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La trappola demografica italiana tra immigrazione

e invecchiamento della popolazione
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di Amedeo Levorato
In Italia, Europa e in tutti i paesi occidentali, insieme alla crisi economica sta
esplodendo un problema demografico largamente occultato dalla crisi
finanziaria del 2008: eravamo convinti che molti processi di degrado
dell’economia europea dipendessero dalla crisi finanziaria nata negli USA,
ma invece sta emergendo con chiarezza l’influenza dell’invecchiamento della
popolazione per la crescita del PIL e la stabilità delle economie occidentali.
Molte delle misure finanziarie adottate non potranno, nel lungo periodo,
ovviare al cambiamento demografico che investe pesantemente i paesi
occidentali.
Secondo le Nazioni Unite, la popolazione globale crescerà a 9,6 miliardi di
abitanti dagli attuali 7,2 miliardi entro il 2060.
Ma quale sarà il profilo di questa popolazione in paesi come l’Italia, dove
l’invecchiamento e la denatalità hanno già largamente mostrato i propri
effetti?
Secondo l’ISTAT (vedi qui i dati: Indicatori demografici 2015), nel 2015 la
popolazione residente in Italia si è ridotta di 139.000 unità nette (-2,3 per
mille), e al 1° gennaio 2016 la popolazione totale ammontava a 60.656.000
residenti.
Gli stranieri residenti in Italia al 31/12/2015 sono 5.054.000 e rappresentano
l’8,3% della popolazione totale, con un incremento di 39.000 unità rispetto a
un anno prima.
La popolazione di cittadinanza italiana scende quindi a 55.600.000, con una
perdita netta di 179.000 residenti di origine italiana.
I morti nel 2015 sono stati 653.000, 54.000 in più dell’anno precedente
(+9,1%), e il tasso di mortalità, salito al 10,7 per mille è risultato il più alto dal
dopoguerra. L’aumento di mortalità è concentrato nella classi anziane, da 75
a 95 anni.
Il 2015 è stato il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a
1,35 figli per donna in età fertile, con una età media al parto di 36,1 anni.
Nel 2015 sono nati 488.000 (20% stranieri) bambini, -15.000 rispetto al 2014:
da nove anni a questa parte il ricambio generazionale peggiora, cioè nascono
meno bambini rispetto ai decessi.
Gli ultrasessantacinquenni sono 13,4 milioni (il 22% della popolazione) e la
quota di popolazione in età lavorativa ammonta a 39 milioni, contro 8,3 milioni
di ragazzi.
Il saldo migratorio con l’estero è stato di 128.000 unità, risultato di 273.000
iscrizioni e 145.000 cancellazioni: 245.000 ingressi dall’estero e 28.000 rientri
in patria di italiani, mentre se ne sono andati 45.000 stranieri e ben 100.000
italiani, quasi tutti giovani e molti laureati.
Guardiamo ora alle proiezioni.
La popolazione italiana resterà stabile nei prossimi decenni, e arriverà a 61
milioni nel 2065, con un picco a 63 milioni intorno al 2040 (vedi futuro-
demografico).
Sempre secondo l’ISTAT, nel 2043 (cioè tra 25 anni) gli
ultrasessantacinquenni saranno il 33% della popolazione, consolidando tale
cifra dopo quell’anno e mantenendosi stabili rispetto alla popolazione totale.
Nello stesso periodo, la popolazione residente straniera passerà, all’attuale
tasso di crescita, da 5 a 10 milioni, con una incidenza sul totale del 17%
circa, e poi si incrementerà ulteriormente fino a raggiungere il 25% nel 2065.
Sotto il profilo della distribuzione territoriale si registrerà un vero e proprio
abbandono del sud Italia, dove la popolazione scenderà dal 23% al 18%, e
nelle isole dall’11% al 9%, mentre il nord est salirebbe dal 19 al 22,4%, il
centro dal 19,7% al 21,6% e il nordovest dal 26,6% al 28,7%.
L’età media della popolazione salirà da 43,5 anni nel 2016 a 49,7 anni nel
2065, raggiungendo un ammontare annuo di 800.000 decessi, contro gli
attuali 600.000.
Come cambierà la vita degli italiani nei prossimi 25 e 50 anni?
Senza dubbio il principale processo di sostituzione è tra popolazione
residente ed immigrati.
Se gli immigrati saliranno nel 2043 al 17% della popolazione, la principale
preoccupazione dello Stato e delle comunità locali dovrà essere quella
dell’assorbimento,  dell’educazione delle giovani generazioni,
dell’integrazione delle medesime nella vita quotidiana del Paese.
Questa sfida ha proporzioni impensabili, se si pensa che oggi, in tema di
programmazione e di trattamento dell’immigrazione, l’Italia va poco oltre
l’accoglienza e l’identificazione, e scarse sono le iniziative sistematiche di
integrazione relativamente a lingue, regole, formazione al lavoro e
professionalità.
Nessuno può pensare di lasciare trascorrere 25 anni senza un “Piano
nazionale per l’immigrazione” che affronti sistematicamente l’accoglienza e
l’integrazione di altri 5 milioni di immigrati, ad un tasso di 200.000 ingressi
annui. Si tratta di persone a bassa o nulla scolarizzazione, spesso con
problemi sanitari e turbe psichiche gravi, che rendono complesso
l’inserimento pieno in una società moderna ed evoluta.
Occorre perciò porsi il problema di che lavori offrire, di quali tutele assicurare
affinchè questi immigrati non vengano marginalizzati e si trasformino in un
problema sociale che – a queste dimensioni – potrebbe travolgere l’equilibrio
sociale in più parti del paese. Se da un lato è vero che molti immigrati
stabilitisi con famiglia, aspirano per i propri figli ad un futuro “italiano”, è
peraltro concreto il rischio dell’instabilità, della mobilità, dell’impossibilità ad
abitare case, costituire comunità, trovare occupazione e reddito.
Se l’Italia intende sopravvivere a questa epocale invasione – che tuttavia
stenta e addirittura non riesce a coprire la diminuzione naturale della
popolazione italiana già nel 2015 – o addirittura porsi il problema della
integrazione degli immigrati conservando la natura e l’identità della società
italiana, dovranno essere messi in atto grandi sforzi, coinvolgendo buona
parte dei lavoratori maturi e dei docenti scolastici per affiancare, educare e
accompagnare gli immigrati nella fase storica che si apre. Non basta, come il
Governo sta indicando in questi giorni, passare dalla fase dell’accoglienza a
quella del sostegno e dell’assorbimento in lavori socialmente utili.
Occorre programmare, realizzare e gestire un processo non ghettizzante di
integrazione di larghe fasce di immigrati nella società italiana e nelle
comunità locali, con un esigente rispetto delle regole ed una altrettanto aperta
disponibilità alle relazioni.
Contemporaneamente, occorre realizzare un “marketing” dell’immigrazione
verso l’esterno, cercando di assicurare al nostro paese l’ingresso di quote di
immigrati provenienti da paesi il più possibile omogenei valorialmente e con
buona scolarità ed educazione, insieme a quella che inevitabilmente affluirà
dall’Africa. E’  indispensabile assicurare all’industria e ai servizi giovani coorti
di lavoratori con tassi di scolarità e professionalità anche manuali adeguate
per garantire il mantenimento di una accettabile produttività del sistema
economico. Buona parte dei fondi FSE dovranno essere indirizzati a queste
finalità, insieme a tutto il sistema formativo regionale e il raccordo con il
sistema produttivo.
Un quinto di immigrati, un terzo di anziani.
L’altro enorme problema che avanza, e del quale molti hanno già percepito
l’estensione, è quello della popolazione anziana. Non tratteremo qui la
questione pensionistica, che riveste di per sè non pochi problemi per le
generazioni che vi accederanno nei prossimi anni, dopo la riforma Fornero.
Esaminiamo l’impatto che l’aumento degli anziani eserciterà sulla società
italiana nel suo complesso.
In 25 anni, la quota di cittadini anziani aumenterà sensibilmente da
13.400.000 a oltre 21.000.000.
La metà di questi ha ed avrà oltre 75 anni. Da un lato, è accertato che la
curva delle malattie invalidanti (cioè l’aumento naturale delle patologie
individuali che interviene in età anziana) va assumendo un aspetto
“scatolare” grazie alla diagnostica preventiva e alla prevenzione sanitaria e
fisiologica. In quest caso la curva degli effetti patologici rimane contenuta e
l’anziano rimane prevalentemente sano, crollando solo negli ultimi mesi o
anni di vita, subito prima del decesso.
Purtroppo, un dato preoccupante appare la riduzione della prevenzione e
della cura collegate alla riduzione del reddito pro-capite, a partire dalla crisi
del 2008, che statisticamente ha effetto su larga parte della popolazione
povera, costretta a rinunciare a cure e terapie.
La spending review nella sanità pubblica collegata alla riduzione (o al
rallentamento) del debito pubblico oggi pari al 132,6% del PIL, porterà a
inevitabili tagli della spesa diagnostica preventiva sia attraverso l’aumento dei
ticket che alla riduzione delle cure mediche preventive, tornando ad
incrementare il rischio di malattie invalidanti e quindi di lungodegenze e non
autosufficienze.
Il problema dell’impatto della spesa per gli anziani sul PIL, era già ben
delineato oltre vent’anni fa nel libro che scrissi nel 1994 con Marco Trabucchi
(“I costi della vecchiaia”, Il Mulino, Bologna 1994): la quota della popolazione
non in età lavorativa aumenta, riducendo le opportunità di crescita del PIL e
bloccando le risorse per investimenti al fine di finanziare i pagamenti delle
pensioni.
Un modo per risolvere questo problema sarebbe aprire i confini nazionali
all’immigrazione: ci sono ancora paesi giovani nel mondo.
Per alcuni, la porta aperta all’immigrazione rappresenta la logica soluzione
nel processo di globalizzazione, ma gli effetti collegati a questi fenomeni
incontrollati sono davanti agli occhi di tutti.
Ancora più rilevanti sono gli effetti dell’invecchiamento della popolazione sul
PIL: infatti il reddito disponibile medio tocca un massimo nell’età tra i 50 e i 60
anni, a  45.000 euro per capofamiglia in Italia (dati del 2012), per poi
scendere bruscamente con la pensione, fino a 20.000 euro annui tra gli 80 e
gli 85 anni: e questo nella media; tralasciamo per un momento il fatto che
negli ultimi cinque anni il tasso di povertà è aumentato vertiginosamente in
Italia, soprattutto tra gli anziani.
Il tasso di risparmio, invece, per le medesime classi di età, rimane invariato a
causa di un comportamento spesso irrazionalmente vincolato alla
precauzione per il futuro (proprio o dei figli e nipoti).
In un recente studio di Prometeia (vedi Demografia propensione risparmio
ricchezza) si afferma infatti: “[…] in materia di recessione, crisi finanziaria,
riforma delle pensioni e scelte di risparmio: il primo elemento dovrebbe
produrre una riduzione dei flussi di risparmio in proporzione al reddito, a
causa della differente propensione al risparmio dei due gruppi della
popolazione (“giovani” e “anziani”). Anche il calo del reddito disponibile,
causato non solo dalla recente recessione ma più in generale dalla lunga
stagnazione iniziata ormai vent’anni fa, dovrebbe andare nella stessa
direzione, perché è ragionevole ritenere che le famiglie cerchino di
mantenere, finché possibile, gli standard di vita a cui sono abituate. Il terzo
fattore dovrebbe invece spingere verso una maggiore accumulazione di
ricchezza privata, per compensare la riduzione della ricchezza pensionistica
di fonte pubblica. I dati esaminati sembrano dirci che, almeno fino al 2012, i
primi due fattori abbiano avuto un impatto superiore al terzo.”
Si ha quindi una riduzione complessiva del risparmio per tutto il sistema, ma
non un minore risparmio netto per gli anziani.
Un primo elemento rilevante, quindi, ha caratterizzato gli ultimi anni e
caratterizzerà i prossimi: l’invecchiamento della popolazione ha un effetto
diretto sul PIL, attraverso la riduzione del reddito pro-capite al
pensionamento, di circa 10 miliardi l’anno per effetto del saldo tra decessi e
pensionati di circa 300.000 unità anno, un effetto pari al – 0,6% annuo.
L’economia italiana deve quindi fronteggiare una caduta del PIL per il
solo effetto della riduzione delle classi giovanili e dell’aumento dell’età
media e dei pensionati. Con esso, anche la riduzione del gettito fiscale, pari
a 4 miliardi annui, dato che le coorti di popolazione che oltrepassano i 65 anni
e, con tale età, il momento della pensione, non verranno sostituiti da
lavoratori con analoga professionalità, livello retributivo, gettito fiscale.

Un secondo problema collegato all’invecchiamento della popolazione è il


livello dei consumi: una recente indagine della FILCALMS CGIL (dicembre
2015) rivela che la maggior parte della popolazione italiana che percepisce
fino a € 2.000 al mese ha ridotto sia la quantità che la qualità dei tradizionali
standard di consumo. Occorre attendersi una tendenza ad una minore spesa
di consumo pro-capite e minori investimenti in beni durevoli mano a mano
che, nella composizione della popolazione italiana, aumenteranno gli stranieri
e i pensionati fino a raggiungere la metà della popolazione totale.
Un terzo problema collegato all’invecchiamento della popolazione è il
mercato immobiliare: la maggior parte delle persone che si trova nella fascia
di età oltre i 40 anni considerava i beni immobiliari una riserva di valore e di
reddito per il futuro, capace di integrare la pensione o addirittura sostituirla.
Grazie alle leggi Tremonti nel 2002-2003 e successivamente fino al 2010,
grazie alla bolla finanziaria, questa considerazione aveva un significato reale
nel breve periodo. Ma la stagnazione della popolazione, il cambio di
tecnologia nella produzione di abitazioni (clima, classe energetica, materiali di
costruzione), le difficoltà delle banche nel prestare mutui a percettori di redditi
incerti e la ossessiva tassazione immobiliare inclusa nelle leggi finanziarie dai
governi “tecnici” hanno contribuito a “stroncare” il mercato immobiliare in
Italia, che non sembra attualmente generare segnali di ripresa.
L’unico fattore positivo in questo scenario è rappresentato dalla progressiva
riduzione degli interessi sul debito pubblico, che ha portato l’esborso dello
Stato da 85 nel 2012 a 60 miliardi annui nel 2016, una risorsa che il Governo
Renzi ha ampiamente utilizzato, soprattutto per integrare i redditi bassi,
creare lavoro tramite il Jobs Act e ridurre la pressione fiscale.
Il profilo demografico rappresenta, quindi, un problema di grande rilievo –
forse più ancora di quello dell’immigrazione – nei confronti del quale lo Stato
e tutta la società italiana devono razionalizzare e progettare misure concrete
nei prossimi anni.
Se si pensa che – degli attuali 13 milioni di anziani, ben il 20% cioè 2,5 milioni
hanno limitazioni funzionali di qualche tipo (mobilità, autonomia,
comunicazione, ecc.) e che tale numero crescerà nei prossimi anni per effetto
dell’invecchiamento al ritmo di 60.000 anziani non autosufficienti in più l’anno
fino al 2043, non è chi non veda che la tematica dell’assistenza,
accompagnamento, caregiving degli anziani rappresenterà un argomento
primario nell’agenda del governo e delle amministrazioni locali.
Ricorda infatti il V Rapporto, (2015), sull’assistenza agli anziani non
autosufficienti in Italia, (vedi il V-rapporto-assistenza_anziani) che la
conseguenza diretta dello scenario di incremento degli anziani delineato è
l’aumento in termini assoluti del segmento di anziani con bisogni sanitari e
socio assistenziali che necessitano di assistenza di tipo continuativo (Long
Term Care, LTC). Se fino ad oggi il sistema LTC ha fatto affidamento sulla
famiglia, ma ben presto questo fattore risulterà ridotto dallo spostamento
all’estero delle famiglie giovani e dall’enorme incidenza delle separazioni
matrimoniali, che favoriscono la costituzione di nuclei familiari individuali,
spesso privi di ogni collegamento e aiuto dall’esterno nel momento del
bisogno. In Veneto il 18,7% dei 650.000 anziani, pari a 122.000 persone, ha
limitazioni nelle funzioni della vita quotidiana (81.000), limitazioni nel
movimento (65.000), limitazioni di vita, udito e parola (35.000), oppure vivono
in confinamento a casa o in struttura (50.000).
Questi numeri cresceranno nei prossimi 25 anni, quasi raddoppiando. Ciò
significa che i modelli di intervento, consistenti nell’Assistenza Domiciliare
Integrata (ADI) sanitaria e quella socio assistenziale (SAD), così come i
ricoveri presso presidi residenziali socio-sanitari (RSA) e socio-assistenziali
per anziani (Case di Riposo) dovranno subire una drastica ristrutturazione per
numero e per organizzazione, mentre i costi di gestione non potranno
aumentare ed anzi dovranno progressivamente ridursi grazie ad interventi di
automazione e organizzazione di sistema.
I costi delle rette delle strutture sanitarie e socio-assistenziali già oggi
rappresentano una voce catastrofica per i bilanci familiari (le rette alberghiere
variano tra i 65 e i 120 euro per autosufficienti e non-autosufficienti, una
spesa variabile tra 1.950 euro e 3.600 euro mensili, solo per una parte
contingentata a carico della Regione).
A questo problema si è cercato di ovviare con le indennità di
accompagnamento, che tuttavia non sempre sono una soluzione in relazione
all’organizzazione della famiglia, alle esigenze abitative degli anziani e cosi’
via. Il Veneto eroga oggi una indennità di accompagnamento al 10,4% degli
anziani oltre 65 anni, e quindi a quasi 65.000 persone.
Il sistema di ADI e SAD sta attualmente entrando in crisi: i costi eccessivi di
gestione marginalizzano le persone con bisogni, che però non sono
minimamente in grado di accedere al sistema dati i costi elevatissimi. Tra il
2005 e il 2013 il costo della spesa pubblica per il sistema LCT è aumentato
da 15,4 miliardi a 20,5 miliardi di euro, e nei prossimi anni aumenterà
ulteriormente, specie con riferimento alle indennità di accompagnamento e
alla spesa sociale dei comuni, ma il sistema appare largamente insufficiente
a fare fronte alla domanda di assistenza sanitaria e socio-assistenziale agli
anziani: essa viene affrontata principalmente tramite la spesa privata degli
anziani stessi, ad esempio attraverso l’impiego di oltre 800.000 badanti.
La crisi economica sta spingendo numerose famiglie ad assumersi in proprio
l’onere della cura diretta dei parenti anziani non autosufficienti, con il rischio
di effetti psicologici gravi e talvolta di cure inappropriate o insufficienti.
Il ricovero, infatti, costringe le famiglie a ingenti sacrifici e al depauperamento
dei patrimoni familiari, soprattutto in questo momento in cui il mercato
immobiliare sia per la vendita che per gli affitti impedisce la conversione in
liquidità di beni accantonati nelle fasi precedenti.
Quando – come in questo caso – si registrano da alcuni anni significativi
rallentamenti di spesa e di intervento di Comuni e Regione, si rende evidente
la necessità di comprendere i fenomeni in atto e la loro portata, e pensare a
nuovi sistemi per affrontare il tema dell’assistenza agli anziani – che presto
diventeranno parte rilevante della popolazione.
Secondo gli esperti – la scarsità di risorse può rappresentare un incentivo alla
riorganizzazione dei servizi e delle relazioni tra i soggetti del territorio: non
basta, tuttavia, pensare di impiegare le risorse esistenti in quanto occorre a
monte un ripensamento complessivo del ruolo dell’anziano, della sua
modalità di vivere e consumare, nonchè di relazionarsi con il resto della
società nei prossimi anni. Essi saranno caratterizzati da un graduale aumento
dell’età media, e quindi del carico di anziani sul totale della società: per essi
occorre un nuovo ruolo e nuove modalità di aiuto e assistenza, basate anche
sul volontariato.
L’istituzionalizzazione dell’assistenza sanitaria e sociale, infatti, genera un
aumento drammatico di costi e crea dipendenza tra istituzioni ed anziano,
che diventa un malato istituzionalizzato e quindi un problema, anzichè una
soluzione.
Potrà ad esempio la tecnologia offrire soluzioni potenziali attraverso la
robotica, come sembrano suggerire alcuni (vedi il Sole 24 Ore 2016-07-24-1
e 2016-07-24-2, oppure il percorso sarà più tradizionalmente legato ad un
supporto alle famiglie attraverso il volontariato organizzato? Una soluzione
non esclude l’altra, ma senza dubbio si dovrà lavorare ad una società più
consapevole e responsabile, più solidale sotto il profilo generazionale.
In questo articolo abbiamo dimostrato che immigrazione e invecchiamento,
ben lungi dall’essere problemi contingenti o avviati a soluzione, appaiono due
dei principali problemi per la continuità stessa della vita sociale e
dell’organizzazione in Italia e in Europa.
Su questi temi va sollevato un dibattito approfondito, aperto a contributi
interdisciplinari, anche al fine di individuare percorsi di soluzione che – nella
migliore delle ipotesi – richiederanno anni e anni di investimenti per formule di
co-housing, automazione dei controlli, sistemi di ausilio e sostegno alle
famiglie, educazione, prevenzione. Oltre naturalmente alla questione
pensionistica, che offre un tasso di conversione della retribuzione in pensione
non oltre il 60% dell’ultimo reddito annuale, costringendo gli anziani ad un
ulteriore sforzo di risparmio – e quindi di austerità – negli anni
immediatamente anteriori al pensionamento.
Gli effetti della globalizzazione
La globalizzazione colpisce i paesi europei e l’Italia non solo con
l’immigrazione, ma anche e soprattutto con l’aumento delle disuguaglianze; la
classe media nel mondo occidentale va svanendo, ed il suo reddito non è
cambiato significativamente negli ultimi vent’anni.
I grandi ricchi, che occupano il 10% più elevato della distribuzione del reddito
tra la popolazione, hanno visto le proprie condizioni migliorare sensibilmente:
essi controllano oggi oltre il 50% del reddito complessivo del paese. E’
comune sentire che l’ultima volta che il mondo ha visto questa situazione fu
negli anni ’20, appena prima della grande depressione. Nel periodo della
ripresa economica dopo il secondo conflitto mondiale, e cioè tra il 1950 e il
1970, il 10% più elevato controllava non oltre il 15% della ricchezza totale. La
concentrazione della ricchezza in poche mani provoca riduzione netta dei
livelli di consumo: se la gente non risparmia, non può fidarsi di consumare e
perde fiducia nel futuro, e questo è esattamente ciò che sta accadendo in
molti paesi emergenti e sviluppati.
Non si tratta solo delle retribuzioni manageriali, l’eccesso di liquidità
circolante e il breve periodo creano gravi distorsioni della ricchezza e caduta
degli investimenti.
Rispetto ai tempi della Grande Depressione, negli ultimi dieci anni la caduta
dei consumi e la deflazione sono risultati più sfumati solo grazie alla grande
disponibilità di credito al consumo e carte di credito, e all’enorme capacità
delle banche e delle banche centrali di alimentare i consumi con emissione di
denaro liquido, riducendo i  tassi di interesse allo zero.
Ma la classe media ne è uscita comunque “decapitata”: questo strato sociale
ha sempre rappresentato una àncora di stabilità in tutte le società antiche e
moderne.
Quando quest’àncora viene rimossa, il risultato è sempre un netto
spostamento politico verso destra o verso sinistra, e la tendenza ad una netta
polarizzazione  politica: la crescita di populismi, nazionalismi e altri movimenti
fortemente ostili all’organizzazione sociale sono il diretto effetto di questa
polarizzazione.
La crescita del debito, sia pubblico che privato, può rappresentare un
elemento fortemente critico per la stabilità del sistema economico globale: in
uno scenario come quello delineato, nessuna nazione, giovani, anziani,
immigrati, potrà sentirsi al sicuro in nessuna parte del mondo, soprattutto con
debiti superiori al 100% del PIL.
La crescita sta ristagnando in tutto il mondo, al punto che da molte parti si
parla di “stagnazione secolare”: ciò che accade è che la quantità di liquidità in
circolazione è aumentata a tal punto che risulta indifferente la disponibilità di
credito. Cioè, appare evidente che il denaro è disponibile, ma non viene
utilizzato. Viene diretto ad attività speculative con la ricerca di rendite elevate,
spesso caratterizzate da iniquità d’impiego, oppure parcheggiato nei bilanci
delle banche centrali e delle banche private, investito in titoli di stato che
rendono zero o addirittura un interesse negativo.
La ricerca di rendite speculative per il denaro impegnato a rischio rende
sempre più difficile e critico l’investimento in infrastrutture: il piano Juncker del
2014 da 300 miliardi non è ancora decollato in Europa, e si assiste ad una
stagnazione di tutti gli investimenti infrastrutturali nei paesi emergenti, sia
europei che extracontinentali in quanto il lungo periodo (20-30 anni) non
rientra nella logica speculativa della finanza.
Qualcosa però si sta muovendo: se i tassi di interesse sulla liquidità cadono
ad un livello molto basso, subentra una significativa convenienza a togliere il
denaro dai sistemi bancari per impiegarlo nelle attività economiche e nei
consumi, riducendo il ricorso al credito. Tassi di interesse molto negativi
provocheranno il fallimento delle banche, che non potendo lucrare nè sui
patrimoni nè sui prestiti, saranno costrette a ridimensionare pesantemente le
proprie strutture organizzative.
Con il venire meno della fiducia, i comportamenti di consumo della
popolazione potrebbero mutare radicalmente: le persone potrebbero rifiutare
di spendere e investire anche a tassi di interesse molto ridotti:
l’nvecchiamento della popolazione, la disoccupazione dei giovani, la difficoltà
ad avviare nuove imprese e ad assumere rischi a causa della burocrazia e
dell’ossessiva pressione fiscale potrebbero portare ad una progressiva
riduzione della “torta” del PIL e infine ad un blocco reale dell’economia. Per
questo è tanto difficile per la BCE oggi sostenere la ripresa in Europa: essa
deve fare i conti con una riduzione implicita del PIL dello 0,6% annuo dovuto
all’invecchiamento della popolazione, le case e i capannoni che rimangono
vuoti, i centri commerciali che si desertificano, i prodotti rimangono nei
magazzini. Solo incrementi della produttività possono coprire la caduta
autonoma del PIL, ma se i profitti e i redditi vanno in poche mani, e molto
concentrate, essi non produrranno mai un aumento dei consumi ed una
ripresa. Nel frattempo, la natalità diminuisce e con essa le coorti di giovani
lavoratori e consumatori che verranno a mancare in Europa, oltre 20 milioni in
dieci anni.
Conclusioni
L’Italia richiede urgentemente cantieri di rifondazione che vadano oltre il
breve periodo: un patto ed un piano per l’immigrazione che si proponga di
sostituire le coorti di giovani lavoratori mancanti, con una educazione ed un
welfare accettabili.
Un patto con gli anziani, che si avviano a diventare una parte preponderante
della popolazione italiana ed europea, e dovranno trovare in sè stessi le forze
per ridurre la dipendenza sulla popolazione in età di lavoro, aumentare il
volontariato e l’autosufficienza, aiutarsi l’un l’altro, condividere l’housing e il
tempo libero, se possibile in modo produttivo, cambiando insomma il proprio
stile di vita e le proprie abitudini.
Per ripagare il debito occorrerà continuare a fare crescere il PIL , ma questo
obbiettivo, conseguibile in condizioni di popolazione stagnante solo tramite
l’innovazione e la tecnologia, dovrà essere perseguito con grande attenzione
a non aumentare ulteriormente i livelli di disuguaglianza presenti nella
società.
L’Italia si trova di fronte ad una grande sfida, che riguarda tutta la comunità
nel suo insieme, ma anche le comunità locali che dovranno fronteggiare –
anzi, stanno già fronteggiando in modo confuso – le questioni
dell’immigrazione, dell’invecchiamento, della disoccupazione e del debito,
spesso senza una chiara visione degli obbiettivi e delle soluzioni più adatte
nel contesto della globalizzazione.
Padova, 24 luglio 2016

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