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Il primo dopoguerra e il biennio rosso (1920-1921)

La fine del primo conflitto mondiale aveva portato, in Italia, ma anche in tutto il resto d’Europa delle
conseguenze che modificarono per sempre la vita delle persone: dopo diversi anni di guerra la maggior parte
delle persone aveva sviluppato una sorta di assuefazione alla violenza, iniziando a vedere nella stessa
violenza il modo più facile e veloce per risolvere i conflitti, con le spese per le riparazioni di guerra si
assistette ad un fortissimo carovita, avvertito specialmente tra le classi medio-basse, le promesse fatte dal
generale Armando Diaz in tempo di guerra non erano state mantenute e in molte parti d’Italia i contadini
rivendicavano le proprie terre (Nord: sindacati in mano alle leghe rosse e spinta per la socializzazione delle
terre. Sud: contadini poveri occupano i latifondi); in tutto il paese si susseguirono una serie di scioperi,
sperando di ottenere un aumento dei salari.
Alla Conferenza di Versailles il ministro Orlando aveva rivendicato, senza successo, la città di Fiume
sulla base del “principio di nazionalità”, adottato basandosi sui Quattordici Punti proposti dal presidente
Wilson. In Italia si diffuse, anche grazie a Gabriele d’Annunzio, il sentimento di una “vittoria mutilata” e fu
questo insuccesso a determinare la caduta del governo Orlando, sostituito dal governo di Francesco Saverio
Nitti. Nell’autunno del 1919 d’Annunzio, al comando di una guarnigione di volontari, occupò militarmente
la città di Fiume. Nitti si dimise nel Giugno del 1920, il nuovo governo Giolitti firma con la Jugoslavia il
Trattato di Rapallo: Fiume ora è una città libera, l’Istria e Trieste restano in mano all’Italia, la Dalmazia
eccetto la città di Zara divennero parte della Jugoslavia. Il 25 Dicembre 1920 le truppe di d’Annunzio
furono cacciate con la forza dalla città di Fiume, grazie all’intervento delle truppe regolari italiane.
Nel Novembre 1919 si erano tenute le prime elezioni del dopoguerra: la classe liberale ottenne la
maggioranza relativa, perdendo quella assoluta, e ottenendo 200, i socialisti ottennero un successo mai visto
prima, con ben 156 seggi, mentre il neonato Partito Popolare Italiano (fondato nel 1919 da Don Luigi
Sturzo, portatore degli interessi della Chiesa e mirava all’elettorato cattolico) ottenne 100 seggi.
Nell’estate del 1920 la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici) chiedeva il riconoscimento dei
consigli di fabbrica, ispirati al modello sovietico e animati dai giovani Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti,
e un aumento dei salari. I primi scioperi ebbero inizio a Torino, a Milano il 30 Agosto le fabbriche vennero
occupate con la forza dalle Guardie Rosse. A settembre le manifestazioni si erano allargate a tutto il
centronord: circa 400.000 operai occuparono le fabbriche e issarono bandiere rosse. Durante una riunione
di partito della CGdL, avvenuta a Milano il 10 settembre 1920, il movimento operaio si spaccò in due:
procedere verso la socializzazione dei mezzi produttivi (Massimalisti) o limitarsi ad un aumento dei salari e
alla riconoscenza dei sindacati (Riformisti). Tra le due prevalse la posizione riformista. La tecnica attendista
del governo Giolitti venne interpretata, in questa Italia postbellica, come un sentimento di inaccettabile
arrendevolezza.
In seno al gruppo operaio si distaccarono dai massimalisti e dai riformisti due gruppi distinti: uno a Napoli,
guidato da Amedeo Bordiga, e uno a Torino, guidato da Antonio Gramsci, organizzato intorno al settimanale
“Ordine Nuovo”. Questi due gruppi traevano diretta ispirazione dall’esperienza bolscevica di Lenin:
miravano a organizzare consigli di fabbrica per gli operai e un “gruppo storico rivoluzionario” per contadini
e intellettuali. Nel 1921, durante il congresso socialista di Livorno, nacque il Partito Comunista d’Italia,
il quale adottò un programma rigorosamente leninista e in linea con la Terza Internazionale. Lo
spauracchio socialista e l’instabilità del governo favorirono l’ascesa del fascismo, che seppe approfittare del
bisogno di protezione e stabilità che attraversava ampi settori della società del tempo.

L’avvento del fascismo in Italia


Il biennio rosso appena conclusosi avevano portato conseguenze fondamentali per la nascita e la presa
del potere da parte del fascismo: il livello di conflittualità sociale si era alzato drasticamente (si vedano
gli scioperi nelle industrie e le lotte dei lavoratori agricoli), la fedeltà alle istituzioni statali era stata messa
in discussione (favorirono lo sviluppo del fascismo cavalcando l’onda antisocialista, nelle zone controllate
dalle leghe rosse si sviluppò il “fascismo agrario”), industriali e proprietari terrieri temevano che l’Italia
seguisse l’esempio della Russia riguardo alla rivoluzione, il governo liberale era visto come debole, il
Movimento dei Fasci Italiani acquisisce importanza e fiducia.
Benito Mussolini fonda, il 23 Marzo 1919, i “Fasci Italiani di Combattimento”, un’organizzazione
paramilitare armata. Il programma dei Fasci prevedeva diversi punti: antisocialismo, disprezzo per lo
stato parlamentare e per i deboli, restaurazione dell’ordine attraverso qualsiasi mezzo, stato forte con un solo
capo, rivoluzione di destra, esaltazione della forza, dell’azione violenta e della patria. I sostenitori dei Fasci
di Combattimento erano molti e da rintracciarsi tra: gli industriali, i proprietari terrieri, i ceti medi, i
nazionalisti, gli arditi e gli ex-combattenti. Mussolini organizzò delle squadre punitive, chiamate
“squadre d’azione”, formate da reduci, disoccupati, sottoproletari e avventurieri che avevano il compito di
attaccare le sedi sindacali e del partito socialista, i contadini e gli operai in sciopero. Il 21 Novembre 1920 a
Bologna i socialisti, incaricati di difendere la sede del comune, Palazzo d’Accursio, spararono sulla folla in
protesta davanti al palazzo e uccisero 10 persone; i fascisti sfruttarono l’accaduto per mettere in atto
ritorsioni antisocialiste su tutto il territorio del bolognese.
Il Movimento dei Fasci di Mussolini ottenne enormi finanziamenti dalle classi che li supportavano e
che erano state terrorizzate dalle possibili conseguenze del Biennio Rosso, così facendo il movimento si
rafforzò ulteriormente. La figura di Mussolini iniziò ad assumere una sorta di aura mistica, il politico era
diventato ora colui che poteva riportare ordine e legge in Italia. La maggior parte della classe dirigente,
Giolitti in primis, vedeva nel Movimento dei Fasci un utile alleato nella lotta contro la sinistra; Giolitti
commise un errore che si rivelò fatale: sovrastimò la stabilità e il potere del governo e sottovalutò il potere
del movimento, infatti il suo obiettivo sarebbe stato quello di assorbire il movimento nello schieramento
della maggioranza come aveva fatto fino ad allora.
Nel Novembre del 1921 a Roma, il Movimento dei Fasci di Combattimento, viene trasformato e nasce
il Partito Nazionale Fascista, che già in partenza poteva contare più di 200.000 iscritti. Alle elezioni dello
stesso anno i fascisti si presentarono inclusi, per desiderio di Giolitti, nei Blocchi Nazionali (liste di
coalizioni comprendenti: liberali, conservatori e democratici). Con queste elezioni i primi 35 deputati
fascisti, tra cui ovviamente Mussolini, entrano alla Camera. Nel luglio del 1921 Giolitti si dimette, venne
seguito da Ivanoe Bonomi, il quale dopo poco venne sostituito da Luigi Facta. La debolezza di questi
governi darà sempre più spazio alle iniziative fasciste.
Nel 1922 la situazione iniziava a precipitare: gli squadristi attaccarono i socialisti, i popolari e tutti gli
aderenti allo sciopero generale del 1° agosto, indetto dai sindacati. Mussolini accrebbe ulteriormente il
proprio consenso, ma si rese conto che solo insediandosi ufficialmente al potere avrebbe potuto soddisfare le
grandi masse che si raccoglievano attorno al suo partito. Iniziano così i preparativi per una marcia su
Roma. La mobilitazione generale dei fascisti venne decisa per il 28 ottobre 1922 e migliaia e migliaia di
squadristi armati si radunarono fuori dalle porte della capitale, Vittorio Emanuele III decise di lasciar correre
e negò lo stato d’assedio proposto da Facta, che presentò le proprie dimissioni qualche ora dopo. La notte
del 29 Ottobre, Mussolini prese un treno da Milano diretto verso Roma, dove venne ricevuto dal re la
mattina del 30 Ottobre, che lo incaricò di formare un nuovo governo.

Verso il regime
Il cosiddetto “Discorso del bivacco” è il primo discorso che il nuovo Presidente del Consiglio dei ministri
del Regno d’Italia, Benito Mussolini, tenne alla Camera in data 16 Novembre 1922. Mussolini si recò alla
Camera per presentare la lista dei suoi ministri e decise, già che c’era, di tenere per sé le cariche di Ministro
dell’Interno e di Ministro degli Esteri. A seguito delle affermazioni presenti nel discorso, i banchi fascisti e
nazionalisti scoppiarono in un fragoroso applauso costellato da grida di “Viva il Fascismo!” e “Viva
Mussolini”.
Ora che Mussolini aveva raggiunto il potere, legittimamente per di più, poté dare il via ad una graduale
trasformazione da stato liberale a stato autoritario: nel 1922 istituì il “Gran Consiglio del Fascismo”
(compito di indicare le linee guida per la politica fascista e fare da ponte tra governo e partito), nel 1923
istituì poi la “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale” (corpo armato che avrebbe disciplinato lo
squadrismo) e riformò la legge elettorale con la Legge Acerbo (il primo partito, al quale bastava la
maggioranza relativa per essere definito tale, avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi).
Mussolini poteva contare anche sull’appoggio della Chiesa, grazie al conservatore Pio XI e alla maggior
parte dei cattolici, i quali gli erano riconoscenti per aver scongiurato una possibile rivoluzione socialista.
Sempre nel 1923 venne varata una nuova riforma scolastica, proposta dal ministro Giovanni Gentile, che
prevedeva: insegnamento della religione cattolica alle elementari, esame alla fine di ogni ciclo di studi,
equiparazione delle scuole cattoliche private e delle scuole pubbliche. Grazie all’avvicinamento con la
Chiesa, Mussolini poté fare pressioni sul Vaticano affinché Don Luigi Sturzo lasciasse la segreteria del
Partito Popolare Italiano.
Nelle elezioni politiche del 1924 si videro cattolici e liberali candidati insieme ai fascisti nelle Liste
Nazionali, mentre gli altri partiti si presentarono con liste proprie. Il Partito Fascista ottenne un
successo enorme, circa il 65% dei voti, il quale però venne ottenuto tramite brogli, irregolarità,
intimidazioni e violenze. Il deputato socialista, Giacomo Matteotti, il 30 Maggio del 1924 denunciò alla
Camera proprio queste irregolarità; a causa di questo gesto fu rapito dalle squadre fasciste il 10 Giugno e
venne ritrovato morto circa due mesi dopo.
Dopo l’assassinio di Matteotti le forze di opposizione non avevano le forze per mettere in minoranza il
governo, dunque optarono per una secessione, nota come Secessione dell’Aventino, dove si astennero dai
lavori parlamentari e non si recarono in Parlamento. Il re Vittorio Emanuele III nuovamente decise di non
intervenire. Mussolini non potendo rischiare l’isolamento politico e la perdita di consenso, il 3 Gennaio del
1925, pronunciò un discorso alla Camera in cui si assunse ogni responsabilità “morale, politica e
storica” della morte di Matteotti. Questa dimostrazione di forza e di sfrontatezza non portò ad alcuna
azione concreta da parte dell’opposizione. Ha così inizio la sistematica distruzione dello stato liberale e il
delitto Matteotti non aveva fatto altro che accelerare il passaggio alla dittatura.

Dalla fine dello Stato Liberale alle Leggi Fascistissime


Il delitto Matteotti, invece che provocare la fine del fascismo, accelerò il passaggio ad una dittatura. Nei
giorni successivi al 3 Gennaio 1925 vi furono molteplici arresti e perquisizioni che riguardarono i partiti di
opposizione e i propri organi di stampa. Nell’aprile sempre del 1925 Giovanni Gentile, lo stesso della
riforma scolastica, pubblicò il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, al quale rispose Benedetto Croce, uno
dei più grandi intellettuali italiani del tempo, con il suo “Manifesto degli intellettuali antifascisti”. Molti
antifascisti apertamente dichiarati, temendo ritorsioni, lasciarono il paese, ma non Benedetto Croce, egli
infatti era ben conscio della propria fama e di conseguenza di essere in qualche modo protetto da eventuali
colpi di mano del Partito Fascista. La stampa subì un durissimo processo di censura: venne messa
interamente sotto controllo (potevano esistere solo giornali fascisti, controllati da fascisti, dove la censura
dettava legge) e molti direttori antifascisti di giornali vennero allontanati dai propri posti di lavoro.
Tra il 1925 e il 1926 vennero emanate delle leggi, note come “Leggi Fascistissime”, che smantellarono
definitivamente qualsiasi tipo di istituzione democratica. Tali leggi prevedevano che:
- Tutti i partiti al di fuori di quello fascista fossero sciolti, doveva infatti restare un unico partito con
un unico capo: il Duce, Benito Mussolini
- Ai deputati fu concesso solo ed esclusivamente di approvare le proposte di legge del Duce
- Le elezioni si tennero in forma plebiscitaria con una lista unica
- Venne fondata la O.V.R.A. (Opera Volontaria di Repressione Antifascista) una polizia militare che
aveva il potere di perquisire, arrestare, torturare e uccidere gli oppositori politici
- Fu istituito un Tribunale Speciale, che giudicava i reati politici e i reati d’opinione
- Fu ripristinata la pena di morte
- Venne negata la libertà di stampa
- Vennero sciolti i sindacati e fu abolito il diritto di sciopero, i sindacati vennero sostituiti dalle
Corporazioni, inquadrate anch’esse all’interno dei dettami del regime, e vennero ridotti i salari

La crisi del 1929 e il New Deal


Al contrario dei paesi europei, gli Stati Uniti uscirono dalla Prima Guerra Mondiale più forti dal
punto di vista economico. Gli anni venti, infatti, furono caratterizzati dalla crescita delle industrie dei beni
di consumo, con un conseguente aumento della domanda di tali beni tra fasce della popolazione sempre più
larghe. Questa fondamentale differenza rispetto agli altri paesi deriva da tre fattori principali: gli Stati Uniti
avevano giocato un ruolo marginale nella guerra, essendo intervenuti solo tra il 1917 e il 1918, inoltre non
avevano subito invasioni e devastazioni sul proprio territorio nazionale e infine non si erano indebitati,
ma anzi avevano prestato enormi somme di denaro ai paesi alleati.
Gli statunitensi vissero un periodo di diffuso benessere e spensieratezza, caratterizzato da un rapido
aumento dei consumi per una parte sempre più crescente della popolazione. Un esempio di questo genere di
beni furono le automobili Ford, che furono le prime a poter essere acquistate anche da lavoratori non
particolarmente ricchi, grazie all’introduzione della vendita a rate. L’acquisto e il consumo di beni
divennero i nuovi valori dominanti della società americana, ciò spinse molte persone a cercare fortuna
nella compravendita di azioni.
In questi stessi “anni ruggenti”, però, la società discriminò tutti gli immigrati di origine non
anglosassone e i neri; inoltre dal 1920 fu proibito il consumo di alcolici (proibizionismo), il cui vizio era
ritenuto tipico dei proletari e delle classi più umili in genere. Di una simile situazione ne approfittarono le
bande criminali che fecero fortuna con la produzione e la vendita clandestina di alcolici.
La crescita eccessiva deli investimenti in Borsa, concomitante ad una sovrapproduzione industriale e
alla crisi della Borsa stessa portarono ad una crisi economica generale. Tale crisi da un lato va vista
come risultato della speculazione: il valore delle azioni venne fatto salire molto al di sopra del reale valore
dell’azienda, ciò portò gli investitori più accorti a vendere tutte le proprie azioni per ricavare subito il
maggior guadagno possibile, questo tuttavia portò al crollo del valore delle azioni stesse. Dall’altro lato
questa crisi è dovuta alla sovrapproduzione industriale, influenzata dal sempre maggiore acquisto dei
cosiddetti “beni durevoli”, che determina un’offerta molto maggiore rispetto alla capacità di acquisto delle
famiglie. Nel mentre che tutto questo colpiva la Borsa, si stava avviando anche una crisi agricola che
diminuì ulteriormente il potere d’acquisto dei ceti rurali.
La giornata fatidica fu quella di giovedì 24 Ottobre 1929, giorno in cui la Borsa di New York cominciò a
chiudere al ribasso. In pochi mesi il valore della stragrande maggioranza delle azioni crollò
vertiginosamente. La crisi si estese a tutta l’economia americana, molte industrie dovettero chiudere per
mancanza di capitali e il tasso di disoccupazione aumentò a dismisura, basti pensare che nel 1932 i
disoccupati erano oltre 14 milioni. La crisi economica che colpì l’America, colpì di conseguenza anche
l’Europa, andando a danneggiare soprattutto la Germania, che aveva iniziato un enorme progetto di
ricostruzione grazie ai fondi americani.
Per cercare di uscire dalla crisi il presidente Hoover adottò una rigidissima politica protezionistica, ridusse
la spesa pubblica, gli stipendi e inasprì il sistema fiscale, inoltre la moneta venne enormemente svalutata
per mantenere bassi i prezzi e favorire le esportazioni. Le manovre di Hoover furono un vero e proprio
disastro: la crisi non solo non si arrestò, ma si diffuse rapidamente anche in Europa; si assistette ad una
perdita estrema di solidità della sterlina e moti capitali esteri furono ritirati dalle banche inglese, i cui
proprietari chiesero la convertibilità in oro, portando le riserve auree inglesi ai minimi storici e sancendo la
fine del Gold Standard.
Nel 1932, Franklin Delano Roosevelt accettò la candidatura tra le file dei democratici e per la prima
volta si sentì parlare di “New Deal”. L’enorme piano di Roosevelt prevedeva un massiccio intervento da
parte dello Stato nell’economia del paese e lo articolò in molteplici punti:
- Adozione di misure di controllo antispeculative sulla Borsa e sulle banche
- Svalutazione del dollaro, al fine di far crescere la domanda
- Inizio di grandi opere pubbliche
- Facilitazione dei prestiti
- Concessione di sussidi per i disoccupati
- Introduzione della pensione di vecchiaia
- Agricultural Adjustement Act (utile per limitare la sovrapproduzione agricola)
- National Industry Recovery Act (utile per regolare la concorrenza tra le imprese)
- Tennessee Valley Autority (sfruttamento dei grandi bacini idrici per produrre energia idroelettrica a
poco prezzo)
Roosevelt, sostenne dunque tutti quei lavoratori che cercavano un posto di lavoro e con l’apertura di
enormi cantieri per delle grandi opere pubbliche e permise alle industrie produttrici di fornire i beni necessari
ed a molte persone di trovare un’occupazione. Le scelte di Roosevelt erano mirate alle classi meno
abbienti, basta infatti vedere l’introduzione della pensione di vecchiaia e la diffusione dei sindacati nelle
aziende.
Roosevelt scelse, invece che una politica protezionista, una politica di diretto intervento dello Stato in
ambito economico, basata sulle teorie dell’economista Keynes. La politica del nuovo presidente venne
accusata di essere anticostituzionale dalla Corte Suprema Americana. Nonostante gli interventi numerosi e
di successo l’economia ancora arrancava, pochi anni dopo, però, con lo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale e l’intervento degli Stati Uniti nelle prime fasi del conflitto ebbe modo di riprendersi.
 John Maynard Keynes aprì un nuovo capitolo nella storia dell’economia, infatti con il crollo del ’29
gli fu possibile confutare alcune posizioni fondamentali dell’economia classica, in modo particolare:
la teoria che prevedrebbe l’insorgere spontaneo di un equilibrio tra domanda e offerta. Keynes era
convinto che i meccanismi intrinsechi nel capitalismo non gli permettessero di sviluppare, in
autonomia, un utilizzo ottimale delle risorse. Proprio questa tesi lo portò anche a criticare quelle che
erano le politiche deflazionistiche del tempo, ritenendo che fosse compito dello Stato sostenere la
domanda in aumento con politiche di aumento della spesa pubblica.
Le teorie di Keynes, vista anche l’efficacia reale durante i molteplici mandati di Roosevelt, vennero
applicate alla fine della Seconda Guerra Mondiale dalla maggior parte degli stati occidentali.

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