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Il BIENNIO ROSSO

~ LE RIVOLUZIONI FALLITE
~ IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA
~ La situazione economica
~ don Sturzo e il Partito popolare italiano
~ Le elezioni del 1920
~ Lotte contadine
~ Le occupazioni delle fabbriche
~ Partito e sindacato
~ LA III INTERNAZIONALE
~ 1921: NASCE IL PCd’I
Il biennio delle rivoluzioni fallite
Un’ondata rivoluzionaria scuote l’Europa! Tutta l’Europa, tra il 1918 e il 1920, fu percorsa da un fremito, un
ardore, una passione, uno slancio rivoluzionario che chiedeva un cambiamento radicale. Tutta l’Europa, tra il
1818 e il 1920, fu interessata da un crescendo di scioperi e di partecipazione operaia spontanea. La lotta per
gli aumenti salariali, la lotta per le otto ore portarono in piazza milioni di lavoratori. Dappertutto spuntarono
spontaneamente Consigli operai che si richiamavano più o meno direttamente alla vittoriosa esperienza
russa. L’onda rivoluzionaria post-guerra della fase imperialista, preconizzata da Lenin, sembrava prendere
sempre più forma concreta, sempre più forza.

In Germania, addirittura, prima della fine della guerra, i Consigli operai avevano occupato le fabbriche. A
Berlino vi furono violenti scontri di piazza. L’estrema sinistra della Lega di Spartaco, guidata da
rivoluzionari del calibro di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, non accettava più il ruolo moderato del
Partito socialdemocratico e si assestava su posizioni esplicitamente rivoluzionarie. Si arrivò, dopo la
proclamazione della repubblica, ad autentici tentativi rivoluzionari repressi sanguinosamente. Nel 1919 gli
Spartachisti tentarono una sollevazione contro il governo di Berlino, ma furono repressi con estrema violenza
dall’esercito e da corpi speciali su ordine del cancelliere socialdemocratico Ebert. Ad opera dei corpi
speciali Freikorps (Corpi franchi), nelle settimane successive, furono assassinati centinaia di Spartachisti e
gli stessi leaders Liebknecht e Rosa Luxemburg. Con la decapitazione della Lega di Spartaco si
allontanava irrimediabilmente il tentativo di una rivoluzione in Germania.

In Austria, dopo la disgregazione dell’impero, venne proclamata una repubblica retta dai socialdemocratici.
Il tentativo rivoluzionario anche in questo caso fu sanguinosamente represso.

In Ungheria fu fondata, da socialisti e comunisti, la Repubblica dei Consigli, capeggiata dal comunista Bela
Kun. Anche qui il tentativo fallì. L’opposizione fu fisicamente eliminata e si instaurò il primo regime
autoritario dell’Europa.

In Italia il tentativo rivoluzionario fallì e la borghesia, nelle sue varie articolazioni, si presenterà nella
maschera del fascismo.

Il tentativo rivoluzionario del ‘biennio rosso’ europeo vide il movimento operaio sconfitto dappertutto. La
svolta epocale implodeva! Molte furono le cause: troppo debole il movimento operaio; troppo tardi si provò
a scindere la politica riformista da quella comunista; troppe divisione all’interno del campo comunista
mentre la borghesia minacciata trovava, per converso, grande unità: dai liberali all’estrema destra. Fatto sta
che in quello scorcio storico, gravido di grandi promesse, che aveva guidato la strategia della Rivoluzione
d’ottobre, la rivoluzione internazionale fu battuta e la risposta borghese fu una controrivoluzione che si
cristallizzerà nella forma del regime autoritario.

Il dopoguerra in Europa si caratterizza, dunque, per la battuta della rivoluzione proletaria e, per converso, del
sorgere - tranne che per l’Inghilterra e la Francia - di regimi autoritari e totalitari.

In termini generali assistiamo al fatto che la Prima guerra mondiale e, nella fattispecie il dopoguerra,
imprime al corpo sociale una sollecitazione che non si riesce a gestire nell’ambito dei vecchi istituti politici.
Il dopoguerra apre la strada alla dittatura borghese con varie sfumature locali. Complessivamente, la risposta
della borghesia europea davanti al caos e alla prospettiva di una rivoluzione proletaria è di riportare l’ordine
borghese in maniera cristallina: è la dittatura borghese!

Il Biennio rosso in Italia


La situazione economica
Nel 1919 il costo della vita è ormai insostenibile per ampi stradi proletari e contadini poveri. L’Inflazione
crescente ha moltiplicato l’effetto di erosione del già scarno potere d’acquisto delle masse più povere. In
tutto il paese scoppiano agitazioni. Folle esasperate saccheggiano negozi che vendono beni di prima
necessità. In molte regioni, i contadini poveri occupano le terre incolte. Prima si moltiplicano gli scioperi
spontanei, poi quelli organizzati dal sindacato.

Il debito pubblico passò da 14 miliardi nel 1910 a 95 miliardi nel 1920.

La moneta si svalutava fortemente: tra il 1914 e il 1919 perse il 40% del suo valore e il costo della vita
aumentò di ben tre volte. Lo studioso G. Candeloro in Storia dell’Italia moderna, illustra, in maniera
dettagliata ed esaustiva, la situazione economica rilevando che, dal biennio 1917-18 fino al 1923, il reddito
nazionale era al di sotto del livello ante-guerra. La situazione della classe operaia e, in genere, delle classi
popolari, era assai peggiorata: fatto 100 il salario del 1913, nel 1918 era 64,6. Causa immediata delle lotte
spontanee, che si verificano a partire dal 1919, è il rincaro del costo della vita.

Il governo cerca di imporre prezzi politici sul pane e concede alcune terre, ma non riesce a contenere la
spinta spontanea delle masse.

La CGdL nel periodo tra il 1918 e il 1920 aumenta clamorosamente gli iscritti dai 250.000 ai 2.200.000.

Il Partito socialista era cresciuto enormemente passando dai 50.000 iscritti del 1915 ai 250.000 del 1919; una
crescita che il partito non riesce a gestire. Le masse, nel Biennio rosso, sembrano più avanti del partito!

Don Sturzo e il Partito popolare italiano

Nel 1919 il sacerdote don Luigi Sturzo fonda il Partito popolare italiano (PPI), dando inizio alla
partecipazione attiva dei cattolici nell’ambito politico nazionale. Il non expedit, ovvero il divieto di
partecipare alla vita politica del Paese, venne abrogato.

Come lui stesso dichiarò diverse volte, l’”illuminazione”, che avrebbe determinato la sua ascesa in politica,
fu la bolla papale Rerum Novarum del 1891, promulgata da Leone XIII: essa s’imperniava su una generica
difesa dei diritti degli operai e la difesa dallo sfruttamento, pur rimanendo fortemente ancorata nella difesa
della proprietà privata capitalistica e contro ogni insubordinazione socialista. Collaborazione tra padroni e
operai per il bene comune: questa la ricetta!

Don Sturzo elaborò le linee guida del partito attorno al concetto di ‘popolarismo’, ovvero volontà di dare
dignità politica al popolo; rifiuto del centralismo statale a favore del decentramento; chiara ispirazione
evangelica. Secondo Don Sturzo, era ormai tempo che i cattolici fondassero un partito che fosse una sorta di
“finestra sul mondo”: che tornassero all’impegno politico; formassero un partito di massa cattolico!

Laico, aconfessionale, costituzionale e non classista: ecco le linee generali del PPI, che poté contare
sull’appoggio delle alte gerarchie ecclesiastiche (preoccupate, per lo più, di una possibile vittoria del
Socialismo).

Ai liberali si rimproverava di far poco per le masse povere, ai socialisti di far molto, ovvero di voler
l’abolizione della proprietà privata. Il partito occupò subito una posizione centrale dello schieramento
politico. L’obiettivo di Don Sturzo era quello di dare vita ad un partito in grado di essere l’ago della bilancia
di un sistema politico italiano. Il partito esprimeva bene i valori e gli interessi della piccola e media
borghesia: da una parte rintracciava gli interessi e le paure della piccola e media borghesia agraria verso la
confisca delle proprietà, dall’altra dava consistenza e cemento a quella piccola borghesia legata ai
tradizionali valori religiosi.

Le elezioni del 1920


Nel novembre 1919 si assistette a delle elezioni che rivoluzionarono il quadro politico. Il Partito socialista e
il Partito popolare chiesero ed ottennero che il sistema elettorale si ispirasse ad un principio più democratico
che restituisse in seggi parlamentari una mappa reale del diverso sentire politico del paese. Tale sistema
garantì pure che la contesa, nei diversi seggi elettorali, si spostasse dalle persone e dalle clientele ai partiti
politici. Fu il momento di due grandi partiti di massa:

- Il Partito socialista vinse le elezioni con una maggioranza relativa del 32% ottenendo ben 156 seggi
in parlamento;
- Il Partito popolare, alla prima prova elettorale, si affermò secondo con il 20% ottenendo 100 seggi;
- I gruppi liberal-democratici di ispirazione giolittiana subirono un drastico calo.

La vittoria socialista, invece che portare le masse a contare di più, creò una situazione politica più complessa.
Il partito socialista era arroccato sulla intransigente posizione di nessuna alleanza con i partiti borghesi sicché
era assai complesso dare vita ad un governo che avesse una maggioranza parlamentare.

Nel 1920 il capo del governo Nitti cercò di fronteggiare il marasma politico venutosi a creare con la vittoria
socialista, ma non riuscendo a trovare una maggioranza si dimise cedendo il posto al vegliardo ottantenne
Giolitti.

Lotte contadine

Per Biennio rosso in Italia s’intende quel periodo che va dal 1919 e si conclude con l’occupazione delle
fabbriche nel settembre del 1920. E’ sicuramente uno dei momenti più alti dello scontro di classe in Italia: il
momento apicale del movimento operaio italiano oltre il quale si spiana la strada al fascismo.

Tra il 1919 e il 1920 l’Italia fu interessata da un duplice movimento che avrebbe potuto congiungersi
saldamente per l’assalto al potere borghese. L’Italia registrò, in quello scorcio, due potenziali forze telluriche
che avrebbero potuto portare al crollo del capitalismo italiano. Le lotte interessarono la terra e l’industria,
contadini e operai.

Durante la Grande Guerra più volte - soprattutto dopo Caporetto - a mo’ di sprono, fu usata la promessa della
“Terra ai contadini” da parte delle gerarchie militari. Fu un incitamento, un pungolo a masse contadine,
sostanzialmente refrattarie a farsi usare in quel tritacarne mondiale. “Terra ai contadini” fu la carota che si
fece balenare davanti agli occhi di questi soldati prima di farli uscire dalle trincee per gli assalti mortali. Le
stesse masse, al ritorno a casa, capirono di essere state turlupinate: non guadagnarono un palmo di terra!

La struttura agricola italiana vedeva, al vertice, dei latifondi con pochi proprietari che avevano terreni estesi
e, alla base della piramide, i 9/10 dei proprietari che ne avevano soltanto un ettaro cioè un appezzamento che
costringeva gli stessi piccoli proprietari a trasformarsi in braccianti, cioè salariati agricoli per poter
sopravvivere. C’era, dunque, una fame di terra da coltivare, che si sviluppò nella lotta per una più equa
redistribuzione delle terre e per più equi salari.

Nelle campagne si svolsero una serie di lotte furiose e durissime per la distribuzione delle terre incolte e del
latifondo e per un salario più umano. Tali lotte apportarono, indubbiamente, grandi miglioramenti per ciò che
concerne la condizione dei contadini poveri. Nel 1920, lo sciopero agrario vide la partecipazione di un
milione di uomini tra cui le leghe rosse, ma anche le leghe bianche d’ispirazione cattolica, seppur in netta
minoranza, guidano l’azione delle masse contadine.

Nell’estate del 1920 le leghe contadine e i proprietari agrari si scontrano violentemente a proposito dei
rinnovi dei patti colonici. Uno dei metodi di lotta fu quello di non raccogliere la parte che spettava ai
padroni, lasciando che marcisse. Il governo intervenne. Si arrivò ad un accordo che il padronato ritenne
inaccettabile. Rimase comunque la paura che derivava non solo dalle lotte sindacali ma dal clima generale
che c’era nel paese: la rivoluzione!
Principalmente in val Padana e in Puglia, dove i braccianti agricoli vivevano una vita assai grama di
sfruttamento inaudito, le lotte delle leghe e delle cooperative socialiste, a prezzo di grandi sacrifici,
ottennero: a) aumenti dei salari; b) un controllo sul mercato dell’offerta di lavoro.

Il controllo sul mercato del lavoro da parte delle associazioni contadine faceva si che l’offerta di lavoro non
si presentasse individualmente, dunque, più ricattabile, ma collettivamente, in modo da esigere salari equi.
Non più i singoli contrattavano con i padroni terrieri ma le associazioni: si contrattava il numero di giorni
lavorativi sui campi e si distribuiva il lavoro tra gli iscritti.

Le occupazioni delle fabbriche

L’apparato industriale italiano, durante la Grande Guerra, aveva subito un processo di razionalizzazione e
aveva incrementato notevolmente la produzione grazie alle commesse di guerra. Il vecchio Stato liberale si
era fatto sempre più protagonista nel ‘libero mercato’ e, sotto forma di commesse, aveva promosso lo
sviluppo industriale. Le acciaierie Ansaldo di Genova, che nel 1915 impiegavano 6.000 operai, nel 1918 ne
aveva 110.000. La Fiat di Torino passò da 4.000 a 40.000. Tale processo comportò una sempre maggiore
presa di coscienza operaia. La stessa grande industria nei suoi immensi reparti organizzati educava,
disciplinava, organizzava il proletariato dandogli, involontariamente, gli elementi per una coscienza di
classe.

Nel 1920 la protesta e le occupazioni delle terre si svilupparono sino a diventare occupazioni delle fabbriche.
Si moltiplicano gli scioperi in tutto il paese: da 303 del 1918 a 1.633 nel 1919, fino a 1.861 nel 1920 con una
partecipazione sempre crescente: dai 158.036 del 1918, a 1.049.438 del 1919, fino a 1.267.953 del 1920.

L’occupazione delle fabbriche rappresentò lo zenit di questo movimento.

In questa crescita generale del movimento operaio e contadino, la FIOM (sindacato dei metalmeccanici)
chiese il rinnovo del contratto agli imprenditori che respinsero ogni tipo di richiesta e trattativa. Fu questo
netto rifiuto che provocò, di fatto, un aumento di tensione. I sindacati proclamarono uno sciopero bianco,
secondo il quale era prevista l’entrata in fabbrica ma senza lavorare. Gli industriali risposero con la serrata
ovvero la chiusura degli stabilimenti. L’occupazione fu la risposta alla serrata dei padroni. Insomma,
l’occupazione delle fabbriche inizia come semplice rinnovo del contratto di lavoro collettivo dei
metalmeccanici e finisce per essere risposta di classe rivoluzionaria.

Così, nell’agosto di quell’anno, scattarono le occupazioni nelle fabbriche guidate dai sindacati rossi, mentre,
i sindacati bianchi, guidati dai cattolici, decisero di tenersi fuori dalla questione.

In poco tempo si occuparono circa 300 fabbriche nella zona del triangolo industriale (Milano, Genova,
Torino), i 400.000 lavoratori coinvolti, si organizzarono persino con servizi armati di vigilanza (Guardie
rosse) e, in alcune fabbriche, tentarono di proseguire da soli la produzione. A Milano le fabbriche occupate
sono 160: sui tetti sventola la bandiera rossa! A Torino si occupa e si cerca di riavviare la produzione con
una gestione operaia. Il governo non usa la forza per reprimere l’ondata operaia.

Sembrava l’inizio di un processo rivoluzionario, ma il movimento non ebbe la forza di estendersi


maggiormente anche a causa delle numerose divisioni interne ai partiti di sinistra e alla mancanza di una
linea chiara e precisa che indicasse la strada per abbattere il potere borghese.

Tra i gruppi rivoluzionari più attivi si distinse quello intorno al giornale Ordine Nuovo (1919), tra i cui
fondatori vi era Antonio Gramsci, che rimarrà alla storia per essere uno dei grandi teorici del comunismo
italiano. La forma che prese la lotta operaia in quel frangente non sarebbe stata la stessa senza il contributo
teorico dei Consigli di fabbrica come “organismi di auto-governo operaio” portata avanti sul giornale.

Un altro gruppo rivoluzionario, minoritario e che non riuscirà ad incidere, ma che farà la storia della sinistra
comunista in Italia, sarà quello di A. Bordiga che si raccoglie attorno al giornale il Soviet (1918) che, fin
dall’inizio, guarda alla luminosa esperienza sovietica; ritiene necessario una netta distinzione tra riformisti e
rivoluzionari; ripone - diversamente dall’impostazione gramsciana - la riuscita di uno sbocco rivoluzionario,
non tanto nella questione dei Consigli operai e dell’occupazione delle fabbriche, quanto nella capacità del
partito di guidare la classe operaia. Il gruppo bordighiano pensa che la questione dirimente sia non
l’occupazione delle fabbriche, ma l’occupazione dello Stato e delle sue propaggini!

Partito e sindacato

Proprio nei giorni cruciali dell’occupazione operaia di settembre si vide uno scollamento tra sindacato e
partito e, infine, l’impreparazione del partito che ripiego su una posizione opportunista. Certo, sia il
sindacato che il partito si trovarono davanti ad una situazione nata spontaneamente e inaspettatamente ma
che era cresciuta al punto che ora la soluzione non poteva che essere che politica e non più semplicemente
economica.

Il sindacato, si attestava su posizioni riformiste, poneva - com’è nella sua natura - solo rivendicazioni
economiche e non voleva spingere il movimento all’insurrezione. Il compito del sindacato, la sua funzione è
quello di organizzare le masse operaie nella difesa dei propri interessi economici. E’ ovvio che, ad un certo
punto, ovvero, quando la protesta diventa generale, ampia, possente, tale difesa non può essere più gestita dal
sindacato ma richiede una soluzione squisitamente politica; richiede che il partito intervenga nella guida
dell’azione rivoluzionaria.

Incredibilmente, in una riunione del 10 settembre tra esponenti del PSI e CGdL il partito socialista
demandava, di fatto, al sindacato la leadership del movimento e la decisione della direzione in senso
rivoluzionario o riformista.

L’11 settembre, il Consiglio nazionale della CGdL deliberò su due mozioni: una demandava al PSI la
direzione del movimento indirizzandolo così verso la soluzione rivoluzionaria, l’altra prevedeva la direzione
sindacale del movimento e la realizzazione di obiettivi puramente sindacali. Il Congresso della CGdL
rinunciò a fare delle occupazioni il primo atto di una rivoluzione socialista.

Il Partito socialista con ciò rinunciò a portare il livello dello scontro da economico a politico: dalle fabbriche
all’assalto allo Stato borghese. Il Partito avrebbe potuto comunque prendere la leadership del movimento ma
non fece nulla in tal senso: rinunciò a guidare la sua classe.

Il Partito socialista non aveva affatto seriamente pensato, né preparato, nessuna strategia rivoluzionaria per
l’assalto allo Stato borghese. Il Partito rinunciò al suo compito! Rimettendo la leadership al sindacato si
disperdeva così la tensione rivoluzionaria e il movimento, pur conquistando miglioramenti sindacali, si
accartocciò su sè stesso. La rivoluzione non era più all’ordine del giorno!

Era il tempo delle trattative! Era il tempo di Giolitti che, a Roma, il 19 settembre, mediò un accordo di
massima tra confindustria e CGdL.

Il 1 ottobre i sindacati firmarono un accordo che prevedeva aumenti salariali e una forma di controllo
sull’azienda - che non sarà mai riconosciuta nei fatti - contro la smobilitazione operaia delle fabbriche. La
firma dei contratti significò, pubblicamente, la rinuncia alla rivoluzione.

A fine settembre del 1920 gli operai sgombrarono le fabbriche. Le guardie rosse che avevano occupato le
fabbriche riponevano i fucili! Si erano tagliate le ali alla rivoluzione, tuttavia, rimase, nel paese, soprattutto
nella borghesia, la percezione di un possibile decollo rivoluzionario e ciò favorì una soluzione anti-socialista,
reazionaria e autoritaria: il fascismo.

La III Internazionale
“Gli operai non hanno patria” recita il Manifesto del partito comunista del 1848 di Marx ed Engels a
sottolineare che, strutturalmente, il passaggio al comunismo è un problema internazionale e, in pari tempo,
che il proletariato di tutti i paesi deve muoversi come un sol uomo contro il capitalismo. La rivoluzione
comunista o è internazionale o non è! La Russia si trova ad essere la prima rivoluzione vittoriosa in quel
cataclisma della Grande guerra: anello debole della catena imperialistica. Lenin e i bolscevichi sentono,
dunque, l’urgenza di organizzare il movimento operaio internazionale con una struttura unitaria, precisa,
accentrata e coesa tale da indicare la strategia politica unitaria ai movimenti nazionali e che, in pari tempo, si
differenziasse sideralmente da posizioni opportuniste, riformiste, minimaliste che corrompevano gli obiettivi
rivoluzionari del proletariato. Se la rivoluzione comunista doveva essere internazionale allora c’era bisogno
di un partito comunista internazionale e i diversi partiti nazionali dovevano figurare come semplici sezioni
locali. Il movimento operaio internazionale doveva avere il suo partito comunista internazionale. Il
movimento operaio doveva concentrare la sua forza, evitare localismi e dannose differenze strategiche:
muoversi come un solo esercito per l’assalto al cielo. Fu così che nel marzo 1919 nacque a Mosca la Terza
Internazionale, conosciuta anche con il nome di Comintern, (Internazionale Comunista) che soppiantava la
II Internazionale che aveva visto partiti addirittura votare a favore dei debiti di guerra.

Al Congresso dell’Internazionale Comunista del 1920, in un’aria di grande fiducia nelle sorti della
rivoluzione internazionale, intervennero 169 delegati in rappresentanza di 64 partiti e 50 nazioni con
l’intento di tracciare la strategia internazionale per la “rivoluzione mondiale”: il movimento operaio
cresceva di numero e di forza in Germania, Francia, Italia, Inghilterra e Stati Uniti. Il Comintern fu fin
dall’inizio, come prevedibile, egemonizzato dai bolscevichi e il Comitato esecutivo permanente ebbe sede
stabile a Mosca. Il Congresso approvò, tra l’altro, i 21 punti elaborati da Lenin per aderire all’Internazionale
comunista che è possibile così sintetizzare:

 I partiti comunisti dovevano farla finita con la politica riformista, minimalista;


 Appoggiare nei fatti ogni movimento di liberazione nelle colonie;
 Appoggio alla liberazione delle colonie dagli imperialisti;
 Sostegno della lotta contro le forze controrivoluzionarie;
 Ogni partito doveva assumere la denominazione di “Partito comunista”, relativa ad ogni paese.

Era ormai tempo che per il movimento operaio e i comunisti ponessero, senza indugio, all’ordine del giorno,
il compito storico della rivoluzione comunista. La Germania e l’Italia venivano esplicitamente citati come i
paesi dove, presumibilmente, la rivoluzione internazionale sarebbe iniziata per prima. Bisognava, a livello
internazionale, rompere gli indugi con il riformismo e il minimalismo socialista, che di fatto frenavano
qualsiasi azione rivoluzionaria, imbrigliando il movimento in piccoli miglioramenti all’interno del sistema
borghese. Era il tempo di scindersi dai partiti socialisti e fondare partiti comunisti compatti, granitici.

Tra i temi discussi, vi fu anche la posizione che i comunisti avrebbero dovuto tenere rispetto alla
partecipazione o meno al parlamentarismo borghese. La posizione astensionista, tra l’altro sostenuta
vigorosamente dall’italiano A. Bordiga, venne battuta a favore di quella leniniana che accettava il
parlamento borghese come mezzo di agitazione in “campo nemico”.

1921: nasce il PCd’I


Nonostante il PSI con il Congresso di Bologna del 1919 aveva registrato la vittoria dei massimalisti con
Serrati e l’adesione del partito alla III Internazionale, nel corso del Biennio rosso il partito non era stato in
grado di guidare le masse chiudendo il movimento spontaneo in una mera lotta sindacale. Questa esperienza,
congiuntamente al rifiuto del partito di espellere i riformisti - così come chiedevano i 21 punti del Comintern
- fece si che al Congresso di Livorno si acuisse la distanza tra rivoluzionari e riformisti. In effetti, lo stesso
Lenin aveva chiesto, in un articolo, che il partito si liberasse dei riformisti come Turati, Treves, ecc. perché
era giunto il momento di fare pulizia, di distinguersi e porre, concretamente, il problema della rivoluzione.
Al Congresso di Livorno del PSI del 1919, il 21 gennaio, i comunisti, al canto dell’Internazionale,
abbandonarono la sala del teatro Goldoni e si recarono al teatro san Marco: con la fuoriuscita della frazione
comunista dal PSI, nasceva il Partito comunista d’Italia (P.C. d’I), sezione italiana dell’Internazionale
comunista.

I principali protagonisti della nascita del PCd’I furono A. Bordiga (fondatore del Soviet nel 1918) e A.
Gramsci (fondatore del periodico Ordine nuovo nel 1919).

Il partito era sezione della Internazionale comunista:

a) riconosceva la Rivoluzione d’ottobre come la prima vittoriosa rivoluzione comunista;

b) rompeva definitivamente con in riformismo opportunista;

c) l’obiettivo era la rivoluzione comunista e la presa del potere.

Fu A. Bordiga ad essere eletto primo segretario del partito che lo guidò, con ortodossa intransigenza teorica,
fino al 1924, quando, a causa di divergenze tattiche con il Comintern - sulla questione del fronte unico e sulla
fusione con il PSI – fu prima allontanato dalla direzione e poi definitivamente sconfitto al Congresso di
Lione (1926), dove venne sostituito da A. Gramsci.

Troppo tardi nacque il partito comunista. Troppo tardi le forze rivoluzionarie si erano separate da quelle
opportuniste e riformiste. Il ciclo delle lotte contadine e operaie si era ormai esaurito e subentrava la reazione
della borghesia che stabiliva l’ordine borghese.

Il ciclo delle lotte si esauriva anche in Europa! La Rivoluzione d’ottobre rimaneva orfana della rivoluzione
europea che avrebbe dato ossigeno all’avanguardia politico-rivoluzionaria sovietica. Lenin aveva visto giusto
sul ciclo di lotte che la guerra e la fase imperialistica avrebbero scatenato, ma non previde il vincitore: né, del
resto, avrebbe potuto!

La borghesia vinceva dappertutto e dava prova di essere ancora forte e longeva.


BIBLIOGRAFIA
Libri

Film

Vita di Antonio Gramsci, R. Maiello, 1981

Rosa Luxembourg, von Trotta, 1986

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