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Politicamente parlando, a partire dalle elezioni del 1919 venne adottato il sistema
proporzionale. In tali elezioni si registrò la crescita dei partiti di massa, tra cui il
partito socialista e il partito popolare italiano. I liberali persero dunque una gran
porzione di consenso, tuttavia riuscirono a conservare la maggioranza relativa in
Parlamento. Grazie a un accordo col partito popolare, al posto di Orlando subentrò
Nitti come primo ministro. Quest'ultimo fu però presto costretto a rassegnare le
dimissioni, e al suo posto ritornò Giolitti, che riprese ad adottare la propria politica
moderata e riformista attraverso un programma socialmente avanzato, portando alla
fine dell'occupazione delle fabbriche. Inoltre Giolitti intraprese un negoziato con il
regno dei serbi, croati e sloveni che portò alla sottoscrizione del trattato di Rapallo, il
quale stabiliva che l'Italia conservasse tutta l'Istria e la città di Zara, mentre il resto
della Dalmazia non sarebbe stata annessa. Giolitti fece intervenire l'esercito per
allontanare d'Annunzio e i legionari fiumani dalla città, che venne dichiarata città-
stato indipendente, per poi diventare italiana nel 1924 in seguito a un altro accordo
con Belgrado. Per quanto riguarda il partito socialista, nel primo dopoguerra prevalse
la corrente massimalista, che tuttavia non riuscì a mobilitare le masse alla conquista
dello Stato. Dopo l'esito fallimentare dell'occupazione delle fabbriche l'estrema
sinistra decise pertanto di scindersi dal partito, portando alla fondazione del Partito
comunista d'Italia nel 1921. In questa situazione di caos generalizzato gli industriali e
i proprietari terrieri temevano nuovi tumulti, e peraltro non condividevano le misure
assunte dal governo liberale in materia finanziaria e fiscale. Sull'onda di queste paure
emerse quindi il movimento fascista, caratterizzato da un programma nazionalista e
antisocialista, oltre che apertamente avverso alle istituzioni liberali.
Nel 1919 a Milano, l'ex socialista Benito Mussolini fondò dunque i “fasci di
combattimento”. Il fascismo di questa fase si distingueva per un aggressivo
nazionalismo, una prospettiva istituzionale repubblicana e una venatura
anticapitalista. Tale movimento non ebbe successo alle elezioni dello stesso anno, ma
cominciò a entrare nelle grazie, soprattutto della borghesia terriera padana, a partire
dalle tensioni di classe del biennio rosso, in quanto si era impegnato a reprimere
violentemente tali rivolte per mezzo delle “squadre d'azione”. Lo squadrismo iniziò
poi a diffondersi anche nell'Italia centrale e meridionale. Il movimento fascista
riscosse però un grande successo anche perché riuscì a darsi una dimensione
popolare, ponendosi addirittura come successore del socialismo nell'organizzazione
di alcuni strati popolari. Le autorità militari, inoltre, non ostacolarono l'azione degli
squadristi nella convinzione che questi riuscissero a sedare le spinte sovversive dei
rivoltosi. Giolitti decise di anticipare le elezioni al 1921, in seguito alle quali i fascisti
fecero eleggere ben 35 deputati, tra cui Mussolini. Giolitti cedette il posto a Bonomi,
fermamente intenzionato ad arginare il fenomeno dello squadrismo. Nel frattempo
però Mussolini trasformò i fasci nel nuovo Partito nazionale fascista, accentrando la
direzione nelle sue mani. Esso risultò presto il partito italiano con il maggior numero
di aderenti, forte di oltre 200000 iscritti. Già nel 1922 Bonomi fu costretto a lasciare
il proprio posto a Facta, ma anch'egli non riuscì a bloccare le scorrerie degli
squadristi, ormai fuori controllo. In un tentativo disperato di porre fine a tale
situazione i socialisti decisero di espellere l'ala riformista del partito, che si riunì nel
Partito socialista unitario, il cui leader era Giacomo Matteotti. Contando
sull'appoggio delle autorità, sulla neutralità del Vaticano e sperando di ingraziarsi il
re, Mussoli organizzò una marcia su Roma, simbolo della conquista violenta di
potere. Vittorio Emanuele III non firmò il decreto di stato d'assedio sottopostogli da
Facta, che quindi dovette dimettersi. Mussolini ricevette quindi dal re stesso l'incarico
di formare un nuovo governo di coalizione, il quale ricevette dalla Camera un ampio
voto di fiducia, nonché l'attribuzione dei pieni poteri. Tali eventi segnarono di fatto la
fine dell'Italia liberale.
Agli esordi il fascismo fu liberista in economia per venire incontro alle aspettative
degli industriali, abolì le norme a tutela dei lavoratori varate nel dopoguerra e sciolse
i loro organi di rappresentanza. Esso cercò inoltre un rapporto diretto col Vaticano
che prescindesse dal partito popolare, attuando certe misure tra cui l'introduzione
dell'insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole per mezzo della
riforma Gentile. Il fascismo cercò li liquidare le opposizioni attuando una politica
repressiva sequestrando i loro giornali e arrestando preventivamente i loro militanti.
Nel dicembre 1922 venne istituito il Gran Consiglio del Fascismo e nel gennaio 1923
gli squadristi vennero inseriti nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Successivamente tramite la legge elettorale Acerbo del luglio 1923 venne adottato un
sistema maggioritario all'interno di un collegio unico nazionale, che permise al
Partito fascista di avere l'assoluto controllo del Parlamento, il che si realizzò dopo le
elezioni del 1924. All'insediamento della nuova camera Giacomo Matteotti pronunciò
una requisitoria contro il presidente del Consiglio, denunciando le violenze e i brogli
dei fascisti durante la campagna elettorale. Per tale motivo Matteotti fu rapito e
assassinato. A questo punto si sollevò un'ondata di sdegno in tutta Italia che culminò
in manifestazioni di antifascismo, che però non condussero a risultati concreti. Il 3
gennaio 1925 alla Camera, Mussolini si assunse la responsabilità di tutto quanto era
accaduto e fece comprendere di voler imprimere una svolta autoritaria alle istituzioni
e mettere a tacere le opposizioni, anche ricorrendo all'utilizzo della forza.
La definitiva svolta autoritaria avvenne però sul finire dell'anno con introduzione
nell'ordinamento giuridico italiano delle “leggi fascistissime”, concepite dal ministro
della Giustizia Alfredo Rocco. Innanzitutto la carica di presidente del Consiglio
divenne quella di capo del governo, figura che poteva godere di poteri maggiori. Era
infatti responsabile unicamente davanti al re, ogni atto politico e legislativo doveva
passare nelle sue mani e non doveva rendere conto dei propri atti né al Consiglio dei
ministri né al Parlamento. Una seconda legge gli concesse anche la facoltà di
emanare leggi in autonomia e senza riferirne al Parlamento. Se da un lato il duce non
volle mai entrare in aperta rottura col re, è anche vero che quest'ultimo cercò di non
intervenire in caso di provvedimenti del governo da lui non condivisi. Per avere un
maggior controllo a livello locale, lo Stato fascista emanò una legge che istituì la
figura del podestà, di nomina regia, per l'amministrazione comunale. Le province
continuarono a essere amministrate da prefetti di nomina governativa. Oltre alla
fascistizzazione delle istituzioni, lo Stato procedette alla soppressione del ruolo dei
sindacati. Le associazioni di categoria dei lavoratori e degli imprenditori dovevano
unirsi in corporazioni. Tutti gli interessi delle singole parti all'interno di esse
dovevano essere conciliati tramite la mediazione dello Stato. La Confindustria
riconobbe quindi al sindacato fascista il monopolio della rappresentanza dei
lavoratori. Con la legge sindacale del 1926, inoltre, venne soppresso il diritto di
sciopero e serrata, e la soluzione delle controversie tra lavoratori e datori di lavoro
venne affidata alla Magistratura del Lavoro. In seguito al tentato attentato al duce ad
opera di un quindicenne venne impresso al regime un carattere ulteriormente
totalitario per mezzo di nuovi provvedimenti, quali la reintroduzione della pena di
morte e l'istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Con l'emanazione
delle leggi fascistissime, ogni forma di opposizione organizzata in Italia divenne
impraticabile. I militanti antifascisti non poterono che riunirsi clandestinamente
oppure emigrare. Nacque così il fenomeno del “fuoriuscitismo”, che riguardò molti
italiani diretti soprattutto in Francia.
Uno degli ostacoli più grandi per l'affermazione del fascismo come regime totalitario
era rappresentato dalla Chiesa Cattolica. Mussolini sapeva che per consolidare il
proprio potere doveva trovare un accordo con le gerarchie ecclesiastiche e risolvere la
“questione romana”. Le trattative durarono oltre due anni e l'11 febbraio 1929
vennero infine firmati da Mussolini e dal cardinale Pietro Gasparri i Patti lateranensi,
costituiti da due documenti diversi: un trattato internazionale e un concordato. Il
primo prevedeva il riconoscimento della sovranità del Regno d'Italia con capitale
Roma da parte della Chiesa e il riconoscimento dello Stato della Città del Vaticano da
parte dello Stato italiano. Alla Chiesa cattolica venne quindi nuovamente attribuita
una territorialità politica, la quale le era negata dal 1870 in base alla legge delle
Guarentigie. Lo stato italiano doveva inoltre pagare un'indennità di risarcimento alla
Santa Sede per la passata estinzione dello Stato pontificio. Il concordato definiva
invece il ruolo della religione cattolica in Italia. Esso stabili che venisse ripudiato il
principio liberale di laicità dello Stato. Il cattolicesimo divenne quindi religione di
Stato. Al matrimonio religioso furono attribuiti effetti civili, fu sancito il divieto di
divorzio civile, fu nuovamente garantito l'insegnamento obbligatorio della religione
cattolica nelle scuole e il regime consentì inoltre che l'Azione cattolica proseguisse la
propria attività, purché sganciata da ogni formazione politica.
Grazie alla vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale, Mussolini riuscì a
infondere negli italiani la convinzione che la politica estera del regime avrebbe avuto
un ruolo di primaria importanza a livello europeo. Il governo si pronunciò a fare una
revisione dei trattati di pace per consentire all’Italia di far valere le sue aspirazioni
espansionistiche nel Mediterraneo e in Africa. In ogni caso la politica estera fascista
degli anni Venti fu abbastanza moderata, segnata da un rapporto amichevole con la
Gran Bretagna ma anche da una certa rivalità con la Francia, anche considerata
l’influenza che i due paesi si contendevano nell’Europa danubiano-balcanica. Negli
anni Trenta, tuttavia, il peso dell’Italia divenne determinante in quanto essa aveva
l’opportunità di schierarsi a favore delle democrazie occidentali oppure con il
nazismo di Hitler. In un primo momento Mussolini si schierò con le potenze liberali
firmando nel 1935 gli Accordi di Stresa con Francia e Gran Bretagna, volti a
contenere il revisionismo tedesco. La ragione per cui il regime mantenne questa linea
si può ricercare nel timore dell’espansionismo tedesco e nella speranza di ottenere la
neutralità dei paesi sopracitati nei confronti del piano di conquista dell’Etiopia. Per
convincere il popolo a tentare tale conquista il governo si avvalse delle immagini già
utilizzate per la guerra di Libia, ovvero quelle di nazione plutocratica e di nazione
proletaria. L’Italia doveva infatti riscattarsi dalla propria posizione politica ed
economica subordinata alle altre potenze, e ciò non poteva che avvenire con la
costruzione di un vero e proprio impero. Dall’inizio del 1935, quindi, l’Italia
cominciò ad inviare truppe in Africa, e il 3 ottobre dello stesso cominciò l’invasione
dell’Etiopia. Quest’ultima era però uno Stato sovrano, nonché membro della Società
delle Nazioni. Pertanto la Francia e la Gran Bretagna dovettero condannare l’Italia in
quanto Stato aggressore, il che le costò sanzioni economiche, tra cui l’embargo per le
merci necessarie all’industria di guerra. Ciononostante il regime procedette nelle
proprie azioni, anche mobilitando l’intera nazione a favore dell’imperialismo
sfruttando il monopolio dell’informazione. La guerra in Africa si concluse il 5
maggio 1936 e il 9 maggio Mussolini proclamò la nascita dell’impero e dell’Africa
orientale italiana, costituita dalle colonie dell’Eritrea, della Somalia italiana e
dell’Etiopia. Dopo tale conquista, il governo avviò un progressivo avvicinamento al
regime di Hitler. Infine la Libia, in mani italiane dal 1911, continuò ad avvenire un
amministrazione propria finché non venne annessa direttamente al territorio
metropolitano nel 1939.