La fine del primo conflitto mondiale aveva portato, in Italia, ma anche in tutto il resto d’Europa delle
conseguenze che modificarono per sempre la vita delle persone: dopo diversi anni di guerra la maggior parte
delle persone aveva sviluppato una sorta di assuefazione alla violenza, iniziando a vedere nella stessa
violenza il modo più facile e veloce per risolvere i conflitti, con le spese per le riparazioni di guerra si
assistette ad un fortissimo carovita, avvertito specialmente tra le classi medio-basse, le promesse fatte dal
generale Armando Diaz in tempo di guerra non erano state mantenute e in molte parti d’Italia i contadini
rivendicavano le proprie terre (Nord: sindacati in mano alle leghe rosse e spinta per la socializzazione delle
terre. Sud: contadini poveri occupano i latifondi); in tutto il paese si susseguirono una serie di scioperi,
sperando di ottenere un aumento dei salari.
Alla Conferenza di Versailles il ministro Orlando aveva rivendicato, senza successo, la città di Fiume
sulla base del “principio di nazionalità”, adottato basandosi sui Quattordici Punti proposti dal presidente
Wilson. In Italia si diffuse, anche grazie a Gabriele d’Annunzio, il sentimento di una “vittoria mutilata” e fu
questo insuccesso a determinare la caduta del governo Orlando, sostituito dal governo di Francesco Saverio
Nitti. Nell’autunno del 1919 d’Annunzio, al comando di una guarnigione di volontari, occupò militarmente
la città di Fiume. Nitti si dimise nel Giugno del 1920, il nuovo governo Giolitti firma con la Jugoslavia il
Trattato di Rapallo: Fiume ora è una città libera, l’Istria e Trieste restano in mano all’Italia, la Dalmazia
eccetto la città di Zara divennero parte della Jugoslavia. Il 25 Dicembre 1920 le truppe di d’Annunzio
furono cacciate con la forza dalla città di Fiume, grazie all’intervento delle truppe regolari italiane.
Nel Novembre 1919 si erano tenute le prime elezioni del dopoguerra: la classe liberale ottenne la
maggioranza relativa, perdendo quella assoluta, e ottenendo 200, i socialisti ottennero un successo mai visto
prima, con ben 156 seggi, mentre il neonato Partito Popolare Italiano (fondato nel 1919 da Don Luigi
Sturzo, portatore degli interessi della Chiesa e mirava all’elettorato cattolico) ottenne 100 seggi.
Nell’estate del 1920 la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici) chiedeva il riconoscimento dei
consigli di fabbrica, ispirati al modello sovietico e animati dai giovani Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti,
e un aumento dei salari. I primi scioperi ebbero inizio a Torino, a Milano il 30 Agosto le fabbriche vennero
occupate con la forza dalle Guardie Rosse. A settembre le manifestazioni si erano allargate a tutto il
centronord: circa 400.000 operai occuparono le fabbriche e issarono bandiere rosse. Durante una riunione
di partito della CGdL, avvenuta a Milano il 10 settembre 1920, il movimento operaio si spaccò in due:
procedere verso la socializzazione dei mezzi produttivi (Massimalisti) o limitarsi ad un aumento dei salari e
alla riconoscenza dei sindacati (Riformisti). Tra le due prevalse la posizione riformista. La tecnica attendista
del governo Giolitti venne interpretata, in questa Italia postbellica, come un sentimento di inaccettabile
arrendevolezza.
In seno al gruppo operaio si distaccarono dai massimalisti e dai riformisti due gruppi distinti: uno a Napoli,
guidato da Amedeo Bordiga, e uno a Torino, guidato da Antonio Gramsci, organizzato intorno al settimanale
“Ordine Nuovo”. Questi due gruppi traevano diretta ispirazione dall’esperienza bolscevica di Lenin:
miravano a organizzare consigli di fabbrica per gli operai e un “gruppo storico rivoluzionario” per contadini
e intellettuali. Nel 1921, durante il congresso socialista di Livorno, nacque il Partito Comunista d’Italia,
il quale adottò un programma rigorosamente leninista e in linea con la Terza Internazionale. Lo
spauracchio socialista e l’instabilità del governo favorirono l’ascesa del fascismo, che seppe approfittare del
bisogno di protezione e stabilità che attraversava ampi settori della società del tempo.
Verso il regime
Il cosiddetto “Discorso del bivacco” è il primo discorso che il nuovo Presidente del Consiglio dei ministri
del Regno d’Italia, Benito Mussolini, tenne alla Camera in data 16 Novembre 1922. Mussolini si recò alla
Camera per presentare la lista dei suoi ministri e decise, già che c’era, di tenere per sé le cariche di Ministro
dell’Interno e di Ministro degli Esteri. A seguito delle affermazioni presenti nel discorso, i banchi fascisti e
nazionalisti scoppiarono in un fragoroso applauso costellato da grida di “Viva il Fascismo!” e “Viva
Mussolini”.
Ora che Mussolini aveva raggiunto il potere, legittimamente per di più, poté dare il via ad una graduale
trasformazione da stato liberale a stato autoritario: nel 1922 istituì il “Gran Consiglio del Fascismo”
(compito di indicare le linee guida per la politica fascista e fare da ponte tra governo e partito), nel 1923
istituì poi la “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale” (corpo armato che avrebbe disciplinato lo
squadrismo) e riformò la legge elettorale con la Legge Acerbo (il primo partito, al quale bastava la
maggioranza relativa per essere definito tale, avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi).
Mussolini poteva contare anche sull’appoggio della Chiesa, grazie al conservatore Pio XI e alla maggior
parte dei cattolici, i quali gli erano riconoscenti per aver scongiurato una possibile rivoluzione socialista.
Sempre nel 1923 venne varata una nuova riforma scolastica, proposta dal ministro Giovanni Gentile, che
prevedeva: insegnamento della religione cattolica alle elementari, esame alla fine di ogni ciclo di studi,
equiparazione delle scuole cattoliche private e delle scuole pubbliche. Grazie all’avvicinamento con la
Chiesa, Mussolini poté fare pressioni sul Vaticano affinché Don Luigi Sturzo lasciasse la segreteria del
Partito Popolare Italiano.
Nelle elezioni politiche del 1924 si videro cattolici e liberali candidati insieme ai fascisti nelle Liste
Nazionali, mentre gli altri partiti si presentarono con liste proprie. Il Partito Fascista ottenne un
successo enorme, circa il 65% dei voti, il quale però venne ottenuto tramite brogli, irregolarità,
intimidazioni e violenze. Il deputato socialista, Giacomo Matteotti, il 30 Maggio del 1924 denunciò alla
Camera proprio queste irregolarità; a causa di questo gesto fu rapito dalle squadre fasciste il 10 Giugno e
venne ritrovato morto circa due mesi dopo.
Dopo l’assassinio di Matteotti le forze di opposizione non avevano le forze per mettere in minoranza il
governo, dunque optarono per una secessione, nota come Secessione dell’Aventino, dove si astennero dai
lavori parlamentari e non si recarono in Parlamento. Il re Vittorio Emanuele III nuovamente decise di non
intervenire. Mussolini non potendo rischiare l’isolamento politico e la perdita di consenso, il 3 Gennaio del
1925, pronunciò un discorso alla Camera in cui si assunse ogni responsabilità “morale, politica e
storica” della morte di Matteotti. Questa dimostrazione di forza e di sfrontatezza non portò ad alcuna
azione concreta da parte dell’opposizione. Ha così inizio la sistematica distruzione dello stato liberale e il
delitto Matteotti non aveva fatto altro che accelerare il passaggio alla dittatura.