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Storia d'Italia (1861-oggi)

Contesto
Dopo l'esito della seconda guerra di indipendenza e dopo i plebisciti nei diversi territori conquistati o
annessi, con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva
proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II di Savoia divenne il primo re d'Italia.
La popolazione, rispetto all'originario Regno di Sardegna, quintuplicò. Istituzionalmente e
giuridicamente, il Regno d'Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna,
esso fu infatti una monarchia costituzionale.
Nel 1866 l'Italia, nel rispetto dell'alleanza italo-prussiana, partecipò alla guerra austro-prussiana,
dichiarando guerra all'Austria. Tale guerra, a cui è stato attribuito il nome di terza guerra di
indipendenza italiana, consentì all'Italia, in base al trattato di Vienna, di estendere la propria sovranità
anche al Veneto.
Il neonato Stato quindi si ritrovò, fin dai primi tempi, a tentare di risolvere problemi di standardizzazione
delle leggi, di mancanza di risorse a causa delle casse statali vuote per le spese belliche, di creazione
di una moneta unica per tutta la penisola e, più in generale, problemi di gestione per tutte le terre
improvvisamente acquisite. Difficoltà cui si aggiungevano altre carenze strutturali, come ad esempio
l'analfabetismo e la povertà diffusa, nonché la mancanza di infrastrutture.
Le questioni che tennero banco nei primi anni dopo l'unificazione d'Italia furono la disastrosa situazione
economica del Mezzogiorno ed il brigantaggio postunitario antisabaudo delle regioni meridionali
(soprattutto tra il 1861 e il 1869): il problema divenne noto come la "questione meridionale".
Ulteriore elemento di fragilità per il giovane regno italiano fu l'ostilità della chiesa e del clero cattolico nei
suoi confronti, ostilità che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 e la presa di Roma assumendo anche in
questo caso la denominazione di "questione romana".

La destra storica
La Destra storica, composta principalmente dall'alta borghesia e dai proprietari terrieri, formò il nuovo
governo, che ebbe come primi obiettivi il completamento dell'unificazione nazionale, la costruzione del
nuovo Stato (per il quale si scelse un modello centralista) e il risanamento finanziario mediante nuove
tasse che produssero scontento popolare e accentuarono il brigantaggio, represso con la forza.
In politica estera, la Destra storica mantenne la tradizionale alleanza con la Francia, anche se le due
nazioni si scontrarono in diverse questioni, prime fra tutte l'annessione del Veneto e la presa di Roma.
Nel 1876 il governo, presieduto da Marco Minghetti, venne esautorato per la prima volta non per
autorità regia, bensì dal Parlamento (rivoluzione parlamentare). Ebbe così inizio l'epoca della Sinistra
storica, guidata da Agostino Depretis. Finiva un'epoca: nel 1878 Vittorio Emanuele II morì, e sul trono
gli succedette Umberto I.

La sinistra storica
La Sinistra abbandonò l'obiettivo del pareggio di bilancio e avviò delle politiche di democratizzazione e
ammodernamento del paese, investendo nell'istruzione pubblica e allargando il suffragio, e avviando
una politica protezionistica di investimenti in infrastrutture e sviluppo dell'industria nazionale con
l'intervento diretto dello Stato nell'economia.
Per ciò che concerne la politica estera Depretis abbandonò l'alleanza con la Francia, a causa della
conquista da parte dello Stato d'oltralpe della Tunisia. L'Italia entrò quindi nella Triplice alleanza,
alleandosi con la Germaniae l'Impero austro-ungarico. Favorì lo sviluppo del colonialismo italiano,
innanzitutto con l'occupazione di Massaua in Eritrea.
L'epidemia di colera del 1884-1885 aveva mietuto in Italia quasi 18.000 vittime. Crispi, appena
conseguì la guida del governo, istituì al ministero dell'Interno la Direzione di sanità pubblica,
coinvolgendo per la prima volta i medici nel processo decisionale. Una specifica legge del 1888, inoltre,
trasformò il Consiglio superiore di sanità in un organo di medici specialisti anziché di amministratori. La
norma stabilì il principio che lo Stato dovesse essere responsabile della salute dei suoi cittadini.

L'epoca giolittiana
Dal 1901 al 1914 la storia e la politica italiana fu fortemente influenzata dai governi guidati da Giovanni
Giolitti.
Come neo-presidente del Consiglio si trovò a dover affrontare, prima di tutto, l'ondata di diffuso
malcontento che la politica Crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi. Ed è con questo primo
confronto con le parti sociali che si evidenziò la ventata di novità che Giolitti portò nel panorama politico
a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e
quindi degli scioperi, purché non violenti né politici, con lo scopo (riuscito) di portare i socialisti nell'arco
parlamentare.
Gli interventi più importanti di Giolitti furono la legislazione sociale e sul lavoro, il suffragio
universale maschile, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni, la riduzione del debito
statale, lo sviluppo delle infrastrutture e dell'industria.
In politica estera, ci fu il riavvicinamento dell'Italia alla Triplice intesa di Francia, Regno Unito e Russia.
Fu continuata la politica coloniale nel Corno d'Africa, e dopo la guerra italo-turca, furono
occupate Libia e Dodecaneso. Giolitti fallì nel suo tentativo di arginare il nazionalismo come aveva
costituzionalizzato i socialisti, e non riuscì quindi a impedire l'entrata dell'Italia nella prima guerra
mondiale e quindi l'ascesa del fascismo.

L'Italia nella prima guerra mondiale (1915-1918)


L'iniziale neutralità
Nella prima guerra mondiale l'Italia rimase inizialmente neutrale, per poi scendere al fianco degli alleati
il 23 maggio 1915 dopo la firma del segreto Patto di Londra.
L'accordo prevedeva che l'Italia entrasse in guerra al fianco dell'Intesa entro un mese, ed in cambio
avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Tirolo fino al Brennero (Alto Adige), la Venezia Giulia,
l'intera penisola istriana, con l'esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia.
Per quanto riguarda i possedimenti coloniali l'Italia avrebbe conquistato l'arcipelago
del Dodecaneso (occupato, ma non annesso a colonia dopo la guerra italo-turca), la base
di Valona in Albania, il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, nonché un'espansione delle colonie
africane, a scapito della Germania (l'Italia in Africa possedeva già Libia, Somalia ed Eritrea).
1915
Lo Stato italiano decise di entrare in guerra il 24 maggio 1915.
Il comando dell'esercito venne affidato al generale Luigi Cadorna, che aveva come obiettivo il
raggiungimento di Vienna passando per Lubiana[1]. All'alba del 24 maggio il Regio Esercito sparò il
primo colpo di cannone contro le postazioni austro-ungariche asserragliate a Cervignano del Friuli che,
poche ore più tardi, divenne la prima città conquistata. All'alba dello stesso giorno la flotta austro-
ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia; alle 23:56, bombardò Ancona. Lo stesso 24
maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo Di Giusto.
Il fronte aperto dall'Italia ebbe come teatro le Alpi, dallo Stelvio al mare Adriatico. Lo sforzo principale
per sfondare il fronte fu concentrato nella regione delle valli Isonzo, in direzione di Lubiana.
Dopo un'iniziale avanzata italiana, gli austro-ungarici ricevettero l'ordine di trincerarsi e resistere. Si
arrivò così a una guerra posizione simile a quella che si stava svolgendo sul fronte occidentale: l'unica
differenza consisteva nel fatto che, mentre sul fronte occidentale le trincee erano scavate nel fango, sul
fronte italiano erano scavate nelle rocce e nei ghiacciai delle Alpi fino ed oltre i 3.000 metri di altitudine.
Nelle ultime battaglie dell'Isonzo, combattute alla fine del 1915, le perdite italiane ammontarono a oltre
60.000 morti e più di 150.000 feriti, equivalenti a circa un quarto delle forze mobilitate.
1916
L'inizio del 1916 fu caratterizzato dalla quinta battaglia dell'Isonzo che non portò ad alcun risultato. In
scontri che seguirono gli austro-ungarici sfondarono in Trentino, occupando l'altopiano di Asiago.
Questa offensiva fu fermata a fatica dall'Esercito italiano che reagì con una controffensiva respingendo
il nemico fino all'altopiano del Carso. Lo scontro fu chiamato battaglia degli Altipiani. Il 4 agosto 1916 fu
conquistata Gorizia che, pur non essendo di importanza strategica, fu presa a caro prezzo (20.000
morti e 50.000 feriti). Anche le ultime tre battaglie combattute nell'anno non portarono a nessun
guadagno strategico a fronte però di 37.000 morti e 88.000 feriti.
Oltre la conquista di Gorizia, l'unico guadagno territoriale fu l'avanzamento del fronte di qualche
chilometro in Trentino.

1917
Il 18 agosto 1917 iniziò la più imponente offensiva italiana nel conflitto, con 600 battaglioni e 5.200
pezzi d'artiglieria (a fronte, rispettivamente dei 250 e 2.200 austriaci). Nonostante lo sforzo la battaglia
non portò a nessun acquisto territoriale né tantomeno alla conquista di postazioni strategiche. Ingente
fu il prezzo pagato con il sangue (30.000 morti, 110.000 feriti e 20.000 tra dispersi o prigionieri).
Nell'ottobre 1917 la Russia abbandonò il conflitto a causa della rivoluzione comunista. Le truppe
degli Imperi centrali furono spostate dal fronte orientale a quello occidentale.
Visti gli esiti dell'ultima offensiva italiana e i rinforzi provenienti dal fronte orientale, austro-ungarici e
tedeschi decisero di tentare l'avanzata. Il 24 ottobre gli austro-ungarici e i tedeschi ruppero il fronte
convergendo su Caporetto e accerchiarono la 2a Armata comandato dal generale Luigi Capello. Il
generale Capello e Luigi Cadorna da tempo avevano il sospetto di un probabile attacco, ma
sottovalutarono le notizie e l'effettiva capacità offensiva delle forze nemiche. Gli austriaci avanzarono
per 150 km in direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni. L'unica armata che
resistette al disastro[2] fu la 3a, guidata da Emanuele Filiberto di Savoia, cugino di Re Vittorio Emanuele
III.
La rottura del fronte di Caporetto provocò il crollo delle postazioni italiane lungo l'Isonzo, con la ritirata
delle armate schierate dall'Adriaticofino alla Valsugana, in Trentino. I 350.000 soldati dislocati lungo il
fronte si diedero a una ritirata disordinata assieme a 400.000 civili che scappavano dalle zone invase.
Ingenti furono le perdite di materiale bellico. Inizialmente si tentò di fermare il ripiegamento portando il
nuovo fronte lungo il fiume Tagliamento, con scarso successo, poi al fiume Piave, dove, l'11 novembre
1917, la ritirata ebbe fine anche grazie al diniego di Re Vittorio Emanuele III alla proposta di
indietreggiare fino al Mincio.
A seguito della disfatta, il generale Cadorna, nel comunicato emesso il 29 ottobre 1917, indicò, in modo
errato e strumentale «la mancata resistenza di reparti della II armata» come la motivazione dello
sfondamento del fronte da parte dell'esercito austro-ungarico.
In seguito Cadorna, invitato a far parte della Conferenza interalleata a Versailles, venne sostituito dal
generale Armando Diaz, l'8 novembre 1917, dopo che la ritirata si stabilizzò definitivamente sulla linea
del Monte Grappa e del Piave.
La disfatta portò alcune conseguenze: Cadorna venne rimosso dall'incarico e sostituito dal
maresciallo Armando Diaz nel ruolo di capo di stato maggiore. Oltre a Cadorna perse il posto anche il
generale Luigi Capello, ritenuto principale responsabile della sconfitta. Un altro effetto della disfatta
l'elevato malcontento nelle truppe. I disordini furono frequenti, e molti si concludevano con sommarie
fucilazioni.
1918
La severa disciplina di Cadorna, i lunghi mesi in trincea e il disastro di Caporetto avevano fiaccato
l'esercito. Per i militari più religiosi furono anche determinanti le parole di papa Benedetto XV
sull'”inutile strage”. Diaz, per fronteggiare questi problemi e per raggiungere la vittoria, cambiò
completamente strategia. Innanzitutto alleggerì la disciplina ferrea. Secondariamente, essendo il nuovo
fronte meglio difendibile di quello lungo l'Isonzo, puntò ad azioni mirate alla difesa del territorio
nazionale, piuttosto che a sterili ma sanguinosi contrattacchi. Ciò il compattamento delle truppe e della
nazione, presupposto per la vittoria finale. Già nel 1917 fu chiamata alle armi la classe dei nati
nel 1899 (i cosiddetti “Ragazzi del '99”).
Gli austro-ungarici fermarono gli attacchi in attesa della primavera del 1918, preparando un'offensiva
che li avrebbe dovuti portare a penetrare nella pianura veneta.
L'offensiva austro-ungarica arrivò il 15 giugno: l'esercito dell'Impero attaccò con 66 divisioni nella
battaglia del solstizio (15-22 giugno 1918), che vide gli italiani resistere all'assalto. Gli austro-ungarici
persero le loro speranze, visto che il paese era ormai a un passo dal tracollo, assillato dall'impossibilità
di continuare a sostenere lo sforzo bellico sul piano economico e su quello sociale, data l'incapacità
dello Stato di farsi garante dell'integrità dello Stato multinazionale asburgico. Con i popoli dell'impero
asburgico sull'orlo della rivoluzione, l'Italia anticipò di un anno l'offensiva prevista per il 1919 per
impegnare le riserve austro-ungariche ed impedire loro la prosecuzione dell'offensiva sul fronte
francese.
Da Vittorio Veneto, il 23 ottobre partì l'offensiva, con condizioni climatiche pessime. Gli italiani
avanzarono rapidamente in Veneto, Friuli e Cadore e il 29 ottobre l'Austria-Ungheria si arrese. Il 3
novembre, a Villa Giusti, presso Padova l'esercito dell'Impero firmò l'armistizio; i soldati italiani
entrarono a Trento mentre i bersaglieri sbarcarono a Trieste, chiamati dal locale comitato di salute
pubblica, che però aveva richiesto lo sbarco di truppe dell'Intesa. Il giorno seguente, mentre il generale
Armando Diaz annunciava la vittoria, venivano occupate Rovigno, Parenzo, Zara, Lissa e Fiume.
Quest'ultima - pur non prevista tra i territori promessi dal Patto di Londra - venne occupata in seguito
agli eventi del 30 ottobre 1918 quando il Consiglio Nazionale, insediatosi nel municipio dopo la fuga
degli ungheresi e la presa del potere da parte di truppe croate, aveva proclamato l'unione della città
all'Italia sulla base dei principi wilsoniani.
Secondo alcune ricostruzioni, l'esercito italiano avrebbe inteso occupare anche Lubiana, ma fu fermato
poco oltre Postumia dalle truppe serbe. Il 5 novembre reparti della Marinaentravano a Pola, occupata
per alcuni giorni da alcuni reparti militari sloveni e croati già facenti parte dell'esercito austriaco, a nome
dell'appena costituito (ed effimero) Stato degli Sloveni, Croati e Serbi. Il giorno seguente venivano
inviati altri mezzi a Sebenico che diventava la sede principale del Governo Militare della Dalmazia.
L'ultimo caduto italiano è stato il caporal maggiore Giuseppe Pezzarossa di 19 anni appartenente alla
1º Sezione Mantova, colpito da una pallottola in fronte alle ore 15 del 30 ottobre 1918 a sud di Udine.
Questo triste primato è conteso da Attilio Del Gobbo che, a vent'anni, cadde sotto il fuoco dell'esercito
austroungarico in ritirata, la mattina del 4 novembre mentre si dirigeva da Feletto Umberto
(Tavagnacco) verso Udine sventolando il tricolore per accogliere le truppe italiane arrivate in città.
Secondo lo storico Giuseppe Del Bianco, Udine ha quindi dato la prima (Riccardo Di Giusto) e l'ultima
vittima della prima guerra mondiale.[3]

L'esito del conflitto


L'Italia completò la sua riunificazione nazionale acquisendo il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia,
l'Istria ed alcuni territori del Friuliancora irredenti. Queste regioni avevano fatto parte, fino ad allora,
della Cisleitania nell'ambito dell'Impero austro-ungarico (ad eccezione della città di Fiume, incorporata
nel Regno d'Italia nel 1924 e posta in Transleitania). Inoltre al Regno d'Italia furono assegnate alcune
compensazioni territoriali in Africa, come l'Oltregiuba in Somalia.
Ma il prezzo fu altissimo: 651.010 soldati, 589.000 civili per un totale 1.240.000 morti su di una
popolazione di soli 36 milioni, con la più alta mortalità nella fascia di età compresa tra 20 e 24
anni.[4][5][6]
Le conseguenze sociali ed economiche furono pesantissime: l'Italia con la sua economia basata
sull'agricoltura perse una grossa fetta della sua forza-lavoro causando la rovina di moltissime famiglie.
Tuttavia, l'Italia non vide riconosciuti i diritti territoriali acquisiti sulla Dalmazia con l'intervento a fianco
degli alleati: in base al Patto di Londra con cui aveva negoziato la propria entrata in guerra, l'Italia
avrebbe dovuto ottenere la Dalmazia settentrionale incluse le città di Zara, Sebenico e Tenin.
Infatti, in base al principio della nazionalità propugnato dal presidente statunitense Thomas Woodrow
Wilson, la Dalmazia venne annessa al neocostituito Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, con
l'eccezione di Zara (a maggioranza italiana) e dell'isola di Lagosta, che con altre tre isole vennero
annesse all'Italia.
Questo rifiuto degli Alleati di mantenere gli impegni sottoscritti nel Patto di Londra creò numerose
tensioni nella politica italiana del primo dopoguerra, ed uno dei maggiori beneficiati fu Benito Mussolini
con il suo "Fascismo".

Il fascismo
Le origini
Dopo la Grande Guerra la situazione interna italiana era precaria: il trattato di pace firmato a
Versailles non aveva portato però a compimento l'intero percorso di annessioni previste nel 1915, che
avrebbero garantito all'Italia una posizione di grande influenza nei Balcani e nel Mediterraneo orientale.
Le casse statali erano quasi vuote anche perché la lira durante il conflitto aveva perso buona parte del
suo valore, a fronte di un costo della vita aumentato di almeno il 450%. Scarseggiavano le materie
prime e le industrie faticavano a convertire la produzione bellica in produzione di pace e ad assorbire
l'abbondanza di manodopera accresciuta dai soldati di ritorno dal fronte.
Per questi motivi nessun ceto sociale era soddisfatto, e soprattutto tra i benestanti s'insinuò il timore di
una possibile rivoluzione comunista, sull'esempio russo. L'estrema fragilità socio-economica portò
spesso a disordini, che il più delle volte venivano stroncati con metodi sbrigativi e sanguinari dalle forze
armate.

Nascita del fascismo


Tra gli strati sociali più scontenti e più soggetti alle suggestioni ed alla propaganda nazionalista che, a
seguito del Trattato di Pace, si infiammò ed alimentò il mito della vittoria mutilata, emersero le
organizzazioni di reduci ed in particolare quelle che raccoglievano gli ex-arditi(truppe scelte d'assalto),
presso le quali, al malcontento generalizzato, si aggiungeva il risentimento causato dal non aver
ottenuto un adeguato riconoscimento per i sacrifici, il coraggio e lo sprezzo del pericolo dimostrati in
anni di duri combattimenti al fronte.

Con la fine della Prima guerra mondiale ed essendo l'Italia risultata vittoriosa nel conflitto, alla
conferenza di pace di Parigi richiese che venisse applicato alla lettera il patto (memorandum) di Londra,
che preveda l'annessione anche della Dalmazia; così non fu a causa del parere contrario del
presidente statunitenseWilson. La Francia inoltre non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana
poiché avrebbe consentito all'Italia di controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che le
potenze dell'Intesa alleate dell'Italia opposero un rifiuto e ritrattarono quanto promesso nel 1915. L'Italia
fu divisa sul da farsi, e Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la conferenza di pace di
Parigi. Le potenze vincitrici furono così libere di continuare le trattative, rimandando la definizione dei
confini orientali italiani a successive consultazioni fra l'Italia stessa e il neonato Regno dei Serbi, Croati
e Sloveni. La questione venne definita temporaneamente col Trattato di Rapallo (1920), e - per quanto
riguarda la città di Fiume - col Trattato di Roma (1924).
Fu questo il contesto nel quale il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fondò a Milano il primo fascio di
combattimento, adottando simboli che sino ad allora avevano contraddistinto gli arditi, come le camicie
nere e il teschio.
Il nuovo movimento espresse la volontà di "trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi
rivoluzionari, la vita italiana" autodefinendosi partito dell'ordine riuscendo così a guadagnarsi la fiducia
dei ceti più ricchi e conservatori, contrari a ogni agitazione e alle rivendicazioni sindacali, nella
speranza che la massa d'urto dei "fasci di combattimento" si potesse opporre alle agitazioni promosse
dai socialisti e dai cattolici popolari.
Al neonato movimento mancava inizialmente una base ideologica ben delineata e lo stesso Mussolini
non s'era in un primo tempo schierato a favore di questa o quell'altra idea, ma semplicemente contro
tutte le altre. Nelle sue intenzioni il fascismo avrebbe dovuto rappresentare la "terza via".

Gli anni dello squadrismo


Nel movimento, oltre agli arditi, confluirono anche futuristi, nazionalisti, ex combattenti d'ogni arma ma
anche elementi di dubbia moralità. Appena 20 giorni dopo la fondazione dei Fasci le neonate squadre
d'azione si scontrarono con i socialisti e assaltarono la sede del giornale socialista L'Avanti!,
devastandola: l'insegna del giornale fu divelta e portata a Mussolini come trofeo. Era l'inizio della guerra
civile.
Nel giro di qualche mese le squadre fasciste si diffusero in tutta Italia dando al movimento una forza
paramilitare. Per due anni l'Italia fu percorsa da nord a sud dalle violenze dei movimenti politici
rivoluzionari contrapposti di fascismo e bolscevismo che iniziarono a contendersi il campo, sotto lo
sguardo di uno Stato pressoché incapace di reagire tanto agli scioperi e alle occupazioni delle
fabbriche da parte bolscevica, quanto alle "spedizioni punitive" degli squadristi.
Il 12 novembre 1921 nasceva il Partito Nazionale Fascista (PNF), trasformando il movimento in partito
e accettando alcuni compromessi legalitari e costituzionali con le forze moderate. In quel periodo il PNF
giunse ad avere ben 300.000 iscritti (nel momento di massima espansione il PSI aveva superato di
poco i 200.000 iscritti) forte anche dell'appoggio dei latifondisti emiliani e toscani. Proprio in queste
regioni le squadre guidate dai ras furono più determinate a colpire i sindacalisti e i socialisti,
intimidendoli con la famigerata pratica del manganello e dell'olio di ricino, o addirittura
commettendo omicidi che restavano il più delle volte impuniti. In questo clima di violenze, alle elezioni
del 15 maggio 1921 i fascisti ottennero a sorpresa 35 seggi.

Marcia su Roma e primi anni di governo


Dopo il Congresso di Napoli, in cui 40.000 camicie nere inneggiarono a marciare su Roma, Mussolini
diede seguito ai suoi piani insurrezionali contro il debole governo italiano: il momento pareva propizio,
ed un forte contingente di 50.000 squadristi venne radunato nell'alto Lazio e condotto da un
quadrumvirato, composto da Italo Balbo (uno dei ras più famosi), Emilio De Bono (comandante della
Milizia), Cesare Maria De Vecchi (un generale non sgradito al Quirinale) e Michele Bianchi (segretario
del partito fedelissimo di Mussolini che, invece, rimase prudentemente a Milano), mosse contro la
Capitale, il 26 ottobre 1922. Mentre l'Esercito si preparava a fronteggiare il colpo di mano fascista
(con Pietro Badoglio principale sostenitore della linea dura) il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare
il decreto di stato d'emergenza, costringendo alle dimissioni il presidente del consiglio Luigi Facta ed il
suo governo. Le camicie nere marciarono sulla Capitale il 28 ottobre, senza incontrare alcuna
resistenza ed effettuando anche qualche azione violenta contro i comunisti e i socialisti della città.
Il 30 ottobre, dopo la marcia su Roma, il re incaricò Benito Mussolini di formare il nuovo governo. Il
capo del fascismo lasciò Milano per Roma, ed immediatamente si mise all'opera. A soli 39 anni
Mussolini diveniva presidente del consiglio, il più giovane nella storia dell'Italia unita.
Il nuovo governo comprendeva elementi dei partiti moderati di centro e di destra e militari, e -
ovviamente - molti fascisti.
Fra le prime iniziative intraprese dal nuovo corso politico vi fu il tentativo di "normalizzazione" delle
squadre fasciste - che in molti casi continuavano a commettere violenze -, provvedimenti a favore dei
mutilati e degli invalidi di guerra, drastiche riduzioni della spesa pubblica, la riforma della scuola
(Riforma Gentile), la firma degli accordi di Washington sul disarmo navale, e l'accettazione dello status
quo col regno di Jugoslavia circa le frontiere orientali e la protezione della minoranza italiana
in Dalmazia.

Il fascismo diventa dittatura


In vista delle elezioni del 6 aprile 1924 Mussolini fece approvare una nuova legge elettorale (cosiddetta
"Legge Acerbo") che avrebbe dato i tre quinti dei seggi alla lista che avesse raccolto il 40% dei voti. La
campagna elettorale si tenne in un clima di tensione senza precedenti con intimidazioni e pestaggi.
Il listone guidato da Mussolini ottenne il 64,9% dei voti.
Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti prese la parola alla Camera contestando i
risultati delle elezioni. Il 10 giugno 1924Matteotti venne rapito e ucciso.
L'opposizione rispose a questo avvenimento ritirandosi sull'Aventino (Secessione aventiniana), ma la
posizione di Mussolini tenne fino a quando il 16 agosto il corpo decomposto di Matteotti fu ritrovato nei
pressi di Roma. Uomini quali Ivanoe Bonomi, Antonio Salandra e Vittorio Emanuele
Orlando esercitarono allora pressioni sul re affinché Mussolini fosse destituito ma Vittorio Emanuele
III appellandosi allo Statuto Albertino replicò: «Io sono sordo e cieco. I miei occhi e i miei orecchi sono
la Camera e il Senato» e quindi non intervenne.
Ciò che accadde esattamente la notte di San Silvestro del 1924 non sarà forse mai accertato. Il 3
gennaio 1925 alla Camera Mussolini recitò il famoso discorso in cui si assunse ogni responsabilità per i
fatti avvenuti:
Con questo discorso Mussolini si era dichiarato dittatore. Nel biennio 1925-1926 vennero emanati una
serie di provvedimenti liberticidi: vennero sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste,
venne soppressa ogni libertà di stampa, di riunione o di parola, venne ripristinata la pena di morte e
venne creato un Tribunale speciale con amplissimi poteri, in grado di mandare al confino con un
semplice provvedimento amministrativo le persone sgradite al regime.

La crisi economica[
Il primo grosso problema che la dittatura dovette affrontare fu la pesante svalutazione della lira. La
ripresa produttiva successiva alla fine della prima guerra mondiale portò effetti negativi quali la carenza
di materie prime dovuta alla forte richiesta e ad un'eccessiva produttività rapportata ai bisogni reali della
popolazione. Nell'immediato, i primi segni della crisi furono un generale aumento dei prezzi, l'aumento
della disoccupazione, una diminuzione dei salari e la mancanza di investimenti in Italia e nei prestiti allo
Stato.
Per risolvere il problema, come in Germania, venne deciso di stampare ulteriore moneta per riuscire a
ripagare i debiti di guerra contratti con Stati Uniti e Gran Bretagna. Ovviamente questo non fece altro
che aumentare il tasso di inflazione e far perdere credibilità alla lira, che si svalutò pesantemente nei
confronti di dollaro e sterlina.
Le mosse per contrastare la crisi non si fecero attendere: venne messo in commercio un tipo di pane
con meno farina, venne aggiunto alcool alla benzina, vennero aumentate le ore di lavoro da 8 a 9
senza variazioni di salario, venne istituita la tassa sul celibato, vennero aumentati tutti i possibili prelievi
fiscali, venne vietata la costruzione di case di lusso, vennero aumentati i controlli tributari, vennero
ridotti i prezzi dei giornali, bloccati gli affitti e ridotti i prezzi dei biglietti ferroviari e dei francobolli.

La conciliazione con la Chiesa


L'11 febbraio 1929 furono firmati i Patti Lateranensi, che stabilirono il mutuo riconoscimento tra il Regno
d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano.
Il rapporto tra Stato e Chiesa era precedentemente disciplinato dalla cosiddetta legge delle
Guarentigie approvata unilateralmente dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871 dopo la presa di
Roma, questa legge non venne mai riconosciuta dai pontefici.
Tra fascismo e Chiesa ci fu sempre un rapporto ostico: Mussolini si era sempre dichiarato ateo ma
sapeva benissimo che per governare in Italia non si poteva andare contro la Chiesa e i cattolici. La
Chiesa dal canto suo, pur non vedendo di buon occhio il fascismo, lo preferiva di gran lunga
all'ideologia comunista.
Alla soglia del potere Mussolini affermò (giugno 1921) che «il fascismo non pratica l'anticlericalismo» e
alla vigilia della marcia su Romainformò la Santa Sede che non avrebbe avuto nulla da temere da lui e
dai suoi uomini.
Con la ratifica del concordato la religione cattolica divenne la religione di Stato in Italia, fu istituito
l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole e fu riconosciuta la sovranità e l'indipendenza
della Santa Sede.

Gli anni del consenso


Nel 1929 l'autarchia entrò anche nel linguaggio. Furono infatti bandite tutte le parole straniere da ogni
comunicazione scritta ed orale: ad esempio chiave inglese diventò chiave
morsa, cognac diventò arzente, ferry-boat diventò treno-battello pontone. Conseguentemente vennero
rinominate tutte le città con nome francofono dell'Italia nord-occidentale e con
nome tedescofono dell'Italia nord-orientale: secondo la toponomastica fascista, per fare un paio di
esempi, Courmayeur diventò Cormaiore e Kaltern diventò Caldaro. Inoltre si scoprì che anche l'uso
del lei aveva origini straniere, perciò venne inaugurata una campagna per la sostituzione del lei con
il voi, capeggiata dal segretario del partito Achille Starace.
L'11 ottobre 1935 l'Italia venne sanzionata per la guerra d'Etiopia. Le sanzioni in vigore dal 18
novembre consistevano in:

 Embargo sulle armi e sulle munizioni


 Divieto di dare prestiti o aprire crediti in Italia
 Divieto di importare merci italiane
 Divieto di esportare in Italia merci o materie prime indispensabili all'industria bellica
Paradossalmente, nell'elenco delle merci sottoposte ad embargo mancano petrolio e i semilavorati.
In realtà fu soltanto la Gran Bretagna a osservare le regole imposte dalle sanzioni.
La Germania hitleriana così come gli Stati Uniti furono i primi due paesi a schierarsi apertamente verso
l'Italia, garantendo la possibilità di acquistare qualunque bene. La Russia rifornì di nafta l'Esercito
Italiano per tutta la durata del conflitto, ed anche la Polonia si dimostrò piuttosto aperta.
In questo periodo l'Italia tutta si strinse intorno a Mussolini. La Gran Bretagna venne etichettata col
termine di perfida Albione, e le altre potenze furono etichettate come nemiche perché impedivano
all'Italia il raggiungimento di un posto al sole. Ritornò in voga il patriottismo e la propaganda politica
spinse affinché si consumassero solo prodotti italiani. Fu in pratica la nascita dell'autarchia, secondo la
quale tutto doveva essere prodotto e consumato all'interno dello stato. Tutto ciò che non poteva essere
prodotto per mancanza di materie prime venne sostituito: il tè con il karkadè, il carbone con la lignite,
la lana con il lanital (la lana di caseina), la benzina con il carburante nazionale (benzina con l'85% di
alcool) mentre il caffè venne abolito perché «fa male» e sostituito con il "caffè" d'orzo.

La guerra civile in Spagna


Il 18 luglio 1936 scoppiò in Spagna la guerra civile fra le sinistre del Fronte Popolare, al potere dalle
elezioni del 1936, e la Falange, una forza ideologicamente paragonabile al fascismo che grazie
all'appoggio della Chiesa cattolica spagnola, al contributo militare della Germania e dell'Italia portò il
potere nelle mani di Francisco Franco.
Allo scoppio delle ostilità oltre 60.000 volontari accorsero da 53 nazioni in aiuto dei repubblicani mentre
Mussolini e Hitler fornirono in via ufficiosa l'appoggio alla Falange. In questo contesto non di rado
italiani combattenti nelle due parti si scontrarono in una vera e propria lotta fratricida. Gli italiani accorsi
a combattere per la Seconda repubblica spagnola erano fra i più numerosi, per nazionalità superati solo
da tedeschi e francesi.

L'alleanza con la Germania nazista


Dal 1938 in Europa si iniziò a respirare aria di guerra: Hitler aveva già annesso l'Austria e i Sudeti e con
la successiva Conferenza di Monacogli venne dato il lasciapassare per l'annessione di tutta
la Cecoslovacchia.
L'Italia intanto avviò una guerra parallela occupando l'Albania. In due soli giorni (7-8 aprile 1939) con
l'ausilio di 22.000 uomini e 140 carri armati Tirana fu conquistata.
Il 22 maggio tra Germania e Italia fu firmato il Patto d'Acciaio che legava i due paesi in una stretta
alleanza. Alcuni membri del governo italiano si opposero, e lo stesso Galeazzo Ciano, firmatario per
l'Italia, definì il patto una «vera e propria dinamite»

Le leggi razziali
Il 14 luglio 1938 fu pubblicato sui maggiori quotidiani nazionali il "Manifesto della razza". In questa sorta
di tavola redatta da cinque cattedratici (Arturo Donaggio, Franco Savorgnan, Edoardo Zavattari, Nicola
Pende e Sabato Visco) e da cinque assistenti universitari (Leone Franci, Lino Businco, Lidio
Cipriani, Guido Landra e Marcello Ricci) venne fissata la «posizione del fascismo nei confronti dei
problemi della razza».
I dieci imperativi categorici erano:

1. Le razze umane esistono


2. Esistono grandi razze e piccole razze
3. Il concetto di razza è un concetto puramente biologico
4. La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza ariana e la sua civiltà è ariana
5. È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici
6. Esiste ormai una pura "razza italiana"
7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti
8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte e
gli Orientali e gli Africani dall'altra
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana
10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in
nessun modo
Con questo manifesto si dava il via a quel processo che portò alla promulgazione delle leggi razziali.

La guerra d'Etiopia e la nascita dell'impero


Il fascismo cercò innanzitutto di presentarsi in maniera diversa nei confronti dell'Etiopia cercando di
attuare un trattato di amicizia con l'amministrazione del reggente Hailé Selassié. Tale accordo si
concretizzò nel 1928. In questa fase la colonia eritrea, sotto l'amministrazione del Governatore Jacopo
Gasparini cercò di ottenere un protettorato sullo Yemen e creare una base per un impero coloniale
sulla penisola araba, ma Mussolini non volle inimicarsi la Gran Bretagna e fermò il progetto.
A seguito della completa conquista della Libia, avvenuta alla fine degli anni venti, Mussolini manifestò
l'intenzione di dare un Impero all'Italia e l'unico territorio rimasto libero da ingerenze straniere era
l'Abissinia, nonostante fosse membro della Società delle Nazioni. Il progetto d'invasione iniziò
all'indomani della conclusione degli accordi sul trattato di amicizia e si concluse con l'ingresso
dell'esercito italiano ad Addis Abeba il 5 maggio 1936.
L'Abissinia (l'odierna Etiopia) fu conquistata dalle truppe italiane, comandate dal generale Pietro
Badoglio dopo la guerra del 1935-1936. La vittoria fu annunciata il 9 maggio 1936, il Re d'Italia Vittorio
Emanuele III assunse il titolo di Imperatore d'Etiopia (con il titolo di Qesar, anziché quello di Negus
Neghesti), Mussolini quello di Fondatore dell'Impero, e a Badoglio fu concesso il titolo di Duca di Addis
Abeba.

L'Italia nella seconda guerra mondiale (1940-1945)

Nel 1940 l'Italia fu alleata con la Germania nazista nella Seconda guerra
mondiale contro Francia e Regno Unito, dichiarando nel 1941guerra alla Unione Sovietica e con
l'Impero giapponese agli Stati Uniti d'America. Mussolini credeva infatti in una guerra lampo a favore
della Germania di Hitler da cui poter trarre vantaggi come alleato. Il 10 giugno 1940 l'Italia entrò quindi
in guerra. I primi scontri ebbero luogo il 21 giugno sulle Alpi, contro la Francia, ormai attaccata dai
tedeschi con la tattica del blitzkrieg, che portò allo Stato fascista italiano la sola conquista di una piccola
striscia nel sud del Paese, riportando i confini a prima del 1850, con l'esclusione di Nizza. Tra agosto e
settembre cominciarono le operazioni nell'Africa. Il 3 agosto venne attaccata la Somalia Britannica, che
venne conquistata il 19 agosto.
Contemporaneamente, a nord, le truppe comandate dal generale Rodolfo Graziani attaccarono gli
inglesi stanziati in Egitto e si spinsero fino a Sidi Barrani. Nello stesso momento lo Stato maggiore
fascista concentrò le sue mire espansionistiche in Grecia. Più volte bloccati dalla Germania durante
l'estate nell'ottobre del 1940 gli italiani cominciarono a muoversi verso la penisola. Pensando di non
trovare alcuna resistenza le truppe italiane avanzarono, ma tra novembre e dicembre i greci, aiutati
anche dagli inglesi, passarono all'azione e costrinsero gli italiani a ritirarsi in Albania. Anche la flotta
italiana subì alcune perdite tra gli uomini e il parziale affondamento della Corazzata Cavour e il
danneggiamento di altre due navi a causa di un attacco dell'aviazione inglese al porto di Taranto.
Intanto la situazione peggiorò anche in Africa.
Gli insuccessi in Grecia portarono poi, il 4 dicembre alle dimissioni dal ruolo di capo di Stato
Maggiore Pietro Badoglio, che venne sostituito dal generale Ugo Cavallero. Pochi giorni dopo, tra il 6 e
l'16 dicembre gli inglesi iniziarono un'offensiva in Nord Africa, sconfiggendo le truppe italiane e
riprendendosi Sidi Barrani e la Baia di Sollum.
1941
Nel febbraio 1941 gli inglesi sconfissero nuovamente gli italiani, in Egitto penetrando anche
in Libia nella regione della Cirenaica. Contemporaneamente si registrarono i primi insuccessi anche
nelle colonie del corno d'Africa, culminati il 20 maggio con la resa del Duca d'Aosta dopo la battaglia
sull'Amba Alagi. In questa occasione all'esercito italiano fu reso l'onore delle armi da parte dei britannici.
Nel marzo ripresero poi le operazioni in Grecia, ma nonostante gli sforzi fatti da Cavallero, l'esercito
italiano venne nuovamente sconfitto e questo fatto causò la fine della Guerra parallela, così chiamata
da Mussolini.[13]
In aprile l'Italia partecipò all'invasione del Regno di Jugoslavia assieme alle altre Potenze dell'Asse ed
alla relativa spartizione del paese balcanico: nelle aree annesse dall'Italia furono istituiti la Provincia di
Lubiana, la Provincia del Carnaro, ed il Governatorato di Dalmazia; inoltre all'Italia fu concesso anche di
mettere nominalmente a capo del neo costituito Stato Indipendente di Croazia un rappresentante
di Casa Savoia - l'influenza italiana sullo Stato Indipendente di Croazia si limitò solamente alle zone
costiere e, in base ad accordi con il capo del governo croato Ante Pavelić, l'Italia avrebbe avuto per 25
anni il dominio del litorale della Croazia.[13]
L'intervento tedesco nei Balcani fece rinviare la campagna in Russia, che venne intrapresa nel
giugno 1941, con l'Operazione Barbarossa. Il governo italiano decise un'ampia partecipazione delle
proprie truppe, temendo di avere un ruolo sempre più marginale nella guerra, mandando in azione
il Corpo di Spedizione Italiano in Russia al comando del generale Giovanni Messe.
Contemporaneamente l'arrivo di Erwin Rommel in Libia vide un netto miglioramento della situazione,
ma con il passare dei mesi la scarsità di rifornimenti dovuti all'affondamento di questi da parte degli
inglesi stanziati a Malta fece arretrare nuovamente il fronte. In Russia il CSIR vinse alcune battaglie,
ma, a partire da ottobre, l'inverno causò vari problemi ai soldati italiani, non muniti di sufficienti
protezioni contro il freddo.

1942
Nel 1942 le operazioni italiane si concentrarono in Unione Sovietica e Africa. In entrambi i fronti, grazie
alle truppe tedesche si ebbero frequenti successi: in Russia si conquistarono vasti territori e si arrivò a
controllare durante l'estate anche Stalingrado, mentre nel nord Africa Rommel si spinse in Egitto,
conquistando varie città, ma a causa degli attacchi dell'aviazione anglo-americana e dei rinforzi sempre
meno frequenti si arrivò ad una sconfitta nella battaglia di El Alamein, che segnò la fine delle speranze
dell'Asse di conquistare l'Egitto ed i campi petroliferi del Medio Oriente. A seguito di questa sconfitta
cominciò la ritirata e gli italiani, non muniti di mezzi veloci vennero sconfitti dagli inglesi, con le
divisioni Ariete e Littorio che vennero quasi completamente annientate dalla controffensiva.

La situazione peggiorò poi anche in Russia con l'avvicinarsi dell'inverno, infatti Mussolini non si era
curato di rafforzare l'equipaggiamento delle truppe italiane appartenenti all'ARMIR,[14] ex CSIR. Già
nell'estate vi erano state pesanti decimazioni nell'esercito italiano e nel dicembre 1942 cominciano le
prime pesanti sconfitte, seguite dalla ritirata.
1943
Le sconfitte sia sul fronte africano che su quello russo causarono in Italia vari scioperi e un calo di
consensi nei confronti del fascismo e di Mussolini. A maggio venne presa Tunisi, ultimo baluardo
dell'esercito regio italiano e poche settimane più tardi anche le isole di Lampedusa e Pantelleria, dando
inizio all'Sbarco in Sicilia.
Le difficoltà militari colpirono anche Mussolini. Il 24 luglio si riunì il Gran Consiglio del Fascismo e il
mattino seguente il duce venne sfiduciato. Vittorio Emanuele III decise quindi di sostituirlo a capo del
governo con Pietro Badoglio. Proprio mentre si trovava a colloquio con il re, Mussolini fu arrestato: il
monarca aveva fatto circondare l'edificio dai carabinieri, e il duce venne portato a Ponza, in carcere.
Successivamente fu trasferito a La Maddalena e quindi sul Gran Sasso.
Intanto il nuovo capo del governo Badoglio annunciò la continuazione della guerra al fianco dei
tedeschi, ma contemporaneamente cominciò a trattare l'armistizio con gli Alleati, che venne firmato
a Cassibile il 3 settembre e reso pubblico l'8 settembre 1943. Il giorno successivo il re e Badoglio
fuggirono da Roma, andando in Puglia, sotto la protezione di inglesi e americani.
I tedeschi attuarono l'operazione Achse ed altre operazioni minori, con le quali le truppe tedesche
occuparono le zone dell'Italia non ancora liberate dagli Alleati, inserendo il Trentino-Alto Adige e le
provincie di Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana all'interno di due zone di operazioni
nelle quali esercitarono una sorta di sovranità sostanziale. 700 000 soldati italiani, in assenza di ordini
precisi, furono presi prigionieri dall'esercito tedesco e deportati in Germania.
Il 13 ottobre 1943 il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania. L'Italia Paese si trovò così divisa
in due: il Regno del Sud al fianco degli alleati contro la Germania e la Repubblica Sociale Italiana. Al
Nord, si era costituita la Repubblica Sociale Italiana sotto il controllo tedesco e sotto la guida
di Mussolini, il quale era stato liberato il 12 settembre (Operazione Quercia). In breve tempo si
costituirono le prime formazioni partigiane, che combatterono contro i fascisti e i tedeschi. Alcuni storici
hanno evidenziato più aspetti contemporaneamente presenti all'interno del fenomeno della Resistenza:
"guerra patriottica e lotta di liberazione" da un invasore straniero, insurrezione popolare spontanea,
"guerra civile" tra antifascisti e fascisti, "guerra di classe" con aspettative rivoluzionarie soprattutto da
parte dei gruppi partigiani socialisti e comunisti.[15]
Nel Sud, la situazione era leggermente migliore dato che gli anglo-americani permisero un minimo di
libertà alle popolazioni.
1944
L'11 gennaio 1944 furono fucilati a Verona, dopo un drammatico processo pubblico, degli ex gerarchi
fascisti Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli, Carluccio Pareschi, a
seguito della condanna a morte che il tribunale decretò a tutti coloro che il 25 luglio 1943avevano
votato la sfiducia a Mussolini nell'ordine del giorno proposto da Dino Grandi al Gran Consiglio del
Fascismo.
Il 22 gennaio 1944 gli anglo-americani sbarcarono nell'Italia Centrale, nella zona compresa
tra Anzio e Nettuno. L'attacco aveva lo scopo di aggirare le forze tedesche attestate sulla Linea
Gustav e di liberare Roma. La lunga battaglia che ne derivò è comunemente conosciuta come battaglia
di Anzio.
Il 24 marzo i tedeschi compirono l'eccidio delle Fosse Ardeatine in cui persero la vita 335 civili italiani,
come atto di rappresaglia per l'attentato di via Rasella eseguito da partigiani gappisti contro
il Polizeiregiment "Bozen" ed avvenuto il giorno prima in via Rasella. Per la sua efferatezza, l'alto
numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l'evento
simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione. Le "Fosse Ardeatine", antiche
cave di pozzolana site nei pressi della via Ardeatina, sono diventate un monumento a ricordo dei fatti.
Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III nomina il
figlio Luogotenente Generale del Regno in base agli accordi tra le varie forze politiche che formano
il Comitato di Liberazione Nazionale, che prevedono di «congelare» la questione istituzionale fino al
termine del conflitto. Umberto, dunque, esercita di fatto le prerogative del sovrano senza tuttavia
possedere la dignità di re, che rimane a Vittorio Emanuele III, rimasto in disparte a Salerno.
1945
Grazie agli approvvigionamenti ottenuti nell'inverno tra il 1944 ed il 1945 in primavera gli alleati
poterono lanciare l'offensiva contro l'esercito tedesco sfondando in più punti la Linea Gotica portando
gli alleati alla liberazione il 21 aprile 1945 di Bologna. L'arrivo degli alleati a Milano fu anticipato dalla
insurrezione partigiana proclamata dal CLN il 25 aprile, questa data sarà poi scelta come festività
nazionale per ricordare la liberazione. Le potenze dell'Asse in Italia capitolarono il 29 aprile 1945, ed il 2
maggio il comando tedesco firmò a Caserta la resa delle sue truppe in Italia e per procura anche la
resa formale dei reparti della RSI.
Nel 1945, durante la seconda guerra mondiale, la provincia di Aosta e quella di Imperia caddero sotto
l'occupazione della Francia, che non fece mistero dei suoi progetti annessionistici: per sbloccare la
situazione intervenne personalmente il presidente statunitense Harry Truman che ordinò
perentoriamente il ritiro al generale Charles de Gaulle, disposizione che fu poi eseguita, mentre il
governo italiano ordinò la soppressione della vecchia provincia di Aosta con decreto legislativo
luogotenenziale nº545 del 7 settembre 1945 riaccorpandola alla provincia di Torino[16]. Nel 1948, a
seconda guerra mondiale terminata, l'ex provincia di Aosta fu ricostituita nella forma di regione
autonoma a statuto speciale[17].

Epilogo del conflitto e costo della guerra


Nel maggio del 1945 in Europa le potenze dell'Asse furono sconfitte e la fine della guerra vide l'Italia in
condizioni critiche: i combattimenti ed i bombardamenti aerei avevano ridotto molte città e paesi a
cumuli di macerie, le principali vie di comunicazione erano interrotte, il territorio era occupato dalle
truppe angloamericane. Particolarmente critica la situazione in Dalmazia e nella Venezia Giulia, che
erano state occupate dall'Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, che arrestarono o
giustiziarono centinaia di italiani; a Gorizia, Trieste e Pola tali atrocità cessarono nella seconda decade
di giugno quando l'amministrazione jugoslava venne sostituita con quella degli angloamericani.
Il numero di italiani morti a causa della guerra fu molto elevato: sono stimati tra 415.000 (di cui 330.000
militari e 85.000 civili)[18] e 443.000 morti[19], stimando che la popolazione italiana all'inizio del conflitto
fosse di 43.800.000 persone si arriva conteggiare circa una vittima ogni 100 italiani.
Le conseguenze dell'ingresso e della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, vennero sancite
dai trattati di pace firmati a Parigi il 10 febbraio 1947, con mutilazioni nazionali territoriali: l'Istria e
la Dalmazia cedute alla nascente Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia,
il Dodecaneso alla Grecia, il colle di Briga ed il colle di Tenda alla Francia, l'Isola di Saseno all'Albania,
il pagamento dei danni di guerra all'Unione Sovietica e la perdita di tutti i possedimenti coloniali in Africa.
Dalla fine della guerra fino agli anni cinquanta avvenne anche l'esodo istriano durante il quale oltre il
90% della popolazione di lingua italiana(in quantità stimata tra un minimo 250.000 e un massimo
350.000 persone,[20]) abbandonò i territori istriani e dalmati, assegnati alla Jugoslavia: una parte degli
esuli emigrò in seguito nelle Americhe o in Australia. Oltre 100.000 furono anche gli italiani rimpatriati
dai possedimenti coloniali in Libia ed Etiopia.

L'Italia repubblicana

Gli anni costituenti[modifica | modifica wikitesto]


Dopo la fine della guerra si cominciò a mettere in discussione la forma di Stato monarchica. Il re Vittorio
Emanuele III tentò di salvare il potere regio abdicando in favore del figlio Umberto II, tuttavia il 2 giugno
del 1946 un referendum istituzionale sancì la fine della monarchia e la nascita della Repubblica Italiana;
in contemporanea vennero eletti i delegati a un'Assemblea Costituente, col compito di redigere una
nuova Costituzione. Per la prima volta in Italia, anche la donne ebbero il diritto al voto.
Il 1º luglio Enrico De Nicola venne nominato primo Presidente della Repubblica Italiana. Il 25
giugno 1946 cominciarono ufficialmente i lavori dell'Assemblea Costituente con Giuseppe Saragat alla
presidenza; la nuova costituzione repubblicanaentrò in vigore il 1º gennaio 1948.

In quegli anni l'Italia operò le scelte decisive che avrebbero determinato il proprio destino: guidata
da Alcide De Gasperi, che presiedeva un governo di unità nazionale composto dai tre partiti antifascisti
del Comitato di Liberazione Nazionale, l'Italia accettò di entrare a far parte della sfera di influenza
atlantica, filoamericana e anticomunista, contrapposta al blocco sovietico. Questa collocazione tuttavia
accese una competizione politica tra i due maggiori partiti, la DC e il PCI. Quest'ultimo rimarrà da allora
confinato all'opposizione per via dei legami ideologici e finanziari col regime totalitario dell'Unione
Sovietica,[21] legami che avrebbero provocato, nel caso di una sua entrata al governo, una rottura
dell'alleanza internazionale con gli Stati Uniti e degli accordi di Yalta. Un tale assetto politico priverà
inoltre l'Italia di una logica dell'alternanza fino alla caduta del muro di Berlino,[22]generando un'anomalia
rispetto alle altre democrazie occidentali dove i partiti comunisti godevano di una forza e un consenso
assai minori che in Italia.[23][24] Questa situazione degenererà in pratiche consociative più o meno
occulte.[21]
Un'altra anomalia tipicamente italiana fu l'atteggiamento del Partito Socialista (allora
denominato PSIUP), che a differenza di quanto avveniva negli altri paesi occidentali decise di
schiacciarsi sempre più sulle posizioni dei comunisti, per timore di vedersi sottrarre da costoro
l'egemonia sulle masse operaie, accettando così anche la dipendenza da Mosca.[23] Alcuni esponenti
del partito, guidati da Saragat, disapprovando la scelta di legarsi a un regime totalitario come l'Unione
Sovietica, operarono nel gennaio 1947 una scissione, dando vita al Partito Socialista dei Lavoratori
Italiani, che in seguito diverrà Partito Socialdemocratico Italiano.

Prima repubblica
Gli anni del centrismo e della ricostruzione
Dopo che il 31 maggio 1947 era caduto il terzo governo De Gasperi per la fuoriuscita di socialisti e
comunisti, cominciò una lunga fase di governo detta del "centrismo", perché dominata da partiti
collocati esclusivamente nell'area di centro dello schieramento politico. L'Italia diventò un grande
cantiere, anche grazie agli aiuti del Piano Marshall elargiti dagli USA, che contribuirono a rilanciare
l'economia. In contemporanea si verificarono evoluzioni nella politica e nel costume.

In vista delle elezioni del 1948 crebbero le tensioni tra le sinistre, unite nel Fronte Democratico
Popolare e legate all'URSS, e le forze politiche filo-occidentali, che trovarono il loro principale
rappresentante nella DC di De Gasperi. La tensione raggiunse livelli assai acuti, per esempio a Milano
dove, in seguito alla rimozione del prefetto Troilo, un corteo di militanti comunisti ed ex-partigiani
guidato dal giovane esponente del PCI Giancarlo Pajetta occupò la Prefettura. L'intervento del leader
nazionale del PCI Togliatti contribuì a rasserenare la situazione.[25]
Nonostante la concorrenza del Fronte dell'Uomo Qualunque, le elezioni del 1948 si risolsero infine con
la vittoria della Democrazia Cristiana, e la bruciante, inaspettata, sconfitta del Fronte Popolare: questo
prese solo il 30,98% dei voti, mentre il PSI e il PCI nel 1946 avevano raggiunto - nella somma - il
39,61%. In occasione di un attentato a Togliatti il 14 luglio 1948, vi furono manifestazioni in molte città
italiane, che reclamavano la destituzione del governo De Gasperi.[26][27] Togliatti tuttavia non morì,
venendo salvato dai medici; fu provvidenziale un suo stesso annuncio alla radio in cui invitava i
comunisti a mantenersi nell'ambito della legalità democratica.[28]
Nel 1949, su impulso degli Stati Uniti, l'Italia fu fa i primi firmatari del Patto Atlantico e membro
fondatore della NATO, un'alleanza fra diversi stati dell'Europa occidentale oltre al Canada e agli Stati
Uniti stessi, contrapposta al blocco sovietico: una decisione che scatenò nuovamente le proteste delle
sinistre nelle piazze italiane. Accanto alle agitazioni politiche l'Italia si stava comunque ricostruendo. La
forte prevalenza democristiana nei governi che si succedettero, tutti a guida De Gasperi, permise di
varare importanti riforme come quella del piano Casa, con cui lo Stato agevolò la costruzione di 75 000
abitazioni per i lavoratori.[29] Venne poi varata nel 1950 la riforma agraria, ritenuta tra le più importanti
del secondo dopoguerra,[30] che attuava, tramite l'esproprio coatto ai grandi latifondisti, la distribuzione
delle terre incolte ai braccianti agricoli rendendoli così piccoli imprenditori; se da un lato la riforma
andava incontro alle rivendicazioni dei contadini del Sud, talora represse con estrema violenza come
nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947, undici morti e ventisette feriti) per altri versi
ridusse in maniera notevole la dimensione delle aziende agricole, togliendo di fatto la possibilità di
trasformarle in veicoli imprenditoriali avanzati.[30]
Tra gli altri atti di rilievo della stagione centrista ci fu l'attuazione di un riassetto fiscale, e l'istituzione
della Cassa del Mezzogiorno per finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico
del meridione d'Italia. La produzione industriale accelerò e comparvero i primi segnali del consumismo.
Nel 1954 cominceranno anche le prime trasmissioni televisive della Rai, che portarono a un incremento
vertiginoso della vendita di televisori.
La tensione politica tra DC e PCI tuttavia non si attenuava. La crescita sulla destra del Movimento
Sociale Italiano, nato dalle ceneri della Repubblica Sociale Italiana, e del Partito Nazionale
Monarchico dell'armatore Achille Lauro, avrebbe inoltre potuto sottrarre voti utili alla DC. Diversi
esponenti democristiani, tra cui lo stesso De Gasperi, decisero di respingere un'alleanza con queste
forze, che si ispiravano al ventennio fascista, a formare un unico blocco anticomunista, al quale
guardavano con favore rappresentanti della stessa Chiesa cattolica. Fu così varata la legge Scelba che
vietava la ricostituzione del disciolto Partito Fascista (anche se mai applicata all'MSI nel suo
complesso), e una nuova legge elettorale, ribattezzata dagli oppositori "legge truffa", che prevedeva un
premio di maggioranza alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse superato la soglia del 50% dei
voti. Alle elezioni del 1953, tuttavia, per un soffio la DC e le liste ad essa collegate non ottennero la
maggioranza assoluta dei voti, e il meccanismo della "legge truffa" non scattò. Si trattò di una sconfitta
che determinò la fine dell'esperienza politica di De Gasperi.

Seguirono diversi governi piuttosto deboli (Pella, Fanfani, Scelba) che fecero emergere l'esigenza di un
superamento del centrismo, ora che la DC faticava a governare da sola con i suoi minori alleati di
centro. A nuovi scenari che consentissero ad esempio un'apertura ai socialisti guarderà sempre più con
favore il nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, esponente della sinistra democristiana,
spalleggiato dall'imprenditore Enrico Mattei, presidente dell'Agip, una delle personalità più rilevanti e
potenti del panorama post-bellico italiano, che diede un impulso determinante allo
sviluppo petrolifero dell'Italia, opponendosi al predominio delle cosiddette sette sorelle.
Notevoli sconvolgimenti si produssero anche in casa comunista, in seguito alla morte di Stalin nel 1953:
circondato allora da un'aura di mito, la sua figura venne pesantemente ridimensionata pochi anni dopo
quando ne fu svelato il volto spietato dal suo successore Krusciov, che ne denunciò i crimini e le
nefandezze, come le purghe e le deportazioni nei gulag.[31] La notizia della denuncia fu un trauma per il
mondo comunista, che cercò di negare i crimini, ma ebbe conseguenze in Ungheria che nel 1956 si
ribellò al regime sovietico dichiarando la propria volontà di uscire dal Patto di Varsavia. La conseguente
sanguinosa repressione della rivolta ungherese da parte delle armate sovietiche suscitò ondate di
sdegno e di avversione al comunismo nei paesi occidentali. Nel PCI emerse per la prima volta il
dissenso, da parte degli intellettuali del Manifesto dei 101, che furono espulsi dal partito, mentre
Togliatti decideva di difendere la repressione sovietica e di continuare a schierarsi con l'URSS.
Nel 1954 intanto era stato firmato il Memorandum di Londra con il quale il Territorio Libero di
Trieste veniva suddiviso in due zone, una assegnata all'Italia ed una alla Jugoslavia. Nel 1955 l'Italia
venne anche ammessa alle Nazioni Unite.

Il miracolo economico
Tra il 1958 e il 1963 l'economia italiana, ma anche la società e le famiglie, subirono una radicale
trasformazione: da paese prevalentemente agricolo l'Italia diventò una delle sette grandi potenze
industriali del mondo.
Allora l'Italia primeggiava soprattutto in due grandi settori ad alta tecnologia, quali la microelettronica e
la chimica, grazie a gruppi industriali come la Olivetti e la Montecatini, ma anche nella farmaceutica,
nel nucleare, nell'aeronautica, nelle telecomunicazioni, settori che in seguito scompariranno o finiranno
in mano a gruppi stranieri.[32]
Importanti cambiamenti ci furono nell'alimentazione e nella vita delle donne, grazie alla diffusione degli
elettrodomestici, in particolare della lavatrice e del frigorifero. Anche le automobili e le motociclette
divennero beni accessibili per un gran numero di italiani. Si affermarono marchi
come FIAT, Lancia, Alfa Romeo, Autobianchi, Gilera, Piaggio & C..
Contribuì alla rapida crescita dell'Italia l'elevata disponibilità di manodopera, dovuta ad un forte flusso
migratorio dalle campagne alle città e dal Sud verso il Nord. Questo fenomeno provocò per certi versi
un aumento del divario economico tra il Settentrione e il Meridione. Ma contribuì alla crescita anche un
fattore esterno, cioè la creazione del Mercato comune europeo (MEC), preceduta dalla creazione
nel 1951 della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e la creazione della CEE nel 1957, a cui
l'Italia aderì immediatamente. Con la creazione del MEC vi fu l'apertura delle frontiere europee ai
commerci, col conseguente aumento delle esportazioni e degli scambi commerciali europei.

Se il paese uscì dall'arretratezza in cui versava, non mancarono però gli aspetti negativi legati al
"miracolo economico", come una crescita tumultuosa dei centri urbani. Questo notevole sviluppo si
dovette tra l'altro anche all'intervento dello Stato nell'economia attraverso politichedi tipo Keynesiano,
rese possibili soprattutto dall'aumento della spesa pubblica e dalla creazione di società a
partecipazione statale. Fondamentale in tal senso fu la realizzazione di alcune infrastrutture necessarie
per lo sviluppo del mercato: un importante ruolo fu ricoperto dall'IRI, ente pubblico di origine fascista
fondato nel 1933, che intervenne sostanzialmente nella costruzione della rete autostradale (con la
costituzione della Società Autostrade) e nel potenziamento del settore dei trasporti, non solo
automobilistico, ma anche metropolitano, navale e aereo (fondazione dell'Alitalia).

Verso la fine del centrismo


Con l'uscita di scena di De Gasperi, il vuoto lasciato nella dirigenza della DC fu progressivamente
riempito da due nuove personalità, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Già nel 1956 Fanfani ritenne maturi i
tempi per un'alleanza col PSI, ora che questo partito si era deciso a rompere i legami col PCI,
contestandone la sottomissione al regime comunista sovietico, soprattutto in occasione della
repressione sovietica della rivolta ungherese. Pur avviandosi così verso una nuova fase, nel PSI
restavano tuttavia forti le resistenze nei confronti di una possibile alleanza con la DC.
Le elezioni del 1958 segnarono un importante successo dei partiti componenti il centro-sinistra
vagheggiato da Fanfani. Quest'ultimo formò allora un governo imperniato sull'alleanza
col PSDI di Giuseppe Saragat, come premessa per una futura alleanza coi socialisti di Pietro Nenni.
Tra gli atti di rilievo del nuovo governo, orientato su tematiche care alla sinistra, come una politica
estera filo-araba o l'appoggio all'Eni di Enrico Mattei, ci fu l'abolizione delle case chiuse con la legge
Merlin, e il varo del nuovo codice della strada per far fronte al grave incremento degli incidenti
automobilistici, dovuto alla progressiva motorizzazione di massa.
Il varo del centro-sinistra
Nel marzo 1959 però, all'interno della DC, stava emergendo la corrente dei Dorotei, che contestava il
decisionismo di Fanfani, e il fatto che egli concentrasse nelle sue mani tre poteri: quello di presidente
della DC, di presidente del Consiglio, e di ministro degli Esteri. I Dorotei giunsero ad appoggiare in
Sicilia la giunta del democristiano Silvio Milazzo, sostenuta da una convergenza di missini e comunisti,
contro il candidato di Fanfani Barbaro Lo Giudice. Ritrovandosi isolato, senza più appoggi al suo
difficile tentativo di trovare un'intesa col PSI, Fanfani rassegnò le dimissioni da tutte e tre le cariche.

Nel 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi affidò allora a Fernando Tambroni il governo
che avrebbe dovuto finalmente varare il nuovo corso di centro-sinistra. Di fronte a un ennesimo
temporeggiamento di Nenni e della base socialista, tuttavia, Tambroni decise di cercare altrove i voti di
cui aveva bisogno, e li trovò nel Movimento Sociale Italiano, a cui concedeva in cambio il suo
"sdoganamento". Il governo Tambroni in tal modo ricevette dall'opposizione diverse accuse di
neofascismo, ma fu soltanto alcuni mesi dopo, in occasione di un congresso del MSI da tenere
a Genova, città medaglia d'oro della Resistenza, che scoppiarono pesanti proteste di piazza, presto
estese ad altre città italiane. In queste occasioni si registrerà un uso frequente delle armi da fuoco da
parte delle forze dell'ordine, con diversi morti e numerosi feriti tra i manifestanti.[33]
In seguito ai gravi fatti di Genova Tambroni rassegnò le dimissioni; al suo posto tornò Fanfani che
stavolta trovò i socialisti più disponibili ad un'alleanza con la DC, memori dell'esperienza appena
trascorsa, a partire dalla quale il MSI subirà un isolamento dal cosiddetto arco costituzionale che durerà
almeno fino alla metà degli anni ottanta.[34]. Venne così varato un governo che si reggeva su un
appoggio esterno del PSI, definito da Aldo Moro delle «convergenze parallele», che durerà quasi tre
anni. Tra i suoi atti di rilievo vi fu la nazionalizzazione dell'energia elettrica (che nel 1964 porterà alla
nascita dell'Enel) voluta dalle forze di sinistra ma osteggiata dal PLI e dalle società
private Edison e Società Adriatica di Elettricità. Vi fu poi l'estensione della scuola dell'obbligo fino ai 14
anni con la creazione della scuola media unificata, per impedire l'abbandono scolastico dei ragazzi
avviati precocemente al lavoro.

Le seguenti elezioni del 1963 videro un indebolimento della DC e del PSI, e un contemporaneo
rafforzamento del PCI a sinistra, che aveva duramente contestato la loro alleanza, e del PLI a destra,
che aveva accusato il governo di causare l'aumento dei prezzi e di gonfiare la spesa pubblica. Fanfani
fu costretto a ritirarsi dalla scena politica, mentre si formava per l'estate un governo "balneare" in attesa
di nuovi sviluppi.
Fu nell'autunno di quell'anno che si verificò il terribile disastro del Vajont, nel fondovalle veneto, che
provocò la morte di circa 2000 persone.[36]
Nel dicembre del 1963 fu incaricato Aldo Moro di formare il primo vero governo di centro-sinistra
"organico", cioè con l'entrata effettiva dei socialisti al governo. Fu un varo a cui sia la DC che il PSI
giunsero stremati da anni di trattative, congressi, ed esitazioni. Anche in quest'occasione non
mancarono i malumori all'interno di entrambi i partiti, che esplosero pochi mesi dopo, nel maggio 1964,
quando il governo Moro cadde per una questione riguardante il finanziamento pubblico alle scuole
cattoliche. Ma già il ministro del Bilancio, il democristiano Emilio Colombo, aveva criticato Moro per
un'eccessiva arrendevolezza nei confronti di alcune riforme auspicate dai socialisti, come quella sulle
Regioni e sull'urbanistica, e su cui Nenni si rifiutava di cedere, sebbene il PSI avesse messo in
minoranza il suo esponente più radicale, Riccardo Lombardi.

Di fronte allo stallo venutosi a creare, il presidente della Repubblica Segni convocò il comandante
dell'arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, il quale partecipò in seguito ad una riunione con Moro e
alcuni dirigenti della DC. Qualche anno più tardi si parlerà del tentativo, o piuttosto della minaccia, di
attuare un piano eversivo, noto come il "Piano Solo", per far rientrare nei ranghi la sinistra, e
convincerla ad ammorbidire le proprie posizioni. Nenni, probabilmente messo al corrente di questa
possibilità, decise di far rientrare il PSI al governo; Lombardi lasciò la direzione del PSI, e il suo uomo
di fiducia Giolitti non venne più confermato come ministro nel nuovo governo, il cui corso sarà negli
anni a venire molto più moderato del precedente, e dalla cui agenda politica verranno tolte le riforme
volute dai socialisti. Ci fu anche una scissione nel PSI da parte della componente più estremista del
partito, che diede vita al PSIUP.
Nel 1966 invece il PSI, la cui direzione era passata da Nenni a Francesco De Martino, dopo aver
contribuito ad eleggere Saragat presidente della Repubblica, si fonderà con il PSDI, rimarginando la
scissione dello stesso Saragat avvenuta nel 1946, andando così a formare il Partito Socialista Unificato.
La fusione si rivelerà però fallimentare alle elezioni del 1968, dopo le quali i due partiti torneranno a
dividersi.

Il sessantotto e la contestazione
Dopo la morte di Togliatti nel 1964, che aveva guidato il partito comunista lungo quello che allora si
definiva "doppio binario" (della legalità democratica da un lato, e della fedeltà all'Unione Sovietica
dall'altro)[37] l'estrema sinistra conobbe un periodo di fermenti. Nel 1966 si svolse il primo scontro "alla
luce del sole" di un congresso del PCI, tra l'ala "destra" di Giorgio Amendola e quella di "sinistra"
di Pietro Ingrao; il compromesso fu trovato nell'assegnazione della leadership a una figura di
mediazione, Luigi Longo. Ma a sinistra dello stesso PCI stavano cominciando a formarsi dei movimenti
spontanei, che contestavano la guerra americana in Vietnam solidarizzando coi Viet Cong,
simpatizzavano per la Cinamaoista che criticava la degenerazione a suo dire "borghese" dell'URSS, e
idealizzavano la rivoluzione cubana di Fidel Castro e Che Guevara. Questi gruppi si riunivano intorno a
riviste di orientamento operaista.

Negli anni sessanta era comunque la stratificazione sociale dell'intera popolazione italiana che era
cambiata dopo il boom economico: l'urbanizzazionecreata dai flussi migratori interni aveva aumentato
la concentrazione della popolazione, esisteva ormai un ceto medio e si cominciava a delineare un
prototipo di italiano medio. L'apertura agli stili di vita e ai fenomeni musicali internazionali, specialmente
tra i giovani, portò alla comparsa dei cosiddetti "capelloni", già nel 1965. Guardati sempre più con
diffidenza, la nuova Beat Generation italiana tuttavia si guadagnò la simpatia dell'opinione pubblica in
occasione della terribile alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, quando gli studenti accorsi da tutta
Italia per prestare soccorso furono chiamati gli «angeli del fango».

I cambiamenti nella mentalità di questi gruppi giovanili esplosero nel 1968, l'anno che vide l'Italia
trasformarsi radicalmente sul piano culturale e sociale, in seguito alle migliorate condizioni di vita
dovute al boom economico degli anni precedenti, e al sorgere di movimenti radicali, soprattutto
di estrema sinistra. Le proteste partirono da una contestazione studentesca dei metodi
di insegnamento nelle università, ritenuti "autoritari", e si estenderanno fino a saldarsi con i movimenti
degli operai. La base ideologica di queste sollevazioni consisteva soprattutto nel "terzomondismo",
ossia nella solidarietà verso le lotte rivoluzionarie dei popoli poveri e lontani dall'Occidente. In Italia però,
a differenza delle altre liberaldemocrazie occidentali, la contestazione del '68 verrà sempre più
egemonizzata dall'ideologia comunista.[38][39] Si trattava di gruppi per lo più autonomi dai partiti, sorti
dalle assemblee, dai collettivi, e dalle occupazioni, che dipingevano gli americani come i nuovi "nazisti",
che giunsero a scavalcare a sinistra lo stesso PCI, ritenendo il filo-sovietismo quasi un tradimento
dell'autentico marxismo, di cui consideravano invece degno interprete il dittatore cinese Mao Tse-tung,
e contestavano alle radici lo Stato e le istituzioni borghesi. L'intellettuale Pier Paolo Pasolini fece notare
tuttavia come la base sociale dei contestatori italiani fosse costituita, almeno all'inizio, proprio da
studenti piccolo-borghesi anziché da proletari.[40]
Tra i nuovi gruppi extra-parlamentari di estrema sinistra, che avevano quasi tutti intenti rivoluzionari,
emersero l'Unione Comunisti Italiani, simpatizzante di Mao Tse-tung; Potere Operaio di Oreste
Scalzone, che vedeva negli operai la forza propulsiva della rivoluzione; Movimento Studentesco di
orientamento leninista; e Lotta Continua di Adriano Sofri, rivolto a tematiche sociali più generiche e
dedito a diffondere la cosiddetta "controinformazione".
Tra i partiti, quello che più di tutti seppe trarre vantaggio dalla contestazione fu comunque il PCI, che
guadagnò terreno a spese dei socialisti. Nello stesso anno ci fu tuttavia un Sessantotto controcorrente,
noto come la Primavera di Praga, ossia il tentativo della Cecoslovacchiaguidata dal
riformista Alexander Dubček di sottrarsi al giogo sovietico, tentativo duramente represso dall'Armata
Rossa. Il PCI, la cui laedership stava vedendo l'avvicendamento di Luigi Longo, dimessosi per motivi di
salute, con Enrico Berlinguer, nuova figura di mediazione tra le due anime del partito, stavolta criticò e
condannò i crimini di Mosca (a differenza del 1956 durante l'invasione dell'Ungheria), senza però
giungere ad un'effettiva rottura. Berlinguer anzi rafforzò ancor più i legami del PCI con l'URSS, per non
distruggere il mito sovietico di cui si alimentava la base del partito, ritenendo l'invasione della
Cecoslovacchia un errore da mettere tra parentesi. Questo atteggiamento suscitò le critiche di un folto
gruppo di intellettuali comunisti, riuniti intorno alla rivista Il manifesto, tra cui Rossana Rossanda[41] che
furono espulsi dal partito come già accaduto in altre circostanze.[42]
Anche nel mondo cattolico cresceva il fermento, in particolare si chiedeva alla DC di aprirsi alle nuove
rivendicazioni sociali, o di solidarizzare coi vietcong, e di prendere le distanze dagli USA. Dopo la
pesante sconfitta subita dal Partito Socialista Unificato nel 1968, si ritenne comunque esaurita
l'esperienza di centro-sinistra guidata da Aldo Moro, il quale lasciò il campo al democristiano Mariano
Rumor, leader doroteo, che salirà a capo di cinque governi, sempre però insieme ai socialisti.

La crescita del conflitto sociale aveva portato intanto al cosiddetto autunno caldo del tardo 1969,
quando i movimenti studenteschi sessantottini si saldarono con le sollevazioni e le proteste del mondo
operaio. Per la prima volta dal 1946, le tre sigle sindacali CGIL, CISL, UIL, si ritrovarono unite. Il
movimento ottenne vari successi come le 40 ore lavorative, una regolamentazione degli straordinari, la
revisione del sistema pensionistico, il diritto di assemblea; nel 1970 verrà infine approvato lo statuto dei
lavoratori. Nello stesso anno fu approvata da una maggioranza trasversale, con l'esclusione della DC e
del MSI, anche la legge sul divorzio, appoggiata in particolare dall'emergente leader radicale Marco
Pannella, che si distinguerà sempre più per le sue battaglie in materia di diritti civili. Un altro risultato a
cui si giunse sulla scia dei movimenti sociali fu l'istituzione, sempre nel 1970, delle Regioni come enti
autonomi, una riforma che comportava una loro capacità legislativa e quindi l'implicita cessione di
regioni notoriamente "rosse", in particolare l'Emilia-Romagna, la Toscana e l'Umbria, alla guida dei
comunisti.

Gli anni settanta


Negli anni settanta alcuni dei numerosi movimenti politici, sorti negli anni precedenti, si estremizzarono
e degenerarono nel terrorismo rosso dando vita in particolare alle BR, accompagnato da
quello nero costituito da gruppi elitari neofascisti come i NAR.
Sebbene il Sessantotto italiano fosse stato egemonizzato dall'estrema sinistra, vi avevano partecipato
anche alcune frange di estrema destra; il nuovo decennio si aprì ora proprio col cosiddetto "triennio di
destra",[43] ossia con uno spostamento dell'intero quadro politico sul versante conservatore, dovuto sia
ad un nuovo protagonismo del MSI guidato da Giorgio Almirante, sia all'emergere della cosiddetta
"maggioranza silenziosa", composta da esponenti del ceto moderato intimoriti dalle contestazioni della
sinistra, che si presentavano con il motto «Noi siamo l'Italia che lavora, produce e paga le tasse».[44]

I fatti di Reggio
Già dopo le prime elezioni regionali, nel luglio 1970 scoppiò la rivolta di Reggio Calabria, dovuta alla
decisione del governo di centro-sinistra di collocare il capoluogo della neonata regione a Catanzaro. La
sommossa fu capeggiata dal missino Ciccio Franco, sindacalista della CISNAL, che rilanciò
l'espressione «boia chi molla!» di mussoliniana memoria. Dopo tre mesi di scontri violenti, che videro la
città di Reggio assediata dall'esercito, i moti furono sedati, ma nel 1972 il MSI diventerà il primo partito
della Calabria.
Ancora nel 1971, il MSI si rivelò determinante nell'elezione del nuovo presidente della
Repubblica Giovanni Leone, sebbene i voti missini non fossero stati esplicitamente richiesti. Alle
elezioni anticipate dell'anno seguente, il MSI raggiunse il suo massimo storico fino ad allora, grazie
anche alla fusione con i Monarchici. A causa dei modesti risultati del PSI, venne formato un
governo Andreotti-Malagodi che segnò anche una momentanea interruzione del centro-sinistra con un
ritorno alla formula centrista, l'esclusione dei socialisti, e un ingresso organico dei liberali nella
compagine governativa.

La notte dell'8 dicembre del 1970 la sede del Ministero dell'Interno venne occupata da formazioni
paramilitari del Fronte Nazionale guidate dal principe Junio Valerio Borghese, ex figura carismatica
della Repubblica Sociale Italiana, nel tentativo di compiere un colpo di stato ma l'azione fu annullata
dallo stesso Borghese mentre era in corso di esecuzione, in circostanze poco chiare[45]. L'opinione
pubblica fu informata del fallito colpo di stato (denominato "Golpe Borghese") soltanto tre mesi dopo
l'accaduto
La notizia si andava comunque ad inserire in un clima allarmistico di attentati, che connotarono quegli
anni detti perciò "di piombo", attentati inaugurati dall'esplosione di una bomba in Piazza Fontana a
Milano il 12 dicembre 1969, in cui rimasero uccise diciassette persone. Per la strage, rimasta senza
colpevoli, fu incriminato l'anarchico Pietro Valpreda, e un suo amico, Giuseppe Pinelli, che morì in
circostanze misteriose cadendo da una finestra della questura dov'era interrogato; il Movimento
Studentesco, ipotizzando cospirazioni e trame oscure, accusò di omicidio il commissario Luigi
Calabresi che stava conducendo l'interrogatorio. Calabresi, che pure era persona mite e legato a Pinelli
da rapporti di amicizia, divenne il bersaglio di una martellante campagna di denuncia da parte di
intellettuali ed estremisti di sinistra, finché venne ucciso il 17 maggio 1972. Per il suo omicidio saranno
condannati in via definitiva gli esponenti di Lotta Continua Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio
Pietrostefani.
La bomba di Piazza Fontana segnò anche l'inizio della cosiddetta "strategia della tensione", termine
con il quale la pubblicistica ha indicato un oscuro piano di attentati mirati a seminare il terrore tra la
popolazione per preparare il terreno a un colpo di Stato di estrema destra, nel quale si ipotizzò fossero
coinvolti elementi dei servizi segreti e delle forze armate legati a gruppi neofascisti[45]: in tale strategia si
inquadrano anche altri attentati rimasti tristemente celebri, come la strage di Peteano del 1972,
l'attentato alla questura di Milano ad opera dell'anarchico Bertoli (poi rivelatosi un agente del
piano stay-behind Gladio) nel 1973, quello al treno Italicus nel 1974 e, nello stesso anno, la strage di
piazza della Loggia a Brescia durante una manifestazione sindacale, tutti attribuiti a gruppi
neofascisti[47]. Nell'agosto 1970 erano poi comparsi davanti alla SIEMENS di Milano i primi volantini a
firma BR, gruppo terrorista di estrema sinistra, che dapprima si limitò ad azioni dimostrative come furti e
incendi, ma col passare degli anni divenne sempre più violento, giungendo a rapire, gambizzare e
uccidere personalità del mondo culturale e politico ritenuti "reazionari". La sinistra politica, soprattutto
quella comunista, dapprima non riuscì ad ammettere che le BR fossero una costola proveniente dalle
proprie fila, ipotizzando trame oscure dello Stato e parlando perciò di Brigate
«sedicenti» rosse.[48] Anche quando diventò evidente la loro matrice rivoluzionaria di sinistra, negli
ambienti del PCI vi fu chi mantenne, nonostante le condanne ufficiali del partito, un atteggiamento
indulgente nei loro confronti parlando di «compagni che sbagliano».[48][49] Negli stessi ambienti desterà
scalpore, nel marzo 1978, un articolo di Rossana Rossanda che denunciava chiaramente
l'appartenenza delle BR all'«album di famiglia» del PCI.[50]

Il Partito Comunista, intanto, stava conoscendo un'impetuosa crescita elettorale, mentre la DC, tornata
sotto la guida di Fanfani, subì nel 1974 la sconfitta al referendum abrogativo della legge sul divorzio. Si
trattò di un successo per il movimento femminista, il quale comincerà a battersi anche per
la legalizzazione dell'aborto che riuscirà a ottenere nel 1978. Fra le nuove tendenze, presero a
diffondersi tra i giovani le culture alternative e la moda dei raduni di massa. Negli anni settanta la
crescita economica che aveva portato al boom si arrestò, iniziò una recessione aggravata dalla crisi
petrolifera del 1973 dovuta alla guerra dello Yom Kippur tra Israele e mondo arabo. Ne conseguì un
periodo di austeritycaratterizzato dalle prime "domeniche a piedi" per il divieto di circolazione degli
automezzi. Aumentò il disagio sociale e crebbe spaventosamente l'inflazione. Si verificarono anche i
primi disastri ambientali, come quello di Seveso, un comune della provincia di Milano investito da una
nube di diossina nel luglio 1976, mentre pochi mesi prima una vasta zona del Friuli era stata colpita da
una violenta scossa di terremoto che causò 989 vittime ed un'enorme distruzione.
Sul piano politico si venne determinando uno stallo per via dell'erosione dei consensi
alla maggioranza di centro-sinistra, che portò alla fine anticipata di due legislature. Cominciò allora a
prendere corpo l'idea di un compromesso storico fra le principali forze politiche del paese, che dalla DC
si estendesse al PCI, cresciuto enormemente alle Regionali del 1975 e i cui «voti congelati» non
potevano essere ormai ulteriormente confinati all'opposizione. Per rimuovere la pregiudiziale che
impediva al suo partito di partecipare al governo del paese, Berlinguer nel 1976 rilasciò una storica
intervista al Corriere della Sera in cui sembrava prendere le distanze dall'URSS, dichiarando di non
voler prendere più le sue parti in caso di conflitto con la NATO.[51] Fu così che in quello stesso anno,
dopo che il PSI ebbe fatto cadere l'ultimo governo di centro-sinistra, a seguito di elezioni anticipate
cominciarono i governi di astensione o di unità nazionale, guidati da Giulio Andreotti, monocolori
democristiani che si reggevano indirettamente sull'astensione di PSI, PCI, PLI e PSDI, ma vissuti dal
paese come se tutti i partiti vi contribuissero.
Il compromesso storico porterà tuttavia il PCI a lasciare scoperti diversi settori alla propria sinistrache
non si sentivano più rappresentati da quel partito, contrari all'idea di compromessi con le forze
"borghesi". In particolare nel 1977 ci fu un ritorno delle agitazioni e dei movimenti di piazza, con scontri
molto più feroci di quelli del Sessantotto: iniziate con un assalto alla tribuna di Luciano Lama, leader
della CGIL a cui veniva contestata una linea politica ritenuta troppo morbida, le violenze sfociarono in
azioni armate con lanci di molotov, uccisioni sia di poliziotti che di manifestanti, assalti alle sedi del MSI,
e strascichi come la strage di Acca Larentia. Anche le BR giunsero a incrementare gli attentati,
sottostando all'ordine della loro guida, Mario Moretti, di «mirare al cuore dello stato».
Berlinguer, ritenendo che il PCI stesse pagando più di tutti il proprio appoggio al governo Andreotti con
una perdita di consensi, fece pressioni per avervi un maggior coinvolgimento. Fu allora che si ebbe
l'episodio più eclatante quando il 16 marzo 1978 le BR rapirono il Presidente della Democrazia
Cristiana Aldo Moro, uno dei maggiori sostenitori del compromesso storico, nel sanguinoso agguato di
via Fani a Roma, proprio nel momento in cui il Presidente del Consiglioincaricato, Giulio Andreotti,
stava tentando di far nascere il primo governo con i voti diretti del PCI. Il fronte politico si divise allora
tra i fautori della trattativa con le BR (soprattutto il PSI), e i sostenitori della fermezza (democristiani e
comunisti), convinti che lo Stato non si dovesse piegare ai loro ricatti; alla fine prevalsero questi ultimi. Il
conseguente omicidio di Moro, il cui cadavere fu fatto ritrovare in via Caetani, a metà strada tra le sedi
della DC e del PCI, gettò l'Italia intera nello scompiglio e nel caos. Il ministro dell'Interno Cossiga, che si
era opposto alla trattativa con le BR, fu costretto alle dimissioni. Anche il presidente della Repubblica
Leone fu accusato di non aver fatto abbastanza per salvare Moro; sottoposto tra l'altro a una campagna
mediatica da parte dell'Espresso e del Partito Radicale che lo ritenevano coinvolto nello scandalo
Lockheed, che in quegli anni stava portando a svariate inchieste giudiziarie,[52] Leone si dimise di lì a
poco, nonostante la sua estraneità ai fatti[53] riconosciuta vent'anni dopo dagli stessi
radicali.[54] L'omicidio di Moro accelerò di fatto la fine dei governi di solidarietà nazionale, portando alla
fine anticipata della legislatura nel 1979, e lasciando nella Repubblica Italiana la lugubre sensazione di
avviarsi verso un inesorabile declino.[43]

Gli anni ottanta


Il pesante clima ideologico degli anni settanta, che aveva portato a un vertiginoso accrescimento della
tensione sociale e politica, cominciò a dissolversi all'inizio degli anni ottanta, durante i quali avvenne la
cosiddetta svolta del «riflusso».[55] Già nell'autunno del 1980, la marcia dei quarantamila a Torino fece
emergere l'esistenza di una «maggioranza silenziosa» che si contrapponeva alle proteste dei sindacati
e al clamore degli scontri sociali del decennio precedente. Ci fu così un ritorno delle persone dalle
piazze al privato; cominciò l'era della televisione commerciale, unito a un decollo della pubblicità e a un
incremento dei consumi. Rinacque il Carnevale di Venezia; crebbe la disaffezione dei cittadini per la
politica, ma aumentò il senso di ottimismo e di benessere sociale.[56]

A livello politico ci fu un declino del potere dei sindacati e del Partito Comunista Italiano, parallelamente
all'ascesa di Bettino Craxi tra le file del Partito Socialista Italiano, chiamato nel 1976 a risollevare le
sorti del partito che allora si trovava ai minimi storici, stretto nella tenaglia del tentativo di compromesso
storico tra la DC e il PCI.[57] Già nel 1978 Craxi era riuscito a far eleggere presidente della
Repubblica Sandro Pertini, uomo della vecchia guardia del PSI, che durante il suo mandato si propose
un riavvicinamento più amichevole e sereno dei cittadini alle istituzioni, promuovendo ad esempio
incontri e afflussi di scolaresche al Palazzo del Quirinale. Per il suo carisma, il suo modo di fare schietto
e ironico, il suo affetto verso i bambini, Pertini sarà ricordato come il presidente più amato dagli italiani.
I primi anni ottanta furono tuttavia ancora permeati di una certa turbolenza. La scoperta, ad esempio,
della loggia massonica P2 mise in nuova luce molti dei misteri italiani; il presidente del
consiglio Arnaldo Forlani si dimise per lo scandalo che seguì. Nell'estate 1980 avvennero la strage di
Ustica (un disastro aereo dai contorni tuttora non chiariti) e la strage di Bologna, che provocò 85 vittime
e oltre duecento feriti, mentre nel 1981 un attentato a papa Giovanni Paolo II, polacco, la cui elezione al
soglio pontificio era stata mal vista nell'Est europeo; un altro evento drammatico fu sicuramente
il terremoto che nel 1980 colpì l'Irpinia e numerose zone del sud Italia, causando 2914 morti e un ben
più alto numero di feriti e senza tetto[62]. Nel calcio, invece, esplose uno scandalo scommesse di
notevole rilievo, che vide la condanna di numerosi calciatori e la penalizzazione di alcune importanti
squadre di club.
Tra gli eventi sportivi di rilievo ci fu tuttavia nel 1982 l'inaspettata vittoria della nazionale italiana di
calcio ai mondiali di Spagna, di cui fu protagonista uno dei maggiori imputati nello scandalo, il
calciatore Paolo Rossi.

Alla guida del governo, intanto, andò per la prima volta un politico non appartenente alle fila della DC,
cioè Spadolini del PRI. Fu il preludio della chiamata a Palazzo Chigi di Bettino Craxi, investito da Pertini
l'anno dopo nel 1983. Quello di Craxi sarà ricordato come il governo di più lunga durata fra tutti quelli
che fino allora si erano succeduti: esso si reggeva su un'alleanza di pentapartito del PSI con la DC e
altre forze minori.
Tra i suoi atti di rilievo, Craxi firmò con il Vaticano, nel febbraio del 1984, un protocollo aggiuntivo
ai Patti Lateranensi già stipulati nel 1929, che ribadiva la sovranità e la reciproca indipendenza di Stato
e Chiesa.
Sul piano economico Craxi si propose di combattere la pesante inflazione che si trascinava sin dagli
anni settanta, motivo di stagnazione e crescita lenta, individuandone la causa principale nella scala
mobile, ossia nel meccanismo di adeguamento automatico dei salari all'aumento del costo della vita.
L'abolizione per decreto di alcuni punti della scala mobile scatenò le proteste sia della CGIL (che ruppe
l'unità con le altre sigle sindacali)[63] che del Partito Comunista Italiano, i quali in aperta sfida a Craxi
proclamarono dei pesanti scioperi. Poiché Craxi non demorse, essi riuscirono a far indire
un referendum per sconfiggere la sua nuova legge in materia. Il referendum tenutosi nel giugno
del 1985 vide però la vittoria di Craxi e la sconfitta del PCI, il quale, anche in seguito alla morte del suo
leader Enrico Berlingueravvenuta un anno prima, da allora si avviò a una lenta e inesorabile perdita di
consensi.
Sul versante estero, Craxi da un lato rafforzò i legami dell'Italia con il Patto Atlantico, intensificando i
rapporti con l'America di Ronald Reagan, ma dall'altro mantenne una politica filo-araba nella questione
israelo-palestinese del Medio Oriente, come durante la crisi di Sigonella del 1985. Anche l'anno dopo,
durante il bombardamento americano di Tripoli a cui seguì una rappresaglia libica con lancio di missili
su Lampedusa, Craxi si rivelò indulgente verso Mu'ammar Gheddafi, mostrando di disapprovare
piuttosto l'attacco americano e il suo coinvolgimento del suolo italiano.[64]
Per il resto, tuttavia, l'Italia di Craxi appoggiò il progetto americano di uno scudo missilistico, in risposta
alle minacce del mondo comunista-sovietico fattesi sempre più pressanti, progetto a cui si erano
allineati anche gli altri paesi occidentali come il Regno Unito, la Francia, la Germania e la Spagna, e
che si rivelerà determinante per mettere in crisi l'apparato strategico e finanziario dell'Unione Sovietica,
accelerandone la caduta e la svolta di Michail Gorbačëv. Il PCI, invece, in occasione dell'installazione
della base missilistica a Comiso, non mancò di schierarsi dalla parte del regime sovietico.[65]

Nella seconda metà degli anni ottanta ci fu una crescita significativa del Prodotto interno lordo italiano,
grazie a diversi fattori come il calo dell'inflazione e l'introduzione di alcuni elementi di libero mercato,
che portò l'Italia ad affermarsi come la quinta potenza economica mondiale.[67] Si impose il made in Italy,
trascinato dalla moda[68] e dai prodotti alimentari di consumo.[69] Da paese di emigranti l'Italia si scoprì
terra di immigrati, provenienti soprattutto dai paesi "extracomunitari" del terzo mondo.[70] Nel 1987,
intanto, la DC si dichiarò non più disponibile a dare la fiducia a Craxi, obbligandolo a lasciare la
presidenza del Consiglio a Giovanni Goria, uomo di Ciriaco De Mita: questi, avversario di Craxi, era
espressione dell'ala sinistra della DC e favorevole all'antico progetto di alleanza consociativa tra DC e
PCI.[71] Di fronte al pericolo di perdere peso e visibilità nell'ambito della spartizione dei posti di potere,
che vedeva ad esempio l'assegnazione delle tre reti pubbliche della televisione non solo ai due partiti di
maggioranza, ma anche al PCI, Craxi diede vita a una politica movimentista di piazza, antagonista alla
DC. Tra i risultati di queste iniziative vi furono i referendum del 1987 a favore della punibilità civile dei
magistrati (vanificato in seguito dalla legge Vassalli)[72] e quello sul "nucleare" che riscosse molti
consensi sull'onda emotiva del disastro di Černobyl' decretando l'abolizione della produzione di energia
nucleare in Italia.
Quando poi nel 1988 lo stesso De Mita succedette a Goria alla guida del governo, Craxi sfruttò il
malcontento di diversi settori della destra democristiana, formando contro di lui una solida alleanza
insieme ad Andreotti e Forlani, ribattezzata C.A.F. (dalle iniziali dei cognomi dei tre protagonisti), che
prevedeva una loro alternanza al governo con programmatica esclusione della sinistra estrema.

Il passaggio agli anni '90


Il CAF costrinse ben presto alle dimissioni De Mita, che fu sostituito nel 1989 da Andreotti. La solidità
del patto Craxi-Andreotti-Forlani suscitò tuttavia una sensazione di immobilismo, dando l'impressione
che i politici si accordassero tra loro indipendentemente dal resto del paese. Ciò nonostante, dal
governo Andreotti furono avviate alcune importanti riforme economiche come l'apertura agli
investimenti privati nelle università,[73] e soprattutto l'adesione al trattato di Maastricht, che nel 1992
avrebbe aperto il mercato italiano alla libera concorrenza internazionale, rendendo obsoleto il sistema
economico basato sul consociativismo e le partecipazioni statali su cui si era retto fino allora.[74]
La caduta del muro di Berlino, che assunse il significato ideale di un crollo dell'alternativa al capitalismo,
portò ad un'accelerazione degli eventi politici. Con la fine della guerra fredda caddero in molti elettori
moderati le ragioni per votare democristiano in funzione anticomunista; cominciarono così a crescere
nuovi movimenti post-ideologici come la Lega Nordche contestavano la partitocrazia. Il PCI deliberò il
proprio scioglimento, attuando una revisione ideologica che si protrarrà attraverso varie tappe fino al
1998. Con la crisi dei partiti tradizionali crebbe anche il ruolo supplente del presidente della
Repubblica Francesco Cossiga, che iniziò sempre più a intervenire nella vita politica con pubbliche
dichiarazioni e prese di posizione volutamente provocatorie, per stimolarne un cambiamento.
Autodenunciatosi alla magistratura come referente politico di Gladio, egli avvertiva che la fine della
guerra fredda e della contrapposizione tra i due blocchi internazionali avrebbe determinato lo
"scongelamento" del sistema politico italiano, rimasto da sempre bloccato da una paralisi consociativa
dovuta alla cinquantennale presenza al suo interno del più grande partito comunista d'Occidente.[75]
La revisione ideologica del PCI, che scelse di chiamarsi Partito Democratico della Sinistra, non
condusse tuttavia ad un avvicinamento al PSI, per via del rapporto travagliato tra i due partiti che si era
andato logorando lungo tutti gli anni ottanta;[76] restava dunque ancora lontana la costruzione di un
blocco di sinistra alternativo alla DC, e con essa la possibilità di uscire dalla paralisi consociativa del
sistema. In occasione della Guerra del Golfo del 1991, a cui l'Italia partecipò con proprie forze militari
sotto l'egida dell'ONU, il neonato PDS si schierò contro la guerra in antitesi all'orientamento della
comunità internazionale, attirandosi così le critiche, da parte di Craxi, di aver attuato una svolta filo-
occidentale poco credibile.[77]
Nel giugno dello stesso anno, intanto, l'emergente leader Mariotto Segni propose dei referendum per
abolire il voto proporzionale, ritenuto una delle cause della paralisi del sistema: il primo passo in questa
direzione fu la proposta di introduzione della preferenza unica, che ebbe notevole successo
ai referendum del giugno 1991.

Mani pulite e la stagione delle stragi mafiose


In vista delle elezioni dell'aprile 1992 crebbe fortemente il tasso di faziosità generale, soprattutto a
livello mediatico, dove nella retecontrollata dal Pds le trasmissioni condotte da Michele Santoro, a cui si
aggiunsero quelle di Gad Lerner, riscossero sempre più successo nel presentare un paese allo sfascio
e nel rivolgere attacchi senza precedenti al pentapartito.[78]
Si assistette inoltre a un coinvolgimento sempre più accentuato nell'agone politico di diversi settori della
società civile, come il capo dello Stato, gli organi di stampa, Confindustria, e soprattutto la magistratura,
rimasti fino allora neutrali.[78]
Nel 1992 le indagini della magistratura milanese, dette "di Mani pulite", sul fenomeno dilagante
delle tangenti (da cui il nome dello scandalo chiamato appunto "Tangentopoli"), portarono alla scoperta
di numerosi intrecci irregolari tra politica e affari,[79] originati da un consociativismopatologico.[80] Furono
colpiti quasi solamente esponenti del pentapartito, ossia delle forze politiche di maggioranza che fino
allora erano state al governo. Fu per questo che Craxi, uno dei principali imputati, in un discorso al
Parlamento chiamò in correità anche i partiti dell'opposizione, dichiarando «spergiuro» chi avesse
negato di non aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti.[81][82]
Sul piano economico, intanto, l'Italia subì una pesante crisi finanziaria: nel 1992 la lira venne svalutata
e uscì dal Sistema monetario europeoavendo superato i margini di fluttuazione consentiti. Cresceva
anche il debito pubblico, salito costantemente sin dagli anni settanta per il vertigionoso aumento
della spesa pubblica (quasi raddoppiata dal 1960)[83] causato da un oneroso sistema di Stato sociale e
dall'attuazione di politiche keynesiane di sostegno alla produzione.[84][85] Se negli anni settanta il peso
del debito era stato mitigato dalla forte inflazione, negli anni ottanta era andato fuori controllo per
l'avvenuta separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia, fino a raggiungere il 121,8%
nel 1994,[86] alimentato dal circolo vizioso della spesa per interessi passivi sui titoli di stato.[87][88]
Nelle elezioni politiche del 5 aprile 1992 la DC ottenne il minimo storico dei suffragi pur conservando la
maggioranza relativa, PDS e PRC assommati ricevettero molti meno voti del vecchio PCI, mentre gli
altri partiti di governo rimasero pressoché stabili nelle preferenze; la Lega Nord ottenne un risultato
sorprendente vincendo in numerosi collegi settentrionali e ottenendo quasi il 9% a livello nazionale.
Anche La Rete e i Verdi riuscirono a fare eleggere alcuni loro candidati: conseguenza del voto fu un
parlamento molto frammentato e senza una maggioranza robusta. Quando, a maggio, le Camere
appena riunite furono chiamate a votare il nuovo Presidente della Repubblica, le votazioni si tennero in
un clima di caos totale (in quegli stessi giorni avvenne la strage di Capaci, in cui rimasero uccisi il
giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta) e fu affossata dapprima
la candidatura di Arnaldo Forlani, poi quella di Giulio Andreotti. Alla fine, fu eletto il democristiano Oscar
Luigi Scalfaro, che si rifiutò di concedere incarichi ai politici vicini agli inquisiti: Craxi, che aspirava a
tornare alla presidenza del Consiglio, dovette rinunciare in favore di Giuliano Amato, che varò una
finanziaria molto onerosa, detta di «lacrime e sangue», mentre le forze del pentapartito crollavano sotto
i colpi dell'inchiesta "Mani Pulite", che portò alle dimissioni degli allora ministri Claudio
Martelli (PSI), Francesco De Lorenzo (PLI), Giovanni Goria (DC) e Franco Reviglio (PSI), raggiunti
dagli avvisi di garanzia. In seguito alla strage di via d'Amelio (19 luglio), in cui rimasero uccisi il
giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, il Governo Amato fu costretto a dare il via
all'"Operazione Vespri siciliani", con cui vennero inviati 7000 uomini dell'Esercito in Sicilia per presidiare
gli obiettivi sensibili, e dispose inoltre il trasferimento in blocco di circa cento detenuti mafiosi nelle
carceri dell'Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno[89].
Il 18 aprile 1993 i nuovi referendum voluti da Mario Segni, forte del successo del 1991, sancirono la fine
del proporzionale e l'introduzione del Mattarellum, cioè di un sistema di voto in gran parte maggioritario,
che spingendo i partiti ad accorparsi in coalizioni avrebbe segnato la fine di un'epoca. Dinanzi ai nuovi
scenari Amato rassegnò le dimissioni e subentrò un governo guidato per la prima volta non da un
parlamentare ma da un tecnico indipendente, Carlo Azeglio Ciampi, che avrebbe traghettato il sistema
verso la seconda repubblica. Nel maggio-luglio 1993 alcuni attentati
dinamitardi a Roma, Firenze e Milano provocarono in tutto dieci morti, un centinaio di feriti e numerosi
danni al patrimonio artistico italiano: tale strategia si collocava nell'ambito della feroce risposta di Cosa
Nostra all'applicazione di nuovi strumenti legislativi per la lotta alla mafia (articolo 41 bis, legge
sui collaboratori di giustizia)[90]. Nello stesso periodo scoppiò anche lo "scandalo SISDE", relativo alla
gestione di fondi riservati, che arrivò a coinvolgere il Presidente della Repubblica Oscar Luigi
Scalfaro[91].

Seconda Repubblica
Il nuovo panorama politico
Nel vuoto politico dello schieramento moderato, derivante dalla disintegrazione dell'ordine precedente,
emerse un nuovo partito fondato dall'imprenditore Silvio Berlusconi, Forza Italia, che si poneva come
alternativa al vecchio sistema pur inglobando alcuni dei suoi protagonisti, e ottenne un forte successo
alle elezioni del 1994, con due distinte coalizioni, al Nord con la Lega Nord, e al Centro-Sud con il MSI,
in procinto di sciogliersi dentro Alleanza Nazionale. Della coalizione facevano parte anche il CCD e
partiti minori. Le due coalizioni ottennero la maggioranza assoluta alla Camera, ma non al Senato.

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