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La tariffa doganale era oggetto di una critica serrate da parte dei liberisti, favorevoli alla politica
del libero scambio.
- il Nord non si era arricchito sottraendo risorse al sud, ma nelle regioni del nord alla base dello
sviluppo era costituito dalla più avanzata condizione dell'agricoltura: rigoglio delle attività
economiche e civile: sviluppo industriale.
3) Nel periodo giolittiano si diffuse il nazionalismo. Il fenomeno fu inizialmente letterario e
culturale, limitato ad una ristretta cerchia di intellettuali, ma nel 1910 fu fondata l'associazione
nazionalista italiana. Questa manifestava la necessità di uno Stato forte e di un'espansione
coloniale al fine di affermare la grandezza dell'Italia sul piano internazionale. Il nazionalismo
ottenne molti consensi, e Giolitti decise così di riprendere la politica coloniale nel nord Africa,
con la guerra di Libia. L'impresa divenne interessante in quanto pubblicizzata come una grande
opportunità economica per l'Italia: la Libia era un paese di grandi ricchezze. In effetti, però,
questa zona non aveva alcun rilievo economico. La conquista della Libia fu portata a termine in
modo diplomatico, con la Turchia che si ritirò dalla regione.
4)Contemporaneamente alle tensioni all’estero a causa della campagna dannunziana nella città di
Fiume, all’interno del Regno d’Italia la situazione economica iniziava a farsi più problematica. Il
debito pubblico era salito alle stelle e ciò causò una pesante svalutazione della lira e, di
conseguenza, un rincaro di tutti i prodotti che l’Italia importava dall’estero.
Il paese era dunque in preda all’inflazione, che danneggiava soprattutto i ceti medi della
popolazione. Gli unici a trarre profitto da questa situazione furono proprio gli operai, che
riuscirono ad ottenere un aumento del proprio salario; in un primo momento questo aumento
sembrò bastare, ma con il tempo iniziò a serpeggiare la voglia di imitare la Russia e modificare
la struttura interna attraverso una versa e propria rivoluzione socialista. Parallelamente a questa
volontà che serpeggiava nelle fabbriche, anche nelle campagne regnava il malcontento: dopo la
disfatta di Caporetto, era, infatti, stato promesso ai contadini che sarebbero stati distribuite delle
terre per persuaderli a non ritirarsi dalla guerra. I contadini occuparono du
5)La possibilità di conquistare il potere con la forza fu prospettata per la prima volta da Benito
Mussolini il 29 settembre 1922, in una seduta segreta a Firenze della direzione fascista. La
decisione di passare all’azione si ebbe il 16 ottobre 1922, nella riunione a Milano del gruppo
dirigente fascista, nel corso della quale venne anche costituito il quadrumvirato che avrebbe
diretto l'insurrezione, formato da De Vecchi, De Bono, Balbo e Bianchi. Pochi giorni dopo, il 24
ottobre, al Congresso fascista di Napoli, arrivò il proclama ufficiale di Mussolini: "O ci daranno
il governo o lo prenderemo calando a Roma".
Secondo i piani, il quadrunvirato, insediato a Perugia, avrebbe assunto nella notte tra il 26 e il 27
i pieni poteri e nei due giorni successivi sarebbe seguita la mobilitazione delle squadre fasciste
che avrebbero occupato i punti chiave dell'Italia centrale. Le bande destinate a marciare sulla
capitale (26.000 uomini) furono inquadrate in quattro colonne (una di riserva e tre concentrate a
Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli) e cominciarono a muovere verso Roma il 27. Mussolini
rimase a Milano in attesa degli sviluppi della situazione a livello governativo.
In grande ritardo, dopo la mezzanotte tra il 27 e il 28 ottobre 1922, il presidente del consiglio
Luigi Facta, richiamato il re da San Rossore (Pisa) a Roma, convocò il Consiglio dei ministri per
predisporre il decreto di stato d’assedio, che dava pieni poteri al governo per disperdere i fascisti
con l'esercito. Il generale Pugliese, capo del territorio di Roma, predispose, con i suoi 28.000
uomini, la difesa della capitale. La mattina del 28 le bande fasciste vennero temporaneamente
fermate a Civitavecchia, Orte, Avezzano e Segni.
Vittorio Emanuele III, che alle due del mattino aveva espresso il suo accordo con la decisione del
governo, quando di prima mattina ricevette Facta con il decreto (che era già stato affisso nelle
strade della capitale), anche perché influenzato dal parere negativo di Salandra e di Giolitti, si
rifiutò di firmarlo.
Caduto Facta, il re propose a Mussolini un ministero con Salandra, ma il duce rifiutò sostenendo
la richiesta di un governo interamente fascista. Il 29 ottobre Vittorio Emanuele cedette e chiese
formalmente a Mussolini di formare il nuovo esecutivo.
Quando i fascisti entrarono a Roma, era già tutto deciso. Nonostante la successiva mitizzazione
della "marcia", essa fu essenzialmente una parata: le squadre fasciste, infatti, giunsero nella
capitale 24 ore dopo che Mussolini aveva già ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo. Lo
stesso duce arrivò a Roma in vagone-letto da Milano la mattina del 30 ottobre e la sera salì al
Quirinale per sottoporre al re la lista dei suoi ministri.
Anche in agricoltura furono sentiti gli effetti della politica economica del governo. I salari furono
compressi, e si incoraggiò la produzione di grano e di altri cereali per limitare l’importazione
all’estero (battaglia del grano).
Nel 1926 fu istituito il ministero delle corporazioni, fu vietato lo sciopero; nel 1927 fu emanata
la Carta del lavoro, un manifesto programmatico emesso dal Gran Consiglio del fascismo, nel
quale si enunciavano i principi generali del corporativismo, considerato come la risposta del
fascismo al liberalismo e al socialismo. Il sistema corporativo, delineato nel 1927, trovò però la
sua attuazione giuridica solo nel 1934.
La crisi del 1929 ebbe forti ripercussioni in Italia, dove si registrarono, come negli altri paesi,
grandi perdite dei titoli azionari e il crollo dei prezzi dei prodotti agricoli e industriali.
La crisi indusse il governo fascista a intervenire secondo alcune linee direttrici fondamentali. Al
fine di alleviare la disoccupazione, si misero in cantiere impegnativi programmi di lavori
pubblici, in parte già decisi nel 1928. Si migliorò e allargò la rete stradale, compresa quella
autostradale; fu portato a termine l’acquedotto pugliese; si incrementò l’edilizia pubblica.
L’impresa di più vasto respiro furono i lavori per la bonifica delle paludi pontine (1931-34), che
portarono alla creazione di numerosi poderi e alla fondazioni di città rurali come Littoria e
Sabaudia.
Ma l’azione più rilevante venne condotta in campo industriale. Nel 1931 venne creato l’Istituto
mobiliare italiano (IMI), un ente di diritto pubblico, sostenuto dallo Stato con fine di integrare
l’azione di credito all’industria, ma quando la situazione economica andò nettamente
peggiorando, l’intervento dello Stato assunse un carattere più massiccio con la creazione nel
1933 dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), il quale, intervenendo nel salvataggio di
banche ed industrie, venne ad assumere le caratteristiche di un grande ente bancario-industriale a
carattere “misto”, cioè in parte statale e in parte privato.
A partire dal 1934 il fascismo, al fine di ridurre al massimo le sperse per le importazioni e
rendere il più possibile autosufficiente il paese, proclamò la politica “autarchica”. Dopo che nel
1935 il regime iniziò la conquista dell’Etiopia, con le conseguenti sanzioni imposte all’Italia
dalla Società delle Nazioni (divieto di esportazione in Italia di materie di valore strategico e
boicottaggio dei prodotti italiani), la battaglia per l’autarchia diventò ancora più accentuata.
L’autarchia volle dire una ripresa della tradizionale politica protezionistica, così la politica
autarchica e il riarmo si risolsero in un ottimo affare per la grande industria italiana che, se
produceva a prezzi altissimi, era sul mercato interno interamente protetta da ogni concorrenza.
Povero di risorse economiche, il popolo italiano venne esortato da fascismo a crescere, secondo
la teoria che “l’avvenire è proprio degli Stati demograficamente forti” (“il numero è potenza).
Per sostenere la politica demografica, fin dal 1927 venne stabilita un’imposta sui celibi, e di
conseguenza furono esaltate e premiate le famiglie numerose e vennero concesse agevolazioni
economiche.
8) Le leggi razziali fasciste furono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi
(leggi, ordinanze, circolari) applicati in Italia fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni
quaranta, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. Esse furono
rivolte prevalentemente contro le persone ebree. Il loro contenuto fu annunciato per la prima
volta il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, da un palco posto davanti al Municipio
in Piazza Unità d'Italia, in occasione di una sua visita alla città. Furono abrogate con i regi
decreti-legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944[1], emanati durante il Regno del Sud. Il primo di
quelli che sono stati definiti i "decreti della vergogna" risale al 5 settembre 1938 e fissava
"Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista" mentre è di due giorni dopo, il 7
settembre, il testo che fissava "Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri". Il loro
contenuto viene annunciato per la prima volta il 18 settembre 1938 a Triste da Benito Mussolini
in occasione di una sua visita alla città. Il mese successivo, il Gran consiglio del fascismo emette
una "dichiarazione sulla razza": è il 6 ottobre e viene successivamente adottata dallo Stato
sempre con un regio decreto legge che porta la data del 17 novembre 1938. Nel contesto in cui si
inquadrano le cosiddette 'leggi razziali' del fascismo bisogna includere anche il famigerato
'Manifesto della razza', pubblicato originariamente in forma anonima sul 'Giornale d'Italia' il 15
luglio 1938 col titolo "Il Fascismo e i problemi della razza", quindi ripubblicato sul numero uno
della rivista 'La difesa della razza' il 5 agosto firmato da 10 scienziati.