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UN IMPERO PER IL FASCISMO.

Fra le due guerre mondiali le altre potenze coloniali europee mirarono a sfruttare
i propri possedimenti oltremare. L’Italia fascista sembrò invece in preda ad
un’ansia di espansione. La stampa del regime ripeteva le parole d’ordine del
duce, secondo cui era ora di far diventare l’Italia un impero (discorso del 2
ottobre 1935). Tutti gli imperi coloniali erano basati sul “razzismo coloniale”: i
bianchi governavano, gli altri obbedivano. L’Italia fascista avviò, a tal proposito,
una legislazione razzista che rivestiva per il regime una funzione strategica,
ideologica (norme contro i meticci 13 maggio 1940, n.822; niente
riconoscimento dal genitore cittadino, mantenimento, istruzione a carico del
genitore nativo).
A differenza delle altre potenze liberali, l’Italia fascista non dovette confrontarsi
coll’ anticolonialismo per via della soppressione della libertà di espressione.
Parlare di “consenso coloniale” è improprio se il suo contrario non fu possibile.
1. Il dopoguerra.
Nel 1919 alla Conferenza di Versailles avvenne la spartizione delle colonie
africane e asiatiche della Germania sconfitta, tra Londra e Parigi. L’Italia liberale
ne rimase esclusa. L’Italia di “Vittorio Veneto” perse così la prospettiva degli
ingrandimenti coloniali. Ed era già stata penalizzata nelle proprie ambizioni
nazionalistiche su Fiume e la Dalmazia, la cui concessione a Roma fu osteggiata
dalla delegazione statunitense e francese. Vittorio Emanuele Orlando si dimise,
venendo sostituito al governo da Nitti il 21 maggio 1919. Nel paese si cominciò a
parlare di “vittoria mutilata”. Per la precisione, poiché il Patto di Londra del 1915
non menzionava Fiume ed era molto vago sulle concessioni coloniali all’Italia in
caso di vittoria, era difficile parlare di mutilazione dei patti concordati.

L’Italia del dopoguerra e delle colonie. I governi liberali dovettero da allora


subire accuse continue di non aver saputo difendere l’ «interesse nazionale» a
Versailles. Ciò contribuì a screditare la classe dirigente liberale. Quella
«coloniale» non costituì però una questione centrale del primo dopoguerra
italiano. Al centro delle preoccupazioni dell’opinione pubblica vi era: l’ascesa dei
partiti di massa, socialista e popolare, la scissione comunista, l’ascesa del
movimento dei fasci di combattimento (fondato il 23 aprile del 1919 e
costituitosi in partito il 7 novembre del 1921), le gravi questioni sociali ed
economiche, l’occupazione delle fabbriche, il dilagare della violenza fascista,
assieme all’incapacità della classe dirigente liberale di affrontare tutto ciò. Anche
in tema di politica estera, più che le polemiche coloniali, furono la questione di
Fiume e la politica italiana di presenza nei Balcani a monopolizzare l’attenzione
pubblica. Intanto la politica della «grande Italia» sognata da Sonnino andava in
frantumi. Nel frattempo, si succedettero diversi governi incapaci di fronteggiare
la situazione. I nuovi partiti di massa divergevano fortemente sui temi “africani”:
i socialisti (tranne i bissolatiani) erano contrari alle colonie. Anche tra i popolari
vi era un fastidio verso il colonialismo. Anche i liberali erano divisi sul tema
coloniale. Essi auspicavano una politica di accordi e di dialogo con gli
«indigeni». Fra questi un Amendola, ministro delle Colonie dal giugno 1922.
Con la classe dirigente divisa e un opposizione poco attenta, non stupisce che la
politica coloniale degli ultimi governi d’Italia fu incerta e aprì le porte ad una
vera e propria reazione.

Il contesto coloniale mondiale e l’Italia. Il periodo fra le due guerre mondiali si


differenziò dall’età dell’imperialismo in senso stretto, tanto nella sua fase più
bellicosa dello scramble, quanto in quella più pacifica del quindicennio
precedente la Grande Guerra. La differenza con lo scramble non stava solo dalla
parte dell’espansione coloniale, caratterizzata nel ventennio fra le due guerre
mondiali non dalla guerra ma da un ordine relativo e dall’intenso sfruttamento
economico dei territori. Un’altra differenza stava dalla parte delle popolazioni
soggette che non si opposero più con le forme violente della “resistenza
primaria” ma diedero spazio a forme più organizzate di protesta anticoloniale.
Subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, una serie di rivolte attraversò
molti dei possedimenti oltremare. La fortunata congiuntura economica coloniale,
durata sino agli anni Venti, non si sarebbe più ripresentata. Anzi, dopo il 1929,
tutte le colonie subirono i contraccolpi della crisi dovuta a due guerre mondiali e
alla più grande crisi economica del capitalismo. La caduta della domanda
mondiale di prodotti provenienti dalle colonie; il deterioramento dei termini di
scambio delle materie prime; il protezionismo coloniale che vincolò le economie
delle colonie a quelle delle madrepatrie causò una caduta dei prezzi delle merci
coloniali. Sulle popolazioni autoctone tutto ciò ebbe un peso notevole.
Pur fra tante difficoltà, l’imperialismo coloniale europeo celebrò, nel periodo tra
le due guerre, il proprio apogeo. Con la redistribuzione dei territori tedeschi e
ottomani la Francia e la Gran Bretagna avevano accresciuto di molto i loro
imperi. Londra continuava ad avere il territorio più vasto a cui ora si
aggiungevano i territori ricchi di petrolio del Medio Oriente.
Anche l’impero italiano si accrebbe a seguito di una guerra, l’ultima delle guerre
coloniali europee di espansione. Tuttavia, all’ampliamento territoriale non
corrispose un miglioramento della posizione diplomatica, strategica o economica
dell’Italia fascista.
D’altronde ciò rispecchiava la situazione generale dell’economia del Paese
durante il Ventennio. Ad esempio, fatto 100 il dato del 1913, la crescita della
produzione manifatturiera italiana alla vigilia della Seconda guerra mondiale era
salita sino a 192: ma non così alto come in Giappone (552) o in Urss (857). Il
dato sulla produzione di acciaio è rivelatore. Tra il 1920 e il 1938, tutte le grandi
potenze accrebbero la loro produzione: l’Urss passò da 0,16 milioni tonn. a 18; la
Germania da 7,6 a 23,2 superando così Gran Bretagna (9,2 a 10,5) e Francia (2,7
a 6,1). L’Italia fascista passò da 0,7 a 2,3. Inoltre, la produzione industriale
italiana calò dal 3,3 al 2,9 sul totale di quella mondiale.
Dunque, l’Italia fascista, mentre le altre potenze miravano a consolidare la loro
posizione coloniale, condusse una guerra di aggressione in Africa, a ciò va
aggiunta l’insistenza nella revisione dell’assetto uscito da Versailles (per quanto
concerneva Balcani e Mediterraneo), tutto ciò contribuì a logorare la Società
delle Nazioni. È per questo che la sua politica coloniale fu grave e costituì una
parte, seppur secondaria, della più complessiva azione che portò alla Seconda
guerra mondiale.

In Libia. L’abbandono della politica degli accordi sviluppatasi in Cirenaica e


Tripolitana fra la fine della Grande Guerra e il primo dopoguerra fu la più grave
responsabilità della classe dirigente liberale. Alla fine della Grande Guerra gli
italiani controllavano in Libia le principali città della costa. Mentre in Cirenaica
fra il 1916 e il 1917 si era già giunti ad accordi con la Senussia, in Tripolitania ci
si preparava alla riconquista militare che sarebbe stata lanciata nel 1919. In
Tripolitania la notizia della costituzione della Repubblica Tripolitana ebbe un suo
peso: la resistenza anticoloniale era ancora forte. Roma non represse i resistenti,
ma intavolò trattative che giunsero all’accordo di Khallet ez-Zeitun (21 aprile
1919), tale accordo fu poi tradotto in legge (1° giugno 1919). Esso fruttò ai
tripolitani lo «Statuto Libico», le concessioni erano le seguenti: superamento
della sudditanza coloniale in una «cittadinanza italiana della Tripolitania»;
istituzione di un parlamento locale a maggioranza araba; libertà di stampa e
associazione. Per un verso l’ampiezza delle materie dimostrava la debolezza
italiana e la forza della resistenza anticoloniale. Per un altro, gli accordi stavano
dando i loro frutti con i governi liberali di Orlando e Nitti i cui rispettivi ministri
delle colonie erano Colosimo e Rossi.
In molti degli ambienti coloniali delle altre potenze europee la politica degli
accordi italiana destò interesse e venne ritenuta “wilsoniana” e rivoluzionaria. In
Cirenaica la politica degli Statuti destò il proprio senso più vero. Gli
amministratori coloniali italiani che avevano favorito la politica degli accordi
avevano visto giusto. Stringendo ad er-Regima (25 ottobre 1920) un patto con lo
Stato italiano, la Senussia venne a riconoscerne la presenza in Cirenaica.
Il patto con gli italiani fruttò ai cirenaici il Parlamento, a Mohamed Idris il titolo
trasmissibile agli eredi di al-Amir al-Sanusi, alla Senussia il riconoscimento del
controllo militare, politico e religioso del territori. Si trattava di un reciproco
riconoscimento di due autorità distinte. L’amministrazione coloniale non era
convinta però di questa politica, i militari erano disorientati e le intenzioni degli
uomini di governo poco sincere. I nazionalisti e i colonialisti videro negli Statuti
l’ennesima capitolazione dell’ “Italietta”. Troppi fra i politici videro in ciò solo
una manovra per prendere tempo. Soprattutto, invece che ad accordi sinceri i
governi coloniali continuarono a puntare sulle divisioni tra i notabili locali.
In Tripolitania l’azione italiana aveva insospettito i capi della Giumhurriyya. Gli
scontri armati ripresero: fra tripolitani, e fra questi e gli italiani. Fu lo stesso
governo Nitti, poco prima della sua caduta, a decidere per un ulteriore
rafforzamento dei presidi militari della colonia, mossa che preludeva
l’abbandono della politica degli Statuti e la ripresa delle ostilità, anche se a
Tripoli bastò l’invio di un governatore più tollerante per addivenire ad un
accordo e rinviare la crisi.
La svolta avvenne con il governo Bonomi. Egli accettò e comunicò agli italiani la
propria “autosospensione” dalle cariche ufficiali in Cirenaica (1° marzo 1922).
Gli italiani temettero allora una saldatura della resistenza anticoloniale. Ma, alla
fine, Mohammed Idris accettò il titolo (2 novembre 1922) di Emiro Unico
propostogli dai tripolitani, che fu in contrasto con la politica degli Statuti. Nel
1921 il governo Bonomi nominò alle colonie un colonialista, Girardini e a Tripoli
Giuseppe Volpi. Alle colonie venne data più importanza. Si ripartì dalla
riconquista di Misurata (26 gennaio 1922). La nuova politica di Volpi fu
approvata anche da Amendola. Volpi (e un suo subordinato, Rodolfo Graziani)
mobilitò le truppe. La prima mossa fu la ripresa del controllo di Azizia. Le azioni
militari dell’Italia liberale vennero poi guidate dal governo di coalizione guidato
da Mussolini: avanzando, sul Gebel di Yefren (28 ottobre 1922), a Garian e
Tarhuna (29 gennaio-6 febbraio 1923), fra i Beni Ulid (23-27 dicembre 1923). A
quel punto la Tripolitania settentrionale fu detta riconquistata e la politica degli
Statuti ormai seppellita.
Occhi sull’Etiopia. In Etiopia la situazione era diversa. In Somalia gli italiani
erano troppo pochi e deboli per una politica di forza. Ma l’Italia continuava a
guardare all’Etiopia. Fra i tre contraenti dell’accordo del 1906, l’Italia era la più
sprovvista di mezzi. I francesi avevano terminato la ferrovia Gibuti- Addis Abeba
(1917). Gli inglesi erano ben coperti dalla Bank of Abissinia. Roma assisteva
impotente nel 1917 alla soluzione della successione al trono che era stato di
Menelik II. La politica italiana era incerta, dapprima si appoggiò alla Francia per
far saltare l’accordo tripartito. Fallita la mossa ripiegò sulla Gran Bretagna,
proponendo nel 1919 una sorta di riconoscimento di diritti britannici sul lago
Tana, ma chiedendo in cambio l’acquiescenza di Londra sulla costruzione di una
ferrovia che congiungesse la Somalia all’Eritrea attraversando mezza Etiopia.
Fallita anche questa mossa, al momento in cui venne in discussione l’ammissione
alla Società delle Nazioni dell’Etiopia (Stato africano ma indipendente), Roma
tornò verso Parigi sostenendo i diritti di Addis Abeba con la speranza di
ingraziarsi il reggente ras Tafari. L’ammissione fu infine accettata il 28 novembre
1923, ma le ambizioni italiane a giocare un ruolo in Etiopia risultarono troppo
evidenti e non raggiunsero risultati concreti.

2. Il governo Mussolini

L’incarico a Mussolini di formare un nuovo governo fu una rottura con il passato


dell’Italia liberale: oltre a introdurre temi nuovi, il fascismo ne riprese anche
dall’Italia liberale. Gli storici si sono interrogati sul rapporto fra continuità e
rotture del regime rispetto al passato liberale. In particolare, gli sforzi si sono
concentrati sul governo Mussolini di coalizione. Nel campo coloniale, quanto i
primi anni di governo Mussolini proseguirono la strada già tracciata dall’Italia
liberale? Quanto e quando innovarono? In quale direzione rispetto al contesto
internazionale?

Il capo del fascismo al governo e la politica coloniale. Per quanto imprecisa, la


politica estera del governo Mussolini non poteva del tutto rompere con il passato
liberale, alcune rivendicazioni erano comuni. Per tali ragioni, sino al 1925, è stato
sostenuto, il rapporto tra politica estera liberale e mussoliniana, di sostanziale
continuità, la differenza era di “stile” più che di sostanza.
In realtà mutamenti vi erano stati. La politica estera del governo Mussolini mutò,
rispetto ai governi liberali, non solo per il tono, ma anche per un diverso ordine
di priorità. Mussolini intendeva inaugurare una politica di potenza e di prestigio
nazionale che avrebbe messo l’Italia al pari delle altre potenze europee e avrebbe
migliorato la propria posizione nel Mediterraneo, nei Balcani, in Africa.
Cominciarono a circolare temi sullo “Stato Forte”, di critica alla Società delle
Nazioni. Fra le priorità vi fu appunto la politica africana.
Il fascismo non arrivò al governo con un programma coloniale definito. La
nomina a Ministro delle Colonie di Federzoni, nazionalista, segnalò la volontà di
un mutamento di rotta. Nei primi anni il cambio di rotta si fece sentire più nel
Corno d’Africa meno che in Libia, dove il nuovo governo consolidò la politica
già avviata da Volpi. La nuova enfasi del regime fascista riguardo le colonie fu il
segno maggiore di discontinuità con i governi liberali.

La diplomazia di fronte al problema africano. Le aspirazioni coloniali del


governo Mussolini furono molte e al di fuori del meccanismo di diplomazia
previsto dalla Società delle Nazioni. Il ricorso ai mezzi bellici scosse le
cancellerie europee, anche se la questione in ballo non era di grosse proporzioni:
avrebbe comunque permesso all’Italia di guadagnare il Dodecaneso. In molti altri
casi, tuttavia, il governo non ottenne alcunché. Quello che Mussolini ottenne nei
primi anni venne dal lavoro delle diplomazie (Esteri e Colonie). Il 6 dicembre
1925 l’Italia otteneva la rettifica di frontiera della Cirenaica, a seguito di accordi
con la Gran Bretagna, che le permetteva di occupare l’oasi di Giaraub. Il
vantaggio fu soltanto simbolico. Nel luglio 1924, concludendo accordi italo-
britannici datati almeno al 1915, l’Italia otteneva dal Kenya britannico la fertile
regione dell’Oltregiuba che andava ad arricchire le desertiche aree della Somalia
meridionale. Si trattava in genere di prosecuzioni di accordi già intavolati dai
governi liberali che l’Italia poté ottenere grazie a congiunture diplomatiche in cui
le altre potenze coloniali preferirono accontentare Roma. Fatto sta che, Mussolini
poté presentare agli italiani come successi propri frutti seminati da tempo dalla
diplomazia. Furono peraltro, frutti di piccole dimensioni.
Né alcun concreto passo avanti fu fatto sul problema confinario della Libia,
quello ad ovest verso l’Algeria e a sud verso il Ciad. Né Mussolini trovò udienza
a Parigi attorno al problema della cittadinanza degli italiani residenti a Tunisi.
Apparentemente più concreto fu il vantaggio ottenuto da Mussolini con l’accordo
italo-britannico del 14 dicembre 1925 sull’Etiopia. Londra riconobbe un interesse
prevalente italiano sulle regioni alto-etiopiche e la liceità della proposta di Roma
di costruire una ferrovia che unisse (passando per l’Etiopia) Somalia ed Eritrea:
questo in cambio del riconoscimento italiano dell’uso britannico delle acque del
Tana e del Nilo. La notizia, apparentemente di successo, fece irritare Parigi e
Addis Abeba denunciò l’accordo come imperialistico e condotto alle spalle di
uno Stato, ormai membro della Società delle Nazioni. Peraltro, Roma non aveva
neanche le capacità finanziarie di imbastire l’ardito progetto. Insomma, l’accordo
servì solo per rivelare al mondo che le mire italiane non erano cessate e che
l’Italia era pronta a incrinare l’attività della Società delle Nazioni.

Sviluppi oltremare. Per comprendere il clima dei mutamenti introdotti dai primi
gabinetti Mussolini è importante spostare l'attenzione verso i diversi oltremare.
Nelle due colonie libiche, l'inversione di marcia era stata netta. Il governo
Mussolini dichiarò decaduta la politica degli Statuti. In Tripolitania il
governatore Volpi lanciò “operazioni di grande polizia” che avrebbero portato
alla sconfitta della resistenza autoctona. Gli italiani ottennero risultati concreti
con azioni militari pesanti e spietate: il 25 settembre 1923 fu profanata la
moschea di Homs. Con l'attacco finale italiano a Sedada (15-22 dicembre 1923)
il grosso della resistenza tripolitana poteva dirsi stroncato.
La Tripolitania acquistò ora un'importanza nuova nel panorama delle colonie
italiane. La visitavano i ministri Federzoni (febbraio 1924) e Lanza di Scalea
(aprile 1925). Il governatore Volpi poté instaurare il governo civile dei territori
della costa e di una larga fascia dell’interno (Tripoli, Yefren, Garian, Tarhuna)
mentre rimanevano sotto il controllo militare solo i territori del sud (con il
colonnello Graziani). Certo, la colonia non era ancora pacificata, come dimostrò
la disfatta italiana di Bir Tasin (25 maggio 1925), ma l’abbandono della politica
degli Statuti e la mano libera lasciata ai militari avevano dato all’Italia il
controllo della Tripolitania settentrionale.
In Cirenaica le cose furono più difficili, per via del minore controllo del territorio
e della maggiore unitarietà della resistenza guidata dalla Senussia. Le forze
armate furono costrette a sviluppare nuove tecniche militari. Denunciata la
politica degli Statuti, gli italiani smantellarono i campi militari della Senussia e
quelli “misti” previsti dagli accordi. Dopo intense operazioni nella primavera del
1923, in quella del 1924 gli scontri si spostarono su Gebel. Nel frattempo, le
operazioni condotte a terra e con aeroplani sembravano promettere (primavera
1925).
Alla fine del 1925, il governo Mussolini poté affermare a ragione di aver messo
ordine in Tripolitania e di aver sovvertito l’orientamento della politica coloniale
in Cirenaica.
In Eritrea i mutamenti furono meno sensibili. Con una colonia da tempo
pacificata, l’attenzione dei governatori andò ad opere di valorizzazione e
sfruttamento. Fu in questo periodo che - a seguito di un accordo italo-britannico
che permetteva all’Eritrea l’uso delle acque del Gasc (dicembre 1924) – vennero
realizzati investimenti nella zona di Tessenei, miranti a costruire una grande
azienda di sfruttamento. Il governatore Jacopo Gasparini era insoddisfatto con
l’amministrazione centrale romana del tentativo di accordo con Londra (1925)
che aveva danneggiato l’immagine dell’Italia come potenza coloniale pacifica.
Gasparini, da coloniale, considerava decisivi solo i guadagni sottoscritti in loco e
non nelle capitali europee. Da qui il suo favore per la politica periferica.
In Somalia il cambiamento legato all’avvento di Mussolini al governo fu più
sensibile. Fu lanciata in questi anni una politica di “riconquista”. Ne fu
protagonista il quadrunviro De Vecchi destinato da Mussolini in Somalia (21
dicembre 1923). De Vecchi inaugurò una politica violenta e impermeabile alla
realtà locale. La colonia era ancora divisa fra una parte meridionale di dominio
italiano e una settentrionale sotto il protettorato dei capi autoctoni.
De Vecchi, primo governatore coloniale italiano esplicitamente fascista, avviò
subito una fascistizzazione della colonia italiana: rafforzò la componente bianca
della colonia, costituì a Genale un centro di colonizzazione italiana basato su
concessioni di terre abbastanza estese, avviò una politica di disarmo delle
popolazioni somale. L’amministrazione fascista, a differenza di quella liberale,
adottò una linea dura contro i capi tradizionali. Per far questo, De Vecchi chiede a
Mussolini un riarmo delle truppe in Somalia che passarono da 2.500 a 12.000.
Così, nell’autunno 1925 De Vecchi lanciò il suo attacco al Sultano di Obbia.
Quando avrebbe lasciato Mogadiscio, nel 1928, la riconquista sarebbe stata
ultimata.

Etiopia, la meta di sempre. Negli anni sino al 1925 l’attenzione italiana


all’Etiopia rimase diplomatica, ma intensa. Un primo allarme venne del 1922, da
un ordine del giorno del fascio di Asmara dal tono revanscista. Roma fu costretto
a smentirlo e a sottolineare la dichiarazione di Mussolini secondo cui l’Italia
avrebbe rispettato i patti già presi dai governi liberali. Il fascio locale fu sciolto e
la crisi evaporò. Le relazioni italo-etiopiche non migliorarono con
l’atteggiamento irriguardoso di Mussolini nella visita a Roma di ras Tafari
(giugno 1924). Inoltre, le politiche periferiche del governatore Gasparini, la
politica dura in Somalia di De Vecchi, la vicenda dell’accordo con Londra del
1925, la conduzione romana della vicenda dell’ammissione dell’ Etiopia alla
Società delle Nazioni (contrari furono già i governi liberali e l’inasprimento dei
toni di Mussolini non aiutò anche se alla fine l’Italia votò a favore) convinsero
Addis Abeba, a ragione, del fatto che l’Italia aveva ancora mire sull’Etiopia.
Continuità e rottura. Anche se l’azione coloniale dei governi liberali non fu senza
contraddizioni, già in quei primi anni di governo Mussolini vi furono molti
cambiamenti non solo di “stile”.
Un primo bilancio dell’azione coloniale del governo Mussolini al 1925, cioè al
passaggio dal governo di coalizione alla fascistizzazione dello Stato dev’esser
condotto su due livelli.
Il primo livello è quello del contesto internazionale. Anche le altre potenze
coloniali ebbero, dopo la Grande Guerra, a che fare con rivolte anticoloniali,
sedate spesso in maniera forte. Ma è indubbio che l’Italia già dal suo esordio fece
uso di forze armate nelle colonie in maniera più sistematica e generale di quanto
fatto nel passato dall’Italia liberale e di quanto facevano le altre potenze europee.
Anche la prosecuzione di politiche già adottate dall’Italia liberale assunse
significati diversi. Ad esempio, anche l’Italia liberale pensò ad una politica
periferica nei difficili anni della transizione a Menelik II. Ma assai più grave fu il
perseguimento della stessa politica quando la situazione si era ormai assestata e
l’Etiopia diventò membro della Società delle Nazioni.
Un secondo livello è quello dell’analisi interna. Rispetto al passato liberale
l’azione coloniale dei primi governi Mussolini fu una miscela di continuità e
novità: nel complesso però fu quest’ultima a prevalere. Lo dimostrano l’enfasi
data alle colonie rispetto ai governi prefascisti e l’uso più sistematico delle forze
armate.
La rilevanza data alla questione coloniale fu l’elemento di discontinuità più
significativo rispetto al passato. Se per i governi liberali la politica coloniale era
un mezzo per dimostrare di essere tra le grandi potenze più che un fine in sé, per i
primi governi Mussolini la politica coloniale era un fine strategico in sé perché
l’Italia riteneva di non dover dimostrare, ma di essere una grande potenza.

3. Il fascismo e le colonie

Se a partire al 1925 si delineò cosa Mussolini pensava delle colonie, conviene


soffermarsi su alcuni originali caratteri dell’ambiente in cui essa andò
sviluppandosi.

Il paese e la propaganda. Un primo elemento nuovo del governo Mussolini


rispetto ai governi liberali fu la sua dimensione retorica e propagandistica di
massa. Grande enfasi venne data in primo luogo ai discorsi di Mussolini. La
stampa garantì massima diffusione alle sue parole pronunciate a Tripoli nel 1926
sulla necessità per l’Italia di espansione nel Mediterraneo e ad Oriente, o quelle
del discorso dell’Ascensione ( 26 maggio 1927) in cui oltre a ribadire
l’illiberalità del suo regime tornò sui temi dell’espansione indicando nella metà
degli anni Trenta un momento cruciale. Le varie strutture del partito e dello Stato
sostennero poi i discorsi del capo. Il Ministero delle Colonie fu invitato a prestare
sempre maggiore attenzione all’aspetto pubblico. La “Giornata coloniale”
annualmente organizzata dal ministero e dall’Istituto coloniale nella capitale
rappresentò solo l’apice di questa mobilitazione colonialistica delle coscienze.
Tutto ciò fu presentato come nuovo dal regime. In realtà, le varie iniziative erano
già prassi corrente delle altre potenze coloniali dove si era curato che il mito
africano avesse una presa di massa. Ad esempio, la British Empire League o la
Deutsche Kolonialgesselschaft avevano organizzato manifestazioni di grande
richiamo come la Wembley Exhibition del 1921. La differenza stava in ciò:
mentre nelle altre potenze ciò avveniva liberamente, in Italia tutto ciò avveniva
attraverso le strutture di uno Stato sempre più totalitario.

Roma antica e fascino della frontiera. Quali furono i contenuti della propaganda
nel Ventennio? Dopo il mito del duce il mito di Roma fu la “credenza mitologica
più pervasiva di tutto l’universo simbolico fascista”. Non a caso proprio un anno
dopo la conquista dell’ “impero” Mussolini avrebbe inaugurato a Roma sia la
riapertura della mostra della rivoluzione fascista sia le celebrazioni per il
bimillenario di Augusto: imperialismo africano, romanismo, fascismo si
stringevano. Questo mito dell’impero “romano” assumeva anche un carattere suo
proprio, all’incrocio fra politica e religione civile.
A partire dagli anni Trenta, assieme al regime, anche le colonie si furono
stabilizzate; perciò, venne naturale a Mussolini cercare di convincere gli italiani a
“porsi sul piano dell'impero”.
Tutta questa enfasi riprendeva temi e spunti del classicismo e del romanismo
costanti nella formazione della classe dirigente italiana già dall'età liberale.
Proprio i decenni a cavallo tra 800 e 900 erano stati gli anni d'oro della ricerca
archeologica, cui anche gli italiani avevano dato un contributo di rilievo, non
scevro di accenti ideologici. Ricorrente, ad esempio, al tempo della guerra per la
Libia era stato il ricorso a figure retoriche della “Roma che ritorna”. Appena
giunti a Tripoli, a guerra ancora in corso, iniziarono i lavori per la “liberazione”
dell'arco di Marco Aurelio dalle sedimentazioni post-classiche e arabe (27 marzo
1912- 4 luglio 1918).
Il fascismo, quindi, anche sul piano imperiale-coloniale non inventava ma
rielaborava. La natura reazionaria, populista e imperialista del fascismo poteva
dirsi simbolizzata negli annuali festeggiamenti del 21 aprile, data attorno la quale
vennero fatti ruotare il “natale di Roma”, la “festa del lavoro” fascista e la
giornata coloniale.
Ma quella di Roma non era l'unica costante della propaganda coloniale. Esso anzi
poteva contare di fare effetto solo su una parte degli italiani, quelli alfabetizzati e
almeno elementarmente acculturati. Adesso il fascismo, quindi, affiancò nella
propaganda imperialista, per un pubblico più popolare – più che un altro tema -
un'altra prospettiva: quella della frontiera. Ogni colonialismo è legato al fascino
dell’esotico e alla sete di avventura e di guadagno, al fascino razziale di dominio
di popoli “inferiori”. Merito del fascismo fu l’aver colto che ora l’Oltremare e
l’impero potevano divenire “consumo di massa”. La crescita del turismo
coloniale lo dimostrava.
In conclusione, alla base della propaganda fascista si intrecciavano Roma antica e
frontiera.

Gli interessi e il regime. Nel colonialismo fascista non vi furono solo miti, ma
anche fatti e soldi. A tale proposito va notato un aspetto che relativamente nuovo
fu la connessione che il regime seppe instaurare con alcuni interessi economici.
Anche in età liberale il colonialismo ebbe la sua base economica. Ad esempio,
Crispi si fece promotore presso istituti di credito per la costituzione di una società
coloniale, con scarso successo.
La relativa novità fascista fu data sia dalla congiuntura sia dalla politica del
regime. Dal punto di vista della congiuntura, già prima dell’avvento del governo
Mussolini consistenti interessi economici avevano sperato di condizionare i
governi liberali in un senso imperialistico: ciò creò una base oggettiva per le
politiche colonialiste. Quando Mussolini arrivò al governo, bene o male, l’Italia
era già in Eritrea da quasi quattro decenni, in Somalia da tre, in Libia dal 1911.
Dal punto di vista delle politiche, è un dato di fatto che il regime curò in maniera
più organizzata gli interessi economici dell’azione coloniale. Ciò avvenne perché
il regime era disposto a pagare di più di quanto l’Italia liberale era disposta a fare.
Due esempi: nel 1925 quando vi fu la possibilità di costruire una strada
camionale attraverso l’Etiopia, il governo creò subito un comitato ove erano
rappresentati i maggiori interessi nazionali; nel 1934 il regime tramite l’Iri diede
ordine agli istituti di non porsi in concorrenza reciproca. La novità vi fu dunque
nella pianificazione e statizzazione degli interventi e nel fatto che il regime
mostrò di puntare di più sulle colonie rispetto all’Italia liberale. Gli interessi
economici compresero subito questa novità e vi si impegnarono.
La Chiesa cattolica. Un altro elementi che favorì il fascismo fu il favore con cui
il mondo cattolico guardò all’azione coloniale. In particolare, durante la guerra
d’Etiopia missione imperiale fascista e missione evangelizzatrice della Chiesa si
unirono. Una tale situazione favorì la costruzione del consenso attorno alla guerra
coloniale del fascismo. Si trattò di una situazione nuova rispetto all’Italia
liberale. La Chiesa cattolica non era monolitica nelle sue politiche come nel suo
pensiero. Accanto alla Chiesa c’era poi il movimento laicale, l’Azione cattolica e
il partito cattolico, fin quando ad esso fu permesso di agire. Inoltre, al tempo
della prima guerra d’Africa il movimento cattolico era diviso fra intransigentismo
e transigentismo. Infine, il rapporto fra Stato e religioni si poneva, per ogni
colonialismo, sue due versanti diversi: quello della legittimazione in patria della
politica coloniale e quello dell’azione nei confronti dei coloni.
A differenza di altre potenze, nella sua penetrazione coloniale l’Italia non si era
avvalsa particolarmente di missionari. Né in patria aveva potuto godere
dell’appoggio della Chiesa cattolica in tutte le sue articolazioni. Proprio sul
terreno coloniale Chiesa cattolica e Stato liberale si erano avvicinati
maggiormente.
Al tempo dell’impresa di Libia, con l’avvicinarsi del Patto Gentiloni, il sostegno
si era fatto più esplicito. L’intransigentismo, dovuto alla bolla non expedit del
1870, si allontanava. Il movimento cattolico transigente, già al tempo di Crispi
ebbe un suo ruolo, e distingueva poco ormai tra “croce e scudo di Savoia”.
Formalmente Stato e Chiesa cattolica erano comunque ancora separati dalla
Questione Romana.
Nel frattempo, in colonia, le cose erano più complicate. Formalmente l’Italia
liberale garantiva libertà di fede ai suoi sudditi “indigeni”. L’atteggiamento dei
governatori era cangiante a seconda delle congiunture: In Eritrea Baratieri nel
1894 aveva espulso i lazzaristi francesi, “nazionalizzando” i missionari della
colonia; ma Martini aveva permesso l’erezione non solo di chiese bensì anche di
moschee, sinagoghe; mentre Raggi tornò ad un filocattolicesimo più rigido.
Con il fascismo le cose mutarono. Già nel 1923 il ministro Federzoni si era
lamentato che per il clero in Libia era stato fatto troppo poco. De Vecchi in
Somalia favorì la presenza cattolica. Mussolini, intanto, nel 1926, aveva
reintrodotto il clero castrense, cosa che avrebbe permesso la comparsa dei
cappellani militari in colonia.
Ma furono i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) a mutare il rapporto tra regime e
Chiesa. Nel campo coloniale, all’inizio vi furono delle esagerazioni. De Bono
pensò, in Eritrea, ad una conversione cattolica dei copti, anche se per evitare
disordini fu permessa l’azione missionaria solo nei confronti dei “Cunama”
animisti dell’Eritrea.
Fu con la guerra d’Etiopia che Chiesa e regime si trovarono assieme in un
momento decisivo per la storia del fascismo e drammatico per la pace europea.
Pio XI non era favorevole alla guerra; ma sta di fatto che poi il Papa stesso
accettò che della sua posizione fosse diffusa una versione favorevole al fascismo
(che fu questa a fare storia e a contare).
Da allora in poi nelle colonie la Chiesa ebbe un ruolo importante. Ogni regione
dell’Aoi ebbe la sua prefettura o vicariato apostolico. Anche in Libia vi furono
luoghi di culto cattolico.
Troppo poche furono le proteste di parte cattolica. Tutta questa situazione,
impensabile al tempo dell’Italia liberale facilitò la diffusione in Italia della
“coscienza coloniale” e del consenso al fascismo.

Spregiudicate ideologie. Un altro elemento che caratterizzò il regime fascista fu


il carattere spregiudicato di alcune sue mosse. Ad esempio, nel 1937 Mussolini si
fece immortalare su di un destriero bianco innalzando la “spada dell’Islam”, non
pochi si chiesero come ciò fu possibile da parte di un dittatore di un regime
reazionario e cattolico.
Il fatto di governare Eritrea, Somalia e Libia, paesi con popolazioni
prevalentemente islamiche fece descrivere da alcuni pubblicisti l’Italia liberale
come una potenza coloniale “islamica”.
Il regime riesumò e usò frequentemente tale definizione. Una serie di iniziative
sembrarono legittimarlo: l’inaugurazione della fiera del Levante (1930), l’avvio
di trasmissioni il lingua araba di Radio Bari (1934), le visite in Italia di esponenti
nazionalisti arabi e palestinesi, la c.d. tutela della religione islamica nell’impero.
La spada islamica aveva funzioni soprattutto di retorica e politica estera. In
politica estera era puntata contro la Gran Bretagna, che aveva una posizione di
rilievo nel Medio Oriente. In termini retorici, il fascismo aveva cercato di far
dimenticare la spietatezza della repressione della resistenza anticoloniale libica.
L’impiccagione del suo leader, Omar-al-Mukhtar aveva destato nel 1931 un
ondata di sdegno in tutti i movimenti nazionalisti arabi.

Anticolonialismo all’esilio? Anarchici, socialisti, comunisti, giellisti,


repubblicani, cattolici democratici e persino liberal democratici erano contrari
alle imprese coloniali del regime. L’abolizione della libertà di espressione e la
repressione dell’antifascismo avevano però ridotto drasticamente le possibilità
per gli oppositori di vivificare la coscienza civile degli italiani. È bene rimarcare
l’unicità di tale situazione nelle potenze coloniali del tempo (ad eccezione di
Portogallo e Spagna). In Francia e Gran Bretagna i circoli anticolonialisti
rappresentavano uno strumento di controllo importante. Senza contare che, a
Parigi o a Londra, partiti di sinistra o laburisti assunsero posizioni e
responsabilità di governo, maturando quindi posizioni e politiche. Tutto ciò non
avvenne in Italia, dove l’anticolonialismo difficilmente poteva farsi coscienza
consapevole. D’altra parte, le forze politiche in patria avevano poi ben altri
problemi più urgenti e immediati.
Si trattava di una situazione del tutto nuova rispetto all’Italia liberale dove
l’anticolonialismo fu presente: socialisti, cattolici, positivisti, democratici. Le
distanze ideologiche fra questa posizioni avevano impedito il coagulo. La stessa
debolezza del colonialismo italiano aveva indebolito l’anticolonialismo. Avvenne
così che spesso piuttosto che un anticolonialismo l’Italia assistette ad un
antiministerialismo in materie coloniali.
Queste debolezze si fecero sentire al tempo del fascismo. Fu certamente tra il
1935-36 che l’anticolonialismo dell’antifascismo venne in primo piano. Il
convegno di Bruxelles degli italiani all’estero (12-13 ottobre 1935) fu una delle
manifestazioni più spettacolari dell’antifascismo. Efficace nella denuncia,
l’antifascismo fu però diviso nell’analisi e nella proposta politica.
Ma la divisione dell’anticolonialismo italiano non era un fattore nuovo. La
novità, rispetto alle altre potenze coloniali e all’Italia liberale, stava nel fatto di
trovarsi in esilio. Il colonialismo fascista, rispetto a quello liberale, perseguì le
direttrici di quest’ultima, ma lo fece in un contesto nazionale e internazionale
diverso. Fra continuità e rottura, fu così questa a prevalere.

4. Fra ordinaria amministrazione e “riconquista”

Dal 1925 al 1929 la politica coloniale fascista rivolse la propria attenzione


all’interno dei possedimenti oltremare: la “riconquista della Somalia” fu
compiuta, quella della Libia portata avanti. La fase degli accordi diplomatici,
prevalentemente con la Gran Bretagna, sembrava conclusa mentre non furono
riaperte dispute con la Francia.
Nel triennio successivo anche la Libia venne “riconquistata”. Al decennio della
marcia su Roma (28 ottobre 1932) l’oltremare poté dirsi in fase di
stabilizzazione.
Nel frattempo, l’ordine internazionale stava accusando colpi. Le aspirazioni
revisionistiche nei confronti di Versailles e i tentativi di destabilizzazione della
Società delle Nazioni avevano logorato quello e questa. Fra il 1928-32 Stati Uniti
e potenze europee fecero ancora la prova della sicurezza collettiva, dal Patto
Briand-Kellogg (27 agosto 1928) al piano Young (11 febbraio 1929) sino alla
Conferenza di Losanna sulla cancellazione dei debiti tedeschi per il risarcimento
delle spese di guerra, mentre proseguivano le conferenza per il disarmo (Londra
1930, Ginevra 1932-34) senza grandi risultati. Ma la destabilizzazione continuò
ad essere forte.
La Grande crisi economica (1929), che destrutturò l’economia statunitense e
quelle europee. Nel frattempo, a livello politico, alcuni eventi irrompevano nelle
opinioni pubbliche: il fallimento delle Conferenze per il disarmo e l’avanzata in
Germania del nazismo (elezioni 1930: secondo partito; elezioni 1932: partito
maggioranza relativa; 1933: incarico di governo a Hitler). Intanto, dopo
l’incidente di Mukden (18 settembre 1931) il Giappone occupò la Manciuria
senza che la Società delle Nazioni potesse riuscire a applicare le sanzioni previste
dallo statuto.
In questa situazione lo spazio per l’Italia fascista aumentò. La politica estera del
regime aveva operato un continuo logoramento della Società delle Nazioni.

Aspirazioni fasciste. Dopo il 1925, divenne esplicito il ruolo che l’Oltremare


avrebbe avuto nel panorama fascista. Mussolini visitò Tripoli nel 1926 (la prima
volta nella storia dell’Italia unita). Umberto di Savoia fece altrettanto in Eritrea e
Somalia (1928); Vittorio Emanuele III in Tripolitania (1928), Eritrea (1932),
Cirenaica (1933), Somalia (1934).
Inoltre, il fascismo inviò come governatori personaggi di rilievo: dopo De Vecchi
in Somalia, fu la volta di De Bono in Tripolitania, di Badoglio in Libia. Infine, lo
stesso Mussolini assunse personalmente il Ministero delle Colonie (1928-1929).
Segnale della maggiore presenza di Mussolini nel meccanismo decisionale della
politica coloniale.
In secondo luogo, questo meccanismo si era fatto più complesso. Le Colonie
erano un ministero forte e autonomo, mentre gli Esteri mantenevano competenze
nelle relazioni diplomatiche internazionali. In più, Mussolini incoraggiò che le
Colonie rispondessero direttamente a lui a causa della presenza in loco di
personaggi di rilievo.
In terzo luogo, le aspirazioni coloniali del regime non erano soddisfatte.
L’obiettivo segreto era “espandersi nel Nord Africa, penetrare nel Sud Sahara,
ottenere il Camerun, giungere al golfo di Guinea”. Molte mire erano solo
sognate, ma sogni di questo tipo, assieme ai minacciosi discorsi del duce
logorarono l’ordine internazionale. E questo in un momento in cui esso subiva
colpi decisivi, non dovrebbe essere sottovalutato. Assieme ad aspirazioni
coloniali così provocatorie, ci fu il ricorso alla maniera forte. Negli anni in cui le
altre potenze valorizzavano, l’Italia fascista condusse operazioni militari

Nella lontana Somalia. De Vecchi, dopo aver rafforzato militarmente le retrovie


della colonia, continuò con il disarmo delle popolazioni e la “riconquista”
dell’interno della Somalia.
Le operazioni partirono con l’attacco al sultanato di Obbia (1° ottobre 1925). Fu
poi la volta di Nogal (aprile 1926): ma la Migiurtinia era già in fiamme, gli
“indigeni” attaccavano alle porte di Mogadiscio e i Bimal erano sul piede di
guerra. La reazione del governatore fu implacabile e coinvolse anche i civili.
Imposto l’ordine da un lato, fu la volta della Migiurtinia (gennaio-febbraio 1927).
Il 6 novembre 1927 De Vecchi dichiarava la “pax coloniale”. La “riconquista”
del nord e dell’interno era però solo un aspetto del programma di De Vecchi. Il
suo orientamento antietiopico fu evidente nella vicenda del raid su Gorrahei. In
seguito, disseminò fortificazioni campali lungo una linea di confine disegnata in
senso favorevole agli italiani. Tuttavia, Roma sconsigliò di rimanere in questa
nuova posizione e De Vecchi trasformò i presidi fissi in truppe “indigene” che li
tenevano a intermittenza.
Ma il fascismo ebbe problemi di bilancio e fu costretto a disarmare la Somalia.
Corni, successore di De Vecchi, dovette occuparsi più di questioni economiche:
cattivi raccolti e la crisi del 1929, avevano messo in difficoltà i concessionari di
Genale e nacque qualche frizione fra il governatore e il locale federale fascista.
Ciononostante, il programma di destabilizzazione antietiopico andava avanti: nel
1930 i presidi a intermittenza divennero stabili.
Rava, successore di Corni, cumulò le funzioni di governatore con quelle di
federale per risolvere le frizioni. Anche Rava dovette occuparsi di economia,
poiché ora anche il Sais aveva difficoltà. Dovette annotare anche che la politica
di destabilizzazione perseguita dai suoi predecessori cominciava a dare i suoi
frutti: da Harrar una spedizione scese nell’Ogaden nella regione contesa con la
Somalia per riscuoterne tributi, rinsaldare i rapporti con le popolazioni nomadi, e
lasciare presidi militari (maggio 1931). Era il segno che Addis Abeba era
allarmata.

La “riconquista” della Libia. Il taglio col passato fu più reciso in Libia, in


particolare in Cirenaica.
Sulla Quarta sponda la politica degli accordi era stata ormai sepolta di fatto. Lo
fu anche formalmente con la legge di riordinamento del 30 giugno 1927. Ad essa
seguirono alcune attese modifiche istituzionali: nel dicembre 1928 Tripolitania e
Cirenaica furono unite sotto un unico governatore, il maresciallo Badoglio. Più
tardi, dopo un anno di amministrazione di Italo Balbo, le due colonie sarebbero
state unificate in una unica con denominazione ufficiale di Libia e sottoposte ad
un “governatore generale”, appunto Balbo. (Legge 3 dicembre 1934).
I segni di assestamento non devono ingannare. Nella seconda metà degli anni
Venti in Cirenaica, gli italiani erano ancora praticamente fuori dal Gebel. Ehi.
Alla Tripolitania settentrionale già “pacificata”, mancava la “riconquista” del
sud: questo fu il primo obiettivo. Un piano militare di riconquista preparato da
De Bono venne bocciato da Badoglio (ottobre 1925). Passò qualche tempo ma
alla fine un piano che accordasse le necessità propagandistiche dei governatori
coloniali, le esigenze tecniche dei militari e i margini di bilancio fu trovato. Fu
solo allora che poté partire la missione diretta al 29° parallelo. Grazie ad essa
sarebbe stata assicurata al controllo italiano la linea delle oasi meridionali da
Socna a Zella.
Più complessa e sanguinosa si presentava alla riconquista della Cirenaica. Qui i
problemi non erano dovuti solo alla difficoltà tecnica, al carattere desertico dei
luoghi, alla lontananza dalla costa. La Senussia, pur indebolita era ancora in
piedi. Il governo fascista procedette gradualmente anche sperimentando nuove
tecniche militari. Dapprima, in seguito agli accordi italo-egiziani (-britannici), fu
occupata l’oasi di Giaraub (7 febbraio 1926). Seguì una serie di rastrellamenti sul
Gebel. Ma il costrutto fu scarso. L’obiettivo si spostò quindi su Agebadia
(gennaio-febbraio 1927), ma gli italiani subirono lo smacco di er-Raheiba. Si
tornò a rastrellare il Gebel sino ad el-Aghelia (29 settembre 1927). Fu a questo
punto che la resistenza anticoloniale senussa mostrò segni di divisione. Peraltro,
anche gli italiani, per ragioni di bilancio, dovettero ridurre l'impegno militare.
Insomma, mentre erano partite le operazioni per il 29° parallelo, in Cirenaica gli
italiani non avevano ancora sconfitto la resistenza. Si continuò a ripetere i
rastrellamenti su Gebel (giugno-luglio 1928). Ma i risultati utili parevano arrivare
solo quando all'azione militare si affiancava la divisione del fronte della
resistenza anticoloniale con la resa o il tradimento di alcuni capi, come a Cufra
(19-29 gennaio 1929).
Fu in questa situazione di difficoltà reciproche che Mussolini, insoddisfatto, invio
a Tripoli il generale Badoglio (28 dicembre 1929). Per quanto i rapporti del
governatore col suo ministro, De Bono, furono in tesi, il generale adottò una
spietata strategia.
Dapprima mirò a usare la maniera forte in Tripolitania, con obiettivo il Fezzan, e
a mostrarsi conciliante in Cirenaica. Dopo alcuni scontri nella Ghibla (aprile-
giugno 1929), mosse le truppe verso il Fezzan (novembre 1929- marzo 1930)
consegnandoli al dominio italiano. A Bengasi adottò un altro metodo. Dal punto
di vista tecnico abolì i rastrellamenti e preferì una guerra di controguerriglia con
reparti più snelli, in massima parte carrati, con il supporto dell’aeronautica per
colpi rapidi e incisivi. Dal punto di vista politico tentò la via della conciliazione
per prendere tempo e sperare in uno sgretolamento della Senussia. Il negoziato fu
prima indiretto (aprile-maggio 1929) e poi diretto: Badoglio ottenne dal leader
della resistenza Omar al-Mukhtar una tregua che presentò a Roma come una
pacificazione. Le operazioni italiane ripresero (8 novembre 1929), Mussolini e
De Bono sostituirono il vicegovernatore di Bengasi con Rodolfo Graziani (13
marzo 1930).
La lotta divenne più aspra. Badoglio, sicuro dalla parte della Tripolitania, puntò
sulla Cirenaica. Le prime mosse di Graziani furono: inasprimento del disarmo
delle popolazioni, esproprio dei beni di 48 delle 49 zavie senusse, operazioni
militari più snelle, avvio di un “raggruppamento coatto” delle popolazioni del
Gebel sulla costa. Badoglio criticò Graziani chiedendo un “distacco territoriale”
fra le popolazioni del Gebel e la resistenza per chiudere essa in uno “spazio
ristretto”. Graziani avviò lo spostamento delle popolazioni dal Gebel alla costa,
per internarle in campi di concentramento (giugno 1930-aprile 1931). Intanto
venivano ripresi i combattimenti (nei quali l’aeronautica fece ricorso anche ad
iprite) sino all’occupazione della città di Cufra (19 gennaio 1931). Graziani poi
fece stendere un reticolato al confine con l’Egitto dotandolo di presidi fissi al fine
di eliminare gli sconfinamenti della resistenza (aprile-settembre 1931).
Il risultato fu drammatico per i cirenaici. Sedentarizzate e confinate nei campi, le
popolazioni persero la libertà, vennero stravolte nella loro economia basata sugli
spostamenti del bestiame, furono costretti a mutare stile di vita e cultura e, poiché
le condizioni nei campi erano durissime, molti persero la vita. È difficile fare
calcoli ma probabilmente la popolazione della cirenaica si ridusse di più di un
quarto. Se poco meno di duecentomila erano gli abitanti al 1911, la metà dei
quali venne sottoposta alla deportazione nei campi, e circa ventimila furono gli
esiliati, di circa quarantamila si persero le tracce in pochi anni di vita nei campi.
Fu un genocidio.
In questa situazione si riuscì ad arrestare il capo della resistenza Omar al-
Mukhtar (11 settembre 1931) il quale venne poi impiccato cinque giorni dopo in
un campo di concentramento del Gebel, a Solluch. Entro dicembre la Libia fu,
tutto sommato, riconquistata e pacificata.
Solo nell’estate del 1932 si iniziò a sciogliere i campi di concentramento. Le
popolazioni furono ricondotte in territori diversi da quelli di provenienza.
Quando tutto ciò fu consolidato e Badoglio e Graziani osannati, Mussolini
nominò Balbo governatore.

Evoluzioni della politica verso l’Etiopia. Sull’Eritrea regnò sino al giugno 1928
il governatore Gasparini, interessato alle piantagioni del Tessenei, e alla
prosecuzione di una politica di osservazione, e se possibile, di divisione dei capi
etiopici confinanti. In questo suo attivismo “periferico”, Gasparini sviluppò
anche una personale politica di presenza nelle vicende al di là del Mar Rosso.
Entrato in contatto con il sovrano yemenita in cerca di appoggi per svincolarsi
dai britannici, Gasparini promise sostegni. L’operazione trovò a Roma alterna
accoglienza. Non dispiaceva alle Colonie e poteva servire tatticamente agli
Esteri. Grazie a Gasparini l’Italia strinse comunque un accordo con Jahià, imam
dello Yemen (2 settembre 1926): ma avendo toccato cose più grandi di lui venne
fermato da una intesa italo-britannica (7 febbraio 1927) e infine dalle Colonie
stesse che lo rimpiazzarono con Corrado Zoli (1°giugno 1928). Zoli, tuttavia, dal
punto di vista politico continuò con l’orientamento antibritannico e yemenita,
egli fece addirittura occupare gli scogli delle isole Hanish. Ma nel frattempo la
funzione dell’Eritrea stava cambiando.
Per quanto riguarda la politica verso l’Etiopia, dopo l’incidente sorto fra 1925-26
con l’intesa italo-britannica, il fascismo si trovava di fronte alla scelta fra politica
di collaborazione e politica di sovversione, la quale ultima di divideva in una
politica centrale (cioè di rapporto fra le colonie italiane e Addis Abeba) e una
politica periferica (di disgregazione dell’unità etiopica tramite l’utilizzazione
delle rivalità tradizionali dei capi dell’impero del negus). Dopo il fallimento del
tentativo esperito via Londra, Roma scelse la strada dell’accordo diretto con
Addis Abeba. Grazie a questa scelta si arrivò il 2 agosto 1928 a due accordi
(politico e commerciale). In particolare, all’Etiopia veniva garantito un accesso al
mare e una zona franca ad Assab, nonché delle armi, e all’Italia una strada
camionale di penetrazione nel cuore dell’Etiopia, appunto da Assab a Dessié.
Questo accordò però non mirava alla pace ma solo a tacitare le accuse rivolte a
Roma in seguito al dicembre 1925 e a combattere l’influenza francese. Non era
dunque sincero. Ma anche da parte etiopica si cercava di tenere lontana l’Italia
dal progetto di modernizzazione dell’impero. Nel frattempo, il potere di ras
Tafari era cresciuto ora che era stato incoronato (2 novembre 1930) negus
d’Etiopia assumendo il nome di Hailé Selassiè I.
L’accordo del 1928 non aveva risolto alcun problema: Roma insisteva con le
politiche periferiche. Intanto, dall’ Eritrea si faceva occupare e militarizzare la
Dancalia, e il paese dei Cunama (dicembre 1928-marzo 1929). Dalla Somalia si
facevano infiltrare in territorio etiopico emissari che avrebbero dovuto sobillare i
capi dell’Ogaden. Ogni mezzo fu utilizzato dal regime: ormai a Roma si era del
tutto favorevoli alla politica di “disgregazione” verso l’Etiopia (promemoria
Guariglia, 27 agosto 1932). Fu in questo quadro che vennero formulate le nuove
istruzioni al nuovo ambasciatore italiano presso il negus (gennaio 1933), in più
qualche mese prima, il Ministro delle Colonie De Bono era passato alla
convinzione della necessità dell’espansione e chiese la formulazione di un piano
militare (novembre 1932).
Mentre le altre potenze europee pensavano al consolidamento dei propri
possedimenti, al loro sfruttamento e ai problemi legati alla crisi del 1929 il
colonialismo fascista tornava a mettere in campo i militari.
Dunque, quella che avrebbe dovuto essere ordinaria amministrazione e
pacificazione si risolse in preparazione alla guerra, l’ultima guerra di aggressione
coloniale.

5. Una colonia bianca: Rodi e il Dodecaneso italiano

Agli inizi degli anni Trenta, ormai da un ventennio l’Italia era insediata di fronte
alla Turchia. Il suo Dodecaneso, che erano in realtà quattordici isole delle
Sporadi meridionali (c.d. “Isole italiane dell’Egeo) con la fine della guerra
d’Etiopia – che il regime si avviava a preparare – la loro funzione sarebbe
mutata.
L’isola maggiore era Rodi, di soli 1400 km2, seguita da Scarpanto e Coo,
rispettivamente intorno ai 300 km2. Prima della Grande Guerra avevano più o
meno 150.000 abitanti, scesi dopo la Seconda guerra mondiale a 115.000. La loro
conquista si era svolta fra il 26 aprile e il 16 maggio 1912 (presa di Rodi). Essa
doveva avere nelle intenzioni di Giolitti, degli Esteri e dei militari due funzioni.
Tatticamente doveva intimidire Costantinopoli, sollecitandola ad avere una pace
con Roma. Strategicamente mirava a piazzare armata l’Italia dinanzi all’Impero
ottomano. La conquista del Dodecaneso era un capitolo dell’imperialismo
italiano verso i Balcani, l’Anatolia, il Medio Oriente. Tuttavia, la funzione tattica
non fu decisiva e quella strategica limitata dallo scatenamento della Prima guerra
mondiale. Da trampolino dell’imperialismo italiano il Dodecaneso venne isolato,
in un Egeo e verso un Medio Oriente nei quali il ruolo concreto dell’Italia del
dopoguerra e degli anni Venti era stato ridotto al minimo. L’importanza del
Dodecaneso per l’Italia fu sempre circoscritta, non diede mai problemi al
governo e al posto di essere chiamata colonia, poiché abitata da bianchi, venne
denominata possedimento. Un’altra questione era quella della cittadinanza: a quel
cittadinanza avevano diritto? Non li si poteva equiparare agli eritrei o i somali.
Neppure professavano la religione musulmana come i libici.
Una soluzione finale arrivò con il fascismo. Si diede avvio ad un processo di
italianizzazione. La retorica dell’Italia liberale prima e, ancor più intensamente,
del fascismo mirò a enfatizzare la presenza “italiana” sulle isole: l’antica
presenza veneziana ecc. avviando anche, già dal 1914, missioni archeologiche
come strumento di italianizzazione.
La politica di assimilazione operò anche nei confronti delle popolazioni. A partire
dal 1912 irredentisti furono intimiditi e incarcerati. Antiche istituzioni locali
vennero soppresse. L’Italia liberale non faceva grandi investimenti sull’isola.
Coloro che avevano considerato l’occupazione italiana migliore di quella turca si
ricredettero. Nel 1919 una “pasqua di sangue” incrinò molte speranze che Roma
fosse disponibile a concedere un’autonomia o il ricongiungimento con la Grecia.
Assegnando definitivamente il Dodecaneso all’Italia, il Trattato di Losanna (6
agosto 1923) chiuse ogni discussione.
Pur non essendo formalmente una colonia, i tratti della presenza italiana furono
coloniali. Ad esempio, l’ampio potere lasciato al governatore Mario Lago (1924-
36). L’economia dell’area fu lentamente presa in mano dagli italiani,
monopolizzando il commercio dei prodotti della terra e della pesca. Molte delle
maggiori proprietà passarono in mano italiana. Le antiche istituzioni locali
furono svuotate dei loro poteri.
La politica fascista mirò anche a fare del Dodecaneso una “vetrina” italiana verso
il Levante. Furono quindi intraprese opere pubbliche che sopperirono alle
esigenze locali. L’impegno per queste opere aumentò il costo che Roma era
disposta a pagare per questo possedimento. Più tardi il regime pensò alla carta
turistica: Il Palazzo del gran maestro, intrapreso nel 1933 e terminato nel 1939,
rappresentava questa politica.
Tutto ciò venne ereditato ed esasperato dal successore di Lago, il quadrunviro De
Vecchi. Il fatto era che, dopo la guerra d’Etiopia e la crisi nelle relazioni italo-
britanniche, con la conseguente minaccia marittima nel Mediterraneo orientale, il
Dodecaneso acquistò agli occhi del regime un’altra importante funzione. Dopo il
1935-36, Roma rafforzò il carattere militare del possedimento come base di
Marina e per la guerra mediterranea. La politica di De Vecchi di repressione del
dissenso e di rapida fascistizzazione alimentò il dissenso e persino una resistenza.
Finì che né nella preparazione della guerra né in guerra le isole italiane nell’Egeo
svolsero un ruolo decisivo. Il Mediterraneo orientale rimase un lago britannico.
L’insuccesso dell’autunno 1940, con il disastro dell’invasione fascista della
Grecia, moltiplicò le difficoltà di Rodi. Quando le isole italiane del Dodecaneso
furono perse (nel luglio 1943 il regime crollò) pochi italiani prestarono
attenzione a questa perdita.

6. L’aggressione all’Etiopia

Il decennale della marcia su Roma, nell’ ottobre 1932, avvolse il fascismo di


un’atmosfera romano-imperiale. L’ opinione pubblica internazionale ne tenne
conto incuriosita e allarmata. In pochi mesi però i pericoli alla stabilità
internazionale, oltre che dall’Italia fascista, sarebbero venuti dall’ascesa di Hitler
in Germania. Di questo dovette tenere conto anche Mussolini. In breve, la forza
dell’economia tedesca, il programma di riarmo e le aspirazioni di politica estera
tedesche si incrociarono con le aspirazioni del fascismo italiano. Subito per
l’Austria, in prospettiva per i Balcani, Germania e Italia avrebbero avuto
momenti d’attrito.
In questo contesto Mussolini ebbe bisogno di un grande successo in politica
estera per diversi motivi: all’interno per confermare politicamente che i suoi
discorsi sull’avvenire imperiale erano seri e per risollevare l’economia dopo il
1929; all’estero per confermare l’Italia come grande potenza. Doveva essere un
successo grande e veloce e la guerra doveva essere breve per evitare che la
Società delle Nazioni intervenisse. Doveva quindi essere un avversario debole e
l’Etiopia era l’ideale.

La preparazione diplomatica: contro l’Etiopia e contro Versailles. Sin dalle sue


origini il movimento fascista aveva reclamato la necessità di revisione di
Versailles. La Germania l’avrebbe praticata prima ancora di reclamarla.
Mussolini, per evitare di essere scavalcato, tentò la carta di una revisione
concordata di Versailles e della Società delle Nazioni attraverso la forma del
direttorio delle grandi potenze (di cui l’Italia doveva far parte). Questa fu la
politica italiana dal Patto a quattro (7 giugno 1933) alla Conferenza di Stresa (11-
14 aprile 1935). La preparazione diplomatica italiana della guerra del 1935-36 fu
legata a questo quadro. Se voleva andare in Etiopia Mussolini doveva ottenere un
lasciapassare dalle altre potenze. Queste le concessero, illudendosi che il
bellicismo fascista fosse il male minore rispetto a quello nazista. Si illusero
perché proprio a seguito della guerra d’Etiopia i due bellicismi di allearono.
Il primo passo dovette essere fatto verso la Francia. L’ascesa di Hitler rese Parigi
più accondiscendente con Roma. Già nel 1932 il ministro Pierre Laval avrebbe
favorito un accordo. Ma nel giugno 1933, nel Patto a quattro, la Francia non
aveva voluto includere le clausole coloniali che l’Italia chiedeva. La svolta
avvenne fra la primavera e l’autunno 1934 e venne ufficializzata da un
documento sottoscritto da Laval a Roma (7 gennaio 1935). Furono superate le
vecchie pendenze coloniali italo-francesi (garanzia italiana per il Gibuti in
cambio di un tratto desertico al confine libico-tunisino e di un isolotto nel Corno
d’Africa, e della rinuncia a molte antiche pretese sugli italiani di Tunisia). Ma,
soprattutto, Mussolini ottenne un disinteresse francese ad eventuali azioni italiane
in Etiopia. Ottenuto il via libero di Parigi, fu più facile ottenerlo anche da
Londra.
Il regime si preparava all’aggressione. Il casus belli vi era stato quando, lungo il
confine somalo-etiopico (confine labile e più volte infranto), nell’autunno 1934,
una commissione anglo-etiopica fu malamente accolta dalle parti di Ual-ual (23
novembre 1934): in territorio etiopico secondo Addis Abeba, in territorio italiano
secondo Roma perché una volta possesso del sultanato di Obbia (occupato
dall’Italia con la riconquista di De Vecchi). La stessa commissione veniva
intimidita da voli di ricognizione aerea italiana. A quel punto i due fronti si
attestarono, venendo alimentati da uomini tanto da Addis Abeba quanto da Roma.
Il 5 dicembre 1934 furono sparati i primi colpi: era l’incidente che Roma cercava.

La preparazione politico-militare. A quella data in Italia poco era materialmente


pronto per la guerra. Molto era stato però pianificato, e ripercorrere quella
pianificazione serve per capire il meccanismo decisionale della guerra
all’Etiopia, con lo spiccato ruolo personale del duce fra militari e diplomatici.
Già nel 1932 De Bono aveva chiesto la riformulazione di un piano d’attacco
all’Etiopia. Lo Stato Maggiore generale di Badoglio elevò alcune critiche
(settembre-ottobre 1933). Il punto di disaccordo stava nella previsione, quella di
De Bono, di una guerra sostanzialmente coloniale con un ristretto impegno di
truppe e mezzi, e il riconoscimento da parte di Badoglio di procedere con
prudenza. In una riunione del 31 maggio 1934 tra Mussolini, De Bono, Badoglio
e fu delineata la possibilità di un incidente di frontiera per evitare che l’Italia
fosse accusata di aggressione. Quando a Ual-ual di sparò, tutta la macchina fece
un passo in avanti e la guerra perse il suo carattere coloniale per assumere quello
di un’impegnativa guerra generale. La conferma avvenne quando, partito già De
Bono per l’Eritrea per assumere il comando della spedizione (7 gennaio 1935), fu
richiesta a Badoglio l’ennesima correzione del piano di guerra. Avendo questi
ancora avanzato riserve (6 marzo 1935), Mussolini aumentò drasticamente la
previsione di uomini e di mezzi indicata dallo stesso Badoglio (8 marzo 1935).
Inoltre, di fronte all’incertezza del ruolo bellico della Somalia, il duce vi nominò
Graziani per caratterizzarla maggiormente di “senso fascista” (marzo 1935). Con
questo Mussolini volle dimostrare almeno tre cose: che non sarebbero stati
permessi errori militari, che la campagna avrebbe dovuto essere breve e che la
guerra sarebbe stata moderna, nazionale, fascista.
Le preoccupazioni militari vertevano sul possibile atteggiamento della Gran
Bretagna: un’opposizione della Marina britannica nel Mediterraneo avrebbe
messo a rischio la sicurezza nazionale. Badoglio lo fece presente a Mussolini
(settembre 1935).
Fra coloniali e militari, emerse la figura non mediatrice, autonoma e dittatoriale
di Mussolini. Il duce volle la guerra.

Le sanzioni. Nel frattempo (dicembre 1934) l’Etiopia aveva chiesto l’intervento


della Società delle Nazioni per condannare l’Italia per Ual-ual. La richiesta fu
ripetuta (gennaio-marzo 1935) ma solo il 25 maggio venne costituita una
Commissione di arbitrato.
Londra provò la carta del compromesso bilaterale, ma Roma rifiutò. Il Consiglio
della Società delle Nazioni decise allora (1-3 agosto) di aggiornarsi ai primi
giorni di settembre, sperano in una soluzione nelle conversazioni Eden-Laval-
Aloisi, ma i risultati di queste furono rigettati da Mussolini. Ci provò poi un
Comitato dei Cinque, la cui bozza fu affossata da Mussolini (18 settembre). Fu la
volta di un Comitato dei Sedici. Ma nel frattempo la delegazione italiana lasciava
Ginevra.
Il 2 ottobre 1935 l’Italia, senza dichiarare guerra, aprì le ostilità.
Il vulnus inferto dall’Italia alla Società delle Nazioni era grave. La responsabilità
era di Mussolini. Ma anche le potenze liberali che si erano illuse che un
appeasement avesse arruolato l’Italia fra i difensori della pace di fronte alla
minaccia nazista all’ordine europeo, avevano una parte di responsabilità. Inoltre,
nel momento della crisi, i meccanismi della Società delle Nazioni si rivelarono
inefficaci.
L’Italia venne diplomaticamente denunciata dalla Società delle Nazioni per
l’aggressione all’Etiopia (6 ottobre 1935). L’assemblea la condannò (10 ottobre)
e adottò, secondo statuto, una lista di sanzioni (3 novembre). In extremis Londra
e Parigi avanzarono un'altra proposta di compromesso (Hoare-Laval) che avrebbe
smembrato l’Etiopia riconoscendo direttamente all'Italia il Tigrè, parte della
Dancalia e dell’Ogaden come colonie, Assab come sbocco di un corridoio
etiopico al mare. La proposta venne però ritirata dalla stessa Londra, dove
l'opinione pubblica sconcertata chiese ed ottenne le dimissioni del ministro
sostituito dal più energico Eden. Il regime andò avanti e la società fu umiliata ad
un ennesimo rinvio (19 dicembre 1009) a guerra iniziata da mesi.
L’effetto delle sanzioni fu blando, la Gran Bretagna non bloccò il Canale di Suez
alle navi italiane (unica misura che avrebbe arenato subito la guerra) e il conflitto
proseguì. Le sanzioni rimasero in vigore sino ad oltre la fine della guerra. Furono
abolite nell’estate del 1936. La loro inefficacia e il generale logoramento della
Società avrebbero costituito un’anticipazione della rottura dell’ordine europeo.

Le operazioni. Alla apertura delle ostilità l’Italia fascista aveva fatto affluire in
Eritrea già 110.000 militari nazionali, fra esercito e camice nere, 50.000 ascari,
4.200 mitragliatrici, 580 cannoni, 112 carri d’assalto, 35.000 quadrupedi, 3.700
automezzi, 126 aeroplani. Alla fine della guerra, nel maggio 1936 il corpo di
spedizione contava circa 330.000 militari italiani, 87.000 ascari, 100.000
lavoratori italiani militarizzati. 10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri
armati, 90.000 quadrupedi, 14.000 automezzi, 350 aerei efficienti. Sono cifre che
illustrano bene il carattere di guerra moderna, nazionale e non coloniale voluta
dal fascismo. Lo sforzo logistico per tenere in piedi una tale macchina da guerra
fu notevole. Contro un nemico non solo tecnologicamente ma persino
quantitativamente soverchiato dall’aggressore bianco (anche questo, un elemento
abbastanza inconsueto nelle guerre coloniali), le forze armate italiane
dichiararono di aver avuto meno di tremila vittime e meno di ottomila feriti.
Ai primi di ottobre del 1935 le colonie italiane del Corno d’Africa erano già state
trasformate in trampolini di lancio verso l’Etiopia. L’Eritrea, che aveva da tempo
ospitato meno di cinquemila coloni bianchi e qualche centinaio di soldati, nonché
poche migliaia di ascari, contava nel luglio 1935 più di 55.000 civili italiani,
30.000 soldati e quasi 50.000 ascari. La Somalia, dove i bianchi erano ancora
meno, nell’estate 1935 ospitava 25.000 soldati italiani e 30.000 ascari.
Contro questi preparativi l’Etiopia schierò 250.000 soldati, ma non tutti armati.
Le forze combattenti erano divise in armate agli ordini dei capi tradizionali.
Le operazioni militari della guerra fascista possono essere grosso modo divise in
tre fasi. Nella prima il comando delle forze italiane era in mano a De Bono, da
cui Mussolini si aspettava una rapida vittoria. Varcato il Mareb, gli italiani
presero Adua (6 ottobre) e Axum (14 ottobre). Già Macallè, che Mussolini
pensava di conquistare in una settimana, cadde in mano italiana soltanto il 7
novembre. La presa di Gorrahei, sul fronte somalo, il 4 novembre, con il primo
bombardamento a gas, non fu sufficiente. Mussolini allora sostituì De Bono con
Badoglio.
La seconda fase vide Badoglio intento a riorganizzare la grande macchina da
guerra. Curò la logistica, perfezionò i piani, addestrò gli uomini. Badoglio non
ebbe scrupoli a compiere un bombardamento, poi definito terroristico, su Dessié,
dove pensava fosse l’imperatore etiopico. Nel frattempo, le armate etiopiche
contrattaccarono. La risposta italiana fu il bombardamento delle retrovie, anche a
gas. La battaglia su cui la propaganda si soffermò maggiormente fu combattuta
da Graziani sul fronte somalo: la battaglia del Ganale Doria (11-15 gennaio
1936) sfociata nell’inseguimento dell’avversario sino a Neghelli (18-20 gennaio).
Alla fine della seconda fase Mussolini non aveva ancora nessun risultato militare
definitivo
La terza fase fu quella delle grandi battaglie campali vinte da Badoglio sino alla
battaglia finale e alla presa della capitale. In successione: le battaglie del Tembien
(20-21 gennaio 1936), cui seguì l’episodio del passo Uaurieru (21-23);
dell’Endertà (o dell’Amba Aradam, 12-15 febbraio 1936), in cui si fece chiaro il
carattere di guerra moderna assunto dal conflitto; la seconda del Tembien (26-27
marzo); dello Scirè (29 febbraio-3 marzo). A quella data le ultime speranze, il
negus decise di giocarle tutte nella grande battaglia campale di Mai Ceu (29-31
marzo), dove l’esercito etiopico collassò. Battute, le armate di Hailé Selassiè
furono inseguite e massacrate dall’aviazione al lago Ascianghi (3 aprile 1936).
Graziani arriverà, bombardandola, a Giggiga (15 aprile), ma sarà ad Harrar solo
l’8 maggio. Badoglio era ad Addis Abeba già dal 5 maggio e aveva proclamato la
fine delle forze armate etiopiche, della guerra e dell’Etiopia stessa. Il negus,
sconfitto, aveva lasciato la capitale dal 1° maggio verso Londra.
La guerra d’Etiopia costò all’Italia un enorme sforzo militare, logistico e
finanziario. Presto il conflitto fu celebrato dal regime come la “guerra dei sette
mesi” a rimarcarne il carattere di brevità: ma Mussolini l’avrebbe voluta più corta
e questo lo espose ad un insuccesso diplomatico. Fu aiutato dall’astensione di
Londra da interventi militari o da restrizioni al Canale di Suez. Ciò rese possibile
che il conflitto rimanesse localizzato.
Le forze armate italiane usarono i gas. Lo fecero per direttive dello stesso
Mussolini e in spregio alla Convenzione di Ginevra del 1925. I gas non furono
decisivi nelle sorti del conflitto, vennero usati perlopiù a scopo terroristico,
contro le retrovie. Le forze armate italiane bombardarono anche sulla Croce
Rossa.
La guerra fu una guerra fascista. Mussolini ne aveva impostato il carattere, i suoi
generali la condussero senza esitare a ricorrere ai mezzi bellici più brutali. Quella
del 1935-36 fu poi una guerra dove centrale fu la propaganda: De Bono e
Badoglio organizzarono un ferreo sistema di censura: pochi furono i giornalisti,
italiani e non, sul fronte etiopico.
Il Paese, il regime e la guerra d’Africa. La notizia della fine della guerra venne
comunicata in Italia il 5 maggio 1936. Un breve discorso di Mussolini dal
balcone di Palazzo Venezia annunziò che la guerra era finita e che l’Etiopia era
italiana.
Nella guerra d’Etiopia la manipolazione del fronte interno assurse ad
un’importanza eccezionale. La propaganda era stata capillare ed organizzata. Le
sanzioni verso un paese aggressore si trasformarono in un “ingiusto assedio
societario contro i diritti dell’Italia proletaria alla ricerca di un posto al sole” ciò
fomentò gli orgogli nazionalistici.
A ben vedere, il ruolo della propaganda era solo una parte del crescente
intervento dello Stato Totalitario nelle vite degli italiani negli anni Trenta. Furono
dimostrazioni evidenti quelle del 9 maggio 1936 quando Mussolini annunciò la
fondazione dell’impero. Ma la propaganda non poteva celare alcuni problemi di
fondo. Cos’era questo impero? Qual era la sua natura istituzionale? Il re sabaudo
era divenuto imperatore d'Etiopia: l'impero era solo quello di Addis Abeba? Ma
poiché l'Eritrea e la Somalia, ridisegnate nei loro confini, furono inglobate
nell'Africa orientale italiana, l'impero era sulla sola Etiopia o sull'intera Aoi? E la
Libia rimaneva una colonia? E il Dodecaneso cos'era? Ma, soprattutto, l'impero
coincideva con i territori coloniali, o era tutta l'Italia assieme ai suoi possedimenti
ad essere un impero? Ma, di nuovo, quale mai era questo impero costruito dal
fascismo? La questione potrebbe sembrare di rilevanza meramente giuridica e
istituzionale, e non invece fortemente politica come era, se non fosse che essa
precisa almeno tre aspetti importanti della guerra d’Etiopia e in generale del
colonialismo fascista.
In primo luogo, in un contesto comparato, non poté non essere «reazionario» il
fatto che l'Italia fascista costruisse un suo impero mentre le altre potenze
coloniali, di fronte alla crisi del 1929 e all'ascesa dei movimenti nazionalisti e
anticolonialisti dei popoli soggetti, comprendevano la necessità di ripensarli.
Mentre Roma accentrava i suoi possedimenti in un impero, Londra decentrava il
suo Commonwealth con lo Statuto di Westminster (11 dicembre 1931).
In secondo luogo, l'incertezza sulla natura istituzionale e politica di un impero
così tanto agognato dal fascismo, rivelò quanto strumentalmente in realtà
Mussolini guardava all'oltremare. Il duce era interessato solo ai successi di
facciata, ai risultati propagandistici e pare non comprendesse le difficoltà
necessarie per un'opera di valorizzazione e di colonizzazione. In ultimo luogo,
l'aggressione all'Etiopia perfezionò un carattere che era stato già caratteristico del
colonialismo fascista. Il ruolo che in esso ebbero le armi, i militari e la guerra fu
complessivamente superiore a quello di qualsiasi altro dominio coloniale europeo
del periodo fra le due guerre mondiali.

Il posto storico della guerra all’Etiopia. Pur essendo un capitolo decisivo della
storia dell'espansione coloniale italiana, la guerra all’Etiopia ha pure rilevanza
nella storia generale del XX secolo.
Quella guerra rappresentò il primo caso in cui un regime fascista europeo ricorse
in maniera così consistente alle armi. Dopo la fuoriuscita della Germania dalla
Società delle Nazioni, essa fu anche il caso più evidente in cui il meccanismo
varato a Versailles dimostrò di non saper reggere i colpi destabilizzatori dei
regimi fascisti. La guerra occupò inoltre un posto assai particolare nella storia del
colonialismo europeo. Fu l'ultima grande guerra di espansione coloniale, una
guerra anacronistica scatenata da un imperialismo coloniale debole ma non per
questo meno pericoloso. Fu una guerra d'aggressione coloniale condotta con i
mezzi di uno Stato totalitario contro uno Stato Africano indipendente in un'età in
cui i movimenti anticoloniali e nazionalistici dei popoli soggetti all'imperialismo
europeo avevano raggiunto ormai una certa forza e un certo radicamento: le
reazioni internazionali all'aggressione fascista non poterono quindi non essere
sensibili.
La guerra del 1935-1936 ebbe poi un suo ruolo nella storia del fascismo italiano.
Pochi mesi sarebbero passati dalla fine delle operazioni in Etiopia all'intervento
fascista e nazista nella guerra di Spagna; e pochi anni sarebbero trascorsi sino
allo scatenamento della guerra mondiale.

7. L’impero dopo il 1936 e verso la sua fine.

La guerra fu un elemento sempre presente nell’impero di Mussolini dalla sua


fondazione sino alla fine. Il regime nella costruzione dell’impero investì risorse
eccezionali.

Quale «impero»? Dopo l’abolizione delle sanzioni dovette passare qualche


tempo perché la conquista dell’Etiopia venisse riconosciuta da tutte le altre
potenze europee. La Gran Bretagna lo fece implicitamente, fra il Gentlemen’s
Agreement, il “Patto dei due imperi” e i protocolli Perth-Ciano (16 aprile 1938).
Riconoscere quell’impero fu un operazione diplomatica non priva di rischi. Nel
frattempo, il fascismo precisava le sue ambizioni mediterranee e africane.
Tunisia, Corsica, Nizza furono sempre più sotto tiro, mentre il regime dava
mostra di guardare al Medio Oriente. Parigi e Londra erano avvertite. In ambedue
le direzioni non erano molte le forze concrete che sostenevano simili propositi,
ma proprio il precedente etiopico rendeva rischioso rubricare il tutto sotto la
categoria di imperialismo retorico. I difensori della politica estera di Mussolini
sostennero, che così facendo si creavano condizioni per esercitare il peso della
politica di potenza in altri scacchieri e si rendeva appetibile un'alleanza con
l'Italia: in realtà le ambizioni mediterranee e africane declamate in maniera
roboante dal regime continuavano a logorare il tessuto internazionale.
L'occupazione dell'Albania (7 aprile 1939), «risposta» fascista alle mosse naziste
dell' Anschluss dell’Austria (11- 13 marzo 1938) e dell’ occupazione della
Cecoslovacchia (15-16 marzo 1939), non poteva non aumentare i sospetti.
Nello sfacelo verso cui stava scivolando l'ordine europeo il fatto che l'attenzione
degli antifascisti verso l'Oltremare e la politica coloniale del regime si fosse
attenuata è facilmente spiegabile. Di fronte a guerra di Spagna, Patto d'Acciaio e
scatenamento del conflitto in Europa era evidente che l'«impero» mussoliniano
apparisse una questione secondaria. L’antifascismo non se ne era però
dimenticato del tutto. Nel frattempo, in Italia, l'impero venne ad assumere
un'importanza crescente nella vita pubblica e nella propaganda del regime. A
marcare un mutamento di accento, il Ministero delle Colonie mutò la propria
definizione in quella di Ministero dell'Africa italiana (8 aprile 1937).
Il fascismo voleva abolire la concezione di « colonia» e « italianizzare»
integralmente i propri possedimenti d'Oltremare? L'aumentato ruolo della
prospettiva imperiale nel fascismo della seconda metà degli anni Trenta era
indicato anche dalla riassunzione della titolarità di quel ministero da parte di
Mussolini (Dal 21 novembre 1937 al 30 ottobre 1939).
Al contrario, rispetto agli sforzi propagandistici del regime, il favore popolare
sembrava allontanarsi dal l'oltremare. Il consenso del 1935- 36 non era più
ripetibile. In verità, ancora nell'autunno 1935, il trasporto degli italiani era
abbastanza scarso. E già con la fine del 1936 e l'inizio del 1937 quello che i
servizi informativi del Duce captavano dell'opinione pubblica italiana non
parlava più di consenso.
Intanto l'Europa, il fascismo e il suo oltremare, ora imperiale, andavano verso la
guerra.

La guerra reale in colonia. La guerra d’Etiopia non era ancora quasi finita che il
duce aveva preso a tempestare Badoglio ad Addis Abeba con le sue richieste. Il
duce ordinava: la rimozione del monumento di Menelik, di evitare sul nascere il
problema del meticciato, voleva che in breve tempo si arrivasse all’ «occupazione
integrale» dell'impero. Ma, come da accordi, Badoglio tornò in Italia e a viceré
d’Etiopia e governatore generale della Aoi rimase Rodolfo Graziani.
La questione del controllo del territorio fu la priorità di Graziani. Fino ai primi
del 1937 la sua politica mirò a battere i grandi dignitari del vecchio impero del
negus ancora presenti in Etiopia ma non sottomessi, anzi a capo di formazioni
ancora armate. Per arrivare quanto prima alla direttiva politica di Mussolini del
«occupazione integrale» del territorio, Graziani si adoperò con determinazione e
violenza. Rallentò la smilitarizzazione dell'eccezionale corpo di operazioni del
tempo di guerra. Rinforzò la difesa della capitale. Avviò una politica tendente a
reprimere l'etnia ahmara, dominante con il negus. Tolse potere ai capi tradizionali
privandoli dei loro poteri e sostituendoli con una fitta rete di amministratori e
residenti italiani. Ma soprattutto, dopo due violenti attacchi della resistenza sin
dentro Addis Abeba, lanciò quelle che il regime definì « grandi operazioni di
polizia coloniale». Graziani dette la caccia alle formazioni di resistenza ed ebbe
carta bianca: contro le popolazioni fu condotto ogni genere di guerra irregolare. A
seguito di questa pressione i più noti ras furono eliminati e le formazioni
disarmate. Graziani si illuse di vedere la pacificazione. Il 19 febbraio 1937 una
manifestazione pubblica ad Addis Abeba avrebbe dovuto solennizzare la nascita
del primogenito del principe Umberto. Nel corso della manifestazione il palco di
Graziani venne attaccato con delle bombe a mano lanciate da due eritrei,
oppositori antitaliani.
La reazione del fascismo ad Addis Abeba fu di una durezza impensabile. Dal 19
al 21 febbraio bande di fascisti circolarono per la capitale seminando il terrore. A
luglio, dopo questa durissima repressione, Graziani poté pensare di aver riportato
all'ordine il suo impero. In effetti la prima forma di resistenza era stata stroncata.
Ma l’Etiopia era ancora lungi dall'essere pacificata. Anzi una nuova resistenza
stava nascendo, organizzata in formazioni più snelle e più mobili, guidate da capi
cresciuti nel corso dei combattimenti. Nel novembre Graziani seppe da Mussolini
che sarebbe stato sostituito. A prendere il suo posto sarebbe arrivato il duca
Amedeo di Savoia Aosta. Graziani provo a rimanere, ma Amedeo fu fermo nel
rifiuto (26 dicembre 1937, 1° gennaio 1938) decidendo di inaugurare una nuova
fase.

La guerra rinviata. È stato suggerito che sarebbe possibile scandire per anni la
vita dell'impero italiano: il 1935 e il 1936 sarebbero stati gli anni delle conquiste
e delle grandi battaglie, il 1937 quello dei massacri, il 1938 quello della
continuata ribellione, il 1939 un anno di transizione, il 1940 quello della
preparazione della fine e il 1941 quello appunto della fine. Si tratta di una
schematizzazione eccessiva che dà però l’idea della non totale discontinuità nel
passaggio di reame.
Il nuovo viceré sapeva che non avrebbe potuto continuare la politica di
repressione violenta di Graziani. Inoltre, l’economia non girava come la
propaganda del regime sosteneva, nell’insoddisfazione generale di colonizzati e
colonizzatori. Comunque, almeno per il 1937, l’Italia non abbandonò
economicamente l’impero, anzi le risorse dirottatevi furono eccezionali se
paragonate al loro magro rendimento.
Ci fu una svolta anche nella «politica indigena». Alle fucilazioni sommarie si
sostituirono i processi. Inoltre, si cercò di ridare competenze ai capi locali,
valorizzando quelli disposti a sottomettersi al dominio italiano.
Dove Amedeo non poté opporsi fu sulla legislazione razziale voluta da
Mussolini. Con quella legislazione il fascismo, di fatto, aveva dichiarato un’altra
guerra – questa volta etnica.
Il nuovo viceré dovette scontrarsi con alcuni poteri e personaggi forti. Lo fece
con Graziani. Lo fece con il suo subordinato Enrico Cerulli, vicegovernatore
generale e governatore della Scioa, per questioni di linea politica. Lo fece con il
suo comandante alle truppe Ugo Cavallero dopo un infruttuoso anno di
operazioni antiresistenza.
Ma la guerra rinviata con cui l’impero di Amedeo dovette convivere non fu solo
quella interna. Per via delle minacciose aspirazioni del regime, già a fine estate
1938, vennero rinnovati da Khartoum i piani britannici di conquista dell’Etiopia.
Nel giugno 1939 avevano luogo incontri di Stato Maggiore anglo-francesi a
Aden, anche dalla parte del Kenya britannico si progettavano piani. In questa
guerra rinviata, l'oltremare italiano del Corno d'Africa sarebbe stato lasciato solo.
In sintesi, la politica varata dal Duce, a pochi mesi dalla conquista, era:« l'impero
farà da solo». Ma poiché l’ Aoi poteva essere alimentato solo passando dal
Canale di Suez e poiché attorno all'impero stavano Sudan, Kenya, Somaliland e
Aden, mentre India e Sudafrica non erano lontani (tutti domini britannici), quel
far da soli significava un abbandono. A giugno 1939 Amedeo aveva esposto a
Mussolini un piano delle risorse necessarie per la difesa e l'autosufficienza
dell'impero, quantificandolo in 4,8 miliardi: gliene furono assegnati 0,9 (legge 18
maggio 1940). Nel frattempo, vista la freddezza dei colonizzati, di «Armata
nera» non era possibile parlare.
Poiché la guerra rinviata, stavo arrivando, era tempo di fare piani militari. E si
traducevano la condanna strategica del « far da soli»: questo mentre ancora
investitori e coloni si affannavano a colonizzare l'impero e mentre la propaganda
diffondeva immagini tranquillizzanti. Il concetto di fondo era quello della difesa
statica ai confini. Fra Addis Abeba e Roma furono fatti studi per una
sopravvivenza di dodici mesi che prevedesse però anche offensive su Gibuti e
verso il Sudan, a scopo di alleggerimento di eventuali offensive e britanniche. Sia
Mussolini sia Badoglio sia Amedeo erano consapevoli della gravità della
situazione strategica. Sulla carta gli uomini non erano pochi (90.000 italiani e
forse 200.000 Ascari) ma era lecito interrogarsi sulla preparazione di queste forze
che da tempo combattevano una guerra interna contro bande etiopiche. Una
guerra contro un avversario attrezzato e moderno come le forze armate
britanniche avrebbe disegnato un diverso scenario.
In tale situazione lanciarsi come fu fatto nel 1940-41 Ehi verso Gibuti, verso il
Somaliland e verso il Sudan, significò abbreviare la stessa sopravvivenza che
tutti i responsabili sapevano limitata.

La guerra minacciata. In un contesto dai tratti diversi, anche sulla Libia


incombeva la guerra. Qui era la stessa Italia fascista a minacciarla. Anche nel
caso libico, la guerra finì per aleggiare proprio durante il periodo di maggiore
colonizzazione demografica.
In tale prospettiva, si spiegano meglio le contraddizioni del governatorato Balbo.
Questi governava la Quarta sponda dal 1934. Era arrivato dopo un periodo di
tormenta e dopo Graziani (come Amedeo di Savoia). Ma Balbo intendeva
svolgere un ruolo politico dentro al regime. Intanto il governatorato Balbo si
caratterizzò per una maggiore apertura. Balbo spinse perché le regioni
settentrionali della Libia fossero dichiarate parte integrante del territorio
nazionale (9 gennaio 1939). A questo scopo, Balbo sembrò fare di tutto: chiude i
campi di concentramento e apre le scuole, parla di collaborazione e rinvia la
legislazione razziale, costruisce chiese e moschee, inaugura una strada litoranea
di quasi 2000 km dalla Tunisia all'Egitto. Fu anche fortunato, perché il suo
periodo di governatorato coincise con gli accordi diplomatici italo-francesi che
ponevano fine senza dover ricorrere alle armi ad un contenzioso confinario
trascinatosi per decenni. Dietro questa serie di iniziative stava però la guerra,
aspetto questo troppo sottaciuto.
Sin dal 1935-36, durante la guerra d'Etiopia, Londra aveva temuto che Roma
cogliesse l'occasione per un colpo all'Egitto. In effetti, Mussolini per difendere
Tripoli e Bengasi e per intimidire Il Cairo aveva rafforzato la difesa libica. Nel
gennaio 1937 la Commissione suprema di difesa adottò importanti decisioni:
stabile rafforzamento della militarizzazione della Libia, con assegnazione di
ventimila uomini in più; fortificazione a difesa verso il confine tunisino;
predisposizione alla creazione di un Comando forze armate africa settentrionale.
Alla fine del 1937, stavano in Libia 60.000 militari. Nel gennaio 1938, la
Commissione suprema di difesa decise che, in caso di guerra, si sarebbero
mandate in Libia altre quattro divisioni.
In tale quadro, è comprensibile l’interesse che Balbo continuò a portare verso la
Libia. Di certo il governatore si illuse che, in previsione di azioni così importanti,
avrebbe avuto armi e truppe moderne. In realtà lo Stato Maggiore italiano
avrebbe sottovaluto sempre lo scacchiere nordafricano. Ma Balbo, invece di
mezzi moderni per un conflitto moderno ricevette uomini (nel giugno 1940 ne
avrebbe avuti a disposizione 200.000). Balbo insistette fino all'ultimo per poter
avere truppe, mezzi e carta bianca per un'offensiva. Ma il 28 giugno 1940, mentre
era in volo nei cieli di Tobruk, venne colpito per errore dalla contraerea italiana.

Una guerra che torna. Con l'invasione nazista della Polonia (1° settembre 1939)
o con la dichiarazione di guerra dell'Italia fascista (10 giugno 1940) la guerra
prese il proscenio, cacciando le vicende coloniali dietro le quinte.
In Africa orientale le forze armate italiane ebbero l'ordine di controllare l'ordine
coloniale interno e di effettuare alcune offensive dal valore politico più che
militare. Andarono a Cassala e Gallabat (4 luglio 1940) e poiché il nodo di Gibuti
si era sciolto da sé (per via del crollo francese) presero la via del Somaliland sia
pur faticando più del previsto (3-19 agosto 1940). Subirono dapprincipio alcuni
contrattacchi locali britannici, cui fecero fronte, insediandosi appunto nella
Somalia britannica. Ma la situazione strategica non era migliorata: per fare solo
un esempio, fra gennaio e febbraio 1941, l’ Aoi fu isolata e senza collegamento
postale con la madrepatria. Poi riprese la resistenza anticoloniale etiopica,
collegandosi con i vicini reparti britannici.
Fu in tale quadro che si sviluppò l'offensiva britannica nel Corno d'africa. La
prima colonia ad essere attaccata fu la Libia. Incalzate, le forze italiane si
ritirarono da Cassala (15 gennaio 1941) sino ad Agordat e a Cheren dove si
combatté seriamente (3 febbraio-27 marzo). Caduta Cheren, caddero anche
Asmara (1°aprile), Adigrat (3 aprile), Massaua (8 aprile).
Nel frattempo, l’attacco era portato alla Somalia: l’Oltregiuba fu ripreso dalle
forze del Commonwealth (22-24 gennaio 1941) e Mogadiscio cadde due giorni
dopo.
Con lo sbarco a Berbera (16 marzo) venne la volta dell’Etiopia. Dopo Dessié (6
aprile), Addis Abeba fu presa il 5 maggio 1941. L’impero era stato preso e il
governo passato alla Occupied Enemy Territory Administration, mentre Hailé
Selassiè era tornato.
In Africa settentrionale la vicenda fu tanto più complessa, quanto più importante
e decisivo lo scacchiere. In un primo momento, in questo scacchiere, il duce
aveva optato per la difensiva. Poi si era deciso ad attaccare. Ma, morto Balbo e
sostituitolo con Graziani, questi – resosi conto delle imperfezioni del
meccanismo bellico – esitò. Mussolini scese addirittura in Libia (dal 29 giugno al
20 luglio 1942) sperando che i suoi comandanti militari gli dessero una vittoria,
ma dovette tornare a Roma a mani vuote. Pressate dall’avanzata britannica, senza
una difesa aerea e contraerea, le forze italo-tedesche abbandonarono la Libia.

Le prigionie e il ritorno dei coloni. Perso il controllo politico ed economico del


territorio, rimanevano gli uomini. Di loro il regime si occupò poco e tardi. Il
numero più grande era quello dei soldati, che dopo la sconfitta erano diventati
prigionieri. I primissimi erano stati presi nel 1940 nell’iniziale avanzata
britannica verso la Libia, nel 1941 caddero praticamente tutti i combattenti
dell’Africa orientale, fra il 1941 e 1943 ad ondate, fu la volta dei militari in
Africa settentrionale. Dopo l’8 settembre 1943, i prigionieri in mano britannica
erano almeno 316.000 e questi tornarono in patria spesso tardi (alcuni persino nel
1947).
Se i soldati pagarono cara la loro missione di difesa dell’impero, per i coloni
andò solo un poco meglio. Al momento dello scoppio della guerra in Europa,
molti fra i coloni dell’ oltremare decisero che era giunto il momento di
rimpatriare. La situazione era diversa fra la Libia e il C orno d’Africa. In
ambedue però alcune migliaia di uomini e donne scelsero di rimanere
all’oltremare.
La situazione più difficile fu quella dell’Aoi. Qui voci propagandistiche fatte
circolare dagli inglesi avevano affermato che Londra avrebbe volentieri pagato
per lo sgombero delle colonie italiane dai suoi coloni, se il fascismo non ci
avesse pensato. Ed in effetti il regime non aveva predisposto serie misure di
rientro.
Il giorno stesso della presa britannica di Addis Abeba (5 maggio 1941) al regime
fu ripetuto ufficialmente che Londra era disposta a far rientrare donne e bambini
in Italia. Solo adesso fu costituita una Commissione interministeriale. Nel
frattempo, erano stati i britannici ad anticipare lo sgombero concentrando ad
Addis Abeba gran parte dei civili da evacuare. Tuttavia, fra ristrettezze
economiche e materiali, gli accordi definitivi italo-britannici per il rientro dei
civili furono del 4 febbraio 1942. E solo due mesi dopo le prime navi salparono.

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