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Fra le due guerre mondiali le altre potenze coloniali europee mirarono a sfruttare
i propri possedimenti oltremare. L’Italia fascista sembrò invece in preda ad
un’ansia di espansione. La stampa del regime ripeteva le parole d’ordine del
duce, secondo cui era ora di far diventare l’Italia un impero (discorso del 2
ottobre 1935). Tutti gli imperi coloniali erano basati sul “razzismo coloniale”: i
bianchi governavano, gli altri obbedivano. L’Italia fascista avviò, a tal proposito,
una legislazione razzista che rivestiva per il regime una funzione strategica,
ideologica (norme contro i meticci 13 maggio 1940, n.822; niente
riconoscimento dal genitore cittadino, mantenimento, istruzione a carico del
genitore nativo).
A differenza delle altre potenze liberali, l’Italia fascista non dovette confrontarsi
coll’ anticolonialismo per via della soppressione della libertà di espressione.
Parlare di “consenso coloniale” è improprio se il suo contrario non fu possibile.
1. Il dopoguerra.
Nel 1919 alla Conferenza di Versailles avvenne la spartizione delle colonie
africane e asiatiche della Germania sconfitta, tra Londra e Parigi. L’Italia liberale
ne rimase esclusa. L’Italia di “Vittorio Veneto” perse così la prospettiva degli
ingrandimenti coloniali. Ed era già stata penalizzata nelle proprie ambizioni
nazionalistiche su Fiume e la Dalmazia, la cui concessione a Roma fu osteggiata
dalla delegazione statunitense e francese. Vittorio Emanuele Orlando si dimise,
venendo sostituito al governo da Nitti il 21 maggio 1919. Nel paese si cominciò a
parlare di “vittoria mutilata”. Per la precisione, poiché il Patto di Londra del 1915
non menzionava Fiume ed era molto vago sulle concessioni coloniali all’Italia in
caso di vittoria, era difficile parlare di mutilazione dei patti concordati.
2. Il governo Mussolini
Sviluppi oltremare. Per comprendere il clima dei mutamenti introdotti dai primi
gabinetti Mussolini è importante spostare l'attenzione verso i diversi oltremare.
Nelle due colonie libiche, l'inversione di marcia era stata netta. Il governo
Mussolini dichiarò decaduta la politica degli Statuti. In Tripolitania il
governatore Volpi lanciò “operazioni di grande polizia” che avrebbero portato
alla sconfitta della resistenza autoctona. Gli italiani ottennero risultati concreti
con azioni militari pesanti e spietate: il 25 settembre 1923 fu profanata la
moschea di Homs. Con l'attacco finale italiano a Sedada (15-22 dicembre 1923)
il grosso della resistenza tripolitana poteva dirsi stroncato.
La Tripolitania acquistò ora un'importanza nuova nel panorama delle colonie
italiane. La visitavano i ministri Federzoni (febbraio 1924) e Lanza di Scalea
(aprile 1925). Il governatore Volpi poté instaurare il governo civile dei territori
della costa e di una larga fascia dell’interno (Tripoli, Yefren, Garian, Tarhuna)
mentre rimanevano sotto il controllo militare solo i territori del sud (con il
colonnello Graziani). Certo, la colonia non era ancora pacificata, come dimostrò
la disfatta italiana di Bir Tasin (25 maggio 1925), ma l’abbandono della politica
degli Statuti e la mano libera lasciata ai militari avevano dato all’Italia il
controllo della Tripolitania settentrionale.
In Cirenaica le cose furono più difficili, per via del minore controllo del territorio
e della maggiore unitarietà della resistenza guidata dalla Senussia. Le forze
armate furono costrette a sviluppare nuove tecniche militari. Denunciata la
politica degli Statuti, gli italiani smantellarono i campi militari della Senussia e
quelli “misti” previsti dagli accordi. Dopo intense operazioni nella primavera del
1923, in quella del 1924 gli scontri si spostarono su Gebel. Nel frattempo, le
operazioni condotte a terra e con aeroplani sembravano promettere (primavera
1925).
Alla fine del 1925, il governo Mussolini poté affermare a ragione di aver messo
ordine in Tripolitania e di aver sovvertito l’orientamento della politica coloniale
in Cirenaica.
In Eritrea i mutamenti furono meno sensibili. Con una colonia da tempo
pacificata, l’attenzione dei governatori andò ad opere di valorizzazione e
sfruttamento. Fu in questo periodo che - a seguito di un accordo italo-britannico
che permetteva all’Eritrea l’uso delle acque del Gasc (dicembre 1924) – vennero
realizzati investimenti nella zona di Tessenei, miranti a costruire una grande
azienda di sfruttamento. Il governatore Jacopo Gasparini era insoddisfatto con
l’amministrazione centrale romana del tentativo di accordo con Londra (1925)
che aveva danneggiato l’immagine dell’Italia come potenza coloniale pacifica.
Gasparini, da coloniale, considerava decisivi solo i guadagni sottoscritti in loco e
non nelle capitali europee. Da qui il suo favore per la politica periferica.
In Somalia il cambiamento legato all’avvento di Mussolini al governo fu più
sensibile. Fu lanciata in questi anni una politica di “riconquista”. Ne fu
protagonista il quadrunviro De Vecchi destinato da Mussolini in Somalia (21
dicembre 1923). De Vecchi inaugurò una politica violenta e impermeabile alla
realtà locale. La colonia era ancora divisa fra una parte meridionale di dominio
italiano e una settentrionale sotto il protettorato dei capi autoctoni.
De Vecchi, primo governatore coloniale italiano esplicitamente fascista, avviò
subito una fascistizzazione della colonia italiana: rafforzò la componente bianca
della colonia, costituì a Genale un centro di colonizzazione italiana basato su
concessioni di terre abbastanza estese, avviò una politica di disarmo delle
popolazioni somale. L’amministrazione fascista, a differenza di quella liberale,
adottò una linea dura contro i capi tradizionali. Per far questo, De Vecchi chiede a
Mussolini un riarmo delle truppe in Somalia che passarono da 2.500 a 12.000.
Così, nell’autunno 1925 De Vecchi lanciò il suo attacco al Sultano di Obbia.
Quando avrebbe lasciato Mogadiscio, nel 1928, la riconquista sarebbe stata
ultimata.
3. Il fascismo e le colonie
Roma antica e fascino della frontiera. Quali furono i contenuti della propaganda
nel Ventennio? Dopo il mito del duce il mito di Roma fu la “credenza mitologica
più pervasiva di tutto l’universo simbolico fascista”. Non a caso proprio un anno
dopo la conquista dell’ “impero” Mussolini avrebbe inaugurato a Roma sia la
riapertura della mostra della rivoluzione fascista sia le celebrazioni per il
bimillenario di Augusto: imperialismo africano, romanismo, fascismo si
stringevano. Questo mito dell’impero “romano” assumeva anche un carattere suo
proprio, all’incrocio fra politica e religione civile.
A partire dagli anni Trenta, assieme al regime, anche le colonie si furono
stabilizzate; perciò, venne naturale a Mussolini cercare di convincere gli italiani a
“porsi sul piano dell'impero”.
Tutta questa enfasi riprendeva temi e spunti del classicismo e del romanismo
costanti nella formazione della classe dirigente italiana già dall'età liberale.
Proprio i decenni a cavallo tra 800 e 900 erano stati gli anni d'oro della ricerca
archeologica, cui anche gli italiani avevano dato un contributo di rilievo, non
scevro di accenti ideologici. Ricorrente, ad esempio, al tempo della guerra per la
Libia era stato il ricorso a figure retoriche della “Roma che ritorna”. Appena
giunti a Tripoli, a guerra ancora in corso, iniziarono i lavori per la “liberazione”
dell'arco di Marco Aurelio dalle sedimentazioni post-classiche e arabe (27 marzo
1912- 4 luglio 1918).
Il fascismo, quindi, anche sul piano imperiale-coloniale non inventava ma
rielaborava. La natura reazionaria, populista e imperialista del fascismo poteva
dirsi simbolizzata negli annuali festeggiamenti del 21 aprile, data attorno la quale
vennero fatti ruotare il “natale di Roma”, la “festa del lavoro” fascista e la
giornata coloniale.
Ma quella di Roma non era l'unica costante della propaganda coloniale. Esso anzi
poteva contare di fare effetto solo su una parte degli italiani, quelli alfabetizzati e
almeno elementarmente acculturati. Adesso il fascismo, quindi, affiancò nella
propaganda imperialista, per un pubblico più popolare – più che un altro tema -
un'altra prospettiva: quella della frontiera. Ogni colonialismo è legato al fascino
dell’esotico e alla sete di avventura e di guadagno, al fascino razziale di dominio
di popoli “inferiori”. Merito del fascismo fu l’aver colto che ora l’Oltremare e
l’impero potevano divenire “consumo di massa”. La crescita del turismo
coloniale lo dimostrava.
In conclusione, alla base della propaganda fascista si intrecciavano Roma antica e
frontiera.
Gli interessi e il regime. Nel colonialismo fascista non vi furono solo miti, ma
anche fatti e soldi. A tale proposito va notato un aspetto che relativamente nuovo
fu la connessione che il regime seppe instaurare con alcuni interessi economici.
Anche in età liberale il colonialismo ebbe la sua base economica. Ad esempio,
Crispi si fece promotore presso istituti di credito per la costituzione di una società
coloniale, con scarso successo.
La relativa novità fascista fu data sia dalla congiuntura sia dalla politica del
regime. Dal punto di vista della congiuntura, già prima dell’avvento del governo
Mussolini consistenti interessi economici avevano sperato di condizionare i
governi liberali in un senso imperialistico: ciò creò una base oggettiva per le
politiche colonialiste. Quando Mussolini arrivò al governo, bene o male, l’Italia
era già in Eritrea da quasi quattro decenni, in Somalia da tre, in Libia dal 1911.
Dal punto di vista delle politiche, è un dato di fatto che il regime curò in maniera
più organizzata gli interessi economici dell’azione coloniale. Ciò avvenne perché
il regime era disposto a pagare di più di quanto l’Italia liberale era disposta a fare.
Due esempi: nel 1925 quando vi fu la possibilità di costruire una strada
camionale attraverso l’Etiopia, il governo creò subito un comitato ove erano
rappresentati i maggiori interessi nazionali; nel 1934 il regime tramite l’Iri diede
ordine agli istituti di non porsi in concorrenza reciproca. La novità vi fu dunque
nella pianificazione e statizzazione degli interventi e nel fatto che il regime
mostrò di puntare di più sulle colonie rispetto all’Italia liberale. Gli interessi
economici compresero subito questa novità e vi si impegnarono.
La Chiesa cattolica. Un altro elementi che favorì il fascismo fu il favore con cui
il mondo cattolico guardò all’azione coloniale. In particolare, durante la guerra
d’Etiopia missione imperiale fascista e missione evangelizzatrice della Chiesa si
unirono. Una tale situazione favorì la costruzione del consenso attorno alla guerra
coloniale del fascismo. Si trattò di una situazione nuova rispetto all’Italia
liberale. La Chiesa cattolica non era monolitica nelle sue politiche come nel suo
pensiero. Accanto alla Chiesa c’era poi il movimento laicale, l’Azione cattolica e
il partito cattolico, fin quando ad esso fu permesso di agire. Inoltre, al tempo
della prima guerra d’Africa il movimento cattolico era diviso fra intransigentismo
e transigentismo. Infine, il rapporto fra Stato e religioni si poneva, per ogni
colonialismo, sue due versanti diversi: quello della legittimazione in patria della
politica coloniale e quello dell’azione nei confronti dei coloni.
A differenza di altre potenze, nella sua penetrazione coloniale l’Italia non si era
avvalsa particolarmente di missionari. Né in patria aveva potuto godere
dell’appoggio della Chiesa cattolica in tutte le sue articolazioni. Proprio sul
terreno coloniale Chiesa cattolica e Stato liberale si erano avvicinati
maggiormente.
Al tempo dell’impresa di Libia, con l’avvicinarsi del Patto Gentiloni, il sostegno
si era fatto più esplicito. L’intransigentismo, dovuto alla bolla non expedit del
1870, si allontanava. Il movimento cattolico transigente, già al tempo di Crispi
ebbe un suo ruolo, e distingueva poco ormai tra “croce e scudo di Savoia”.
Formalmente Stato e Chiesa cattolica erano comunque ancora separati dalla
Questione Romana.
Nel frattempo, in colonia, le cose erano più complicate. Formalmente l’Italia
liberale garantiva libertà di fede ai suoi sudditi “indigeni”. L’atteggiamento dei
governatori era cangiante a seconda delle congiunture: In Eritrea Baratieri nel
1894 aveva espulso i lazzaristi francesi, “nazionalizzando” i missionari della
colonia; ma Martini aveva permesso l’erezione non solo di chiese bensì anche di
moschee, sinagoghe; mentre Raggi tornò ad un filocattolicesimo più rigido.
Con il fascismo le cose mutarono. Già nel 1923 il ministro Federzoni si era
lamentato che per il clero in Libia era stato fatto troppo poco. De Vecchi in
Somalia favorì la presenza cattolica. Mussolini, intanto, nel 1926, aveva
reintrodotto il clero castrense, cosa che avrebbe permesso la comparsa dei
cappellani militari in colonia.
Ma furono i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) a mutare il rapporto tra regime e
Chiesa. Nel campo coloniale, all’inizio vi furono delle esagerazioni. De Bono
pensò, in Eritrea, ad una conversione cattolica dei copti, anche se per evitare
disordini fu permessa l’azione missionaria solo nei confronti dei “Cunama”
animisti dell’Eritrea.
Fu con la guerra d’Etiopia che Chiesa e regime si trovarono assieme in un
momento decisivo per la storia del fascismo e drammatico per la pace europea.
Pio XI non era favorevole alla guerra; ma sta di fatto che poi il Papa stesso
accettò che della sua posizione fosse diffusa una versione favorevole al fascismo
(che fu questa a fare storia e a contare).
Da allora in poi nelle colonie la Chiesa ebbe un ruolo importante. Ogni regione
dell’Aoi ebbe la sua prefettura o vicariato apostolico. Anche in Libia vi furono
luoghi di culto cattolico.
Troppo poche furono le proteste di parte cattolica. Tutta questa situazione,
impensabile al tempo dell’Italia liberale facilitò la diffusione in Italia della
“coscienza coloniale” e del consenso al fascismo.
Evoluzioni della politica verso l’Etiopia. Sull’Eritrea regnò sino al giugno 1928
il governatore Gasparini, interessato alle piantagioni del Tessenei, e alla
prosecuzione di una politica di osservazione, e se possibile, di divisione dei capi
etiopici confinanti. In questo suo attivismo “periferico”, Gasparini sviluppò
anche una personale politica di presenza nelle vicende al di là del Mar Rosso.
Entrato in contatto con il sovrano yemenita in cerca di appoggi per svincolarsi
dai britannici, Gasparini promise sostegni. L’operazione trovò a Roma alterna
accoglienza. Non dispiaceva alle Colonie e poteva servire tatticamente agli
Esteri. Grazie a Gasparini l’Italia strinse comunque un accordo con Jahià, imam
dello Yemen (2 settembre 1926): ma avendo toccato cose più grandi di lui venne
fermato da una intesa italo-britannica (7 febbraio 1927) e infine dalle Colonie
stesse che lo rimpiazzarono con Corrado Zoli (1°giugno 1928). Zoli, tuttavia, dal
punto di vista politico continuò con l’orientamento antibritannico e yemenita,
egli fece addirittura occupare gli scogli delle isole Hanish. Ma nel frattempo la
funzione dell’Eritrea stava cambiando.
Per quanto riguarda la politica verso l’Etiopia, dopo l’incidente sorto fra 1925-26
con l’intesa italo-britannica, il fascismo si trovava di fronte alla scelta fra politica
di collaborazione e politica di sovversione, la quale ultima di divideva in una
politica centrale (cioè di rapporto fra le colonie italiane e Addis Abeba) e una
politica periferica (di disgregazione dell’unità etiopica tramite l’utilizzazione
delle rivalità tradizionali dei capi dell’impero del negus). Dopo il fallimento del
tentativo esperito via Londra, Roma scelse la strada dell’accordo diretto con
Addis Abeba. Grazie a questa scelta si arrivò il 2 agosto 1928 a due accordi
(politico e commerciale). In particolare, all’Etiopia veniva garantito un accesso al
mare e una zona franca ad Assab, nonché delle armi, e all’Italia una strada
camionale di penetrazione nel cuore dell’Etiopia, appunto da Assab a Dessié.
Questo accordò però non mirava alla pace ma solo a tacitare le accuse rivolte a
Roma in seguito al dicembre 1925 e a combattere l’influenza francese. Non era
dunque sincero. Ma anche da parte etiopica si cercava di tenere lontana l’Italia
dal progetto di modernizzazione dell’impero. Nel frattempo, il potere di ras
Tafari era cresciuto ora che era stato incoronato (2 novembre 1930) negus
d’Etiopia assumendo il nome di Hailé Selassiè I.
L’accordo del 1928 non aveva risolto alcun problema: Roma insisteva con le
politiche periferiche. Intanto, dall’ Eritrea si faceva occupare e militarizzare la
Dancalia, e il paese dei Cunama (dicembre 1928-marzo 1929). Dalla Somalia si
facevano infiltrare in territorio etiopico emissari che avrebbero dovuto sobillare i
capi dell’Ogaden. Ogni mezzo fu utilizzato dal regime: ormai a Roma si era del
tutto favorevoli alla politica di “disgregazione” verso l’Etiopia (promemoria
Guariglia, 27 agosto 1932). Fu in questo quadro che vennero formulate le nuove
istruzioni al nuovo ambasciatore italiano presso il negus (gennaio 1933), in più
qualche mese prima, il Ministro delle Colonie De Bono era passato alla
convinzione della necessità dell’espansione e chiese la formulazione di un piano
militare (novembre 1932).
Mentre le altre potenze europee pensavano al consolidamento dei propri
possedimenti, al loro sfruttamento e ai problemi legati alla crisi del 1929 il
colonialismo fascista tornava a mettere in campo i militari.
Dunque, quella che avrebbe dovuto essere ordinaria amministrazione e
pacificazione si risolse in preparazione alla guerra, l’ultima guerra di aggressione
coloniale.
Agli inizi degli anni Trenta, ormai da un ventennio l’Italia era insediata di fronte
alla Turchia. Il suo Dodecaneso, che erano in realtà quattordici isole delle
Sporadi meridionali (c.d. “Isole italiane dell’Egeo) con la fine della guerra
d’Etiopia – che il regime si avviava a preparare – la loro funzione sarebbe
mutata.
L’isola maggiore era Rodi, di soli 1400 km2, seguita da Scarpanto e Coo,
rispettivamente intorno ai 300 km2. Prima della Grande Guerra avevano più o
meno 150.000 abitanti, scesi dopo la Seconda guerra mondiale a 115.000. La loro
conquista si era svolta fra il 26 aprile e il 16 maggio 1912 (presa di Rodi). Essa
doveva avere nelle intenzioni di Giolitti, degli Esteri e dei militari due funzioni.
Tatticamente doveva intimidire Costantinopoli, sollecitandola ad avere una pace
con Roma. Strategicamente mirava a piazzare armata l’Italia dinanzi all’Impero
ottomano. La conquista del Dodecaneso era un capitolo dell’imperialismo
italiano verso i Balcani, l’Anatolia, il Medio Oriente. Tuttavia, la funzione tattica
non fu decisiva e quella strategica limitata dallo scatenamento della Prima guerra
mondiale. Da trampolino dell’imperialismo italiano il Dodecaneso venne isolato,
in un Egeo e verso un Medio Oriente nei quali il ruolo concreto dell’Italia del
dopoguerra e degli anni Venti era stato ridotto al minimo. L’importanza del
Dodecaneso per l’Italia fu sempre circoscritta, non diede mai problemi al
governo e al posto di essere chiamata colonia, poiché abitata da bianchi, venne
denominata possedimento. Un’altra questione era quella della cittadinanza: a quel
cittadinanza avevano diritto? Non li si poteva equiparare agli eritrei o i somali.
Neppure professavano la religione musulmana come i libici.
Una soluzione finale arrivò con il fascismo. Si diede avvio ad un processo di
italianizzazione. La retorica dell’Italia liberale prima e, ancor più intensamente,
del fascismo mirò a enfatizzare la presenza “italiana” sulle isole: l’antica
presenza veneziana ecc. avviando anche, già dal 1914, missioni archeologiche
come strumento di italianizzazione.
La politica di assimilazione operò anche nei confronti delle popolazioni. A partire
dal 1912 irredentisti furono intimiditi e incarcerati. Antiche istituzioni locali
vennero soppresse. L’Italia liberale non faceva grandi investimenti sull’isola.
Coloro che avevano considerato l’occupazione italiana migliore di quella turca si
ricredettero. Nel 1919 una “pasqua di sangue” incrinò molte speranze che Roma
fosse disponibile a concedere un’autonomia o il ricongiungimento con la Grecia.
Assegnando definitivamente il Dodecaneso all’Italia, il Trattato di Losanna (6
agosto 1923) chiuse ogni discussione.
Pur non essendo formalmente una colonia, i tratti della presenza italiana furono
coloniali. Ad esempio, l’ampio potere lasciato al governatore Mario Lago (1924-
36). L’economia dell’area fu lentamente presa in mano dagli italiani,
monopolizzando il commercio dei prodotti della terra e della pesca. Molte delle
maggiori proprietà passarono in mano italiana. Le antiche istituzioni locali
furono svuotate dei loro poteri.
La politica fascista mirò anche a fare del Dodecaneso una “vetrina” italiana verso
il Levante. Furono quindi intraprese opere pubbliche che sopperirono alle
esigenze locali. L’impegno per queste opere aumentò il costo che Roma era
disposta a pagare per questo possedimento. Più tardi il regime pensò alla carta
turistica: Il Palazzo del gran maestro, intrapreso nel 1933 e terminato nel 1939,
rappresentava questa politica.
Tutto ciò venne ereditato ed esasperato dal successore di Lago, il quadrunviro De
Vecchi. Il fatto era che, dopo la guerra d’Etiopia e la crisi nelle relazioni italo-
britanniche, con la conseguente minaccia marittima nel Mediterraneo orientale, il
Dodecaneso acquistò agli occhi del regime un’altra importante funzione. Dopo il
1935-36, Roma rafforzò il carattere militare del possedimento come base di
Marina e per la guerra mediterranea. La politica di De Vecchi di repressione del
dissenso e di rapida fascistizzazione alimentò il dissenso e persino una resistenza.
Finì che né nella preparazione della guerra né in guerra le isole italiane nell’Egeo
svolsero un ruolo decisivo. Il Mediterraneo orientale rimase un lago britannico.
L’insuccesso dell’autunno 1940, con il disastro dell’invasione fascista della
Grecia, moltiplicò le difficoltà di Rodi. Quando le isole italiane del Dodecaneso
furono perse (nel luglio 1943 il regime crollò) pochi italiani prestarono
attenzione a questa perdita.
6. L’aggressione all’Etiopia
Le operazioni. Alla apertura delle ostilità l’Italia fascista aveva fatto affluire in
Eritrea già 110.000 militari nazionali, fra esercito e camice nere, 50.000 ascari,
4.200 mitragliatrici, 580 cannoni, 112 carri d’assalto, 35.000 quadrupedi, 3.700
automezzi, 126 aeroplani. Alla fine della guerra, nel maggio 1936 il corpo di
spedizione contava circa 330.000 militari italiani, 87.000 ascari, 100.000
lavoratori italiani militarizzati. 10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri
armati, 90.000 quadrupedi, 14.000 automezzi, 350 aerei efficienti. Sono cifre che
illustrano bene il carattere di guerra moderna, nazionale e non coloniale voluta
dal fascismo. Lo sforzo logistico per tenere in piedi una tale macchina da guerra
fu notevole. Contro un nemico non solo tecnologicamente ma persino
quantitativamente soverchiato dall’aggressore bianco (anche questo, un elemento
abbastanza inconsueto nelle guerre coloniali), le forze armate italiane
dichiararono di aver avuto meno di tremila vittime e meno di ottomila feriti.
Ai primi di ottobre del 1935 le colonie italiane del Corno d’Africa erano già state
trasformate in trampolini di lancio verso l’Etiopia. L’Eritrea, che aveva da tempo
ospitato meno di cinquemila coloni bianchi e qualche centinaio di soldati, nonché
poche migliaia di ascari, contava nel luglio 1935 più di 55.000 civili italiani,
30.000 soldati e quasi 50.000 ascari. La Somalia, dove i bianchi erano ancora
meno, nell’estate 1935 ospitava 25.000 soldati italiani e 30.000 ascari.
Contro questi preparativi l’Etiopia schierò 250.000 soldati, ma non tutti armati.
Le forze combattenti erano divise in armate agli ordini dei capi tradizionali.
Le operazioni militari della guerra fascista possono essere grosso modo divise in
tre fasi. Nella prima il comando delle forze italiane era in mano a De Bono, da
cui Mussolini si aspettava una rapida vittoria. Varcato il Mareb, gli italiani
presero Adua (6 ottobre) e Axum (14 ottobre). Già Macallè, che Mussolini
pensava di conquistare in una settimana, cadde in mano italiana soltanto il 7
novembre. La presa di Gorrahei, sul fronte somalo, il 4 novembre, con il primo
bombardamento a gas, non fu sufficiente. Mussolini allora sostituì De Bono con
Badoglio.
La seconda fase vide Badoglio intento a riorganizzare la grande macchina da
guerra. Curò la logistica, perfezionò i piani, addestrò gli uomini. Badoglio non
ebbe scrupoli a compiere un bombardamento, poi definito terroristico, su Dessié,
dove pensava fosse l’imperatore etiopico. Nel frattempo, le armate etiopiche
contrattaccarono. La risposta italiana fu il bombardamento delle retrovie, anche a
gas. La battaglia su cui la propaganda si soffermò maggiormente fu combattuta
da Graziani sul fronte somalo: la battaglia del Ganale Doria (11-15 gennaio
1936) sfociata nell’inseguimento dell’avversario sino a Neghelli (18-20 gennaio).
Alla fine della seconda fase Mussolini non aveva ancora nessun risultato militare
definitivo
La terza fase fu quella delle grandi battaglie campali vinte da Badoglio sino alla
battaglia finale e alla presa della capitale. In successione: le battaglie del Tembien
(20-21 gennaio 1936), cui seguì l’episodio del passo Uaurieru (21-23);
dell’Endertà (o dell’Amba Aradam, 12-15 febbraio 1936), in cui si fece chiaro il
carattere di guerra moderna assunto dal conflitto; la seconda del Tembien (26-27
marzo); dello Scirè (29 febbraio-3 marzo). A quella data le ultime speranze, il
negus decise di giocarle tutte nella grande battaglia campale di Mai Ceu (29-31
marzo), dove l’esercito etiopico collassò. Battute, le armate di Hailé Selassiè
furono inseguite e massacrate dall’aviazione al lago Ascianghi (3 aprile 1936).
Graziani arriverà, bombardandola, a Giggiga (15 aprile), ma sarà ad Harrar solo
l’8 maggio. Badoglio era ad Addis Abeba già dal 5 maggio e aveva proclamato la
fine delle forze armate etiopiche, della guerra e dell’Etiopia stessa. Il negus,
sconfitto, aveva lasciato la capitale dal 1° maggio verso Londra.
La guerra d’Etiopia costò all’Italia un enorme sforzo militare, logistico e
finanziario. Presto il conflitto fu celebrato dal regime come la “guerra dei sette
mesi” a rimarcarne il carattere di brevità: ma Mussolini l’avrebbe voluta più corta
e questo lo espose ad un insuccesso diplomatico. Fu aiutato dall’astensione di
Londra da interventi militari o da restrizioni al Canale di Suez. Ciò rese possibile
che il conflitto rimanesse localizzato.
Le forze armate italiane usarono i gas. Lo fecero per direttive dello stesso
Mussolini e in spregio alla Convenzione di Ginevra del 1925. I gas non furono
decisivi nelle sorti del conflitto, vennero usati perlopiù a scopo terroristico,
contro le retrovie. Le forze armate italiane bombardarono anche sulla Croce
Rossa.
La guerra fu una guerra fascista. Mussolini ne aveva impostato il carattere, i suoi
generali la condussero senza esitare a ricorrere ai mezzi bellici più brutali. Quella
del 1935-36 fu poi una guerra dove centrale fu la propaganda: De Bono e
Badoglio organizzarono un ferreo sistema di censura: pochi furono i giornalisti,
italiani e non, sul fronte etiopico.
Il Paese, il regime e la guerra d’Africa. La notizia della fine della guerra venne
comunicata in Italia il 5 maggio 1936. Un breve discorso di Mussolini dal
balcone di Palazzo Venezia annunziò che la guerra era finita e che l’Etiopia era
italiana.
Nella guerra d’Etiopia la manipolazione del fronte interno assurse ad
un’importanza eccezionale. La propaganda era stata capillare ed organizzata. Le
sanzioni verso un paese aggressore si trasformarono in un “ingiusto assedio
societario contro i diritti dell’Italia proletaria alla ricerca di un posto al sole” ciò
fomentò gli orgogli nazionalistici.
A ben vedere, il ruolo della propaganda era solo una parte del crescente
intervento dello Stato Totalitario nelle vite degli italiani negli anni Trenta. Furono
dimostrazioni evidenti quelle del 9 maggio 1936 quando Mussolini annunciò la
fondazione dell’impero. Ma la propaganda non poteva celare alcuni problemi di
fondo. Cos’era questo impero? Qual era la sua natura istituzionale? Il re sabaudo
era divenuto imperatore d'Etiopia: l'impero era solo quello di Addis Abeba? Ma
poiché l'Eritrea e la Somalia, ridisegnate nei loro confini, furono inglobate
nell'Africa orientale italiana, l'impero era sulla sola Etiopia o sull'intera Aoi? E la
Libia rimaneva una colonia? E il Dodecaneso cos'era? Ma, soprattutto, l'impero
coincideva con i territori coloniali, o era tutta l'Italia assieme ai suoi possedimenti
ad essere un impero? Ma, di nuovo, quale mai era questo impero costruito dal
fascismo? La questione potrebbe sembrare di rilevanza meramente giuridica e
istituzionale, e non invece fortemente politica come era, se non fosse che essa
precisa almeno tre aspetti importanti della guerra d’Etiopia e in generale del
colonialismo fascista.
In primo luogo, in un contesto comparato, non poté non essere «reazionario» il
fatto che l'Italia fascista costruisse un suo impero mentre le altre potenze
coloniali, di fronte alla crisi del 1929 e all'ascesa dei movimenti nazionalisti e
anticolonialisti dei popoli soggetti, comprendevano la necessità di ripensarli.
Mentre Roma accentrava i suoi possedimenti in un impero, Londra decentrava il
suo Commonwealth con lo Statuto di Westminster (11 dicembre 1931).
In secondo luogo, l'incertezza sulla natura istituzionale e politica di un impero
così tanto agognato dal fascismo, rivelò quanto strumentalmente in realtà
Mussolini guardava all'oltremare. Il duce era interessato solo ai successi di
facciata, ai risultati propagandistici e pare non comprendesse le difficoltà
necessarie per un'opera di valorizzazione e di colonizzazione. In ultimo luogo,
l'aggressione all'Etiopia perfezionò un carattere che era stato già caratteristico del
colonialismo fascista. Il ruolo che in esso ebbero le armi, i militari e la guerra fu
complessivamente superiore a quello di qualsiasi altro dominio coloniale europeo
del periodo fra le due guerre mondiali.
Il posto storico della guerra all’Etiopia. Pur essendo un capitolo decisivo della
storia dell'espansione coloniale italiana, la guerra all’Etiopia ha pure rilevanza
nella storia generale del XX secolo.
Quella guerra rappresentò il primo caso in cui un regime fascista europeo ricorse
in maniera così consistente alle armi. Dopo la fuoriuscita della Germania dalla
Società delle Nazioni, essa fu anche il caso più evidente in cui il meccanismo
varato a Versailles dimostrò di non saper reggere i colpi destabilizzatori dei
regimi fascisti. La guerra occupò inoltre un posto assai particolare nella storia del
colonialismo europeo. Fu l'ultima grande guerra di espansione coloniale, una
guerra anacronistica scatenata da un imperialismo coloniale debole ma non per
questo meno pericoloso. Fu una guerra d'aggressione coloniale condotta con i
mezzi di uno Stato totalitario contro uno Stato Africano indipendente in un'età in
cui i movimenti anticoloniali e nazionalistici dei popoli soggetti all'imperialismo
europeo avevano raggiunto ormai una certa forza e un certo radicamento: le
reazioni internazionali all'aggressione fascista non poterono quindi non essere
sensibili.
La guerra del 1935-1936 ebbe poi un suo ruolo nella storia del fascismo italiano.
Pochi mesi sarebbero passati dalla fine delle operazioni in Etiopia all'intervento
fascista e nazista nella guerra di Spagna; e pochi anni sarebbero trascorsi sino
allo scatenamento della guerra mondiale.
La guerra reale in colonia. La guerra d’Etiopia non era ancora quasi finita che il
duce aveva preso a tempestare Badoglio ad Addis Abeba con le sue richieste. Il
duce ordinava: la rimozione del monumento di Menelik, di evitare sul nascere il
problema del meticciato, voleva che in breve tempo si arrivasse all’ «occupazione
integrale» dell'impero. Ma, come da accordi, Badoglio tornò in Italia e a viceré
d’Etiopia e governatore generale della Aoi rimase Rodolfo Graziani.
La questione del controllo del territorio fu la priorità di Graziani. Fino ai primi
del 1937 la sua politica mirò a battere i grandi dignitari del vecchio impero del
negus ancora presenti in Etiopia ma non sottomessi, anzi a capo di formazioni
ancora armate. Per arrivare quanto prima alla direttiva politica di Mussolini del
«occupazione integrale» del territorio, Graziani si adoperò con determinazione e
violenza. Rallentò la smilitarizzazione dell'eccezionale corpo di operazioni del
tempo di guerra. Rinforzò la difesa della capitale. Avviò una politica tendente a
reprimere l'etnia ahmara, dominante con il negus. Tolse potere ai capi tradizionali
privandoli dei loro poteri e sostituendoli con una fitta rete di amministratori e
residenti italiani. Ma soprattutto, dopo due violenti attacchi della resistenza sin
dentro Addis Abeba, lanciò quelle che il regime definì « grandi operazioni di
polizia coloniale». Graziani dette la caccia alle formazioni di resistenza ed ebbe
carta bianca: contro le popolazioni fu condotto ogni genere di guerra irregolare. A
seguito di questa pressione i più noti ras furono eliminati e le formazioni
disarmate. Graziani si illuse di vedere la pacificazione. Il 19 febbraio 1937 una
manifestazione pubblica ad Addis Abeba avrebbe dovuto solennizzare la nascita
del primogenito del principe Umberto. Nel corso della manifestazione il palco di
Graziani venne attaccato con delle bombe a mano lanciate da due eritrei,
oppositori antitaliani.
La reazione del fascismo ad Addis Abeba fu di una durezza impensabile. Dal 19
al 21 febbraio bande di fascisti circolarono per la capitale seminando il terrore. A
luglio, dopo questa durissima repressione, Graziani poté pensare di aver riportato
all'ordine il suo impero. In effetti la prima forma di resistenza era stata stroncata.
Ma l’Etiopia era ancora lungi dall'essere pacificata. Anzi una nuova resistenza
stava nascendo, organizzata in formazioni più snelle e più mobili, guidate da capi
cresciuti nel corso dei combattimenti. Nel novembre Graziani seppe da Mussolini
che sarebbe stato sostituito. A prendere il suo posto sarebbe arrivato il duca
Amedeo di Savoia Aosta. Graziani provo a rimanere, ma Amedeo fu fermo nel
rifiuto (26 dicembre 1937, 1° gennaio 1938) decidendo di inaugurare una nuova
fase.
La guerra rinviata. È stato suggerito che sarebbe possibile scandire per anni la
vita dell'impero italiano: il 1935 e il 1936 sarebbero stati gli anni delle conquiste
e delle grandi battaglie, il 1937 quello dei massacri, il 1938 quello della
continuata ribellione, il 1939 un anno di transizione, il 1940 quello della
preparazione della fine e il 1941 quello appunto della fine. Si tratta di una
schematizzazione eccessiva che dà però l’idea della non totale discontinuità nel
passaggio di reame.
Il nuovo viceré sapeva che non avrebbe potuto continuare la politica di
repressione violenta di Graziani. Inoltre, l’economia non girava come la
propaganda del regime sosteneva, nell’insoddisfazione generale di colonizzati e
colonizzatori. Comunque, almeno per il 1937, l’Italia non abbandonò
economicamente l’impero, anzi le risorse dirottatevi furono eccezionali se
paragonate al loro magro rendimento.
Ci fu una svolta anche nella «politica indigena». Alle fucilazioni sommarie si
sostituirono i processi. Inoltre, si cercò di ridare competenze ai capi locali,
valorizzando quelli disposti a sottomettersi al dominio italiano.
Dove Amedeo non poté opporsi fu sulla legislazione razziale voluta da
Mussolini. Con quella legislazione il fascismo, di fatto, aveva dichiarato un’altra
guerra – questa volta etnica.
Il nuovo viceré dovette scontrarsi con alcuni poteri e personaggi forti. Lo fece
con Graziani. Lo fece con il suo subordinato Enrico Cerulli, vicegovernatore
generale e governatore della Scioa, per questioni di linea politica. Lo fece con il
suo comandante alle truppe Ugo Cavallero dopo un infruttuoso anno di
operazioni antiresistenza.
Ma la guerra rinviata con cui l’impero di Amedeo dovette convivere non fu solo
quella interna. Per via delle minacciose aspirazioni del regime, già a fine estate
1938, vennero rinnovati da Khartoum i piani britannici di conquista dell’Etiopia.
Nel giugno 1939 avevano luogo incontri di Stato Maggiore anglo-francesi a
Aden, anche dalla parte del Kenya britannico si progettavano piani. In questa
guerra rinviata, l'oltremare italiano del Corno d'Africa sarebbe stato lasciato solo.
In sintesi, la politica varata dal Duce, a pochi mesi dalla conquista, era:« l'impero
farà da solo». Ma poiché l’ Aoi poteva essere alimentato solo passando dal
Canale di Suez e poiché attorno all'impero stavano Sudan, Kenya, Somaliland e
Aden, mentre India e Sudafrica non erano lontani (tutti domini britannici), quel
far da soli significava un abbandono. A giugno 1939 Amedeo aveva esposto a
Mussolini un piano delle risorse necessarie per la difesa e l'autosufficienza
dell'impero, quantificandolo in 4,8 miliardi: gliene furono assegnati 0,9 (legge 18
maggio 1940). Nel frattempo, vista la freddezza dei colonizzati, di «Armata
nera» non era possibile parlare.
Poiché la guerra rinviata, stavo arrivando, era tempo di fare piani militari. E si
traducevano la condanna strategica del « far da soli»: questo mentre ancora
investitori e coloni si affannavano a colonizzare l'impero e mentre la propaganda
diffondeva immagini tranquillizzanti. Il concetto di fondo era quello della difesa
statica ai confini. Fra Addis Abeba e Roma furono fatti studi per una
sopravvivenza di dodici mesi che prevedesse però anche offensive su Gibuti e
verso il Sudan, a scopo di alleggerimento di eventuali offensive e britanniche. Sia
Mussolini sia Badoglio sia Amedeo erano consapevoli della gravità della
situazione strategica. Sulla carta gli uomini non erano pochi (90.000 italiani e
forse 200.000 Ascari) ma era lecito interrogarsi sulla preparazione di queste forze
che da tempo combattevano una guerra interna contro bande etiopiche. Una
guerra contro un avversario attrezzato e moderno come le forze armate
britanniche avrebbe disegnato un diverso scenario.
In tale situazione lanciarsi come fu fatto nel 1940-41 Ehi verso Gibuti, verso il
Somaliland e verso il Sudan, significò abbreviare la stessa sopravvivenza che
tutti i responsabili sapevano limitata.
Una guerra che torna. Con l'invasione nazista della Polonia (1° settembre 1939)
o con la dichiarazione di guerra dell'Italia fascista (10 giugno 1940) la guerra
prese il proscenio, cacciando le vicende coloniali dietro le quinte.
In Africa orientale le forze armate italiane ebbero l'ordine di controllare l'ordine
coloniale interno e di effettuare alcune offensive dal valore politico più che
militare. Andarono a Cassala e Gallabat (4 luglio 1940) e poiché il nodo di Gibuti
si era sciolto da sé (per via del crollo francese) presero la via del Somaliland sia
pur faticando più del previsto (3-19 agosto 1940). Subirono dapprincipio alcuni
contrattacchi locali britannici, cui fecero fronte, insediandosi appunto nella
Somalia britannica. Ma la situazione strategica non era migliorata: per fare solo
un esempio, fra gennaio e febbraio 1941, l’ Aoi fu isolata e senza collegamento
postale con la madrepatria. Poi riprese la resistenza anticoloniale etiopica,
collegandosi con i vicini reparti britannici.
Fu in tale quadro che si sviluppò l'offensiva britannica nel Corno d'africa. La
prima colonia ad essere attaccata fu la Libia. Incalzate, le forze italiane si
ritirarono da Cassala (15 gennaio 1941) sino ad Agordat e a Cheren dove si
combatté seriamente (3 febbraio-27 marzo). Caduta Cheren, caddero anche
Asmara (1°aprile), Adigrat (3 aprile), Massaua (8 aprile).
Nel frattempo, l’attacco era portato alla Somalia: l’Oltregiuba fu ripreso dalle
forze del Commonwealth (22-24 gennaio 1941) e Mogadiscio cadde due giorni
dopo.
Con lo sbarco a Berbera (16 marzo) venne la volta dell’Etiopia. Dopo Dessié (6
aprile), Addis Abeba fu presa il 5 maggio 1941. L’impero era stato preso e il
governo passato alla Occupied Enemy Territory Administration, mentre Hailé
Selassiè era tornato.
In Africa settentrionale la vicenda fu tanto più complessa, quanto più importante
e decisivo lo scacchiere. In un primo momento, in questo scacchiere, il duce
aveva optato per la difensiva. Poi si era deciso ad attaccare. Ma, morto Balbo e
sostituitolo con Graziani, questi – resosi conto delle imperfezioni del
meccanismo bellico – esitò. Mussolini scese addirittura in Libia (dal 29 giugno al
20 luglio 1942) sperando che i suoi comandanti militari gli dessero una vittoria,
ma dovette tornare a Roma a mani vuote. Pressate dall’avanzata britannica, senza
una difesa aerea e contraerea, le forze italo-tedesche abbandonarono la Libia.