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ANTOLOGIA TORINESE

Giornali e giornalismo

La Città Futura 11 feb 1917 - pag. 3


L’Ordine nuovo - Cronache dell’Ordine Nuovo [XXIV] 10 1 20 - pag. 4
Delfino Orsi (Gazzetta del Popolo) 6 set 1917 - pag. 6
È proprio solo stupidaggine? (Gazzetta del Popolo) 10 set 1920 - pag. 7
Per chiarire le idee sul riformismo borghese (Gazzetta di Torino) 11 dic 1917 - pag. 10
Nazione e pescicani (Gazzetta di Torino) 28 gen 1918 - pag. 13
La Compagnia di Gesù (La Stampa) 9 ott 20 - pag. 15
Inganni (La Stampa) 26 apr 21 – pag. 18
Fascismo giornalistico (La Stampa) 13 mag 1921 – pag. 21
«La Stampa» e i fascisti (La Stampa) 24 lug 1921 – pag. 24
Lo stecco forcelluto e il dito di Dio (Il Momento) 16 giugno 1921 – pag. 27
Cristianucci... (Il Momento) 25 gen 1922 – pag. 29
Perché si tace il nome del ten. Mariani? (Quotidiani Torinesi) 8 gen 1922 – pag. 31

Fiat

La Fiat diventerà una cooperativa (Avanti!) 1 ott 20 – pag. 33


L’avvento della democrazia industriale 6 apr 21 (L’Ordine Nuovo) – pag. 37
Uomini di carne e ossa 8 mag 21 (L’Ordine Nuovo) – pag. 39
La sconfitta della Fiat 6 sett 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 42
Gestione capitalistica e gestione operaia 17 sett 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 45

La nostra Torino

Parole! Parole ! Parole! 26 feb 1916 (Il Grido del Popolo) – pag. 47
Una forma di plusvalore 2 mar 1916 (Avanti!) – pag. 49
Preludio 17 mag 1916 (Avanti!) – pag. 51
Stenterello 10 mar 1917 (Avanti!) – pag. 53
Si domanda la censura 16 nov 1917 (Avanti!) – pag. 56
Un caso di malavita teatrale 31 mar 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 57
Lettera a Carlo 12 nov 1927 – pag. 60

Lotta di classi

Il riformismo borghese 5 dic 1917 (Avanti!) – pag. 63


Il potere proletario 7 lug 1919 (Avanti!) – pag. 65
I nostri fratelli sardi 16 lug 1919 (Avanti!) – pag. 67
Un fungo porcino 3 ott 1919 (Avanti!) – pag. 69
Torino e l’Italia 3 apr 1920 (Avanti!) – pag. 71
La forza della rivoluzione 8 mag 1920 (L’Ordine Nuovo) – pag. 73
La guerra è la guerra 31 gen 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 76
L’attacco a Torino 28 apr 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 80
Il prezzemolismo 18 giu 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 82
Aprile e settembre 1920 7 set 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 85
La mula di Alcionio 16 set 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 87
I più grandi responsabili 20 set 21 (L’Ordine Nuovo) – pag. 89

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Il «Delirium tremens» dei socialisti 20 nov 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 92
Solidarietà operaia 7 dic 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 96

Persone

Parole, parole, parole… (Francesco Ruffini) 27 nov 1915 (Il Grido del Popolo) – pag. 98
Pietà per la scienza del prof. Loria (A.Loria) 16 dic 1915 (Avanti!) – pag. 100
Da De Sanctis a…Cian 18 gen 1916 (Avanti!) – pag. 102
Il capintesta (Vittorio Cian) 20 gen 1916 (Avanti!) – pag. 103
Per un mandarino dell’università (Vittorio Cian) 17 mag 1916 (Avanti!) – pag. 105
Bollettino del fronte interno (Vittorio Cian) 6 lug 1916 (Avanti!) – pag. 107
Letteratura Italica: 2) La poesia (Arturo Foà)19 apr 1917 (Avanti!) – pag. 109
Il Cottolengo e i clericali (Giuseppe Cottolengo) 30 apr 1917 (Avanti!) – pag. 111
L’esercentismo politico dell’on. Bevione 11 lug 17 (Avanti!) – pag. 113
L’Ultimo tradimento (Achille Loria) 3 gen 1918 (Avanti!) – pag. 114
Achille Loria 19 gen 1918 (Il Grido del Popolo) – pag. 116
Polledro come politico estero 23 mar 1918 (Il Grido del Popolo) – pag. 119
Einaudi o dell’utopia liberale 25 mag 1919 (Avanti!) – pag. 120
La guerra continua, signori…(Vittorio Cian e Pietro Romano) 20 gen 1920 (Avanti!) – pag. 123
Franche parole ad un borghese (Umberto Cosmo) 5 nov 1920 (Avanti!) – pag. 124
L’on. Carlo Gagliazzo 22 dic 1921 (L’Ordine Nuovo) – pag. 127

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“LA CITTÀ FUTURA”

Con questo titolo uscirà fra qualche giorno un numero unico, pubblicato a cura della
Federazione giovanile piemontese dedicato appunto ai giovani. Vorrebbe essere un invito
e un incitamento. L'avvenire è dei giovani. La storia è dei giovani. Ma dei giovani che,
pensosi del compito che la vita impone a ciascuno, si preoccupano di armarsi
adeguatamente per risolverlo nel modo che più si confà alle loro intime convinzioni, si
preoccupano di crearsi quell'ambiente in cui la loro energia, la loro intelligenza, la loro
attività trovino il massimo svolgimento, la più perfetta e fruttuosa affermazione. La guerra
ha falciato i giovani, ha specialmente tolto alle loro fatiche, alle loro battaglie, ai loro sogni
splendidi di utopia, che non era poi tale perché diventata stimolo di azione e di
realizzazione, i giovani. Ma l'organizzazione giovanile socialista non ne ha in verità troppo
sofferto in sé e per sé. Le migliaia di giovani strappati alle sue lotte, sono stati sostituiti
subito. Il fatto della guerra ha scosso come una ventata gli indifferenti, i giovani che fino a
ieri si infischiavano di tutto ciò che era solidarietà e disciplina politica. Ma non basta, non
basterà mai. Occorre ingrossare sempre più le file e serrarle. L'organizzazione ha
specialmente fine educativo e formativo. E' la preparazione alla vita più intensa e piena di
responsabilità del partito. Ma ne è anche l'avanguardia, l'audacia piena di ardore. I giovani
sono come i veliti leggeri e animosi dell'armata proletaria che muove all'assalto della
vecchia città infracidita e traballante per far sorgere dalle sue rovine la propria città.
Nel numero unico saranno discussi alcuni importanti problemi della propaganda e della
vita socialista. Esso sarà posto in vendita a due soldi la copia. Si manderà a chiunque ne
faccia richiesta con una cartolina doppia. I circoli e i rivenditori che ne desiderassero un
certo numero di copie rivolgano le loro richieste alla Federazione giovanile socialista in
Corso Siccardi, 12 Torino.

“Il Grido del Popolo”, n. 655, 11 febbraio I9I7, e “Avanti!”, anno XXI, n. 43,12 febbraio
1917.

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CRONACHE DELL’“ORDINE NUOVO” [XXIV]

L’“Humanité”, organo ufficiale del Partito socialista francese, nel suo numero del 27
dicembre scorso, riporta nei suoi punti essenziali la mozione per la costituzione dei
Consigli di fabbrica votata al Congresso camerale di Torino da 38 mila operai organizzati,
e la commenta in modo molto favorevole. In essa, e nel fatto che in tutta Italia ormai la
quistione dei Consigli è posta e aspetta da parte delle masse una soluzione, l’“Humanité”
vede un segno della maturità politica del proletariato italiano che, mentre l’istituto
parlamentare viene progressivamente decomponendosi, inizia i primi esperimenti per la
creazione degli organi attraverso i quali i lavoratori potranno assumere la direzione della
società che la gestione borghese ha portato allo sfacelo, discute l’estensione delle loro
attribuzioni, cerca di determinare con esattezza il loro compito e i rapporti loro con gli
organismi esistenti.
Informando il pubblico francese sul movimento italiano, l’“Humanité” ha anche parole
per noi lusinghiere di elogio. La nostra rivista e il tono elevato delle discussioni che in essa
si fanno sono portati come esempio dell’alto grado di sviluppo intellettuale, della buona
educazione politica e sociale dei lavoratori che la leggono e la sostengono. È certo che noi
non rifuggiamo, come dice lo scrittore dell’“Humanité”, dall’entrare in particolari di carattere
teorico, dal richiedere al nostro lettore uno sforzo sostenuto e prolungato di attenzione, e
ciò facciamo con piena convinzione di agire onestamente e da buoni socialisti, se non
proprio da giornalisti accorti e studiosi di popolarità e di diffusione.
Sì, è vero, abbiamo pubblicato articoli “lunghi”, studi “difficili”, e continueremo a farlo,
ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza e dalla gravità degli argomenti; ciò è nella
linea del nostro programma: non vogliamo nascondere nessuna difficoltà, crediamo bene
che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora coscienza dell’estensione e della serietà dei
compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto trattare i lavoratori come uomini cui
si parla apertamente, crudamente, delle cose che li riguardano. Purtroppo gli operai e i
contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere
guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe
alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori.
Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai
più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia,
con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre
merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è

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nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi
sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un
lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una
chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta “popolare”, una sinfonia di
Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui,
rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino
come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore,
diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno
schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande
passo in avanti sarà già fatto.

“L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 33, 10 gennaio 1920.

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DELFINO ORSI

Delfino Orsi ha taciuto. Delfino Orsi ha vigliaccamente diffamato il Partito socialista nei
suoi uomini rappresentativi e nei suoi militi tutti più fedeli. Ha diffamato le classi lavoratrici.
Gli furono chieste privatamente e pubblicamente le prove delle sue denunce, ed egli non
ha risposto sillaba.
Il signor conte Delfino Orsi, direttore della “Gazzetta del Popolo”, tripudia sozzamente in
questi giorni, mettendo in vetrina le oscenità della sua spaventosa nudità morale.
Il ribrezzo che sentiamo nel riprendere la penna in mano per parlare di quest’uomo, che
giace ancora sotto l’accusa infamante di malversazioni, che si dice erede della tradizione
di Giovanni Bottero – e la tradizione è tutta nell’accusa, mossa al Bottero dai suoi ex amici
liberali, di essere una spia, senza che l’accusato si rivoltasse in un solo scatto di protesta
– rassomiglia tutto al senso di ribrezzo provato dai fanciulli per il fetore conservato nelle
mani per qualche giorno e di cui i nervi hanno trattenuto l’impressione tenace, del sangue
di una biscia acquaiola scuoiata per vendicare la morte di un uccelletto di nido.
Il signor conte Delfino Orsi non ha niente di rispettabile: è roso dall’abiezione fino alle
midolla. Non è l’uomo che si drizza orgogliosamente per la difesa di una casa e di un
focolare e non misura all’avversario: è l’abiezione lurida che tenta di insozzare
l’avversario, che cerca diminuirlo, che gioirebbe di vederlo avviluppato in una rete tenace e
schifosa di fili di bava per fargli intorno la gazzarra della debolezza, […].
Ma il conte Delfino Orsi non riesce. La sua abiezione si affloscia nel disprezzo. Il […].

“Avanti!”, anno XXI, n. 247, 6 settembre 1917.

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È PROPRIO SOLO STUPIDAGGINE?

Meritano un certo rilievo le notizie e i commenti che sull’azione degli operai metallurgici
va pubblicando la “Gazzetta del Popolo”. Gli scrittori di questo giornale hanno, nello
svolgersi della storia italiana, la stessa importanza che, nella storia di una famiglia, ha un
cencio mestruato: essi devono essere tenuti d’occhio come esponenti di una sottoclasse
sociale che trae importanza solo dal discreto numero dei suoi componenti, numero che
determinerà, a un certo momento, un problema di polizia proletaria.
Gli scrittori della “Gazzetta” sono essi stessi un documento della cattiva posizione
storica oggi occupata dalla borghesia: questi miseri e infelici artefici di quattro pagine
quotidiane di prosa dimostrano come la capacità direttiva dei borghesi sia un mito sciocco.
Essi scrivono senza coordinamento, senza ordine, senza una centralizzazione del lavoro
collettivo: essi davvero sono come una squadra di operai manuali cui sia venuto meno il
sostegno del “capo”: producono pezzi, casualmente, senza possibilità di ingranamento.
Questi sagrestani della vita politica non capiscono nulla di quanto si sta svolgendo: non
capiscono nulla né dei rapporti generali delle forze nazionali che attualmente dànno una
figura al conflitto e che sono il governo, la classe operaia, gli industriali, la casta militare,
né delle condizioni nuove sorte nel campo operaio, per ciò che riguarda la possibilità di
autogoverno industriale e politico, né dei rapporti internazionali che si profilano e servono
a formare lo sfondo grandioso degli avvenimenti italiani. Questi sagrestani seguono un
solo istinto: l’odio contro la classe operaia, un odio sordo, cieco, opaco, massiccio, che li
porta al massimo di scempiaggine e di abbiezione. Questi sagrestani giudicano il
movimento attuale degli operai italiani alla stregua degli schemi mentali costituitisi nella
polemica sul bolscevismo russo: ma siccome questi schemi non contengono la realtà
italiana, i sagrestani della “Gazzetta” si contraddicono da colonna a colonna, da paragrafo
a paragrafo. Gli operai italiani prima di avere il potere politico, disciplinati dalla semplice
energia locale dei Consigli di fabbrica, lavorano e producono: per ottenere un fatto di
questo genere in Russia furono necessari molti e molti mesi di sforzi pazienti, di
propaganda e di organizzazione. Gli scrittori della “Gazzetta” in una colonna ammettono la
disciplina operaia (si maravigliano anzi con ingenua stupidaggine che essa sia tanto
severa e tanto efficace); in un’altra colonna ammettono che il lavoro e la produzione,
svolgendosi con una certa intensità, determinano una rapida diminuzione delle materie
prime; in una terza colonna maestosamente e trionfalmente “constatano” che gli operai,
data l’assenza dei proprietari, non lavorano e non producono, poiché a priori è impossibile

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che un motore ronzi e che una macchina morda il metallo, senza il vigile e solerte occhio
del proprietario investito dalla divina grazia del potere di dirigere e coordinare.
La stupidaggine di questi cenci mestruati della “Gazzetta” è una prova dei tremendi
pericoli che oggi può correre la nazione italiana. Il paradosso storico già verificatosi in
Russia della classe operaia che salva la nazione dalla dominazione straniera, si delinea
anche per l’Italia come una realtà. La “Gazzetta del Popolo”, che per la guerra non ha
esitato a consegnare l’Italia mani e piedi legati alla Francia, forse non vede neppur oggi
malvolentieri una possibilità di questo genere. E ciò verrebbe dall’avvento in Italia di un
governo di forza dopo una disfatta della classe operaia: l’Italia scadrebbe al livello
dell’Ungheria bianca, che si regge solo perché vassalla del militarismo e della finanza
francese. Ciò sembra comprendano molto bene i borghesi che sono al governo: è naturale
non lo comprendano i sagrestani della “Gazzetta” (se la loro stupidaggine è ingenua e non
è un metodo in dipendenza della massoneria e dell’ambasciata di Francia), come è
naturale che la “Gazzetta” nel suo pubblico bovino passi per la bandiera del più puro
patriottismo. (Le continue domande di reazione della “Gazzetta del Popolo” non
corrispondono al consiglio amichevole dato da Clemenceau a Nitti e agli intrighi romani
dell’ambasciatore Barrère?) Delle forze reali oggi in urto – classe operaia, industriali, casta
militare – una sola è nazionale, la classe operaia. Gli industriali, che fanno emigrare i
capitali all’estero, che cercano di esonerarsi dal pagamento delle imposte necessarie alla
vita dello Stato, sono un dissolvente della nazione: come in Russia e come in Ungheria
essi pensano già ad aprire i confini a un militarismo straniero che li assicuri della loro
proprietà e dell’asservimento della classe operaia. La casta militare è un’escrescenza
della vita nazionale, che si preoccupa solo di godere sinecure, e si è trasformata ormai in
uno stato maggiore poliziesco: vede il nemico nella classe operaia nazionale e non in chi
può togliere alla nazione la sua indipendenza.
La classe operaia è l’unica forza che rappresenti gli interessi della nazione italiana nel
quadro della libertà e della cooperazione internazionale. La classe operaia ha dimostrato
di sapersi governare industrialmente, ha dimostrato di voler salvare la produzione contro la
volontà di distruzione degli industriali. La classe operaia ha degli amici nel campo
internazionale che non ha la classe capitalista: in Inghilterra il Consiglio operaio d’azione si
opporrebbe a ogni forma di blocco contro il proletariato italiano in lotta vittoriosa; in
Germania il Partito degli Indipendenti che esita ad assumere il potere per paura della
Francia e per non far trovare sola la Germania dinanzi a una aggressione francese,
riacquisterebbe la fiducia in sé; in Jugoslavia il Partito comunista, che ha conquistato i

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municipi di tutte le città, ha dimostrato di essere una forza capace di tenere a freno il
proprio militarismo e di rovesciarlo. La classe operaia italiana che la “Gazzetta del Popolo”
(ma non entrerà proprio nulla nulla di millerandismo e di barrerismo nella stupidaggine
degli scrittori della “Gazzetta”?) vorrebbe vedere annientata, polverizzata, gassificata dalla
mitraglia e dai lanciafiamme, è oggi l’unica forza nazionale che possa salvare l’Italia
dall’abisso in cui l’hanno spinta gli uomini delle radiose giornate e i capitalisti avidi solo di
arricchimento individuale e di strapotere politico.

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIV, n. 229, 10 settembre 1920.

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PER CHIARIRE LE IDEE SUL RIFORMISMO BORGHESE

Il breve commento da noi scritto per l'assunzione del signor Italo Minunni a direttore
della “Gazzetta di Torino” ha provocato un articolo dell'“Idea Nazionale” e una lunga
risposta del Minunni stesso. Il Minunni non fa che ampliare ciò che i suoi direttori spirituali
avevano anticipato; pertanto le nostre chiarificazioni valgono per l'uno e per gli altri.
La discussione non è astratta. Per noi essa è ben concreta ed attuale e le osservazioni
da noi fatte hanno valore storico più che valore schematico. La tesi, che la censura si è
incaricata di rendere monca nella sua enunciazione, è questa: economicamente la classe
borghese in Italia non ha ancora vissuto. Essa è stata finora solo una classe storica (si
ricordi ciò che Federico Engels ha scritto sulle classi storiche e le classi economiche), che
ha dato al paese solo una attività politica.
La scissione tra politica ed economia è la causa più grande del confusionismo e della
corruzione di costumi che caratterizzano gli ultimi cinquant'anni di storia italiana. La
borghesia non ha avuto spina dorsale, non ha avuto programmi concreti e rettilinei, perché
non era una classe di produttori, ma un'accolita di politicanti. Col nascere e lo svilupparsi
del movimento nazionalista si osserva questo fatto: il conglutinarsi di singole categorie
economiche borghesi su un programma economico. Non a caso queste categorie hanno
fatto proprio il programma economico nazionalista. Esse non sono ancora assurte alla
comprensione della classe (che economicamente non è nazionale, ma internazionale) e lo
spirito di corporazione le ha gettate dalla parte del nazionalismo economico, che,
sfrondato delle sue ideologie, dei rivestimenti retorici, del multicolore piumaggio utile nella
stagione degli amori, si riduce al vecchio protezionismo, cioè al far servire lo Stato come
distributore di ricchezze, come creatore di ricchezze private, dato che il protezionismo non
fa che spostare le ricchezze, far passare il capitale dalle tasche dei contribuenti e dagli
investimenti in attività non protette, nelle attività protette e nelle tasche dei capitalisti delle
industrie protette. Il nazionalista economico compie così nel campo borghese la stessa
funzione che nel campo proletario ha compiuto il riformismo. Sveglia e organizza, sotto il
pungolo di un fine immediato (travestito da fine universale di classe), i singoli individui che
incominciano a sentire la solidarietà di casta, di corpo. Il tardo ingresso dell'Italia
nell'attività capitalistica ha portato a questa confusione ideologica (che si riflette in
confusione pratica, di azione e di programma): l'immaturità di pensiero storico del
nazionalismo economico vince la maturità di pensiero del liberalismo, che è vera dottrina
di classe, non solo nazionale, ma anche internazionale, e pertanto tende a una saldatura

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economica tra le varie borghesie nazionali, ad un accrescimento della ricchezza capitalisti-
ca internazionale attraverso il liberismo, mentre il nazionalismo protezionistico ha fini più
ristretti, non di classe, ma di aggruppamenti nazionali di determinate categorie industriali
ed agrarie. Nella realtà storica attuale è avvenuto che il proletariato italiano, assurgendo
alla comprensione del socialismo rivoluzionario, ha acquistato la maturità di pensiero, che
gli fa discernere i suoi veri interessi di classe internazionale, dagli interessi delle categorie
singole, che trionfando attraverso la tattica riformista portavano a risultati antieconomici,
distruttori della ricchezza attuale, senza che fossero pungolo a miglioramento della tecnica
industriale, a semplificazioni burocratiche, a facilitazioni negli scambi. Invece la borghesia
incomincia solo ora il processo di presa di coscienza della propria individualità di classe, e
le minoranze di essa che prime si sono organizzate, teorizzano gli interessi loro particolari,
li fanno coincidere con la nazione, con la classe. Ma per la critica rimangono minoranze,
categorie, e i loro interessi si rivelano parassitari, antieconomici. La dottrina della classe
borghese è quella liberale, che ha trionfato integralmente in Inghilterra e negli Stati Uniti
dove la borghesia è classe economica e storica contemporaneamente, non ha trionfato in
Francia per l'economia, data la prevalenza delle categorie borghesi commerciali e ban-
carie, e non delle categorie direttamente produttrici. La dottrina liberale è pertanto, dal
punto di vista storico di classe, la vera antagonista del socialismo rivoluzionario, e questo
antagonismo diretto è rivelato anche dalle somiglianze, che esistono tra le due dottrine. Il
nazionalismo economico corrisponde al riformismo; ha apparenza rivoluzionaria come
l'aveva il riformismo ai suoi bei tempi, perché ogni dottrina che smuove sedimenti sociali,
amorfi e inerti fino allora, ha apparenze rivoluzionarie. Ma nella realtà dei fatti e nella realtà
del pensiero l'accostamento è solo quello da noi fatto. Il movimento neoborghese iniziatosi
a Torino per opera degli industriali metallurgici, ha tutti i caratteri del riformismo, e la
chiamata del signor Italo Minunni alla “Gazzetta” segna anche nell'esteriorità il fenomeno.
Non avrà risultati, non riuscirà nei suoi intenti, che sono di collaborazione economica di
classe, perché il proletariato socialista torinese ha vinto già in seno al suo Partito
l'ideologia riformista, si è dichiarato spesso liberista, ha compreso che per le rivendicazioni
di classe è necessario che la ricchezza globale nazionale e internazionale sia in
incremento, e non avvengano solo spostamenti di ricchezza. Un pensiero immaturo ed
oltrepassato non riesce mai a sostituirne uno maturo ed organizzato stabilmente.
Ecco anche perché abbiamo stabilito una gerarchia di superiorità tra l'“ Avanti!” e l'“Idea
Nazionale”. L'“Avanti!” è l'esponente della classe proletaria che ha raggiunto una maturità
ideologica e storica, ed è pertanto la più importante delle due ai fini del divenire storico:

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l'“Idea Nazionale” è il balbettio, l'inizio di vita della classe borghese integrale, storica ed
economica, che non avrà tempo di diventare, di arrivare all'idea liberale, […].

“Avanti!”, anno XXI, n. 343, 11 dicembre 1917.

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NAZIONE E PESCICANI

Il neo direttore della “Gazzetta di Torino” prosegue imperturbato nella poderosa


campagna intesa a dimostrare, scientificamente, la sterilità sociale delle ideologie sociali-
ste in confronto alla fecondità degli ideali del cento per cento. Ma poiché la
concretizzazione della sua teoria riuscirebbe assai difficile, e tale da diminuire
inevitabilmente […] guadagni dei caratisti del giornale, egli svolazza egregiamente per le
nubi […].
L'affermazione che si doveva “requisire l'opera e la proprietà dei fornitori e farli lavorare
e produrre gratuitamente per la causa comune”, afferma il contraddittore, dimostra
l'assurdo e incosciente semplicismo del pensiero socialista. Ma essa è semplicemente un
paradosso […]. Poiché se il fine supremo è la grandezza della nazione, al quale tutto deve
posporsi, la libertà, il diritto, gli interessi individuali, per la quale devono essere donati la
salute e la vita, non vi dovrebbe essere alcuna eccezione, né alcuna categoria di beni
dovrebbe sfuggire al sacrificio [...]. Tanto se ne accorge il signor Minunni, che è obbligato
ad anteporre a questo “giusto dovere di maggiore uguaglianza sociale”, il vantaggio della
maggiore produzione data dall'industria privata rispetto a quella statale. Ed egli ha ragione
[…]. La tassazione degli extra-profitti paralizza lo sviluppo industriale; questo il grosso
argomento. Ma se lo Stato non avesse, pagando prezzi meno elevati, permesso lauti
guadagni, la creazione di nuove industrie non sarebbe ugualmente avvenuta. In secondo
luogo le officine che sono sorte, o l'ammortamento delle vecchie, non rappresentano
affatto nuove ricchezze nazionali, ma semplicemente uno spostamento di ricchezza. Tutti
noi italiani paghiamo più forti imposte, ci accolliamo quote di debiti più elevate [...]. Che
Minunni neghi questo fatto o lo giustifichi, al cospetto anche della morale e dell'economia
borghese, ed io divento nazionalista.
Ma scendendo ancora più nella realtà il sistema minunniano è quasi totalmente
irrealizzabile. Diminuire i prezzi? Sta bene. Ma lo Stato ha bisogno di tutta la produzione
nazionale; quanto più questa aumenta tanto meglio è. Lo Stato ha bisogno che neppure
una officina rimanga inattiva. E quindi deve fissare dei prezzi in modo che anche
l'industriale marginale, che produce a maggior costo, possa lavorare e guadagnare. Onde
il prezzo che per questi è minimo, è esagerato per quelli che hanno officine più grandi,
meglio impiantate e già ammortizzate. Perciò lo Stato dovrebbe, specialmente per le
industrie metallurgiche e siderurgiche, fissare per i medesimi oggetti prezzi diversi a
seconda delle condizioni dei vari stabilimenti. Un lavoro assolutamente impossibile. Quindi

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anche praticamente la tassazione degli extra-profitti è il miglior modo per ricuperare
almeno una parte dell'oro [...]. Il che del resto è provato dal fatto che tutti i governi hanno
adottato questo mezzo, e non sono così sovversivo da credere che nessuno di essi abbia
veduto e capito… quelle verità che sono cosi evidenti agli occhi di Minunni. Ma, infine,
lasciando da parte tutte le ideologie, vi è un fatto sul quale sembra che accordo esista fra
l'“Avanti!” e la “Gazzetta di Torino”: la convenienza di limitare gli extra-profitti. E allora lasci
a noi di combattere la lotta come crediamo meglio, e la combatta il Minunni come a lui
sembra più opportuno. Ma la combatta. Questo è il punto iniziale della polemichetta: la
sincerità delle affermazioni contenute nell'ordine del giorno del tenente Minunni,
comprovata dall'opera del direttore della “Gazzetta di Torino”. Utilizzi il giornale, che egli
ha a sua disposizione, per provare che i prezzi pagati dal Governo sono troppo alti e lo
dimostri adducendo le prove che la sua sapienza economica, insieme all'esperienza degli
amici e dei padroni, possono fornirgli.
Ma fino a che questo non avvenga […] egli non farà che disquisizioni teoriche, sarà
troppo evidente che si tratta semplicemente di abili diversivi di un giornalista che, non
osando difendere apertamente il cento per cento realizzato dai suoi padroni nelle forniture
militari, propone, per diminuirlo, mezzi che essi padroni sanno già, a priori, irrealizzabili.
Che se egli intimamente condivide queste opinioni è in mala fede, scrivendo ciò che ha
scritto; se no, ha bisogno di parecchia altra scuola, poiché l'aver accumulato nei cassetti
qualche centinaio di ritagli di giornali, non è sufficiente per permettergli di impartire lezioni.
Io conosco qualche cosa di peggiore della demagogia e dei demagoghi: sono la
plutocrazia e i suoi pennivendoli.

“Avanti!”, anno XXII, n. 28, 28 gennaio 1918.

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LA COMPAGNIA DI GESÚ

Il fuoco, l’acqua, l’onore fecero un giorno comunella insieme... Un gesuita attrae un altro
gesuita e ambedue traggono le conseguenze. Zibordi attrae Bianchi e D’Aragona, i tre
attraggono il “Resto del Carlino” e il “Tempo”; la “Stampa” trae le conseguenze. Nel trarre
le conclusioni la “Stampa” non s’accorge neppure di darsi la zappa nei piedi (o se ne
accorge benissimo, ma tira dritto...) Appena lunedì scorso, in un articolo del suo
corrispondente da Londra, la “Stampa” sosteneva: La Russia dei Soviet è l’unico paese
del mondo che abbia al suo governo uomini vivi, pieni di indomabile volontà, armati di tutti
gli strumenti di precisione per esplorare lo spazio e il tempo, consapevoli di un fine
preciso, ferreamente decisi a conseguirlo. Appena lunedì scorso, la “Stampa” sosteneva:
L’Inghilterra ha uno statista, Lloyd George, l’Italia ha uno statista, Giolitti, ma l’uno e l’altro
sono premuti e soffocati da un mucchio di cadaveri in putrefazione, di cui non riusciranno
a liberarsi; la Russia dei Soviet ha tutta una schiera di statisti, ed essi sono riusciti a
liberarsi di tutti i cadaveri. Appena lunedì scorso, la “Stampa” sosteneva: Gli Stati
parlamentari sono come degli aeroplani pilotati da cadaveri; essi trascorrono lo spazio
perché i congegni meccanici automaticamente funzionano ancora, ma essi non potranno
non atterrare inanimati, inerti; lo Stato dei Soviet è in parte guasto, è in parte raffazzonato
alla meglio, ma ha un’anima e una volontà, ma ha una sua autonoma, ben precisata
direzione. Questo sosteneva la “Stampa” lunedì scorso appena. Ieri la “Stampa”, avendo,
lei acqua, fatto comunella col fuoco e l’onore, ha mutato gorgoglìo: - Lenin, Trotzkij,
Cicerin sono incapaci, sono degli impreparati; Lenin,Trotzkij, Cicerin sono degli
avventurieri politici, sono dei sadici che si dilettano a scuoiare, a salassare, a torturare la
classe operaia russa. La rivoluzione comunista è fallita. I comunisti italiani non sono che
degli imbecilli che tutto vogliono tentare, sconvolgimenti, distruzioni, rovine, freddo, fame,
desolazione sulla pelle del proletariato; ai comunisti italiani basta l’idea. Ed ecco apparire
l’abate Bresciani, ed ecco il rivoluzionario odierno che risponde come il rivoluzionario
liberale, come Francesco De Sanctis rispondeva all’abate Bresciani: Non è il comunismo,
non è l’idea del proletariato che determinerà gli sconvolgimenti, la fame, la desolazione, la
miseria; questo panorama atroce è il panorama della vostra civiltà, crollata come un
edifizio senza abitatori umani, è il panorama delle vostre istituzioni, ridotte a mera forma
senza spirito animatore; è la vostra guerra imperialista che ha falciato cinquecentomila
giovinezze, il fiore delle forze produttive, che di altro mezzo milione di energie ha fatto un
esercito di mendichi e di disperati; è la vostra incapacità a ridare la pace al mondo

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insanguinato; è il lusso sfrenato e la sete di godimenti che avete scatenato nei vostri ceti
irresponsabili; è la barbarie, la svogliatezza del lavoro, l’istinto bruto elementare che avete
scatenato turpemente per la vostra fame di ricchezza e di potere: questo panorama è
quello della vostra decomposizione come classe di inetti, di falliti, di sorpassati dalla storia.
Cosa sono i comunisti, in Italia come in Russia? Sono uomini che tentano di orientarsi
in questo panorama di rovine e di miseria, che cercano di identificare, fra tanta
desolazione, i sentimenti e le forze reali e vitali che possono diventare il sostegno di nuove
istituzioni, di un nuovo edifizio sociale, di un nuovo Stato. Sono operai che hanno fede
nella loro classe, che di essa vogliono fare la fonte di un nuovo diritto, di ordinamenti
nuovi. Sono studiosi che ritrovano in questo panorama i lineamenti del quadro descritto da
Marx nelle sue previsioni storiche sullo sviluppo della civiltà umana, e quindi si sforzano di
rielaborare, nella concezione del maestro, la realtà attuale, per coglierne gli elementi di
vita e di progresso, per indicare una mèta agli uomini di buona volontà, per stimolarli
all’azione, per costringerli a persuadersi che la vita continua, che è necessario seppellire i
morti e risanare i miasmi, che il male non può trionfare se l’energica volontà dell’uomo si
propone fermamente di superarlo. Ecco cosa sono i comunisti: sono degli uomini
coraggiosi e tenaci, i comunisti: non si battono il petto e non gemono al cinematografo dei
dolori e delle miserie, come i piccoli borghesi che hanno paura della fame, del freddo e
che gli portino via la legittima consorte. I comunisti italiani non credono che la rivoluzione
comunista sia fallita in Russia, perché la rivoluzione comunista o è internazionale o non è,
o è solo la nascita di uno Stato operaio (uno Stato... borghese senza... la borghesia,
secondo l’energica definizione di Lenin), perché la rivoluzione comunista può fallire solo
come tentativo della classe operaia di organizzare su scala mondiale, imperniandola sulla
produzione nazionale tecnicamente più sviluppata, l’economia di tutte le popolazioni del
globo, come tentativo cioè di attuare ciò che non riesce ad attuare la classe borghese, per
dare la pace al mondo. I comunisti italiani non “vogliono” la rivoluzione, nel senso stupido
e triviale che gli ideologi del capitalismo, logorati dalla tensione della guerra, dànno alla
parola “volere”. I comunisti italiani, come i comunisti di tutta l’Internazionale operaia,
ritengono la rivoluzione comunista sia un momento necessario dello sviluppo generale
della storia mondiale: essi “vogliono” solo ciò che è concesso volere agli uomini,
prepararsi all’evento, armarsi per essere forti, organizzare per essere tenaci e resistenti,
educare per essere fiduciosi, entusiasmare per essere audaci, elevare perché i singoli e la
collettività vedano di essere inseriti in un sistema universale di forze tendenti a una stessa
mèta, con lo stesso ardore e la stessa fede.

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Così rispondono i rivoluzionari odierni agli odierni padri Bresciani, senza poi curarsi
troppo di essere compresi; come i liberali del Risorgimento non si curavano di essere
compresi dai gesuiti e di convertirli. Ogni periodo storico di lotta e di profonda
trasformazione sociale ha i suoi gesuiti; pare sia questa una legge dello sviluppo umano. I
liberali mazziniani ebbero il padre Antonio Bresciani; i comunisti hanno i rinnegati del
socialismo, installati nelle redazioni borghesi o non ancora arrivati a tanto sublime mèta...

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIV, n. 258, 9 ottobre 1920.

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INGANNI

Il manifesto del Partito comunista ha offerto agli scrittori della “Stampa” l’occasione per
una predica untuosa e dolciastra agli operai. Predica senza convinzione, parole senza
contenuto e senza nesso. I teorici del giolittismo sono a mal partito, evidentemente. Non
sanno più a che santo votarsi: è venuto loro a mancare anche il figurino britannico,
brutalmente spezzato dalle rozze mani dei minatori. È venuto loro a mancare il motivo
essenziale delle chitarrate sentimentali con cui cercarono negli anni passati di ammollire lo
spirito rivoluzionario della classe operaia: l'avvento millenario del più grande statista
italiano dopo Cavour. L'on. Giolitti è andato al potere. Cosa rimane delle speranze e delle
aspettazioni fatte nascere nell'animo popolare dagli scrittori della “Stampa”? Cosa ha
costruito il costruttore Giolitti? Cosa ha restaurato il restauratore Giolitti?
Nell’ordine morale, il livello della vita italiana si è abbassato fino all’infamia più rivoltante.
La moralità di uno Stato diventa concretezza storica negli ordinamenti di giustizia. Esiste
una giustizia in Italia? Quale delitto è stato punito? Quale assassino è stato allontanato
dalla circolazione sociale? Si ammazzano i bambini e le donne, si incendiano le private
abitazioni e si lasciano senza tetto i vecchi e gli infermi: cosa fa la giustizia italiana? Come
tenta almeno di arginare questo straripamento di barbarie e di ferocia senza nome? Il
cinismo è il carattere più vistoso della moralità della vita italiana governata dal restauratore
Giolitti; i valori umani di questo periodo della storia nazionale possono riassumersi
unicamente nell’espressione tagliente e decisiva di Guglielmo Gladstone: negazione di
Dio.
Nell’ordine costituzionale cosa ha restaurato l’on. Giolitti? Egli era andato al potere
presentandosi come un difensore dei diritti popolari, come fautore del più esteso regime
parlamentare. Ha sciolto la Camera dei deputati, ripristinando attivamente le prerogative
statutarie della Corona, annullando d’un tratto tutte le conquiste pacifiche che il “popolo
sovrano” aveva realizzato nei quadri della democrazia rappresentativa. Ha permesso che i
deputati, i rappresentanti della “volontà nazionale” fossero vilipesi e malmenati
impunemente: non riesce neppure ad assicurare la libertà di movimento e l’integrità
personale agli stessi funzionari governativi, come l’on. Maffi, sequestrato e torturato da
bande armate al cospetto della polizia impotente o connivente.
I teorici del giolittismo integrale nella loro predica accennano alla rivoluzione russa, alle
concessioni fatte ai contadini, alle concessioni fatte al capitalismo straniero. Ma chi ha mai
sostenuto che in Russia fosse attuato il comunismo? Chi ha mai nascosto che

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l’emancipazione del popolo lavoratore costerà sacrifici e dolori? Non hanno i comunisti
continuamente ripetuto che lo Stato operaio è caratteristico del periodo di transizione tra il
capitalismo e il comunismo? La verità è che mai come nel periodo attuale il popolo
lavoratore italiano ha potuto sperimentalmente assimilare la nozione di dittatura proletaria.
La classe operaia, in preda alla disoccupazione, vede sferrarsi l’offensiva padronale su
vasta scala contro le organizzazioni sindacali: appare ogni giorno più chiaro agli operai
come una tale offensiva non possa essere infrenata coi mezzi soliti, al riparo delle
associazioni tradizionali; una sola organizzazione può essere in grado di garantire agli
operai una relativa sicurezza del pane e del tetto: il potere di Stato in mano della classe
operaia, la forza armata rivolta a sostenere i diritti del proletariato. A che serve il progetto
di controllo per gli operai serrati della Fiat? E se anche il progetto diventasse legge
pubblicata dal “Giornale ufficiale”, come possono credere gli operai alla sua efficacia
quando vedono che oggi in Italia nessuna legge viene rispettata dai borghesi e fatta
rispettare dai poteri statali? La quistione del controllo sta diventando per la classe operaia
una necessità esistenziale, ma la soluzione si presenta oggi in termini ben diversi da quelli
prospettati dal giolittismo: la quistione del controllo è la quistione del potere industriale, è
la quistione del sapere se i piani di produzione industriale devono essere stabiliti
nell’interesse dei banchieri e degli speculatori di Borsa, o devono essere stabiliti
nell’interesse delle grandi masse popolari, se devono essere fissati dal personale di fiducia
del capitalismo o dal personale di fiducia della classe operaia. In questi rapporti rientrano
larghi strati delle classi contadine. La classe operaia, con la sua forza che si manifesta
nelle città, protegge la posizione politica ed economica dei contadini poveri e dei proletari
agricoli che abitano dispersi su vasti territori e sono i più esposti ai colpi della reazione. Lo
Stato borghese non solo non assicura il godimento della terra ai contadini, ma non
assicura loro neppure la sicurezza individuale e l’integrità della persona. Per il contadino
ferrarese o modenese non si tratta oggi di possedere terra, si tratta di essere libero e
sicuro, di non essere continuamente minacciato dalle spedizioni punitive, di non essere
trascinato al ludibrio, incatenato dietro un carro di sterco, di saper sicuri la sua donna e i
suoi figli.
Lo Stato operaio non è una scelta arbitraria, non è un fine proposto. È una necessità
storica, risulta dalle condizioni create dallo sviluppo della lotta di classe. Quando la
borghesia, coi suoi errori, con la sua incapacità, determina una identità immediata di
interessi tra le varie classi del popolo lavoratore, allora i comunisti affermano che esistono
le premesse sociali dello Stato operaio. Quando il capitalismo si dimostra incapace ad

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assicurare i mezzi di sussistenza e di sviluppo alle classi lavoratrici, allora i comunisti
affermano che esistono le premesse economiche della rivoluzione proletaria. È lo sviluppo
intrinseco della realtà economica e sociale che si assume il compito di dimostrare la
storicità di queste affermazioni: ai comunisti spetta il compito di assicurare lo svolgimento
delle premesse spirituali per l’avvento dei nuovi ordinamenti. I comunisti sono aiutati in
questa loro missione dai giocolieri della stampa borghese: in Italia nessuno ha contribuito
più della “Stampa”, con le sue capriole, con le sue promesse demagogiche, con le sue
illusioni subito distrutte dalla realtà, nessun uomo politico ha contribuito più dell’on. Giolitti,
coi suoi inganni e le sue frodi, a rinsaldare nella coscienza degli operai la persuasione che
solo con la gestione diretta dello Stato da parte del proletariato incomincerà la fase della
ricostruzione e della restaurazione dell'ordine economico e politico.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 116, 26 aprile 1921.

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FASCISMO GIORNALISTICO

La “Stampa”, che sino ad oggi non si è ancora scomodata troppo per la campagna
elettorale, che si è dimenticata dell'ardore e dell'acredine posti nel novembre 1919 per
combattere la lista dei candidati che oggi dovrebbe sostenere, che si è accontentata di
pubblicare - come un fatto di cronaca qualunque - la lista del blocco in cui essa pure è
bloccata, esce dal riserbo per un attacco contro i comunisti. “La Stampa” nel suo attacco
contro i comunisti usa però un linguaggio e un sistema tale che riesce difficile contraddirla
mantenendosi nel campo delle idee. “La Stampa” attacca i comunisti raccogliendo nei
bassifondi della ignoranza, del pettegolezzo reazionario e socialdemocratico tutta la
spazzatura che le è possibile ed elevandola all'altezza del ragionamento e della critica
politica. Con questa roba non si polemizza, come non si polemizza con le vignette del
“Pasquino ” o coi trucchi fotografici dell’“on. Bomba”, come non si smentiscono le notizie
delle agenzie antibolsceviche, come non si prende sul serio la bestemmia o l'urtone che vi
dà un ubbriaco.
Se “La Stampa” invece di raccogliere della spazzatura avesse voluto fare della critica
politica si sarebbe chiesto quale è il pensiero politico del Partito comunista e se questo
pensiero comunista non trova una esatta rispondenza e una conferma nei fatti che si
stanno svolgendo attualmente.
La tesi centrale del Partito comunista è questa: che gli operai e i contadini se vogliono
garantire la loro libertà e la loro vita debbono costituire uno Stato, debbono ordinare le loro
forze in modo organico, per la conquista del potere, debbono dare una disciplina alla loro
classe e fare di questa disciplina la norma della società intera.
Questa, che è la parola d'ordine della Internazionale comunista e di tutte le sue sezioni
nel mondo intero, si può dimostrare in qualche modo che non sia storicamente attuale, o si
può dimostrare che non sia storicamente attuale oggi, in Italia? Che cosa hanno scoperto i
raccoglitori di spazzatura della “Stampa” che neghi la necessità di questo programma, che
contraddica la verità delle constatazioni e delle premesse su cui esso si basa? Hanno
scoperto... che i riformisti della Cooperativa ferroviaria di Torino non sono dei comunisti,
hanno scoperto che la Lega industriale e l'Amma sono state più forti degli operai della Fiat,
i quali chiedevano si applicasse nella loro officina il controllo così caro al cuore della
“Stampa” e di Giovanni Giolitti, hanno scoperto che Agnelli è stato capace, come un
qualunque generale inglese, di prendere per fame diecimila operai, di affamare le loro
donne e i loro bambini e costringerli in tal modo a tornare al lavoro, con la rabbia e con

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propositi di rivincita nel cuore. Tutto ciò, per i raccoglitori di spazzatura della “Stampa”,
prova che i comunisti sono dei truffatori e degli sfruttatori del proletariato, che il proletariato
non crede più al loro verbo, e prova soprattutto che la loro parola d'ordine e il loro pensiero
politico non corrispondono alla realtà e alle necessità odierne della classe operaia.
Ma c'è altro. C'è la situazione politica generale italiana, ci sono gli incendi, le
devastazioni, i saccheggi, gli assassini, tutto per dimostrare il fallimento dei comunisti.
Ecco, se la “Stampa” non avesse fatto scrivere questo articolo da uno spazzaturaio ma da
un uomo capace di riflettere e di pensare, questi si sarebbe guardato dal fare uso di
questo argomento. In questo argomento è contenuta la riprova delle affermazioni dei
comunisti, è implicita la dimostrazione della verità delle tesi che l'Internazionale comunista
e le sue sezioni propongono in tutto il mondo agli operai, i quali sono desiderosi di
combattere per garantire la loro libertà e la loro vita. Si è mai avuto in tutto il mondo dimo-
strazione migliore della impossibilità nella quale si trovano le forze della società attuale di
ricomporsi in unità, cioè in equilibrio, senza che si costituisca o una dittatura di classe
borghese o una dittatura di classe proletaria? Non solo, ma dove si può trovare meglio che
nel corso degli attuali avvenimenti d'Italia la dimostrazione di un'altra delle tesi
fondamentali del comunismo, questa: che soltanto la dittatura di classe proletaria può,
attraverso la ferrea disciplina del lavoro e della produzione, ricostituire l'ordine, la civiltà, e
ricreare uno Stato mentre la dittatura di classe borghese è ferocia inutile è barbarie senza
scopo, è dissoluzione sistematica e procedimento di regresso che non si scorge come
possa venire arrestato? Vi era maggior ordine alla Fiat quando gli operai eleggevano i loro
commissari e ad essi ubbidivano o adesso, che sono trattati col terrore ed eleggono loro
rappresentante... Girardengo? E lo Stato? Dov'è lo Stato, chi è lo Stato oggi in Italia? È il
Fascio... o è il ministero degli Interni, è il prefetto che cerca ancora di ubbidire a Giolitti o il
commissario di pubblica sicurezza che ha in tasca la tessera di fascista?
Qual è la legge italiana oggi? È lo Statuto che garantisce inviolabilità di persona, di
domicilio, libertà di parola, di stampa, ecc., ecc., ecc., ecc., o sono gli ordini dei capibanda
che scorrazzano le campagne, che entrano nelle case a sgozzare uomini e bastonare
donne e bambini, che tolgono ai contadini e agli operai il desiderio di lavorare perché
mostrano loro un poco troppo apertamente che sono degli schiavi, che preparano
l'incendio dei raccolti, la diserzione delle officine, il terrore, la carestia, la morte? Forse che
tutte queste cose avvengono nella Russia dei Soviet, dove da tre anni un popolo intero
resiste e oggi si risolleva con le forze del suo lavoro e con la disciplina della sua volontà,
grandioso, colossale esempio, terrore di tutti i borghesi, orgoglio e fede di tutti i proletari

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del mondo?
La distruzione dello Stato, la fine della legge, la dissoluzione della società in cui si
riassume la situazione politica italiana odierna che cosa sono se non la fine della
borghesia come classe di governo, come classe capace di garantire un ordine, di creare e
mantenere in vita uno Stato? Constatato ciò noi non diciamo agli operai se non questo:
che soltanto la loro classe ha ancora capacità di governare, e che per fare ciò deve
conquistarsi il potere. “La Stampa” in mancanza di un programma politico che sia come
questo adeguato alla realtà e la spieghi e la comprenda, va in cerca di spazzatura, e
rimette a nuovo tutte le sciocchezze e tutte le menzogne, persino quelle inventate dai suoi
cronisti a danno di operai e operaie, che poi sono stati assolti per inesistenza di reati...
Con questa roba non si polemizza. Constatiamo il fatto, il fascismo fa progressi: che cosa
è questo se non del fascismo giornalistico?

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 132,13 maggio 1921.

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“LA STAMPA” E I FASCISTI

“La Stampa” ha voluto ieri parlare “per aprire gli occhi a coloro, che, con il dissennato
favoreggiamento dell’altrui violenza, sono i principali responsabili dell’ambiente creatosi,
così propizio a fatti come quelli che oggi deploriamo”. Si domanda alla “Stampa”: “Chi era
al governo dello Stato italiano, quando il fascismo si organizzò in grande stile e iniziò la
fase delle spedizioni punitive, dello sfoggio aperto e impudente di moschetti, di bombe, di
pugnali? Chi era al governo dello Stato italiano quando i fascisti iniziarono la conquista
violenta delle amministrazioni comunali socialiste? Chi era al governo dello Stato quando,
apertamente e impunemente, i giornali fascisti pubblicarono i primi bandi di morte, di
incendio, di saccheggio, di persecuzioni individuali?”. Era al governo dello Stato italiano
Giovanni Giolitti, lo statista portato sugli scudi dalla “Stampa”, l’uomo che avrebbe dovuto
restaurare l’Italia politicamente, economicamente, moralmente. Giovanni Giolitti lasciò
moltiplicarsi la serie delle spedizioni punitive, lasciò che pubblicamente i fascisti
costituissero depositi di armi e munizioni (a Torino stessa, in una via accanto alla stazione
di Porta Nuova, non poterono, una domenica, i passanti assistere allo scarico di un
camion di moschetti e di bombe a mano, fatto tranquillamente, pacificamente dai fascisti?),
lasciò incendiare, lasciò saccheggiare, lasciò sequestrare le persone, lasciò bastonare,
lasciò minacciare, lasciò fare ai fascisti tutto ciò che ai fascisti meglio piacque, lasciò che i
fascisti si persuadessero che tutto era loro consentito, lasciò formarsi lo stato d’animo da
cui è naturalmente, spontaneamente scaturita la pretesa dei fascisti di poter invadere
Sarzana, senza curarsi delle ingiunzioni della forza pubblica. Giovanni Giolitti è il massimo
responsabile dei delitti commessi dal fascismo, egli è veramente colpevole di alto
tradimento per aver lasciato che le leggi dello Stato fossero impunemente calpestate, che
le popolazioni fossero interrorite, massacrate, torturate dalle bande armate, che la
proprietà fosse distrutta col saccheggio e con l'incendio. E non venga fuori “La Stampa”
con le violenze bolsceviche e altri simili stupidaggini demagogiche: nel 1920 i “bolscevichi”
lasciarono 2500 morti nelle vie e nelle piazze per opera della forza pubblica che si
opponeva alle loro violenze, che li fucilava per le loro violenze. Non è mai esistita impunità
o tolleranza per le violenze bolsceviche: le folle erano mitragliate abbondantemente, i
rivoluzionari erano arrestati e condannati implacabilmente. E non venga neppure fuori “La
Stampa” con la occupazione delle fabbriche, che fu un movimento simultaneo di masse e
costrinse il governo, per questo suo carattere, a una relativa neutralità: il fascismo si è
sviluppato gradualmente, con moto sempre più veloce a mano a mano che si radicava la

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persuasione dell’impunità giudiziaria e dell’alloro giornalistico: il fascismo è figlio spirituale
di Giovanni Giolitti, è giolittismo del più schietto e sincero.
E “La Stampa”, quando mai “La Stampa” si oppose al dilagare del fascismo? Basta
ricordare la descrizione epico-lirica data dalla “Stampa” dell’impresa fascista contro la
Camera del lavoro. “La Stampa” pubblicò un’intervista con uno dei prodi, ed esaltò, con
parole da romanzo d’appendice, l’eroismo del Maramotti, morto dopo aver violato un
domicilio privato, aver applicato un incendio e aver tentato di assassinare i legittimi
abitatori della casa violata. Tutti ricordano il romanzo d’appendice inventato dalla “Stampa”
a proposito dell’uccisione del fascista Campiglio, come tutti ricordano il truce racconto
sciorinato al pubblico per l’uccisione del Sonzini e dello Scimula: quanti operai sono stati
assassinati per l’esaltazione morbosa determinata dalla lettura dei romanzi costruiti con
freddezza e gesuitica premeditazione dagli scrittori della “Stampa”?
E “La Stampa” non ha mutato. Ancora oggi sostiene i fascisti. Leggete nella “Stampa” il
resoconto del discorso tenuto da Mussolini in Parlamento. La Stefani ha trasmesso questa
parte del discorso:

Osserva [Mussolini] che conviene assolutamente astenersi dal sistema deplorevole delle
contumelie verbali e soprattutto conviene cessare dal credere che i diversi atteggiamenti del
governo possano piegare le forze politiche e militari del fascismo.

A nessuno può sfuggire e a nessuno è sfuggita l’importanza e la gravità della minaccia


fatta dal Mussolini. Il “Momento”, giornale del Partito popolare, che ha una schiera di
ministri e sottosegretari nel gabinetto Bonomi, il “Momento”, che è un giornale per lo meno
ufficioso e non getta certamente le parole a vanvera, in un momento come questo di
torbido e di sovreccitazione passionale, il “Momento” ha creduto necessario postillare la
precisa minaccia mussoliniana in questo modo esplicito:

L’on. Mussolini si è rammaricato che l’on. Turati abbia detto ad un certo punto del suo
interessante discorso che tra i fascisti e le altre parti della Camera si parla un diverso linguaggio:
ma in verità quando, con un’audacia veramente impressionante, si viene a parlare di “forze
politiche e militari” a disposizione di una fazione è chiaro che la fazione si fa Stato nello Stato, o
meglio fuori dello Stato. E allora quali possibilità di intendersi? Ma la dichiarazione dell’on.
Mussolini fa sorgere un quesito che deve preoccupare il governo in genere e il ministro della
guerra in ispecie. Dove si reclutano le forze armate di cui il capo dei fasci ha fatto parola? Si
reclutano forse nelle forze armate regolari? Basta porre il problema per comprenderne tutta

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l’enorme gravità e la necessità di risolverlo senza indugio. L’esercito appartiene alla nazione e non
può essere strumento di un partito. Se vi sono uomini che vestono la divisa militare e non si
sentono di ubbidire alla Patria e al suo governo legittimo, essi devono essere irrevocabilmente
radiati dalla milizia.

Ebbene: “La Stampa” ha soppresso completamente l’espressione minacciosa dell’on.


Mussolini; nella “Stampa” “le forze politiche e militari del fascismo” diventano
semplicemente “le forze del fascismo”.
Il discorso dell’on. Mussolini è stato espurgato; i lettori della “Stampa” non devono
sapere della precisa minaccia fatta dal capo ufficiale del fascismo al governo dello Stato,
non devono farsi un’idea della gravità della situazione italiana quale è stata creata dall’on.
Giolitti, il restauratore dell’ordine politico, dell’ordine economico, dell’ordine morale. Con
questa sua tattica “La Stampa” conferma la connivenza dell’on. Giolitti col fascismo:
migliaia e migliaia di vite proletarie sono state stroncate per mandato di questi briganti
della politica e del giornalismo, poiché quando il governo permette un delitto, esso ne
diventa mandante, poiché quando un giornale come “La Stampa” scrive quello che scrive,
esso diventa davvero un attentato contro la sicurezza del popolo, diventa una sobillazione
di nefandezze e di delitto.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, 24 luglio 1921, I, n. 204.

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LO STECCO FORCELLUTO E IL DITO DI DIO

Un buon uomo scendeva una volta la china di una montagna (la montagna non era
quella dove Nostro Signore Gesù Cristo tenne il suo famosissimo comizio); cadde il
povero buon uomo, uno stecco gli si conficcò in un occhio e lo enucleò miseramente. “Che
fortuna, che fortuna!”, si pose a gridare il povero buon uomo, mentre attraversava di corsa
le strade del suo natio borgo: “Che fortuna, che fortuna!” La gente si fermava, stupita,
attonita, di sale: “Come puoi ringraziare la fortuna, se un occhio ti pende dall'orbita e hai
tutto il viso inondato del tuo proprio sangue?”, gli domandò ingenuamente uno meno stu-
pito, meno attonito, meno di sale degli altri. “Come? Che fortuna che lo stecco non era
forcelluto! Se fosse stato forcelluto mi avrebbe cavato ambedue gli occhi! Che fortuna, che
fortuna!...”
Un operaio comunista viene a lite con un altro operaio che la “Stampa”, la “Gazzetta del
popolo” e la testimonianza dei presenti al fatto qualificano popolare. Il popolare nel calore
della discussione, con un morso strappa netto il naso al comunista. Il “Momento”, per non
confessare che il cannibale è un popolare, pudicamente stampa essere egli seguace dei
partiti dell'ordine. Che fortuna, che fortuna, meno male che a essere seguaci dell'ordine si
mangia solo il naso ai propri contraddittori...

***

Il “Momento” è amico delle anime semplici, degli uomini di buona volontà che tendono
alla pace e all'amore. Perciò il “Momento” accoglie volentieri le versioni in cui spiccano le
buone qualità di coloro che seguono i partiti dell'ordine. Quando l'operaio Gabiati uccise
l'operaio fascista Odone che, armato di rivoltella, alle undici di sera, con altri due seguaci
dell'ordine fascista, armati di rivoltella, si era recato ad aspettarlo sull'uscio di casa, il
“Momento” accolse la notizia che i tre seguaci del partito dell'ordine si fossero mossi verso
il Gabiati per portargli la parola della pace e dell'amore; e pianse, pianse tutte le lacrime
del suo immenso cuore e delle sue capacissime ghiandole lacrimali il “Momento”,
dappoiché il secolo era tanto imbarbarito che alle parole di pace e d'amore si rispondeva
con la rivoltella. Ahimè! Ahinoi! Ma che successe? Due giorni dopo il “Momento” doveva
registrare questo episodio: una squadra di seguaci dell'ordine si erano recati da un
parroco di un paesello del Veneto per compiere opera di amore, per portare la parola della
pace. Partirono; ritornarono due ore più tardi e incendiarono la canonica. Pareva che il dito

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di Dio avvertisse il “Momento”: “Sta' buono, non esagerare, non piangere troppo per le
inascoltate parole di pace e di amore che portano in giro, insieme alle bombe e al petrolio,
i seguaci dei partiti dell'ordine!”
Il “Momento” non ha ascoltato queste sagge parole del dito di Dio. Non le vuole
ascoltare. Domenica, per esempio, il “Momento” riportando la notizia del come qualmente
alla vigilia della “festa” per la promulgazione dello Statuto, il questore, per commemorare
degnamente la fausta ricorrenza, minacciasse i tramvieri di lasciarli indifesi contro ogni
aggressione dei seguaci dei partiti dell'ordine, il “Momento” sgrillettava di santissima gioia
e, caduto in estasi, aveva una visione: “... bastoni che si alzano e scendono implacabili
sulle schiene dei tramvieri, vetri che vanno in frantumi, donne che strillano... e guardie che
osservano la scena impassibili, divertendosi un mondo”. Alla vigilia della festa dello
Statuto, avere la visione che i “servitori imparziali della Legge per il bene inseparabile del
Re e della Patria”, impassibili, anzi, divertendosi un mondo, lascino che la legge sia
calpestata, è per un seguace del partito dell'ordine popolare un modo come un altro di far
festa. Ma è sicuro il “Momento” che il dito di Dio non voglia intervenire? Domandi
informazioni all'on. Miglioli e ai contadini bianchi del Cremonese sulle visioni dei bastoni
alzati e calati implacabilmente e poi... si diverta un mondo. Ma noi, che siamo uomini di
fede, attendiamo che si pronunzi il dito di Dio...

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 157, 7 giugno 1921.

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CRISTIANUCCI...

Il “Momento” si è sentito scandalizzato dalla noterella di cronaca che il nostro giornale


faceva seguire ieri alla commemorazione di Benedetto XV. Aggiunge il “Momento”, che il
giornale nostro non accompagnò l'agonia del papa con nessuna delle molte cronache
romane di cui disponeva.
Il fatto è vero. Anche a noi, come agli altri giornali italiani, la “Stefani”, debitamente
montata dalle eccellenze popolari che sono al governo, mandò interi volumi di
informazioni, di consulti, di cronachette, di pettegolezzi, attinti ai camerieri segreti e ai
camerieri tout-court, che stanno dalle parti del Vaticano.
Eccone uno, per esempio, che pubblichiamo adesso in ritardo, per imbonire il giornale
di via Pomba. Un giornalista clericale domandò un giorno il permesso d'intervistare il
pontefice. Benedetto XV acconsentì, ma poi pentitosi improvvisamente, incaricò un suo
prete, segretario, di avvertire che il papa era ammalato, e non riceveva più. “Guardate
bene, - aggiunse, - di non lasciar trapelare che questa è una bugia. Se no non potrei più
chiamarvi cameriere segreto, ma cameriere semplicemente” (Stefani).
Sì, confessiamolo, noi non abbiamo pubblicato questa notizia, e le altre mille che la
“Stefani” mandò sul nostro tavolo. Avemmo tuttavia le nostre ragioni...
Rispettiamo i sistemi cronachistici degli altri, che non vogliono serbare margini di segreti
sul bancone redazionale. Abbiamo però il diritto di essere più temperanti noi stessi!...
A noi sembrò più degno, più rispettoso della morte, più umano il bollettino medico nudo
e semplice, senza la enorme giunta di tutti i pettegolezzi che mettono la morte di un uomo
sullo stesso piano della soirée di una canzonettista. Certo, le dame incipriate e le donnette
che cavan l'oroscopo e il terno dalla morte del papa, hanno bisogno delle cronache
ammannite dal “Momento” e dalla “Gazzetta del popolo” (entrambi cristiani, o entrambi...
massoni?) Il pettegolezzo del giornalismo italiano intorno a Benedetto XV è un indice
grave della decadenza del sentimento religioso.
Il “Momento” invece è contentissimo. Beato lui! Del resto, la macchina governativa che
ha mosso tanti tasti telegrafici, è azionata dalla potente mano del Partito popolare, e la
morte del papa, traducendosi in un diluvio cartaceo di notizie, ha servito magnificamente
allo scopo di valorizzare il gruppo cattolico. Lo stesso deve ripetersi della vacanza ufficiale
di ieri, nuova nella storia del regno d'Italia. Essa ha servito al partito e alla chiesuola, ma
l'ultimo che se ne sia avvantaggiato di preci e di meditazioni è il papa. Gli operai hanno
lavorato, gli studenti hanno fatto gazzarra, e potremmo documentare qui pre-

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cisissimamente gli episodi salienti e inverecondi di tali scioperataggini. Ma il “Momento” le
sa quanto noi. I cinematografi furono chiusi d'autorità, ma è evidente che quelli che
intendevano portare il lutto del pontefice non sarebbero andati a divertirsi anche se non
fosse venuto l'ordine prefettizio.
Peccatori, riconosciamo facilmente al “Momento” che i nostri amici non sono dei santi.
Vorremmo sperare, d'altra parte, che il “Momento” abbia invece almeno un buon cristiano
nel numero dei suoi amici. Vorremmo sperarlo, perché certamente egli si associerà a noi,
contro il “Momento”, nel deplorare il carattere costrittivo di un lutto, che verso il pontefice
ogni credente manifesta con la preghiera o con l'assistere al pubblico rosario, verso l'uomo
ognuno dei nostri lettori era invitato a sentire nell'intimo della sua coscienza e in relazione
coi margini disponibili dal lavoro e dalla fatica.
Dopo tutto, le rimostranze del “Momento” sono ben giustificate dalla leggerezza e
frivolità del suo sentimento verso il papa morto. Per un giornale cattolico, la
commemorazione del papa assume un carattere veramente religioso, veramente credente
nell'eterno e nel divino a cui fa capo l'istituzione dì Pietro, soltanto in un modo: definendo
con i suoi mezzi, che sono penna e inchiostro, il valore di Benedetto XV nella serie dei
papi, senza esagerazioni, senza panegirici, con severità, magari con acerbità (a che servì
l'altro diluvio cartaceo dell'anno dantesco?), prendendo posizione di fronte alla politica,
all'attività, alla diplomazia di Benedetto XV.
Di tutto ciò, il “ Momento ” non ha fatto nulla, se non dell'ironia involontaria, parlando del
“Gran Papa”! È disposto il “Momento” a giustificare questa sua espressione, ch'egli,
polemizzando con noi, contrappone ai “Gran Lama” (!) del comunismo?
Nel nostro riserbo, noi cercammo modestamente di commemorare Benedetto XV,
esaminando obiettivamente, e con rispetto del defunto, la sua politica nei suoi risultati
effettuali.
Ma noi siamo dei peccatori...

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno II, n. 25, 25 gennaio 1922.

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PERCHÉ SI TACE IL NOME DEL TENENTE MARIANI?

Inutilmente abbiamo cercato ieri mattina, nelle straripanti di minuti particolari colonne
della “Stampa ”, della “Gazzetta del popolo” e del “Momento”, il nome dell'abilissimo,
intelligentissimo, accortissimo comandante della spedizione dei RR.CC. che nel cimitero di
Collegno ha discoverto l'interminabile lista di armi pesanti e leggere che i tre suddetti
giornali hanno minuziosamente elencato. Come mai non brilla il nome di un tanto uomo?
Come mai tanta modestia in un tanto uomo, che tale servizio ha reso alle istituzioni e
come mai tanto rispetto per tanta modestia nei cronisti della “Stampa”, della “Gazzetta del
popolo” e del “Momento”, che non perdono mai occasione alcuna per esaltare e proporre
alla pubblica ammirazione gli eroi delle gesta gloriose in pro della patria, dell'ordine, della
morale?
L'eroe è il tenente Mariani: ecco spiegato perché i giornali torinesi hanno “ritegno” a
pubblicare il nome. Il tenente Mariani si è squalificato dinanzi all'opinione pubblica con la
sua spudoratezza; nessun lettore, appena appena intelligente, è più disposto a prendere
sul serio le imprese e le scoperte del tenente Mariani. Dopo la faccenda delle 17 000
candele d'accensione “rinvenute” dalla fantasia putrefatta del Mariani nei locali dell'
“Ordine Nuovo”, tutte le persone oneste si sarebbero attese da parte delle autorità
superiori un procedimento punitivo contro il Mariani e il suo radiamento dai quadri dei
RR.CC. Come può ancora un corpo di polizia, al quale sono affidate le più gelose
prerogative di libertà e di sicurezza dei cittadini, mantenere nella sua compagine ge-
rarchica un bugiardo patentato, un agente provocatore bollato e matricolato come il
tenente Mariani?
Si spiega dunque che la “Stampa”, il “Momento” e la “Gazzetta del popolo” non abbiano
ritenuto opportuno pubblicare il nome del tenente Mariani. I lettori immediatamente non
avrebbero più creduto un acca di tutto il macabro romanzo ordito dalla stessa fantasia che
aveva ordito la favola delle 17 000 candele di accensione. La responsabilità di questi
giornali diventa più grande e più pesante. Scientemente essi si prestano a tutte le
turpitudini della polizia. Se in Italia la polizia si è abbassata fino al livello della sbirraglia
borbonica, la responsabilità ricade in gran parte sui giornali borghesi. Se le camere di
sicurezza e le prigioni si son trasformate in luoghi di tortura e di supplizio, se le istruttorie
si portano a un termine purchessia sottoponendo gli arrestati ai tormenti della fame, alle
percosse, al terrore per la sicurezza dei loro familiari, se le carceri sono piene di innocenti,
se gli ordinamenti giudiziari italiani sono diventati un apparecchio terroristico dominato

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dall’arbitrio e dal capriccio dei funzionari, la responsabilità ricade in gran parte sui giornali
e sui giornalisti borghesi. La stampa, insieme coi partiti politici, è parte integrante di un
regime democratico parlamentare bene organizzato. Se la stampa manca al suo ufficio di
organo disinteressato di controllo dell'opinione pubblica, chi potrà arginare gli arbitri dei
funzionari? I giornali torinesi hanno dato, come informazione obiettiva, una relazione fatta
loro dal tenente Mariani, emerito bugiardo, che gli stessi giornalisti della “Stampa”, della
“Gazzetta del popolo”, del “Momento” recentemente hanno dovuto riconoscere essere un
truffaldino matricolato. Il tenente Mariani è oggi impegnato a dimostrare “vera” la versione
diffusa dai giornali. Agli arrestati si farà confessare tutto quello che si vorrà, lasciandoli per
quarantotto ore senza mangiare e offrendo quindi loro un piatto più o meno appetitoso se
vorranno ammettere questa o quella circostanza, se vorranno confessare la responsabilità
di Tizio o di Caio; si slogheranno loro le braccia, si percuoterà loro il capo; l'istruttoria sarà
così organizzata in modo che appaia tutta l'abilità, l'accortezza, l'intelligenza del
funzionario che ha compiuto la gesta. I giornalisti borghesi sanno tutto ciò, ma si prestano
ugualmente al loro triste mestiere di manigoldi. Perché ancora una volta noi affermiamo
che se il tenente Mariani è un bugiardo e un avventuriero della polizia terroristica, i
giornalisti della “Stampa”, della “Gazzetta del popolo” e del “Momento” sono dei
mascalzoni degni del più profondo disprezzo.

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno II, n. 8, 8 gennaio 1922.

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LA FIAT DIVENTERÀ UNA COOPERATIVA?

Poiché ormai la voce circola tra operai e borghesi, poiché se ne è parlato in pubblico in
una assemblea operaia, poiché gli stessi industriali interessati sembra che con i
rappresentanti di fabbrica dei loro operai abbiano esposto le cose a viso aperto, possiamo
noi pure sciogliere ogni riserbo e dire le cose come stanno. La Fiat, la maggior azienda
industriale di Torino, l’azienda industriale che nel campo meccanico e metallurgico si avvia
a diventare la più importante di tutt’Italia, l’azienda che ha un nome e un credito mondiali,
è stata offerta alle organizzazioni operaie, perché, se vogliono, facciano di essa
un’azienda cooperativa.
Non sappiamo dire se si tratta di iniziativa dovuta a una sola persona, o a un gruppo di
elementi direttivi, o a una parte degli azionisti. Sabato, 18 settembre, il cav. Agnelli,
amministratore delegato della società Fiat, chiedeva di avere un abboccamento per
questione urgente e grave col compagno on. Romita. Questi doveva il mattino del giorno
dopo partire per Savona. Alla stazione ebbe luogo il primo incontro, in seguito al quale il
compagno nostro rinviò il viaggio per potersi occupare della questione che gli era stata
sottoposta. Il cav. Agnelli gli ha offerto di iniziare trattative per trasformare la Fiat, l’azienda
di cui egli si può dire il creatore e l’animatore, in una grande cooperativa di produzione.
Alla stazione furono presi accordi per gli incontri successivi.
Essi furono numerosi ed ebbero luogo in tutta la successiva settimana, a partire dalla
domenica stessa. Ad essi dapprincipio, presero parte soltanto il cav. Agnelli, altri due
dirigenti la Fiat e l’on. Romita, in seguito intervennero alle riunioni anche altri compagni
nostri in rappresentanza degli enti che potrebbero essere interessati nella cosa, qualora
essa passasse dal cielo dei progetti al terreno della realtà: il Consorzio delle cooperative,
la Camera del Lavoro, la Federazione metallurgica.
Premettiamo subito che per espresso desiderio del proponente e per motivi facili a
comprendersi ci si mantiene fino ad ora nel campo degli studi, delle proposte, delle ipotesi,
degli schiarimenti.
Il cav. Agnelli dichiarò di essere mosso da motivi perfettamente spiegabili e
comprensibili. La sua azienda, dato il progressivo diffondersi tra le masse delle idealità
rivoluzionarie, e dato soprattutto che queste idealità assumono per le masse la concreta
forma della conquista della libertà e del governo di sé in fabbrica, non può più essere retta
con metodi autoritari e secondo le norme del regime capitalistico. Da alcuni mesi a questa

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parte, per quanti sforzi abbiano fatto, i dirigenti la Fiat sono stati assillati dall’incubo di
avere in officina alcune decine di migliaia non di collaboratori, ma di nemici.
In condizioni simili non si può andare avanti, e queste condizioni si faranno sempre più
gravi, contribuendo allo aggravamento anche l’esito della lotta attuale che è tale da
umiliare i padroni davanti agli operai. Fatte queste premesse il cav. Agnelli proseguì
dicendo che egli è animato soprattutto da un grande amore per la sua azienda, nella quale
egli sente di aver dato vita a un’impresa che racchiude in sé enormi possibilità di sviluppo.
La Fiat potrà diventare una firma mondiale, potrà imporre nel mercato i suoi prodotti, potrà,
quello che più conta, dare per la prima volta in Italia un esempio di organizzazione
industriale moderna e perfetta. Ma tutto ciò non potrà avvenire se non sarà superata la
crisi interna attuale. Il cav. Agnelli disse di credere che, tentando un esperimento di
gestione collettiva, in forma cooperativa, la crisi sarebbe superata, gli operai tornerebbero
ad essere dei collaboratori e la Fiat potrebbe riprendere il suo cammino ascensionale.
Queste cose, su per giù, dichiarò Agnelli chiedendo in seguito schiarimenti ai nostri
compagni tecnici della cooperazione e pratici delle forme e della possibilità del movimento
operaio. Per conto nostro ricordiamo che l’Agnelli è solito tenere atteggiamenti dissidenti
dagli altri industriali. È però difficile trovare una coerenza in questi suoi atteggiamenti.
Prima dell’aprile scorso egli aveva fama di essere liberale, e molti ricorderanno che gli altri
industriali a lui ed alla sua condiscendenza davano la colpa dello sviluppo preso e della
libertà conquistata dalle commissioni interne e dai commissari di reparto. Nella presente
agitazione egli fece aspro lamento per la neutralità del governo, ma poi è stato dei più
condiscendenti alle ultime richieste operaie. Di solito è facile transigere su questioni di
danaro, restio a cedere su questioni di autorità e di potere. Come organizzatore di aziende
produttive egli è stimato dai suoi stessi operai. Come finanziere ha fama di essere privo di
scrupoli. Ora che egli offre agli operai tutto, si può dire, il suo potere, è bene tenere a
mente i suoi precedenti.
I compagni nostri, ricevute le comunicazioni di Agnelli, dapprima non fecero altro che
dargli schiarimenti sulla forma e sul modo di costituzione delle aziende cooperative e fargli
presente quali erano le difficoltà che a prima vista si presentavano alla mente loro. Su
queste difficoltà si iniziò la discussione, uno scambio di idee sulla possibilità e sui modi
della cessione.
Non bisogna dimenticare che la Fiat non è solo uno stabilimento in cui lavorano più di
ventimila operai, ma è un’azienda capitalistica complicata. Come tale essa ha la base
naturale di tutte le aziende capitalistiche: gli azionisti.

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Come tale essa, oltre che un organismo produttivo, è un organismo commerciale che si
dirama in tutti i mercati italiani, europei e mondiali. Di qui una complicazione e un
intrecciarsi di rapporti della più varia natura. Rapporti di natura bancaria pel finanziamento
(8, 10 milioni alla settimana?), rapporti di natura creditizia per gli scambi, ecc. La cessione
di un’azienda simile non potrebbe farsi se non in modi specialissimi, con cautele e
garanzie per ambe le parti. Di queste cose, più che discutersi, si discorse tra le diverse
parti chiamate a conferire con il cav. Agnelli.
È naturale del resto che da parte di chi ha intenzione di cedere si cerchino tutte le
garanzie contro ogni perdita e contro ogni svalutazione dei beni che sarebbero oggetto
della cessione, è naturale d’altra parte che gli eventuali cessionari si preoccupino di far sì
che queste garanzie e il modo stesso della cessione non vengano a gravare sulla nuova
azienda e a farle perdere il carattere che le si vorrebbe dare. Di queste cose si poté
trattare e si tratterà ancora, se si procederà nel concretare l’affare, tra i vecchi gestori della
Fiat e quelli che potrebbero diventarne i nuovi.
Fin d’ora però i compagni nostri i quali sono stati chiamati a ricevere le proposte
dell’industriale torinese hanno sentito ed anche esplicitamente dichiarato che prima e al di
sopra delle questioni tecniche esiste e deve essere trattata e risolta una questione politica.
La trasformazione in azienda cooperativa della Fiat quale valore potrà avere? Sarà
veramente un acquisto per gli operai o non potrebbe invece risolversi in una diminuzione
della loro forza politica e quindi in una perdita effettiva? E le difficoltà sono unicamente di
tecnica, oppure non sono esse tali da rivelare che al di sotto del problema tecnico esiste
un gravissimo problema politico che deve essere esaminato e risolto con animo di politici,
e non soltanto di cooperatori e di organizzatori? Non si sente di già dire che per il
finanziamento di così grande azienda occorrerebbe ricorrere allo Stato? E non si
creerebbero in tal modo dei pericolosi rapporti attraverso i quali lo slancio rivoluzionario
operaio verrebbe meno?
Tutti questi problemi si sono presentati subito alla mente dei compagni i quali sono
venuti a conoscenza delle proposte di Agnelli e in pari tempo essi hanno sentito che non si
può risolvere la questione senza che essa sia largamente dibattuta in seno agli organismi
interessati, i quali non sono solo gli organismi economici, ma anche quelli politici del
proletariato.

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Quelli che noi diamo sono i primi elementi per un giudizio completo. La discussione è
aperta. E vogliamo che essa sia esauriente.

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIV, n. 250, I° ottobre 1920.

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L’AVVENTO DELLA DEMOCRAZIA INDUSTRIALE

La volontà dell’on. Giolitti di restaurare la pace sociale e il normale sviluppo delle forze
produttive italiane, elaborando, secondo lo spirito dei tempi, i nuovi ordinamenti che
possono legalmente assicurare alla classe operaia migliori posizioni e maggiori garanzie
nel campo industriale, ha trovato un’esemplare ed evidentissima attuazione.
Quattordicimila operai della Fiat sono fuori dell’officina. Una popolazione di oltre
quarantamila persone è cacciata nel buio e nell’incertezza del domani. L’autorità
governativa mette a disposizione degli imprenditori tutto l’apparato statale – polizia,
esercito, magistratura, prigioni – per fiaccare la resistenza di tanta massa popolare e per
costringerla ad accettare come legge il buon piacere e l’arbitrio di una mezza dozzina di
speculatori e affaristi. Cosa domandavano i quattordicimila operai, cosa domandava
questa popolazione di quarantamila persone alla mezza dozzina di speculatori e affaristi?
Domandavano che fosse attuata una piccolissima parte dei programmi presentati dall’on.
Giolitti alla Camera dei deputati, domandavano che fosse attuata una piccolissima parte
dei programmi di ordinaria amministrazione giolittiana sciorinati dalla “Stampa”: il controllo
dei licenziamenti. Gli imprenditori, la mezza dozzina di affaristi che ha in pugno la vita e la
morte di decine di migliaia di operai, non hanno neppure voluto discutere, non hanno
neppure voluto attendere un solo giorno, e il governo dell’on. Giolitti, che si propone di
elaborare una nuova e originale “democrazia” industriale, non ha esitato: ha messo a
disposizione della mezza dozzina, contro le decine e decine di migliaia, tutte le armi e tutti
i mezzi repressivi necessari, per farne trionfare l’arbitrio e il buon piacere.
Quattordicimila operai sono privati di lavoro. Quarantamila abitanti della città sono
privati dei mezzi di esistenza. La crisi così determinata non tocca però solamente questa
massa di popolazione: essa dilaga localmente e nazionalmente. È posta una questione
politica e una questione sindacale. Già a Torino la diminuzione degli orari e dei salari
operai aveva incominciato a ripercuotersi sinistramente su tutta la compagine della vita
cittadina: una gran massa di piccola borghesia aveva incominciato ad accorgersi che i suoi
interessi di classe non sono legati alla prepotenza e all’arbitrio dei capitalisti ma dipendono
dalla posizione economica della classe operaia. Si restringe la capacità d’acquisto e di
consumo degli operai, diminuisce, per i licenziamenti, la massa di popolazione operaia e si
isterilisce la ragion d’essere economica e sociale di tutto un largo alone di cittadinanza; la
rovina economica del proletariato determina la rovina di una gran parte della cittadinanza: i
piccoli esercenti, tutta una quantità di professioni e di mestieri falliscono, e nessun

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capitalista, nessuna istituzione pubblica o privata viene in aiuto di tanta gente ridotta alla
disperazione e alla fame, di tanta gente che vede inghiottito dalla crisi il piccolo capitale
realizzato col risparmio e col sacrifizio.
La questione sindacale interessa tutti gli operai metallurgici e, in ultima analisi, tutti gli
operai industriali d’Italia. Si cerca di aprire a Torino la prima breccia nel baluardo della
difesa di classe, si cerca di determinare a Torino una frana caporettistica che permetta di
invadere e di occupare, da parte della reazione capitalistica, tutte le posizioni
faticosamente conquistate dalla classe operaia italiana. Da qualche mese non abbiamo
cessato di insistere su questo pericolo e di richiamare su di esso tutta l’attenzione degli
organismi responsabili e delle masse interessate direttamente. La lotta degli industriali
della Fiat non è solo contro gli operai della Fiat: è rivolta contro i contratti collettivi e contro
tutte le pacifiche conquiste realizzate dagli operai italiani. Si riproduce a Torino, per gli
operai industriali, una situazione simile a quella verificatasi a Bologna per gli operai
agricoli; a Bologna la tattica dell’assalto militare fascista è riuscita, in pochi mesi, per non
aver trovato nell’organizzazione sindacale nessuna opposizione energica e sistematica, a
rovinare tutta la compagine sindacale agricola: le masse hanno dovuto rinunziare alla lotta
per i nuovi patti, i vecchi patti sono diventati un pezzo di carta, il terrore devasta le
popolazioni di tutta la zona agraria, e gli organizzatori, anche gli organizzatori socialisti,
anche gli organizzatori riformisti, sì, anche i socialisti e i riformisti sono posti al bando del
consorzio civile, sono incarcerati, sono minacciati di condanna per ricatto, per estorsione,
per omicidio.
Gli stessi effetti vogliono raggiungere i capitalisti nel campo industriale con questa lotta
ingaggiata a Torino contro le commissioni interne, per il licenziamento dei più attivi
compagni, per la eliminazione dalla fabbrica di tutti gli elementi organizzativi e connettivi
delle masse operaie. La posizione degli operai torinesi serrati è buona per queste ragioni:
ai serrati della Fiat non può mancare la solidarietà di tutto il proletariato metallurgico
italiano e non può mancare la simpatia di una gran parte della cittadinanza torinese. La
questione della “democrazia” industriale, che l’on. Giolitti e la “Stampa” credevano potesse
servire solo ai loro fini demagogici, è veramente una questione “democratica” in quanto
coinvolge gli interessi delle più larghe masse popolari e può avere la capacità di
sintetizzare tutte le energie rivoluzionarie che esistono nel mondo del lavoro.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 96, 6 aprile 1921.

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UOMINI DI CARNE E OSSA

Gli operai della Fiat sono tornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità
rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini di carne e ossa. Hanno resistito per un
mese. Sapevano di lottare e di resistere non solo per sé, non solo per la restante massa
operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana. Hanno resistito per un mese.

Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano
stati ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito
per un mese. Erano completamente isolati nella nazione, immersi in un ambiente generale
di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese. Sapevano di
non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana
erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno
resistito per un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può
domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell’esistenza,
che ha la responsabilità dell’esistenza di 40.000 persone, non si può domandare più di
quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente,
accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire.

Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne
conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo
comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese. Da troppi anni le masse
lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e
le loro energie. È stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell’“Ordine
Nuovo” abbiamo incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista:
non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrifizio del proletariato; si tratta di
uomini, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si
vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che si
stancano, che hanno fame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e
lamentarsi acremente le loro donne. Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre
sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui
inesorabilmente bisogna fare i conti.

E già nell’aprile 1920, quando si scatenò la prima offensiva contro il proletariato


torinese, nei primi giorni della serrata metallurgica occasionata dall’affare delle lancette,

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noi dell’“Ordine Nuovo” stendevamo per la sezione Socialista torinese la relazione che
doveva essere presentata al Consiglio Nazionale del Partito socialista e notavamo:

Gli industriali e i proprietari terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina
e della potenza di classe: una parola d’ordine lanciata dalla Confederazione generale dell’industria
italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo
armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova
forte organizzazione della classe proprietaria, che tende, attraverso la serrata applicata su larga
scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i
contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima
negli stabilimenti metallurgici torinesi è stata un episodio di questa volontà degli industriali di
mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza
di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di
spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il
prestigio e l’autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano
iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi di scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina
dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla
disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle più dure e
umilianti condizioni di lavoro e di esistenza. La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase
che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il
passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della
produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa.
Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro
servile; si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia
(Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le
cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.

Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la
situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di
schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente
per richiamare questi responsabili a una visione più reale, a una pratica più congrua e più
adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell’inettitudine
e della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l’urto dell’avversario,
rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c’è nessuna vergogna nella resa degli
operai detti estremisti. Lo hanno fatto inconsciamente, mossi da interessi personali, mossi

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dal desiderio di crearsi una base politica in centri dove la coscienza di classe dei contadini
era già sviluppata, o dove i problemi che li interessano si presentano spontaneamente in
una forma classistica, ma lo hanno fatto. Tutto il partito ne sconterà la pena, sconterà la
pena di aver fatto muovere dei gruppi i quali hanno potuto credere di essere di
avanguardia e hanno portato in tutto l’organismo politico popolare uno spirito che
contrasta coi suoi fini e propositi reali.
Ma anche da altre vie si lavora allo stesso scopo. Vi lavorano gli stessi gruppi
conservatori che fino ad ora sono stati gli alleati dei popolari e si sono serviti della loro
forza politica, ed oggi non possono che pretendere da essi completo appoggio a tutta
l’azione intrapresa per la conservazione sociale. Dalla conservazione alla reazione il
passo è breve. Gli industriali, spinti dalla baldanza dei nuclei proletari più avanzati lo
hanno già compiuto. I popolari lo debbono compiere anch’essi, presto o tardi. Il modo
come essi hanno condotto la battaglia elettorale amministrativa è il preludio della
trasformazione, che due forze concorrono a produrre, una forza interiore, l’altra esterna.
Tra gli industriali, che vogliono fiaccare gli operai e coi popolari sono giunti a formare
espliciti patti di alleanza, e i gruppi che hanno creduto alle parole di rinnovamento e sono
tratti irresistibilmente ad assumere una posizione politica autonoma e libera, il partito degli
equivoci, il partito del programma democratico e dell’alleanza con i conservatori dovrà per
forza entrare in crisi. Ma la sua sarà crisi di forze reali del paese nostro, che devono e
vogliono diventare padroni di sé.
Da questa crisi deve uscire per noi la possibilità di espanderci in una classe di
lavoratori, la quale, uscendo dalla sfera dell’influenza dei popolari, avrà incominciato ad
imparare che un acquisto vero di libertà sarà reso possibile soltanto da un rivolgimento
che dia il potere ai lavoratori stessi e al partito che prepara e organizza le forze per questo
scopo.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 5, 5 gennaio 1921.

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LA SCONFITTA DELLA FIAT

La Fiat ha perduto la sua battaglia. Nella grande gara automobilistica di Brescia, la


grande casa torinese, nonostante l'audacia di un suo corridore, ha dovuto
vergognosamente cedere di fronte alla superiorità delle macchine francesi. Questo fatto
dipende forse da una momentanea défaillance della capacità tecnica dei costruttori della
Fiat o da una rimediabile disorganizzazione dell'industria, o da un inizio di decadenza
senza rimedio?
Le sorti della Fiat hanno tale una importanza nella vita torinese che riteniamo opportuno
parlarne un poco ai nostri lettori.
Fondata nel 1900, la Fiat cominciò, ora lentamente, ora con colpi d'audacia favoriti dalla
fortuna, la sua ascesa. Occupava originariamente una cinquantina d'operai, ma i suoi
impianti a poco a poco si estesero e, nel 1914, prima che la catastrofe mondiale della
guerra venisse a sconvolgere tutte le industrie, 4000 operai lavoravano negli stabilimenti
della Fiat, che aveva ormai conquistato un posto di primissimo ordine nel campo delle
industrie automobilistiche mondiali. Il nome della Fiat era conosciutissimo in tutto il mondo;
le sue macchine, che avevano raggiunto un'invidiabile perfezione tecnica, erano molto
ricercate dovunque e consentivano alla Fiat di vivere quasi esclusivamente sulle
esportazioni.
Il merito dei dirigenti e dei tecnici per questo promettentissimo sviluppo era indiscutibile.
Il comm. Agnelli e l'ing. Fornaca avevano saputo provvedere ottimamente ad organizzare
la loro industria ed a metterla in grado di affrontare con successo l'accanita concorrenza
delle migliori case straniere. Oltre al resto, erano riusciti a guadagnarsi, con una politica
liberale, la più viva simpatia della maestranza. Non esitiamo a dire che se la Fiat avesse
continuato a procedere sulla stessa strada si troverebbe ora in ben altre condizioni di
fronte alla crisi industriale che imperversa.
I capi della Fiat, e primo tra di essi il comm. Agnelli, erano allora veramente “capitani
dell'industria ”, esperti, sagaci, arditi e prudenti nello stesso tempo. In che cosa li ha
trasformati la guerra?
In cavalieri d'industria. Essi hanno abbandonato - forse contro la loro volontà che non
ha potuto resistere agli eventi - la tradizione degli anni passati per cercare la fortuna nel
campo della speculazione più temeraria, nei giuochi di banca più pericolosi. L'intensa,
affannosa attività di guerra, durante la quale la Fiat aveva dovuto subire trasformazioni ed
ampliamenti impressionanti, ha certamente richiesto ai capi della grande impresa

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industriale sforzi enormi, imponente spreco di energie.
Si aggiunga che innumerevoli industrie sorsero durante il conflitto mondiale, che
aggruppamenti potentissimi di finanzieri si formarono nell'intento di conquistare industrie,
banche, mercati. S'iniziarono per conseguenza lotte furibonde a colpi di milioni. Si
cominciò a cercare nella speculazione l'arma che permettesse di resistere agli avversari, si
tentò con artifizi di borsa di far fallire i piani minacciosi dei concorrenti. Un episodio
clamoroso di questa lotta formidabile è quello a tutti noto dei fratelli Perrone che tentarono
con un colpo d'audacia d'impadronirsi della Banca commerciale. La Fiat non è rimasta
estranea a queste competizioni. L'attività del comm. Agnelli, in altri tempi rivolta a
migliorare il funzionamento dell'azienda industriale, è rimasta quasi completamente
assorbita dalle manovre dei gruppi di banchieri, che si assaltavano a vicenda, dalla
necessità di parare i colpi minacciosi dei nemici. L'uomo, il grande capitano d'industria, si
è infiacchito rapidamente. I suoi nervi scossi violentemente dalla continua tensione gli
hanno tolta la lucidità di mente, la freddezza necessaria per chi sta a capo di una grande
azienda. Mentre la concorrenza industriale si trasformava in una rovinosa competizione di
gruppi bancari, il capitano d'industria si trasformava fatalmente in speculatore, in cavaliere
d'industria.
A questo punto è incominciata la decadenza della Fiat. Agnelli, il liberale Agnelli, scosso
da tante fatiche, con un colpo di testa rinunciava alla simpatia degli operai adottando una
politica reazionaria verso le maestranze. Per sbarazzarsi dei comunisti il comm. Agnelli
non ha più tenuto conto né dell'organizzazione tecnica degli stabilimenti né delle esigenze
molteplici dell'industria. Molti fra i migliori operai furono licenziati per scuotere le basi
dell'organizzazione operaia d'officina.
In molti reparti vennero a mancare gli elementi tecnicamente più capaci, i più esperti
produttori. I non licenziati, profondamente colpiti nelle loro idealità dalla reazione furente,
sotto la minaccia del licenziamento, costretti a lavorare in un’atmosfera di reciproca
diffidenza, furono messi in condizioni pessime per la continuità e per la bontà della
produzione.
Quando Agnelli e Fornaca rassegnarono le dimissioni dal consiglio d'amministrazione
della Fiat, essi giustificarono questo loro atto con l'indisciplina delle masse operaie. Essi
sostennero che l'officina doveva essere estranea alla politica, che gli operai in officina non
dovevano occuparsi che del loro lavoro e non pensare ad altro. Riversarono sugli operai la
colpa dello stato in cui l'industria veniva a trovarsi e non pensarono allora che una politica
liberale verso le maestranze non avrebbe potuto danneggiare la produzione e che la

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responsabilità della crisi non poteva certo essere addossata agli operai, i quali si
dibattevano affannosamente per trovare una via d'uscita alla preoccupante situazione che
creava ad ogni aumento di salari un aumento del costo della vita. I capitalisti, impegnati
nei giochi di borsa, non potevano rinunciare neppure ad una parte dei loro profitti per trarre
da questa condizione gli operai. Cercarono perciò di rimediare con la reazione. S'illusero
che allontanando migliaia e migliaia di operai dalle officine, ristabilendo l'autorità assoluta
del padrone, stringendo i freni, rendendo inflessibile la disciplina, le industrie potessero
riprendere il loro andamento normale. Errore grave. Trascurata la riorganizzazione del
dopoguerra, eliminati elementi insostituibili, generata la sfiducia e il malcontento nell'animo
degli operai, la produzione si fece più scadente. Oltre la crisi un altro grave pericolo
minaccia la Fiat: la decadenza. La prima prova clamorosa?
La vergognosa sconfitta di Brescia.

Non firmato, “ L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 248, 6 settembre 1921.

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GESTIONE CAPITALISTICA E GESTIONE OPERAIA

La “Perseveranza” e alcuni altri giornali notoriamente legati agli interessi dell'affarismo


bancario-industriale italiano, hanno cercato di rispondere ai rilievi da noi fatti sulle cause
che hanno determinato le due clamorose sconfitte subite dalla Fiat al circuito di Brescia.
Gli scrittori di questi giornali probabilmente non hanno mai visto un'officina moderna;
certamente essi ignorano cosa sia lo spirito industriale; indubbiamente essi sono in
malafede, e hanno il partito preso (e pagato) di insorgere in difesa dei proprietari per
qualsiasi contesa e di trovare che tutte le responsabilità dei mali che affliggono la
produzione italiana ricada sulla classe operaia, sul bolscevismo, sui Consigli di fabbrica.
Le parole sono parole, le affermazioni sono affermazioni; diano un'occhiata alle cifre,
questi egregi signori, preghino gli industriali di pubblicare i dati di produzione che si
riferiscono a questi periodi, caratteristici della attività industriale dei metallurgici torinesi: 1)
dallo sciopero dell'aprile 1920 alla occupazione delle fabbriche; 2) occupazione delle
fabbriche; 3) dall'occupazione delle fabbriche alla serrata dell'aprile 1921; 4) dalla
riapertura, col licenziamento dei Consigli di fabbrica e dei gruppi comunisti, al circuito di
Brescia.
Nel periodo di occupazione e di gestione operaia diretta, quantunque la maggioranza
dei tecnici e degli amministrativi avesse disertato il lavoro e una notevole parte della
maestranza operaia fosse stata destinata a sostituire i disertori e a svolgere funzioni di
sorveglianza e di difesa militare, tuttavia il livello della produzione fu più elevato del
periodo precedente, caratterizzato dalla reazione capitalistica dopo lo sciopero dell'aprile
1920.
Nel periodo successivo all'occupazione - in cui il controllo operaio e il potere dei
Consigli di fabbrica raggiunsero il massimo di efficienza - la produzione della Fiat fu tale,
per quantità e per qualità, da superare di gran lunga la produzione del periodo bellico: da
48 vetture quotidiane si balzò alle 70 vetture quotidiane. I signori industriali giocarono una
carta suprema su queste nuove condizioni create alla produzione dal potere dei Consigli di
fabbrica: essi proposero alle maestranze un progetto di cottimo collettivo. Poiché
esistevano i Consigli di fabbrica, i quali esercitavano un controllo reale e immediato su
tutte le iniziative capitalistiche, e poiché, se controllato, il cottimo collettivo rappresenta un
grande passo in avanti nel regime industriale, le maestranze accettarono, con alcune
modificazioni, il progetto. Ma gli industriali, una volta introdotto il cottimo collettivo,
passarono all'offensiva contro i consigli e contro i gruppi comunisti. La serrata fu

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proclamata, gli operai rivoluzionari furono licenziati, i reparti furono disorganizzati, la
reazione più spietata fu introdotta come sistema. Le conseguenze furono disastrose: il
collaudo incominciò a respingere fino al 50 per cento della produzione di molti reparti; il
livello della produzione cadde fino a 15 vetture al giorno. Politicamente, gli industriali
hanno raggiunto i loro fini: le commissioni interne, formate di socialisti, non danno più noia
alcuna ai dirigenti; gli operai sono disciplinatissimi; nessuno parla; nessuno si muove dal
suo posto; non si fanno comizi; non circolano giornali sovversivi; non si discute. Ma la
produzione è caduta da 70 vetture a 15 vetture, e la qualità è scaduta nella misura
dimostrata dal circuito di Brescia.
Possono smentire questi dati gli allegri scrittori della “Perseveranza” e degli altri giornali
“che si preoccupano delle sorti dell'industria nazionale”? Una cosa appare evidente dalle
esperienze industriali di questi anni passati: 1) la classe dominante non possiede più un
ceto di imprenditori capace di governare la produzione industriale; la guerra, se ha
esaurito, con le sue privazioni e coi suoi orari lunghissimi di lavoro, la classe operaia, ha
però esaurito in una misura superiore gli imprenditori, che si sono pervertiti con la
speculazione bancaria e hanno perduto la capacità di organizzare e di amministrare le
grandi masse d'officina; 2) la classe operaia, quantunque non abbia l'esperienza e la
“maturità” politica e tecnica della classe dominante, tuttavia riesce meglio della classe
borghese a gestire la produzione. Capitalismo significa oggi disorganizzazione, rovina,
disordini in permanenza. Non esiste per le forze produttive altra via di scampo che
nell'organizzazione autonoma della classe operaia sia nel dominio dell'industria che nel
dominio dello Stato.

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 259, 17 settembre 1921.

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PAROLE! PAROLE! PAROLE!

Nessun dubbio. Torino batte il record delle conferenze belliche. In nessun grande
centro d’Italia se ne sono tenute tante. Così anche domenica scorsa ne abbiamo avute
due. C’è già stata tutta una mobilitazione di tromboni e di tromboncini. Non so in quale
delle due categorie collocare l’on. Giretti e l’on. Zerboglio che hanno parlato domenica
scorsa. Deploro di non aver potuto dividermi in due parti uguali per udirli entrambi, ché
entrambi parlavano in luoghi diversi alla stessa ora.
Sono un frequentatore assiduo ed imparziale dei ritrovi dove il Comitato di preparazione
civile esplica la sua attività zelante per convertirci all’ordine di idee predominante nella
nostra vita politica. Ma ahimè! se gli effetti che le iniziative del comitato di preparazione
conseguono nella maggior parte dell’uditorio sono similari a quelli che riflettono su di me, il
comitato stesso può proclamare la bancarotta della propria istituzione e delle proprie
iniziative.
Non dico che non mi sento convertito, ma che mai come in questi ultimi mesi di intensa
propaganda bellica, esplicata da tutta una pleiade di oratori e professori, ho potuto
constatare che il morbido scetticismo di Ernesto Renan, pronto alle più amabili
concessioni alle idee e ai criteri degli avversari, ha torto marcio.
Per le numerose conferenze di questi mesi io ho potuto constatare d’essermi rinfrancato
nelle mie opinioni, ché mai mi è stato più facile cogliere le contraddizioni dell’avversario.
Pensate! Fradeletto viene a Torino ad esibire una sua scoperta storica per la quale
sarebbero ormai evidenti ricorsi e riscontri dei fatti attuali, dell’epoca attuale, con i fasti
della repubblica veneta. Un professore universitario nazionalista è da noi citato per
smentire la “bestialità” fradelettiana che è difesa dalla bagascia veneziana di calle
Coatorta. La “Gazzetta di Venezia” per dire che siamo delle “canaglie ignoranti” ci dedica
un articolo di fondo e sbaglia per ben due volte un importante fatto storico. Un articolo di
fondo? Troppo onore. Ma la “bestialità” fredelettiana, quanto dire retorica non è smentita.
Achille Loria che già aveva “scientificizzata” la neutralità della “vasta tribù degli scemi” con
la tesi della depressione del reddito causa precipua della guerra che tutte le altre
responsabilità soverchia e confonde, a fatto compiuto, conciona per incitare le torme
studentesche a “dimostrare” in onore e gloria dell’on. Salandra.
Il prof. Bertarelli in una sua clamorosa conferenza afferma che i tedeschi sono barbari,
perché “violentano la bellezza non possedendo belle donne”, mentre i romani sapevano
rendere i popoli soggetti “solidali nel mese e fratelli nell’anno”. Testuale!

47
Il prof. Bossi tiene due conferenze e riesce a nauseare gli stessi interventisti torinesi
meno inintelligenti. Il prof. Ruffini, sempre a Torino, si sforza a dare del pensiero
cavouriano un’interpretazione imperialista e prospetta l’antitesi tra i Savoia guerrieri e la
repubblica veneta. Nega quindi il riscontro e i ricorsi del professore di retorica, on.
Fradeletto, esalta i Savoia a scapito di Venezia ed afferma che “questa dell’Italia è la
prima guerra che il nostro paese conduce da solo”.
Potrei continuare. Ma mi pare che ci sia quanto basti ad attestare l’inanità di un modo di
propaganda bellica così contraddittorio e talvolta anche banale.
Intanto Torino, checché dica il signor Teofilo Rossi nei suoi discorsi scipiti, non dà per le
opere di assistenza quanto è dato da Milano, ad esempio, mentre la nostra città trae
enormi guadagni dalla guerra.
Le due conferenze di domenica scorsa erano la continuazione della serie. Della serie
attestante troppe parole in surrogazione… di fatti, cioè di spiccioli, di molti spiccioli, di molti
spiccioli…

“Il Grido del Popolo”, n. 605, 26 febbraio 1916.

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UNA FORMA DI PLUSVALORE

Nell’angolo di piazza Castello si svolge una battaglia a colpi di bollettini che deve
essere sfuggita a ben pochi dei torinesi. La ditta Carpano ha dovuto abbandonare la sua
sede secolare per un improvviso aumento di fitto, e nei limiti del possibile cerca di
prevenire lo sfruttamento che i successori potranno fare del suo buon nome e della
clientela conquistata con pratica più che centenaria. La buvette Carpano era diventata
un’istituzione, e il locale da essa occupato continuerà a fruire, anche dopo il trasloco
della ditta, della fama che l’abitudine le aveva creato. La questione ha uno squisito
carattere di competizione capitalistica e merita di essere postillata. Credo che in Francia
sia già stata risolta, e che una legge speciale regoli le contese che possono sorgere tra
capitale e capitale. Si è cioè riconosciuto che del plusvalore che un locale viene ad
acquistare per l’attività di un esercente, non deve essere solo proprietario il padrone
dello stabile, ma anche chi questo plusvalore è riuscito a creare. Prendiamo per esempio
il caso Carpano: egli ha affittato il locale in un certo tempo per una certa somma, che
rappresentava l’interesse di un certo capitale: con la sua attività, dopo un certo tempo, è
riuscito a dare al locale un valore triplo, quadruplo, cioè ha fatto dilatare la potenzialità
fruttifera del capitale stabile. Il proprietario gli aumenta il fitto e lo fa sloggiare.
Ha diritto il proprietario a far ciò? In Francia la legge nega questo diritto, o almeno, per
non intaccare il principio della proprietà privata, obbliga chi non ha fatto niente per il
proprio arricchimento a versare una indennità a chi di esso è stato l’unico fattore. Non
può sfuggire a nessuno il valore schiettamente socialista di questo riconoscimento,
anche se ristretto entro la cerchia di interessi borghesi contrastanti fra loro, cioè anche
se esso serve a dirimere controversie sorte fra due diverse categorie borghesi. I deputati
socialisti di Francia cercarono di far stendere il principio anche nel campo proletario.
Dissero cioè: se la legge riconosce che il capitalista ha diritto a partecipare in qualche
modo al plusvalore verificatosi per opera sua nel capitale di proprietà di un terzo, sempre
rimanendo nel campo dell’esercenza, perché i commessi di negozio, che hanno
contribuito con la loro abilità all’incremento della ditta, all’acquisto di una clientela, ecc.
non devono partecipare agli utili, e invece possono essere messi alla porta senza che la
legge dia loro il diritto ad un indennizzo? Naturalmente, trattandosi di relazioni tra
capitale e lavoro, la mozione socialista cadde nel vuoto e le fu negata ogni importanza.
Ma rimane la constatazione del fatto. L’affermazione marxista del plusvalore non è
quella enorme sciocchezza che gli economisti borghesi vogliono far parere. In paesi

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dove lo svolgimento capitalistica ha raggiunto una fase più perfetta sono state
riconosciute, pur entro limiti, le pretese di determinati ceti borghesi a fruire di esso a
danno di altri ceti. È evidente che il capitalismo crea di per se stesso gli stati d’animo e le
condizioni che concorrono al progressivo svalutamento del sacro diritto alla proprietà, e
che non sta che nella buona volontà e nell’energia rivoluzionaria del proletariato di
condurre questi iniziali riconoscimenti alle loro ultime conseguenze, e cioè che l’unico
proprietario del capitale, che è tutto un plusvalore di una ricchezza terriera iniziale, è il
produttore, il lavoratore che con l’energia delle sue braccia e col sacrificio della sua vita
spirituale, lo ha creato, lo ha portato alle condizioni in cui si trova attualmente di
prosperità e di potenzialità di ulteriore sviluppo.

“Avanti!”, anno XX, n. 62, 2 marzo 1916.

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PRELUDIO

Una delle storie che in questi ultimi anni riscosse da parte dei competenti maggior lode
era dedicata allo studio dell’importanza che nel corso dei secoli aveva avuto in Italia la
città, come organismo economico e sociale.
Dal tempo dei comuni – che, molto prima delle rivoluzioni inglese e francese, segnano il
sorgere nelle regioni più ricche e più fertili del nostro paese di una classe borghese attiva
ed operosa la quale distrugge di fatto molti dei privilegi feudali e si afferma prima in
Europa per l’attività commerciale e bancaria – la città rappresenta in Italia il nucleo più
potente di energie che assomma in sé tutte le attività più benefiche, più fattive di
progresso, ed elimina sovente tutti gli inconvenienti che l’accentramento statale apporta
necessariamente con sé. Il dualismo che è sempre esistito fra due creazioni storiche trova
anche attualmente la sua espressione nelle lotte che i socialisti devono sostenere nei
comuni da loro conquistati e nel programma di autonomia amministrativa che essi si sono
prefissi.
Perciò noi crediamo che sarebbe opportuno avere su tutte le città italiane delle
monografie che ce le presentassero nell’atto della loro vita più propria, nell’estrinsecazione
della loro attività a carattere più strettamente locale. Quanti sono i cittadini che della loro
città conoscono ciò che ne fa veramente una forza, un organismo economico e sociale?
Questo genere di letteratura è in genere poco coltivato nella patria degli scrittori di sonetti
e di canzoni arcadiche perché è ingrato, richiede ricerche minuziose e noiose, e non dà
molte soddisfazioni estetiche. Eppure chi vuole rendersi ragione di molti fenomeni sociali,
bisogna che si rifaccia di là. Il fenomeno del campanilismo non è sempre quella ridicola
cosa che gli umoristi si dilettano di volgere in riso; ha le sue ragioni profonde, le sue ombre
e le sue luci, il suo bene accanto al suo male.
Vogliamo fare per Torino il tentativo di una ricerca del genere. Vogliamo studiare quale
contributo la nostra città apporti al complesso della vita nazionale, quali siano le
caratteristiche individuali della sua attività, le forme in cui si concreta tutta la multiforme
operosità delle sue categorie sociali che si agitano turbinosamente nella lotta quotidiana
per la produzione, per il traffico, per le loro ideologie politiche.
Torino rappresenta in piccolo un vero e proprio organismo statale. Tutte le energie vi
sono rappresentate, tutte le forze antitetiche di uno Stato vi operano. È una città moderna
nel senso più schiettamente storico della parola. In essa tutte le scorie medievali che
ancora deturpano in Italia la società borghese, sono precipitate; i mezzi termini sono stati
aboliti; i comodi cuscinetti che nelle lotte sociali attutiscono gli urti troppo violenti sono stati

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mandati al rigattiere per il rapido, quasi convulso crearsi di un’organizzazione proletaria
agile e combattiva. La lotta di classe integrale, cosciente, che caratterizza la storia attuale,
in Torino è perfettamente individualizzata.
L’ultima elezione politica, quella per il IV Collegio ha trovato di fronte socialisti
rivoluzionari e nazionalisti; proletariato che non vuole più sentir parlare di alcuna forma di
collaborazionismo e borghesia che ha trovato nell’idea nazionale l’ultima espressione del
suo spirito tradizionale e cerca nella cosciente riflessione della sua esistenza come classe
lo stimolo a rinnovellarsi. Torino è la sola grande città che abbia solo deputati socialisti da
una parte e conservatori dall’altra, senza la solita intrusione di elementi democratici.
Faremo modestamente e secondo le esigenze di una pagina dedicata alla cronaca la
stessa opera che gli inviati speciali fanno per i paesi stranieri. Scopriremo Torino prima per
noi e poi per gli altri e ci raccomandiamo ai compagni perché ci suggeriscano vie nuove e
ci aiutino nella raccolta degli elementi di ricerca.

“Avanti!”, anno XX, n. 135, 17 maggio 1916.

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STENTERELLO

Osservate il come si viene atteggiando e componendo attraverso la storia la borghesia


politica ed intellettuale italiana. Constaterete questo fatto. Sono nati e si sono formati in
Italia dei genî altissimi, dei veri creatori, che hanno assunto valore e fama mondiale, ma
essi non hanno avuto un ambiente, non hanno avuto la fortuna di poter formare una
scuola, di essere circondati da un numero anche mediocre di individui che li
comprendessero e ne attuassero gli insegnamenti e i principî. È mancato sempre, o quasi,
in Italia, un ambiente di serietà, di lavoro effettivo e dignitoso intorno ai luminari della
scienza, della politica, della vita morale, della cultura, che pure sono nate in Italia e in
italiano hanno scritto e parlato in buon numero.

Dietro l’avello
di Machiavello
giace lo scheletro
di Stenterello.

Questi versi si potrebbero ancora maggiormente rendere significativi. È tutta una


caterva di Stenterelli quella che circonda la persona di un solo Machiavello. Stenterelli che
urlano, sbraitano, si lisciano con aria di gravità la pancetta accademica, esaltano le virtù
della stirpe, l’alto sapere degli antenati, ma essi stessi non fanno nulla, non lavorano, non
sono produttori di una idea, di un fatto. Stenterello non è neppure un uomo: è una
scimmia. Stenterello è il prototipo della borghesia italiana, chiacchierona, vanitosa, vuota,
che non vuole adattarsi al lavoro modesto, ma fecondo della collettività anonima, e si
trastulla sempre a suonare il chitarrino per lodare i grandi fatti degli antenati, dei quali egli
altro non è che il molesto pidocchio.
Stenterello, dopo che è scoppiata la guerra si è straordinariamente moltiplicato. A
Torino gli Stenterelli si sono agglomerati intorno alla Lega Antitedesca. La nostra città non
è come molte altre italiane. È una città dove si lavora. È una città che sa realizzare, che sa
foggiarsi un avvenire col proprio lavoro. Ma anche nel suo seno non mancano gli
Stenterelli. Anzi, perché sia più sensibile il distacco dal resto della cittadinanza, essi sono
più Stenterelli che mai. Infatti la Lega Antitedesca di Torino è la più rumorosa d’Italia,
quella più prolifica di ordini del giorno, di affermazioni verbose d’italianità. Quella che
maggiormente esalta la virtù dei grandi morti, appunto perché i suoi componenti sono i

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meno capaci di lavorare sul serio, di produrre qualche cosa che dia un qualche lustro al
loro nome e alla collettività che ha avuto la malasorte di esprimerli dal suo seno.
La Lega Antitedesca di Torino ha pubblicato in questi giorni uno zibaldone, La riscossa
italica, che è il prodotto più raffinato dello stenterellismo italico. Il sommario si fregia di più
di 40 nomi di illustri viventi, che dovrebbero onorare il paese. Due o tre nomi di persone
intelligenti, abusivamente riprodotti, contorno di una trentina di Stenterelli che si
riattaccano a Mario, il vincitore romano dei Cimbri e dei Teutoni. E le persone intelligenti si
sentono a disagio in mezzo a questa canaglia di scoglionati e si scusano di essere state
accomunate ad essa.
Chi lavora sul serio non vuole essere confuso con Stenterello. Chi lavora sul serio non
ha bisogno di attaccarsi alla guaina della daga di Mario romano, né alla carmagnola
sdruscita di Mario Gioda, il bevitore di sangue di vitello. Lavora, non urla. Lavora, e perciò
solo è uomo, non scimmia antitedesca. Lavora, e perciò produce, e si oppone ai tedeschi
nel solo modo ragionevole e umano: innalzando accanto all’edifizio della cultura, della
scienza, della vita morale tedesca, un altro edifizio che sia attualmente vivo di vita propria
e originale.
Stenterello è testa vuota, e perciò non capisce che a una forma di vita si deve opporre
un’altra forma di vita. Che al lavoro si oppone altrettanto lavoro, e più e meglio se è
possibile. Ma Stenterello è anche truffaldino e imbroglione. Egli è il professore sempre
bocciato ai concorsi; è il poeta che non trova lettori; è l’industriale che vuole arricchirsi
poltrendo; è il commediografo che il pubblico fischia; è il nobile avariato che non trova più
chi si scappella dinanzi alla sua maestà. E l’antitedeschismo per Stenterello significa in
questo caso: il professore diventi professore d’università, perché è tradizione del
risorgimento mandare all’università chi ha fatto le schioppettate e… chi le ha lasciate fare
agli altri; l’industriale abbia la protezione doganale che proibisca l’introduzione della merce
tedesca, e gli permetta, poltrendo, di arricchirsi dissanguando i suoi concittadini; per il
commediografo, l’obbligo alle compagnie di rappresentare solo i suoi drammi, solo perché
italiani, anche se il pubblico italiano li fischia.
E così via.
[…].

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Stenterello non si accontenta di essere il pidocchio dei morti Machiavelli; vuole essere
la sanguisuga vorace anche dei Pantaloni viventi. È una scimmia pratica Stenterello: ma la
sua filosofia della pratica è quella contemplata dal Codice Penale.

“Avanti!”, anno XXI, n. 69, 10 marzo 1917.

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SI DOMANDA LA CENSURA

Hanno chiuso il caffè concerto e il varietà. È proibito divertirsi, comprare il divertimento


dei caffè concerto e dei varietà. L’autorità è dovuta intervenire. Ci sarebbe stata ancora
una folla di gente che avrebbe continuato a frequentare i ritrovi del piacere più banale e
più volgare se l’autorità non fosse intervenuta.
Noi comprendiamo che l’autorità sia intervenuta. Ci maravigliamo che non sia
intervenuta prima. Non perché siano i nostri desideri che l’autorità intervenga in ogni cosa
a regolare la volontà e la vita dei cittadini, ma perché vorremmo che ogni manifestazione
avesse una sua logica, si inquadrasse in un programma, e questo programma si cercasse
di realizzare. Lo Stato è intervenuto per regolare la manifestazione delle idee dei cittadini:
ha istituito la censura preventiva, ha decretato condanne severissime per chi espone
alcuni modi di vedere o di non vedere. Vuole che il pensiero manifestato sia uniforme, di
taglio democraticamente uniforme. Ogni originalità gli pare nociva agli interessi pubblici. È
proibito il lusso, il divertimento del pensare, del fare sfoggio della propria intelligenza, della
propria ricchezza interiore (e sia pure ricchezza di cenci, di similoro). La censura di questa
ricchezza è stata inesorabile, ha sequestrato, ha bruciato, ha distrutto.
È mancata l’altra censura, la vera tradizionale censura, che colpisce il censo, il lusso, il
piacere. Nessuna legge che proibisse l’ostentazione della ricchezza inutile perché
trasformata in gioielli e in acconciature è detratta al lavoro, alla produzione. Il censore dei
costumi non è stato creato così come quello delle idee. Unico censo da limitare, le idee;
unica ricchezza da sequestrare, le idee. Lo Stato si è rivelato sempre meglio per Stato
borghese, nel significato più gretto. Le idee sole sono i nemici dello Stato. Non le idee che
possono sorgere in tutti i cittadini nel vedere certi spettacoli, ma determinate idee, quelle di
determinate persone e di determinati aggruppamenti.
[…].

“Avanti!”, anno XXI, n. 318, 16 novembre 1917.

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UN CASO DI MALAVITA TEATRALE

Egregio Signor Direttore Torino, li 22 marzo 1921


del giornale “Ordine Nuovo”

In seguito ai diversi articoli denigratori comparsi sul vostro giornale “Ordine Nuovo”
parlando del comm. Zacconi – in contrasto con tutti i critici d’Italia – e che non hanno
proprio la sola forma di critica, ma di vera offesa personale, perché chiama – questo
vostro giovanissimo critico – il comm. Zacconi “artista men che mediocre” la Direzione di
questo Teatro Balbo, onde vietare spiacevoli incidenti, che potrebbero nascere tra il vostro
critico e i componenti la Compagnia del predetto commendator Zacconi, si pregia avvisarvi
che da questa sera sono vietate le entrate ai signori del vostro giornale anche muniti di
tessera a suo tempo da questa Direzione rilasciata, disponendo altrimenti della poltrona
segnata per il vostro giornale.
Col massimo rispetto di voi devotissimo

L’Amministratore-Delegato
FELICE BOSCO

Questa lettera abbiamo ricevuto dalla Società anonima imprese teatrali, impresaria
degli spettacoli che il comm. Zacconi dà al Teatro Balbo. Crediamo quindi la lettera
inspirata dall’attore stesso e vorremmo credere che il comm. Ermete Zacconi, uso a
foggiarsi, nelle sue interpretazioni più note, creature di fantasia che serbano sempre una
realistica banalità, abbia realizzato nella lettera su trascritta una creazione dello stesso
genere, nelle quale con un fatto pratico si unisce una misera esagerazione di
palcoscenico, e in questa confusione di elementi si perde il criterio per fissare le
responsabilità e le valutazioni.

Ma poiché allo sforzo estetico non riuscito s’aggiunge una grettezza meschina di azioni
noi dobbiamo porre questa lettera tra i documenti di una storia del costume e valutarla
come fatto pratico. Ne sorgono due problemi, che son chiamati a risolvere rispettivamente
la critica dei giornali e i pubblici italiani, in condizioni che devono preoccupare in modo
grave il comm. Zacconi, quand’egli, post factum, rifletta sulle sue azioni.

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Il comm. Zacconi ritiene che gli articoli del nostro “giovanissimo” critico fossero offensivi
per lui. E questo noi siamo disposti ad ammettere quando si ponga chiara la premessa da
cui questa conseguenza deve scaturire. Per il comm. Zacconi è offensivo qualunque
giudizio che non si limiti ad adorarlo quale nume redivivo e che cerchi invece di valutarlo
alla stregua degli altri fatti umani. Se ne “prenda atto”.
E in verità di quale offensivo misfatto è colpevole il nostro critico? Di avere attribuito allo
Zacconi tanta serietà da discuterlo con una costanza e un’accuratezza che poterono
sembrare persino eccessive. Egli ha fatto dell’opera dello Zacconi vero e proprio oggetto
di studio estetico, proponendosi di ricercare in lui, nello stesso modo in cui si
ricercherebbe in uno scrittore di critica, gli elementi che egli porta alla valutazione e alla
ricostruzione delle opere d’arte. Esaminando con perfetta imparzialità da una posizione di
dialettica artistica, severamente e segretamente mantenuta, la parte essenziale del
repertorio zacconiano egli è giunto a segnalare con approvazione cordiale le due massime
interpretazioni dell’attore: La bisbetica domata e Il Cardinale Lambertini; a notare come
mediocri e dignitose le scene di drammi borghesi come: Il padrone delle ferriere e I
disonesti; ha protestato vigorosamente contro ricostruzioni volgari di mera superficialità,
come gli Spettri, l’Otello, il Nerone. Il nostro critico è il primo in Italia a dire queste cose,
perché è il primo a studiare un po’ più profondamente un fenomeno che era diventato
abitudine accettare senza discussione. Tuttavia che egli interpretasse un pensiero
oscuramente presentito da molti è provato dai numerosi consensi che al suo studio son
venuti da molte parti e soprattutto dal fatto che nessun critico degli altri quotidiani s’è
assunto il compito della polemica in difesa del nume.
In tutto questo atteggiamento del nostro collaboratore c’è molto rispetto verso lo
Zacconi e verso la serietà che deve trovarsi in un critico e che lo deve tener lontano dalle
improvvisazioni e condurre invece ad uno studio misurato e profondo. Perché la critica ha
la sua funzione, utile all’attore e al pubblico, soltanto quando sia libera. Al critico libero
spetta il compito di indirizzare a maturo giudizio oscure intuizioni dello spettatore comune:
di controllare l’operosità artistica, di porre e di fecondare valori di cultura. In questo senso
l’attore è di fronte al critico nella posizione di uomo che ha diritto ad essere giudicato e
aiutato da chi rappresenta un’aristocrazia intellettuale e un momento elevato di
disinteresse di pensiero. C’è nelle due persone una reciproca responsabilità, che,
esercitata nobilmente, significa deferenza verso il pubblico.
Il comm. Zacconi non pensa così. Il comm. Zacconi tratta con il critico come con i suoi
attori. Il comm. Zacconi è persona esperta di affari, competente in mercati: egli vede nel

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critico un uomo da asservire ai proprii interessi; regalandogli il diritto alla poltrona in teatro
egli ne compra l’approvazione o il silenzio. Se il mercato non riesce lo licenzia. E non se
ne accontenta, ma, pauroso degli effetti, scende a minacce personali, non sdegna il
ricatto. Se a questi suoi atti noi attribuissimo un significato più grave di quello che abbia il
gesto teatrale di un attore, noi non sappiamo come il comm. Zacconi ne potrebbe dare
ragione.
C’è in tutto questo il temperamento autocratico di un signorotto da leggenda, con molto
medioevo, con qualcosa di eroico e, per l’anacronismo, qualcosa di comico. C’è però in
fondo una grettezza assai poco onorevole e poco sincera. Il nume scende dal piedistallo
ove l’ha collocato la cecità popolare e svela una profonda miseria morale.
Tuttavia non del suo ritratto psicologico a noi importa, ma del valore sociale delle sue
azioni. Di fronte al ragionamento che fa il comm. Zacconi la critica di Torino e d’Italia non
può non assumere una posizione decisa. Un momento di esitazione vorrebbe dire rinuncia
alla propria libertà e alla propria serietà: nessuno può adattarsi a essere stimato servo
degli interessi personali di un attore, anche quando questi sia il comm. Ermete Zacconi. E
il pubblico, dal canto suo, ha diritto di sapere quale valore sia da attribuirsi
all’indipendenza dei giudizi che trova sui quotidiani, come possa distinguere tra cronaca e
valutazione.
Noi siamo lieti di avere offerto un criterio per questa indagine svelando l’animo e i
sistemi di questo celebrato commendatore decisamente pronto ad ignorare qualsiasi
codice di probità artistica. Dal canto nostro, nonostante i tentativi di volgare ricatto e
intimidazione continueremo imparzialmente la nostra funzione di giudici, consci della
pubblica responsabilità che vi è commessa. Il pubblico sappia come deve agire, come
deve difendere la sua dignità.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 89, 31 marzo 1921.

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12. IX. 1927

Carissimo Carlo,
ho ricevuto insieme la tua lettera del 30 agosto e l’assicurata del 2 settembre. Ti
ringrazio di tutto cuore. Non so cosa ti ha scritto Mario; ho l’impressione che ti abbia
troppo allarmato, mentre io pensavo che la sua visita avrebbe contribuito a rassicurare la
mamma. Mi sono sbagliato. – La tua lettera del 30 agosto è poi addirittura drammatica. Ti
voglio, d’ora innanzi, scrivere spesso, per cercare di convincerti che il tuo stato d’animo
non è degno di un uomo (e tu non sei più tanto giovane, ormai). È lo stato d’animo di chi è
in preda al panico, di chi vede pericoli e minacce da tutte le parti, e perciò diventa
impotente ad operare seriamente e a vincere le difficoltà reali, dopo averle bene
determinate e circoscritte da quelle immaginarie che la sola fantasia ha creato. – E prima
di tutto voglio dirti che tu e anche gli altri di casa non mi conoscete che ben poco e avete
perciò una opinione completamente sbagliata sulla mia forza di resistenza. Mi pare che
siano quasi 22 anni da che io ho lasciato la famiglia; da 14 anni poi sono venuto a casa
solo due volte, nel 20 e nel 24. Ora in tutto questo tempo non ho mai fatto il signore;
tutt’altro; ho spesso attraversato dei periodi cattivissimi e ho anche fatto la fame nel senso
più letterale della parola. A un certo punto questa cosa bisogna dirla, perché […] si riesce
a rassicurare. Probabilmente qualche volta tu mi hai un po’ invidiato perché mi è stato
possibile studiare. Ti voglio solo ricordare ciò che mi è successo negli anni dal 1910 al
1912. Nel 10, poiché Nannaro era impiegato a Cagliari, andai a stare con lui. Ricevetti la
prima mesata, poi non ricevetti più nulla: ero tutto a carico di Nannaro, che non
guadagnava più di 100 lire al mese. Cambiammo di pensione. Io ebbi una stanzetta che
aveva perduto tutta la calce per l’umidità e aveva solo un finestrino che dava in una specie
di pozzo, più latrina che cortile. Mi accorsi subito che non si poteva andare avanti, per il
malumore di Nannaro che se la prendeva sempre con me. Incominciai col non prendere
più il poco caffè al mattino, poi rimandai il pranzo sempre più tardi e così risparmiavo la
cena. Per 8 mesi circa mangiai così solo una volta al giorno e giunsi alla fine del 3° anno
di liceo, in condizioni di denutrizione molto gravi. Solo alla fine dell’anno scolastico seppi
che esisteva la borsa di studio del Collegio Carlo Alberto, ma nel concorso si doveva fare
l’esame su tutte le materie dei tre anni di Liceo; dovevo perciò fare uno sforzo enorme nei
tre mesi di vacanze. Solo zio Serafino si accorse delle deplorevoli condizioni di debolezza
in cui mi trovavo, e mi invitò a stare con lui ad Oristano, come ripetitore di Delio. Vi rimasi
1 mese e ½ e per poco non divenni pazzo. Non potevo studiare per il concorso, dato che

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Delio mi assorbiva completamente e la preoccupazione, unita alla debolezza, mi
fulminava. Scappai di nascosto. Avevo solo un mese di tempo per studiare. Partii per
Torino come se fossi in istato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45
lire per il viaggio in terza delle 100 lire avute da casa. C’era l’Esposizione e dovevo pagare
3 lire al giorno solo per la stanza. Mi fu rimborsato il viaggio in seconda, un’ottantina di lire
ma non c’era da ballare perché gli esami duravano circa 15 giorni e solo per la stanza
dovevo spendere una cinquantina di lire. Non so come ho fatto a dar gli esami, perché
sono svenuto due o tre volte. Riuscii ma incominciarono i guai. Da casa tardarono circa
due mesi a inviarmi le carte per l’iscrizione all’università, e siccome l’iscrizione era
sospesa, erano sospese anche le 70 lire mensili della borsa. Mi salvò un bidello che mi
trovò una pensione di 70 lire, dove mi fecero credito; io ero così avvilito che volevo farmi
rimpatriare dalla questura. Così ricevevo 70 lire e spendevo 70 lire per una pensione molto
misera. E passai l’inverno senza soprabito, con un abitino da mezza stagione buono per
Cagliari. Verso il marzo 1912 era ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese:
nel parlare sbagliavo le parole. Per di più abitavo proprio sulle rive della Dora, e la nebbia
gelata mi distruggeva.
Perché ti ho scritto tutto ciò? Perché ti convinca che mi sono trovato in condizioni
terribili, senza perciò disperarmi altre volte. Tutta questa vita mi ha rinsaldato il carattere.
Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi
tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre
contare solo su se stessi e sulle proprie forze; non attendersi niente da nessuno e quindi
non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e
andare per la propria via. La mia posizione morale è ottima: chi mi crede un satanasso, chi
mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere
semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta
per niente al mondo. Ti potrei raccontare qualche aneddoto divertente. Nei primi mesi che
ero qui a Milano, un agente di custodia mi domandò ingenuamente se era vero che io, se
avessi cambiato bandiera, sarei stato ministro. Gli risposi sorridendo che ministro era un
po’ troppo, ma che sottosegretario alle Poste e ai Lavori Pubblici avrei potuto esserlo, dato
che tali erano gli incarichi che nei governi si davano ai deputati sardi. Scosse le spalle e mi
domandò perché dunque non avevo cambiato bandiera, toccandosi la fronte col dito.
Aveva preso sul serio la mia risposta e mi credeva matto da legare.
Dunque, allegro, e non lasciarti sommergere dall’ambiente paesano e sardo: bisogna
sempre essere superiori all’ambiente in cui si vive, senza perciò disprezzarlo o credersi

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superiori. Capire e ragionare, non piagnucolare come donnette! Hai capito? Devo proprio
essere io, che sono in prigione, con delle prospettive abbastanza brutte, a far coraggio a
un giovanotto che può muoversi liberamente, può esplicare la sua intelligenza nel lavoro
quotidiano e rendersi utile? Ti abbraccio affettuosamente insieme con tutti di casa.

Nino

Ciò che hai promesso di mandarmi, mandalo appena puoi, perché ne ho proprio
bisogno. Spero in seguito di non dover più ricorrere al tuo aiuto.

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IL RIFORMISMO BORGHESE

La “Gazzetta di Torino” ha finalmente trovato un direttore: il signor Italo Minunni. La


“Gazzetta di Torino” assume cosi, finalmente, un carattere netto e preciso.
Il signor Italo Minunni viene alla “Gazzetta” dalla “Perseveranza” di Milano, ed era
andato alla “Perseveranza” daIl'“Idea Nazionale”. Ma non è la sua carriera giornalistica
che ci importa. Ci importa notare un fenomeno che in questa carriera è anche
esteriormente marcato. Lo sviluppo del nazionalismo in Italia ha segnato e sta segnando il
sorgere della classe borghese come organismo combattivo e cosciente. Finora abbiamo
avuto in Italia una borghesia politica, senza programmi chiari ed organici, senza attività
economica coerente e rettilinea. Le grandi battaglie politiche-economiche, che si sono
verificate negli altri paesi, sono sempre ignorate in Italia appunto per questo.
[...].
Il nazionalismo sta dando coscienza di sé alla classe borghese. L'“Idea Nazionale” è, da
questo punto di vista, il giornale più importante d'Italia (dopo l'“Avanti!”): è riuscito a dare il
la a tutta la stampa borghese italiana. È il fornitore di idee, di spunti polemici, di coraggio
per tutta la stampa borghese italiana. Ed è diventata anche l'incubatrice di energie
giornalistiche che sciamano dalla sua redazione e galvanizzano le gelatinose colonne
degli altri giornali borghesi. Una di queste energie è appunto Italo Minunni, che a Torino
sosterrà le ragioni del trust di Dante Ferraris. Non è un economista, quantunque sia
specializzato in “articoli” economici. È un audace, è uno spregiudicato, è un “muso” duro.
È un documento vivo dell'impotenza liberale italiana, se non dell'idea liberale.
Rappresenta, in confronto dell'idea liberale, un pensiero immaturo, un pensiero confuso e
inorganico che si impone con l'audacia.
Tra l'idea liberale e l'idea nazionalista c'è la stessa differenza che tra il socialismo
rivoluzionario e il riformismo. I nazionalisti come Italo Minunni, sono i riformisti della
borghesia. La borghesia italiana, nel suo sviluppo, è arrivata appena allo stadio
corporativista. I nazionalisti sono i paladini dei “diritti” delle corporazioni borghesi che fan-
no coincidere, naturalmente, coi “diritti” della nazione, così come molti riformisti fanno
coincidere con tutto il proletariato una o un'altra categoria di lavoratori, per la quale
brigano e cercano strappare dei benefici.
li riformismo nazionalista si esprime specialmente nel protezionismo, che è conquista di
benefici particolari a danno dell'intera classe produttrice borghese e a danno di tutti i
consumatori. I siderurgici, i cotonieri, gli armatori, gli agrari sono le quattro categorie

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borghesi che il riformismo nazionalista sostiene, e ai rappresentanti delle quali chiede che
lo Stato dia i mezzi per arricchire privatamente a danno dell'industria e dell'agricoltura e a
danno dell'intera nazione. Ora questo riformismo si occupa anche di alcuni ceti proletari.
Filippo Carli (anch'egli covato nella redazione dell'“Idea Nazionale”) ha teorizzato i futuri
rapporti fra capitale e lavoro: […].
Nello stesso numero della “Gazzetta di Torino” in cui Italo Minunni fa la sua
presentazione, Filippo Carli stampa appunto la conclusione di un suo studio –presentato
al Congresso di Parigi delle Camere di commercio interalleate – sull'organizzazione
dell'industria dopo la guerra, dal punto di vista dei rapporti tra capitale e lavoro. Luigi
Federzoni ha aderito e ha sostenuto nell'“Idea Nazionale” la proposta di legge Ciccotti per
una distribuzione di terre incolte (senza una distribuzione di capitali per metterle in valore)
ai contadini reduci di guerra.
Ora questo riformismo pianta le sue tende anche a Torino. Conquisterà probabilmente
la classe borghese. Il liberalismo, che pure come pensiero è superiore a questo conglo-
merato di retorica e di voracità parassitaria, non avrà il coraggio di contrastargli il terreno,
e se volesse non riuscirebbe.
Il liberalismo dovrebbe aspettare che i borghesi, dal corporativismo, dallo spirito di
categoria, arrivassero fino alla comprensione della classe, degli interessi totali della clas-
se, che possono anche domandare il sacrifizio delle categorie parassitarie.
[...].

“Avanti!”, anno XXI, n. 337, 5 dicembre 1917.

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IL POTERE PROLETARIO

Si realizza a Torino come in tutta Italia, una delle tesi fondamentali dell’Internazionale
comunista. Si realizza obbiettivamente la bancarotta dell’apparato economico borghese –
basato sulla proprietà privata e sulla libera concorrenza – attraverso il quale la classe
possidente e lo Stato democratico erano riusciti finora a soddisfare il minimo delle
esigenze vitali della grande massa popolare. L’apparato commerciale non funziona più: lo
spettro della carestia e della morte lenta e implacabile per inazione si insinua sinistro nelle
case del popolo lavoratore che non può difendersene, che non ha garanzia alcuna del
domani, che non vede come riuscirà a sottrarsi alla stretta del vampiro.
I provvedimenti delle autorità cosiddette legittime sono risibili palliativi. Si offre una
pozione di orzata a un ammalato di tifo che urla perché non vuol morire. Si stampano
predicozzi moraleggianti e dimostrazioni astratte di una sedicente legge economica; si
continua a imbottire i cervelli con una irresponsabile leggerezza che può spiegarsi solo col
terrore folle e col panico senza confini.
Le masse popolari hanno bisogno di garanzie. Queste garanzie possono essere date
alle masse popolari solo dal proletariato organizzato nel Partito socialista e nei sindacati
della Camera del lavoro. Questa psicologia è così diffusa che di essa partecipano anche i
proprietari. I proprietari hanno infatti consegnato “spontaneamente” agli organi del
proletariato le chiavi dei loro esercizi, hanno cioè riconosciuto che la ricchezza sociale può
essere difesa efficacemente solo dagli organi del proletariato, hanno sentito gravare sulle
loro spalle repentinamente il peso della responsabilità di un disastro in cui tutti sarebbero
stritolati. Hanno riconosciuto che l’ordine può essere restaurato solo dal potere del
proletariato.

La Camera del lavoro di Torino conta 70.000 aderenti. La Camera del lavoro di Torino
rappresenta e tutela gli interessi di circa 350.000 torinesi, poiché gli operai sindacati sono
gli uomini validi che sostengono almeno 60.000 famiglie. La Camera del lavoro
rappresenta quindi la maggioranza della popolazione torinese. Questo potere reale, di
fatto, della Camera del lavoro deve essere riconosciuto e valorizzato. Le istituzioni che
stanno sorgendo sotto la spinta della necessità incoercibile devono consolidarsi come
potere puramente proletario, all’infuori di ogni autorità cosiddetta legittima. Solo questo
potere gode prestigio sulle masse popolari, perché è diretta emanazione delle masse,
perché è le masse stesse.

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Nessuno può farsi illusioni su una cessazione immediata delle attuali condizioni di caro-
viveri: si vuole che le scene inaudite di saccheggio barbarico diventino un costume
economico? Si vuole che l’apparato commerciale esistente si paralizzi completamente e la
barbarie diventi ancora più spaventosa? Si spera di troncare il movimento popolare con
una strage? Tra la morte per fame e la morte per mitragliatrice la scelta sarà fatta molto
rapidamente.

Le masse popolari hanno solo fiducia nel potere proletario: anche i proprietari hanno
fiducia solo in esso. Attraverso l’organizzazione operaia sarà possibile ristabilire i legami
tra la città e la provincia, con istituzioni proprie di contadini che controllino il mercato e la
produzione come gli operai controllano quello di consumo. La Camera del lavoro è solo
capace di svolgere questa azione, coi metodi propri, che sono quelli della lotta di classe. Il
precipitare degli avvenimenti ha condotto alla formazione di commissioni miste che non
hanno in sé organici e possibilità di vita: si verificheranno conflitti di potere che devono
essere eliminati. Gli operai delle officine, gli operai di classe devono imporre agli organi
loro rappresentativi la tattica classista. Tutto il potere ai commissari degli operai. Il
municipio è una cosa morta: le condizioni odierne sono dovute alla disonestà e alla mala
amministrazione del municipio. Il municipio non rappresenta nessuno, è senza mandato.
Cogli organi del governo gli operai non possono avere altro contatto che per informarli
della loro volontà netta e precisa. Le organizzazioni operaie non possono accollarsi
responsabilità a mezzadria, per salvare la situazione e vedere mitragliati i compagni
appena si ristabilisca una bonaccia anche transitoria. È un’ora grave di responsabilità che
può essere superata solo con un atteggiamento fermo e preciso che non comprometta il
prestigio che oggi le organizzazioni operaie godono in tutta la cittadinanza.

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIII, n. 187, 7 luglio 1919.

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I NOSTRI FRATELLI SARDI

La Brigata Sassari viene trasportata da Torino a Roma. Dopo pochi mesi di residenza a
Torino, le superiori autorità hanno giudicato che sarebbe un grave errore lasciare più a
lungo i contadini, i pastori e gli operai di Sardegna a contatto col movimento socialista e
proletario della nostra città. I borghesi sentiranno un po’ di freddo al cuore nell’apprendere
la notizia: si erano davvero convinti che ai sardi si potesse in Piemonte far rappresentare
la stessa parte che il governo zarista faceva fare in Pietrogrado ai montanari del
Daghestan e il governo di Clemenceau fa fare in Parigi ai negri senegalesi. Rapidamente,
con l’intuizione propria delle coscienze diritte e oneste, i sardi si sono orizzontati
nell’ambiente industriale torinese e hanno sentito che la loro solidarietà, il loro affetto di
fratelli doveva andare alla classe lavoratrice, agli operai che lottano per liberare il popolo
lavoratore dallo sfruttamento dei capitalisti, che lottano quindi anche per liberare la
Sardegna dagli avvoltoi del capitalismo internazionale che ne sfruttano le miniere, le
ferrovie, la produzione agricola e pastorizia.
La Brigata Sassari era venuta a Torino direttamente dai paesi tedeschi occupati dopo
l’armistizio. Del continente, della vita moderna del continente, dei rapporti sociali suscitati
dall’industrialismo, non conoscevano nulla; conoscevano solo la guerra, la vita aspra di
trincea, su nelle Alpi nevose o nelle doline squallide del Carso. Avevano compiuti enormi
sacrifizi di sangue: avevano preso parte ai fatti d’arme più importanti della guerra. Erano
giustamente fieri dell’opera loro.
Sentivano fortemente d’avere dei meriti, acquistati col sangue e col sacrifizio di tanti
loro correligionari. Fu possibile nei primi tempi far loro credere tutto, fu possibile esaltarli
con gli applausi, coi fiori, coi sorrisi delle dame e delle signorine. Grande giubilo riempiva
in quei giorni le borse di denaro. I lacchè delle casseforti sogghignavano soddisfatti per la
nostra “fifa”. I sardi sarebbero stati i castiga-bolscevichi, i martelli del comunismo.
In verità, ciò che poteva preoccupare in quei giorni era questo: che i sardi
confondevano tutta la cittadinanza torinese in una sola classe, “i signori”. Un ardito,
interrogato: “Perché siete venuti a Torino?”, rispose: “Per sparare contro i signori che
fanno sciopero”. “Ma – gli fu risposto – i signori non fanno sciopero; i signori sono ricchi,
non lavorano, vivono del lavoro dei poveri, e sono i poveri come voi che fanno sciopero”.
“Macché, tutti i ricchi sono qui a Torino; non ci sono poveri come in Sardegna”. Questa
posizione era preoccupante: i sardi vedevano tutta la cittadinanza torinese come di
un’altra classe, di una classe diversa dalla propria; la loro azione poteva sembrar loro una
forma di lotta di classe.

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In pochi mesi la situazione si è completamente mutata. Oggi i sardi sentono d’avere dei
fratelli di classe in continente, nel Piemonte, a Torino. Come è successo questo
mutamento? Per le infinite vie per le quali si propaga l’idea socialista. Direttamente, poiché
i soldati sardi presenziarono a comizi grandiosi, come quello del Primo Maggio.
Indirettamente, per la propaganda antibolscevica svolta nelle caserme. I borghesi credono
davvero che la divisione delle classi e la solidarietà di classe siano “invenzioni” dei
socialisti: ignorano completamente la psicologia dei proletari. Nelle caserme parlarono ai
sardi di socialismo e di bolscevismo, per combatterli. Fecero conoscere ai sardi idee e
avvenimenti che non conoscevano prima. Un episodio: in una conferenza di caserma si
inveisce contro gli operai bolscevichi che non si contentavano di un salario di 3 (!) lire
all’ora. Un contadino domanda la parola: “Io non so cosa siano i bolscevichi, ma se essere
bolscevico significa guadagnare 3 lire all’ora, noi sardi che guadagnamo poco, dobbiamo
essere tutti bolscevichi”.
Così i sardi cominciarono a comprendere la società e a distinguere. Invidiarono gli
operai, non li odiarono più: si proposero di imitarli nell’organizzazione per diventare forti e
imporsi ai proprietari, per far sì che le miniere sarde siano dei sardi e così la terra sarda e i
caseifici sardi e il bestiame sardo. Pochi mesi di vita torinese insegnarono ai sardi più
“cose” che non avrebbero fatto venti anni di propaganda astratta. In questi ultimi giorni
abbiamo ricevuto una cinquantina di lettere da sardi, e in tutte l’espressione che ritorna in
ogni periodo è questa: “i nostri fratelli operai”.
La Brigata Sassari è partita; gli operai torinesi mandano ai loro fratelli di Sardegna
l’augurio che presto l’isola loro risorga e progredisca per l’opera dei suoi figli contadini,
operai e pastori, organizzati per l’avvento del socialismo e del governo dei lavoratori.

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIII, n. 195, 16 luglio 1919.

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UN FUNGO PORCINO

Poiché le prime piogge autunnali hanno ammorbidito l’essiccata crosta terrestre


(sezione comune di Torino), è naturale sfunghino molti funghi. Queste prime dolci acque
hanno avuto conseguenze oneste e liete anche in alcuni crani, non ancora sfracellati da
nessuna volante testuggine, perché, avendo la civiltà, sotto specie di fungo da cinciniere,
sgombrato il cielo dai rapaci, nessuna aquila può essere tratta dal sicuro istinto a
confonderli con le rocce. Pertanto è avvenuto che i cittadini Mazza, Prato, Rosso,
Petrignani, Mello, Gastaldi, Battaglia, Baratto, Cuvertino, Torreggiani e Garello –
essendosi trovati ad essere precisamente dieci inscritti nel Fascio liberale monarchico,
angustiati dal pensiero che tra i tanti comitati, sottocomitati, commissioni,
sottocommissioni, leghe, fasci associazioni, società, sodalizi, confraternite, congreghe,
conventicole, congregazioni, consigli, non si era trovato modo di trovar loro un posticino,
una carichina, un titolino da inserire nel biglietto da visita; trovando che ad essere in dieci
c’era precisamente da costituire un consiglio direttivo con un presidente, un vicepresidente
e otto consiglieri – costituissero appunto un consiglio direttivo con un presidente, un
vicepresidente e otto consiglieri. Detto fatto, i dieci, costituitisi in consiglio dei dieci,
pensarono un programma. Detto pensato, il programma fu scritto. Il programma
naturalmente fu apolitico, poiché quanto più si approssimano le elezioni, e specialmente le
elezioni a scrutinio di lista con voti di preferenza, tanto più tutti i cittadini che non hanno
ambizioni e non si umiliano, no, per un biglietto da dieci lire o una croce da cavaliere, a
diventare strumenti dell’altrui ambizione, scoprono nell’intimità dei precordi un odio, un
odio contro la politica e l’infeudamento ai partiti e la vile sottomissione alla disciplina delle
idee, un odio che è altrettanto feroce quanto una gatta in puerperio rinchiusa in una latta di
petrolio. E il programma apolitico si propone di migliorare la sorte dei lavoratori con criteri
tecnici e, poiché vuole abolire la lotta di classe, non si propone “altra mira fuorché la lotta
pel vantaggio economico dei lavoratori”.
Così dunque è sorta, alle prime piogge autunnali, in via Urbano Rattazzi 9, piano terzo,
la “Borsa del lavoro”, associazione apolitica e di esclusiva difesa economica dei lavoratori.
Essa ha la sede, ha il consiglio direttivo, col presidente, il vicepresidente e otto consiglieri,
ed ha la borsa; essendosi aperta col primo ottobre, manca ancora di lavoro; poiché prima
di iniziare il lavoro di esclusiva difesa, verranno le elezioni, la borsa aprirà i cordoni di se
medesima per affliggere molti proclami alla “vera” classe operaia, “veramente” cosciente
ed evoluta; si presenterà con programma apolitico e il candidato preferenziale avrà
anch’egli un programma apolitico.

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Prime piogge autunnali: i primi funghi sono i funghi porcini…

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIII, n. 273, 3 ottobre 1919.

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TORINO E L’ITALIA

Torino proletaria vive in questi giorni la sua settimana di passione. Le lotte di categoria
si estendono e si fanno più intense, nuove battaglie si impegnano, che richiedono una
tattica diversa dall’abituale, che si combattono su nuove basi e di cui ancora l’esito non si
vede. Da una parte la coscienza del diritto permane lucida e intera, dall’altra si rinsalda il
proposito della resistenza. E la situazione si fa estrema. Tale la sente ogni operaio; sente
egli in modo più o meno chiaro di vivere in un momento che per la storia della sua classe
può essere decisivo, in cui tutto può essere posto in gioco, tutto arrischiato, tutto forse
perduto. Non mai come oggi il partecipare all’azione della classe appare quale veramente
dev’essere: sforzo di dominare una realtà, di non lasciarsi travolgere da un meccanismo
che agisce al di fuori di noi, tensione di ogni volontà, ansia di ogni coscienza. Non mai
come oggi dunque una cosa è necessaria: non farsi velo allo sguardo, fissare la realtà con
occhi aperti e con mente spregiudicata. Quando tutto su tutto può venir arrischiato, allora
la massima freddezza dev’essere nel giudizio e nel deliberare.
I sintomi sono in parte palesi a tutti: metallurgici, calzolai, sarti, lavoratori dello Stato:
novantamila operai sono inattivi. Torino risponde in tal modo agli appelli alla produzione e
risponde, come le tocca, da città socialista, intensificando la lotta dei produttori per la
liberazione loro. E dei novanta, cinquantamila combattono in modo aperto per questo fine,
cinquantamila sono operai per i quali questo fine non è più parola vana, non più sogno
incerto che si debba interiormente lottare per chiarire se stessi, per foggiare in forma
sensibilmente concreta, ma è qualcosa di preciso, è programma esplicito di azione
continua, guida dell’operare quotidiano. La lotta è per la realizzazione, è di volontà contro
volontà, di forza contro forza. Spetta ai Consigli di fabbrica il merito di questa situazione
nuova? In parte sì, in parte è la stessa tradizione rivoluzionaria e insurrezionale della città
che vive in una forma nuova, che si è incarnata in un programma di azione, che ha in esso
trovata una consistenza. È contro questo spirito che oggi si preparano le armi.
Le prepara il governo, le preparano prima di lui gli industriali; sintomatico anzi è il fatto
che al governo centrale direttamente, superando l’autorità politica locale, gli industriali si
sono rivolti, chiedendo difesa. Era in essi, evidentemente, esplicito il proposito di
attaccare. E oggi Torino è una piazzaforte presidiata: si parla di cinquantamila soldati,
sulla collina sono in appostamento le batterie, nelle campagne attendono i rinforzi, nella
città le blindate; le mitraglie sono appostate sulle case private, nei sobborghi che hanno
fama di più essere pronti alla rivolta, alle testate dei ponti, presso i quadrivi e le officine.

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Rendiamo grazie di questo fatto ai signori industriali, rendiamo loro grazie di aver reso
palese a tutti, se pur ce ne fosse ancora stato bisogno, quali sono i termini del rapporto di
forza. Se alcuno ancora vi era tra noi che nutriva illusione, se alcuno ancora dei nostri
operai poteva credere legittima la limitazione dell’orizzonte rivoluzionario o di quello
insurrezionale alla fabbrica o alla città, se alcuno trovava difficoltà a compiere il cammino
ascensionale che fa che l’autorità di fabbrica non appaia più che un elemento e un
riscontro dell’autorità dello Stato, se questi incerti, se questi illusi vi erano, la lezione è
stata data per loro. Per la disciplina di fabbrica si lotta ed è presente, attivo, insormontabile
ancora il potere dello Stato.
Problema generale dunque, problema che deve essere impostato in tutta la sua
estensione. Oggi siamo di fronte alla realtà. Oggi è lecito un esame di coscienza. Che
cosa ha permesso il concentramento di forze in Torino se non il fatto che localmente si è
accennato a dare o meglio si è cominciato ad accettar battaglia sopra una questione i cui
termini sono tali da investire gli interessi, da richiedere l’azione del proletariato intiero
d’Italia? Nella nostra città si è in questi ultimi mesi concentrata, accumulata una somma di
energie rivoluzionarie che a ogni costo tende a espandersi cercando una via di uscita. E la
sua via di uscita non deve essere per ora una lacerazione locale, pericolosa, forse fatale,
deve essere un aumento di intensità dell’opera di preparazione in tutto il paese, una
diffusione di forze, un acceleramento generale del processo di sviluppo degli elementi che
debbono concorrere tutti insieme a un’opera comune.
A Torino oggi si è avuta una prova. Vedremo domani se sarà vittoria o sconfitta; ma una
cosa resti, resti un ammaestramento, uno sprone a fare di più. Non solo a Torino si
combatte, ma in tutta Italia, ma nel mondo intiero e ciò che serve a rendere più saldo un
proposito, più tenace un volere, ciò è strumento di preparazione, anche se conquistato a
prezzo di sacrifici, di apparenti abbandoni. Anche la speranza perduta, anche la delusione,
anche la rabbia che sarà negli animi quando si rientrerà in officina, anche ciò sarà arma
per la nostra vittoria.

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIV, n. 82, 3 aprile 1920.

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LA FORZA DELLA RIVOLUZIONE

La celebrazione del Primo Maggio è avvenuta a Torino subito dopo che la totalità del
proletariato industriale era uscita da un gigantesco sciopero generale durato dieci giorni e
terminato in una sconfitta. Tutto il popolo lavoratore torinese volle dimostrare di non aver
perduto la fiducia nella rivoluzione, tutto il popolo lavoratore torinese volle dimostrare che
la forza della rivoluzione non è sminuita, ma anzi ha moltiplicato i suoi battaglioni e i suoi
reggimenti.
Nello sciopero generale il capitalismo e il potere di Stato avevano sfoggiato tutte le loro
armi. Lo Stato borghese aveva posto a disposizione degli industriali torinesi cinquantamila
uomini in assetto di guerra, con autoblindate, lanciafiamme, batterie leggere; la città
rimase per dieci giorni in balía delle guardie regie, la classe operaia sembrò annientata,
sembrò assorbita dalla oscurità e dal nulla. Gli industriali, raccolti dieci milioni, inondarono
la città di manifesti e manifestini, assoldarono giornalisti e barabba, agenti provocatori e
spezzatori di sciopero, pubblicarono un giornale che imitava nella veste tipografica il
bollettino dello sciopero, diffusero notizie allarmistiche, notizie false, fecero scaturire
associazioni, leghe, sindacati, partiti politici, fasci, da tutte le cloache della città;
propalarono le infamie più atroci contro i dirigenti lo sciopero; a tutto questo scatenamento
di forze capitalistiche la classe operaia non poté opporre null’altro che il mezzo foglio
quotidiano del bollettino dello sciopero e la sua energia di resistenza e di sacrifizio. Gli
operai metallurgici resistettero un mese, senza salario: soffrirono molti la fame, dovettero
impegnare al Monte di Pietà i mobili, fin i materassi e le lenzuola; anche l’altra parte della
popolazione lavoratrice subì stenti, miserie, desolazione: la città era come assediata, la
popolazione lavoratrice dovette sopportare tutti i mali e i disagi di un assedio crudele e
implacabile. Lo sciopero finì, con una sconfitta; l’idea che aveva sostenuto i lottatori fu
schernita persino da una parte dei rappresentanti la classe operaia; l’energia e la fede dei
dirigenti lo sciopero generale fu qualificata illusione, ingenuità, errore persino da una parte
dei rappresentanti la classe operaia; rientrando nelle fabbriche il proletariato misurò subito
il passo indietro dovuto fare per la stretta terribile delle immense forze della classe
proprietaria e del potere di Stato: uno scoraggiamento, un piegarsi delle coscienze e delle
volontà, un disfarsi dei sentimenti e delle energie di classe potevano essere giustificati, un
prevalere di amarezze poteva essere naturale, un passo indietro dell’esercito
rivoluzionario poteva essere preveduto.
Ebbene, no: gli affamati, gli immiseriti, i frustati a sangue dallo staffile capitalistico, i
beffeggiati da una parte inconsapevole o infame degli stessi compagni (?) di lotta, non

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hanno perduto la fede nell’avvenire della classe operaia, non hanno perduto la fede nella
rivoluzione comunista; tutto il proletariato torinese è uscito nelle strade e nelle piazze per
dimostrare il suo attaccamento alla rivoluzione, per spiegare di contro ai milioni e ai
miliardi di ricchezza della classe capitalista le forze umane della classe operaia, le
centinaia di migliaia di cuori, di braccia, di cervelli della classe operaia, per contrapporre
alle casseforti i ferrei battaglioni di militanti della rivoluzione operaia.
Dieci giorni di sciopero, la fame, la miseria, la desolazione, la sconfitta non sono riusciti
a ottenere ciò che la classe capitalista e il potere di Stato erano sicuri di aver raggiunto: la
disfatta del proletariato, la fuga dello spettro che preme come un incubo i palazzi e le
casseforti. La classe capitalistica e il potere di Stato trasformano la giornata del Primo
Maggio in un’orgia di terrore e di sangue. Il corteo viene aggredito da una scarica di
fucileria: due morti e una cinquantina di feriti. L’episodio necessario per scatenare sulla
città il terrore più cupo e feroce. Vengono diffuse le dicerie più infami: bombe, coltelli,
complotti… Gli arresti si moltiplicano: le guardie regie danno la caccia ai garofani e alle
coccarde; gli arrestati vengono massacrati coi calci dei moschetti, vengono sfregiati,
vengono calpestati fino a dover vomitar sangue; le vie e le piazze risuonano di fucilate
contro le finestre, contro i gruppi di passanti; camions di guardie regie, coi fucili spianati
contro le finestre, contro le porte, contro i passanti, imperversano nella città; gruppi di
guardie sogghignanti sbucano da ogni cloaca per puntare le baionette contro il petto di
ognuno, senza più distinzione di classe, di sesso, di età, sia il passante un operaio, un
ufficiale, un soldato, un prete, una signora, un bambino, tanta è la rabbia e la furia che gli
ordini impartiti riescono a suscitare nella coscienza torbida e crepuscolare dei mercenari
assoldati per la guerra civile.
Ma neppure questa prova generale del gran “giorno”, neppure questa barbarica
sarabanda di violenze inaudite riesce a smuovere di un pollice la posizione della classe
operaia; i funerali dei due assassinati si trasformano in una dimostrazione indescrivibile di
potenza e di disciplina; scaturiscono nuove forze popolari, nuove moltitudini si aggiungono
all’esercito rivoluzionario che accompagna i suoi caduti al cimitero.

La forza della rivoluzione non piega dinanzi a nessuna sconfitta, a nessun dolore, a
nessun ostacolo per immane che sia. Il popolo lavoratore ha superato la fase critica degli
assestamenti, degli sbandamenti, delle disillusioni; esso è diventato una compagine
omogenea e coesa, è diventato un esercito ordinato e disciplinato di volontà consapevoli
di un fine reale, di coscienze che sanno di essere le energie storiche cui incombe una

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missione superiore a ogni forza umana; il popolo lavoratore, da materiale grezzo per la
storia delle classi privilegiate, è diventato finalmente capace di creare la sua propria storia,
di edificare la sua città.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno II, n. I, 8 maggio 1920.

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LA GUERRA È LA GUERRA

Comprendere e saper valutare con esattezza il nemico, significa possedere già una
condizione necessaria per la vittoria. Comprendere e saper valutare le proprie forze e la
loro posizione nel campo della lotta, significa possedere un’altra importantissima
condizione per la vittoria.
I fascisti vogliono evidentemente anche a Torino sviluppare fino in fondo il piano
generale d’azione che ha procurato facili trionfi nelle altre città. Sono stati chiamati
contingenti forestieri (bolognesi, truppe scelte, allenate). Sono state intensificate le
passeggiate dimostrative, con i propri effettivi inquadrati e incolonnati militarmente. Si
ripetono incessantemente le convocazioni improvvise degli aderenti, con l’ordine di recarsi
armati ai convegni: ciò che serve a creare l’aspettazione di eventi misteriosi ed a
determinare così la psicologia di guerra. Le voci allarmistiche vengono diffuse a profusione
(“il primo ucciso sarà uno studente socialista, incendieremo “L’Ordine Nuovo”,
incendieremo la Camera del lavoro, incendieremo la libreria dell’Act”). È questo un
espediente che si propone due scopi: disgregare le forze proletarie, col panico e con la
snervante incertezza dell’attesa, determinare nei fascisti l’abitudine dell’obbiettivo da
raggiungere. Avranno i fascisti a Torino il facile trionfo che hanno avuto nelle altre città?
Osserviamo intanto che l’aver domandato aiuti di fuori, è una prova della debolezza
organica del fascismo torinese. A Torino i fascisti si appoggiano e possono appoggiarsi su
una sola categoria della classe piccolo borghese: la categoria degli esercenti, non certo
famosa per sublimi virtù guerresche.
La classe operaia torinese è certo moralmente superiore ai fascisti e sa di essere
moralmente superiore. I controrivoluzionari della Confederazione generale del lavoro
vanno affermando (per avvilire la massa e toglierle ogni capacità di offesa e di difesa) che
gli operai, non avendo fatto la guerra, non possono combattere e vincere il fascismo sul
terreno della violenza armata. Per ciò che riguarda Torino, questa affermazione disfattista
e controrivoluzionaria è falsa anche obbiettivamente. Gli operai torinesi hanno queste
esperienze “guerresche”: sciopero generale del maggio 1915, insurrezione armata di
cinque giorni nell’agosto 1917, azione manovrata di grandi masse del 2-3 dicembre 1919,
sciopero generale con episodi di tattica irlandese e sviluppo di un piano strategico unitario
nell'aprile 1920, occupazione delle fabbriche nel settembre scorso con l'accumulazione di
infinite esperienze nell'ordine militare. Un altro fatto incontrovertibile: dopo l'agosto 1917
gli operai più indiziati di rivoluzionarismo furono privati dell'esonero e mandati al fronte
nelle posizioni più pericolose; il proletariato torinese è quello che ha dato il maggior

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numero di soldati alle trincee, e che, anche da questo punto di vista, ha accumulato
esperienze militari che hanno già dato i loro frutti appunto durante l’occupazione delle
fabbriche. L’accusa di “panciafichismo” è ridicola e assurda se rivolta agli operai torinesi,
che hanno dimostrato, specialmente nell’agosto 1917, di non aver paura delle pallottole e
del sangue. Non altrettanto possono dire i fascisti torinesi: disperatamente chiamati in
aiuto dal D’Annunzio, essi, che pure affermavano di essersi organizzati per salvare l’Italia
dal disonore del boia labbrone hanno convenientemente dosato l’eroismo: si sono limitati a
far esplodere un petardo sotto le finestre della “Stampa”. I fascisti (specialmente quelli di
origine torinese, che hanno fatto la guerra solo nei giornali e negli uffici) hanno coscienza
di questa inferiorità loro, così come gli operai hanno esatta coscienza della loro
superiorità.
A queste condizioni di carattere psicologico e morale si aggiungono altre condizioni di
carattere pratico, di organizzazione. Ciò che ha dolorosamente stupito, nelle città cadute in
balia dei fascisti, è l’assenza di ogni spirito di iniziativa della massa operaia. Tutta l’energia
rivoluzionaria era, in queste città, concentrata negli uffici delle Camere del lavoro: colpita
la Camera del lavoro, la classe operaia è stata decapitata ed è divenuta incapace di ogni
azione. A Torino la massima centralizzazione del movimento non toglie alla classe operaia
l’energia e la capacità d’azione. Già durante la guerra le commissioni interne erano
diventate il centro di cristallizzazione delle forze rivoluzionarie: esse continuarono la lotta
di classe e mantennero saldo lo spirito di autonomia e di iniziativa anche nei periodi più
cupi di oppressione capitalistica e statale, quando le organizzazioni sindacali, entrando a
far parte dei comitati di mobilitazione industriale, avevano abdicato a ogni libertà e
indipendenza. Così è stato possibile che nell’agosto 1917 gli operai, quantunque la
Camera del lavoro fosse occupata dalla polizia e tutti i centri fossero dispersi, abbiano
sostenuto per cinque giorni una accanita lotta con le armi in pugno e più di una volta siano
giunti fino a minacciare la conquista dei punti centrali della città. Così è stata possibile la
meravigliosa azione di manovra del 2-3 dicembre 1919, quando le forze operaie uscirono
dalle fabbriche compatte e disciplinate e come un immenso rastrello convergente
spazzarono la città dalle periferie al centro. Così è stato possibile, durante l’occupazione
delle fabbriche, lo sviluppo autonomo e tuttavia unitario e naturalmente accentrato, di una
molteplicità di azioni e di iniziative rivoluzionarie di portata incalcolabile e imprevedibile. Il
movimento dei consigli di fabbrica e dei gruppi comunisti ha perfezionato questa
articolazione del movimento operaio torinese, che non può ormai essere decapitato e
paralizzato da nessuna bufera reazionaria. Si può dir questo: mentre nelle altre città

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industriali la classe operaia non ha ancora superato la fase degli attacchi frontali in massa,
la tattica del generale Cadorna che ha portato a Caporetto, a Torino questa fase è
definitivamente superata. Nella campagna per i consigli di fabbrica, i comunisti hanno
sempre ricordato agli operai torinesi le esperienze di Barcellona. Essi hanno sempre
parlato agli operai il linguaggio rude e sincero che deve essere proprio del proletariato
rivoluzionario; non hanno mai nascosto che forse in Italia si sarebbe attraversato un
periodo di reazione e che, come a Barcellona, non era esclusa la possibilità che le
Camere del lavoro e i sindacati fossero sciolti o messi in condizione di non poter
funzionare: ecco pertanto la necessità di moltiplicare i centri e le organizzazioni
rivoluzionarie; ecco pertanto la necessità di stimolare nella massa lo spirito di iniziativa e di
autonomia, la necessità di sostituire alla centralizzazione burocratica e bestiale propria dei
sindacati, una centralizzazione democratica, una articolazione snella ed elastica, che
permetta al corpo proletario di continuare a vivere nonostante qualsiasi colpo inferto alla
sua compagine generale e ai singoli uomini. Questa propaganda realistica fu iniziata fin
dal 1919, e allora le attuali Maddalene pentite del massimalismo chiamavano “riformistico”
il movimento torinese dei consigli, perché si proponeva di “abilitare“ e di “istruire” gli
operai, mentre i massimalisti predicavano solo le grandi azioni frontali e ogni tre parole di
discorso intercalavano la parola “violenza”. Oggi si vede quanto fosse necessaria quella
propaganda e come solo attraverso quell’opera di preparazione si tutelasse veramente
l’avvenire del proletariato.

Questo quadro obiettivo delle condizioni in cui si svolgerà la lotta, non ha per nulla lo
scopo di attenuare la gravità del pericolo. La classe operaia torinese si trova certo in una
buona posizione di guerra, ma nessuna buona posizione può, di per sé, salvare un
esercito dalla sconfitta. La buona posizione deve essere sfruttata in tutte le sue possibilità.
Guai alla classe operaia se essa permetterà, anche per un istante solo, che a Torino i
fascisti possano mettere in esecuzione il loro piano, come hanno fatto nelle altre città. La
minima debolezza, la minima indecisione potrebbe essere fatale. Al primo tentativo
fascista deve seguire rapida, secca, spietata la risposta degli operai e deve questa
risposta essere tale che il ricordo ne sia tramandato fino ai pronipoti dei signori capitalisti.
Alla guerra come alla guerra, e in guerra i colpi non si dànno a patti. Intanto la classe
operaia torinese ha già dichiarato, in una mozione del suo partito politico, di considerare i
fascisti solo come strumenti di un’azione che trova i suoi mandanti e responsabili maggiori
in ben altri ambienti. Anche la “Stampa” ha pubblicato (il 27 gennaio, cinque giorni fa

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appena): “L’attuale potente organizzazione [dei fascisti] è favorita da commercianti,
industriali, agricoltori”. Nella guerra e nella rivoluzione aver pietà di dieci significa essere
spietati con mille. La classe operaia ungherese ha voluto essere dolce coi suoi oppressori:
oggi sconta, e scontano le donne operaie e scontano i bambini operai, la sua dolcezza; la
pietà per i mille ha portato miseria, lutto, disperazione ai milioni di proletari ungheresi.
I colpi non si dànno a patti. Tanto più implacabili devono essere gli operai, in quanto
non c’è proporzione tra i danni che subisce la classe operaia e i danni che subiscono i
capitalisti. La Camera del lavoro è il prodotto degli sforzi di molte generazioni operaie. È
costata sacrifizio e stenti a centinaia e centinaia di migliaia di operai, è l’unica proprietà di
centomila famiglie proletarie. Se essa viene distrutta, sono annientati questi sforzi, questi
sacrifizi, questi stenti, questa proprietà. La si vuol distruggere per distruggere
l’organizzazione, per togliere all’operaio la garanzia del suo pane, del suo tetto, del suo
vestito, per togliere questa garanzia alla donna e al figlio dell’operaio. Pericolo di morte per
chi tocca la Camera del lavoro, pericolo di morte per chi favorisce e promuove l’opera di
distruzione! Cento per uno. Tutte le case degli industriali e dei commercianti non possono
salvare la casa del popolo, perché il popolo perde tutto se perde la sua casa. Pericolo di
morte per chi attenta al pane dell’operaio, al pane del figlio dell’operaio. La guerra è la
guerra: chi tenta l’avventura deve provare il duro morso della belva che ha scatenato.
Tutto ciò che l’operaio ha creato col soldino del suo sacrifizio, tutto ciò che le generazioni
operaie hanno lentamente e faticosamente elaborato col sangue e col dolore, deve essere
rispettato come cosa sacra. Scoppia la tempesta e l’uragano quando si commettono
sacrilegi, e travolge i colpevoli come pagliuzze. Pericolo di morte per chi tocca la proprietà
dell’operaio, dell’uomo condannato a non aver proprietà. La guerra è la guerra. Guai a chi
la scatena. Un militante della classe operaia che debba passare all’altro mondo, deve
avere nel suo viaggio un accompagnamento di prima classe. Se l’incendio arrossa il pezzo
di cielo di una strada, la città deve essere provvista di molti bracieri per riscaldare le donne
e i figli degli operai andati in guerra. Guai a chi scatena la guerra. Se l’Italia non è abituata
alla serietà e alla responsabilità, se l’Italia non è abituata a prendere sul serio nessuno, se
l’Italia borghese si è per caso formata la facile e dolce persuasione che neppure i
rivoluzionari italiani sono da prendere sul serio, sia lanciato il dado: siamo persuasi che più
di una volpe lascerà la sua coda e la sua astuzia nella tagliola.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n.31, 31 gennaio 1921.

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L’ATTACCO A TORINO

La Camera del lavoro è stata incendiata e devastata dai fascisti. Freddamente, senza
che da parte della classe operaia e degli organismi proletari fosse stato dato neanche il
più piccolo motivo per la “rappresaglia”. A Torino la lotta politica e sindacale, da parecchi
mesi, si svolgeva in un’atmosfera di quasi pacifico idillio: quantunque la crisi industriale si
fosse particolarmente aggravata, quantunque decine di migliaia di operai, con le loro
donne e i loro bambini, fossero stati gettati nella disoccupazione e nella miseria,
quantunque incombesse sulle masse lo spettro della reazione capitalistica arbitraria e
implacabile e fosse quindi spiegabile anche uno stato d’animo generale di esasperazione
e di convulsione, tuttavia, data la grande disciplina delle maestranze, gli operai
sopportavano stoicamente tutte le sofferenze, persuasi che bisognasse attendere, come
un esercito nelle trincee, rinsaldando i propri nervi, stringendosi gomito a gomito per
essere più forti e meglio preparati a ogni possibile attacco. Torino rimase così l’unica città
non devastata dalla barbarie e dalla ferocia dei fascisti: la disciplina degli operai, guidati
dal Partito comunista, riuscì a preservare la cittadinanza dalle convulsioni sterili e senza
uscita di una guerriglia.
Pare che appunto perciò Torino sia stata fatta segno alle attenzioni delle centrali
dell’associazione industriale e del movimento fascista. Era veramente scandaloso che la
“fortezza” del comunismo rimanesse tranquilla, non fosse investita dalla ventata irosa e
sanguigna della reazione. In questi giorni specialmente ci arrivavano da Roma continue
notizie di complotti industriali e avvertimenti per fare buona guardia. L’on. Morgari aveva
saputo con precisione che proprio in questi giorni sarebbe stato fatto il “colpo” e aveva
annunziato il suo immediato arrivo. Gli industriali e i fascisti volevano dare l’ultimo colpo
alla resistenza della classe operaia italiana, volevano debellare il baluardo torinese,
rimasto fermo e incrollabile in mezzo alla bufera scatenata. Hanno incominciato, hanno
essi preso l’iniziativa dell’assalto generale. Cosa si propongono, fin dove vogliono
giungere, quale aiuto troveranno nei poteri statali?
La classe operaia torinese rimarrà ferma e salda sulle sue posizioni. Non si mette a
sacco una città come Torino, che ha una popolazione operaia di quasi 400.000 abitanti,
con la stessa facilità con cui si domina un villaggio di contadini. Gli operai, d’altronde, si
sono fatti una dura e crudele esperienza: essi hanno visto fino a che punto di ferocia e di
barbarie i fascisti sono giunti nei centri dove son riusciti ad avere il sopravvento. La vita
umana è divenuta in questi centri del valore minore di uno straccio. I fascisti hanno

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torturato, hanno esposto al ludibrio, non hanno risparmiato né donne, né bambini, né
vecchi, né infermi. La libertà non vi esiste più che per i proprietari e i loro staffieri. Tanti
piccoli Gessler si sono impadroniti delle vie e delle piazze, costringendo i passanti, di
qualsiasi condizione, di qualsiasi fede politica o religiosa, a umiliarsi dinanzi alle loro
persone. L’organizzazione fascista, dove è riuscita a prevalere, è diventata come il corpo
d’occupazione di un paese nemico. Gli operai sanno questo, perché l’hanno imparato dalla
realtà. E la realtà ha dato questo altro insegnamento: la necessità della maggiore
disciplina, del più grande accentramento, della prontezza nell’obbedire e nell’eseguire. A
Torino gli operai difendono non solo se stessi, le loro persone, la vita delle loro donne e
dei loro figli, ma difendono anche una posizione nazionale, difendono gli ultimi brandelli di
libertà che ancora esistono nel nostro sciagurato paese.
Conosciamo quale può essere la nostra sorte: perciò dobbiamo mantenerci più fermi e
più intrepidi. Abbiamo fiducia nella nostra forza, che è immensa. Ricordiamoci della storia
passata di Torino operaia, storia ricca di ardore intrepido, di spirito di sacrifizio, di
disciplina magnifica, di costanza e di fede.
La classe operaia è invincibile: essa incarna nella storia moderna lo spirito di libertà e di
autonomia che è la sostanza stessa del progresso. Gli uomini possono passare, stritolati
dalle bufere; rimane la classe intera, per le cui fortune, per il cui avvenire i singoli uomini
devono sapersi sacrificare e devono anche saper morire. Compagni operai, stringetevi
intorno alle vostre organizzazioni; in voi è la forza materiale, dovete dimostrare, in questo
momento di marasma e di dissoluzione, che in voi è passata, in voi si incarna la forza
spirituale del popolo lavoratore.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 117, 28 aprile 1921.

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IL PREZZEMOLISMO

Perché il Comitato centrale non ha voluto sostenere la Sezione metallurgica torinese


nella sua lotta contro i capitalisti della Fiat? Perché Mario Guarnieri, segretario della Fiom,
non è stato sconfessato immediatamente per il suo articolo del 5 aprile nell'“Avanti!”,
articolo in cui esplicitamente si diceva che il Comitato centrale abbandonava all'ira e alla
vendetta degli industriali le maestranze in lotta?
In questo atteggiamento del Comitato centrale e di Mario Guarnieri è da ricercare un
barlume di concezione politica infantile, che si collega, per le sue conseguenze micidiali,
per i disastri che semina nel movimento operaio, alle correnti socialpacifiste e reazionarie
dominanti il sindacalismo giallo dell'Europa centrale e occidentale. Certo Oreste Bertero
(escrescenza muffosa del corporativismo industriale) non può essere paragonato a R.
Hilferding, teorico massimo del menscevismo internazionale. Certo Mario Guarnieri
(volgare pennivendolo che indifferentemente si pone ai servizi di uno sciacallo
dell'affarismo torinese come il signor Giaccone, proprietario di “Torino nuova”, di un
pescecane del giornalismo bancario-giolittiano-industriale come il signor Pippetto Naldi, di
G. M. Serrati dell'“Avanti-Barnum!”) non può essere paragonato a Otto Bauer, la cui
politica ha ridotto l'Austria tedesca nelle condizioni di fame e di miseria universalmente
note. La concezione politica dei mandarini sindacali della Fiom è terra terra, manca di ogni
ossatura ideologica, manca di ogni quadratura teorica; è appena una giustificazione della
vigliaccheria e del settarismo anticomunista che rende pazzi questi signori.
I mandarini sindacali credono, non resistendo, non lottando, di evitare la reazione. In
verità essi evitano solo la reazione contro le loro persone, non evitano la reazione contro
le masse lavoratrici; qualche volta non evitano neppure la reazione contro le loro persone.
Imbevuti di giallismo, i mandarini sindacali credono che tutto sia permesso ai capitalisti. I
capitalisti possono licenziare, possono condannare a morir di fame migliaia e migliaia di
operai con le loro famiglie, possono stracciare i concordati, possono arruolare corpi armati
di guardie bianche e mandarle a incendiare, a saccheggiare, ad assassinare; per i
mandarini sindacali questo è normale, è logico, è naturalissimo. L'abbiamo forse inventata
noi la lotta di classe dei capitalisti contro gli operai? – domandano stupidamente i
mandarini sindacali. Certo, è naturale, è logico, è normale che i capitalisti lottino contro le
esigenze vitali del popolo lavoratore. Ma perché sono stati creati i sindacati professionali,
le federazioni, la Confederazione generale del lavoro? Non sono forse stati creati per
organizzare la resistenza della classe operaia, per mettere la massa lavoratrice in grado di

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limitare lo strapotere dei capitalisti, di migliorare le sue condizioni, di condurla alla lotta
suprema per l'espropriazione degli espropriatori, per la fondazione della società socialista?
Se voi riconoscete naturale, logico, normale che i capitalisti lottino per sfruttare e affamare
gli operai, perché non riconoscete logico, normale, naturale che gli operai lottino contro i
capitalisti per limitare lo sfruttamento e l'affamamento? Ecco il vostro torto, o mandarini,
ecco la vostra colpa: opporvi a ogni resistenza da parte degli operai, accusare i comunisti
di essere la causa della lotta capitalistica, accusare i comunisti di... provocare la reazione
capitalistica e borghese.
È questa una concezione politica seria? No, questa è solo una confessione di
vigliaccheria. Serve almeno a qualche cosa? No, essa serve a nulla. Certo, quando le
masse non lottano, i mandarini sono tranquilli: lo stipendio corre lo stesso, le indennità di
trasferta corrono lo stesso, e in più ci sono i complimenti dei giornali borghesi, dei ministri,
degli industriali; l'intelligenza di Buozzi viene portata ai sette cieli, la capacità di Colombino
trova ammiratori in tutti i salotti benpensanti; la verve giornalistica di Mario Guarnieri trova
compratori in tutti i mercati, grandi e piccoli, della stampa pescecanesca. Ma che avviene
delle masse lavoratrici che soffrono e languono, che devono pagare l'affitto di casa, la
luce, l'acqua, che devono sfamare, vestire, calzare le mogli, i figli, i vecchi genitori? Le
masse cadono al di sotto di ogni livello umano; gli operai stracciati, magri, disperati si
depravano, la delinquenza comune si moltiplica, la pazzia e l'idiozia fanno strage, i piccoli
figli del proletario vengono su denutriti, rachitici in un ambiente malsano di esasperazione.
Cosa avviene ancora? Vedendo che l'organizzazione non funziona, che gli enti massimi
della resistenza mancano ai loro precisi doveri, una parte degli operai diventa scettica e
passa al fascismo; il crumiraggio trova sempre maggiori seguaci per l'egoismo e la
diffidenza scatenati; l'organizzazione sindacale si sfascia e la massa diventa come un
cadavere in decomposizione.
Nell'Emilia, nel Polesine, nel Veneto molte leghe di contadini hanno stracciato la
bandiera rossa e sono passate al fascismo. Certo c'è dell'esagerazione nelle notizie che
dànno i giornali borghesi; certo in molti casi si tratta di imposizione fatta con le rivoltelle in
pugno. Ma non tutta è esagerazione, non sempre si tratta di imposizione. Le leghe sono
state abbandonate a se stesse dagli organismi centrali; si è detto ai contadini di non
resistere, di essere vili, di accettare passivamente ogni angheria e ogni prepotenza: lo
scetticismo è entrato nel cuore delle masse sofferenti, terrorizzate, abbandonate, lo
scetticismo e la delusione. Perché continuare a chiamarsi socialisti e rivoluzionari, se ciò
serve solo a procurar botte e revolverate, se il socialismo è caduto in mano di uomini

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indifferenti, che sorridono delle sofferenze popolari, che dicono con un sorrisetto: – è
naturale, è logico, è normale che ciò sia, perché i proprietari debbono necessariamente
lottare contro i poveri – e non muovono un dito per organizzare una qualsiasi resistenza e
non cercano di fare una mobilitazione generale contro la tirannia bianca? Cosa sarebbe
successo se i due milioni di operai e di contadini che hanno votato per il Partito socialista,
invece di essere stati chiamati alle urne, fossero stati, dall' “Avanti!”, dalla direzione del
Partito socialista, dalla Confederazione generale del lavoro, chiamati alla lotta,
simultaneamente, con le armi che la rabbia e il dolore mettono in mano al popolo quando
insorge per il suo diritto e per aver giustizia? Certo il fascismo sarebbe stato soffocato e
col fascismo lo Stato borghese. Sarebbe corso del sangue per le vie e per le piazze; ma
forse che oggi non scorre del sangue? Certo si sarebbero verificate distruzioni e incendi;
ma forse che oggi non si verificano distruzioni e incendi? Certo che per un certo tempo le
industrie e gli scambi avrebbero sofferto per l'urto rivoluzionario; ma forse che oggi le
fabbriche non si chiudono una dopo l'altra, e gli scambi non sono resi difficili dalle turbate
condizioni generali del paese? Certo si sarebbe anche sofferta la fame; ma forse che oggi
non soffrono la fame le centinaia di migliaia di disoccupati?
No, no, non è una concezione politica seria quella dei mandarini sindacali; essa è solo
una secrezione di vigliaccheria piccolo-borghese, essa è solo un prodotto mentale degno
di un ex capo cronista della “Gazzetta del popolo” come Mario Guarnieri, prezzemolo di
tutte le salse socialrifounitarie; perciò noi questa “concezione” non la battezziamo per
menscevica, ma le abbiamo trovato un attributo italiano: “prezzemolismo”.

Mario Guarnieri cerca, nell'“Avanti!” di ieri, di ciurlare nel manico. Egli dimentica di
essere segretario della Fiom e non un corrispondente qualunque di giornale.
Nella corrispondenza apparsa il 5 aprile nell'“Avanti!” egli non scrisse solamente che “la
responsabilità dell'agitazione veniva lasciata ai comunisti”; egli scrisse che le
organizzazioni maggiori non sarebbero intervenute, egli, segretario della Fiom, conosciuto
dagli industriali come segretario della Fiom. E gli industriali trassero immediatamente
partito da questa dichiarazione: infatti è nella sera del 5 aprile che le fabbriche Fiat furono
occupate militarmente ed è il 6 aprile che le maestranze si trovarono serrate. La
coincidenza non è stata certo casuale, e la responsabilità del segretario della Fiom può
essere negata solo da chi ha interessi di consorteria da salvare.

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 168, 18 giugno 1921.

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APRILE E SETTEMBRE 1920

L’anniversario dell’occupazione delle fabbriche ha servito a rimettere in circolazione uno


stantio pettegolezzo contro i comunisti torinesi che dovrebbero ritenersi come i maggiori
responsabili della mancata estensione del movimento. L’on. Buozzi ha fatto accenno a
questa responsabilità nel suo recente discorso alle commissioni interne metallurgiche
milanesi; un altro accenno è contenuto in una corrispondenza torinese a “Umanità nova”.
La “Voce” aveva passato i confini e Jacques Mesnil l’aveva raccolta in un articolo sul
“Movimento socialista italiano” pubblicato nella “Revue communiste” di Carlo Rappaport.
Mettiamo una volta per sempre le cose a posto. Quando, nel settembre 1920, i
funzionari confederali si trovarono innanzi al grandioso sommovimento rivoluzionario
provocato dall’iniziativa del Comitato centrale della Fiom, essi affannosamente corsero ai
ripari, affannosamente cercarono di scaricare su qualcuno la responsabilità della loro
inettitudine. Avevano lanciato centinaia di migliaia di operai nel campo dell’illegalità, nel
terreno dell’insurrezione armata e avevano dimenticato una cosa semplicissima: procurare
armi agli operai, mettere la classe operaia in grado di impegnare una lotta sanguinosa. A
Milano, dove risiedeva lo stato maggiore del movimento, non si erano neppure curati di
fare un inventario e una raccolta delle armi e delle munizioni esistenti nelle fabbriche; a
Lecco, sette giorni dopo l’occupazione, la polizia poteva ancora sequestrare 60 000
petardi lasciati nei magazzini di uno stabilimento, 60 000 petardi che avrebbero permesso
un discreto armamento della maestranze milanesi. D’un colpo, i funzionari sindacali
divennero favorevoli all’offensiva operaia; essi anzi avrebbero voluto che l’offensiva
partisse da Torino, che Torino si ponesse all’avanguardia del movimento insurrezionale. Il
settembre 1920 era troppo vicino all’aprile 1920. Nell’aprile 1920 il proletariato torinese,
trascinato in una disperata lotta dagli industriali, per un preciso impegno preso dal
convegno della Confederazione dell’industria italiana tenutosi a Milano il 7 marzo
precedente, era stato piantato in asso dalla Confederazione generale del lavoro. I torinesi,
nell’aprile, erano stati isolati dal resto d’Italia, erano stati mostrati a dito al resto d’Italia
come una banda di anarcoidi, di scalmanati, di indisciplinati, di pazzi. Nell’aprile si era
giunti fino a fare delle insinuazioni sull’origine dei “fondi” a disposizione dei torinesi per il
nolo di un’automobile. Come era possibile non ritenere in malafede coloro che nel
settembre volevano dai torinesi la spinta iniziale del movimento insurrezionale, se questi
“coloro” erano gli stessi che in ogni modo, con tutte le male arti avevano nell’aprile
diffamato i torinesi? Come era possibile che i torinesi non pensassero che l’offerta fosse
un’abile trappola per ottenere che il movimento rivoluzionario torinese fosse

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definitivamente schiacciato dalla polizia che aveva a Torino concentrato un imponente
apparato di truppa?
Questa era la situazione di fatto. I comunisti torinesi sostennero la necessità
dell’estensione del movimento e votarono l’ordine del giorno Schiavello-Bucco; rifiutarono,
e ne avevano tutte le ragioni, di assumersi la responsabilità dell’iniziativa. A Torino si
poteva, nel quadro generale di una lotta nazionale, sostenere l’urto delle forze
governative, e molte probabilità di vittoria esistevano; non si poteva però assumersi la
responsabilità di una lotta armata senza avere la certezza che la Confederazione,
secondo il suo solito, non avrebbe lasciato addensare a Torino, come nell’aprile, tutte le
forze militari del potere di stato. I comunisti torinesi, anche in quella occasione, operarono
con saggezza, dimostrarono di saper ragionare freddamente, di essere immuni dallo
spirito di avventura che veniva loro attribuito dalle grandi barbe dell’opportunismo e del
riformismo. Essi avevano fatto il loro dovere, avevano provveduto nei limiti delle loro forze
e delle loro disponibilità locali. Rifiutarono di farsi prendere in trappola dai politicanti del
mandarinismo confederale, che avevano lanciato le masse operaie nel campo della lotta
armata e si erano dimenticati di procurare le armi, che a Lecco si erano stupidamente fatti
sequestrare 60 000 petardi e poi, affannati, convulsi, pazzi di terrore, domandavano
“quattro mitragliatrici per armare Milano”.

Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 249, 7 settembre 1921.

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LA MULA D'ALCIONIO

Per G. M. Serrati il parallelo da noi istituito tra le condizioni “socialiste” di Milano e le


condizioni “comuniste” di Torino è un “parallelo curioso”. Il parallelo pare anzi addirittura
“inutile” a G. M. Serrati. Le cifre, poi, la matematica, la statistica sono ferravecchi, sono...
opinioni, secondo la modesta ma ferma opinione di G. M. Serrati.
Che a Torino la sezione metallurgica abbia oggi dai 16 ai 18 000 soci al corrente col
pagamento delle quote è... un'opinione, per G. M. Serrati. Che a Milano la sezione
metallurgica abbia dai 6 ai 4000 soci al corrente col pagamento delle quote è...
un'opinione, per G. M. Serrati. Che al referendum per le elezioni del consiglio sezionale
metallurgico torinese abbiano votato 2500 operai comunisti è... un'opinione, per G. M.
Serrati. Che al referendum milanese abbiano partecipato soltanto 260 operai metallurgici
è... un'opinione per G. M. Serrati. Come sono odiosi i paragoni, e come sono terribilmente
scoccianti i comunisti che istituiscono tali paragoni. Per G. M. Serrati è più comodo, più
scientifico, più serio non il “relativismo”, ma “l'assolutismo”. È più comodo affermare
apoditticamente: a Torino i comunisti hanno seminato il sale, a Torino i “puri” hanno
mandato tutto in baracca, a Torino tutto ciò che i comunisti hanno toccato – Camera del
lavoro, Associazione generale degli operai, Alleanza cooperativa – è stato guasto.
La statistica porta sfortuna a G. M. Serrati. La statistica dimostra che il movimento
comunista è in pieno sviluppo mentre il massimalismo è in pieno sfacelo. G. M. Serrati era
piantato saldamente nella convinzione che il Partito comunista avesse solo 25 000 soci;
noi ne facciamo sfilare 80 000. Era persuaso che gli organizzati comunisti nella Confe-
derazione generale del lavoro erano solo 100 000 (fatti animo, Ludovico!); noi ne facciamo
schierare 500 000. Era persuaso che la Camera del lavoro di Torino fosse ridotta a meno
di 20 000 inscritti (fatti animo, Chignoli!); noi gli dimostriamo che la sola sezione
metallurgica ha 20 000 inscritti, dei quali dai 16 ai
18 000 al corrente con i pagamenti. Era persuaso che a Milano non si facesse un bluff
annunziando che i socialisti, nelle elezioni della commissione esecutiva della Camera del
lavoro avevano raccolto 140 000 voti. Noi gli dimostriamo che la sezione metallurgica
milanese, la quale aveva ritirato appena 10 000 tessere camerali, aveva solo 6 000 soci al
corrente coi pagamenti due mesi fa, che oggi questi soci sono ridotti a 4 000, che al
referendum hanno partecipato solo 260 operai metallurgici. Come è noiosa la statistica!
Quanto inutili non sono mai i paralleli!
G. M. Serrati si consola: alle elezioni politiche i socialisti hanno vendemmiato più

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abbondantemente dei comunisti. Verissimo; ma i borghesi hanno vendemmiato ancora più
abbondantemente dei socialisti. Che vuol dire ciò? Per noi vuol dire una cosa sola: che il
meccanismo della democrazia borghese non è sufficiente, non è più idoneo a stabilire la
mala volontà delle masse lavoratrici; il meccanismo sindacale è più aderente alla realtà
proletaria, ma è anch'esso insufficiente; il meccanismo più idoneo per noi è il sistema dei
Soviet e solo sulla base delle elezioni soviettiste crediamo si possa ragionare
obiettivamente di maggiore o minore influsso dei partiti politici in mezzo alle classi lavora-
trici.
Tempo già fu, quando G. M. Serrati si credeva un'aquila rivoluzionaria, che G. M.
Serrati strenuamente sosteneva questa opinione. Mutano i tempi; l'aquila rivoluzionaria si
è rivelata un pappagallo demagogo; il terribile scampolista, nel groviglio dei suoi enigmi
psicologici, si è rivelato, volta a volta, nei molteplici aspetti di uomo dallo scappamento
sempre aperto, di uomo modesto ma fermo, ecc. ecc. ecc. Mancava un'identificazione, per
dare al quadro una nuova pennellata rivelatrice su questo aspetto del carattere di G. M.
Serrati che indietreggia con la velocità... della mula d'Alcionio. Ecco, sì, della mula
d'Alcionio, la quale, secondo la testimonianza di Francesco Berni,

se avesse avuto al cul la briglia,


avrebbe fatto al giorno cento miglia.

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 258, 16 settembre 1921.

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I PIU’ GRANDI RESPONSABILI

Se, nel settembre 1920, i comunisti torinesi fossero stati anarchici invece di essere
comunisti, il movimento per l’occupazione delle fabbriche avrebbe avuto sbocchi molto
diversi da quelli che effettivamente ha avuto: questo è il succo di una corrispondenza
torinese a “Umanità nova”, in cui si riaffermano le nostre grandi responsabilità per la
mancata rivoluzione. Che peccato! I comunisti torinesi, nel settembre 1920, erano infatti
comunisti e non anarchici; fin da quel tempo ritenevamo che “rivoluzione proletaria”
significa e possa significare solamente creazione di un governo rivoluzionario; fin da quel
tempo ritenevano che un governo rivoluzionario possa crearsi solo in quanto esiste un
partito rivoluzionario organizzato nazionalmente che sia capace di condurre un’azione di
massa fino a questo obiettivo storicamente concreto. I comunisti torinesi appartenevano al
Partito socialista italiano, erano inscritti alla sezione torinese; al partito e alla sezione
appartenevano anche i riformisti dirigenti la Confederazione generale del lavoro. Il
movimento era stato scatenato dai riformisti. I comunisti torinesi, come appare dall’“Ordine
Nuovo” settimanale del 15 agosto 1920, erano contrari all’azione impostata dalla Fiom, per
il modo con cui era stata impostata, per il fatto che non era stata preceduta da una
preparazione, per il fatto che non aveva un fine concreto. Date queste condizioni di fatto, il
movimento poteva sboccare in una rivoluzione solo a patto che i riformisti continuassero a
dirigerlo. Se i riformisti una volta iniziata l’azione, una volta che l’azione aveva preso
l’importanza e il carattere che aveva preso, l’avessero condotta fino alle conseguenze
logiche, certo la grande maggioranza del proletariato e anche larghi strati della piccola
borghesia e dei contadini avrebbero seguito la loro parola d’ordine. Se invece i comunisti
torinesi, di loro iniziativa, avessero iniziato l’insurrezione, Torino sarebbe stata isolata,
Torino proletaria sarebbe stata implacabilmente schiacciata dalle forze armate del potere
di Stato. Nel settembre 1920 Torino non avrebbe avuto neppure la solidarietà della
regione piemontese, come l’aveva avuta nell’aprile precedente. La campagna scellerata
che i funzionari sindacali e gli opportunisti serratiani fecero contro i comunisti torinesi dopo
lo sciopero di aprile aveva avuto effetto specialmente nel Piemonte: i torinesi non
potevano neppure accostare i compagni della regione; non si credeva una parola di
quanto affermavano, si domandava sempre loro se avevano un mandato esplicito della
direzione del partito; tutta l’organizzazione creata da Torino per la regione si era
completamente sfasciata. Il corrispondente torinese di “Umanità nova”, che conosce forse
gli sforzi di organizzazione fatti in quel periodo, non conosce certamente molte altre cose. I
comunisti cercarono di porre il proletariato torinese nelle condizioni migliori dal punto di

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vista di una probabile insurrezione; sapevano però che altrove niente si faceva, che
nessuna parola d’ordine circolava; sapevano che i dirigenti sindacali, responsabili del
movimento, non avevano nessuna intenzione bellicosa.
Per un periodo di tempo brevissimo, di tre o quattro giorni, i dirigenti sindacali furono
favorevolissimi all’insurrezione, sollecitarono pazzamente l’insurrezione. Perché? Pareva
che Giolitti, premuto dagli industriali che minacciarono apertamente di rovesciare il
governo con un pronunciamento militarista, volesse passare dalla “omeopatia” alla
“chirurgia”; ci furono evidentemente delle minacce da parte di Giolitti. I dirigenti persero la
testa: volevano il “fattaccio”, volevano una strage locale che permettesse di concludere
nazionalmente la vertenza secondo le tradizioni riformistiche. Abbiamo fatto bene o male a
rifiutarci a questo gioco infame, che doveva essere azzardato col sangue del proletariato
torinese? Davvero che a forza di ripetere, dall’aprile in poi, che i comunisti torinesi erano
degli scalmanati, degli irresponsabili, dei localisti, degli avventurieri, i riformisti avevano
finito col crederci e col credere che noi ci saremmo prestato al loro gioco. Non sono state
giornate facili quelle del settembre 1920; in quei giorni abbiamo acquistato, forse tardi, la
precisa e recisa convinzione della necessità della scissione. Come era possibile che
stessero insieme, in uno stesso partito, uomini che diffidavano gli uni degli altri, che si
accorgevano delle necessità, proprio nel momento dell’azione, di guardarsi alle spalle dei
propri consoci? Questa era la situazione, e noi non eravamo anarchici, ma comunisti, cioè
convinti della necessità di un partito nazionale perché la rivoluzione proletaria abbia un
minimo di probabilità di buona riuscita. Ma se anche fossimo stati anarchici, avremmo fatto
diversamente? C’è un punto di riferimento per rispondere a questa domanda: nel
settembre 1920 esistevano bene in Italia gli anarchici, esisteva un movimento anarchico
nazionale. Che cosa hanno fatto gli anarchici? Nulla. Se noi fossimo stati anarchici, non
avremmo neppure fatto ciò che è stato fatto a Torino nel settembre 1920, e cioè una
preparazione notevole, certamente, dato che era dovuta a sforzi puramente locali, senza
aiuti, senza consigli, senza una integrazione nazionale.
Se gli anarchici riflettono bene ai fatti del settembre 1920 non possono che giungere a
una conclusione: la necessità del partito politico, fortemente organizzato e centralizzato.
Appunto perché il Partito socialista, per la sua incapacità, per la sua subordinazione ai
funzionari sindacali, è il responsabile della mancata rivoluzione, appunto perciò deve
esistere un partito che la sua organizzazione nazionale ponga a servizio della rivoluzione
proletaria, che prepari con la discussione e con la disciplina ferrea gli uomini capaci, che
sappiano prevedere, che non conoscano esitazioni e tentennamenti.

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Non firmato, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 262, 20 settembre 1921.

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IL “DELIRIUM TREMENS” DEI SOCIALISTI

I socialisti hanno completamente perduto le staffe nelle manifestazioni del loro odio
anticomunista e antiproletario. La città è tappezzata di manifesti ignobili quali mai nessun
operaio onesto e leale avrebbe creduto possibile sarebbero stati scritti da gente che osa
chiamarsi ancora socialista. Leggendo tali manifesti, ogni lavoratore intelligente si
domanda: “ Ma che differenza esiste ormai tra i socialisti e i reazionari, tra i socialisti e i
fascisti?”; e si domanda ancora: “Ma perché tanta rabbia, ma perché tanto odio, ma
perché tanto accanimento?”
Il perché è molto semplice. La sezione socialista torinese è oggi costituita nella sua
grandissima maggioranza di elementi sociali che nulla hanno di comune con la classe
operaia, che anzi sono diventati dei veri e propri sfruttatori del popolo lavoratore. Fornitori
dell'Act, grandi mandarini sindacali, esercenti, ingegneri e ragionieri che hanno il mo-
nopolio per i lavori delle cooperative, avvocati che si servono del socialismo per far
carriera. Questa gente teme come il fuoco il Partito comunista e la classe operaia. Hanno
una paura matta del controllo operaio, sentono vacillare il loro meschino trono di piccoli
despoti e di nuovi ricchi. Hanno paura di lavorare in regime di concorrenza privata. Un
ragioniere socialista che si arricchisce speculando sui denari affidatigli dalle cooperative,
corre tutt'al più il rischio di essere... espulso dal Partito socialista. Un ingegnere che
sbaglia i progetti di costruzioni, se lavorasse per i privati, verrebbe preso a calci nel di
dietro e squalificato nella sua professione; lavorando per le cooperative, viene coperto dal
bandierone del Partito socialista e continua a far parcelle per 300 000 lire all'anno.
Appartenere al Partito socialista, significa fare l'agente commerciale per l'Act, dividendo
cosi le parti: se un affare è buono, lo si fa per proprio conto; se è cattivo lo si lascia all'Act.
Perché la maggioranza degli ispettori dell'Act, che dovrebbero controllare il buon
andamento dei distributori e impedire sempre le angherie che spesso vengono fatte alle
massaie che vanno a comperare, perché la maggioranza di questi ispettori appartiene al
Partito socialista? Perché sa di non essere controllata, ma anzi di essere coperta. Tra
ispettori, fornitori, avvocati, ingegneri, ragionieri si mettono d'accordo, formano la
maggioranza della sezione socialista e si stringono in un solo fascio di omertà e di “mutuo
soccorso”.
Conquistare l'Ago significa per questi signori togliersi di dosso l'assillo comunista,
significa espellere la classe operaia da ogni ingerenza nell'amministrazione delle istituzioni
cooperative e mutualistiche.

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Chi paga tanti manifesti?

Molti operai si saranno ancora domandati: “Ma chi paga tante migliaia e migliaia di
manifesti e di manifestini socialisti? Dove pigliano i soldi (decine di migliaia di lire!) questi
socialisti che cantano sempre miseria?” La risposta a queste domande non è molto facile.
Esiste però un elemento indiziario: quando i fascisti devastarono il palazzo dell'Ago, l'Ago
costituì un comitato per raccogliere fondi attraverso una sottoscrizione operaia; la sezione
socialista non volle entrare a far parte di questo comitato e lanciò una propria
sottoscrizione, sul cui risultato nulla si sa, sul cui risultato i socialisti non hanno ancora
voluto dare i conti. Così i socialisti in un primo tempo hanno cercato di spezzare il fronte
unico proletario per la restaurazione del palazzo; in un secondo tempo si sono tenuti i
fondi raccolti e li hanno dedicati alla... restaurazione delle casse del loro partito; li hanno
dedicati alla stampa di migliaia e migliaia di manifesti e manifestini contro i comunisti,
contro la classe operaia, contro la Russia dei Soviet, contro il salario degli operai.

La cooperativa ferroviaria l'Ago e i socialisti.

In una delle tante circolari riservate per le diverse categorie di soci dell'Ago i socialisti
fanno questa minaccia: “Se alle elezioni non trionfa la lista socialista, probabilmente la
cooperativa ferroviaria rompe il suo patto d'alleanza con l'Ago”.
È questa una manovra stupida e ridicola, ma tuttavia essa serve molto per mostrare agli
operai quale sia il partito che porta la disgregazione e la scissione nel movimento
proletario. I comunisti fanno la propaganda per il fronte unico proletario contro l'offensiva
capitalistica; i socialisti non solo si oppongono al fronte unico sindacale, ma vogliono
scindere anche il movimento cooperativo e mutualistico. Essi vogliono dominare a tutti i
costi e senza nessun controllo; se il Partito comunista vuole esercitare il diritto
democratico di concorrere ai posti direttivi, attraverso una propria maggioranza, allora i
socialisti minacciano la scissione e disgregano la massa.
La minaccia è però ridicola. Intanto bisogna vedere se la massa dei ferrovieri azionisti
della cooperativa è oggi d'accordo coi socialisti, i quali hanno, con una deliberazione
“colpo di stato”, deciso di aprire le porte della Ferroviaria ai gialli del sindacato economico,
cioè ai peggiori nemici della categoria ferroviaria. Noi, per esempio, siamo persuasi che
oggi anche nella Ferroviaria il trono socialista vacilla. E perché, del resto, i socialisti hanno
deciso di aprire le porte della cooperativa ai gialli, se non per cercare di farsi una

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maggioranza con elementi antiproletari?
È questa una ragione di più, dunque, perché oggi esca vittoriosa dalle urne la lista
comunista. Gli operai combattono oggi una grande battaglia contro i gialli e contro i fascisti
che cercano di conquistare i baluardi dell'emancipazione operaia sotto il bandierone
tarlato della socialdemocrazia.

I socialisti sono i battistrada dei fascisti..

È una legge politica dimostrata da tutta l'esperienza storica che quando un partito nato
nel campo proletario lotta contro un altro partito proletario che sta più a sinistra, il primo va
infallantemente a cadere nelle braccia della reazione e si allea coi peggiori elementi
controrivoluzionari. Questa legge si è integralmente verificata a Torino: a Torino i socialisti
sono i battistrada del fascismo. Intanto i socialisti si sono fatti sostenere dalla “Stampa”, il
giornale del mandrillo di Dronero, del vero creatore del fascismo. Poi: chi può distinguere
più i manifesti socialisti da quelli fascisti? Non usano i socialisti lo stesso frasario della
“Stampa” e del “Popolo d'Italia” quando parlano del comunismo, della dottrina di Marx, di
Engels, di Lenin, di Trotski, come di una dottrina di odio e di avvelenamento? Quando
parlano di “agguati” comunisti?
Del resto si è già visto a Torino questo: i fascisti non avevano mai osato assalire le sedi
proletarie. Ma quando, nella vertenza Fiat, essi videro gli operai metallurgici in lotta
abbandonati dal Comitato centrale della Fiom, quando videro i socialisti fare opera di
disgregamento e di avvilimento fra gli scioperanti, quando lessero
nell' “Avanti!” le corrispondenze di Mario Guarnieri, nelle quali apertamente si diceva agli
industriali: “Battete, battete pure sulla massa, noi ce ne infischiamo, noi non vi
procureremo alcun grattacapo”, allora i fascisti dissero: “La situazione è matura a Torino
per dare un gran colpo all'organizzazione operaia, senza paura di troppo gravi
conseguenze”, e assalirono il palazzo della Ago e lo devastarono.

La forza di tutto il popolo è nel Partito comunista.

Tutto il popolo lavoratore oggi è solidale nell'opposizione a un tentativo fascista di


imporre la dittatura militare. Si è visto a Roma: intorno al proletariato romano si sono
schierate le altre classi oppresse della popolazione e insieme fu impegnata la lotta contro
gli invasori armati. I ferrovieri romani, che rappresentarono la spina dorsale della

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resistenza, furono abbandonati dai dirigenti socialisti, che volevano la cessazione dello
sciopero ferroviario; allora i comunisti presero loro la dirigenza del movimento e lo
condussero fino alla sua vittoria. Un fatto simile dovrebbe verificarsi oggi a Torino, per le
elezioni dell'Ago. Anche i soci non proletari, nel senso proprio della parola, ma che tuttavia
sono degli oppressi e dei poveri, devono riconoscere che il Partito comunista è anche il
loro partito. La classe operaia, emancipandosi, non può che emancipare anche le altre
classi oppresse. Ogni lotta degli operai è anche lotta per gli altri oppressi, è lotta per tutti i
poveri, è lotta per tutti coloro che vivono del loro lavoro. Si tratta di salvare l'alleanza
cooperativa dall'invasione dei vari Grandolini, dei vari esercenti “socialisti” che vogliono
snaturarla e corromperla. Si tratta di mettere una fine alle speculazioni e agli intrighi di
quella banda di affaristi e di fornitori che oggi costituiscono la sezione socialista.
L'Associazione generale degli operai deve rimanere agli operai. L'Associazione generale
degli operai, se tutti gli elementi onesti e sinceri del mutualismo torinese fanno il loro
dovere e comprendono il loro interesse reale, rimarrà agli operai!

Non firmato, “ L'Ordine Nuovo ”, anno I, n. 323, 20 novembre 1921.

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SOLIDARIETÀ OPERAIA

Se è sfuggito a coloro che vivono fuori del movimento proletario il significato dello
sciopero generale di ventiquattro ore che i lavoratori torinesi hanno ieri, con mirabile
disciplina, attuato in segno di solidarietà ai colpiti da una feroce sentenza di classe, esso
non è certo sfuggito alle grandi masse operaie, che il processo delle giornate di settembre
hanno seguito come se si trattasse della loro vita stessa, della loro propria libertà, della
libertà dei loro figli. E infatti l'occupazione delle fabbriche è stata opera vissuta da tutta la
classe operaia; tutta la classe vi ha partecipato. Se responsabilità o colpe individuali si
dovevano far cadere sotto la sanzione della legge, queste responsabilità, queste colpe
non potevano essere in modo assoluto degli operai.
La sentenza di Torino ha, è vero, confermato la responsabilità dei capi; ha persino
ammesso la colpabilità del ministero Giolitti che ha dato carattere di normalità con un suo
decreto ad un episodio che, secondo il verdetto dei giurati, era di aperta guerra civile e
non solamente di lotta per i salari tra capitale e lavoro; ma la sentenza ha colpito cieca-
mente operai i quali, assolti dal reato di partecipazione alla guerra civile, non potevano
essere che rilasciati. L'odio di classe, al quale la sentenza era inspirata, si è voluto invece
ammantarlo con l'applicazione a nove degli imputati della legge per reato comune.
Merzagora e Bonini vengono prosciolti dall'accusa di avere organizzato corpi armati e
fatto istigazione alla guerra civile; ma si prende motivo dalla uccisione della guardia
Santagata per colpire con ferocia gente risultata innocente nella maniera più chiara ed
assoluta. I giurati si sono preoccupati di mostrarsi equanimi: “Noi assolviamo gli operai e
riteniamo colpevoli i capi della guerra civile in cui si è vissuti nelle giornate di settembre;
ma condanniamo per la uccisione della guardia”. Essi però sapevano che condannavano
degli innocenti e che di nove imputati appena tre potevano essere ritenuti colpevoli alla
stregua della “loro” legge. Ma il pretesto era buono, per far credere ad una parte
dell'opinione pubblica che la loro sentenza non era ispirata ad odio di classe. Il giuoco su
cui i giurati torinesi hanno fondato la loro sentenza è riuscito però troppo grossolano per
non essere compreso anche da coloro che meno si sono interessati alle sorti di questo
primo processo delle giornate di settembre. A parte tutte le altre nostre considerazioni
politiche sul processo, è risultato da questo che sei innocenti si sono visti condannati per
un delitto al quale essi non hanno avuto alcuna compartecipazione di sorta. Questi sei
innocenti non possono essere gettati in una prigione sotto il peso terribile di una condanna
inaudita. Ecco quello che inizialmente lo sciopero di ventiquattro ore dei lavoratori torinesi

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ha voluto dire.
Poiché i giurati di Torino hanno detto di condannare non per la occupazione delle
fabbriche ma per la uccisione della guardia, essi avevano il dovere di applicare la legge,
tenendo conto di tutte le garanzie che questa offre ancora all'imputato. La realtà invece è
che si è voluto colpire l'operaio, come operaio; si è voluto con meditato proposito mettere
in esecuzione una sentenza di classe. Quando il Barattieri ha confessato che egli ha
ammazzato solo perché credeva di trovarsi di fronte ad un operaio sovversivo, i giurati non
hanno avuto un solo dubbio sull'applicazione della legge ed hanno assolto l'assassino. Nel
processo per le giornate di settembre, senza prove, con alibi formidabili che dimostravano
tutta l'innocenza degli imputati, i giurati hanno condannato.
Gli operai torinesi, astenendosi dal lavoro per ventiquattro ore, hanno voluto mostrare
alle famiglie dei poveri innocenti che le carceri hanno inghiottito sotto il peso di una
condanna iniqua, la loro solidarietà. Ma nello stesso tempo essi hanno voluto anche
affermare che continueranno a lottare fino a quando non si cesserà di servirsi in questo
modo barbaro delle leggi dello Stato. Essi vogliono ricostituire la nozione del reciproco che
la magistratura borghese ha distrutto, mettendosi completamente al servizio delle classi
padronali. Questo il vero significato dell'astensione dal lavoro di ieri degli operai torinesi:
solidarietà alle vittime innocenti ed inizio di una riscossa generale del proletariato contro
l'offensiva capitalista, che si manifesta nelle fabbriche con la riduzione dei salari e nei
tribunali con l'assoluzione degli assassini di operai e la condanna di operai innocenti.
Occorre che l'agitazione iniziata per queste vittime e per la restaurazione del rispetto alla
vita ed alla libertà degli operai sia però intensificata, generalizzata: occorre cioè ricostituire
contro il fronte unico antiproletario il fronte di azione generale di tutto il proletariato, che il
Partito comunista ha suggerito e va predicando sin dal giorno che si è delineata
all'orizzonte della lotta di classe in Italia l'offensiva padronale. L'inerzia, la passività degli
operai non può fare a meno di giovare ai loro avversari. Ma questo avvertimento non ha
valore per gli operai, i quali sanno sempre rispondere, quando la lotta è necessaria. Coloro
che devono intenderlo più specialmente sono i capi sindacali, sono quelli che non hanno
mai compreso la necessità di organizzare un'azione generale.

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I, n. 339, 7 dicembre 1921.

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PAROLE, PAROLE, PAROLE…

Per aver scritto accurati volumi di ricerche intorno a Camillo Cavour il senatore Ruffini
passa presso il colto pubblico torinese per un grande storico. Chi si contenta… Nella
miseria della nostra letteratura storica non fa meraviglia che anche un modesto (e
aggiungiamo anche scrupoloso, accurato e pieno di merito) rovistatore di archivi si ponga
in prima linea. Ma perché non limitarsi a far lezione di diritto ecclesiastico e a pubblicare
poderose opere di erudizione, utilissime per il limitato pubblico cui si rivolgono, e dare al
“Corriere della Sera” i ritagli del proprio lavoro? No, ci vuole anche la conferenza, il gran
pubblico che applauda senza intendere e che si adatti a lasciarsi abbruttire per poi poter
assistere gratuitamente a una cinematografia nell’“Ambrosio”, che ordinariamente costa
alquanto più cara che negli altri infiniti ritrovi del genere.
Si parla del principio di nazionalità. Tema bellissimo, che trattato disinteressatamente
avrebbe interessato e in questo momento avrebbe servito a colmare una lacuna. Ma
ponete a parlare di questo argomento un professore d’università, uno pseudo storico come
il Ruffini; esso diventa plumbeo, accademico, senatoriale, da vecchiardi. L’assunzione del
principio di nazionalità a fondamento di un diritto internazionale, che dovrebbe essere un
particolare secondario, diventa fulcro del discorso, e Pasquale Stanislao Mancini in quanto
primo professore che ne parla dalla cattedra assurge a importanza superiore a quella di
tutti i teorici dell’idea liberale che il principio di nazionalità avevano affermato
poderosamente nelle loro opere. La Rivoluzione francese è liquidata in quattro
proposizioni d’una banalità sconcertante: essa non sostiene questo principio perché
Robespierre parlando di “droits des nations” vuol alludere alla sola Francia, e perché
Napoleone fa delle nazionalità quello strazio che tutti gli scolaretti sanno. Che importa allo
storico senatore se l’esempio dato dalla Francia rivoluzionaria abolendo la ghigliottina il
legittimismo e il diritto divino abbia dato la spinta a tutti i movimenti successivi di popoli e
che Napoleone abbia portato, sulla punta delle baionette dei suoi grognards, per tutta
l’Europa i principi dai quali solo aveva tratto la sua autorità e la sua potenza? Che importa
che nel ’21, nel ’31, nel ’48 a un moto di piazza di Parigi seguono fatalmente movimenti e
a Berlino e a Vienna e a Roma, e in Polonia e in Inghilterra contro il legittimismo e i principi
della Santa alleanza? Per lo storico di Cavour, il fatto che un popolo abbia dimostrato con
l’azione che un certo ordine di cose è sostituibile e che alla volontà di una massa decisa a
farsi massacrare per la sua libertà non c’è principî di congressi che possa opporsi, non ha
importanza; ma invece ha importanza che un professore salga in cattedra e inizi un corso

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universitario affermando che quella idea per la quale tanti si sono fatti svenare è
assumibile ad articolo di codice.
Che così si possa parlare in una tornata d’Arcadia, fra una presina di tabacco e uno
sgonnellamento di sottanina d’abate, si può anche concedere; ma crediamo che questo
non fosse l’ideale del senatore Ruffini, storico di Cavour, che non era un arcade.
E poi si dice che chi va al mulino s’infarina. Non certo della farina di Cavour s’è
sporcato il suo storico.

“Il Grido del Popolo”, n.592, 27 novembre 1915.

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PIETÀ PER LA SCIENZA DEL PROF. LORIA

La guerra può favorire ogni specie di contrabbandi e di frodi, ma se al confine vigilano i


doganieri incaricati di acciuffare chi cerca di eludere i sacrosanti diritti della gabella, e i
tribunali militari appioppano quando possono qualche annetto di carcere, nessun
doganiere si incarica di prendere per il colletto i volgari frodatori dell’intelligenza.
Achille Loira è meritatamente celebre in tutto l’orbe terracqueo per alcune sue scoperte
che molto hanno contribuito al progresso della civiltà. Ha iniziato la sua carriera di studioso
stabilendo con ferrea legge le fatali interdipendenze tra il misticismo e la sifilide, ha
pubblicato studi severi su una sua particolare interpretazione del materialismo storico
(facendo ridere parecchio e Antonio Labriola e Federico Engels e B. Croce, ma, si sa,
molti sono gli invidiosi ed i denigratori di chi primo fa dono agli uomini di qualche nuovo
ritrovato), ha stabilito che il più perfetto tipo d’umanità, l’ideale dell’eugenìa è il professore
universitario, e molte altre fiammelle ha acceso per illuminare e rischiarare. Con un
passato così glorioso oggi non poteva tacere, oggi che la scienza è indegnamente
accusata di ogni barbarie, di ogni crimine, e lasciati i suoi alambicchi ed il suo gabinetto di
sociologia sperimentale, fattosi un viso e una barba austera di profeta ispirato, recando
ancora negli occhi trasognati il ricordo di tormentose battaglie, egli è apparso al pubblico
torinese e ha riabilitato la scienza.
Quante perle profumate sono scivolate dalle sue labbra, che sontuoso banchetto ha egli
imbandito! Non più la scienza di tedescheria, aduggiatrice delle giovani intelligenze, ma la
scienza della pietà del suo trinomio: chimica della bontà, algebra dell’amore, calcolo
infinitesimale della carità, che verrà finalmente a alleviare le miserie degli uomini. Perché
in verità siamo ben miseri noi uomini. E il prof. Loria a quegli idioti che reputano la guerra il
più orribile dei mali ha ricordato che tutto il mondo è dolore, e di questa sua originale e
colossale visione dell’universo ha trovato prove anche nella civiltà contemporanea, di cui
ha ricordato le più grandi vittime, gli attori drammatici i quali se vogliono applausi e fama
devono conquistarseli pagando a tariffa (ed egli ne lesse le cifre) a una innominabile
istituzione, che noi però riveliamo, la “claque”. Meno male che a tanto dolore la natura ha
pensato di venire incontro: ragion per cui Ofelia è difesa dallo strazio della sua triste sorte
con la pazzia, e per cui ai disgraziati che devono passare le fredde notti sotto i portoni
della chiesa si indurisce l’epidermide acciocché soffrano meno: vedi misericordiosa natura
che rivela così uno dei suoi lati meno studiati: la pietà biologica. L’uomo poi provvede al
resto con la beneficenza e coi provvedimenti sociali, per i quali, come ognuno sa, sono

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scomparsi o sono in via di scomparire tutti i malanni che ci affliggono. Così, con questa
visione del dolore redento dalla pietà ha chiuso strappando applausi e battimani ai cittadini
commossi e inteneriti.
Noi invece siamo persuasi d’essere stati truffati: siamo invidiosi e denigratori; se non
riesciamo a ingollare certa merce, gridiamo alla frode e all’inganno. Saremmo tentati di
sporgere regolare querela contro il prof. Loria e per correità contro il comitato
organizzatore della serata a beneficio della Croce rossa e contro la “Gazzetta del popolo”,
organo dell’imbastardimento politico e intellettuale dei torinesi, ma la “scienza della pietà”
una cosa almeno ha insegnato: ad aver pietà della scienza pidocchiosa del prof.Loria.

“Avanti!”, anno XIX, n. 348, 16 dicembre 1915.

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DA DE SANCTIS A… CIAN

La Facoltà di Lettere della nostra Università ha votato il seguente ordine del giorno:

La Facoltà di filosofia e lettere dell’Università di Torino, considerando che l’articolo 66 della


legge Casati (109 del testo unico), inteso per alto senso patriottico a non escludere
dall’insegnamento nello Stato sardo gli italiani delle regioni non ancora annesse, non corrisponde
più alle esigenze presenti, ritenendo che l’opera del docente universitario di qualunque disciplina
sia troppo delicata e importante cosa perché possano essere ammessi ad esercitarla anche coloro
che della cultura e della vita nazionale non siano o per la loro formazione spirituale o per i loro
interessi fidi e gelosi custodi; fa voti perché in avvenire nessuno sia chiamato a professare da una
cattedra universitaria che non sia cittadino italiano.

Quest’ordine del giorno è dovuto, senza dubbio, al prof. Cian, l’esilarantissimo


capintesta del guercio nazionalismo torinese. Il nominato Cian è quegli medesimo che
durante la guerra libica in una lettera, rimasta celebre per le sgrammaticature, aveva
domandato la destituzione dei docenti contrari alla guerra stessa. Il Cian, questo
prototipo della gagliofferia accademica, che puzza di basso tedesco lontano un miglio,
adesso s’agita e smania per togliere la cattedra a qualche professore straniero. Quel
somaro vestito e calzato si limita a stilare un ordine del giorno ambiguo; ma noi siamo
informati che il pedantone imbottito di velleità nazionalistiche tende a ben altro. Intanto
invoca la legge Casati a sproposito, perché dimentica che dopo il Casati a chiamare
proprio all’Università di Torino uno straniero fu appunto Francesco De Sanctis, il quale –
a quanto pare – poteva vantare qualche merito in fatto d’alta cultura e non riteneva che
la scienza potesse e dovesse essere monopolizzata da questa o da quella nazione.

“Avanti!”, anno XX, n. 18, 18 gennaio 1916.

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IL CAPINTESTA

Veramente i capi del nazionalismo torinese eran due: Cian per la teorica e Tupin per la
pratica. Entrambi, nel dominio della rispettiva attività, potevano equivalersi. Tupin è stato
sconfessato : neppure i suoi amici lo prendono sul serio: può ancora contare solo tra i
probi – non viri – di una certa Associazione della stampa. Fuori di là il suo nome corre
sulla bocca di tutti, o quasi, come un argomento di sollazzo.
Il vero capintesta, adesso, rimane Cian. È quegli che, già resosi famoso per la
domanda al ministero perché destituisse i docenti che erano contrari alla guerra libica,
adesso vorrebbe la soppressione di quei suoi “colleghi” che non la pensano come lui e
l’espulsione degli altri che non ebbero la gran ventura di nascere nel bel paese dove il sì
suona. Cian dev’essere anche ferocemente antisemita. Odia d’un odio inestinguibile i
tedeschi. È codesta una tale stranezza psicologica che nessuno può spiegarsi. Perché
Cian, a dispetto di tutto il suo nazionalismo, è tedesco nell’anima, nel metodo,
nell’espressione: tedesco d’un tedeschismo pesante, arcaico, pedante, poco reperibile
nella Germania moderna, paradossale, aggressiva, che bramisce il successo in ogni
campo. Quando me lo vedo capitare sotto gli occhi, in tutta la sua traballante goffaggine, il
capintesta mi ricorda irresistibilmente un certo personaggio di una vecchia satira tedesca.
Cian è un vero cataplasma deambulante. Come sia arrivato all’Ateneo, nessuno riesce a
capire. La sua opera capitale è costituita da 800 pagine su dieci anni di vita del Bembo,
che solo Benedetto Croce ebbe la pazienza certosina di leggere e di criticare,
privatamente, da par suo. È noto che un altro studioso di meriti indiscussi dichiarò di non
essere riuscito ad arrivare alla fine del libro, greve, farraginoso, pedantesco, uggioso,
come la bassa produzione della tedescheria tabaccosa che sa gli strali della spigliata
irrisione latina. Tutti gli alti meriti di codesto Cian, che sta bandendo la crociata contro gli
insegnanti stranieri, consistono in quel libro, per il quale Heine, tedesco, avrebbe scritto al
Cian, italiano: leggendolo mi sono addormentato, dormendo ho sognato ancora di leggere
ed è stata tanta la noia provata che mi sono svegliato…
Io penso che se si indicesse un referendum, nella Torino studiosa, per scegliere tra il
Cian, italianissimo, e Michels, tedesco, al capintesta del nazionalismo nostrano
toccherebbe far fagotto dal nostro Ateneo, con soddisfazione grande degli studenti. L’odio
di Cian per i professori oriundi dalla Germania ha forse questa ragione recondita: che
essendo egli meno che mediocre, neppure con la mediocrità analitica e pedante di certo
accademismo tedesco il capintesta può competere. Egli suole concludere i suoi discorsi

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più solenni con l’immancabile espressione: “L’Italia soprattutto”. E, in riscontro al rinomato
über alles, è codesta la sua più grande originalità che lo autorizza a far scacciare gli
insegnanti tedeschi…

“Avanti!”, anno XX, n. 20, 20 gennaio 1916.

104
PER UN MANDARINO DELL’UNIVERSITA’

Cari amici,
lasciate che oggi sia io a riempire questo angolo della vostra pagina. Da qualche
mattina mi alzo da letto con una maledettissima, carducciana voglia di fare a pugni con
qualcuno. È forse la primavera che sveglia anche nel mio sangue coagulato di pedagogo
dei fermenti impuri, degli stimoli irresistibili di azione diretta.
Voglio prendere per il petto l’illustrissimo prof. Cian. Voglio sballottarmelo ben bene,
questo noioso cultore del pettegolezzo letterario, questo epistolografo da bocca del leone,
questo sterile ciucciariello che non essendo riuscito a eiaculare dal suo cervellaccio di
struzzo altro che noiosissimi quintaliferi volumi su Dieci anni di vita di P. Bembo (800
pagine), su l’influsso del teatro spagnolo in Italia (900 pagine), sul veltro dantesco (750
pagine) ecc., cerca di procurarsi nomea e benemerenze denunziando alle autorità
scolastiche tutti quei professori che hanno il torto di voler fare solo il loro dovere di
insegnanti e che non vogliono intrufolarsi nella vita politica militante per cogliere il
sospirato alloro del patriottismo.
Altri due professori ora cerca d’infamare il mandarino dalla chilometrica coda, due
colleghi del ginnasio-liceo Cavour. Uno, colpevole di aver redarguito gli scolari che
menavano gazzarra in classe; ma la gazzarra era intonata sull’inno di Mameli, quindi
delitto di lesa nazione e accusa di cercare di intiepidire l’entusiasmo. L’altro già collega in
nazionalismo, poi germanofilo e neutralista, ed ora colpevole di interiezioni ed affermazioni
eterodosse: un seminatore di panico insomma. Cian vigila, giudica e manda come
Minosse della Divina Commedia, che egli diffama dinanzi alla scolaresca con le ridicole
salivazioni della sua grossa erudizione da tedescaccio legnoso e col suo gusto da
stenterello friulano. Guardatelo quest’uomo che prima della morte di Arturo Graf si
precipitava a Torino ad ogni incrudimento dell’infermità dell’illustre maestro, sentendo
puzza di cadavere e volendo assicurarsi che l’ipoteca da lui posta alla successione non
corresse pericolo. Vedetelo sgambettare su e giù dal Fiorina a via Po, a via Giovanni
Berchet, a via Mazzini come un bracco in traccia di selvaggina per la sua carica di
presidente del comitato per lo spionaggio interno. Non porta nel suo nome friulano il
marchio di fabbrica, questo nato non per l’incrocio di un vecchio iddio della patria
mescolatosi in amore con una fata del settentrione, ma da un mancato aborto procurato di
una donna violata da uno sbirro del vecchio imperatore d’Austria?
I suoi scolari lo sopportano, e ridono della sua fatuità di commentatore del Cortegiano di
B. Castiglione, i suoi colleghi quando parlano di lui, accompagnano il suo nome col

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grazioso nomignolo di asino. Ma il vecchio troupier della bagola tira dritto nell’alta missione
che si è proposta di aduggiatore di cervelli e di denunziatore di onesti insegnanti laboriosi,
che o sono seguaci di un’idea come il Sanna denunziato nel 1912 per il suo antilibicismo,
o il Ciaffi e il Lemmi denunziati ora per qualche sfogo incongruente e perfettamente
innocuo. Gian Pietro Lucini ha scritto una volta che il nome di Cian gli si accompagnava
nella fantasia costantemente con l’immagine di una cimice; a me ritornano ora in mente
quelle quattro righe e il ribrezzo per l’animaletto immondo riesce a calmare il sussulto del
mio sistema nervoso. Ciò che volevo ottenere con questo sfogo.
Saluti dal vostro

Pedante esasperato

“Avanti!”, anno XX, n. 135, 17 maggio 1916.

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BOLLETTINO DEL FRONTE INTERNO

Abbiamo colto altra volta il prof. Vittorio Cian nelle sue funzioni di strenuo milite… del
fronte interno. Intorno a questa tipica macchietta di “eroe” in pantofole stiamo mettendo
insieme un dossier interessantissimo, che conserviamo per tempi migliori, quando la
censura sarà rimandata tra i ferravecchi, e Vittorio Cian si candiderà deputato contro
Giordano o contro Morgari. Diamo intanto un piccolo assaggio della poderosa opera che
veniamo preparando, sicuri di superare in rinomanza e in popolarità il Della Croce e le sue
“sottilissime astuzie di Bertoldo”.

Racconta uno studente: Siamo ad una lezione del professore di letteratura italiana,
Vittorio Cian. Abbacchiamento generale degli ascoltatori. Con la voce modulata su quella
della indigena piva, ovverossia rustica zampogna, il professore legge un noiosissimo
carme di Francesco Petrarca, […]. Due ascoltatori assorti in chissà quale pennacchia di
graziosa signorina, sorridono ebetemente, se vogliamo, ma innocentemente, senza
disturbo nessuno. Ma Vittorio Cian coglie il sorriso, sbatte il libro, come fosse una bomba a
mano, sul tavolino, inalbera la sua personcina da bellissimo bersagliere, e una profluvie di
male parole sgorga dalle sue purissime labbra. “Chi osa sorridere mentre il Petrarca parla
della patria, che in questo momento è insanguinata di barbarico sangue, è un degenerato,
è un mascalzone!” La voce attinge le alte note del piffero. Tutti sono allibiti. Un soffio di
pazzia criminale soffia nell’aula che sentì la umana parola di Arturo Graf, e sente tuttora
quella di Arturo Farinelli. Vittorio Cian, a un debole tentativo di giustificazione dei due
degenerati e mascalzoni, si prepara al pugilato. I due se la dànno a gambe e corrono
ancora.
Conclude lo studente con aria desolata: – Ma non ci sono accalappiacani a Torino?

Racconta una distinta signora, benevolmente conosciuta nel campo magistrale torinese:
mi trovavo in tram con una mia amica. Ella mi raccontava la sventura di un suo figliuolo
tornato dal fronte mutilato. Nell’accoramento dei ricordi la madre si lasciò sfuggire
espressioni che fecero subito imbronciare un signore seduto vicino a noi. “Signora, se ella
non smette sarò costretto a far fermare il tram e a chiamare le guardie”. La mia amica
stupita domanda: “Ma lei chi è?” “Le sarò presentato alla questura”. Il tram è fatto fermare
e la signora additata alla questura, e il professore si allontana con la soddisfazione del
dovere compiuto.

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Racconta un anonimo: Non bisogna credere che il pensiero della patria in pericolo
faccia dimenticare al prof. Vittorio Cian di essere padrone di casa. Il decreto
luogotenenziale sui fitti lo ha preoccupato non poco. Non si fida, l’egregio patriota, della
garanzia dello Stato. Teme che alla fine del conflitto si dato un taglio ai crediti verso i
richiamati, e che lo Stato rimborsi solo in minima parte. L’esempio malefico della
democrazia francese lo pone in pensiero; con la mania di mimetismo che affligge l’Italia,
non sarà seguito anche in ciò il modello straniero? Ah! Quegli stranieri… E il professore
che del dio quattrino è molto devoto e non pone allo sbaraglio il suo non magro bilancio
neanche per la sottoscrizione e per la Croce Rossa, tanto fa e tanta eloquenza italiana
adopera, che finalmente riesce a convincere il suo inquilino a pagare il fitto senza valersi
del decreto luogotenenziale, accettando un magnanimo piccolo sconto. Meglio un uovo
sicuro oggi, che una problematica gallina domani, ragiona il posato prof. Cian, il quale alla
patria e ai suoi difensori vuol fare sacrifizio solo della sua serietà di uomo, ma non dei suoi
quattrini e del suo purissimo sangue, a ben altri destini chiamato alla sorte.

“Avanti!”, anno XX, n. 186, 6 luglio 1916.

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LETTERATURA ITALICA: 2) LA POESIA

Il poeta Arturo Foà, crudelmente offeso per un nostro accenno poco riguardoso alle sue
versificature, ci ha inviato il suo ultimo volume, Mentre la guerra dura, per provarci che la
sua “anima paterna può essere tranquilla”. “Ho aperto con trepidazione i miei libri di canti.
Che i miei versi, nati puri dal cuore, si fossero corrotti nelle pagine stampate come figli
traviati per le bettole del mondo? Ma i miei versi non mi avevano tradito. Ragionavano,
serenamente della vita e della morte e della vanità di molti discorsi umani”.
Abbiamo letto il nuovo volume del Poeta: e vi abbiamo infatti trovato molte vanità.
Novanta pagine in ottavo: due di indici, 44 bianche, 44 stampate, e di esse 21 stampate
solo a metà (cronaca esatta, per evitare polemiche incresciose). La nostra fatica non è
stata grave, e di ciò siamo grati al Poeta; il miglior ragionamento sulla vanità dei discorsi
umani non può essere che il bianco volontario: 44 vani e 44 semi-vani: è tutto un palazzo
moderno, da mobiliare utilmente a quell’inquilino-lettore che abbia a propria disposizione i
mobili sufficienti. I figli, nati puri, del Poeta hanno un bel da fare: non riescono ad occupare
tutto. Perché questi nati puri, benedetti figlioli, sono bene educati, molto bene educati:
camminano lentamente, composti, pallidini, perché il papà li nutre solo di marzapane e di
chiaro di luna. È molto se riescono ad occupare 23 vani e 21 semi-vani; si stiracchiano,
gonfiano le gote, ricoprono le sparute personcine di lunghe, arricciolate strisce di
coriandolo, ma non basta. Sono troppo sottili, evanescenti, indeterminati: hanno tutta l’aria
di vanità che riempiono le vanità di fantasmi di nebbia che sfuggono dalla finestra aperta,
sotto l’azione del bel sole primaverile, a ogni apertura di libro. Povero papà! quanta pena
deve soffrire per tenerli in casa, per impedire che vadano a traviarsi per le bettole del
mondo. Ma non peni troppo: si traviano solo le persone robuste e in buona salute; le
creature di ricotta non bevono vino, per incompatibilità di carattere: scoppierebbero al
primo bicchiere, i poverini.
Non si offenda crudelmente, di nuovo, il Poeta. La letteratura del suo nuovo libro, non
può farci cambiare di parere. La poesia non è migliore della prosa, nella nuova letteratura
italica di guerra. Ha questo di diverso: la lingua non è ridotta a miscuglio putrido di fondo
da rigattiere; non ci sono errori di sintassi; le sgrammaticature sono nel pensiero,
nell’immagine; le incongruenze sono nella fantasia, nel barocco modo di concepire del
Poeta, che non avendo niente da dire, avvolge questo niente in ampollose amplificazioni
verbose, e finge di essere un lago profondo intorbidando il limo retorico nella pozzanghera
batracica del suo ingegnuccio.

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La profondità consiste, per esempio, nel dire che la regina dei Belgi guarda il suo
popolo nei propri occhi (vedere qualcosa nei propri occhi è un colmo di strabismo,
profondissimo); nel dire che un popolo, fattosi muro, viene spezzato, ma si rimpietra nei
cuori, per quindi diventare canto d’epica; nel dire che le calze preparate dalle signorine
pietose, contenteranno tra maglia e maglia una parola che tremerà sul cuore dei soldati
come un bacio; nel dire che in un’urna “c’è chi c’è” e che gli occhi sono “armati come
l’armi”. Le trenta pagine di nati puri, non traviati nelle bettole del mondo, sono piene di
questi profondamente stupidi preziosismi. Poveri nati puri, che casa è la vostra; nessuna
bettola del mondo riuscirà ad accumulare tutto il pattume poetico che insozza la vostra
purezza. “Piangere nel pianto che uno piange”; “i lunghi occhi d’Egitto” che sono per di più
“grandi, umidi, profondi”; le “chiome” che sono “di neve”, i viaggi “fantastici”, le diane
“fresche”, le nevi “gelanti”, la sera “molle e pallida”, l’amore “amante”, l’ombra “simile a una
larva”, tutte queste immagini sono di una fresca purezza che incanta. E non parliamo dei
singhiozzi onomatopeici, ottenuti con bisticci di questo genere: “E siano i figli che verranno
i miei – e siano i tuoi, e non i miei, ma i tuoi”, e coi “te, te, te, tu, tu” graziosissimi, in fine di
verso. La purezza dei nati puri si potrebbe ancora salvare. Ma quale mai tiro birbone ha
giocato al Poeta questa sua sdilinquita indeterminatezza, questa spappolata ricotta che gli
tiene luogo della fantasia? A pagina II troviamo questi versi: “Già pende una dritta spada –
di notte, quando ti risvegli e stai”, senza soggetto espresso, ciò che, facendo almanaccare
il lettore può trarlo a identificazioni un po’ impoetiche, specialmente per il fatto che nella
stessa poesia si parla di una “Gemma” che “come è nuova, e come è bionda!” Ma non c’è
da meravigliarsi. La retorica bolsa fa spesso di questi tiri birboni ai suoi discepoli diretti,
specialmente a quelli che di più tenero amore la amano, che più volentieri diguazzano nel
truogolo del sentimentalismo fatturato. Il sentimentalismo e la pornografia sono fratello e
sorella; la seconda non è che la necessaria conseguenza del primo. O figli puri, non
fidatevi dei poeti che ripetono troppo spesso di essere puri, di non frequentare le bettole,
di nutrirsi solo di marzapane e di chiaro di luna.

“Avanti!”, anno XXI, n. 108, 19 aprile 1917.

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IL COTTOLENGO E I CLERICALI

Ieri ha finalmente avuto termine a Roma la fiera che i clericali hanno allestito intorno alla
figura del Cottolengo. Il municipio ha dato naturalmente la sua cordiale adesione alla fiera
e ha inviato a Roma due degli assessori più intinti della pece dell’ipocrisia. Affari di
ordinaria amministrazione per la Giunta, che è il risultato di un connubio contro natura tra
sedicenti liberali e arnesi di sagrestia. Affari che interessano poco la cittadinanza, la quale
ormai ha giudicato questa accozzaglia di malnati della vita pubblica. Dispiace forse un po’
che sia stata scelta la figura del Cottolengo come idolo intorno al quale ballare il trescone
degli ubbriachi. Perché il Cottolengo non è stato uno qualunque e, ciò che più conta, non è
stato un clericale, ma è stato, da vivo, avversato fieramente da clericali e da preti. Il
Cottolengo era un uomo, semplicemente, con tutti i difetti e tutte le virtù che caratterizzano
gi uomini completi: per caso era cattolico, ma anche fosse stato buddista o maomettano la
sua opera non sarebbe stata diversa da quella che fu. Era un religioso, ma la sua religione
non si concretava obbiettivamente in una o nell’altra delle credenze in voga; nell’atto essa
era la religione del dolore incompreso, della sofferenza che non riesce a trovare nella
società moderna un lenimento e un riparo in nessuna organizzazione di comitati o di
associazioni borghesemente anguste e grette. Tutti i relitti di umanità, i pezzi anatomici
che sono uomini solo perché nella superficie fisica rassomigliano lontanamente all’uomo,
ma nei quali il caso ha messo troppo poco o addirittura niente di spirito e di intelligenza:
questi detriti, che provocherebbero la nausea e il disgusto nelle damine benefiche dal
cuore incipriato e dal cervello di farfalle in fregola, hanno trovato a Torino il loro protettore,
il loro sostentatore nel Cottolengo. Con una pazienza e una fermezza di carattere che il
cattolicismo non spiegherebbe (o perché non tutti i cattolici, o almeno un buon numero di
essi, non rassomigliano a quest’uomo?) egli ha drizzato un’edifizio di carità che è
diventato il suo monumento maggiore. Il cattolicismo, dopo aver avversato quest’uomo in
vita, dopo avergli attraversato in tutti i modi la via, perché egli non seguiva le solite rotaie e
non accettava l’autorità ingombrante della gerarchia chiesastica, dopo che morì non volle
lasciar cadere l’occasione di sfruttare, per i suoi fini di setta, gli effetti della sua opera. Ha
voluto che l’alone di riconoscenza che circondava la memoria dell’uomo fosse trasportato
sulla testa di un idolo della sua Kaaba. E lo ha beatificato. Il morto ha insozzato il vivo, il
lumacone ecclesiastico ha voluto deporre il suo nastro argenteo bavoso su un idolo da
piazza, perché diventasse redditizio.
Noi, che siamo uomini liberi, riconosciamo i meriti grandi di quest’uomo e le sue virtù. I
suoi principi economici non sono certo i nostri; il suo modo di concepire la solidarietà

111
umana non può essere certo il nostro: il Cottolengo era un religioso, un mistico, e noi
siamo realisti e vogliamo che la solidarietà sia basata su un ordinamento nuovo della
società e non sul buon cuore dei singoli, che vivono e muoiono con l’opera loro. Noi
lavoriamo per l’eterno, per la continuità immanente del concreto. Ma, da uomini liberi,
ammiriamo gli uomini come il Cottolengo, che hanno espresso il massimo dell’amore e
della pietà umana, che hanno realizzato integralmente, in una società avversa, sorda,
opaca, un loro ideale individuale. Perciò ci dispiace che di essi si impadronisca la piazza,
la turpe speculazione settaria e ipocritamente religiosa.

“Avanti!”, anno XXI, n. 119, 30 aprile 1917.

112
L’ESERCENTISMO POLITICO DELL’ON. BEVIONE

A Milano De Capitani, a Torino Bevione. L’esercentismo politico suscita con molta


facilità, da per tutto, gli avvocati degli speculatori e dei bagarini. Del resto Bevione è a
posto. Si può riconoscergli questa coerenza. Nazionalista, candidato politico dei
nazionalisti, è diventato a un certo punto, democratico. Giolittiano nella “Stampa”, è
diventato a un certo punto della “Gazzetta del Popolo”, sedicente antigiolittiana. Eletto
specialmente coi voti degli esercenti del IV Collegio, è rimasto fedele agli esercenti che
della politica si infischiano e pensano solo a speculare. Gli esercenti speculano sui
consumi, l’on. Bevione fa le sue speculazioni politiche sugli esercenti. È l’unica base
elettorale che gli rimanga ancora, è l’unico mandato che ancora possa assolvere in
Parlamento quando gli salti in testa di parlare dei bisogni e delle aspirazioni del “Paese”.
Si è recato in commissione con altri tre parlamentari l’on. Canepa a piatire per il “libero
commercio” cioè perché sia lasciata agli esercenti la libertà di speculare sulle necessità
del consumatore italiano e sia tolta la libertà ad altre energie sociali di sorgere e di
affermarsi liberamente in concorrenza con gli esercenti. Ha avuto poca fortuna. Le
necessità della vita travolgono il mondo esercentesco. L’on. Bevione si è aggrappato a un
ramo secco. Ha avuto fortuna solo con la “Gazzetta”, che accoglie il suo questionario
all’on. Canepa e le risposte sibilline del Commissario dei consumi. La “Gazzetta” non ha
neppure accennato al pronunciamento sudamericano dei vari Ratti e Avezzano al teatro
Scribe. Il suo patriottismo di princisbecco avrebbe dovuto pronunciarsi in merito: ha
salvato la faccia, tacendo. O accoglie e fa la réclame elettorale a Bevione mettendo in
vista le sue benemerenze per il libero commercio e contro la massa dei consumatori
italiani. Bevione, la “Gazzetta”, gli esercenti: tre morti della vita sociale, la trimurti
appariscente e volgare della gloriosa democrazia italiana, quella dei sacri principî e delle
illustri tradizioni.

“Avanti!”, anno XXI, n. 190, 11 luglio 1917.

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L'ULTIMO TRADIMENTO

Achille Loria fa sapere, nella “Gazzetta del Popolo”, di essere recentemente caduto dal
settimo cielo. Lo spintone glielo ha proditoriamente dato Nicola Lenin, e anche di ciò Lenin
dovrà rispondere il giorno del giudizio universale.
Loria ha letto (venti anni fa, dice, ma io credo abbia avuto notizia del titolo e del
contenuto del libro cinque minuti prima della caduta) un libro di Vladimiro Ileijn sullo
sviluppo del capitalismo in Russia. Vladimiro Ileijn non è che Vladimito Uljanof, ossia che
Nicola Lenin. Nel libro si dimostra (con molti documenti) che l'assetto capitalista va
svolgendosi in Russia secondo le stesse leggi che han presieduto al suo sviluppo nelle
società europee, sebbene con ritmo attenuato, e si trionfa della tesi socialnazionalistica
che la Russia sia un paese privilegiato e superiore, che può evitare la tappa capitalista e
balzare d'un tratto dalle tenebre del feudalismo ai fulgori del collettivismo integrale. Ora
Lenin “ si agita” per istituire il socialismo in Russia immediatamente, si rivela in
contraddizione irriducibile con la sua opera scientifica di venti anni fa, riabilita
clamorosamente la tesi flagellata in altri tempi e sferra lo spintone che ha fatto ruzzolare
Achille Loria di cielo in cielo, dal settimo fino all'aiola che ci fa tanto feroci.
Povero Achille! Non bisogna andare in collera con lui, se parla di un “accodarsi” dei
rivoluzionari russi “ad un esercito straniero”, di un “ invocare il soccorso dello straniero” per
compiere l'opera rivoluzionaria! Il Loria è sotto l'impressione della caduta, e dimentica di
essere uno “scienziato”, e dimentica il primo dovere degli scienziati, che è quello di
vagliare i documenti e servirsi solo di quelli che hanno il carattere della genuinità e della
autenticità. Altrimenti il Loria non attribuirebbe ai rivoluzionari russi tante malefatte, e
probabilmente non attribuirebbe neppure al Lenin l'intenzione di istituire il socialismo, nelle
forme che il Loria intende con questa espressione. Perché “istituire il socialismo”, come
tutte le frasi perentorie, può voler dire una infinità di cose. Può voler dire istituire quella tal
forma di società che si suppone debba sbocciare quando l'attuale società abbia raggiunto
il culmine del suo sviluppo, e la produzione sia tutta capitalizzata, e gli uomini siano divisi
con un taglio netto in capitalisti e proletari, tutti i capitalisti da una parte, tutti i proletari
dall'altra. Pretendere di istituire immediatamente questa società sarebbe davvero assurdo,
come sarebbe assurdo dar moglie a un bambino di due anni e aspettarsi un figliolo dopo i
nove mesi dalla cerimonia. Ma istituire il socialismo può significare anche altro, e tra
quest'altro c'è anche ciò che si sta facendo in Russia. E vuol dire allora: abolizione di ogni
vecchio istituto giuridico, abolizione di ogni vecchio privilegio, chiamare all'esercizio della

114
sovranità statale tutti gli uomini, e all'esercizio della sovranità della produzione quelli che
producono.
Il ruzzolone scientifico non sarebbe avvenuto se Achille Loria avesse pensato che le
rivoluzioni sono sempre e solo rivoluzioni politiche, e che parlare di rivoluzioni economiche
è un parlare per metafora e per immagini. Ma per il fatto che economia e politica sono
strettamente legate, la rivoluzione politica crea un ambiente nuovo alla produzione e
questa si svolge con fine diverso. In ambiente giuridico borghese, la produzione ha fini
borghesi; in ambiente giuridico socialista, la produzione ha [fini] socialisti, anche se debba
per molto tempo ancora servirsi della tecnica capitalistica, e non possa dare a tutti gli
uomini quel benessere che in regime collettivista si immagina tutti gli uomini debbano e
possano avere.
Sarebbe bastato per comprendere e giustificare “scientificamente” il socialismo russo
domandarsi se era possibile, per esempio, continuare a giudicare i reati col codice
czaristico, in cui le pene e le assoluzioni sono strettamente dipendenti dal principio
d'autorità e dall'abuso del principio di proprietà privata, e se pertanto far giudicare secondo
coscienza non sia, in linea provvisoria, l'unica soluzione possibile. Domandarsi se i
socialisti, andati al potere sotto la spinta popolare, potessero non continuare ad essere
socialisti e abolire i vecchi istituti e gettare le basi dei nuovi. E se l'atteggiamento dei
rivoluzionari russi rappresenta una necessità, cosa può obbiettare la scienza che è
appunto ricerca e determinazione delle necessità, all'infuori di ogni apriorismo dogmatico?
E in un paese che manda alla Costituente quasi il cento per cento dei suoi rappresentanti
scelti tra gli assertori del socialismo, non sono necessità spirituali il socialismo, gli istituti
giuridici socialisti, un impulso ai fini socialisti della produzione? Se è avvenuto in Russia
che i cittadini hanno mandato a fissare la Costituzione quasi solo dei socialisti, ciò ha fatto
comprendere a Viadimiro Jleijn che la Russia, pur non essendo il paese dei miracoli, è il
paese dove si può evitare che la classe borghese vada al potere e giustifichi una fatalità
che esiste solo negli apriorismi libreschi del prof. Achille Loria.

“Avanti!”, anno XXII, n. 3, 3 gennaio 1918.

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ACHILLE LORIA

Già nel 1896 Benedetto Croce scriveva:

Achille Loria... non solo ha goduto, in Italia, in questi ultimi anni, universale riputazione
d'ingegno originale e di scovritore di nuovi orizzonti, ma è stato singolarmente caro al partito
socialista, che, senza annoverarlo propriamente nelle sue file, lo ha considerato quasi come il
teorico italiano del movimento socialistico. Ed il prof. Loria ha risoluto il problema di essere, al
tempo stesso, autore premiato col gran premio reale dell'Accademia dei Lincei, e collaboratore
gradito della “Critica sociale”; antiborghese e insignito di quelle onorificenze cavalleresche che son
bersaglio prediletto della stessa satira borghese; noto da una parte come critico fiero di Carlo
Marx, e dall'altra come il suo prosecutore e perfezionatore.

Il fenomeno Loria continua a sussistere, sebbene attenuato: Achille Loria è ancora, per
molti proletari, un santone. La sua rinomanza vive ancora, in certi ceti proletari, colla
tenace forza del pregiudizio. Un articolo di Loria nella “Gazzetta del Popolo” trova ancora,
in molti proletari, dei lettori che si lasciano turbare, che si commuovono teneramente. Egli
rappresenta ancora qualcosa – nonostante i suoi titoli di Uffiziale dell'equestre militar
ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, e di Commendatore della Corona d'Italia – nel
movimento socialista italiano. L'editore Formiggini si è rivolto a lui per avere un profilo di
Carlo Marx, e un collaboratore dell'“Avanti!” scrivendo di questo profilo non nascose le sue
simpatie per il Loria e il suo commosso stupore per il fatto che un tanto uomo perdesse il
suo tempo a occuparsi di Carlo Marx.
Eppure Achille Loria ormai non è preso più sul serio da nessuno. Il rude colpo di mazza
vibratogli da Federico Engels nel 1895, quando fece conoscere ai lettori del terzo libro del
Capitale che il Loria aveva plagiato banalmente le idee di Marx e nell'incoltura generale
del pubblico delle riviste e dei giornali si era fatto bello delle penne del pavone, non bastò
a mettere in guardia. Ma Achille Loria si è esaurito con l'autodimostrazione della sua
incapacità ad essere uno studioso. Egli non è altro veramente che un re degli zingari,
come quello che la sua fantasia bislacca e leziosa Immaginava cadavere trascinato dalla
corrente di un fiume germanico, mentre una domanda gli assillava il cervello: è quel re
degli zingari Carlo Marx? Sì, Achille Loria è quel re degli zingari, non Carlo Marx: re dalla
corona di cartone dorato e dalle pompose vesti di stracci multicolori. Re degli zingari della
scienza, del pensiero, degli studi, della serietà.
Leggendo gli scritti di Achille Loria chi ha vivo il senso della critica, si domanda se ha da

116
fare con un pazzo melanconico o con un uomo d'ingegno. Perché in Loria c'è l'uno e
l'altro. Sprazzi di luce e tenebrore idiota, lavoro coscienzioso e melensaggine
incredibilmente profonda. Nel suo pensiero manca ogni congruenza; l'autocritica è negata
al suo raziocinio sgangherato. Dicono che nella conversazione commetta degli errori di
storia da fare allibire (in un salotto, presenti una ventina di professori, affermò una volta
che Giulio Cesare sentì parlare il veneziano ai suoi tempi e tutti tremarono spaventati); e
bisogna crederlo: la sua vita interiore manca di ogni impalcatura, e pertanto egli non deve
sapersi orizzontare nella storia: per lui non deve esistere prima e poi, come non esiste il
diverso, il valore. Gli manca il senso della distinzione; confonde tutto, giganti e pigmei,
verità e spropositi, immagini e concetti, metafore e ragionamenti. La sua vita è seminata di
affermazioni grottesche, ognuna delle quali avrebbe dovuto ammazzate non uno ma cento
studiosi. Accumulate piano piano hanno finito, anche in Italia, col togliergli ogni credito fra
le persone appena appena informate.
Incominciò con l'affermare che il misticismo è un portato della sifilide, e l'affermazione
basò sul fatto che un professore il quale era in disaccordo col suo materialismo storico
(che poi era di Marx e non suo), poco tempo dopo la manifestazione di questo disaccordo
morì di sifilide. Bastò questo piccolo fatto per permettere allo scienziato Loria di enunciare
una legge generale, senza limiti di spazio e di tempo.
Un'altra affermazione squisitamente scientifica fu quella che nei professori di università
si sintetizzano tutte le bellezze della razza e che ad essi sono affidati i destini
dell'eugenica.
Nel 1911 il Loria scrisse un elogio dell'aeroplano. L'aeroplano aveva incominciato ad
entrare nel dominio della realtà. Secondo il Loria il compito dell'aeroplano sarebbe stato
ben più grande di quanto le comuni persone potevano aspettarsi. Sicuro, perché
l'aeroplano avrebbe in breve tempo risolto la questione sociale. La questione sociale è
questione di cibo. Il mondo non produce abbastanza cibo per poterne distribuire
adeguatamente a tutti i cittadini. Ebbene, dice Loria: basta spalmare di vischio le ali di
centinaia di migliaia di aeroplani, e impaniare tutti gli uccelli dell'aria. Gli uomini si
ciberanno tutti di carne delicata. Non era questa una soluzione ideale della lotta di classe
e della miseria del proletariato?
Nel 1911 pubblica pure un poemetto, Al mio bastone, tanto perché la sua sapienza,
espressa tante volte in prosa, non mancasse di un documento poetico.
Nel 1910 a Trieste doveva essere pubblicata una miscellanea di studi in onore di Attilio
Hortis. Una schiera di studiosi di storia, di letteratura, di filologia, mandò contributi per la

117
stampa dei due poderosi volumi. Anche Loria mandò uno studio, che non apparve nella
miscellanea (non si sa se perché arrivasse in ritardo o se perché i membri del comitato
d'onore svenissero alla lettura del manoscritto lontano) e fu invece pubblicato in un
irreperibile giornaletto triestino. Il decoro della scienza italiana per quella volta fu salvo. Lo
studio del Loria era intitolato: Perché i bergamaschi triplicano e i veneziani scempiano e
ricercava, coi lumi del più pedestre e volgare materialismo storico, le ragioni per cui nei
dialetti di montagna del Veneto si sono conservate le consonanti lunghe del latino (per il
Loria le consonanti sono tre), mentre nei dialetti di pianura queste consonanti si sono
abbreviate (scempiate, nel gergo degli studiosi). Il Loria stabilisce questa teoria: in
montagna si gode la salute, in pianura si è ammalati. Chi è sano triplica le consonanti, chi
è ammalato le scempia, e a riprova del fenomeno cita il suo caso personale. Quando Loria
è ammalato, domanda una taza di brodo alla cameriera, quando è sano gliene domanda,
invece, una tazzza.
Nel 1915 Achille Loria tenne al cinema Vittoria una conferenza sulla Scienza della pietà.
Dalla conferenza togliamo queste due perle; per il Loria tutta la vita è un calvario, è un
dolore. Visione nuova, come si comprende. Ma veramente nuova e profonda ne è
l'esemplificazione. La prova moderna dell'immenso dolore che domina il mondo per Achille
Loria è questa: gli attori drammatici, se vogliono essere applauditi, devono pagare una
tangente alla claque. Non basta. La natura pietosa è venuta in soccorso dell'afflitta
umanità: uno degli aspetti più simpatici della natura è la pietà biologica. La prova loriana: i
poveri che dormono all'aria aperta hanno la pelle più dura e spessa degli altri uomini. La
natura pietosa ha indurito e spessito la pelle dei miserabili perché essi meno soffrano delle
aggressioni dell'ambiente.
Ebbene, Achille Loria, questo cervello che non sa pensare, che non sconnettere, questo
fumoso e tenebroso dissertatore di scempiaggini e di verità, di cose grandi e di banalità,
che non distingue una mosca da un elefante, un monumento da un pilastro, ha scritto nella
“Gazzetta del Popolo”, un articolo per maravigliarsi delle incongruenze che secondo lui
esisterebbero tra Lenin studioso di problemi sociali e Lenin rivoluzionario in atto.
Chi vorrà ancora dare due centesimi di credito ad Achille Loria, il pagliaccio del pensiero, il
re degli zingari della scienza?

Firmato: Manalive; “Il Grido del Popolo”, n. 704, 29 gennaio 1918.

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POLLEDRO COME POLITICO ESTERO

Un altro esempio di volgarità.


Alfredo Polledro si è specializzato nella politica estera della “Gazzetta di Torino”, e
sotto-specializzato in politica estera giapponese.
Perché sono volgari gli scritti di Alfredo Polledro? Ecco. Noi crediamo che non si possa
scrivere di politica sia estera che interna, senza essere uomini vivi e avere quindi, nella
propria vita individuale, dei fini generali, dei principi massimalisti (siano borghesi, siano
proletari). Polledro crede di essere un realista perché scrive e giudica alla stregua dei fatti
empirici, inanimati, cadaveri, non storia. I suoi articoli sono zeppi di espressioni come
queste: “Allora il Giappone… ma il signor Motono crede… il signor Arukiki pensa
giustamente… l’Impero del sol levante vuole…” Le informazioni sono di quinta o sesta
mano, passate attraverso due o tre traduzioni, due o tre trasmissioni telegrafiche. In che
consiste il realismo del Polledro? Nel credere reale solo il fatto bruto o la carta dei
documenti diplomatici, più o meno sfigurati, più o meno attendibili nella forma ultima in cui
arrivano fino a Torino. Quale realtà maggiore delle idee, invece, delle massime che
coincidono colle aspirazioni indistruttibili dello spirito umano? E non è realistico quello
scrittore che i fatti empirici giudica e ordina secondo un suo pensiero? Può il lettore essere
tratto in inganno dallo scrittore che pensa e ordina i fatti secondo i suoi principî? Se questi
sono coerentemente concepiti, i fatti ne vengono illuminati, non falsati. Ma chi non sa
pensare, chi è privo di ogni visione finalistica aborre il pensiero e le massime come
ingannatrici e scrivendo di politica estera infilza una dietro l’altra, come tanti tordi nello
spiedo, espressioni come quelle del Polledro: “Il signor Motono scrive… Arukiki lascia
intendere… il Mikado prepara… l’Impero del sol levante si propone”. E questi girarrosti li
battezza per politica realistica. Anche questa per noi è volgarità.

“Il Grido del Popolo”, n. 713, 23 marzo 1918.

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EINAUDI O DELL’UTOPIA LIBERALE

Nella “Nuova Rivista Storica” Umberto Ricci ha proposto che fossero raccolti in volume
gli innumerevoli articoli coi quali il prof. Luigi Einaudi ha, durante un ventennio, erudito il
popolo italiano, dalle colonne della “Stampa” e del “Corriere della Sera”, sui problemi della
nostra vita economica nazionale. Ci associamo alla proposta del Ricci e la integriamo: la
direzione del Partito faccia compilare un'epitome del volume e la diffonda; sarà un efficace
contributo alla propaganda comunista, un documento di prim’ordine dell’utopia liberale.
Einaudi rimarrà nella storia economica come uno degli scrittori che più hanno lavorato a
edificare sulla sabbia. Serio come un bambino che s’interessa al gioco, ha tessuto
un’infinita tela di Penelope che la crudele realtà gli ha quotidianamente disfatto. Costante
ed imperterrito ha sempre continuato a distendere i suoi articoli sobri, saggi, pazienti per
spiegare, per rischiarare, per incitare la classe dirigente italiana, i capitalisti italiani,
industriali ed agrari, a seguire i loro veri interessi. Miracolo strano e stupefacente: i
capitalisti non vollero mai saperne dei veri interessi, continuarono per la loro scorciatoia
melmosa e spinosa, invece di saldamente [tenersi sulla strada] maestra della libertà
commerciale totalmente applicata. E gli scritti dell’Einaudi ne diventano un eterno
rimpianto, un gemito sommesso che strazia le viscere: ah! Se avessero fatto questo, ah!
se il Parlamento…, ah! se gli industriali!… ah! se gli operai…, ah! se i contadini…, ah! se
la scuola…, ah! se i giornali…, ah! se i giovani!… Da vent’anni è la stessa elegia che
risuona dall’Alpi al Lilibeo; e gli uomini non hanno cambiato, e la vita economica non ha
spostato il suo asse che impercettibilmente, e la corruzione, l’imbroglio, l’illusione
demagogica, il ricatto, la truffa parlamentare, l’anchilosi burocratica sono rimaste le
supreme idee conduttrici dell’attività economica nazionale.
Einaudi è antimarxista implacabile; non riconosce al Marx merito alcuno; recentemente
gli ha negato persino, in polemica con Benedetto Croce, il merito affatto esteriore di aver
dato impulso alle ricerche economiche nello studio della storia. Per Einaudi, Marx non è
uno scienziato, non è uno studioso che proceda sistematicamente dal riconoscimento
della realtà effettuale economica; è un giocoliere della fantasia, un acrobata del
dilettantismo. Le sue tesi sono arbitrarie, le sue dimostrazioni sono sofistiche, la sua
documentazione è parziale.
Eppure, il reale sviluppo della storia dà ragione a Marx; le tesi marxiane si attuano
rigidamente, mentre la scienza di Einaudi va in pezzi e il mondo liberale si disfà, in
Inghilterra con maggior schiamazzo che altrove. La verità è che la scienza economica

120
liberale ha solo la parvenza della serietà, e il suo rigore sperimentale non è che una
superficiale illusione. Studia i “fatti” e trascura gli“uomini”; i processi storici sono visti come
regolati da leggi perpetuamente simili, immanenti alla realtà dell’economia che è concepita
avulsa dal processo storico generale della civiltà. La produzione e lo scambio delle merci
vi diventano fine a se stessi; si svolgono in un meccanismo di cifre rigide e autonome, che
può venir “turbato” dagli uomini, ma non è determinato e vivificato. Questa scienza è,
insomma, uno schema, un piano prestabilito, una via della provvidenza, una utopia
astratta e matematica, che non ha mai avuto, non ha e non avrà mai riscontro alcuno nella
realtà storica. I suoi addetti hanno tutta la mentalità dei sacerdoti: sono queruli e scontenti
sempre, perché le forze del male impediscono che la città di Dio venga da loro costruita in
questo basso mondo.
Accusano Marx di astrattismo perché le sue teorie del plusvalore evadono dal dominio
del rigore scientifico. Rigore scientifico significa formulario della dottrina scientifica. Marx
stabilisce un paragone tra l’economia capitalistica e il comunismo: un paragone che è
arbitrario, perché il comunismo è un’ipotesi vana senza soggetto. Ma tutta l’economia
liberale non è un paragone tra la realtà antiscientifica e uno schema dottrinario? Dove
esiste la perfetta società liberale? Quando si è realizzata nella storia del genere umano? E
se non si è realizzata, non significa che è irrealizzabile, che riveste i caratteri rivelatori
dell’utopia? Ma essa verrà, dicono i sacerdoti. Lavoriamo, siamo pazienti, non turbiamoci:
le forze del male saranno sgominate, la verità rifulgerà agli uomini illusi e pervertiti. Intanto
la guerra ha distrutto tutte le conquiste dell’ideologia liberale. La libertà, economica e
politica, è scomparsa nella vita interna degli Stati e nei rapporti internazionali. Lo Stato è
apparso nella sua funzione essenziale di distributore di ricchezza ai privati capitalisti; la
concorrenza politica per il potere è soppressa con l’abolizione dei parlamenti. La
burocrazia si è estesa, diventando più greve e impacciante. Il militarismo, improduttivo
secondo l’economia liberale, è diventato il mezzo più potente di accumulare e conservare
il profitto, col saccheggio delle economie estere e il terrore bianco all’interno. Il monopolio
si è rafforzato in tutte le attività, assoggettando tutto il mondo agli interessi egoistici di
pochi capitalisti anglosassoni.
Gli schemi del liberalismo sono disfatti: le tesi marxiane si attuano. Il comunismo è
umanismo integrale: studia, nella storia, tanto le forze economiche che le forze spirituali, le
studia nelle interferenze reciproche, nella dialettica che si sprigiona dai cozzi inevitabili tra
la classe capitalista, essenzialmente economica, e la classe proletaria, essenzialmente
spirituale, tra la conservazione e la rivoluzione. La demagogia, l’illusione, la menzogna, la

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corruzione della società capitalistica, non sono accidenti secondari della sua struttura,
sono inerenti al disordine, allo scatenamento di brutali passioni, alla feroce concorrenza in
cui e per cui la società capitalistica vive. Non possono essere abolite, senza abolire la
struttura che le genera. Le prediche, gli stimoli, le moralità, i ragionamenti, la scienza, i
“se...” sono inutili e ridicoli. La proprietà privata capitalistica dissolve ogni rapporto
d’interesse generale, rende cieche e torbide le coscienze. Il lucro singolo finisce sempre
col trionfare di ogni buon proposito, di ogni idealità superiore, di ogni programma morale;
per guadagnare centomila lire si affama una città; per guadagnare un miliardo si
distruggono venti milioni di vite umane e duemila miliardi di ricchezza. La vita degli uomini,
le conquiste della civiltà, il presente, l’avvenire sono in continuo pericolo. Queste alee,
questo correr sempre l’avventura, potrà soddisfare i dilettanti della vita e chi può mettersi
in salvo coi suoi; ma la grande massa ne diventa schiava, e si organizza per liberarsi, per
conquistare il potere di rendere sicura la vita e la civiltà, di vedere l’avvenire, di lavorare e
produrre per il benessere e la felicità e non per l’avventura e la perversione. Ecco perché
lo sviluppo del capitalismo, culminato nella distruzione della guerra, ha determinato il
costituirsi delle immense organizzazioni proletarie, unite da uno stesso pensiero, da una
stessa fede, da una stessa volontà; il comunismo, istaurato attraverso lo Stato dei Consigli
operai e contadini, che è l’umanismo integrale, come lo concepì Carlo Marx, che trionfa di
tutti gli schemi astratti e giacobini dell’utopia liberale.

Firmato: A. G., “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIII, n. 144, 25 maggio 1919.

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LA GUERRA CONTINUA, SIGNORI…

Il prof. Romano Pietro e il prof. Cian Vittorio, pilastri intellettuali dei Fasci di
combattimento, reparto torinese, continuano la guerra. Dopo avere, con la loro attività di
resistenza interna, assicurato all’Italia il trionfo di Vittorio Veneto e aver così potentemente
contribuito a dissolvere l’impero absburgico, negazione di Dio e della Giustizia umana, i
due professori ritengono la lotta non sia finita. L’Italia è minacciata da un’invasione – che
fa parte di tutto un rinnovato piano pangermanista, col quale si vuole annientare la vittoria
italiana e il suo primato nel mondo – l’invasione dei bambini viennesi. La stirpe teutonica,
vinta militarmente dalla virtù dei discendenti di Mario, vuole salvare le sue posizioni
facendosi uno strumento della pietà: tutta la manovra è stata preparata con la precisione
accurata e metodica propria delle razze inferiori come la germanica. Lo Stato germanico di
Berlino abilmente è riuscito a far sì che l’Intesa non permettesse all’Austria di incorporarsi
alla Confederazione tedesca; l’Austria è così rimasta avulsa da ogni sistema economico.
Una città di tre milioni di abitanti, costituitasi nei secoli con una sua figura e una sua
funzione particolare nell’Europa, si è trovata, da capitale di un aggregato di cinquanta
milioni di uomini, ad essere la capitale di un aggregato di sei milioni. Vienna si
decompone, la sua compagine umana si dissolve; i bambini muoiono, muoiono le donne;
la popolazione langue e si esaurisce in una prigione economica senza possibilità di
evasione. La guerra continua, implacabile; la distruzione del nemico procede inesorabile. I
viennesi dovranno abbandonare la loro sede abituale come un giorno gli ebrei
abbandonavano la Palestina; l’emigrazione si è iniziata con l’esodo dei bambini, con
l’esodo dei più deboli, dei più indifesi che sciamano in cerca della pietà internazionale.
I proff. Cian e Romano si sono fatti un cuore di pietra nella pratica del Fascio di
combattimento: essi scendono in lizza contro i bambini di Vienna; essi mobilitano i bambini
del Belgio e del Veneto contro i bambini di Vienna, essi svelano il piano pangermanista,
che, complice il Pus italiano, vuole annientare la vittoria italiana e il primato dell’Italia nel
mondo. Non esistono dunque portinaie nelle case dei proff. Cian e Romano, che siano
capaci di misurare sulle teste di questi due mostricciattoli della vecchia stupidaggine
nazionale, la lunghezza delle scope professionali?

“Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIV, n. 17, 20 gennaio 1920.

123
FRANCHE PAROLE AD UN BORGHESE

Il prof. Umberto Cosmo, scrittore degli articoli editoriali della “Stampa”, è stato inscritto
al Partito socialista italiano.
Il prof. Umberto Cosmo nel 1914 era ancora socialista e fu allora sul punto di rientrare
nel Partito, dal quale si era staccato per ragioni famigliari.
Nel 1914 il prof. Umberto Cosmo partecipò alla campagna elettorale per la candidatura
di Mario Bonetto, stese manifesti, compilò un numero unico contro Bevione, contro Giolitti,
contro la “Stampa”, protezionista e imperialista; a nome degli impiegati il prof. Umberto
Cosmo fece venire a Torino il prof. Gaetano Salvemini perché tenesse dei comizi per
sostenere il candidato socialista rivoluzionario. Il riavvicinamento dei due nomi, Cosmo-
Salvemini, serve a stabilire l’indirizzo mentale del Cosmo, serve a stabilire quali
insegnamenti politici egli allora impartisse a quei pochi studenti universitari che lo
frequentavano anche fuori della scuola, a quei giovani che non sono diventati nemici della
classe operaria come il loro “maestro” e che il loro “maestro” (tutto dimenticando,
dimenticando e calpestando la più elementare verità che aveva insegnato una volta ad
amare soprattutto, a porre più in alto di tutto e di tutti) oggi qualifica “goliardi gaudenti”.
Il prof. Cosmo, come Gaetano Salvemini, sosteneva nel 1914 il candidato rivoluzionario
di Torino, perché il Partito finalmente si era staccato da Turati e da Prampolini e dal loro
riformismo. Né Cosmo né Salvemini erano divenuti rivoluzionari, no; ma essi il socialismo
di Turati e di Prampolini lo definivano “il socialismo degli imbroglioni”; essi insegnavano
che non si emancipa il proletariato, che non si emancipa il popolo lavoratore, composto di
operai e di contadini, creando aristocrazie operaie, come quelle di Reggio Emilia, a danno
dei contadini meridionali; essi insegnavano che il capitalismo protezionista non si vince
creando un protezionismo operaio; essi insegnavano che la divisione tra Nord e Sud,
suscitata e favorita dallo Stato borghese per fini di governo e per l'arricchimento dei
siderurgici e degli agrari emiliani, non si supera, e non si ottiene quindi l’unità di tutti i
proletari italiani promuovendo privilegi per alcune categorie operaie come facevano i Turati
e i Prampolini.
Oggi il prof. Cosmo chiama “goliardi gaudenti” i suoi allievi (ed egli sa, egli che ne aiutò
qualcuno in momenti di angosciosa strettezza finanziaria, egli sa che i suoi allievi socialisti
vivevano con le 70 lire mensili del Collegio delle Provincie, egli sa che i suoi allievi
socialisti, se volevano acquistar libri, dovevano galoppare da un punto all’altro della città a
dare delle lezioni private, che il Cosmo stesso si preoccupava di ricercare, perché allora il

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“maestro” aveva molto affetto per i suoi allievi); oggi il prof. Cosmo propone agli operai
come modello il “socialismo degli imbroglioni”.
Scoppiata la guerra, il prof. Cosmo continuò ad aver rapporti coi suoi allievi socialisti.
Egli era un pacifista, non un rivoluzionario, e combatteva la guerra da un punto di vista
meramente pacifista, con molti contorni di macchiavellismo da professore erudito in molte
lettere italiane. Ma il prof. Cosmo non combatteva gli uomini che avevano cacciato l’Italia
nel baratro della guerra, solo per pacifismo: egli li combatteva perché bassi moralmente,
perché inetti politicamente, perché sforniti di ogni cultura e di ogni intelligenza superiore;
egli li considerava come dei briganti comuni, come dei malfattori di ultima estrazione.
Teofilo Rossi era per il prof. Cosmo il prototipo del “cattivo” italiano, vanitoso, senza
alcuna sensibilità morale, disposto a passare sul cadavere dei genitori per ottenere una
decorazione o per godere un piacere fisico.
Ancora nel 1917, dopo i fatti d’agosto, il prof. Cosmo era vicino alle idealità della classe
operaia. Dopo i fatti d’agosto, il prof. Cosmo diceva di essersi convinto che la borghesia è
una classe di individui che hanno perduto ogni senso d’umanità e perciò devono sparire
dalla storia. Quando si svolsero i fatti, il professore Cosmo era in villeggiatura a Corio
Canavese, ed egli ricordava come i signori avessero organizzato una festa da ballo e
come alle sue rimostranze: “Non si balla, mentre ancora le strade di Torino sono bagnate
di sangue operaio”, i promotori della festa rispondessero: “Per la morte di quattro cani, noi
non ci priveremo del nostro svago”.
Il prof. Cosmo aveva una particolare avversione per l’on. Daneo e per Francesco
Ruffini. Egli stesso ci aveva informato, noi dell’“Avanti!”, che un mese prima di Caporetto
l’on. Daneo, invece di essere a Roma, invece di essere al suo posto di governo quando la
nazione stava per piombare in un abisso, l’onorevole Daneo si passeggiava tranquillo tutte
le sue giornate sotto i portici di piazza Castello, indifferente, inerte, insensibile a ogni
intuizione degli avvenimenti. Il prof. Cosmo, parlandoci di una pubblicazione di Francesco
Ruffini, ci faceva notare: “Ecco la mentalità di Ruffini, divenuto grand’uomo per merito di
Luigi Albertini e del “Corriere della Sera”: in questo vi trovate tutti i pettegolezzi, tutte le
cianciafruscole, ma dov’è lo Stato, dov’è il governo? Ruffini non ha neppure pensato che
allora esistesse uno Stato, esistesse un governo, e si capisce; quando egli era al governo
lo Stato non funzionava, il governo non esisteva… Appunto perché l’Italia era retta da
uomini come Ruffini e come Daneo, appunto perché le città avevano sindaci come Teofilo
Rossi, perciò si è avuta Caporetto, perciò l’Italia va allo sfacelo e alla rovina”.

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Così parlava, così pensava il professore Umberto Cosmo quando ancora da poco era
alla “Stampa”, quando ancora andava in biblioteca per studiare l’argomento dei suoi
articoli, quando ancora poteva essere stimato e amato dai suoi allievi socialisti, che
ricordavano il maestro, che continuavano a imparare da lui.
Oggi il prof. Cosmo sostiene che in Teofilo Rossi, in Edoardo Daneo, in Francesco
Ruffini è riposta la salvezza di Torino, d’Italia, d’Europa; oggi egli chiama “goliardi
gaudenti” i suoi allievi che vivevano con 70 lire al mese e sì e no riuscivano a sfamarsi.
Oggi il professore Cosmo si è accomunato coi peggiori gazzettieri del “Popolo”, della
“Stampa”, del “Momento”; abituandosi alle comodità della vita, si è ricreduto sul conto dei
borghesi e degli operai; i borghesi non sono più sforniti d’umanità e di intelligenza; gli
operai sono certamente quattro cani. Oggi il prof. Cosmo si è schierato con gli imbroglioni
e coi “cattivi” italiani. Francamente gli diciamo che tutta la stima e tutto l’affetto dei suoi
allievi socialisti si sono mutati in una grande compassione e in un profondo disprezzo.

Non firmato, “Avanti!”, ed. piemontese, anno XXIV, n. 285, 5 novembre 1920.

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L'ON. CARLO GAGLIAZZO

Da ieri Carlo Gagliazzo è deputato comunista di Torino.


La maggioranza parlamentare borghese, inscenando per ragioni bassamente
demagogiche e di calcolo ministeriale l'oscena campagna contro l'on. Misiano, conclusasi
coll'illegale proclamazione di decadimento dal mandato di rappresentanza conferitogli
dagli elettori proletari torinesi, è stata costretta ad aprire i cancelli del carcere ad un altro
perseguitato politico, ad un altro genuino figlio del proletariato, milite fedele dell'esercito
comunista.
Carlo Gagliazzo è nato il 13 dicembre 1877, da genitori operai. La povertà della famiglia
non gli permise di frequentare altro corso di studio che le scuole elementari. D'ingegno
vivo e tenace dedicò tuttavia tutto il suo tempo disponibile allo studio, riuscendo a formarsi
una cultura generale e specializzata di primo ordine.
Operaio d'officina, fu costretto per ragioni politiche ad emigrare nel 1904. Visse
all'estero oltre dieci anni, lavorando, studiando, perfezionandosi sempre. Fu in Isvizzera,
nel Belgio, in Inghilterra, negli Stati Uniti, ove brevettò le sue prime invenzioni meccaniche.
Tornato in Italia allo scoppio della guerra, costretto al servizio militare per qualche anno
malgrado già quarantenne, brevettata la sua macchina da scrivere Invida, firma un
contratto con un industriale torinese, l'ing. Giachero, per la lavorazione nell'officina di
questo della macchina da lui inventata.
Operaio, figlio del proletariato, comunista convinto, non rinnega le sue origini e la sua
fede. I suoi operai non sono per lui oggetti di sfruttamento, ma amici, collaboratori,
compagni nello sforzo diuturno perfezionatore del frutto del suo ingegno, dei suoi studi,
delle sue osservazioni.
La borghesia capitalistica, monopolizzatrice dell'intelligenza, della direzione di ogni
attività sociale, non poteva capire tanta fedeltà proletaria, tanta dirittura di carattere. Il
progresso industriale è in gran parte frutto delle osservazioni, dell'intelligenza degli operai.
Ma la borghesia è avvezza ad attribuirsi come classe tutti i vantaggi pratici e morali del
tenace sforzo di migliaia di lavoratori, artefici umili delle più grandi conquiste umane;
magari assimilando, assorbendo nei suoi ranghi l'operaio che si è distinto, l'operaio che
colle sole sue forze ha acquistato e dimostrato qualità di tecnico e di dirigente.
Carlo Gagliazzo, semplice operaio, diventato dirigente di un'officina senza
imborghesirsi, inventore e realizzatore della propria invenzione in collaborazione coi suoi
compagni operai della fabbrica, rappresentava un troppo grande scandalo per gli

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accademici, per gli ingegneri diplomati, per gli industriali capitalisti; la sua attività
offendeva la sacra ortodossia dell'intelligenza borghese.
Per questo egli venne colpito. Approfittando di questa naturale avversione dell'opinione
pubblica borghese e dei suoi organi, l'ing. Giachero, la cui figura sarà ben lumeggiata nel
pubblico dibattimento alla Corte d'Assise, d'accordo colla polizia, montò tutto un piano di
accuse e di persecuzione fino ad ottenere, coll'arresto del Gagliazzo, mano libera sui suoi
brevetti e sui suoi piani industriali.
In due dettagliati memoriali tecnici l'on. Gagliazzo ha dimostrato l'inconsistenza delle
accuse mosse contro di lui di fabbricazione di armi. Non soltanto, ma precisa la vera
portata dell'infame campagna condotta contro di lui colla complicità dei poliziotti e la
colpevole reticenza dei giornalisti:

L'ing. Giachero, che la mia sola opera arricchiva straordinariamente, stretto da non so quali
imbarazzi bancari o costretto da chissà quali influenze, decide di disfarsi della mia opera quando
crede di potermi soppiantare senza difficoltà. Avrebbe potuto valersi di un qualsiasi cavillo
commerciale, ma egli aveva bisogno di giustificare agli occhi di terzi la sua inadempienza a chissà
quali impegni, aveva bisogno che l'industria - maschera dei suoi giochi borsistici - fosse coinvolta
in qualche “affare” clamoroso per ottenere dilazioni e simpatia.
Il momento politico e le mie convinzioni comuniste, mai dissimulate in 25 anni di lavoro e di
elevazione morale, gli dà buon gioco: in un momento in cui l'evoluzione operaia ha suscitato nella
classe industriale allarmi e timori gli è facile con mezzi disonesti introdurre in officina qualche
pistola nei cassetti degli operai, due o tre pezzi d'arma, qualche rottame, due o tre matrici che
possono suscitare le diffidenze della sezione di pubblica sicurezza da lui messa in allarme; ed
ecco così pienamente riuscito il losco tentativo contro di me. Le dilazioni per cui il Giachero
trasformatosi in vittima non ha esitato a giuocare la mia onorabilità e la mia esistenza di lavoratore
sono ottenute, e con esse la “classe” si è vendicata del “reprobo”.

Ecco così riportata nei suoi veri termini la losca montatura contro un uomo colpevole
soltanto di non voler essere un borghese, di mantenere il carattere proletario con cui e pel
quale, lavorando e soffrendo, ha raggiunto nella vita industriale moderna un posto che dei
borghesi gli hanno invidiato, e pel quale non hanno esitato a colpirlo, atrocemente.
La sua elezione a deputato comunista di Torino ha avuto il carattere preciso di
un'affermazione proletaria sul nome di una vittima della lotta di classe. Oggi, dopo un anno
quasi di carcere, Carlo Gagliazzo, per volontà dei suoi compagni di lavoro e di fede e per
un colpo di scena parlamentare, esce dal carcere, libero. Ma la sua liberazione non gli
darà soltanto modo di dimostrare meglio la luminosità della sua innocenza e l'infamia dei
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suoi accusatori protetti ed aiutati da tutti gli organi del potere capitalistico: la sua
liberazione lo porta ad uno dei posti più difficili e preminenti di lotta del Partito comunista.
In lui non salutiamo oggi soltanto la vittima politica strappata dagli artigli della reazione,
ma anche il continuatore dell'opera di Francesco Misiano, il deputato comunista, il
combattente che riprende il suo posto con immutata fede e con rinnovato ardore.

Non firmato, “L'Ordine Nuovo”, anno I , n. 354, 22 dicembre 1921.

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