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L’ASCESA DEL FASCISMO

L’ITALIA NEL VENTENNIO 1919-1939


1. Il malcontento in Italia all’indomani della Prima guerra mondiale
La crisi della classe dirigente liberale e la scarsa cultura democratica amplificano i problemi che
l’Italia deve affrontare nel primo dopoguerra.
In questo mutato clima, fanno il loro ingresso (o acquistano maggiore influenza) nuove forze
politico-sociali. Si assiste alla formazione del Partito popolare (che pone fine all’autoesclusione
dei cattolici dalla vita politica del Paese), alla crescita del Partito socialista nonché alla
fondazione di gruppi di ex combattenti insoddisfatti del quadro politico e decisi a darsi una
rappresentanza autonoma.
Contemporaneamente si diffonde il malcontento per le decisioni della Conferenza di Parigi e per
la mancata attribuzione all’Italia di territori che – secondo la propaganda nazionalista – le sarebbero
spettati. Nasce, così, il mito della “vittoria mutilata”. In tale contesto neo-patriottico sorge la
questione di Fiume, con la conseguente occupazione della città da parte di Gabriele D’Annunzio.

2. Partiti e movimenti di massa in Italia nel primo dopoguerra


I cattolici fanno il loro ingresso nella vita politica nel 1919, quando don Luigi Sturzo, un sacerdote
siciliano, dà vita al Partito Popolare Italiano (PPI).
Il nuovo schieramento assume subito dimensioni di massa perché si appoggia alle
organizzazioni sindacaliste della Chiesa, molto diffuse soprattutto nelle campagne. In
occasione delle prime elezioni del dopoguerra, nel 1919, il PPI consegue un discreto successo,
ottenendo 100 seggi alla Camera. Il partito mostra però delle debolezze dovute alla presenza al
suo interno di forze eterogenee: i riformatori sociali a capo delle “leghe bianche”, infatti, sono
affiancati dai cattolici moderati e conservatori.
Nell’immediato dopoguerra il Partito Socialista Italiano (PSI) triplica il proprio elettorato e
diventa il primo partito d’Italia nelle elezioni del 1919.
Al suo interno si sono formati tre schieramenti:
 il gruppo riformista, facente capo a Filippo Turati, è favorevole alla collaborazione con i
governi borghesi e nel 1922 dà vita al Partito socialista unitario;
 il gruppo massimalista, che costituisce la maggioranza, considera la collaborazione con i
governi borghesi – indipendentemente dai programmi e dalle intenzioni – un tradimento e
professa un rivoluzionarismo astratto, cui non corrispondono serie intenzioni di effettiva presa
del potere;
 il gruppo comunista, facente capo ad Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che nel 1921 si
distacca dal PSI e fonda a Livorno il Partito Comunista d’Italia (PCI), aderendo alla Terza
Internazionale. Questa scissione rende più debole la sinistra, che, divisa, è incapace di assumere
iniziative efficaci per superare la crisi sociale.
Le aspirazioni rivoluzionarie del Partito socialista, le divisioni interne a quello cattolico, la
debolezza dei governi liberali, danno ampio spazio alla nascita e diffusione di organizzazioni di
ispirazione nazionalistica fra le quali si distinguono i Fasci di combattimento, un movimento
fondato nel 1919 da Benito Mussolini, cui aderiscono ex combattenti, spesso disoccupati e
profondamente scontenti, e alcuni gruppi sbandati di ex socialisti rivoluzionari.

3. Tensioni sociali e governi liberali


Terminato il conflitto, l’Italia si trova a dover affrontare una difficile situazione economica: la
smobilitazione dell’esercito e il conseguente rallentamento dell’industria pesante, che ha lavorato
per l’economia bellica, fanno aumentare la disoccupazione, mentre l’inflazione subisce una
considerevole accelerazione.
La conseguenza di queste dinamiche fu un’ondata di agitazioni sociali che, nel 1919-1920,
attraversa l’Italia: l’aumento del costo della vita scatena una rincorsa tra salari e prezzi al consumo,
il che determina una serie di scioperi organizzati dai sindacati sia nell’industria sia nel settore dei
servizi pubblici. Nel 1919 si verificano anche occupazioni di terre incolte di proprietà dei
latifondisti: i contadini, organizzati in leghe (rosse a guida socialista e bianche a guida cattolica),
chiedono una riforma agraria, che del resto è stata promessa dal governo, all’indomani della
disfatta di Caporetto, per risollevare il morale delle truppe. Tali agitazioni, però, non sono
organizzate né collegate tra loro e vengono facilmente controllate e sedate.
Le elezioni del 1919 sono le prime svolte con il sistema di voto proporzionale, fondato sul principio
della corrispondenza tra i voti ottenuti dai diversi partiti e i seggi ad essi attribuiti. I risultati sono
disastrosi per la vecchia classe dirigente e vedono l’affermazione dei socialisti come primo partito,
seguiti dai popolari.
Tra il 1919 e il 1922 si alternano vari governi a guida liberale, presieduti da uomini politici di sicuro
prestigio (Francesco Saverio Nitti, Giovanni Giolitti, Ivanoe Bonomi, Luigi Facta). Nonostante ciò,
la crisi dei liberali e della struttura democratica dello Stato si fa sempre più acuta ed evidente.
La figura di spicco è ancora una volta quella di Giolitti, che nel 1920 torna a capo del governo con
un programma riformista innovativo che prevede, tra l’altro, un’imposta straordinaria sui profitti
extra dell’industria bellica.
In politica estera, invece, vengono appianati i contrasti di confine con la Iugoslavia mediante la
stipulazione del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920), in virtù del quale viene riconosciuto lo
Stato libero di Fiume. L’Italia si vede assegnare la città di Zara, mentre la Iugoslavia ottiene la
Dalmazia. In politica interna, infine, non ha successo il disegno giolittiano finalizzato a
ridimensionare il PSI attraverso l’eliminazione dell’ala rivoluzionaria del partito e la concessione di
alcune riforme ai moderati.
La tensione sociale e politica giunge al culmine nel settembre 1920 quando i sindacati dei
metalmeccanici organizzarono l’occupazione delle fabbriche.
Per un momento sembrò che si potesse dar vita anche in Italia a dei consigli di fabbrica simili ai
soviet creati durante la rivoluzione d’ottobre in Russia. In realtà le occupazioni si risolvono in un
fallimento, anche grazie all’atteggiamento accorto di Giolitti, che – come già aveva fatto prima del
conflitto mondiale – rifiuta di fare intervenire la forza pubblica e fa da mediatore difendendo il
diritto degli operai ad un limitato controllo sulle aziende.
In compenso, lo sciopero rafforza le paure dei ceti medi nei confronti non solo della classe
operaia, ma anche delle leghe agricole socialiste che in quei mesi conducevano una lotta
parallela specialmente nelle campagne della valle padana.
Tale conclusione accentua le divisioni all’interno del PSI e così, durante il congresso socialista del
1921, la corrente di sinistra guidata da Gramsci e Togliatti si scinde per fondare il Partito
comunista.

4. L’avvento del fascismo


Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fonda il movimento dei Fasci di combattimento, che
inizialmente si schiera a sinistra dichiarandosi repubblicano e chiedendo riforme sociali, nonostante
un ostentato nazionalismo e una forte avversione nei confronti del PSI.
Caratteristica peculiare del nuovo movimento, che viene conservata anche quando si sposta
politicamente a destra, è l’esaltazione della forza e della violenza.
I Fasci di combattimento si strutturano militarmente: i militanti, vestiti di una camicia nera, sono
inquadrati in squadre di azione.
Ha inizio, così, il fenomeno dello squadrismo: le “camicie nere” cominciano a compiere spedizioni
punitive contro le organizzazioni socialiste e popolari.
Le azioni di violenza squadrista sono sostenute o coperte dai grandi proprietari terrieri e
dagli industriali e godono della complicità di vari organi dello Stato. Molti esponenti della
classe dirigente, infatti, vedono nel fascismo un valido strumento per limitare l’influenza dei partiti
di massa e contrastare il “pericolo rosso” di una rivoluzione comunista anche in Italia.
In occasione delle elezioni del 1921, Giolitti, per arginare la forza parlamentare di socialisti e
popolari, dà vita ai “blocchi nazionali”, nei quali include anche i fascisti, sottovalutando la forza di
quel movimento e fidando nel fatto che presto sarebbero rientrati nella legalità costituzionale.
Nella consultazione elettorale i fascisti riescono ad ottenere 35 seggi in Parlamento e si affrettano a
smentire le previsioni del vecchio statista. Non solo, infatti, non rinunciano all’uso sistematico della
violenza (che anzi aumenta notevolmente), ma si distaccano dalla maggioranza per unirsi
all’opposizione.
Nel novembre di quello stesso anno i Fasci di combattimento si trasformano in Partito Nazionale
Fascista (PNF) per meglio inserirsi nel gioco politico ufficiale, mentre gli squadristi, approfittando
della debolezza dei governi liberali, continuano a rendersi protagonisti di atti di violenza eclatanti.
In una situazione politica sempre più destabilizzata, durante il congresso fascista, tenutosi a Napoli
in ottobre, si decide che è necessaria una dimostrazione di forza per costringere il re a nominare
Mussolini capo del governo. Così nasce l’idea della marcia su Roma che ha luogo il 28 ottobre.
Il governo Facta dinnanzi a tale minaccia per la sicurezza dello Stato vorrebbe dichiarare lo stato
d’assedio: l’esercito potrebbe facilmente sbarazzarsi delle squadre fasciste, ma il re Vittorio
Emanuele III rifiuta di firmare la proclamazione dello stato d’assedio e, dopo le dimissioni di Facta,
con un’azione politica senza precedenti, incarica Mussolini di formare un nuovo governo. Il 30
ottobre Mussolini arriva a Roma e la sera stessa il governo è formato; pochi capiscono che si tratta
del primo passo verso un cambiamento radicale dell’assetto politico ed istituzionale del Paese: la
dittatura.

5. La dittatura di Mussolini
A) LA CREAZIONE DELLE BASI DELLA DITTATURA
Giunto al potere, Mussolini istituisce il Gran consiglio del fascismo – principale organo ispiratore
delle politiche del governo – e inserisce le squadre fasciste nella Milizia volontaria per la
sicurezza nazionale, che costituiscono un vero e proprio braccio armato del partito con il fine di
reprimere con la violenza ogni forma di opposizione.
Allo stesso tempo cerca di rassicurare i suoi alleati inserendo ministri liberali e popolari nel suo
governo e promettendo la “normalizzazione” dello Stato.
Mussolini inoltre, può contare sull’appoggio del potere economico e sul sostegno della Chiesa,
che riconosce al fascismo il merito di aver fermato l’ondata rivoluzionaria socialista.
La prima vittima dell’avvicinamento tra Chiesa e fascismo, però, è proprio il partito dei cattolici:
nell’aprile del 1923, infatti, Mussolini impone le dimissioni dei ministri popolari.
Per rafforzare la propria maggioranza parlamentare, il governo Mussolini, in occasione delle
elezioni del 1924, cambia la legge elettorale passando al sistema di voto maggioritario.
Grazia al nuovo meccanismo elettorale, che prevede anche un premio alla lista che consegue la
maggioranza relativa (cui sono attribuiti i due terzi dei seggi disponibili), e ad un’abile propaganda,
il 65% dei suffragi va comunque alla lista di Mussolini, il quale ne approfitta per intensificare le
aggressioni contro i deputati dell’opposizione.
Il 10 giugno 1924, pochi giorni dopo aver pronunciato in Parlamento una dura requisitoria contro il
fascismo denunciando i brogli e le irregolarità commesse durante le elezioni, il segretario del Partito
socialista unitario, Giacomo Matteotti, esponente della sinistra riformista e moderata, viene rapito
a Roma da un gruppo di squadristi e ucciso a pugnalate. Gli esecutori materiali vengono arrestati,
ma non si scoprono i mandanti. Appaiono tuttavia chiare a tutti le responsabilità politiche e morali
di Mussolini e del governo.
L’indignazione generale suscitata dal delitto Matteotti sembrò far vacillare il governo. In segno di
protesta, i deputati dell’opposizione abbandonano i lavori parlamentari dando luogo alla cosiddetta
secessione dell’Aventino. Tale gesto di condanna morale non ha effetti pratici in quanto il re non
prende alcun provvedimento.
Mussolini si sente, così, legittimato a riprendere l’iniziativa.

B) L’AFFERMAZIONE E IL CONSOLIDAMENTO DELLA DITTATURA


Il 3 gennaio 1925 in un noto discorso tenuto alla Camera, egli dichiara: “Io assumo, io solo, la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto […]. Se il fascismo è stato
un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.
Di fatto con queste parole Mussolini proclama la dittatura.
Entro il 1926, il capo del Governo raggiunge il controllo completo della situazione e decreta la
soppressione di ogni libertà attraverso i seguenti provvedimenti, denominati leggi fascistissime:
“fascistizzazione” della stampa, persecuzione degli antifascisti, rafforzamento dei poteri del capo
del Governo, reintroduzione della pena di morte, istituzione di un Tribunale speciale per la difesa
dello Stato, creazione di una forza di polizia politica segreta, l’OVRA (Opera di vigilanza e
repressione antifascista), e scioglimento di tutti i partiti, tranne quello fascista.
Su queste basi si viene costruendo il pieno e incondizionato trionfo di Mussolini, che è riuscito a
inserirsi nella difficile situazione dell’Italia del dopoguerra avvalendosi di tutti i motivi di
malcontento e di disorientamento vivi nel Paese: dalla preoccupazione dei conservatori per la
pressione delle masse popolari che reclamano migliori condizioni di vita all’insoddisfazione diffusa
dei ceti piccolo-borghesi che risentono degli effetti della difficile situazione economica; dai
fermenti nazionalistici alimentati dal mito della “vittoria mutilata” alla crisi dello Stato liberale.
La passività degli organi dello Stato di fronte alla violenza squadrista, il massiccio appoggio
finanziario del grande capitale industriale e agrario, il filofascismo di una larga parte della classe
dirigente e dell’esercito e la disorganizzazione dei socialisti permettono a Mussolini, uomo dalle
grandi abilità demagogiche e dallo spregiudicato opportunismo, di assumere, in definitiva, il pieno
controllo del Paese.

6. L’Italia fascista
Nella seconda metà degli anni ’20, dunque, l’Italia è soggetta ad un regime totalitario dove
l’organizzazione dello Stato e quella del Partito fascista tendono a sovrapporsi.
Tuttavia le “leggi fascistissime” degli anni Venti di fatto non spostano il centro del potere sul
partito, anche se il partito unico gode di numerose prerogative, ma rafforzarono il potere esecutivo a
scapito del Parlamento, privato di quasi tutte le sue funzioni. A questa azione di accentramento
statale fa da puntuale riscontro il massiccio potenziamento degli organi repressivi.
Il fascismo presenta elementi di continuità, rispetto allo Stato liberale, sia a livello delle istituzioni
sia per quanto riguarda i rapporti di classe, che il fascismo non ha mutato, se non accentuando la
subordinazione delle classi popolari alla borghesia. D’altra parte un elemento di rottura è
rappresentato dalle maggiori competenze riservate all’apparato amministrativo dello Stato, sia
come strumento coercitivo che come strumento creatore di consenso e come strumento di
intervento nella vita economica e sociale.

A) GLI OBIETTIVI DEL REGIME


Restano, comunque, ancora due “ostacoli” alla piena attuazione del disegno totalitario: la Chiesa e
la Corona.
Nel 1929 Mussolini firma con la Santa Sede i Patti Lateranensi, che rappresentano per il fascismo
un grande successo politico, sancito dal plebiscito elettorale, e per la Chiesa l’acquisizione di una
posizione privilegiata nei rapporti con lo Stato.
I Patti Lateranensi si articolano in tre parti:
 un trattato internazionale con cui la Santa Sede riconosce lo Stato italiano, e il governo italiano,
a sua volta, riconosce lo Stato della Città del Vaticano;
 una convenzione finanziaria con cui l’Italia si impegna a pagare un’indennità per risarcire il
Vaticano dei territori persi;
 un Concordato che regola i rapporti tra Regno d’Italia e Chiesa (esonero dal servizio militare
per i sacerdoti, validità civile del matrimonio religioso, insegnamento della religione nelle
scuole pubbliche, libertà di azione per le organizzazioni cattoliche).
L’altro limite ai propositi totalitari era la presenza del re, cui spettavano il comando supremo delle
forze armate, la scelta dei senatori, la nomina e la revoca del capo del Governo.
In realtà, pur lasciando formalmente in vigore lo Statuto albertino, Mussolini lo priva di ogni
significato. Infatti, mentre il Parlamento perde praticamente ogni funzione, il capo del
Governo (oramai chiamato duce del fascismo) attribuisce a se stesso poteri tali per cui avrebbe
dovuto rispondere del proprio operato soltanto al re.
Il potere legislativo viene delegato al governo, mentre assume una valenza istituzionale il
Gran consiglio del fascismo, il cui parere, a partire dal 1928, diventa obbligatorio per tutte le
questioni di carattere istituzionale.

B) LE RIFORME E IL CORPORATIVISMO
Durante il ventennio si registra un aumento dell’urbanizzazione e del numero degli occupati
nell’industria e nel terziario, tuttavia la società resta arretrata.
Il fascismo, portavoce dei valori tradizionali, ma tendente a creare, nello stesso tempo, “uomini
nuovi”, trova i suoi sostenitori tra la borghesia medio-piccola e soprattutto tra i giovani, grazie allo
stretto controllo esercitato sulla cultura e sulla scuola anche mediante la riforma Gentile (1923),
riforma scolastica che cerca di accentuare la severità degli studi privilegiando le discipline
umanistiche a scapito di quelle tecniche e rafforzando il controllo sugli insegnanti, cui viene
imposto il giuramento di fedeltà al regime.
Infine, va ricordato che, nel 1931, entra in vigore anche un nuovo codice penale, il Codice Rocco,
col quale, tra le altre cose, viene ripristinata la pena di morte anche per i reati non politici.
Il fascismo si rende fautore di soluzioni nuove per i problemi economici, credendo di individuare
nel corporativismo l’alternativa valida al capitalismo da un lato e al socialismo dall’altro.
I principi generali del corporativismo fascista sono enunciati nel 1927, nella Carta del lavoro e
vengono poi istituzionalizzati con la creazione delle corporazioni (1934), che raggruppano
imprenditori e lavoratori nelle diverse categorie, e con la fondazione della Camera dei fasci e
delle corporazioni (1939), che sostituisce la Camera dei deputati.
Il corporativismo è un modello di organizzazione sociale e del lavoro che prevede, attraverso la
costituzione di associazioni rappresentative degli interessi professionali (corporazioni), la
rimozione della conflittualità tra le classi e della concorrenza tra le imprese e la soppressione degli
scioperi organizzati dai lavoratori.
Richiamandosi all’esperienza medievale dei comuni italiani, in cui le corporazioni erano abilitate a
controllare e ad organizzare i vari mestieri e le attività politico-economiche ad essi connesse, il
corporativismo moderno si è poi articolato in due filoni principali:
 quello cattolico, per il quale le corporazioni dovrebbero rappresentare, potenzialmente, una
forma di anti-Stato;
 quello fascista, nel quale, al contrario, le corporazioni agiscono come associazioni professionali
strettamente dipendenti dallo Stato, tanto da poter essere utilizzate come suo strumento di
controllo politico.
Il corporativismo e la Carta del lavoro furono sbandierati dal fascismo come “terza via” nei rapporti
tra datori di lavoro e operai. L’interesse superiore della nazione e l’intervento dello Stato avrebbero
risolto il dissidio tra le classi e pacificato la società. Tuttavia, nella sostanza la politica del fascismo
appoggiava i grandi ceti industriali, nonostante l’“interventismo” del governo in economia.
La Carta del lavoro servì gli scopi politici di Mussolini. Essa valse infatti a dare una patina di
socialità al nuovo regime, permettendogli di presentarsi come avviato su una strada nuova e giusta,
con un Mussolini che mostrava di essere pronto ad “andare al popolo” e a sfidare anche le
oligarchie economiche.
C) LA POLITICA ECONOMICA
Nel 1925, intanto, lo Stato è già passato, dopo aver tentato la via del liberismo, a una linea
protezionistica, puntando sulla deflazione, sulla stabilizzazione della lira e su un maggior
coinvolgimento del governo in campo economico.
Il primo intervento è costituito dalla cosiddetta battaglia del grano, che mira al raggiungimento
dell’autosufficienza nel settore cerealicolo mediante l’aumento della superficie coltivata a grano e
l’utilizzo di tecniche agricole avanzate. L’obiettivo viene quasi raggiunto, seppure a scapito di altri
settori.
Altro intervento governativo è quello teso a rivalutare la lira per far tornare la moneta nazionale a
“quota 90” (ossia riportarla a un tasso di cambio in virtù del quale sarebbero occorse 90 lire per una
sterlina), così da restituire al Paese la stabilità monetaria, che viene conseguita grazie anche ai
prestiti delle banche americane.
Quando la crisi del 1929 colpisce anche l’Italia, il governo reagisce con una politica di lavori
pubblici diffusi che devono servire ad allentare le tensioni sociali dovute alla presenza di un ingente
numero di disoccupati. Tale strategia viene messa in opera soprattutto tra il 1933-1934, quando è
bonificato l’agro pontino e vengono edificate due città: Sabaudia e Littoria (l’odierna Latina).
L’intervento statale maggiore si ha, però, in campo industriale e creditizio con la creazione, alle
strette dipendenze del governo, dell’Istituto mobiliare italiano (IMI) e dell’Istituto per la
ricostruzione industriale (IRI): il primo ha il compito di sostituire le banche nel sostegno
all’industria; il secondo, valendosi di fondi statali, rileva le partecipazioni industriali dalle banche in
crisi, acquisendo il controllo di alcune importanti imprese. In tal modo, lo Stato arriva a controllare,
con tali istituti, una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro
Stato, così da affermarsi come vero e proprio Stato imprenditore.
Nel 1935, superata la crisi, l’Italia indirizza poi la sua economia prevalente verso la produzione
bellica, il che accentua l’isolamento economico del Paese da parte dei Paesi democratici che vedono
nelle dittature europee un pericolo per la pace.

D) LA POLITICA ESTERA
In politica estera la componente nazionalista, connaturata all’ideologia fascista, promuove una
propaganda patriottica che rinverdisce le aspirazioni coloniali dell’Italia.
Nel 1935 ha inizio l’invasione dell’Etiopia per dare sfogo alle mire espansionistiche fasciste e per
mobilitare le masse al fine di distogliere l’attenzione dai problemi economico-sociali del Paese.
Mussolini pensa di poter sfruttare la tensione diplomatica creata in Europa dalla politica
aggressiva della Germania per far sì che le potenze democratiche guardino all’Italia come ad
un prezioso alleato. Però l’Etiopia è uno Stato indipendente, aderente alla Società delle Nazioni, ed
il nostro Paese ha agito senza alcuna dichiarazione di guerra. Francia e Gran Bretagna non possono
fare altro che condannare l’invasione, mentre la Società delle Nazioni decide di adottare sanzioni
economiche nei confronti dell’Italia che ha aggredito un Paese neutrale.
In verità, non fu mai data esecuzione a queste misure, il cui unico effetto fu quello di accrescere la
popolarità di Mussolini e di fare stringere l’opinione pubblica italiana intorno al dittatore, nel nome
della lotta dell’Italia “proletaria” contro le nazioni plutocratiche, e i loro immensi imperi coloniali.
Dopo sette mesi di resistenza gli etiopi cedono e il 5 maggio 1936, le truppe italiane entrano in
Addis Abeba. La conquista dell’Etiopia non produce risvolti economici positivi per il nostro
Paese, ma si traduce in un enorme successo politico di Mussolini: sono in molti, infatti, ad
avere la sensazione che l’Italia, grazie a Mussolini, sia entrata a far parte del circolo degli
Stati militarmente più forti.
Questa politica aggressiva, che tenta di imitare quella nazista, inasprisce i rapporti con le potenze
democratiche e la rottura viene accentuata dall’intervento italiano a sostegno della dittatura di
Franco nella guerra civile spagnola e dal progressivo riavvicinamento alla Germania (Asse Roma-
Berlino, 1936), che, sebbene sia stato voluto da Mussolini per fare pressione su Francia e Gran
Bretagna, si risolve poi nella subordinazione dell’Italia alle scelte di Hitler dopo la firma del Patto
d’acciaio nel 1939, sottoscritto a distanza di poco tempo dall’annessione coatta dell’Albania
all’Italia.
Tuttavia l’avvicinamento alla Germania – e la scelta tutta politica di promulgare leggi antisemite
(1938) per rinsaldare i rapporti con i tedeschi – suscitano preoccupazioni e dissensi nella
popolazione.
Del resto la stessa decisione di perseguire l’autarchia, cioè l’autosufficienza economica, stava di
fatto indebolendo l’economia italiana invece di rafforzarla e stava alienando simpatie al regime.
Infatti, nata per venire incontro alle esigenze di una politica estera espansionista e militarista, la
ricerca dell’autarchia si tradusse in un potenziamento degli investimenti nell’industria bellica a
svantaggio della produzione di beni di consumo. Inoltre, trattandosi di produzioni che richiedevano
materie prime di cui l’Italia era carente, il loro rafforzamento non faceva che accrescere il disavanzo
della bilancia commerciale.
Negli anni della dittatura mussoliniana gli antifascisti sono costretti al silenzio e all’esilio; solo i
comunisti si impegnano – peraltro con scarso successo – nell’agitazione clandestina.
Il regime fa tacere molte voci di opposizione ricorrendo anche all’assassinio: i fratelli Carlo e Nello
Rosselli ad esempio, che a Parigi avevano fondato il movimento “Giustizia e Libertà” (1929),
cadono sotto i colpi di sicari fascisti nel 1937. Uomini che sarebbero diventati protagonisti della
lotta di liberazione, come i socialisti Pietro Nenni, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e il comunista
Palmiro Togliatti, sono costretti all’esilio; altri scontano lunghi anni di carcere, come accade ad
Antonio Gramsci, che perde la vita a causa delle sofferenze patite durante la prigionia. L’unica
voce libera che si alza in patria contro il fascismo è quella del filosofo Benedetto Croce, protetto
dalla sua notorietà internazionale.
Molti esuli – repubblicani, democratici e socialisti – riunitisi in Francia, nel 1927, nella
“concentrazione antifascista”, svolgono opera di elaborazione politica in vista di una caduta del
regime che essi non sono stati in grado di provocare direttamente. In effetti, il vero merito
dell’antifascismo sarà quello di aver preparato la classe dirigente della futura Italia democratica.

Cronologia
1919 Nascita del Partito popolare italiano
Costituzione dei Fasci di combattimento (23 marzo)
D’Annunzio occupa Fiume (12 settembre)
1920 Governo Giolitti
Trattato di Rapallo e fine dell’occupazione di Fiume (12 novembre)
1921 Nascita del Partito comunista d’Italia
Nascita del Partito nazionale fascista
1922 Marcia su Roma (28 ottobre)
Governo Mussolini
Istituzione del Gran consiglio del fascismo
1924 Vittoria fascista alle elezioni
Delitto Matteotti
Secessione dell’Aventino
1926 Leggi fascistissime
Arresto di Gramsci
1927 Emanazione della Carta del lavoro
1929 Patti lateranensi
1934 Istituzione dell’ordinamento corporativo
1935 Invasione dell’Etiopia
1936 Asse Roma-Berlino
1937 L’Italia aderisce all’anti-Comintern ad esce dalla Società delle Nazioni
1938 Legislazione antisemita
1939 Annessione dell’Albania all’Italia
Patto d’acciaio tra Italia e Germania

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