europea, che promuove il Piano garanzia giovani, a cui l’Italia aderisce:
un’iniziativa europea nata dalla necessità di fronteggiare le difficoltà di inserimento lavorativo e
la disoccupazione giovanile. I finanziamenti sono rivolti a paesi con un tasso di disoccupazione
giovanile superiore al 25% (in Italia a fine del 2019 questo tasso era del 28%).
• Nonostante tali interventi, in questo periodo si riduce il numero di giovani e anche il loro tasso di
occupazione continua ad aumentare. Anche le caratteristiche qualitative dell’occupazione non sono
favorevoli per i giovani: l’ingresso nel mondo del lavoro continua a essere incerto e precario, con
lunghi tempi di stabilizzazione del percorso professionale, salari minimi a fronte del numero di ore
di lavoro, ridotte tutele sul piano economico e pensionistico.

• Questa situazione fa sì che si affermi sempre di più la categoria dei NEET (Not in Education,
Employment or Training) cioè dei giovani che non studiano e non lavorano. Rispetto al tasso di
disoccupazione giovanile sono compresi tutti i giovani inattivi, non solo i disoccupati (in cerca di
lavoro) in senso stretto. L’Italia ha una la percentuale più elevata di NEET in Europa: 25,1% (ben 3
milioni di persone tra i 15 e i 34 anni).

• In Italia, più che in altri paesi avanzati, i NEET sono diventati anche NYNA (Not young nor adult).
Si tratta di persone, che generalmente vivono ancora con i genitori, e che non sono propriamente
giovani, almeno sul piano anagrafico, ma nemmeno pienamente adulte perché non hanno realizzato
le tappe principali del processo di entrata nella condizione adulta (andare a vivere da soli o
convivere, sposarsi, avere dei figli). Sono intrappolati in una condizione ambigua e indefinita, in un
vero limbo.

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