Si apre così la cosiddetta età giolittiana. Il primo aspetto fondamentale del governo Giolitti è
il cosiddetto take off, ossia il decollo economico del paese. Questo periodo è segnato da una
prima rivoluzione industriale (mentre in Europa era già in corso la seconda), in cui l’Italia si
trasforma in un paese industriale. Lo storico Cafagna, nel libro “Intorno alle origini del
dualismo economico in Italia”, indica i tratti distintivi del decollo economico italiano. Il primo
aspetto caratteristico è costituito da una scelta economica di tipo protezionistico (elevare i
dazi doganali per ostacolare le importazioni e favorire il mercato interno), volta a
salvaguardare l’industria tessile italiana, favorendo la formazione di un mercato interno in
grado di accogliere i prodotti di tale settore. Ma, tale scelta fu volta a difendere soprattutto
il settore siderurgico (l’industria pesante). Il radicamento della siderurgia in Italia è
accompagnato da un’innovazione tecnologica fondamentale secondo Cafagna: viene
introdotta la cosiddetta siderurgia a ciclo integrale, in cui gli altiforni non vengono mai
spenti. Tale produzione comporta però grandi investimenti, garantiti dal sistema bancario.
La banca eroga prestiti e si tutela assumendo la dirigenza tecnica e finanziaria, creando un
forte intreccio tra siderurgia e banca attraverso lo strumento della società per azioni. In
questo processo un terzo elemento fondamentale è lo Stato che garantisce gli interessi dei
settori siderurgici e bancari, divenendo il principale cliente, in quanto ha bisogno di una
marina mercantile, di armi per una conquista coloniale. Quindi, lo sviluppo industriale
italiano, secondo Cafagna, è caratterizzato da un’identità di interessi, da un intreccio tra
Stato, banca e industria (in modo particolare quella siderurgica). Dice Cafagna, il nostro
sviluppo industriale si fonda su questa triangolazione di interessi. In questo quadro la scelta
protezionista dello Stato si esercitò anche nei confronti della produzione agricola, in
particolare quella del grano. La risultante sarà quella di uno Stato che si fa interprete di un
blocco agrario-industriale. Un ultimo aspetto che Cafagna mette in evidenza, come aspetto
caratteristico del processo di industrializzazione in Italia è costituito dalla elettrificazione
(fonti di approvvigionamento idrico). Lo stato, garantendo l’affitto delle fonti idriche a
canoni bassissimi, garantisce alle compagnie idroelettriche numerosi profitti.
COLLABORAZIONE CON I SOCIALISTI
Giolitti inaugura una politica di riforme liberali, instaurando una collaborazione con una
delle anime del partito socialista italiano, quella riformista con a capo Filippo Turati. Il
partito socialista non partecipò mai a pieno titolo nel governo Giolitti e non lo votò mai a
causa delle divisioni interne al partito socialista che non consentivano di schierarsi
apertamente. Però ci fu una collaborazione parlamentare che permise a Giolitti di varare
una serie di riforme importanti per le classi lavoratrici: tutela del lavoro di donne e fanciulli,
obbligatorietà del riposo settimanale, miglioramenti dell’assistenza infortunistica e
pensionistica, la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita. Seguirono la statalizzazione
delle ferrovie (che appartenevano a diverse società private, con la creazione delle Ferrovie
di stato), l’istituzione di comitati consultivi per il lavoro di cui facevano parte anche
esponenti socialisti, l’appalto di lavori pubblici riservato a cooperative bianche e rosse
(socialiste e cattoliche). In questo modo Giolitti realizzò un primo sistema di sicurezza sociale
per i lavoratori.
Una delle ragioni per cui la partecipazione dei socialisti al governo non fu diretta, sta nella
divisione interna del partito socialista italiano in riformisti e massimalisti. [Un congresso è
un assisa in cui si decide la linea politica di un partito sulla base di una certa analisi rispetto
alla quale si indicano delle strategie di intervento]. Nel congresso di Roma del 1900 il partito
socialista italiano vede l’affermazione dell’ala riformista; tale congresso consente a Turati di
colloquiare con Giolitti. Il programma minimo dell’ala riformista prevedeva il suffragio
universale maschile, il riconoscimento delle libertà individuali, la diminuzione dell’orario di
lavoro, un’istruzione laica e obbligatoria e un sistema di assistenza e di previdenza che
tutelasse maggiormente i lavoratori. Nel congresso di Bologna del 1904 la direzione del
partito passa nelle mani dei massimalisti, in particolare dei sindacalisti rivoluzionari guidati
da Labriola, che propagandavano l’idea-forza dello sciopero generale come atto politico
rivoluzionario (lettura spontaneista della rivoluzione). Il 15 settembre del 1904 venne
realizzata tale strategia proclamando il primo sciopero generale nazionale. Giolitti non
intervenne e questa tattica fu vincente, in quanto lo sciopero non suscitò alcuna
conseguenza nella situazione sociale, politica ed economica italiana. Dopo tale fallimento, la
guida del partito passò di nuovo nelle mani dei riformisti, che persero ancora la leadership
nel congresso di Reggio Emilia del 1912. Dunque, si riaffermarono i massimalisti e in
particolare l’ascesa politica di Mussolini, il quale ottenne la direzione dell’organo di stampa
(quotidiano) del partito, l’Avanti!. In questo congresso egli decreterà l’espulsione di un
gruppo di socialisti comprendente Bonomi e Bissolati, in quanto avevano condiviso
l’impresa libica di Giolitti (ossia l’esigenza di un’impresa coloniale). Essi formarono un
ulteriore partito, quello socialdemocratico. Perciò, il partito socialista non divenne mai parte
costitutiva del governo giolittiano in quanto caratterizzato dall’alternanza di riformisti e
massimalisti, quest’ultimi del tutto estranei ad ogni forma di collaborazione con Giolitti.
COLLABORAZIONE CON I CATTOLICI
Giolitti guidò il paese per un arco di tempo così lungo a causa della sua natura trasformista e
pragmatica. Infatti, quando egli capì che la divisione all’interno del partito socialista non
poteva consentire un ulteriore sviluppo dei rapporti con esso, decise di collaborare con i
cattolici, in particolare con Gentiloni, leader dell’Unione elettorale cattolica. Essi strinsero il
cosiddetto “patto Gentiloni” nel 1913. Il mondo cattolico è caratterizzato da diverse anime,
tra cui quella popolare, che si ispira alla Rerum Novarum di Papa Leone XIII e che porterà nel
1919 alla nascita del partito popolare italiano da parte di Don Sturzo. L’anima di Gentiloni è
più conservatrice e stringe un patto di esistenza: nei collegi elettorali dove i socialisti
rischiano di vincere, gli elettori cattolici si impegnano a votare il candidato liberale. Quindi
liberali e cattolici costituiscono un fronte elettorale comune per arginare l’eventuale vittoria
dei candidati socialisti. Tale patto fu indispensabile per entrambi le parti in quanto nel
frattempo nel 1912 Giolitti aveva varato un’importante riforma elettorale che prevedeva il
suffragio universale maschile. Nelle elezioni del 1913 si assisterà sia ad una significativa
affermazione dei socialisti che del blocco cattolico conservatore. Nel marzo 1914, di fronte a
una possibile crisi di governo, Giolitti rassegnò le dimissioni. Il sovrano diede l’incarico al
liberale conservatore Salandra. Egli fronteggiò un’aspra fase di conflitti sociali, culminata
nella “settimana rossa” fra il 7 e il 14 giugno, scatenata da una manifestazione
antimilitarista organizzata ad Ancona dagli anarchici contro lo statuto albertino (per la festa
dello statuto, il quale entrò in vigore a marzo 1848. La festa inizialmente fu proclamata a
febbraio quando esso fu promesso da Carlo Alberto, e successivamente spostato alla prima
domenica di giugno). Il governo Salandra rispose con una vera e propria repressione che
culminò con la morte di 3 persone. Per protestare contro questa azione repressiva del
governo, la CGIL (confederazione generale italiana del lavoro, nata ufficialmente nel 1906),
proclama uno sciopero di 48 ore durante il corso della quale si verificarono azioni di
protesta talvolta violenta in Italia, che sembrava tradursi in una vera e propria rivoluzione.
In questo contesto fu inaugurata un’azione repressiva da parte del governo Salandra con
l’impiego di decine di migliaia di soldati.
LA GUERRA DI LIBIA
Nel 1911 Giolitti decide di entrare in guerra per la conquista della Libia, garantendo gli
interessi dell’industria in particolare siderurgica e meccanica. L’impresa libica risponde
anche alle esigenze di rafforzamento coloniale espresse dai nazionalisti italiani (nei primi del
‘900 l’organo di stampa dei nazionalisti in Italia è il Regno, l’esponente più significativo è
Corradini, l’idea è quella di una nazione che può e deve diventare forte attraverso la
conquista coloniale). Tale impresa aveva anche una fondamentale funzione economica
espressa dal liberale Sidney Sonnino, secondo cui l’impresa coloniale è utile in quanto
rappresenta la possibilità di orientare, in questo caso in Libia, gli emigrati italiani
disoccupati, in particolare meridionali, i quali possono trovare nella colonia un occupazione.
Secondo Sonnino tale impresa costituisce una valvola di sfogo del conflitto sociale: in Italia la
questione meridionale non viene risolta dal governo Giolitti; l’unica struttura seria costruita
nel sud è l’acquedotto pugliese. Giolitti, infatti, considerava il sud una sorta di bacino
elettorale e per ottenere voti si serviva anche della malavita locale. (Molti migranti in
America)
LE CONCAUSE DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE
L’assassinio di Sarajevo non risolve la complessità delle cause che stanno a fondamento del
primo conflitto mondiale. Nel periodo che va dalla metà dell’800 alla prima guerra mondiale
si conferma un centro europeo egemonico su scala globale, grazie al processo di
industrializzazione che portò sia a uno sviluppo economico e finanziario sia a una nuova
ondata espansionistica europea che vede la conquista e la colonizzazione di nuovi territori in
Africa, Oceania e Asia (imperialismo). [Quando si parla di Europa bisogna prendere in
considerazione i paesi capitalistici: a spartirsi il mondo sono la Francia, l’Inghilterra, la
Germania e l’Italia in misure minori. Quando si parla della storia a partire dai sistemi
economici che la caratterizzano si utilizza un modo di procedere “marxiano”]. Nonostante la
centralità dell’Europa, in questa fase iniziano a comparire dei competitori, in particolare gli
Stati Uniti d’America e nell’estremo oriente il Giappone. In questo passaggio avviene la
formazione di nuovi assi della politica internazionale, passando da una visione incentrata
sull'equilibrio tra le potenze europee a una concezione fondata sulla lotta per il potere
mondiale. Questo passaggio rendeva le relazioni internazionali ingovernabili. Il Congresso di
Berlino dell‘84-‘85 (congresso di berlino ‘78 con Bismarck) rappresenta la legittimazione
secondo la quale il principio di sovranità e libertà spetta soltanto ai popoli bianchi europei e
americani. Coloro che non sono bianchi e né europei né americani abitano territori che sono
oggetto della spartizione tra tali potenze. Si tratta di una legittimazione sul piano
diplomatico dell’imperialismo. Rispetto al Congresso del’78 (volto a mediare la questione
balcanica) l’asse di interesse è extraeuropeo, comportando un allontanamento dalla politica
di equilibrio bismarckiana. Con Bismarck si assistette alla politica dell’allineamento, cioè a
un equilibrio tra le potenze europee. Invece, con l’ascesa di Guglielmo II, Bismarck venne
allontanato e ne conseguì una polarizzazione delle grandi potenze europee che si declinò
attraverso la triplice alleanza e la triplice intesa; la premessa della triplice intesa è l’alleanza
franco russa in funzione antigermanica e antinglese (per la spartizione del mondo- Francia e
Inghilterra si contendevano l’Africa e la Russia e l’Inghilterra l’Asia). L’espansione
imperialista ha la sua manifestazione emblematica nella lotta per l’Africa (la cosiddetta
scramble of Africa) e nelle isole del Pacifico tra le potenze europee. Nel 1912 la spartizione
si conclude con la guerra italo-turca, la conquista dell’Italia in Libia e il protettorato francese
in Marocco. Mentre, mantenevano la loro indipendenza la Liberia e l’Etiopia; il resto del
continente era caratterizzato da colonie inglesi (lungo l’asse nord-sud della costa est
dell’Africa, dall’Egitto al Sudafrica, Golfo di Guinea, Nigeria), iberiche, portoghesi,
germaniche (attuale Tanzania) e italiche (Eritrea, Somalia, Libia). In Africa si consumò una
rivalità tra Inghilterra e Francia che ebbe il suo apice nell’incontro tra soldati francesi e
britannici provenienti da due direttrici diverse nell’attuale Sudan (Fashoda), che non si
tramutò in uno scontro ma provocò un accordo nel 1899 (da nord a sud l’Inghilterra, da
ovest ad est la Francia). L’Asia, invece, è caratterizzata dalla lotta tra Russia e Inghilterra, il
cosiddetto great game, per la conquista della Persia e l’Afghanistan. La Russia era già
entrata in Asia negli anni ‘80 del ‘500 quando varcò gli Urali e nell’800 si estese nel Caucaso,
rafforzando la sua posizione nell’estremo oriente al ridosso della Cina e della Manciuria;
infine, negli anni ‘60/‘70 dell’800 conquistò il Turkestan. L’inghilterra aveva occupato invece
l’India, la Francia una parte dell’indocina. L’estremo oriente, però, vedeva la presenza di altri
protagonisti, quali gli Stati Uniti. Nel 1869 viene portata a termine la prima linea ferroviaria
dall'east coast alla west coast, da New York a San Francisco. Nel 1898 vi è la guerra ispano
americana per il dominio su Cuba (vecchia colonia spagnola), che si conclude con
l’acquisizione del controllo sulle Filippine, Porto Rico, le isole di Guam (Hawaii), da parte
degli Stati Uniti, proiettando dunque questa potenza non solo nella dimensione dell’oceano
Atlantico, ma in quella dell’oceano Pacifico e nel centro e sud America. Infine, gli anni ‘10
del ‘900, vedono un potenziamento della forza navale degli Stati Uniti attraverso l’apertura
dell'istmo (canale) di Panama, che mette in comunicazione i due oceani. La Cina diviene
così un territorio di sfruttamento commerciale da parte degli Stati Uniti d’America e delle
potenze europee; questa politica è passata alla storia con il nome di politica delle porte
aperte.
Un’altra importante potenza imperialista in estremo oriente è il Giappone. Questo paese
associa ad un’antichissima tradizione un processo di modernizzazione politica ed economica
che lo porta ad essere protagonista. Questa potenza si conferma nella guerra con la Russia
nel 1904/1905 per la Manciuria, nel nord dell’Asia. In questo quadro l’obiettivo non è più
garantire la sicurezza del proprio paese ma la collocazione del proprio paese nel mondo,
determinando un’impostazione più conflittuale delle relazioni. La logica di affermare
un’egemonia a livello mondiale conduce alla necessità di eliminare i competitori, spingendo
non a relazioni di tipo paritario (come erano quelle di tipo europeo), ma di tipo gerarchico.
Lo scenario europeo si riconfigura attorno a due blocchi di alleanze: triplice intesa (Parigi,
Londra e San Pietroburgo, ossia Francia, Inghilterra e Russia) e triplice alleanza (Berlino,
Vienna e Roma, ossia Germania, Austria e Italia). La triplice intesa è dovuta non solo a
esigenze europee ma a esigenze della politica mondiale. Le principali fasi determinano la
formazione della triplice intesa sono: l’accordo tra Francia e Russia per la spartizione
dell’Africa nel 1894, l’accordo tra Inghilterra e Francia per la spartizione dell’Africa (il
cosiddetto intent cordial) nel 1904 e l’accordo tra Inghilterra e Russia che regola la
spartizione Persia e Afghanistan nel 1907. Da questa contrapposizione in due blocchi ne
consegue una polarizzazione del quadro europeo (si sviluppa una reciproca diffidenza tra i
due blocchi contrapposti), l'incomunicabilità tra i protagonisti geopolitici (incapacità di
mediare) e una militarizzazione della politica europea. Quest’ultima vede la corsa agli
armamenti da parte delle potenze occidentali, che risponde agli interessi economici
dell’industria pesante di cui lo Stato è il primo cliente (protezionismo). In questo modo le
questioni militari diventano oggetto di dibattito politico e molti militari entrano in politica.
LA QUESTIONE BALCANICA
La vicenda balcanica ritorna ad essere di primaria rilevanza e un’area di crisi nel 1908. La
Bulgaria dichiara la propria indipendenza e l’impero austro ungarico l’annessione unilaterale
della Bosnia Erzegovina, che il Congresso di Berlino del 1878 aveva affidato
all’amministrazione, divenendo un impero sempre più multietnico. Ciò alimenta la
conflittualità con la Russia, che strinse una connessione con la Serbia. Ne consegue una
radicalizzazione dei nazionalismi, dalla Russia all’Italia, dalla Serbia alla Bulgaria.
I Balcani sono soggetti a evidenti tensioni nel biennio 1912-1913, tra cui le ripercussioni
della guerra italo turca. Per conquistare la Libia, l’Italia di Giolitti dichiara guerra all’impero
ottomano. L’Inghilterra, dando il suo benestare all’operazione italiana e non intervenendo,
aveva abbandonato una linea politica che garantiva l’integrità dell’impero ottomano. Non
era più una priorità a causa dell’apertura del canale di Suez e il controllo dell’Egitto, che
garantivano una sicurezza delle vie verso l’India. Scoppiano così due guerre balcaniche: nel
1912 la lega balcanica di Serbia, Bulgaria, Montenegro e Grecia combattono contro
l’impero ottomano per espellerlo definitivamente dalla penisola balcanica; nel 1913 i
vincitori della prima guerra balcanica non giungono a un accordo e Serbia, Grecia e
Romania si scontrano con la Bulgaria. Successivamente si assiste a una riconfigurazione
degli equilibri balcanici, si consolida ulteriormente l’asse russo-serbo, l’impero ottomano
viene espulso, gli austriaci risultano isolati.
Il nazionalismo sarà un’altra concausa dello scoppio della prima guerra mondiale.
L’ATTENTATO DI SARAJEVO
Il 28 giugno del 1914 a Sarajevo un militante nazionalista serbo aderente alla società segreta
“La mano nera” uccide in un attentato l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono
dell’Impero austro-ungarico, e sua moglie Sofia. Il governo serbo era contrario alla guerra,
ma dentro la Serbia vi erano circoli militari e nazionalisti incontrollabili. L’Austria era pronta
a dichiarare guerra con l’appoggio della Germania, con la convinzione che la Francia e
l’Inghilterra sarebbero rimaste fuori e che gli scenari possibili erano quelli di una guerra o
solo con la Serbia o con la Serbia e la Russia. La strategia tedesca era basata su valutazioni
errate. Il 23 luglio l’Austria fu spinta dalla Germania a consegnare l’ultimatum alla Serbia,
pretendendo la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sull’attentato, una
richiesta che fu giudicata dai serbi lesiva della loro sovranità nazionale. La Gran Bretagna
propone una conferenza internazionale a Berlino, ritenendo che l’Austria sia un cliente della
Germania, la quale non era del tutto contraria. L’Austria invece rifiuta la proposta
sentendosi umiliata dal fatto di non essere stata direttamente interpellata. Così il 28 luglio
l’Austria dichiara guerra alla Serbia, il governo russo dichiara la mobilitazione parziale e
l’Inghilterra dichiara la sua non neutralità. Berlino tenta di convincere Vienna a stipulare un
accordo con la Russia, ma il 30 luglio Nicola II dichiara la mobilitazione generale. La
Germania lancia un ultimatum sia alla Russia, intimando al governo di sospendere la
mobilitazione generale, sia alla Francia, intimandole di restare neutrale in caso di guerra con
la Russia. Fu la Germania a iniziare le operazioni belliche, attuando il “piano Schlieffen”,
elaborato sin dal 1905 dall’allora capo di stato maggiore del Reich. Tale piano prevedeva il
fatto che nel giro di 40 giorni bisognava eliminare la minaccia francese per potersi poi
rivolgere al fronte orientale contro la Russia, che avrebbe impiegato 40 giorni per mobilitare
il suo esercito. Il 1 agosto la Germania dichiara guerra alla Russia, il 3 agosto viola la
neutralità del Belgio invadendolo e contemporaneamente dichiara guerra alla Francia. Il 4
agosto il Regno Unito dichiara guerra alla Germania, giungendo a una guerra generale. Si
assiste così ad una crisi in assenza di una lucida consapevolezza degli scenari possibili. Errori
di valutazione e opacità nelle comunicazioni tra le potenze contribuiscono alla scelta di una
strategia del rischio, che innesca un meccanismo che va ben oltre gli scenari raffigurati e
conduce a una guerra generale probabile ma non inevitabile.