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25/04/23, 13:22 Braccianti stranieri nell’agricoltura italiana: un profilo storico nel periodo repubblicano – A.S.E.I.

A.S.E.I.
Archivio Storico dell'Emigrazione Italiana

Braccianti stranieri nell’agricoltura italiana: un profilo storico nel periodo


repubblicano
14 Giugno 2022
Michele Colucci
A.S.E.I.

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1.       Introduzione

In diverse occasioni opere di inchiesta giornalistica e di ricerca scientifica hanno utilizzato il termine
“rivoluzione” per definire le modalità e le forme di inserimento dei lavoratori e delle lavoratrici di
origine straniera nel mercato del lavoro agricolo italiano. Nel 2008 Alessandro Leogrande
sottolineava il ritardo con cui la società italiana aveva compreso l’importanza di tale rivoluzione: “È
stata una rivoluzione lenta: la si è percepita come tale quando si era già compiuta. S’era già fatta
realtà sociale e culturale”, scriveva nel suo Uomini e caporali[1]. Nel 2018 Lucio Pisacane si
soffermava sulle caratteristiche quantitative e qualitative della “rivoluzione”:

La “rivoluzione” ha trasformato il lavoro agricolo da Nord a Sud portando, nel giro di poco più di un
quindicennio, i braccianti stranieri da poche decine di migliaia a rappresentare quote maggioritarie
rispetto ai lavoratori italiani in alcune mansioni (raccolta degli ortaggi, allevamento, serricoltura) e in
alcune lavorazioni colturali (fragole, pomodori in serra e in campo aperto, angurie, ortaggi)[2].

Più in generale, la diffusione della componente immigrata dall’estero all’interno del mercato del
lavoro italiano rappresenta una delle novità più dirompenti nella storia economica e sociale degli
ultimi 50 anni. Tale presenza cresce nel tempo in misura straordinaria, fino a raggiungere nel 2018 la
cifra di 2.422.864 occupati stranieri, il 10,5% del totale degli occupati in Italia. Rispetto all’agricoltura,
i dati disponibili più recenti, relativi al 2017, indicano in 364.385 gli operai agricoli di nazionalità
straniera impiegati in Italia, il 34,3% del totale. Come sappiamo questa diffusione ha avuto
conseguenze importanti non solo a livello economico e sociale ma anche a livello politico.

Obiettivo di questo contributo è la ricostruzione dello sviluppo storico della presenza di lavoratori
stranieri nell’agricoltura italiana, con particolare attenzione al periodo compreso tra la metà degli anni
Sessanta e i giorni nostri. Ci soffermeremo sugli ultimi 50 anni, poiché è in questa fase che la
presenza del lavoro straniero in agricoltura assume caratteristiche di massa e perde

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progressivamente le caratteristiche di un fenomeno di nicchia. Fino agli anni Sessanta era infatti
diffusa in modo solo puntiforme nel territorio e si presentava come sostanzialmente marginale dal
punto di vista quantitativo.

Naturalmente prima di avviare questo breve resoconto non possiamo non segnalare quella che
probabilmente rappresenta la prima grande evidenza del legame tra la storia dell’Italia repubblicana e
lo sviluppo dell’immigrazione straniera nei contesti rurali: tale sviluppo si manifesta infatti proprio nel
periodo in cui l’Italia perde progressivamente la centralità del settore primario a favore del secondario
e del terziario. In seguito alle conseguenze del “miracolo economico” l’Italia conosce una rapida
transizione, che porta il settore agricolo a ridurre in modo progressivo il numero di addetti.

Descritti spesso come anni caratterizzati dalla semplice “fuga dalle campagne”, i decenni successivi
agli anni Sessanta sono anni segnati anche da altri fenomeni, che cambiano la fisionomia del mondo
rurale. Tra questi è importante ricordare la meccanizzazione, con il suo portato di innovazioni molto
legate al mercato del lavoro, e il processo di integrazione europea, che tende a incidere notevolmente
sui processi produttivi. Parallelamente, diventa sempre più importante la tendenza
all’internazionalizzazione della forza lavoro, con l’arrivo nelle campagne di lavoratori e lavoratrici
provenienti dall’estero. L’inserimento della componente di origine straniera va quindi contestualizzato
all’interno di un insieme di trasformazioni, che hanno complessivamente modificato in modo decisivo
l’intero comparto agricolo.

2.       La fase iniziale

È nel corso degli anni Sessanta che si moltiplicano le tracce di una diffusione progressiva
dell’immigrazione straniera in Italia. Negli anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e i
primi anni Sessanta la presenza straniera all’interno del mercato del lavoro è riconducibile
prevalentemente al settore domestico, mentre già alla metà degli anni Sessanta si affacciano
lavoratori stranieri in ambito industriale, nei servizi e in agricoltura. Durante il decennio inizia a
manifestarsi effettivamente un movimento nuovo, destinato a cambiare lo scenario migratorio
italiano: lavoratori e lavoratrici iniziano a muoversi verso l’Italia con lo scopo di trovare
un’occupazione. Si tratta di movimenti che non sono più riconducibili alle conseguenze della seconda
guerra mondiale o ai processi di decolonizzazione ma che risultano legati alle trasformazioni del
“miracolo economico” e all’impatto che hanno sull’intero territorio nazionale[3].

Nel 1963 il Ministero del lavoro emana la circolare n. 51, che rappresenta il primo documento
governativo in cui viene abbozzata una procedura per il reclutamento di lavoratori e lavoratrici
straniere. Tale documento era pensato in quella fase soprattutto per il settore domestico, ma verrà
applicato immediatamente all’intero mondo dell’immigrazione straniera e fino al 1986 resterà l’unico
punto di riferimento in materia. Elaborata evidentemente a partire dai primi tentativi di
accreditamento sul mercato del lavoro italiano da parte di cittadini stranieri, la circolare dispone la

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necessità per gli stranieri che desiderano entrare nel territorio nazionale di una autorizzazione al
lavoro rilasciata dagli uffici provinciali del lavoro e indispensabile per ottenere il permesso di
soggiorno da parte delle questure competenti. Tale autorizzazione può, però, essere rilasciata solo
dopo che gli uffici del lavoro hanno chiarito che per quel posto, richiesto da un certo datore, non ci sia
un cittadino italiano disponibile. Ecco quindi profilarsi non solo la cosiddetta “preferenza nazionale”
(che apparirà e scomparirà nella legislazione fino a essere riproposta con la legge Bossi-Fini del
2002) ma anche l’assunzione dall’estero, prevista successivamente in molti altri provvedimenti[4].

Entrando più nello specifico, sono due le regioni in cui tale presenza diventa maggiormente visibile e
non a caso sono regioni “di confine”: il Friuli Venezia Giulia e la Sicilia. L’inserimento del lavoro degli
immigrati stranieri in entrambe le regioni non inizia a partire dall’agricoltura e questa rappresenta una
caratteristica importante delle forme di penetrazione della manodopera immigrata all’interno del
caso italiano.

Nei paesi dell’Europa continentale che fino ad allora avevano accolto copiosi flussi di manodopera
straniera (Germania, Svizzera, Francia) e anche in Gran Bretagna gli arrivi dall’estero avevano
riguardato fin dall’inizio anche il settore agricolo. Se confrontiamo la situazione italiana negli anni a
cavallo tra i Sessanta e i Settanta con gli altri contesti nazionali dove i flussi di immigrazione si erano
diffusi in modo robusto nel ventennio precedente balza agli occhi una notevole differenza. In
Germania federale, in Svizzera, in Francia, in Gran Bretagna i governi nel ventennio 1945-1965
avevano stretto ripetuti e frequenti accordi con diversi paesi dell’Europa meridionale e non solo che
prevedevano l’inserimento degli immigrati soprattutto nelle industrie ma anche in agricoltura. Italiani,
turchi, maghrebini, jugoslavi, spagnoli, portoghesi nel quadro di questi accordi erano stati reclutati
per recarsi a lavorare nelle campagne europee con contratti stagionali o con incarichi a più lungo
termine[5]. L’emigrazione contadina, organizzata all’interno di una cornice istituzionale, aveva
rappresentato un canale robusto e non marginale (anche se sui numeri meno significativo) rispetto a
quella operaia. D’altra parte durante la ricostruzione e le fasi successive i paesi dell’Europa centrale
avevano conosciuto uno sviluppo del settore rurale, legato all’espansione dei consumi, e allo stesso
tempo avevano assistito a uno spostamento importante di manodopera dal settore agricolo (che
rimaneva quindi parzialmente scoperto) a quello industriale.

Le prime regioni italiane dove arrivano lavoratori immigrati dall’estero invece assorbono in primis
manodopera in precisi ambiti piuttosto circoscritti del mercato del lavoro, estranei al settore agricolo:
l’esempio più lampante in questo senso è quello della pesca, che rappresenta il primo comparto in
cui si inseriscono le migliaia di tunisini che già nella seconda metà degli anni Sessanta si recano a
Mazara del Vallo, in provincia di Trapani.

I lavoratori tunisini vengono appositamente selezionati e reclutati dagli armatori del porto siciliano
con lo scopo di andare a rimpolpare la manodopera imbarcata sui pescherecci. Molto rapidamente
però i tunisini cominciano a spostarsi anche all’interno della provincia di Trapani e tendono o ad

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affiancare il lavoro nella pesca con quello agricolo o ad abbandonare del tutto il lavoro sui
pescherecci per recarsi a lavorare nelle frequenti operazioni di raccolta del circondario.

Ricca soprattutto di uva e di olive, la provincia di Trapani offre in alcune parti dell’anno notevoli
opportunità di lavoro agricolo stagionale. Il problema è che al contrario del reclutamento per i
pescherecci, inserito in una cornice legale e istituzionale, il lavoro nelle campagne assume
immediatamente i contorni di un lavoro “di rimbalzo”, non previsto inizialmente, incentivato non solo
da una domanda diffusa da parte dei tunisini ma anche da una offerta particolarmente aggressiva da
parte degli agrari siciliani, decisamente soddisfatti di poter contare su una forza lavoro molto
disponibile e poco sindacalizzata. Soprattutto, l’impiego dei tunisini nelle campagne viene messo in
pratica prevalentemente senza un regolare contratto di lavoro, con condizioni e ingaggi decisamente
peggiorativi rispetto a quelli normalmente in vigore. Sono proprio i conflitti nelle campagne a
scatenare la prima grande polemica sull’immigrazione, che prende corpo tra la fine degli anni
Sessanta e i primi anni Settanta nel Trapanese.

Questo il quadro che propone l’antropologo Antonino Cusumano, uno dei più attenti osservatori
dell’epoca:

Per via di un efficace passaparola e di un effettivo bisogno di manodopera andato radicalizzandosi


nel corso degli anni – non solo nel settore della pesca, ma anche in quello agricolo – il numero di
lavoratori tunisini presenti nell’area andò crescendo rapidamente e regolarmente. Tra l’altro,
all’espansione delle presenze straniere sul territorio non erano estranee le politiche migratorie e
l’assenza di visti e permessi di soggiorno, erano infatti anni di “apertura” e scarsa custodia dei
confini[6].

Cusumano sottolinea al riguardo l’irresponsabilità dei diversi soggetti coinvolti: imprese, istituzioni,
sindacati.

I proprietari terrieri hanno assunto sottobanco gli immigrati, preferendo l’impiego di quelle braccia
straniere che si presentavano per dei salari da fame piuttosto che quello dei lavoratori siciliani iscritti
nelle liste di collocamento […]. Lontane dal promuovere una seria definizione del problema e un
accordo specifico tra le forze del lavoro, le autorità competenti hanno nel frattempo provocato, con
una politica di lassismo e indugi, il deterioramento della situazione, specie nei rapporti tra gli
immigrati e la popolazione locale. La cieca e provocatoria campagna di denunce e di opposizione
sostenuta dalle confederazioni sindacali della provincia esplicitamente e unicamente diretta contro i
lavoratori tunisini ha favorito l’accendersi e il maturare di un clima di intolleranza e di tensione fra i
braccianti, gli operai e la cittadinanza tutta, da una parte, e gli immigrati stranieri, dall’altra[7].

Le testimonianze relative a questa prima fase concordano sulla notevole diffusione di irregolarità e
abusi nel reclutamento e nel collocamento della manodopera straniera all’interno dell’agricoltura.

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Tale situazione suscita già negli anni Sessanta particolare allarme e inquietudine poiché fin dalla fine
della seconda guerra mondiale (e anche da molto prima volendo allargare lo sguardo) il tema era
stato al centro di conflitti e proteste durissime, che avevano saputo ottenere a duro prezzo una
cornice legislativa capace di impedire lo strapotere degli interessi delle proprietà e dei mediatori
irregolari nel settore, interessi che però alla lunga non erano stati mai davvero limitati efficacemente.
Se infatti sul piano della regolamentazione e dell’istituzionalizzazione del mercato del lavoro erano
stati fatti indubbi passi avanti, altrettanto non si poteva dire sull’eliminazione del mercato di piazza,
che soprattutto in alcune zone rappresentava il luogo decisivo in cui si incontravano domanda e
offerta di lavoro, nonostante le disposizioni governative. La mancanza di rapporti di forza favorevoli a
livello sociale per i braccianti, la fine del ciclo di massa delle mobilitazioni, lo sfaldamento del tessuto
organizzativo causato dall’emigrazione e dal riflusso determinarono un contesto non favorevole alle
lotte dei braccianti, esaurita la fase delle mobilitazioni immediatamente successiva alla guerra[8].

La ripresa delle lotte alla fine degli anni Sessanta si intrecciò con i movimenti studenteschi ed operai
e uno scenario del tutto nuovo si presentò di fronte alle organizzazioni bracciantili. Complici i
drammatici fatti di Avola del 1968, le campagne tornarono alla ribalta del conflitto politico e sociale e
non mancarono spazi e occasioni di intervento anche a livello legislativo.

L’immigrazione straniera, soprattutto in Sicilia, si inserì in questo contesto così delicato e la sua
comparsa avvenne parallelamente ad alcune importanti modifiche nel quadro legislativo. Nel 1970
venne approvata la legge n. 83 sul collocamento agricolo, che va inquadrata nel più generale
intervento legislativo nel settore del lavoro esemplificato dall’approvazione nello stesso anno della
legge n. 300, che introduce lo Statuto dei lavoratori. La legge intendeva rendere meno burocratica e
più sostanziale la dinamica della mediazione pubblica e statale nel collocamento agricolo. Non erano
più gli uffici del lavoro i protagonisti di questa mediazione ma le commissioni regionali, provinciali e
comunali che avevano il compito non solo di coordinare le procedure di collocamento ma anche di
stabilire a seconda delle previsioni e delle esigenze produttive dove e come allocare maggiore
manodopera. In queste commissioni un ruolo importante era rivestito dai sindacati. Inoltre la legge
introduce l’obbligo per le imprese di comunicare annualmente alla commissione regionale il piano
colturale aziendale, in modo che la commissione possa predisporre con anticipo la dislocazione della
manodopera necessaria. Infine, tra le novità più importanti ricordiamo le sanzioni previste non solo a
livello pecuniario per le imprese inadempienti ma anche a livello di esclusione dai finanziamenti
pubblici, che nel frattempo erano diventati una voce significativa di entrata per gli imprenditori
agricoli. Nonostante il contenuto avanzato, la riforma del 1970 rappresentò un provvedimento dalla
complicata applicazione, anche perché il mercato agricolo negli anni successivi conobbe importanti
e veloci trasformazioni che ne modificarono molto rapidamente gli assetti, anche in termini di
manodopera[9]. Anziché rendere meno burocratica la mediazione istituzionale tra domanda e offerta,
la legge allungò i tempi di intervento e ciò favorì il ricorso all’utilizzo di manodopera reclutata fuori
dalle regole soprattutto nelle fasi di grande fabbisogno, quali la raccolta stagionale. Gli immigrati

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stranieri – come citato nel caso di Trapani – iniziarono a essere reclutati proprio in queste fasi, al di
fuori delle regole ufficiali.

Il tema delle politiche e dell’ingaggio irregolare non riguarda solo questa prima fase e soprattutto non
è una prerogativa esclusiva del caso italiano. Proprio le modalità di inserimento degli stranieri nel
comparto agricolo fin dalla prima stagione di sviluppo dei flussi rappresentano un orizzonte comune
in tutti quei contesti che gli studiosi hanno accomunato all’interno del cosiddetto “modello
mediterraneo di migrazione”. Secondo Giovanna Campani:

L’immigrazione non è stata una conseguenza della richiesta di manodopera da parte del settore
industriale che, assieme a quello della costruzione, aveva assorbito l’immigrazione diretta verso
l’Europa del nord. In Europa del sud, in assenza di legislazioni specifiche e in presenza di un mercato
del lavoro caratterizzato dall’importanza dell’economia informale, il fattore d’attrazione è stato
rappresentato, inizialmente, da specifiche “nicchie” del mercato del lavoro – occupazione domestica,
pesca, agricoltura stagionale, vendita ambulante, servizi di basso livello – disertate dalla
manodopera autoctona[10].

A questo proposito Devi Sacchetto ha affermato che non è casuale che gli immigrati abbiano trovato
una collocazione dove era possibile assumerli con retribuzioni basse e condizioni di lavoro
penalizzanti, proprio nei settori dove le conquiste legate ai cicli di lotte della seconda metà degli anni
Sessanta erano penetrate in modo meno omogeneo e meno dirompente: il lavoro domestico, la
pesca, l’agricoltura[11].

In Italia e negli altri paesi mediterranei gli esempi di reclutamento all’estero organizzato su base
istituzionale di manodopera diretta verso le campagne sono rarissimi fino agli anni Novanta e
continueranno a rappresentare una quota estremamente minoritaria dei volumi di lavoro migrante.

3.       Il consolidamento

Nel corso degli anni Settanta possiamo individuare il superamento della fase iniziale dei flussi, che
iniziano a essere diretti non più solo verso precise aree geografiche ma in maniera piuttosto
articolata sull’intero territorio nazionale. Se nella prima fase le tracce della presenza straniera in
agricoltura erano individuabili sostanzialmente solo in quelle regioni quali Sicilia e Friuli Venezia
Giulia dove si erano indirizzati la maggior parte dei flussi in ingresso, in questa fase le tracce di
lavoratori stranieri sono individuabili in molti altri contesti.

Una testimonianza relativa all’Emilia Romagna (pubblicata sul “Bollettino diocesano” di Parma) nel
1977 mette in evidenza come l’inserimento degli stranieri fosse legato alla parallela ripartenza degli
emigranti provenienti dall’Italia meridionale. Proprio in riferimento all’agricoltura, viene suggerita
un’ipotesi che lascerebbe pensare a un vero e proprio avvicendamento migratorio: gli stranieri

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sarebbero arrivati a seguito della partenza di “quei sardi e meridionali che erano venuti ultimamente a
rimpiazzare i vuoti lasciati liberi e che ora, o a causa dei disagi provocati dalla mancanza di
infrastrutture e di servizi adeguati reperibili sul posto o, in altri casi, per il ritorno alla terra di origine
una volta racimolato il gruzzoletto necessario, non sono più sufficienti a coprire l’offerta di lavoro
agricolo in regione”[12].

Ma l’Emilia Romagna non è la sola regione dove vengono segnalate presenze nuove nel mercato del
lavoro agricolo. Lombardia, Piemonte, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Toscana, Sardegna:
l’allargamento è notevole e diffuso al nord come al centro e al sud. In Sardegna ad esempio nel 1972
emerge a seguito di una indagine della magistratura l’impiego irregolare di lavoratori nelle campagne
del Campidano, come racconta un articolo tratto da “l’Unità”.

Un gigantesco commercio di tipo praticamente schiavista sta per venire alla luce in Sardegna. Già da
tempo si avevano notizie di emigrati tunisini che sbarcavano nell’lsola per essere assunti, in cambio
del vitto e dell’alloggio, presso aziende agricole del Sarrabus, del Campidano e di altre zone della
provincia. Ora la polizia di frontiera ha impedito lo sbarco di quattro braccianti di Tunisi. I giovani —
che si dichiaravano “turisti” pur non avendo dei mezzi di sostentamento — non hanno ottenuto il visto
dl Ingresso in Italia e sono stati fatti proseguire, a bordo della motonave Calabria, per Genova. Con la
stessa nave nei prossimi giorni torneranno a Cagliari, per essere rispediti in Tunisia. II commissario
Canessa, il primo appuntato Piras e l’agente Bono già da qualche settimana nutrivano dei sospetti sul
“traffico di braccia” dai paesi arabi alla Sardegna. “Ogni mercoledi — sostengono gli inquirenti —
arrivavano a Cagliari dei lavoratori stranieri provenienti dalla Tunisia e venivano avviati nelle zone
interne, ingaggiati per lavorare nel campi in cambio di un piatto di minestra e di qualche migliaio di
lire». Siamo, come si vede, di fronte ad una tratta di lavoratori” in grande stile. Ma da chi viene
organizzata e perché le autorità di polizia hanno scoperto soltanto adesso il commercio di uomini? In
questura rispondono che sono in corso indagini per stabilire quale fosse la destinazione dei giovani
tunisini e scoprire la dislocazione di eventuali “campi di lavoro” dove si sfrutta la mano d’opera araba.
Mentre la disoccupazione cresce quotidianamente in Sardegna, vi sono evidentemente degli
imprenditori che assumono — si dice addirittura senza salario — questi lavoratori stranieri, ai quali
probabilmente si fa intravedere il miraggio di un posto retribuito per poi metterli di fronte al “prendere
o lasciare”. La tratta dei tunisini ha avuto inizio alcuni anni fa, quando si sono insediati in Sardegna i
coloni italiani cacciati dal Medio Oriente e dall’Africa[13].

L’articolo dell’Unità apre numerose possibilità agli studiosi che oggi si interessano al susseguirsi
della storia delle migrazioni, poiché rivela la profonda interconnessione tra movimenti diversi tra loro,
quali il rientro dei coloni e il reclutamento di braccianti stranieri. Si può anche ipotizzare che la
funzione di richiamo verso i lavoratori stranieri svolta dagli ex coloni di ritorno non rappresenti una
prerogativa solo sarda ma sia avvenuta anche in altri contesti, quali quello siciliano.

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Il documento più ricco di stimoli per descrivere questa fase è il Rapporto sui lavoratori stranieri in
Italia redatto dal Censis nel 1978[14]. Gli estensori del Rapporto sottolineano come l’agricoltura
rappresenti un settore molto difficile da indagare poiché l’impiego di manodopera è accompagnato
da fenomeni di elusione delle regole. I dati sui singoli permessi di soggiorno mettono in evidenza la
notevole sottorappresentazione del lavoro agricolo. Il Rapporto stima complessivamente la presenza
straniera in Italia al 1978 attorno ai 400.000 lavoratori e lavoratrici, ma i dati sui permessi di
soggiorno aggiornati al 1976 segnalano solo 557 lavoratori avviati nel settore agricolo. Una
sproporzione così evidente era probabilmente il frutto della presenza di lavoro sommerso, non
regolare.

La sezione del Rapporto dedicata alle indagini di campo si concentra sull’agricoltura soprattutto per
quanto riguarda il Friuli Venezia Giulia e la Sicilia. In Friuli vengono segnalati circa un migliaio di
lavoratori, soprattutto nel Carso, prevalentemente di origine jugoslava. Sono persone che svolgono
attività stagionali sia di raccolta sia di impiego nell’allevamento. L’indagine descrive anche la
presenza di immigrati jugoslavi che dopo aver acquistato terreno situati nelle zone di confine hanno
avviato attività agricole come piccoli proprietari. In Sicilia il Rapporto si sofferma sulla provincia di
Trapani, segnalando il “boom” nel settore agricolo cui abbiamo già accennato in precedenza.

Nel corso degli anni Ottanta si moltiplicano le inchieste e le analisi sul ruolo dell’immigrazione nel
mercato del lavoro agricolo. Nel 1984 e nel 1985 Francesco Calvanese ed Enrico Pugliese si
concentrano sulla specificità meridionale e iniziano a soffermarsi sul fenomeno che più di ogni altro
alla metà del decennio suscita l’interesse degli studiosi: il coinvolgimento dei braccianti stranieri
nelle stagioni di raccolta dell’agricoltura intensiva[15]. Pugliese analizzando proprio il settore rurale
propone di fare un passo in avanti nella lettura che fino a quel momento aveva dominato lo sguardo
sull’immigrazione: il paradigma sostitutivo. Non basta sostenere che gli stranieri svolgono lavori che
“gli italiani non vogliono più fare” ma occorre penetrare più a fondo nella questione. A suo avviso, è
anche il settore agricolo a dimostrare che gli stranieri “non tanto occupano posti di lavoro rifiutati dai
lavoratori nazionali, quanto accettano condizioni di lavoro che questi ultimi tentano di evitare, perché
collocate al di sotto del livello di garanzia, di sicurezza, di reddito e di protezione considerato
accettabile nell’attuale fase di sviluppo sociale”.

Nel 1989 la morte di Jerry Masslo nelle campagne del Casertano contribuisce a rafforzare il percorso
di visibilità del lavoro migrante nei contesti agricoli. La questione entra prepotentemente e
drammaticamente nel dibattito pubblico.

Gli studiosi di storia contemporanea hanno recentemente approfondito questo momento di svolta.
La morte di Masslo, le sue cause e le sue conseguenze si possono considerare come il primo nodo
che la storiografia ha affrontato a proposito del rapporto tra immigrazione e lavoro agricolo[16]. Esule
sudafricano, viene ucciso il 24 agosto 1989 durante un tentativo di rapina a Vico Gallinelle, una delle
strade dove si affollavano all’interno di alloggi precari centinaia e centinaia di immigrati stranieri. Un

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gruppetto di giovani provenienti dal paese lo finisce a colpi di pistola, nel tentativo di impadronirsi dei
soldi che gli immigrati tenevano con loro dopo essere stati pagati sui campi[17]. La reazione
all’omicidio è fortissima: la fine degli anni Ottanta segna in modo definitivo l’ingresso del
bracciantato migrante nel dibattito politico nazionale. L’intenso ciclo di mobilitazioni del 1989-1990
porta all’approvazione della legge Martelli, la prima legge organica sull’immigrazione. I braccianti di
origine africana, amici e compagni di Masslo, sono tra i protagonisti di queste mobilitazioni. Le loro
iniziative, sostenute dal nascente movimento antirazzista, hanno un effetto dirompente, a partire
dalla Campania. Questo il testo del volantino che distribuiscono a un mese dall’omicidio, quando il
primo sciopero di braccianti stranieri paralizza per un giorno la raccolta agricola della zona.

Noi immigrati clandestini siamo venuti in questo paese non solo spinti dalla miseria ma anche dal
desiderio di vivere in un luogo dove i diritti umani e del lavoro siano rispettati. Purtroppo, in questa
terra, la lentezza dei poteri pubblici ha reso difficile la realizzazione dì questo sogno.
L’incomprensione, l’atteggiamento di alcuni nei nostri confronti, ha reso difficile la nostra permanenza
qui, in questo paese di emigranti che adesso ci accoglie, sempre più spesso con ostilità se non con
odio, anche per il colore della nostra pelle. La nostra condizione di clandestini permette a datori di
lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che, voi
lavoratori italiani, avete saputo conquistare sin dalla Resistenza. Sappiamo che l’ostilità che ci è stata
a volte dimostrata è dettata dalla paura e non dalla malvagità. Noi, immigrati clandestini, non siamo
perciò disposti ad essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Per questi motivi oggi scendiamo
in sciopero. Chiediamo di appoggiarci in questa lotta[18].

Dobbiamo tuttavia segnalare che l’approccio privilegiato per affrontare questa vicenda ha
generalmente evitato di contestualizzare storicamente il tema del reclutamento, del collocamento e
del lavoro migrante in agricoltura, concentrandosi più che altro sui limiti della legislazione italiana in
tema di diritto di asilo (Masslo pur proveniente dal Sudafrica dell’apartheid non aveva i requisiti per
richiedere lo status di rifugiato), sul razzismo e sullo sfruttamento intensivo di manodopera. Proprio
la zona di Villa Literno – luogo in cui Masslo lavorava e in cui venne ucciso – si presta a una rilettura
in chiave storica delle continuità e delle rotture nelle modalità di reclutamento e avviamento al lavoro
del bracciantato, modalità dominate almeno in tutta l’età contemporanea dallo strapotere dei
mediatori illegittimi di manodopera: i cosiddetti “caporali”.

Fino agli anni Ottanta la manodopera che affluiva a Villa Literno era formata prevalentemente da
lavoratori e lavoratrici italiane, provenienti generalmente dai paesi del circondario[19]. La svolta degli
anni Ottanta ha un carattere duplice: cambia rapidamente la filiera produttiva e arrivano i lavoratori
stranieri. Nel giro di pochi anni alla coltivazione di alberi da frutta si sostituisce il pomodoro, aiutato
dai finanziamenti europei e governativi. Nei mesi estivi la produzione di pomodoro conosce un picco
eccezionale di bisogno di manodopera, soddisfatto da lavoratori che giungono dall’Africa
settentrionale e meridionale. La letteratura scientifica ha inizialmente sottovalutato il nesso tra
trasformazioni produttive e cambiamenti migratori. Solo negli ultimi 15 anni tale legame è stato
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svelato e approfondito. Gli studi rivelano che la dinamica non riguarda solo il Mezzogiorno ma è
estesa a tutto il territorio nazionale. Non sono solo le attività di raccolta nelle aree intensive a
conoscere il lavoro straniero ma anche le attività di sistemazione, potatura, semina, manutenzione,
pulizia. Inoltre, a fianco al settore agricolo diventa sempre più importante anche il coinvolgimento
nell’allevamento. Due esempi al riguardo possono esemplificare il percorso.

Il primo è una lunga e documentata inchiesta giornalistica, in cui Giulio Di Luzio ha descritto nel
dettaglio le trasformazioni sociali ed economiche della provincia di Caserta[20], concentrandosi in
particolare sull’intreccio tra agricoltura e immigrazione, ma guardando anche al ruolo giocato dalle
organizzazioni criminali. Il secondo è il volume La globalizzazione delle campagne, dove una serie di
indagini sociologiche hanno svelato la profondità del rapporto tra l’internazionalizzazione economica
delle filiere produttive agricole e la formazione di un mercato del lavoro dominato dal bracciantato di
origine straniera[21].

Tornando alla fase post-1989, possiamo notare che nel corso degli anni Novanta il tema del lavoro
agricolo degli immigrati suscita molta attenzione e si moltiplicano gli studi che cercano di mapparne
consistenza e caratteristiche. In estrema sintesi, possiamo riassumere attorno a tre orizzonti le
analisi che emergono.

Il primo è relativo alla dimensione territoriale. Le statistiche del 1997 ad esempio segnalano che la
regione in cui gli uffici del lavoro hanno autorizzato maggiormente l’impiego di stranieri in agricoltura
è il Veneto (6.388), seguito da Sicilia (6.275), Emilia Romagna (4.889), Toscana (3.442), Trentino Alto
Adige (2.581), Lazio (2.257)[22]. Sicuramente sulle statistiche pesano le elusioni e le irregolarità molto
diffuse in alcune regioni meridionali, ma la presenza di numeri così alti al centro-nord rappresenta
una indicazione molto chiara rispetto alla diffusione nazionale.

Il secondo orizzonte è quello relativo alla irregolarità. La letteratura scientifica degli anni Novanta e le
successive ricostruzioni storiche hanno sottolineato come i contesti rurali abbiano in qualche modo
rappresentato il terreno di verifica più evidente di tutte le anomalie e le contraddizioni delle politiche
migratorie italiane. Nonostante le quote annuali di lavoro stagionale e nonostante le periodiche
regolarizzazioni, la quantità di persone reclutate e avviate al lavoro in agricoltura al di fuori dei canali
previsti dalla legge rimane sempre molto alta[23].

Il terzo orizzonte è quello relativo al rapporto col sindacato. Le analisi e gli studi mettono in evidenza
già negli anni Novanta le difficoltà, i problemi, le incomprensioni tra il mondo sindacale impegnato nei
contesti rurali e l’immigrazione straniera[24].

4.       La “rivoluzione”

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La fase del consolidamento porta dunque tra gli anni Settanta e gli anni Novanta non solo alla
crescita progressiva degli addetti ma anche alla complessiva strutturazione di un dibattito politico e
scientifico attorno al lavoro degli stranieri nell’agricoltura italiana. Un tema come abbiamo visto di
portata nazionale, che si collega a numerosi altri nodi centrali della storia dei territori interessati: le
trasformazioni produttive, l’utilizzo in forme irregolari del lavoro, le problematiche legate all’approccio
sindacale, i cambiamenti nella composizione sociale dei luoghi, i nuovi confini tra città e campagna,
la riorganizzazione delle filiere, il conflitto sociale.

Nel corso degli anni compresi tra il 2000 e il 2010 maturano nuove e decisive accelerazioni,
innanzitutto nel generale inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro.

Tra il 2001 e il 2010 le forze di lavoro straniere stimate dall’Istat sono triplicate: da 724.000 unità a
2,3 milioni di unità. Nello stesso periodo gli occupati stranieri sono passati da 636.000 a 2,1 milioni.
Se nel 2005 la percentuale di stranieri occupati era di poco superiore al 5% sul totale degli occupati,
nel 2011 tale percentuale era di fatto raddoppiata, raggiungendo il 10,2%. Prendendo come punti di
osservazione il 2005 (ormai lontano dalla regolarizzazione del 2002) e il 2008, prima dell’esplosione
della crisi, l’aumento è ancora più significativo: in soli 3 anni la manodopera straniera in Italia è
aumentata del 14,4%, mentre quella italiana solo dello 0,4%. Nel 2008 l’Italia ha una percentuale di
occupati stranieri sul totale degli occupati superiore alla media della neonata Unione Europea a 27
Stati: il 7,5% contro il 6,7% della media europea. Una percentuale stabilmente superiore a paesi di più
antica tradizione migratoria quali la Francia, dove la percentuale si attestava al 5,2%. Si tratta di dati
che testimoniano una trasformazione epocale nel mercato del lavoro, con ricadute molto importanti
a più livelli[25].

L’impatto sull’agricoltura è molto forte, ma rispetto ai dati statistici possiamo notare che è
leggermente più spostato in avanti nel tempo. Gli anni che segnano una impennata senza precedenti
sono quelli tra il 2008 e il 2017. Analizzando i dati forniti dall’Inps solo a proposito della categoria
degli “operai agricoli” notiamo un notevole mutamento. Se nel 2008 gli operai agricoli stranieri erano
268.273, nel 2017 erano saliti a 364.385. Tra loro, erano però aumentati enormemente i reclutati con
contratti a termine (da 245.773 a 343.977) ed erano diminuiti i titolari a tempo indeterminato (da
26.559 a 23.222). Nello stesso periodo è calata l’incidenza degli operai agricoli italiani, che nel 2008
erano il 74,13% mentre nel 2017 erano scesi al 65,62%[26].

L’aumento complessivo degli addetti stranieri non ha modificato in questi anni più recenti le prime
nove nazionalità di origine. Nel 2017 i più rappresentati sono i lavoratori di nazionalità rumena,
seguiti da marocchini, indiani, albanesi, polacchi, tunisini, bulgari, senegalesi, cinesi. Sia nel 2008 sia
nel 2017 la componente rumena è di gran lunga quella maggioritaria (nel 2017 110.525 operai su
364.385). Partendo da questo dato possiamo delineare sinteticamente le origini e le interpretazioni di
questa grande trasformazione, accennando soltanto a due punti.

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La prima questione che dobbiamo evidenziare è legata all’allargamento a est dell’Unione europea,
con l’inserimento nel 2007 di Romania e Bulgaria. Tale processo ha naturalmente favorito i flussi
migratori – soprattutto stagionali – provenienti da questi paesi, contribuendo a una progressiva
europeizzazione del lavoro migrante in agricoltura, fenomeno iniziato in realtà piuttosto tardi. È infatti
solo nel corso degli anni Novanta che prendono corpo movimenti significativi provenienti dall’Europa
dell’est verso il settore, dove fino a quel momento l’immagine del lavoratore straniero predominante
era quella dell’operaio nordafricano o subsahariano.

Un’altra questione importante è legata agli effetti della crisi economica internazionale iniziata proprio
nel 2008. La letteratura scientifica che ha approfondito questo legame ha evidenziato come negli
anni della crisi si sia verificato uno spostamento di manodopera di origine straniera dal settore
industriale verso il settore agricolo.

Gli anni della “rivoluzione” non sono solo anni in cui possiamo registrare statisticamente l’aumento
degli addetti ma sono anche anni in cui il mondo delle campagne conosce fenomeni sempre più
significativi di conflittualità sociale a partire proprio dalla componente di origine straniera. Più in
generale, sono anni in cui il tema del lavoro nelle campagne si intreccia sempre di più
all’immigrazione straniera ed entra in modo strutturale nel dibattito pubblico. L’evento centrale per
capire questa dinamica è la rivolta di Rosarno del 2010.

Ai margini e all’interno della città vivevano migliaia di lavoratori immigrati impegnati in agricoltura
come braccianti e reclutati per la raccolta nei numerosi agrumeti della zona. Le loro condizioni di vita
e di lavoro sono particolarmente critiche: vivono in tendopoli e in alloggiamenti spontanei, vengono
impiegati frequentemente senza contratto di lavoro, hanno difficoltà ad accedere a diritti
fondamentali quali la sanità, la casa, l’acqua corrente, l’elettricità. Già prima del 2010 i braccianti si
erano organizzati per protestare e portare la loro condizione di fronte alle istituzioni. Nel 2010 la
protesta scaturisce da una serie di aggressioni fisiche subite dai braccianti africani e culminate nel
ferimento di tre di loro, colpiti il 7 gennaio con un’arma ad aria compressa durante il rientro dal lavoro.
Le successive manifestazioni di protesta organizzate dai lavoratori immigrati vengono duramente
attaccate sia dalle forze dell’ordine sia da una parte della popolazione locale: per tre giorni si
susseguono spedizioni punitive, gambizzazioni, aggressioni che colpiscono prevalentemente gli
immigrati[27]. La pacificazione nella città viene raggiunta solo grazie all’allontanamento coatto della
maggior parte degli immigrati: alcuni vengono rinchiusi nei Cie, molti altri vengono di fatto costretti a
partire e ad allontanarsi dalla Calabria. Successivamente, soprattutto a Roma, i lavoratori reduci
dall’esperienza di Rosarno continueranno a organizzare iniziative per rivendicare i propri diritti e
denunciare la condizione di sfruttamento particolarmente pesante in ambito agricolo. Questo un
passaggio tratto dal documento di costituzione dell’Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a
Roma:

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Ci siamo fatti vedere, siamo scesi per strada per gridare la nostra esistenza. La gente non voleva
vederci. Come può manifestare qualcuno che non esiste? Le autorità e le forze dell’ordine sono
arrivate e ci hanno deportati dalla città perché non eravamo più al sicuro. Gli abitanti di Rosarno si
sono messi a darci la caccia, a linciarci, questa volta organizzati in vere e proprie squadre di caccia
all’uomo. Siamo stati rinchiusi nei centri di detenzione per immigrati. Molti di noi ci sono ancora, altri
sono tornati in Africa, altri sono sparpagliati nelle città del Sud. Noi siamo a Roma. Oggi ci ritroviamo
senza lavoro, senza un posto dove dormire, senza i nostri bagagli e con i salari ancora non pagati
nelle mani dei nostri sfruttatori. Noi diciamo di essere degli attori della vita economica di questo
paese, le cui autorità non vogliono né vederci né ascoltarci. I mandarini, le olive, le arance non cadono
dal cielo. Sono delle mani che li raccolgono. Eravamo riusciti a trovare un lavoro che abbiamo
perduto semplicemente perché abbiamo domandato di essere trattati come esseri umani. Non siamo
venuti in Italia per fare i turisti. Il nostro lavoro e il nostro sudore servono all’Italia come serve alle
nostre famiglie che hanno riposto in noi molte speranze. Domandiamo alle autorità di questo paese
di incontrarci e di ascoltare le nostre richieste: domandiamo che il permesso di soggiorno concesso
per motive umanitari agli 11 africani feriti a Rosarno, sia accordato anche a tutti noi, vittime dello
sfruttamento e della nostra condizione irregolare che ci ha lasciato senza lavoro, abbandonati e
dimenticati per strada; vogliamo che il governo di questo paese si assuma le sue responsabilità e ci
garantisca la possibilità di lavorare con dignità[28].

La vicenda di Rosarno ha contribuito a stimolare ulteriormente il dibattito scientifico, insieme


naturalmente al tema già richiamato dell’espansione della presenza straniera nel settore. Volendo
sintetizzare in modo molto riassuntivo le principali tendenze di tale dibattito, possiamo isolare sei
questioni, con lo scopo di restituire le forme e i modi con cui gli studiosi hanno analizzato questa
fase più recente.

Innanzitutto, la territorializzazione della questione. Gli studi hanno iniziato a proporre una
ricostruzione sistematica delle aree – al sud come al centro-nord – in cui si manifestano situazioni di
insediamento dell’immigrazione straniera a partire dalla disponibilità di lavoro agricolo in alcune parti
dell’anno[29]. Partiti dal focus sull’agricoltura, inevitabilmente si sono estesi ad altri contesti di
mercato del lavoro e anche al di fuori del tema del lavoro. Gli insediamenti si presentano con
caratteristiche simili solo apparentemente, in generale possiamo parlare di alcuni tratti comuni quali
la precarietà alloggiativa, lo sfruttamento lavorativo, la mediazione irregolare di manodopera. Dal
punto di vista storico il nodo della territorializzazione presenta eccezionali potenzialità di
conoscenza, poiché le aree coinvolte sono in alcuni casi le stesse dove il bracciantato migrante era
presente da molto tempo, addirittura dall’età moderna.

In secondo luogo, la “profughizzazione” del lavoro agricolo. Negli anni successivi alla crisi economica
del 2008 ci troviamo di fronte a numerose trasformazioni dei movimenti di popolazione, che si
intrecciano alle conseguenze dei nuovi conflitti in Medio Oriente. Il nuovo contesto migratorio rende,
soprattutto nel caso italiano, molto più diffusa del passato la figura del richiedente asilo, del rifugiato,
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del profugo politico non riconosciuto, del soggetto tutelato da protezione umanitaria[30]. Molte di
queste figure hanno iniziato a rivolgersi sistematicamente al mercato del lavoro agricolo per
affrontare le esigenze di sostentamento, soprattutto in presenza di un meccanismo inesorabile di
chiusura delle politiche migratorie, culminato nei decreti Minniti (2017) e Salvini (2018). L’intreccio tra
la disponibilità sempre maggiore di manodopera impossibilitata ad accedere ai canali regolari di
reclutamento e la parallela restrizione delle politiche legate ai flussi stagionali ha aumentato
ulteriormente la pressione sulle aree agricole interessate al lavoro stagionale. Un ruolo importante in
questo senso è stato svolto anche dalla collocazione di grandi centri di accoglienza in prossimità di
aree a forte vocazione agricola, citiamo ad esempio i casi di Borgo Mezzanone (Foggia) e Mineo
(Catania)[31].

In terzo luogo, la crisi complessiva del sistema di collocamento pubblico del lavoro e del sistema
ispettivo. Il contesto del lavoro agricolo si può leggere come uno dei laboratori più avanzati del
processo di precarizzazione del lavoro e della dilagante ritirata degli attori pubblici nella gestione di
tutto il comparto. Già una quindicina di anni fa Stefano Musso aveva opportunamente descritto
l’inesorabile parabola discendente del collocamento pubblico, sempre più incapace di garantire la
mediazione tra domanda e offerta di lavoro[32]. Successivamente, l’equilibrio si è ulteriormente
spostato a favore di soggetti privati autorizzati (agenzie, cooperative, società) o proprio a favore di
soggetti che agiscono del tutto al di fuori dei canali regolari. Allo stesso tempo la funzione e la
capacità di intervento degli ispettorati del lavoro ha perso terreno, sia in termini di organizzazione (a
causa dei numerosi tagli alla spesa) sia come efficacia: nelle campagne gli effetti di questi processi
sono stati particolarmente dirompenti, in particolare sulla forza lavoro di origine straniera. Ma anche
il bracciantato italiano ha subito queste trasformazioni: la morte nelle campagne pugliesi di Paola
Clemente nel 2015 e Giuseppina Spagnoletti nel 2017 ha attirato l’attenzione del dibattito pubblico,
rendendola generalizzata al di fuori del discorso sull’immigrazione.

In quarto luogo, la determinazione politica dei lavoratori e delle lavoratrici di origine straniera. Il caso
di Masslo e dei suoi compagni, come pure la vicenda di Rosarno, non sono eccezioni. Negli ultimi
trent’anni il mondo delle campagne ha conosciuto numerose mobilitazioni scaturite a partire dalle
condizioni di lavoro e di alloggio dei cittadini stranieri. In alcuni casi queste iniziative hanno trovato
sostegno da parte dei sindacati (sia confederali sia di base) o da parte di associazioni, mentre in altri
casi hanno proseguito in modo autonomo. Una cesura importante in queste mobilitazioni è lo
sciopero di Nardò (Lecce) dell’agosto 2011, quando i braccianti impegnati nella raccolta delle angurie
e del pomodoro decidono di incrociare le braccia in massa per due settimane: una mobilitazione di
circa 400 persone che mette in crisi il modello produttivo basato sul caporalato[33]. Il tema della
determinazione politica non è solo declinabile attraverso il susseguirsi delle manifestazioni e delle
proteste. Dobbiamo infatti ricordare che molte inchieste giudiziarie che hanno svelato situazioni di
grave sfruttamento sono nate da denunce presentate da cittadini stranieri.

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In quinto luogo, lo slittamento verso la lettura “umanitaria” del fenomeno. L’attenzione sulle
condizioni pesantissime di sfruttamento e di alloggio, la formazione e la moltiplicazione dei ghetti, il
coinvolgimento sempre più diffuso delle organizzazioni umanitarie hanno finito – secondo alcuni
osservatori – per favorire una visione dell’immigrazione straniera nei contesti agricoli che non ha più
al centro il tema del lavoro. Tale visione è invece basata sul disagio dei soggetti, senza la necessaria
consapevolezza delle origini di tale disagio, che evidentemente gettano le basi su una particolare
articolazione sui territori del mercato del lavoro agricolo[34].

In sesto luogo, la crescente importanza della riflessione sulle filiere. Il tema del lavoro rurale è stato
associato in modo sempre più frequente alla dinamica di sviluppo di alcune filiere, che partono dai
prodotti agricoli ma che poi organizzano la distribuzione e la vendita coinvolgendo una grande
pluralità di attori: la logistica, la conservazione, la trasformazione, la vendita[35]. Ricomporre a partire
dalla filiera il tema del lavoro agricolo significa effettivamente costruire nessi e legami che
permettono di andare oltre alla dimensione locale dei mercati del lavoro. Si tratta di legami che
assumono spesso una dimensione che va ben oltre quella dei distretti agricoli ma assume un respiro
nazionale e internazionale.

5.       Conclusioni

Rileggere la storia dell’Italia repubblicana e la storia dell’agricoltura italiana alla luce della centralità
sempre maggiore dell’immigrazione straniera è oggi quantomai importante. Mantenere questi due
piani separati ci impedirebbe di comprendere dentro tutta la vicenda il ruolo crescente del
bracciantato di origine straniera. Con maggiori sforzi in termini di organizzazione e condivisione dei
percorsi di ricerca, l’interazione tra studi storici e scienze sociali potrà garantire un avanzamento
notevole delle conoscenze, indispensabile per favorire ancora di più la comprensione di un segmento
sociale ed economico decisamente non marginale nella storia dell’Italia contemporanea.

[1]           Alessandro Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del sud,
Milano, Mondadori, 2008, p. 22.

[2]           Lucio Pisacane, Lavoratori immigrati nell’agricoltura italiana: numeri e sfide verso una
prospettiva di integrazione, in Migrazioni e integrazioni nell’Italia di oggi, a cura di Corrado Bonifazi,
Roma, Irpps-Cnr, p. 159.

[3]
           Per uno sguardo più approfondito mi permetto di rinviare a Michele Colucci, Storia
dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Roma, Carocci, 2018.

[4]
           Sergio Bontempelli, Il governo dell’immigrazione in Italia: il caso dei “decreti flussi”, in Tutela
dei diritti dei migranti, a cura di Pierluigi Consorti, Pisa, Plus, pp. 115-136.

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25/04/23, 13:22 Braccianti stranieri nell’agricoltura italiana: un profilo storico nel periodo repubblicano – A.S.E.I.

[5]
           Sarah Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, Bologna, Il Mulino, 1994.

[6]
           Antonino Cusumano, Il ritorno infelice: i tunisini in Sicilia, Palermo, Sellerio, 1976, p. 6.

[7]
           Ibid., p. 26.

[8]           Stefano Musso, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione
italiana, 1888-2003, Torino, Rosenberg & Sellier, 2012; Michele Colucci – Stefano Gallo, Agricoltura,
conflitto e collocamento: 1950-2003, in Agromafie e caporalato. Quarto rapporto, a cura di
Osservatorio Placido Rizzotto, Roma, Bibliotheka edizioni, 2018, pp. 69-79.

[9]
           Massimiliano D’Alessio, Evoluzione del collocamento e del mercato del lavoro in agricoltura,
“Mercato del lavoro e agricoltura”, 12 (2012), p. 13.

[10]
          Giovanna Campani, Dalle minoranze agli immigrati. La questione del pluralismo culturale e
religioso in Italia, Milano, Unicopli, 2008, p. 182.

[11]
          Devi Sacchetto, Migrazioni e lavoro nella sociologia italiana, in Movimenti indisciplinati.
Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, a cura di Sandro Mezzadra – Maurizio Ricciardi, Verona,
Ombre Corte, 2013, pp. 50-67.

[12]
          Carlo Casella, Nonostante tutto importiamo operai stranieri, “Dossier Europa emigrazione”, 12
(1977), pp. 7-9.

[13]
          Ignobile racket di lavoratori tunisini, “l’Unità”, 6 ottobre 1972, p. 5.

[14]
          Censis, I lavoratori stranieri in Italia: studio elaborato dal Censis nel 1978, Roma, Istituto
poligrafico e Zecca dello Stato, 1979.

[15]
          Francesco Calvanese, Gli immigrati in Campania, Roma, Filef, 1983; Enrico Pugliese, Quale
lavoro per gli stranieri in Italia?, “Politica ed economia”, 9 (1985), pp. 69-76.

[16]
          Si vedano: Valerio De Cesaris, Il grande sbarco. L’Italia e la scoperta dell’immigrazione, Milano,
Guerini e Associati, 2018; Roberto Bianchi, Piazza Senegal, Firenze 1990. Uno sciopero della fame tra
storia e memoria, “Italia contemporanea”, 288 (2019), pp. 209-235; M. Colucci, Storia
dell’immigrazione straniera, cit; Luca Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi,
Roma-Bari, Laterza, 2017.

[17]
          Per approfondire tutta la vicenda si veda Giulio Di Luzio, A un passo dal sogno. Gli
avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’immigrazione in Italia, Nardò, Besa, 2006.

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25/04/23, 13:22 Braccianti stranieri nell’agricoltura italiana: un profilo storico nel periodo repubblicano – A.S.E.I.

[18]
          Appello ai lavoratori bianchi, “l’Unità”, 21 settembre 1989, p. 11.

[19]
          Per una definizione precisa e una prospettiva critica anche in chiave storica si veda Mimmo
Perrotta, Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del nuovo caporalato in agricoltura,
“Meridiana”, 79 (2014), pp. 193-220.

[20]
          Giulio Di Luzio, A una passo dal sogno, cit.

[21]
          La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia, a cura di
Alessandra Corrado, Carlo Colloca, Mimmo Perrotta, Milano, Franco Angeli, 2013.

[22]
          Fondazione Ismu, Quarto rapporto sulle migrazioni, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 94.

[23]
          Franco Pittau, Carla Alessandrelli, Paolo Bocchini, La regolarizzazione dei lavoratori
extracomunitari ex decreto-legge 489/1995 nel panorama delle migrazioni in Italia, “Studi
Emigrazione”, 126 (1997), pp. 269-283; Giovanna Campani, Francesco Carchedi e Giovanni Mottura,
Flessibilità e regolarizzazione. Aspetti e problemi del lavoro stagionale degli immigrati in Italia, “Studi
Emigrazione”, 122 (1996), pp. 199-222.

[24]          Cnel, Immigrazione e tessuto delle rappresentanze, Roma, Cnel, 1993; Stefano Allievi,
Immigrazione e sindacato: un rapporto incompiuto, “Sociologia del lavoro”, 64 (1996), pp. 153-169;
Giovanni Mottura e Pietro Pinto, Immigrazione e cambiamento sociale. Strategie sindacali e lavoro
straniero in Italia, Roma, Ediesse, 1996.

[25]
          Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione generale immigrazione e politiche di
integrazione, Secondo rapporto annuale sul mercato del lavoro degli immigrati, Roma, Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, 2012.

[26]
          CREA, Il contributo dei lavoratori stranieri all’agricoltura italiana, a cura di Maria Carmela
Macrì, Roma, Centro di ricerca Politiche e Bio-economia, 2019, disponibile on line:
https://www.bancheimprese.it/images/crea_1.pdf.

[27]          Antonello Mangano, Gli africani salveranno l’Italia, Milano, Rizzoli, 2010.

[28]
          Si veda: http://www.meltingpot.org/Comunicato-dei-lavoratori-immigrati-di-
Rosarno.html#.WuGf9Je-msw.

[29]
          Per un riepilogo delle situazioni a livello nazionale si vedano le quattro edizioni del Rapporto
Agromafie e caporalato pubblicate dall’Osservatorio Placido Rizzotto.

https://www.asei.eu/it/2022/06/braccianti-stranieri-nellagricoltura-italiana-un-profilo-storico-nel-periodo-repubblicano/#_ftn18 17/18
25/04/23, 13:22 Braccianti stranieri nell’agricoltura italiana: un profilo storico nel periodo repubblicano – A.S.E.I.

[30]
          Nick Dines ed Enrica Rigo, Postcolonial Citizenships and the “Refugeeization” of the
Workforce: Migrant Agricultural Labor in the Italian Mezzogiorno, in Postcolonial Transitions in Europe:
Contexts, Practices and Politics, a cura di Sandra Ponzanesi – Gianmaria Colpani, London, Rowman
and Littlefield, 2015, pp. 151-172.

[31]
          Per una panoramica sul tema dell’accoglienza si veda: Il sistema di accoglienza in Italia.
Esperienze, resistenze, segregazione, a cura di Gennaro Avallone, Nocera Inferiore, Othotes, 2018.

[32]
          S. Musso, Le regole e l’elusione cit.

[33]          Brigate di solidarietà attiva ed altri, Sulla pelle viva. Nardò, la lotta autorganizzata dei
braccianti immigrati, Roma, Derive Approdi, 2012.

[34]          Enrica Rigo, Introduzione. Lo sfruttamento come modo di produzione, in Leggi, migranti e
caporali. Prospettive critiche di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura, a cura di Ead., Pisa,
Pacini, 2015, pp. 5-14; Nick Dines, Humanitarian reason and the representation and management of
migrant agricultural labour, “Theomai”, 38 (2018), disponibile on line:
https://www.redalyc.org/jatsRepo/124/12455418004/html/index.html.

[35]
          Il frutto più maturo di questo filone di ricerca è il fascicolo 93 (2018) della rivista “Meridiana”,
Agricolture e cibo, a cura di Alessandra Corrado, Martina Lo Cascio e Mimmo Perrotta.

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By: Michele
Colucci
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#agricoltura #braccianti #Italia #lavoro #rivoluzione #stranieri

https://www.asei.eu/it/2022/06/braccianti-stranieri-nellagricoltura-italiana-un-profilo-storico-nel-periodo-repubblicano/#_ftn18 18/18

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