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LA RIVOLUZIONE RUSSA

1. Il crollo dell’Impero zarista


La rivoluzione di febbraio - La prima grande potenza che crollò sotto il peso della Grande Guerra
fu l’Impero russo. Nel 1917 la situazione nel paese era molto grave: per più di due anni i soldati
avevano dovuto affrontare pesantissimi sacrifici, ma le operazioni belliche si erano rivelate
disastrose e i tedeschi stavano avanzando all’interno dei confini, mentre gli abitanti delle grandi
città pativano la fame. Fu in questo contesto che il 23 febbraio (l’8 marzo secondo il calendario
gregoriano) scoppiò nella capitale dell’Impero, Pietrogrado (il nome che aveva all’epoca San
Pietroburgo), un ampio e spontaneo moto di protesta: animato da migliaia di operai, proseguì nei
quattro giorni successivi dando luogo a duri scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Nella
notte tra il 26 e il 27 febbraio, anche i soldati si unirono agli operai e rifiutarono di tornare al fronte.
In poco tempo, la protesta si diffuse in tutto il paese e si trasformò in una vera e propria rivoluzione
contro il regime zarista, responsabile del disastro. Mentre gli insorti prendevano possesso della
capitale, Nicola II dovette abdicare in favore del fratello Michele; quest’ultimo, il 3 marzo 1917,
abdicò a sua volta: aveva così fine la secolare monarchia dei Romanov.

I nuovi partiti nella Russia rivoluzionaria - Tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del
Novecento in Russia erano nate nuove formazioni di orientamento liberale e socialista, sebbene i
partiti politici operassero spesso in condizioni di semiclandestinità a causa delle persecuzioni del
regime zarista.
Il Partito costituzionale democratico (detto anche “cadetto”, dalla pronuncia russa delle iniziali
KD) si era costituito ufficialmente nel 1905. I “cadetti” esprimevano posizioni liberali e
auspicavano una modernizzazione della Russia attraverso l’azione del Parlamento (la Duma).
Al 1898 risaliva invece la fondazione del Partito socialdemocratico russo da parte di Georgij
Plechanov. Di orientamento marxista, il partito si era presto diviso in due correnti che intendevano
organizzarlo in modi differenti: la corrente guidata da Julij Martov trovava un modello nel Partito
socialdemocratico tedesco, dunque in una formazione aperta alla partecipazione di chiunque si
riconoscesse nei suoi princìpi; l’altra corrente, guidata da Lenin (pseudonimo di Vladimir Il’ic
Ul’janov), pensava invece a un partito centralizzato, formato esclusivamente da un’avanguardia di
rivoluzionari di professione. Nel 1903, quando si tenne il congresso del partito, i sostenitori di
Lenin ottennero la maggioranza: la sua corrente fu chiamata per questo bolscevica (che in russo
significa “maggioritaria”), mentre quella di Martov fu chiamata menscevica (“minoritaria”).
Esisteva in Russia anche un’altra formazione socialista, il Partito socialista rivoluzionario,
fondato nel 1902. A differenza dei socialdemocratici, che rivolgevano il proprio interesse
principalmente alla classe operaia, i socialrivoluzionari o socialisti rivoluzionari guardavano
soprattutto al mondo contadino, dove riscuotevano ampi consensi. Il socialismo che volevano
realizzare era di tipo agrario e basato sulla cooperazione tra contadini.

Il “doppio potere” - Quando scoppiò la rivoluzione, la Duma nominò un governo provvisorio, la


cui guida fu assunta dal principe Georgij L’vov. Con l’eccezione del socialrivoluzionario Aleksandr
Kerenskij, il nuovo esecutivo era formato da esponenti del Partito costituzionale democratico e
poteva contare sul sostegno della borghesia e dei ceti medi delle città, ben contenti di sostenere un
nuovo indirizzo politico per il paese, liberale e parlamentare.
Ma le giornate di febbraio tolsero il bavaglio anche alle altre forze politiche, che avevano una base
sociale decisamente più ampia. Contemporaneamente al governo provvisorio, si era costituito,
prima a Pietrogrado e poi in tutto il paese, un nuovo organo di potere, quello dei soviet. Questi
organismi, che avevano già fatto la loro comparsa durante la rivoluzione del 1905, erano consigli
eletti direttamente dagli operai e dai soldati, di cui si facevano portavoce. Inizialmente non
ambirono a guidare il paese, ma, godendo di ampi consensi, si ritenevano liberi di prendere
decisioni in autonomia, nell’interesse di coloro che rappresentavano. Al loro interno, avevano una
posizione dominante i menscevichi e i socialrivoluzionari.
Si venne a creare in questo modo una situazione insidiosa, in cui il potere ufficialmente si trovava
nelle mani del governo provvisorio, ma di fatto era spartito tra questo e i soviet (“doppio potere”).

La guerra continua - Il nodo più urgente da affrontare riguardava l’atteggiamento da tenere nei
confronti della guerra ancora in corso. Il governo riteneva che il conflitto dovesse proseguire e che
gli obiettivi della Russia dovessero rimanere gli stessi di prima (così da tenere fede agli accordi
presi con gli Alleati). I soviet invece proposero quello che fu chiamato difensivismo
rivoluzionario: la guerra scoppiata nel 1914 era una guerra imperialistica, dunque estranea agli
ideali socialisti; di conseguenza doveva essere proseguita unicamente come guerra difensiva, al solo
scopo di preservare il territorio nazionale dall’aggressione dell’esercito straniero. Se la Russia ne
fosse uscita vincitrice, la sua avrebbe dovuto essere una vittoria “senza annessioni né indennità” e
lo Stato rivoluzionario avrebbe rinunciato a ogni acquisizione territoriale.
La linea dei soviet riuscì a prevalere; di conseguenza anche il governo mutò fisionomia poiché
entrarono a farne parte diversi menscevichi e socialrivoluzionari.

2. La rivoluzione d’ottobre
Lenin e le “tesi di aprile” - Durante gli avvenimenti di febbraio, molti rivoluzionari russi erano in
esilio. Tra questi anche Lenin, il leader bolscevico, che si trovava in Svizzera e che il 3 aprile riuscì
a fare ritorno in Russia attraversando la Germania. Il governo tedesco consentì il passaggio del
convoglio su cui viaggiava proprio nella speranza che il suo rientro in patria potesse indebolire
ulteriormente il nemico. Una volta giunto a Pietrogrado, Lenin presentò al Partito bolscevico le
cosiddette “tesi di aprile”, un documento che avrebbe inciso profondamente sugli eventi successivi.
Il testo ruotava intorno a pochi punti fondamentali:
• l’abbandono del difensivismo rivoluzionario e il raggiungimento della pace a ogni costo;
• la distribuzione della terra ai contadini;
• la rottura con il governo provvisorio e il passaggio di tutti i poteri ai soviet;
• la presa del potere attraverso una nuova rivoluzione.
Il documento era fortemente innovativo e, nell’ultimo punto, contraddiceva palesemente la dottrina
marxista: mentre questa prevedeva che la rivoluzione socialista avvenisse in paesi con uno sviluppo
capitalistico avanzato, e dunque escludeva la possibilità che potesse realizzarsi in un paese arretrato,
Lenin affermava che nella Russia contadina la rivoluzione socialista fosse realizzabile senza il
passaggio attraverso una preliminare fase borghese.

La crisi estiva - Intanto le iniziative del governo provvisorio non riuscivano a riportare la stabilità
nel paese, anzi, la situazione andava progressivamente deteriorandosi. Anche se condotta con
obiettivi difensivi, la guerra era osteggiata in misura crescente dai soldati, stremati dai
combattimenti e disposti a tutto pur di deporre le armi, anche ad ammutinarsi e a disertare. Gli
operai, nonostante alcuni risultati ottenuti con la rivoluzione di febbraio (fra cui il pieno esercizio di
diritti politici fondamentali come la libertà di parola, di sciopero e di associazione), continuavano a
subire gli effetti della gravissima crisi economica. Anche i contadini manifestavano un forte
scontento e, oltre alla pace, chiedevano la redistribuzione delle terre.
La situazione si aggravò ulteriormente nei mesi estivi. Tra il 3 e il 4 luglio a Pietrogrado alcuni
soldati legati ad ambienti bolscevichi e anarchici tentarono un’insurrezione con l’obiettivo di
abbattere il governo provvisorio e porre fine così alla guerra. Lenin e i dirigenti bolscevichi
ritenevano l’iniziativa prematura ma, non riuscendo a impedirla, cercarono di assumerne la
direzione. La rivolta fallì: anche il soviet di Pietrogrado - al cui interno i menscevichi e i socialisti
rivoluzionari continuavano ad avere una posizione maggioritaria - aiutò il governo nella sua
repressione; molti capi bolscevichi furono arrestati, mentre Lenin riuscì a fuggire in Finlandia.
Di lì a breve, nuovi eventi resero molto tesa la situazione del paese. Il principe L’vov non riuscì a
raccogliere intorno a sé una maggioranza politica e perciò rassegnò le dimissioni, rimettendo
l’incarico nelle mani del ministro della Guerra, Kerenskij. Il nuovo capo del governo tentò di
risollevare le sorti del conflitto con una grande offensiva in Galizia, regione compresa fra l’Ucraina
e la Polonia: l’iniziativa, anche a causa della stanchezza dell’esercito, si risolse in una disfatta.
L’episodio più carico di conseguenze, tuttavia, si verificò in agosto per via del contrasto tra
Kerenskij e il nuovo comandante dell’esercito, Lavr Kornilov, che aveva intenzione di riportare
l’ordine nelle forze armate con metodi molto duri. Quando Kornilov richiese un’estensione dei suoi
poteri e la guida delle truppe di Pietrogrado, Kerenskij rifiutò e, intuendo che il generale voleva
usare l’esercito per rovesciare il governo, gli revocò l’incarico. Kornilov a quel punto fece marciare
le truppe a lui fedeli verso la capitale. Il rischio che il tentativo controrivoluzionario avesse successo
era concreto: il governo ritenne allora opportuno, visto il pericolo, liberare i capi bolscevichi, gli
unici in grado di mobilitare le masse e di fermare Kornilov. Il loro intervento risultò determinante: il
colpo di Stato fallì e il comandante dell’esercito venne arrestato.

I bolscevichi al potere - Dal fallito colpo di Stato i bolscevichi uscirono come i principali vincitori:
si presero il merito di aver salvato la rivoluzione, mentre i loro dirigenti poterono uscire di prigione
(o dalla clandestinità). La crisi estiva permise inoltre ai bolscevichi di ottenere la maggioranza nei
soviet di Pietrogrado e di Mosca, ai danni dei socialrivoluzionari e dei menscevichi. Peraltro, fra le
masse gli slogan più ricorrenti cominciarono a essere quelli bolscevichi: “Tutto il potere ai soviet!”,
“Pace ad ogni costo!”, “La terra ai contadini!”. Dato lo stato delle cose, Lenin - che nel frattempo
era rientrato clandestinamente a Pietrogrado - ritenne che i tempi fossero maturi perché i
bolscevichi prendessero il potere attraverso un’insurrezione armata. Tra il 24 e il 25 ottobre 1917
(6 e 7 novembre secondo il calendario gregoriano) i bolscevichi passarono all’azione: nella notte del
24 alcune formazioni armate assunsero senza difficoltà il controllo dei punti strategici di
Pietrogrado; il giorno successivo fu invece conquistato il Palazzo d’Inverno (sede del governo) e
Kerenskij dovette fuggire.

3. Il nuovo regime bolscevico


Lenin al potere: i primi provvedimenti - Lenin propose e fece approvare un documento che
attribuiva formalmente tutto il potere ai soviet. Tra i primi atti del congresso sovietico - che ebbe
luogo il 25 ottobre e che fu abbandonato dai menscevichi e dai socialrivoluzionari in segno di
protesta verso l’iniziativa bolscevica - vi fu la ratifica di due decreti fondamentali. Il primo era il
decreto sulla pace, con cui si chiedeva la fine della guerra e si affermava il diritto di tutti i popoli
all’autodeterminazione: oltre che a ottenere la pace, il decreto mirava chiaramente a delegittimare il
dominio imperialista delle potenze europee. Subito dopo fu approvato il decreto sulla terra, che
aboliva la proprietà privata della terra e stabiliva che questa venisse messa a disposizione dei soviet
dei contadini.
Furono inoltre presi altri importanti provvedimenti, come la nazionalizzazione delle industrie e
delle banche e il controllo operaio delle imprese. Inoltre, il governo introdusse la giornata di otto
ore lavorative, vietò il lavoro infantile e rese obbligatoria l’assicurazione contro disoccupazione e
malattia.
Fu anche creato un nuovo organo di governo, il Consiglio dei commissari del popolo, alla guida
del quale si pose Lenin e di cui facevano parte quindici membri, tra cui Lev Trotskij (che venne
nominato ministro degli Esteri) e Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin (nominato ministro
delle Nazionalità, incaricato di curare i rapporti con i diversi popoli che facevano parte dell’ex
Impero zarista). In questo modo, Lenin riuscì a essere contemporaneamente capo del governo e
capo del Partito bolscevico.
Parallelamente ai provvedimenti in favore del popolo, i bolscevichi attuarono una stretta
autoritaria: oltre a chiudere alcuni giornali, misero sotto controllo radio e telegrafi e confiscarono i
beni ecclesiastici e quelli dello zar. Inoltre fu creata una polizia politica, la Čeka, a cui fece seguito
l’istituzione dei tribunali rivoluzionari il cui compito sarebbe stato quello di giudicare e punire i
“nemici della rivoluzione”.

Verso la “dittatura del proletariato” - Un’ulteriore prova della deriva autoritaria bolscevica si ebbe
con la questione dell’Assemblea costituente. Le elezioni per convocare questo organo si erano
tenute nel novembre del 1917 a suffragio universale. I bolscevichi, tuttavia, avevano conquistato
solo il 25% dei voti, mentre i socialrivoluzionari, grazie all’ampio consenso di cui godevano nelle
campagne, avevano ottenuto il 58%. Di fronte a un esito così deludente, i bolscevichi sciolsero
l’Assemblea con la forza. Lenin aveva espressamente tacciato l’Assemblea costituente di essere lo
strumento del parlamentarismo borghese e aveva rivendicato il diritto del proletariato di imporre la
propria dittatura mediante il governo dei soviet.
Nel luglio del 1918 fu varata una Costituzione che, oltre a prevedere la nascita di uno Stato
federale, nel suo preambolo, la Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato,
proclamava l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’edificazione di un socialismo
che, in futuro, avrebbe portato all’abolizione delle classi e dello Stato.
Secondo Lenin per realizzare compiutamente la rivoluzione, sarebbe stato necessario, almeno in una
prima fase, imporre la dittatura del proletariato. A quelli che erano considerati gli sfruttatori della
classe lavoratrice (gli aristocratici, i ricchi borghesi e i grandi proprietari terrieri) sarebbe stata
negata la partecipazione alla vita politica. Fu sulla base di queste considerazioni che i bolscevichi
agirono senza mostrare alcun rispetto per la legalità e i princìpi democratici, convinti di
rappresentare la volontà della maggioranza della popolazione. Per Lenin la libertà per i lavoratori
non consisteva tanto nell’esercizio del diritto di voto nell’ambito di un sistema politico
democratico, quanto, piuttosto, nell’emancipazione economica, cioè nell’abolizione della proprietà
privata della terra e nella messa in comune dei mezzi di produzione.

Una rivoluzione anche culturale - Cogliendo la necessità di promuovere tra la popolazione il


proprio operato, i bolscevichi misero rapidamente in piedi un efficace sistema di propaganda. Sin
dal 1917 fu creato un Dipartimento per l’agitazione e la propaganda (Agit-Prop), incaricato di
comunicare gli obiettivi e le conquiste della rivoluzione a tutta la popolazione, anche nelle zone
rurali più remote dello sterminato paese. A questo scopo furono allestiti treni speciali, che dovevano
raggiungere le località più sperdute e diffondere - attraverso l’esposizione di manifesti e la
proiezione di filmati - i messaggi politici più importanti: l’utilizzo di questi media non era casuale,
dato l’elevato numero di analfabeti, perché permetteva di rendere i messaggi comprensibili a tutti.
Conquistare le campagne alla causa rivoluzionaria era un obiettivo fondamentale in un paese ancora
per la maggior parte agricolo.
A realizzare questo tipo di comunicazione politica furono chiamati alcuni fra i più brillanti
esponenti delle Avanguardie e del Futurismo russo. I messaggi toccavano i temi politici cari al
Partito bolscevico: la condanna delle classi sfruttatrici (capitalisti, religiosi, kulaki), l’invito
all’aumento della produttività, l’esortazione alla lotta contro i nemici del popolo, ma anche la
celebrazione delle conquiste raggiunte.

La rivoluzione nel contesto internazionale - A livello internazionale, l’azione del nuovo governo
non si esaurì con il decreto sulla pace. Poiché la guerra proseguiva, i bolscevichi dovettero presto
affrontare il problema di una pace separata con gli Imperi centrali. Diversamente da quanto si
sperava all’indomani della rivoluzione (una pace senza indennità di guerra o perdite territoriali), il
trattato di Brest-Litovsk fu estremamente oneroso. Un’ulteriore questione era rappresentata dal
significato della rivoluzione al di fuori della Russia: la presa del potere da parte dei bolscevichi non
costituiva un risultato definitivo, ma solo il primo passo di una rivoluzione a livello mondiale. A
questo scopo, nel marzo 1919 venne fondato a Mosca il Komintern, ovvero un’Internazionale
comunista (o Terza Internazionale) che doveva coordinare l’azione dei partiti comunisti di tutto il
mondo. Un rilievo fondamentale ebbe il II congresso (1920), in cui fu indicato quale obiettivo
principale del comunismo la rottura con la socialdemocrazia e con ogni interpretazione riformista
del socialismo. Lenin stese un documento in cui venivano indicate le condizioni che i partiti
interessati a entrare nel Komintern avrebbero dovuto rispettare: tra queste, oltre all’obbligo di
chiamarsi comunisti, l’esclusione dal partito di chi sosteneva la linea riformista.

4. La guerra civile e le spinte centrifughe nello Stato sovietico


I "bianchi" e l'intervento alleato - Anche dopo la pace di Brest-Litovsk la Russia non conobbe né
la stabilità né la pace; al contrario sprofondò in una sanguinosa guerra civile. In diverse zone del
paese, sin dalla fine del 1917 i generali fedeli allo zar e ostili ai bolscevichi avevano organizzato le
loro truppe per combattere il governo comunista (accadde lungo il fiume Don, dove insorsero i
cosacchi, in Ucraina, il cui Parlamento rifiutò di riconoscere legittimità al nuovo governo, e lungo
la ferrovia Transiberiana). Nei territori sotto il loro controllo, gli eserciti controrivoluzionari
(detti "bianchi" in opposizione ai "rossi", i comunisti), si abbandonarono a violenze di ogni tipo e
massacrarono chiunque fosse sospettato di collaborare con i bolscevichi. Furono organizzati anche
pogrom antiebraici, nella convinzione che gli ebrei fossero responsabili di quanto accaduto.
Da parte loro, i paesi dell'Intesa inviarono truppe e finanziamenti a sostegno dei
controrivoluzionari; oltre ad accusare i bolscevichi di tradimento per aver raggiunto una pace
separata con la Germania, temevano infatti che la rivoluzione potesse diffondersi fuori della Russia.
Truppe britanniche e francesi, statunitensi e giapponesi sbarcarono così in molti porti della Russia.

La guerra civile - Per far fronte alla controrivoluzione, i bolscevichi organizzarono rapidamente un
loro esercito, l'Armata rossa (dal colore che simboleggiava la rivoluzione). Il tentativo iniziale di
costituire un esercito di volontari fallì e il governo decretò un servizio militare obbligatorio. Il
nuovo esercito, i cui ufficiali venivano scelti spesso tra i membri del vecchio esercito zarista,
rappresentava un fondamentale strumento di consenso per il regime, oltre che la principale via di
ascesa sociale.
Al terrore bianco i rivoluzionari risposero col terrore rosso, organizzando fucilazioni di massa di
avversari politici o anche soltanto di persone che, per la loro condizione sociale, erano considerate
nemiche del popolo: nobili, preti e ricchi borghesi. Lo stesso zar Nicola II e tutta la sua famiglia -
imprigionati in Siberia - vennero fucilati nel luglio 1918: Lenin temeva infatti che i
controrivoluzionari potessero liberare i Romanov e riportarli sul trono. Gli scontri più sanguinosi tra
Armata rossa e Armata bianca (come venne chiamato l'esercito di controrivoluzionari) avvennero
nel 1919, quando i bianchi sferrarono tre diverse offensive, tutte respinte con successo dai "rossi".
Tra il 1919 e il 1920, la controffensiva rivoluzionaria costrinse gli avversari alla ritirata, mettendo in
fuga anche i contingenti stranieri.

Le spinte centrifughe - Il governo bolscevico dovette affrontare un ulteriore problema,


rappresentato dalla natura stessa dell'Impero russo, molto esteso e comprendente numerose
nazionalità al suo interno. La rivoluzione si era sviluppata a partire dalla Russia (Mosca e
Pietrogrado erano stati i centri insurrezionali principali) e solo successivamente aveva toccato le
altre aree del paese. Anche per questa ragione - e in accordo con la Costituzione del 1918 - i
bolscevichi avevano dato vita a una nuova entità statale federale, la Repubblica Socialista
Federativa Sovietica Russa (RSFSR) e proclamato il diritto all'autodeterminazione dei popoli.
Questo principio aprì però la via alla secessione di alcuni dei territori che facevano parte
dell'Impero zarista. La Finlandia si era dichiarata indipendente già nel 1917 e venne riconosciuta
dallo Stato sovietico. L'anno successivo dichiararono la loro indipendenza le tre repubbliche
baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania; il governo sovietico cercò di riappropriarsi con la forza di
questi territori, ma non vi riuscì. Ottennero l'indipendenza anche alcuni paesi del Caucaso
(Georgia, Armenia e Azerbaigian), che furono però riassoggettati dalla RSFSR tra il 1920 e il
1921 e vennero uniti a formare la neonata Repubblica Socialista Federativa Sovietica
Transcaucasica. La Bielorussia, subito dopo il ritiro delle truppe tedesche, fu occupata dall'Armata
rossa e venne costituita come Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa.
Il diritto all'autodeterminazione, insomma, proclamato a livello formale, di fatto non venne
accettato dal nuovo Stato sovietico. In questo senso il conflitto più aspro fu quello che oppose la
Polonia e la RSFSR. Tra il 1918 e il 1919 era scoppiata un'insurrezione nei territori polacchi
occupati dalla Germania: i moti avevano avuto successo e il paese si era reso indipendente. I confini
occidentali dello Stato polacco erano stati fissati con il trattato di Versailles, ma le frontiere
meridionali e orientali erano ancora oggetto di disputa. Il maresciallo Jozef Pilsudski assunse la
guida della Polonia con l'intento di mettere al sicuro il suo paese da ogni tentativo del governo
bolscevico di riprendere il controllo dei territori che prima della guerra erano sotto il controllo
russo. Il conflitto polacco-sovietico - che si sovrappose alla guerra civile contro i bianchi - ebbe fine
solamente nel marzo 1921, quando venne firmata la pace di Riga, che, per quanto ritenuta
insoddisfacente da entrambe le parti, perlomeno stabilizzò il confine orientale della Polonia.
Più complicata si rivelò la questione ucraina: nel paese si combatté una lunga guerra civile che
vide scontrarsi, fra il 1917 e il 1922, i nazionalisti (sostenitori dell'indipendenza), i bolscevichi
ucraini (desiderosi di restare legati alla Russia), le truppe controrivoluzionarie (sostenute dai paesi
occidentali) e l'esercito del ricostituito Stato polacco. Solo nel 1922 l'Armata rossa riuscì a piegare
ogni forma di resistenza e a riprendere il controllo sull'Ucraina.

L’affermazione delle forze bolsceviche - Alla fine del 1920, dopo tre anni di guerra civile, i
bolscevichi ripresero possesso dell'intera Russia, anche se non tutti i territori che facevano parte
dell'Impero zarista erano stati riassorbiti nello Stato sovietico. Nel frattempo Mosca era tornata a
essere la capitale del paese.
Il fallimento della controrivoluzione fu dovuto a più fattori. L'Armata rossa era più entusiasta e
meglio inquadrata degli eserciti bianchi e fra i suoi capi emersero alcuni valenti organizzatori,
primo fra tutti Trotskij. I bolscevichi dimostrarono inoltre una notevole capacità propagandistica e,
sfruttando al massimo i mezzi di comunicazione a loro disposizione, si presentarono come difensori
della Russia contro coloro che si erano alleati con gli stranieri. Da parte loro, i bianchi dimostrarono
di non avere alcun programma, se non quello di tornare alla situazione precedente la rivoluzione, e
non furono dunque in grado di canalizzare le aspirazioni politiche dei russi che non si
riconoscevano nel bolscevismo.

La Chiesa ortodossa russa e il comunismo - Gli anni successivi alla guerra civile furono anche
quelli in cui si inasprì l'offensiva del governo bolscevico contro la Chiesa ortodossa. Fin dal loro
arrivo al potere, i bolscevichi avevano cercato di eliminare l'influenza esercitata dall'istituzione
ecclesiastica sulla società russa. Il primo passo in tal senso era stato compiuto nel 1918 con
l'emanazione del decreto che stabiliva la separazione tra Stato e Chiesa. Vennero inoltre sequestrati
e nazionalizzati beni, scuole e istituti ecclesiastici e fu proibito l'insegnamento religioso. Tuttavia
l'appoggio, effettivo o presunto, della Chiesa all'esercito bianco offrì l'occasione al governo
bolscevico per attuare una politica repressiva che sfociò - tra il 1921 e il 1923 - in un'ondata di
arresti tra il clero ortodosso russo. Le iniziative antireligiose dello Stato bolscevico diminuirono di
intensità solamente nel corso della Seconda guerra mondiale, quando l'Unione Sovietica sembrò sul
punto di capitolare e cercò anche il sostegno della Chiesa ortodossa per sconfiggere i nazisti.

5. La politica economica dal comunismo di guerra alla NEP


Il comunismo di guerra - Quando i bolscevichi giunsero al potere, l'economia russa era gravemente
in crisi a causa sia della guerra sia della rivoluzione: la produzione di beni era inferiore rispetto al
fabbisogno della popolazione e i sistemi di scambio e di distribuzione erano completamente
saltati, cosicché le città non potevano approvvigionarsi dalle campagne.
Il governo affrontò la situazione attraverso quello che è stato definito "comunismo di guerra",
ovvero una serie di provvedimenti, decisi dall'alto e attuati in modo coercitivo, tesi a garantire in
tempi brevi una produzione e una distribuzione adeguate all'interno del paese. In maniera del tutto
antitetica rispetto all'idea liberista di un mercato che si regola da sé, l'economia russa fu interamente
diretta dallo Stato. Nel 1918 era stata decretata la nazionalizzazione delle industrie: in questo
modo la quantità di merci da produrre veniva decisa dal governo in base a criteri stabiliti
centralisticamente.
Parallelamente, furono creati dei comitati di contadini poveri a cui venne affidato l'incarico di
sequestrare ai contadini benestanti tutti i prodotti in eccedenza (che sarebbero stati impiegati per
garantire l'approvvigionamento delle città). L'anno successivo il meccanismo delle requisizioni fu
perfezionato e ogni autorità locale (provincia, distretto, villaggio) divenne responsabile della
raccolta, con l'obbligo di consegnare una quota fissa di prodotti.

Vecchi e nuovi problemi - Nel complesso il comunismo di guerra si rivelò fallimentare e produsse
più problemi di quelli che mirava a risolvere. I comitati dei contadini, infatti, ricavavano la quota di
prodotti da consegnare requisendola non solo ai contadini più ricchi, ma anche a quelli meno
abbienti, che videro peggiorare drammaticamente la loro condizione: questo portò,
conseguentemente, alla perdita di consenso nelle campagne da parte del bolscevismo. Peraltro il
sistema delle requisizioni non riuscì neppure a soddisfare i bisogni delle città. Pur garantendo
l'approvvigionamento, i prodotti sequestrati non erano sufficienti a soddisfare la domanda. Ciò
dipendeva in buona parte dal fatto che, non potendo conservare per loro le eccedenze, i contadini
non avevano interesse a produrre beni che oltrepassassero le esigenze dell'autoconsumo.
Il "comunismo di guerra" favorì la formazione di un mercato nero. Della sua esistenza il governo
era perfettamente consapevole, tuttavia, le misure adottate non furono in grado di contrastare il
fenomeno. Questa costante attenzione al problema degli approvvigionamenti alimentari generò
anche una forte contrapposizione tra le città e le campagne, creando un crescente dissidio tra gli
operai e i contadini, la cui unità era uno dei capisaldi della rivoluzione bolscevica.
In queste condizioni, esplosero inevitabilmente nuove rivolte, alcune delle quali ebbero un impatto
considerevole. Anche dall'esercito emersero segnali preoccupanti riguardo al consenso dei
bolscevichi. Tra i casi più eclatanti vi fu l'ammutinamento dei marinai della base sull'isola di
Kronštadt, che si ribellarono contro il governo chiedendo il ripristino delle libertà politiche e la
fine delle requisizioni nelle campagne. Iniziata il 28 febbraio 1921, l'insurrezione fu rapidamente
repressa ma lasciò il segno, rappresentando il sintomo più evidente di una condizione di malessere
verso l'autoritarismo bolscevico.

La NEP - L’8 marzo 1921 si aprì il X congresso del Partito, durante il quale fu varata una nuova
politica economica, la cosiddetta NEP (dalle iniziali dei tre termini in russo). La scelta di Lenin di
cambiare linea dipese sicuramente dalle ribellioni in corso e dalla terribile carestia che aveva colpito
il paese (che si protrasse fino al 1922 e fu causa di diversi milioni di morti), ma non va considerata
semplicemente come una misura eccezionale per far fronte alle difficoltà del momento. Da tempo
Lenin aveva maturato la consapevolezza che, per realizzare il socialismo in Russia, servissero un
processo lungo e graduale e la creazione di condizioni ancora assenti nel paese.
La NEP determinò il superamento di tutte le principali misure del comunismo di guerra. Il sistema
di requisizioni fu eliminato e ai contadini fu lasciata la possibilità di conservare le eccedenze,
magari vendendole per arricchirsi (l'unico obbligo era quello di consegnare una parte del raccolto).
Contestualmente, venne ripristinata la libertà di commercio, e i prezzi, anziché essere fissati dallo
Stato, tornarono a dipendere dalle leggi del mercato. Anche le piccole imprese furono coinvolte nel
processo di liberalizzazione, mentre lo Stato mantenne il controllo delle industrie maggiori.
La NEP diede i suoi frutti e negli anni Venti l'economia sovietica ricominciò a crescere,
raggiungendo i livelli d'anteguerra. Molti però non erano soddisfatti: i rivoluzionari del partito
temevano di veder tradito l'ideale comunista; gli operai delle grandi città vedevano i bottegai
arricchirsi, ma non avevano percepito un significativo miglioramento delle loro condizioni di vita; i
contadini più poveri avrebbero preferito, invece del ritorno alla proprietà privata, qualche forma di
gestione egualitaria e collettiva della terra, come peraltro si usava da secoli nelle campagne russe.
Con tanti avversari, la NEP era destinata a non durare.

6. La nascita dell'Unione Sovietica e la morte di Lenin


Nascita dell’Urss - Come l'Impero zarista, anche la Russia rivoluzionaria aveva un carattere
multinazionale. Tuttavia, mentre prima del 1917 le popolazioni non russe erano di fatto sottomesse
a quella russa, fin dall'inizio i bolscevichi promisero a ciascun popolo la possibilità di
autodeterminarsi liberamente. Tale progetto trovò espressione, il 30 dicembre 1922, con la nascita
dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss). Si trattava di un'unione federale, che
legava alla Russia le altre Repubbliche nate dalla caduta dell'impero e che si trovavano sotto la
guida dei bolscevichi locali: Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia. L'Urss fu riconosciuta a livello
internazionale dapprima dalla Germania e successivamente dalle altre potenze mondiali.
Due anni dopo, nel 1924, fu approvata una nuova Costituzione che definiva le competenze del
governo federale, individuate, oltre naturalmente che nella gestione degli affari esteri e della difesa,
anche nella politica finanziaria e commerciale. Tuttavia l'aspetto federativo del nuovo Stato era
quasi interamente vanificato dall'onnipresenza del Partito comunista, vero detentore del potere, che
da Mosca dirigeva l'azione governativa.

La successione a Lenin - Il 1924 fu anche l'anno della morte di Lenin. Grazie alla sua indiscussa
autorevolezza, Lenin aveva limitato i conflitti tra i dirigenti bolscevichi. Con la sua scomparsa,
emersero tutte le rivalità latenti e si aprì di fatto una lotta per la successione alla guida del partito.
Tra i candidati, due figure in particolare sembravano destinate a contendersi il ruolo: Trotskij e
Stalin. Il più evidente motivo di attrito fra i due risiedeva nella differente visione dello sviluppo del
socialismo. Trotskij era un fautore della teoria della "rivoluzione permanente" ossia della necessità
di innescare un processo rivoluzionario su scala mondiale, a partire dai paesi economicamente più
avanzati; Stalin, invece, aveva elaborato la teoria del "socialismo in un solo paese", in base alla
quale era indispensabile prima rafforzare e consolidare lo Stato sovietico, per poi farne un modello
per gli altri paesi in vista dello scoppio di una rivoluzione mondiale. Del resto non solo su questa,
ma su moltissime questioni i due avevano posizioni antitetiche; al contempo, entrambi godevano del
prestigio e del potere necessari per poter ambire a dirigere il partito e lo Stato. Trotskij doveva la
sua fama all'avere comandato l'Armata rossa durante la guerra civile; Stalin era riuscito ad acquisire
un potere crescente esercitando la carica di segretario generale del partito. Lenin nel suo testamento
politico si raccomandò di destinare Stalin a un altro ruolo: temeva i pericoli che sarebbero potuti
nascere lasciandogli gestire l'immenso potere derivante dalla sua carica. Malgrado il suo monito
profetico fu proprio Stalin a imporsi nella lotta per la successione alla guida dell'Unione Sovietica.

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