Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
e invecchiamento della popolazione
Rispondi
.comments-link
.entry-header
di Amedeo Levorato
In Italia, Europa e in tutti i paesi occidentali, insieme alla crisi economica sta
esplodendo un problema demografico largamente occultato dalla crisi
finanziaria del 2008: eravamo convinti che molti processi di degrado
dell’economia europea dipendessero dalla crisi finanziaria nata negli USA,
ma invece sta emergendo con chiarezza l’influenza dell’invecchiamento della
popolazione per la crescita del PIL e la stabilità delle economie occidentali.
Molte delle misure finanziarie adottate non potranno, nel lungo periodo,
ovviare al cambiamento demografico che investe pesantemente i paesi
occidentali.
Secondo le Nazioni Unite, la popolazione globale crescerà a 9,6 miliardi di
abitanti dagli attuali 7,2 miliardi entro il 2060.
Ma quale sarà il profilo di questa popolazione in paesi come l’Italia, dove
l’invecchiamento e la denatalità hanno già largamente mostrato i propri
effetti?
Secondo l’ISTAT (vedi qui i dati: Indicatori demografici 2015), nel 2015 la
popolazione residente in Italia si è ridotta di 139.000 unità nette (-2,3 per
mille), e al 1° gennaio 2016 la popolazione totale ammontava a 60.656.000
residenti.
Gli stranieri residenti in Italia al 31/12/2015 sono 5.054.000 e rappresentano
l’8,3% della popolazione totale, con un incremento di 39.000 unità rispetto a
un anno prima.
La popolazione di cittadinanza italiana scende quindi a 55.600.000, con una
perdita netta di 179.000 residenti di origine italiana.
I morti nel 2015 sono stati 653.000, 54.000 in più dell’anno precedente
(+9,1%), e il tasso di mortalità, salito al 10,7 per mille è risultato il più alto dal
dopoguerra. L’aumento di mortalità è concentrato nella classi anziane, da 75
a 95 anni.
Il 2015 è stato il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a
1,35 figli per donna in età fertile, con una età media al parto di 36,1 anni.
Nel 2015 sono nati 488.000 (20% stranieri) bambini, -15.000 rispetto al 2014:
da nove anni a questa parte il ricambio generazionale peggiora, cioè nascono
meno bambini rispetto ai decessi.
Gli ultrasessantacinquenni sono 13,4 milioni (il 22% della popolazione) e la
quota di popolazione in età lavorativa ammonta a 39 milioni, contro 8,3 milioni
di ragazzi.
Il saldo migratorio con l’estero è stato di 128.000 unità, risultato di 273.000
iscrizioni e 145.000 cancellazioni: 245.000 ingressi dall’estero e 28.000 rientri
in patria di italiani, mentre se ne sono andati 45.000 stranieri e ben 100.000
italiani, quasi tutti giovani e molti laureati.
Guardiamo ora alle proiezioni.
La popolazione italiana resterà stabile nei prossimi decenni, e arriverà a 61
milioni nel 2065, con un picco a 63 milioni intorno al 2040 (vedi futuro-
demografico).
Sempre secondo l’ISTAT, nel 2043 (cioè tra 25 anni) gli
ultrasessantacinquenni saranno il 33% della popolazione, consolidando tale
cifra dopo quell’anno e mantenendosi stabili rispetto alla popolazione totale.
Nello stesso periodo, la popolazione residente straniera passerà, all’attuale
tasso di crescita, da 5 a 10 milioni, con una incidenza sul totale del 17%
circa, e poi si incrementerà ulteriormente fino a raggiungere il 25% nel 2065.
Sotto il profilo della distribuzione territoriale si registrerà un vero e proprio
abbandono del sud Italia, dove la popolazione scenderà dal 23% al 18%, e
nelle isole dall’11% al 9%, mentre il nord est salirebbe dal 19 al 22,4%, il
centro dal 19,7% al 21,6% e il nordovest dal 26,6% al 28,7%.
L’età media della popolazione salirà da 43,5 anni nel 2016 a 49,7 anni nel
2065, raggiungendo un ammontare annuo di 800.000 decessi, contro gli
attuali 600.000.
Come cambierà la vita degli italiani nei prossimi 25 e 50 anni?
Senza dubbio il principale processo di sostituzione è tra popolazione
residente ed immigrati.
Se gli immigrati saliranno nel 2043 al 17% della popolazione, la principale
preoccupazione dello Stato e delle comunità locali dovrà essere quella
dell’assorbimento, dell’educazione delle giovani generazioni,
dell’integrazione delle medesime nella vita quotidiana del Paese.
Questa sfida ha proporzioni impensabili, se si pensa che oggi, in tema di
programmazione e di trattamento dell’immigrazione, l’Italia va poco oltre
l’accoglienza e l’identificazione, e scarse sono le iniziative sistematiche di
integrazione relativamente a lingue, regole, formazione al lavoro e
professionalità.
Nessuno può pensare di lasciare trascorrere 25 anni senza un “Piano
nazionale per l’immigrazione” che affronti sistematicamente l’accoglienza e
l’integrazione di altri 5 milioni di immigrati, ad un tasso di 200.000 ingressi
annui. Si tratta di persone a bassa o nulla scolarizzazione, spesso con
problemi sanitari e turbe psichiche gravi, che rendono complesso
l’inserimento pieno in una società moderna ed evoluta.
Occorre perciò porsi il problema di che lavori offrire, di quali tutele assicurare
affinchè questi immigrati non vengano marginalizzati e si trasformino in un
problema sociale che – a queste dimensioni – potrebbe travolgere l’equilibrio
sociale in più parti del paese. Se da un lato è vero che molti immigrati
stabilitisi con famiglia, aspirano per i propri figli ad un futuro “italiano”, è
peraltro concreto il rischio dell’instabilità, della mobilità, dell’impossibilità ad
abitare case, costituire comunità, trovare occupazione e reddito.
Se l’Italia intende sopravvivere a questa epocale invasione – che tuttavia
stenta e addirittura non riesce a coprire la diminuzione naturale della
popolazione italiana già nel 2015 – o addirittura porsi il problema della
integrazione degli immigrati conservando la natura e l’identità della società
italiana, dovranno essere messi in atto grandi sforzi, coinvolgendo buona
parte dei lavoratori maturi e dei docenti scolastici per affiancare, educare e
accompagnare gli immigrati nella fase storica che si apre. Non basta, come il
Governo sta indicando in questi giorni, passare dalla fase dell’accoglienza a
quella del sostegno e dell’assorbimento in lavori socialmente utili.
Occorre programmare, realizzare e gestire un processo non ghettizzante di
integrazione di larghe fasce di immigrati nella società italiana e nelle
comunità locali, con un esigente rispetto delle regole ed una altrettanto aperta
disponibilità alle relazioni.
Contemporaneamente, occorre realizzare un “marketing” dell’immigrazione
verso l’esterno, cercando di assicurare al nostro paese l’ingresso di quote di
immigrati provenienti da paesi il più possibile omogenei valorialmente e con
buona scolarità ed educazione, insieme a quella che inevitabilmente affluirà
dall’Africa. E’ indispensabile assicurare all’industria e ai servizi giovani coorti
di lavoratori con tassi di scolarità e professionalità anche manuali adeguate
per garantire il mantenimento di una accettabile produttività del sistema
economico. Buona parte dei fondi FSE dovranno essere indirizzati a queste
finalità, insieme a tutto il sistema formativo regionale e il raccordo con il
sistema produttivo.
Un quinto di immigrati, un terzo di anziani.
L’altro enorme problema che avanza, e del quale molti hanno già percepito
l’estensione, è quello della popolazione anziana. Non tratteremo qui la
questione pensionistica, che riveste di per sè non pochi problemi per le
generazioni che vi accederanno nei prossimi anni, dopo la riforma Fornero.
Esaminiamo l’impatto che l’aumento degli anziani eserciterà sulla società
italiana nel suo complesso.
In 25 anni, la quota di cittadini anziani aumenterà sensibilmente da
13.400.000 a oltre 21.000.000.
La metà di questi ha ed avrà oltre 75 anni. Da un lato, è accertato che la
curva delle malattie invalidanti (cioè l’aumento naturale delle patologie
individuali che interviene in età anziana) va assumendo un aspetto
“scatolare” grazie alla diagnostica preventiva e alla prevenzione sanitaria e
fisiologica. In quest caso la curva degli effetti patologici rimane contenuta e
l’anziano rimane prevalentemente sano, crollando solo negli ultimi mesi o
anni di vita, subito prima del decesso.
Purtroppo, un dato preoccupante appare la riduzione della prevenzione e
della cura collegate alla riduzione del reddito pro-capite, a partire dalla crisi
del 2008, che statisticamente ha effetto su larga parte della popolazione
povera, costretta a rinunciare a cure e terapie.
La spending review nella sanità pubblica collegata alla riduzione (o al
rallentamento) del debito pubblico oggi pari al 132,6% del PIL, porterà a
inevitabili tagli della spesa diagnostica preventiva sia attraverso l’aumento dei
ticket che alla riduzione delle cure mediche preventive, tornando ad
incrementare il rischio di malattie invalidanti e quindi di lungodegenze e non
autosufficienze.
Il problema dell’impatto della spesa per gli anziani sul PIL, era già ben
delineato oltre vent’anni fa nel libro che scrissi nel 1994 con Marco Trabucchi
(“I costi della vecchiaia”, Il Mulino, Bologna 1994): la quota della popolazione
non in età lavorativa aumenta, riducendo le opportunità di crescita del PIL e
bloccando le risorse per investimenti al fine di finanziare i pagamenti delle
pensioni.
Un modo per risolvere questo problema sarebbe aprire i confini nazionali
all’immigrazione: ci sono ancora paesi giovani nel mondo.
Per alcuni, la porta aperta all’immigrazione rappresenta la logica soluzione
nel processo di globalizzazione, ma gli effetti collegati a questi fenomeni
incontrollati sono davanti agli occhi di tutti.
Ancora più rilevanti sono gli effetti dell’invecchiamento della popolazione sul
PIL: infatti il reddito disponibile medio tocca un massimo nell’età tra i 50 e i 60
anni, a 45.000 euro per capofamiglia in Italia (dati del 2012), per poi
scendere bruscamente con la pensione, fino a 20.000 euro annui tra gli 80 e
gli 85 anni: e questo nella media; tralasciamo per un momento il fatto che
negli ultimi cinque anni il tasso di povertà è aumentato vertiginosamente in
Italia, soprattutto tra gli anziani.
Il tasso di risparmio, invece, per le medesime classi di età, rimane invariato a
causa di un comportamento spesso irrazionalmente vincolato alla
precauzione per il futuro (proprio o dei figli e nipoti).
In un recente studio di Prometeia (vedi Demografia propensione risparmio
ricchezza) si afferma infatti: “[…] in materia di recessione, crisi finanziaria,
riforma delle pensioni e scelte di risparmio: il primo elemento dovrebbe
produrre una riduzione dei flussi di risparmio in proporzione al reddito, a
causa della differente propensione al risparmio dei due gruppi della
popolazione (“giovani” e “anziani”). Anche il calo del reddito disponibile,
causato non solo dalla recente recessione ma più in generale dalla lunga
stagnazione iniziata ormai vent’anni fa, dovrebbe andare nella stessa
direzione, perché è ragionevole ritenere che le famiglie cerchino di
mantenere, finché possibile, gli standard di vita a cui sono abituate. Il terzo
fattore dovrebbe invece spingere verso una maggiore accumulazione di
ricchezza privata, per compensare la riduzione della ricchezza pensionistica
di fonte pubblica. I dati esaminati sembrano dirci che, almeno fino al 2012, i
primi due fattori abbiano avuto un impatto superiore al terzo.”
Si ha quindi una riduzione complessiva del risparmio per tutto il sistema, ma
non un minore risparmio netto per gli anziani.
Un primo elemento rilevante, quindi, ha caratterizzato gli ultimi anni e
caratterizzerà i prossimi: l’invecchiamento della popolazione ha un effetto
diretto sul PIL, attraverso la riduzione del reddito pro-capite al
pensionamento, di circa 10 miliardi l’anno per effetto del saldo tra decessi e
pensionati di circa 300.000 unità anno, un effetto pari al – 0,6% annuo.
L’economia italiana deve quindi fronteggiare una caduta del PIL per il
solo effetto della riduzione delle classi giovanili e dell’aumento dell’età
media e dei pensionati. Con esso, anche la riduzione del gettito fiscale, pari
a 4 miliardi annui, dato che le coorti di popolazione che oltrepassano i 65 anni
e, con tale età, il momento della pensione, non verranno sostituiti da
lavoratori con analoga professionalità, livello retributivo, gettito fiscale.