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IL RISORGIMENTO: QUADRO SINOTTICO.

Per Risorgimento si intende 1) il processo di unificazione della penisola italiana (l’Italia preunitaria
era divisa in 7 Stati tra loro indipendenti: Regno di Sardegna che comprendeva Piemonte, Valle
d’Aosta, Liguria, Sardegna, Nizza e Savoia; Regno lombardo-veneto che comprendeva la Lombardia e il
Veneto ed era dominato dagli austriaci; Granducato di Toscana che comprendeva la sola Toscana; Stato
delle chiesa che comprendeva la Romagna, l’Umbria, il Lazio, le Marche; Regno delle due Sicilie che
comprendeva l’Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia; a questi vanno aggiunti i
piccoli ducati di Modena e di Parma che corrispondevano all’odierna Emilia). 2) Il processo di
indipendenza della penisola dallo straniero (la nostra nazione non doveva semplicemente unificarsi, ma
doveva anche rendere indipendente/liberare il nord Italia, cioè il regno lombardo-veneto, dal dominio
dell’impero austriaco). 3) Il processo di trasformazione della penisola in uno Stato costituzionale e
basata su principi liberali (tutti gli Stati preunitari, tranne il regno di Sardegna che dal 1848 si era dotato
dello Statuto Albertino, non avevano costituzioni ed erano retti in modo assolutistico)

17/03/1861: nasce il Regno d’Italia e Re Vittorio Emanuele II di Savoia, in precedenza Re di Sardegna,


viene proclamato primo re d’Italia (la proclamazione avviene a Torino a palazzo Carignano, prima sede
del parlamento italiano).

Il regno che si occupa di unificare l’Italia è il Regno di Sardegna (che comprendeva le regioni del
Piemonte, Liguria, valle d’Aosta e Sardegna, Nizza e Savoia) con capitale Torino e con a capo la dinastia
dei Savoia (AGGETTIVO= SABAUDA).

La costituzione del regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia è lo STATUTO ALBERTINO. Lo statuto
Albertino era stata la costituzione del Regno di Sardegna dal marzo 1848 e, con la nascita del Regno
d’Italia, verrà esteso a tutta la penisola (si chiama Statuto albertino perché fu concesso/ottriata al regno di
Sardegna da re Carlo Alberto). Esso prevedeva una monarchia costituzionale.

Il regno d’Italia finisce il 2/06/1946 quando a seguito di un referendum (monarchia o repubblica) gli
italiani scelsero la REPUBBLICA. Per la prima volta votano anche le donne in quanto viene adottato il
suffragio universale maschile e femminile

Per unificare la penisola Italiana sono state necessarie 3 guerre d’indipendenza:

1) 1848-1849: nessun esito.

2) 1859-1860: nasce il regno d’Italia.

3)1866-1867: il regno d’Italia annette il Veneto a seguito della guerra austro-prussiana vinta dalla
Prussia, alleata dell’Italia

- Per alcuni storici la PRIMA GUERRA MONDIALE può essere considerata come la quarta guerra
d’indipendenza, in quanto a seguito della vittoria dell’Italia sancita dal trattato di Saint-Germain il regno
d’Italia annette Trento e Trieste (1919)

Rispetto alla configurazione geopolitica attuale, all’Italia del 1861 mancavano ancora i seguenti territori:
VENETO (annesso nel 1866), ROMA/Stato della Chiesa (ovvero l’attuale Lazio, annesso nel 1870 a
seguito della Breccia di Porta Pia), TRENTO E TRIESTE (note come le terre irredente, annesse dopo
la prima guerra mondiale nel 1919).

Il regno d’Italia ha avuto 4 Re:


1) Vittorio Emanuele II, noto come il re “galantuomo” (re d’Italia dal 1861-1878)

2) Umberto I noto come il re “buono” (re d’Italia dal 1878-1900). Il quartiere umbertino di Bari, il
cui edificio più rappresentativo è il teatro Petruzzelli, è così chiamato perché edificato durante il
regno di Umberto I. Viene assassinato nel 1900 a Monza dall’anarco-socialista Gaetano Bresci

3) Vittorio Emanuele III, noto come il re ”soldato” (re d’Italia dal 1900-maggio 1946)

4) Umberto II, noto come il re di Maggio” (re d’Italia dal maggio 1946-giugno 1946)

L’Italia ha avuto nella sua storia 3 Capitali:

1) Torino (1861-1864)

2) Firenze (1864-1871)

3) Roma (1871 sino ai nostri giorni)

IL RISORGIMENTO ITALIANO
- Per Risorgimento italiano si intende il processo di unificazione della penisola italiana in un
unico regno: il regno d'Italia che nascerà formalmente il 17 marzo 1861 sotto la guida della
dinastia dei Savoia. Poiché l'Italia settentrionale era in un buona parta sotto il giogo austriaco,
l'unificazione italiana ha avuto bisogno di tutta una serie di guerre d'indipendenza finalizzate alla
liberazione del nord-est italiano dal dominio ausburgico (le tre guerre d'indipendenza). La
rivoluzione europea del 1848 – nota come "primavera dei popoli" - corrisponde in Italia alla
prima guerra d'indipendenza.

LA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA (1848-49)


- La prima guerra di indipendenza italiana è un episodio del Risorgimento italiano: rappresentò il
primo dei tre conflitti (quattro, se si considera anche la prima guerra mondiale come una guerra
d’indipendenza) che opposero il Regno di Sardegna – divenuto a partire dal 1861 il Regno d’Italia -
all'impero austro-ungarico, con il fine era quello di liberare l'Italia settentrionale dal dominio
asburgico. La prima guerra d'indipendenza si divise in due fasi: 1) la fase neoguelfa (23 marzo-9
agosto 1848) che termina con la sconfitta dei Savoia ad opera dell'esercito austriaco nella battaglia
di Custoza. 2) la fase repubblicana (1849) che termina con una nuova sconfitta dell'esercito
sabaudo sempre contro l’Impero austriaco nella battaglia di Novara e la conseguente repressione
delle repubbliche di Roma, Firenze e Venezia ad opera degli eserciti francesi e austriaci.

Fase neoguelfa
- Il 1848 registrò una serie di moti insurrezionali che riguardarono tutta l'Europa. La popolazione
veneziana, sempre più insofferente nei confronti del dominio austriaco, insorse e liberò con la forza
dalle carceri asburgiche due noti patrioti, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, che si posero a capo
dell'insurrezione popolare e proclamarono la repubblica veneziana. La rivoluzione si estese anche
a Milano, dove il comandante dell'esercito austriaco del Lombardo-Veneto, feldmaresciallo
Radetzky, si vide costretto ad abbandonare la città dopo cinque giorni di furiosi scontri (le Cinque
giornate di Milano: 18-22 marzo 1848). Identiche insurrezioni si verificarono in tante altre città
settentrionali.
- Proprio il giorno dopo la conclusione vittoriosa delle cinque giornate di Milano, il re di Sardegna
Carlo Alberto di Savoia, in appoggio ai rivoluzionari milanesi e veneziani e alla loro lotta per
cacciare definitivamente gli austriaci dal Lombardo-Veneto, dichiarò guerra all'Austria. Ebbe
così inizio la prima guerra di indipendenza (23 marzo 1848). Due sono i motivi che portarono il re
di Sardegna a intervenire contro l’Austria. 1) A differenza della rivoluzione francese, che è stata
essenzialmente una rivoluzione di tipo borghese, il Quarantotto vede come protagonisti accanto alla
borghesia liberale anche una componente massiccia di appartenenti agli strati meno abbienti della
popolazione, con idee sociopolitiche più radicali, quasi sempre ispirate al pensiero di Giuseppe
Mazzini. La borghesia lombardo-veneta, interessata a preservare i propri interessi, voleva che la
rivoluzione anti-austriaca portasse a un nuovo regime politico di tipo liberale, moderato,
monarchico-costituzionale. Mentre per il “popolo”, influenzato dal mazzinianesimo, il nuovo
regime doveva essere una repubblica democratica con forti tratti progressisti/sociali, in grado di
rappresentare gli interessi di tutto, e non solo della borghesia. Sarà proprio la borghesia
lombardo-veneta che richiederà l’intervento di Carlo Alberto. Temendo che la rivoluzione
finisse nelle mani dei “mazziniani” assumendo toni repubblicani-democratici-popolari, i
moderati chiedono al re sabaudo di intervenire contro l’Austria. In caso di vittoria, il Lombardo-
veneto sarebbe stato annesso al regno di Sardegna, dando vita a un grade regno dell’”Alta Italia”
con a capo i Savoia e con un forte carattere liberale/moderato/borghese. 2) La dinastia dei Savoia
da tempo guardava al nord Italia come a un territorio su cui estendere la propria sovranità.
Le rivoluzioni in atto e l’invito ad intervenire e ad annettere, in caso di vittoria, il Lombardo-veneto,
rappresentavano per Carlo Alberto la possibilità di realizzare questo progetto dinastico. Come si
capisce, l’interesse dei Savoia nel 1848, così come per molti anni ancora, non è ancora di tipo
“nazionalistico”, “patriottico”, ovvero proteso all’unificazione di tutta la penisola, ma di tipo
“dinastico”, ovvero rivolto all’allargamento del regno, all’estensione dei propri possedimenti
dinastici nel solo nord Italia
- Nelle prime fasi della guerra il re Carlo Alberto si giovò anche della partecipazione al
conflitto degli eserciti mandati da papa Pio IX, dal granduca Leopoldo II di Toscana e dal re
duosiciliano: ai circa 30.000 soldati piemontesi se ne aggiunsero 7.000 pontifici, 7.000 toscani e
16.000 napoletani. Ma per quale motivo il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa e il Regno
delle due Sicilie decidono di appoggiare il Regno di Sardegna nella guerra contro gli austriaci?
L’alleanza tra i quattro grandi regni della penisola era motivata dall’intenzione comune di tentare
una prima unificazione dell’Italia in termini federali. L'Italia cioè doveva unificarsi come uno stato
federale composto da 4 stati regionali: a Nord il Regno di Sardegna + il Lombardo-Veneto di nuova
annessione; al centro-nord il Granducato di Toscana; al centro lo Stato della chiesa; a sud il Regno
di Sicilia. A capo della federazione italiana doveva essere posto il Papa, Pio IX. Non a caso la
storiografia definisce questo primo progetto di unificazione neoguelfo (nel medioevo i guelfi
rappresentavano lo schieramento papale, opposto ai ghibellini che costituivano lo schieramento
imperiale), perché l'intenzione dei sovrani dei 4 regni della penisola era quella di unificare l'Italia in
termini federali, concedendo la carica di presidente federale al papa. Papa Pio IX, il cui cognome
era Mastai-Ferretti, vescovo di Roma dal 1846 al 1878 (il suo sarà il pontificato più lungo della
storia se si fa eccezione per quello di san Pietro), suscitò da subito l’entusiasmo dei patrioti
moderati italiani. Appena salito al soglio pontificio iniziò un opera di modernizzazione liberale
dello Stato della Chiesa, tale da meritarsi l’appellativo di “papa liberale”: introdusse alcuni diritti
civili, allentò la censura sulla libertà di espressione, concesse un amnistia ai detenuti politici. Ma
soprattutto, all’inizio della prima guerra d’indipendenza contribuì alla realizzazione del progetto
federale neoguelfo mettendosi a capo del processo risorgimentale. Tuttavia, nel corso della
primavera del 1848 cambiò radicalmente opinione, diventando da allora in poi il più grande
oppositore all’unificazione dell’Italia.
- Le prime battaglie tra la coalizione dei 4 Regni della penisola contro lo schieramento asburgico
furono favorevoli agli eserciti italiani. Con la battaglia di Pastrengo del 30 aprile 1848 Carlo
Alberto e i suoi alleati riuscirono a infliggere agli austriaci una grave sconfitta. Subito dopo, però,
Pio IX, tra la sorpresa generale, sconfessava le sue intenzioni iniziali e ordina al suo esercito di
ritirarsi, sostenendo di trovarsi nell'insostenibile imbarazzo di dover combattere contro la più
grande potenza cattolica dell’area germanica, cioè l’Austria, e impaurito dalla minaccia di un
possibile scisma dei cattolici austriaci. Nei fatti, però, Pio IX stava maturando la convinzione che
tanto l’unificazione della penisola, quanto eccessive concessioni liberali avrebbero inevitabilmente
messo a rischio il potere politico “assolutistico” della chiesa. Non a caso, si rifiuterà di dotare lo
Stato della chiesa di una costituzione, come richiesto dai liberali romani, costringendo questi ultimi
a “radicalizzarsi” e a pensare alla possibilità di cacciare il papa e di dar vita a una repubblica
secolare, come poi avverrà nel 1849.
- Per quanto buona parte dell'esercito pontificio non ubbidì all'ordine di ritirata del papa e continuò
a combattere, l'annuncio di Pio IX diede l'occasione anche a Ferdinando II di Borbone e al
granduca di Toscana di comandare la ritirata dal conflitto dei propri eserciti, lasciando solo
Carlo Alberto. La decisione di questi due sovrani fu determinata dal fatto che il Ducato il Parma,
retto da una dinastia borbonica, aveva iniziato a chiedere la propria annessione al Regno di
Sardegna; mentre la Sicilia aveva appena inviato una delegazione a Torino con il compito di offrire
a Ferdinando di Savoia, figlio secondogenito di Carlo Alberto, la corona di re di Sicilia (cioè della
sola isola siciliana, che così si sarebbe costituita in un regno indipendente da Napoli). Entrambe le
richiesta mandavano all’aria il progetto federativo neoguelfo.
- La ritirata degli eserciti italiani e l’isolamento militare del Regno di Sardegna, fornì l'occasione
agli austriaci guidati dal generale Radetzky di recuperare il terreno perso e di sconfiggere nella
Battaglia di Custoza del 25 Luglio 1848 l’esercito sabaudo, costringendo Carlo Alberto alla resa
e alla firma dell'armistizio, il cosiddetto “armistizio di Salasco”. Ha termine così la prima fase,
detta “fase neoguelfa”, del Quarantotto italiano. Tutte le città liberate tornavano nelle mani degli
austriaci, con l'eccezione di Venezia, che resterà ancora per qualche mese una repubblica e che si
preparava a subire un lungo assedio da parte degli austriaci. Tuttavia, entrambi i contendenti
principali sapevano che la tregua era temporanea, in quanto, essendo mancata una decisiva sconfitta
sarda, si sarebbe giunti, presto o tardi, alla ripresa delle ostilità.

Fase repubblicana

- Nell'ottobre del 1848 i rivoluzionari di Firenze insorgono e, dopo aver cacciato il granduca di
Toscana, danno vita ad una repubblica. Nel novembre del 1848 è il turno dei giacobini romani che
impongono a papa Pio IX di lasciare la “città eterna” e fondano una Repubblica Romana, tra i cui
governatori troviamo anche Giuseppe Mazzini. Sul finire del 1848, quindi, abbiamo in Italia 3
repubbliche: Venezia, Firenze e Roma. Inizia la seconda fase della prima guerra di indipendenza,
nota come “fase repubblicana”.
- Infatti, approfittando di questa nuova situazione rivoluzionaria, Carlo Alberto rompe la tregua con
l'Impero austriaco e il 20 marzo 1849 riprende la guerra. Ma fu ancora una volta pesantemente
sconfitto a Novara, il 22-23 marzo 1849. Carlo Alberto, umiliato dall’ennesima sconfitta, lascia il
trono sardo e decide di abdicare a favore di suo figlio Vittorio Emanuele II (il futuro primo re
d'Italia). Nelle giornate successive Radetzky chiuse anche la partita con i patrioti lombardi,
soffocando sul nascere alcuni tentativi di ribellione (come quello di Como), soffocandone nel
sangue altri (come quello di Brescia) e proseguendo l'assedio di Venezia, l’unica a mantenere
ancora un assetto repubblicano e a lottare contro l’esercito asburgico.
- Dopo la sconfitta dei Savoia, gli unici in grado di sostenere i rivoluzionari italiani, la strada era
quindi libera per una nuova restaurazione. Ad assumersi il compito di abbattere le repubbliche
riportando sul trono i vecchi sovrani furono l’esercito austriaco e francese. Un’armata austriaca
assalì ed occupò Firenze il 25 maggio mettendo fine alla repubblica. Venezia stremata dall'assedio
austriaco, dalla fame e da un'epidemia di colera, dovette alla fine arrendersi, sottoscrivendo la
resa il 23 agosto 1849. Ad occuparsi di Roma fu l’esercito francese. Su ordine di Luigi Napoleone
(allora capo della seconda repubblica francese e in seguito imperatore con il nome di Napoleone
III) il 1º giugno 1849 i soldati francesi piegarono dopo una lunghissima resistenza la Repubblica
Romana, riportando in città Pio IX e restaurando l’assolutistico Stato della Chiesa. A difendere la
repubblica romana dall’esercito francese vi era anche Giuseppe Garibaldi, all’epoca molto vicino
agli ideali di Mazzini. Quando ormai la sconfitta era inevitabile “l’eroe dei due mondi” decide di
lasciare Roma e di cercare la salvezza altrove. Durate la fuga, faticosissima e piena di rischi, Anita,
l’amatissima moglie brasiliana di Garibaldi, perderà la vita a causa degli insopportabili stenti. Era in
attesa di un figlio.
- Finiva in questo modo fallimentare la “primavera dei popoli” in Italia, il primo tentativo
d'indipendenza del nord-est italiano dagli austriaci e di unificazione dell’intera penisola.

Il Piemonte “costituzionale” e la figura di Cavour

- Con la fine della rivoluzione del 1848 tutti gli stati italiani (Stato della Chiesa, Granducato di
Toscana, Regno di Napoli, Regno Lombardo-veneto) ritornano ad una gestione “assolutistica”
(monarchia assoluta, in cui tutti i poteri – legislativo, esecutivo, giurisdizionale – sono accorpati
nella figura del re; e in cui il re nelle sue decisioni non è limitato da nessuna legge costituzionale).
In tali stati, quindi, vengono abrogate le costituzione, concesse durante la rivoluzione del
Quarantotto, e viene accentuato il regime di censura e di repressione di qualsiasi tentativo di
rivendicazione costituzionale e unitaria. Si pensi soprattutto al regno Lombardo-veneto che verrà
governato da 1848 al 1857 dal crudelissimo maresciallo Radetzky.

- A fare eccezione è solo il Regno di Sardegna, l’unico a mantenere un assetto costituzionale (la
costituzione del regno di Sardegna è nota come lo "Statuto albertino", concessa da Carlo Alberto nel
marzo del 1848. Lo Statuto albertino sarà anche la costituzione del regno d'Italia dal 1861 al 1946)
e a procedere a riforme politiche ed economiche di carattere liberale e borghese. Se a ciò si
aggiunge che il Piemonte accetterà anche di ospitare i patrioti italiani ricercati nei loro territori di
origine (l’emigrazione politica era rivolta anche verso Francia e Inghilterra) si capisce perché
secondo l’opinione pubblica italiana il regno di Sardegna diventasse sempre di più il punto di
riferimento per tutti gli italiani interessati a una futura unificazione della penisola.

- Primo capo del governo del regno di Sardegna “costituzionale” è Cesare Balbo (che, con
Gioberti, aveva in precedenza contribuito alla definizione del programma neoguelfo). Secondo capo
del governo è Massimo d’Azeglio (l’autore del romanzo “risorgimentale” Ettore Fieramosca,
ovvero la disfida di Barletta. D’Azeglio è anche colui che ha pronunciato la famosa affermazione:
“abbiamo fatto l’Italia, adesso dobbiamo fare gli Italiani”).

- Intanto, nel 1848 viene eletto per la prima volta al parlamento torinese Camillo Benso Conte di
Cavour, che da allora in poi sarà uno dei protagonisti del risorgimento italiano. Nel 1850 Cavour,
grazie alle sue competenze politiche e economiche, entra a far parte del governo piemontese con la
carica di ministro del commercio, dell’agricoltura e delle finanze. Ammiratore del liberismo
economico e del liberalismo politico, Cavour aveva viaggiato molto ed era diventato un grande
conoscitore della cultura politica e economica della Francia e dell’Inghilterra, i due paesi più
avanzati in senso liberale da un punto di vista sia politico che economico. Grazie alla frequentazioni
e alla conoscenza approfondita del modus operandi politico ed economico di questi due grandi stati,
Cavour diventò ben presto un grande esperto 1) dell’organizzazione economico-capitalistica
dell’industria e dell’agricoltura, 2) della gestione della vita parlamentare (diventerà ben presto
l’unico in grado di avere una maggioranza in parlamento, tant’è che venne definito in seguito il
“dittatore del parlamento”) e 3) delle relazioni diplomatiche tra i diversi paesi europei. Sarà proprio
inserendosi in tali relazioni che Cavour riuscirà ad ottenere l’appoggio di Francia e Inghilterra
contro l’impero asburgico nella II guerra d'indipendenza. Non a caso gli storici sono d’accordo nel
dire che l’unità italiana non si è ottenuta tanto con le guerre e l’esercito ma con i soldi e le relazioni
diplomatiche di cui Cavour era un grande esperto.

- Nel corso 1852 Cavour, che faceva parte della “destra storica”, partito di orientamento liberal-
conservatore, riuscirà a stringere accordi con alcuni membri della “sinistra storica”, partito di
orientamento liberal-progressista, dando vita al cosiddetto “connubio”. In questo modo riuscirà a
costituire un’ampia maggioranza in parlamento disposta ad appoggiarlo e potrà diventare per la
prima volta capo del governo sabaudo (starà a capo del governo piemontese dal 1852 al marzo
1861; dal marzo 1861 al giugno 1861, quando morirà, sarà il primo capo del governo dell’Italia
unita)

- Raggiunta la guida del Governo, Camillo Benso Conte di Cavour si diede al potenziamento
economico-industriale del Regno di Sardegna, favorendo la costruzione di ferrovie e di strade
(nel 1859 il Piemonte aveva 807 km di ferrovie, più di ogni altro stato italiano). Rese il porto di
Genova il più grande d'Italia. Diede nuova vita all'agricoltura introducendo nuove coltivazioni e
abolendo il dazio sul grano (tale abolizione è tipica di una concezione liberoscambista
dell’economia), facendo opere di bonifica e costruzione di canali d'irrigazione. Favorì la
creazione di un'industria siderurgica (fondamentale per la costruzione di infrastrutture) e il
potenziamento dell'industria tessile. Tutto ciò comportò un alto costo finanziario che Cavour
affrontò contraendo pesanti prestiti con la Francia e l'Inghilterra, i cui rimborsi furono coperti
con gravose tassazioni che non risparmiarono neppure i generi alimentari con grave disagio dei ceti
più deboli. Inoltre si preoccupò della creazione dei primi moderni istituti di credito (banche) a
Genova e a Torino. Ma soprattutto Cavour, in sintonia con la tradizione di casa Savoia, mirava a
un ampliamento territoriale del Regno di Sardegna in direzione del Lombardo-Veneto
austriaco, per trasformarlo in un grande stato europeo. La prima occasione per mettere in pratica
quest’ultimo progetto gli fu data dalla “guerra di Crimea” del 1853.

- Uno degli eventi più significativi del risorgimento italiano è la guerra di Crimea, scoppiata nel
1853 e terminata nel 1856, e che vide contrapposti, da una parte l’impero russo, dall’altra
un’alleanza formata da Inghilterra, Francia e Regno di Sardegna. In generale, tale episodio bellico si
situa all’interno della cosiddetta “Questione d'oriente”. In storiografia la Questione d’Oriente
indica quel processo iniziatosi nell’Ottocento e conclusosi dopo la prima guerra mondiale che ha
portato alla decadenza e alla progressiva dissoluzione dell’Impero Ottomano e a tutta quella
serie di problemi internazionali e di ristrutturazione geo-politica connessi a tale processo. I turchi
ottomani, popolazione stanziata nell'attuale turchia, di stirpe mongola e di religione islamica, grazie
alle loro capacità militari iniziano a partire dal XIII secolo d. C. la progressiva conquista di buona
parte del medio oriente, dell’africa del nord e, soprattutto, dell’Europa balcanica, sottomettendo
regioni corrispondenti all’attuale Grecia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Romania, Albania e Montenegro
(anche l’Ungheria fu per qualche tempo sottomessa al dominio ottomano, e la stessa Vienna fu più
volte messa sotto assedio). Tuttavia, come si diceva, a partire dal XIX secolo, l’impero ottomano
entra in una fase di decadenza politica e militare. Soprattutto nei Balcani, i popoli sottomessi ne
approfittano per liberarsi dal giogo ottomano e per tentare di costituirsi come nazioni indipendenti.
Ma questi loro progetti indipendentistici troveranno un ostacolo nelle mire espansionistiche
dell’Impero russo e austriaco. Infatti, con l’allentamento del controllo ottomano buona parte dei
popoli balcanici, lungi dal raggiungere l’indipendenza nazionale, finirono progressivamente con
l’entrare nell’orbita o russa o asburgica, per via diplomatica o anche mediante l’uso
dell’occupazione militare (all’inizio del XX secolo anche la Serbia inizierà ad avere mire
annessionistiche nei Balcani, e proprio lo scontro tra Austria e Serbia sarà uno delle cause della
Prima guerra mondiale). La guerra di Crimea è proprio un episodio della Questione d’oriente. Si
tratta di un conflitto combattuto dal 1853 al 1856 dalla Russia zarista contro una coalizione di stati
europei alleati dell'Impero ottomano, tra cui Regno Unito, Francia e Regno di Sardegna. Obbiettivo
della Russia era quello di conquistare i ducati di Valacchia e la Moldavia (due regioni che, con la
Transilvania, formano l’attuale Romania) entrambi in lotta per liberatisi dal dominio ottomano. La
Russia cercava in questo modo di ottenere il controllo di parte dei Balcani come premessa per un
futuro “sbocco a mare” nel Mediterraneo. Tale progetto non poteva che trovare l’opposizione di
Inghilterra e Francia, che vedevano messo a rischio il loro dominio sul mar Mediterraneo. Cavour,
nonostante lo scarso interesse geopolitico che i Balcani avevano per il regno sabaudo, offrì
l'alleanza del Piemonte allo schieramento anglo-francese, inviando nel 1855 in Crimea un corpo
d'armata di 18.000 uomini. La guerra si concluse con la sconfitta della Russia sancita dalla pace di
Parigi del 1856. Durante la conferenza di pace, Cavour non chiese alcun compenso territoriale per
la partecipazione alla guerra, ma pretese che una seduta fosse dedicata espressamente a
discutere il problema italiano per presentarlo all'attenzione dell'opinione pubblica europea.
Egli poté quindi sostenere pubblicamente che la politica repressiva dell'Austria nel Lombardo-
Veneto era la vera responsabile dell'inquietudine rivoluzionaria; che il dispotismo austriaco aveva
ormai reso inevitabile la ribellione e la loro cacciata. Si aprivano adesso, sosteneva Cavour, due
possibilità: 1) consentire al Regno di Sardegna, con l’ausilio e il consenso di Francia e Inghilterra,
di cacciare gli austriaci e di annettere il Lombardo-Veneto, in modo da dare un indirizzo
monarchico, moderato, liberale e borghese all’ormai inevitabile ribellione; 2) correre
l’enorme rischio di lasciare l’iniziativa ai “mazziniani”, i quali sostenevano che doveva essere
il popolo stesso a condurre la guerra insurrezionale (e non una dinastia con mire
espansionistiche aiutata opportunisticamente da eserciti stranieri) per poi dare vita nel
Lombardo-Veneto a una repubblica democratica con forti tratti anti-borghese. Il che avrebbe
potuto costituire un’esempio minaccioso per i governi moderati di tutta Europa. Cavour sintetizzava
in questo modo le due grandi ideologie che hanno percorso internamente il risorgimento italiano.
Alla fine, va detto, sarà quella cavouriana che avrà la meglio.

IDEOLOGIA REPUBBLICANA: MAZZINI IDEOLOGIA MONARCHICA: SAVOIA E


CAVOUR
L’unità d’Italia doveva realizzarsi per volontà L’unità d’Italia doveva realizzarsi per volontà
degli italiani, mediante insurrezione popolare di una dinastia reale, i Savoia, e mediante l’uso
dell’esercito regio
Tutta la penisola italiana doveva essere Il progetto originario di unificazione della corte
unificata in una sola nazione. Doveva essere sabauda, sin dal 1848, prevedeva solo il nord
una nazione nuova governata dagli stessi Italia. Si voleva dar vita a un regno del nord
italiani e non una estensione di un regno Italia che comprendesse Regno di Sardegna +
preesistente governato da un gruppo di notabili Regno Lombardo-Veneto (da conquistare agli
austriaci) e che fosse una estensione del regno
sabaudo governato dalla corona dei Savoia.
Con il succedersi degli eventi e, precisamente,
con l’annessione della Toscana ed Emilia-
Romagna al regno sabaudo nel 1860, i Savoia e
Cavour diventarono sempre più “nazionalisti”,
cioè sempre più disposti a unificare tutta la
penisola. In questa conversione ha avuto in
ruolo non indifferente anche Garibaldi
L’unità d’Italia doveva realizzarsi grazie al L’unità d’Italia poteva realizzarsi anche grazie
popolo italiano e senza l’intervento di nazioni all’intervento di nazioni straniere (la Francia,
straniere (le quali avrebbero sicuramente che si impegnerà a favorire l’unificazione
chiesto qualcosa in cambio) italiana contro l’Impero austriaco, ma che in
cambio chiedere Nizza, Savoia e il dominio
indiretto su Roma)
Poiché l’unità era voluta e conquistata dal Poiché l’unità era voluta e conquistata da una
popolo, l’Italia doveva essere una repubblica a dinastia reale, l’Italia doveva essere monarchia
grande partecipazione popolare (ad es. gestita dalla corona e da un parlamento di
bisognava introdurre il suffragio universale) notabili
Poiché l’unità era voluta e conquistata dal Poiché l’unità era voluta e conquistata da una
popolo, l’Italia doveva avere un forte carattere dinastia reale liberal-conservatrice, l’Italia
democratico, cioè proteso al benessere di tutta doveva avere un forte carattere moderato, cioè
la nazione e non di una sola classe sociale, cioè favorire gli interessi della grande borghesia e
la grande borghesia (ad es. riforme sociali ed dell’aristocrazia
economiche a favore dei meno abbienti)

LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA (1859)

- Cavour sperava che motivazioni del genere trovassero soprattutto ascolto in Napoleone III, il
quale aveva appena imposto in Francia con un colpo di Stato il II impero, per porre rimedio agli
eccessi democratici della II repubblica. Ecco perché, suscitata l'attenzione delle potenze europee
sulla questione italiana, Cavour cercò di ottenere innanzitutto l'appoggio militare della Francia
contro l’Austria. La Francia, dal canto suo, avrebbe colto volentieri l’occasione per ridimensionare
l’influenza asburgica in Europa. A dare una mano a Cavour fu l'attentato del repubblicano
mazziniano Felice Orsini contro la vita di Napoleone III nel gennaio del 1858. Orsini avrebbe
voluto così vendicare l'intervento nel 1849 della Francia contro la Repubblica Romana. Napoleone
ne usci incolume, ma si rese conto della necessità di intervenire per dare una svolta moderata agli
oramai inevitabili tentativi rivoluzionari in Italia: di appoggiare cioè il progetto di Cavour. Si arrivò
così nel luglio del 1858 agli accordi segreti di Plombières (pronuncia: Plombié) tra Francia e
Regno di Sardegna. Si trattava di un accordo difensivo ai danni dell'Impero asburgico, secondo il
quale in caso di attacco militare provocato da quest’ultimo, la Francia sarebbe dovuta intervenuta in
difesa del Regno di Sardegna. L’intenzione era quella di liberare, a guerra iniziata, il lombardo-
veneto dal dominio austriaco e annetterlo ai domini sabaudi, in modo da creare un grande regno del
nord Italia con a capo i Savoia. Come compenso dell'aiuto offerto, il Regno di Sardegna avrebbe
ceduto alla Francia i territori di Nizza e della Savoia. Questi accordi prevedevano, inoltre, un
progetto di unificazione dell’intera penisola: riprendendo il programma neoguelfo, la penisola
italiana sarebbe stata territorialmente e politicamente costituita da quattro stati, legati in una
federazione presieduta dal pontefice

1) il Regno dell'Alta Italia, con capitale Torino, da costituirsi tramite l'estensione del Regno di
Sardegna, privo delle due province di Nizza e Savoia promesse alla Francia, alla Lombardia
e al Veneto
2) il Regno dell'Italia centrale, con capitale Firenze, a capo del quale doveva andare il cugino
dell'Imperatore, Napoleone Gerolamo, e composto dalla Toscana, dai ducati di Parma e di
Modena (Emilia) e dalle Legazioni apostoliche (Romagna), dalle Marche e dall'Umbria,
sottratti ai domini papali;
3) lo Stato Pontificio, al quale restava all'incirca l'odierno Lazio, con capitale Roma (si ricordi
che lo Stato della Chiesa era dal 1849 sotto il controllo della Francia);
4) il Regno dell'Italia meridionale, con capitale Napoli, sul cui trono sarebbe salito un altro
principe francese, presumibilmente Luciano Murat, nipote di Gioacchino Murat già Re di
Napoli.

Come si capisce, l’intenzione di Napoleone III era quello di sostituire il dominio dell’Austria in
Italia con il dominio francese. Fatta eccezione per il Nord, governato da Vittorio Emanuele II, che
sarebbe stato pur sempre subordinato al suo protettore francese, il resto d'Italia sarebbe stato,
direttamente o indirettamente, governato dalla Francia.
- Nel gennaio del 1859, dopo la firma degli accordi di Plombières, Vittorio Emanuele II in un
famoso discorso affermava di “non essere insensibile al grido di dolore che da tanta parte
d’Italia si alza verso di noi”, intendendo dire che il Regno di Sardegna si poneva ormai a capo del
movimento risorgimentale. Intanto Cavour stava escogitando un modo per costringere l'Austria a
dichiarare guerra al Piemonte: con il pretesto di compiere esercitazioni, portò i soldati sabaudi sul
Ticino, il fiume che segnava il confine tra Austria (cioè, Regno lombardo-veneto) e Piemonte (cioè
Regno di Sardegna). L'Austria, allarmata, con un ultimatum chiese a Cavour di ritirare l’esercito,
ma poiché l’esercito piemontese non abbandonò le posizioni, l'Austria dichiarò guerra al Piemonte,
facendo scattare le condizioni degli accordi con la Francia. Scoppia la II guerra d’indipendenza.
Napoleone III e Vittorio Emanuele II iniziarono la guerra con una serie di scontri vittoriosi.
Grazie alle battaglie di Solferino e San Martino l’esercito franco-sabaudo riuscì a conquistare la
Lombardia. Ma con molte perdite, specie per i soldati francesi. Questo causò un esacerbarsi
dell'opinione pubblica in Francia, che non aveva mai condiviso in pieno i motivi che portavano i
loro giovani a combattere e morire in e per l’Italia. Inoltre, il temutissimo Regno di Prussia aveva
dichiarato in chiari termini che se non fossero cessate immediatamente le iniziative belliche contro
l’Austria, sarebbe intervenuto nel conflitto in aiuto dei “fratelli” austriaci. Tutto ciò portò
Napoleone III a riflettere sull’opportunità di continuare la guerra a fianco dell’esercito sabaudo.
Ma a convincere definitivamente Napoleone III del ritiro delle truppe francesi dalla seconda guerra
d’indipendenza furono i fatti rivoluzionari che stavano interessando le regioni del centro-nord
italiano. Nei ducati emiliani (Ducato di Parma e Mantova, corrispondenti all’attuale Emilia),
nelle legazioni pontificie (corrispondenti all’attuale Romagna), nel Granducato di Toscana,
grandi manifestazioni popolari cacciavano i governi assolutistici e filoaustriaci. Ma il
movimento di rivolta rischiava di assumere caratteri eccessivamente
rivoluzionari/democratici/repubblicani/mazziniani. Per tale motivo la borghesia locale si decise a
richiedere l'invio dell’esercito sabaudo in vista di una futura annessione al Regno di Sardegna.
Chiedendo l’annessione al Regno sabaudo, il cui carattere monarchico-moderato costituiva una
garanzia per la borghesia toscana, emiliana e romagnola, i liberali borghesi del centro Italia
intendevano evitare che il loro “risorgimento” finisse nelle mani dei mazziniani e prendesse un
carattere repubblicano-democratico.

- Ciò mandava in fumo le intenzioni egemoniche di Napoleone III in Italia: se Toscana, Emilia e
Romagna fossero state annesse al Regno di Sardegna sarebbe venuta meno la possibilità di
instaurare nel centro-nord italiano un regno sotto la guida del francese Gerolamo Bonaparte. Motivo
questo, oltre all'opposizione interna e alle minacce prussiane, che convinse l'imperatore a firmare
con un atto unilaterale all'insaputa di Vittorio Emanuele II un armistizio con l'Austria a Villafranca
l'11 luglio 1859. Le clausole dell’armistizio di Villafranca, che ponevano fine alla guerra tra
Francia e Austria, prevedevano che a Vittorio Emanuele II sarebbe andata la sola Lombardia
e non anche il Veneto, il quale del resto non era stato ancora conquistato (solo Garibaldi con i suoi
“cacciatori delle alpi” era arrivato con una serie di vittorie nei pressi delle provincie venete). Per
quel che riguardava il centro-nord Italia, l’armistizio di Villafranca stabiliva che tutto sarebbe
tornato allo status quo ante, con la fine della rivolte e il ritorno dei legittimi sovrani sui loro troni.
Ma i governi provvisori filosabaudi di Firenze, Parma, Modena, Bologna, rifiutavarono ogni
tentativo di restaurazione. A questo punto il genio politico di Cavour ebbe modo di manifestarsi con
una soluzione che garantiva gli interessi piemontesi e nello stesso tempo salvava la faccia
all'imperatore francese. Quest’ultimo, non avendo rispettato gli accordi di Plombières che
prevedevano l’annessione al regno sabaudo di tutto il Lombardo-Veneto (mentre, come si ricorderà,
Napoleone aveva conquistato e ceduto a Vittorio Emanuele II solo la Lombardia) avrebbe dovuto
rinunciare a Nizza e Savoia. Cavour, a nome del re, si disse disposto a cedere i non dovuti territori
di Nizza e Savoia in cambio del riconoscimento francese delle annessioni al Piemonte, tramite
plebisciti, delle regioni del centro-nord Italia che si erano appena liberate dai loro governi
assolutistici. Questo nuovo accordo tra Cavour e Napoleone III è passato alla storia come il
“trattato di Torino”. L’ 11 e 12 marzo 1860 si tennero plebisciti in Emilia, Romagna e Toscana
con i quali la stragrande maggioranza della popolazione decise di unirsi al Regno di Sardegna.
Mentre il 15 e 22 aprile i plebisciti nella Savoia e a Nizza diedero esito favorevole al passaggio di
questi territori alla Francia.

- A marzo 1860 restavano, quindi, in Italia, tre soli Stati: 1) Il Regno di Sardegna, con
Sardegna, Piemonte, Val d'Aosta, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana; 2) Lo Stato
della Chiesa, con Umbria, Marche e il Lazio con l'intoccabile Roma; 3) Il Regno delle Due Sicilie
con Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e la Sicilia. Il regno di Sardegna aveva
ottenuto più di quello che sperava. Ma nella mente del re sabaudo cominciava ad essere presa in
seria considerazione l'idea di una completa unificazione italiana. Ma mentre Roma era
intoccabile perchè sotto protezione francese, una aggressione diretta al Regno di Sicilia era
altrettanto rischiosa perché avrebbe potuto provocare le reazioni delle grandi potenze europee,
interessate a preservare lo status quo europeo. E’ a questo punto che intervenne la figura di
Giuseppe Garibaldi con la sua “impresa dei mille”.

GARIBALDI E L’IMPRESA DEI MILLE

Giuseppe Maria Garibaldi è stato un generale, patriota, condottiero e scrittore italiano. Figura


fondamentale del Risorgimento, fu uno dei personaggi storici più celebrati a livello mondiale della
sua epoca. È noto anche con l'appellativo di «eroe dei due mondi» per le imprese militari compiute
sia in Europa che in America Meridionale. Nacque a Nizza nel 1807 da una famiglia di origini
genovesi in un periodo in cui questo territorio, storicamente sotto il dominio dei Savoia, era sotto
sovranità francese, a seguito delle conquiste napoleoniche (Nizza fu restituita al Regno di Sardegna
per decisione del Congresso di Vienna e restò sotto il governo dei Savoia fino al 1860). I genitori
avrebbero voluto avviarlo alla carriera di avvocato, medico o sacerdote, ma Giuseppe non amava gli
studi, prediligendo gli esercizi fisici e la vita di mare. Alla fine riuscì a persuadere il padre a
lasciargli intraprendere la carriera da marinaio. Grazie a questa attività iniziò a viaggiare per tutto il
mondo acquisendo grande esperienza delle cose umane. Nel 1833 a Marsiglia ebbe modo di
conoscere Mazzini, aderendo alle sue idee patriottiche di stampo repubblicano-democratico alle
quali resterà fedele anche in seguito. Nel 1834 prese parte a una un'insurrezione popolare
in Piemonte organizzata dai mazziniani, con lo scopo di trasformare il Regno di Sardegna in una
repubblica e di iniziare il processo di unificazione di tutta la penisola. Il tentativo fallì miseramente.
Condannato a morte dallo stato sabaudo fu costretto a fuggire in sud America. Qui intraprese
quella missione che caratterizzerà tutta la sua vita, quella di combattente per la libertà dei
popoli. Iniziò a combattere per la Repubblica del Rio Grande che si era ribellata all'autorità
dispotica dell'Impero del Brasile. Successivamente, nel 1841, prese parte alla guerra civile
uruguaiana. A capo di milizie volontarie, fu grazie a queste imprese belliche che la sua fama si
diffuse in tutto il mondo. Rientra in Italia nel 1848, poco dopo lo scoppio della prima guerra di
indipendenza. Garibaldi partecipò ai combattimenti in difesa della Repubblica Romana, minacciata
dalle truppe francesi che parteggiavano per il ritorno di papa Pio IX sul trono di Roma. Lascia
Roma dopo l’inevitabile sconfitta e per alcuni anni è ancora una volta in giro per il mondo come
marinaio-commerciante. Nel 1855 ritorna in Italia e compra una parte dell’isola di Caprera,
nell'arcipelago sardo di La Maddalena, abbandonando l'attività di marinaio e dedicandosi
all'agricoltura e all’allevamento. Scoppiata la II guerra di indipendenza nel
marzo 1859 riprende le armi e forma la milizia volontaria dei “Cacciatori delle Alpi”,
iniziando la conquista del Veneto, dal quale, dopo l’armistizio di Villafranca gli fu chiesto di
ritirarsi. Dopo l’impresa dei mille e la conquista del Regno delle due Sicilie, di cui parleremo tra un
po', troviamo Garibaldi anche nella III guerra d’indipendenza del 1866. L’intenzione del
governo italiano era quello di conquistare finalmente il Veneto strappandolo all’Impero asburgico.
Ma Garibaldi, ardimentoso come sempre, spinge le truppe di volontari alla conquista del trentino
“italiano”, ottenendo una vittoria decisiva nella “battaglia della Bezzecca”. Era già in vista di Trento
quando gli fu detto che era stato firmato l’armistizio e che la guerra era finita. Alla richiesta di
Vittorio Emanuele II di ritirarsi rispose, pragmatico come sempre, “obbedisco” (il trentino diventerà
italiano nel 1919, dopo la grande guerra). L’ultima sua impresa bellica è nel 1870, nel contesto
della guerra franco-prussiana. La Francia di Napoleone III stava rovinosamente perdendo la
guerra contro la Prussia di Bismarck. Quest’ultimo non nascondeva affatto la sua intenzione di
occupare parte del territorio francese e di sottometterne la popolazione (come effettivamente
avvenne per le regioni dell’Alsazia e della Lorena, che furono annesse alla nascente Germania).
Nonostante il disprezzo che nutriva per i francesi, che per vent’anni avevano difeso militarmente lo
stato della chiesa impedendo la sua annessione al Regno d’Italia, Garibaldi si decise a intervenire in
difesa del popolo francese. L’episodio indica la genuinità delle idee politiche di Garibaldi, che
aveva sempre messo come vertice dei suoi principi la libertà dei popoli oppressi dal
dispotismo straniero. Qualunque essi siano, persino quello francese. L’eroe dei due mondi si
spegne nel 1882 nella sua amatissima “casa bianca” di Caprera.

Ma, come si diceva, l’impresa che gli ha dato fama imperitura resta la conquista del Regno
duosiciliano, l’”impresa dei mille” del 1860, grazie alla quale la penisola italiana si è potuta
unificare in un'unica nazione. Mentre i Savoia sono stati sempre titubanti sull’opportunità di
estendere il processo di unificazione anche alle regioni del sud, accontentandosi del possesso dei
territori centro settentrionali, Garibaldi ha avuto da sempre come stella polare della sua politica
l’unificazione di tutta la penisola italiana. A tal fine, si è sempre detto disposto alla possibilità di
una alleanza con i Savoia. Anzi, è lecito dire che Garibaldi ha avuto un peso non indifferente nella
conversione “nazionalistica” dei Savoia stessi. Pur essendo repubblicano e democratico, come
aveva imparato dal suo maestro Mazzini, aveva come suo obiettivo principale la nascita di una Italia
unita ed era disposto ad accordarsi con tutte le forze che miravano a questo fine, monarchiche,
moderate, borghesi che fossero. Per questo i rapporti con Mazzini si andranno sempre più
deteriorando. Garibaldi si allontanerà dal radicalismo rivoluzionario di Mazzini e vedrà nei
Savoia un alleato indispensabile nell’opera di unificazione dell’Italia adottando il motto
“Italia e Vittorio Emanuele”.

Il 5 maggio 1860 Garibaldi con il suo esercito composto da circa 1000 volontari, le cosiddette
“camicie rosse” (si ricordi che Garibaldi non faceva parte dell’esercito regolare sabaudo ma
guidava un corpo di volontari. Anzi, Garibaldi non ha mai fatto parte di un esercito regolare, né in
Italia, né in sud America), si imbarcava dallo scoglio di Quarto, quartiere di Genova. L’11 maggio i
garibaldini sbarcavano a Marsala, in Sicilia, iniziando la conquista dell’isola. Come si ricorderà, la
Sicilia era una delle regioni più rivoluzionarie d’Italia e d’Europa. Da essa addirittura è divampato
l’incendio che si estenderà a tutto il continente nel 1848. Era molto forte in Sicilia il sentimento
anti-borbonico dovuto alla fine della sua autonomia e alla sua sottomissione a Napoli, a seguito
della nascita del Regno delle due Sicilie stabilito dal congresso di Vienna. Garibaldi trovava di
conseguenza terreno fertile nell’isola. La sua avanzata fu veloce e risoluta, anche perché godeva
dell’appoggio della maggior parte della popolazione. Lo scontro decisivo tra i garibaldini, ai quali si
erano affiancati volontari siciliani, e l'esercito delle Due Sicilie avvenne il 15 maggio 1860 con la
battaglia di Calatafimi. Grazie a questa battaglia i garibaldini si aprirono la strada verso Palermo
e, quindi, verso la conquista dell’intera isola. Fu durante questa battaglia che Garibaldi disse “qui o
si fa l’Italia o si muore”.

Garibaldi sapeva benissimo che per chiudere con successo la sua impresa gli sarebbe stato
assolutamente necessario l'appoggio e la partecipazione del popolo siciliano. Questo sarebbe
avvenuto solo se fosse stato accolto non solo come il liberatore dalla tirannide borbonica, ma anche
come colui che poneva le basi per la nascita di una nuova società, libera dalla miseria e dalle
ingiustizie. Con questo intento, il 2 giugno, aveva emesso un decreto con il quale prometteva
soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione dei grandi latifondi tra i contadini poveri di Sicilia.
In Sicilia si erano, dunque, accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto delle classi
meno abbienti e ciò portò ad un aumento della conflittualità fra la nobiltà latifondista e la
popolazione rurale. Fu così che nell’agosto del 1860 a Bronte vennero appiccate le fiamme a decine
di case di notabili, al teatro e all'archivio comunale. Quindi cominciò una caccia all'uomo e ben
sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili. Garibaldi e Crispi, suo collaboratore e futuro capo
del governo italiano, spaventati dalla piega rivoluzionaria che stavano prendendo gli eventi,
decisero di inviare a Bronte un battaglione di garibaldini agli ordini del genovese Nino
Bixio per sedare la rivolta e fare giustizia in modo esemplare. Negli scontri ci furono circa 20
vittime, tutti popolani. Garibaldi fu costretto ad agire in questo modo, tradendo le aspettative dei
braccianti siciliani e dando una svolta moderata alla sua impresa, poiché aveva necessità di
tranquillizzare i latifondisti e i notabili siciliani, senza l’appoggio dei quali sarebbe stato impossibile
realizzare i suoi progetti. Per lo stesso motivo, tutte le riforme sociali promesse da Garibaldi non
furono effettivamente attuate e vennero ben presto dimenticate dopo l’unificazione della penisola,
aumentando lo scontento dei ceti meno abbienti e preparando la strada a quella forma di
insurrezione sociale che prese il nome di “brigantaggio”
Come la storiografia risorgimentale ha spesso messo in evidenza, la facilità con cui Garibaldi è
riuscito a conquistare il regno duosiciliano, nonostante l’esercito borbonico fosse più numeroso e
meglio armato, è probabilmente dovuto all’intervento di Vittorio Emanuele II. Il re sabaudo era
riuscito segretamente ad “addolcire” gli ufficiali dell’esercito borbonico, anche mediante
corruzione. Il ruolo dei Savoia nella conquista del sud Italia è quindi ambiguo: 1) da una parte
Vittorio Emanuele II si è sempre dichiarato estraneo all’impresa di Garibaldi; 2) dall’altra, molte
fonti storiche testimoniano di accordi tra i Savoia e Garibaldi, la cui impresa fu sostenuta
segretamente con strumenti diplomatici, aiuti economici e con la fornitura di armi, al fine di
pervenire all’unificazione completa dell’Italia. La corte sabauda, come si ricorderà, nel corso della
seconda guerra d’indipendenza era diventata sempre più “nazionalista”, ovvero sempre più disposta
a tentare l’unificazione di tutta la penisola e non solo del nord Italia. Ma se Vittorio Emanuele II
avesse tentato in prima persona l’occupazione del Regno delle due Sicilie, si sarebbe esposto alla
inevitabile reazione delle grani potenze europee. Bisognava tentare un’altra via e Garibaldi
sembrava, agli occhi dei Savoia, lo strumento migliore e meno compromettente per realizzare il
progetto di unificazione dell’Italia tutta. Intanto, sbarcato sul continente Garibaldi continuava la sua
avanzata imperiosa verso la capitale duosiciliana, Napoli. Il 7 settembre 1860, sconfitto
definitivamente l'esercito borbonico nella battaglia del Volturno, Garibaldi entra vittorioso a
Napoli e si autoproclama “dittatore delle due sicilie”.

Vittorio Emanuele II non solo non aveva ostacolato esplicitamente i progetti di Garibaldi, di cui era
perfettamente al corrente, ma aveva cercato segretamente di renderne possibile la realizzazione.
Tuttavia il Re temeva 1) che la rivoluzione nel sud Italia potesse prendere una piega
pericolosamente democratico-repubblicana: Garibaldi era un democratico-repubblicano e molti
garibaldini erano mazziniani convinti, cioè avversi all'uificazione italiana in termini monarchici e a
favore di un assetto repubblicano. Ma soprattutto 2) il rischio era che Garibaldi potesse continuare
la sua corsa verso Roma, compromettendo il processo di unificazione (infatti tanto per la Francia
che dal 1848 difendeva militarmente il papa, quanto per la cattolica Austria, Roma doveva restare
indipendente e in mano al Papa. In caso contrario, Francia e Austria sarebbero intervenute e
avrebbero ostacolato il processo di unificazione italiano). Per questo Vittorio Emanuele II decide di
mettersi a capo dell’esercito sabaudo e dirigersi verso Napoli per chiedere a Garibaldi la cessione
del regno delle due Sicilie al nascente regno d’Italia, ma soprattutto per bloccare la sua marcia verso
Roma. Nella sua corsa verso Napoli l’esercito regio, con il consenso di Napoleone III, passa dalle
Marche e dall’Umbria e ne approfitta per conquistarle e annetterle mediante plebiscito (queste due
regioni facevano parte dello stato della chiesa, il quale a questo punto è ridotto al solo Lazio). Il 26
ottobre 1860 si ha, quindi, il famoso incontro a Teano tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele
II, in cui il primo cede il regno delle due sicilie al futuro re d’Italia. Si consideri che se Garibaldi
avesse rifiutato tale cessione – cosa abbastanza normale, visto che era democratico e che odiava
tanto i Savoia, quanto soprattutto Cavour – avremmo rischiato di avere in Italia due nazioni: una
monarchica al nord, una repubblicana al sud e, probabilmente, una guerra civile. E’ stata solo la
generosità e l’onesta di Garibaldi che ha permesso la nascita di una Italia unita. Per Garibaldi la
priorità ideale era quella di unificare tutta la penisola, anche se l’unificazione fosse avvenuto in
termini monarchici e moderati. Allontanandosi dal pensiero del suo maestro Mazzini, il quale
propendeva per una repubblica democratica voluta dal popolo e, di conseguenza, rifiutava la
collaborazione con la corona sabauda, Garibaldi si era sempre più convinto che l’unità dell’Italia
poteva realizzarsi solo mediante la collaborazione di tutte le forze patriottiche, tra cui soprattutto il
Regno di Sardegna. Il suo motto era ormai diventato “Italia e Vittorio Emanuele”

Il 17 Marzo 1861 il parlamento di Torino dichiara V.E. II re d’Italia. A questo data mancano alla
nazione Italiana, se paragonata alla attuale configurazione geopolitica, i seguenti territori:

1) il Veneto, che verrà annesso nel 1866 nel contesto della guerra austro-prussiana
(l’Italia si schiererà a fianco della Prussia. Risultando quest’ultima vincitrice, l’Italia
riceverà in cambio dell’aiuto offerto il Veneto). La guerra austro-prussiana è nota in
Italia come terza guerra d'indipendenza
2) il Lazio con Roma, che verrà annesso nel 1870 (breccia di Porta Pia) nel contesto
della guerra franco-prussiana. La Francia, infatti, per combattere contro la Prussia
ritira il suo contingente militare stanziato a Roma; l’Italia ne approfitterà per
conquistare Roma. Finisce lo Stato della chiesa dopo quasi 12 secoli (l’atto di nascita
dello stato della chiesa può essere fatto risalire al 728, cioè alla donazione di Sutri)
3) Trento e Trieste, che verranno annesse dopo la prima guerra mondiale (il trattato che
assegna queste due regioni al regno d’Italia è il trattato di Saint-Germain del 1919
che segna la fine dell’impero austro-ungarico; con esso, infatti, veniva regolato lo
smembramento dell’ex impero tra diverse nazioni e la nascita dell’attuale Austria)

LA PRESA DI ROMA (BRECCIA DI PORTA PIA) E LA QUESTIONE ROMANA

TENTATIVI DI GARIBALDI DI PRENDERE ROMA

«La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25
secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico». Il
desiderio di porre Roma a capitale del nuovo Regno d'Italia era già stato esplicitato da Cavour agli
inizi del 1861, subito dopo l’unificazione della penisola italiana e poco prima della morte del grande
statista (gli statisti sono coloro che governano gli Stati) piemontese (Cavour muore nel giugno del
1861), ma per far questo era necessario il consenso della Francia. Infatti, l’esercito della seconda
repubblica francese (la II repubblica francese nasce a seguito della rivoluzione del 1848 e ha come
presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte il quale, con un colpo di stato nel 1852 darà
vita al secondo impero francese e si proclamerà imperatore con il nome di Napoleone III), dopo
aver abbattuto la Repubblica romana nel luglio 1849 e aver rimesso sul trono il papa Pio IX, rimase
a protezione dello stato della chiesa. Per il Regno d’Italia era importante mantenere buoni rapporti
con la Francia per due ordini di motivi: 1) lo stato francese stava avendo un ruolo fondamentale nel
processo risorgimentale italiano (si pensi alla conquista della Lombardia durante la II guerra di
indipendenza) e che costituiva per il neonato regno italiano un baluardo difensivo contro possibili
tentativi di riconquista da parte dell’Impero austriaco; 2) buona parte dell’economia italiana si
reggeva grazie a capitali francesi (il capitalismo francese deteneva la maggior parte dei titoli di stato
italiani, cioè aveva prestato soldi al regno d’Italia). Si capisce come un possibile tentativo di
annettere Roma all’Italia poteva compromettere le relazioni diplomatiche e militari con lo Stato
francese con gravissime conseguenze.

Chi invece sentiva come improrogabile la presa immediata di Roma fu Garibaldi, il quale incurante
dei probabili problemi diplomatici con la Francia effettuò 3 tentativi di conquista:

1) 1860: dopo la battaglia del Volturno e la conquista del Regno delle due Sicilie, Garibaldi
decise di dirigersi verso Roma per conquistarla e cacciare il papa. Fu fermato pacificamente
dall’esercito sabaudo guidato da Vittorio Emanuele II che incontrò Garibaldi a Teano.
L’incontro a Teano, quindi, è servito al sovrano sabauda per 2 motivi: 1. Per farsi cedere da
Garibaldi il regno delle due Sicilie e annetterlo al resto d’Italia, evitando in questo modo che
nel mezzogiorno d’Italia nascesse una repubblica indipendente di stampo
mazziniano/democratico (ma Garibaldi che combatteva al grido “Italia e Vittorio Emanuele”
fu ben contento di cedere il sud Italia al re sabauda); 2. Per fermare la corsa di Garibaldi
verso Roma, circostanza che avrebbe indispettito i francesi
2) 1862: Garibaldi tenta nuovamente di dirigersi verso Roma. Anche in questo caso fu fermato
in Calabria dall’esercito sabaudo che, questa volta, aprì il fuoco contro i garibaldini ferendo
lo stesso Garibaldi (battaglia dell’Aspromonte)
3) 1866: nuovo tentativo garibaldino di conquistare Roma. Approfittando dell’assenza dei
francesi che avevano lasciato Roma nel 1864 dopo la firma della Convenzione di Settembre,
Garibaldi decide nuovamente di tentarne la conquista. Questa volta l’eroe dei due mondi fu
fermato congiuntamente dalle truppe pontificie e dall’esercito francese nella battaglia di
Mentana. I francesi, accorsi nuovamente per proteggere Roma dalle milizie garibaldini vi
rimarranno fino al 1870. (Cos’è la Convenzione di Settembre. Nel 1864 il Regno d'Italia e il
Secondo Impero di Napoleone III firmano la Convenzione di settembre che prevedeva il
ritiro delle truppe francesi che presidiavano dal 1849 Roma per tutelare il Papa, in cambio di
un impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato Pontificio e a impedire qualsiasi
invasione dello Stato della chiesa da parte di altri (era implicito il riferimento a Garibaldi). A
garanzia dell'impegno da parte italiana, l'imperatore richiese il trasferimento della capitale da
Torino a un'altra città che successivamente - dopo aver vagliato anche l'ipotesi di Napoli -
sarebbe stata Firenze. Lo spostamento della capitale doveva valere prova incontrovertibile
della definitiva rinuncia italiana a Roma capitale. A seguito del tentativo garibaldino del
1866 che contravveniva alla Convenzione di settembre, i francesi ritornarono a Roma per
rimanervi sino al 1870.

LA PRESA DI ROMA O LA BRECCIA DI PORTA PIA

Il 15 luglio 1870 il governo di Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia. Scoppia la guerra franco-
prussiana che si concluse nel 1870-71 con la sconfitta francese, che ebbe come conseguenza 1) in
Francia la fine del secondo impero e la nascita della terza repubblica, 2) in Germania l’unificazione
degli stati tedeschi in un unico grande Stato noto come secondo impero tedesco, II Reich, ovvero
più o meno la Germania moderna. Per combattere questa guerra le truppe francesi di stanza a Roma
furono costrette ad abbandonare la città eterna per schierarsi sul fronte franco-prussiano. Come
detto, le vicende della guerra franco-prussiana volgeranno al peggio per i francesi. L’abbandono di
Roma da parte delle truppe francesi aprì di fatto all'Italia la strada per Roma. Il 20 settembre del
1870 il generale Raffaele Cadorna a capo del regio esercito entrò in Roma attraverso una
breccia aperta nei pressi di Porta Pia e prese possesso della città annettendola finalmente al
Regno di Italia. Finiva il plurisecolare Stato della chiesa, nato attorno alla metà del VI secolo. In
quel momento a capo vi era Pio IX, l’ultimo “Papa Re”, non a caso il più grande avversario del
risorgimento italiano. Nel febbraio del 1871 Roma sarebbe diventata la nuova Capitale di Italia

LA LEGGE DELLE GUARENTIGIE: “LIBERA CHIESA IN LIBERO STATO”

La legge delle guarentigie (garanzie) è un provvedimento legislativo del Regno d'Italia, approvato
nel 1871, che ha regolato i rapporti tra Stato italiano e Santa Sede romana fino al 1929, quando
furono conclusi dei nuovi accordi, noti come Patti Lateranensi.
La legge delle guarentigie seguiva il principio espresso da Cavour “libera chiesa in libero
stato”. Con tale formula Cavour esprimeva la necessità di una netta separazione e indipendenza tra
potere politico-temporale dello Stato italiano, che doveva essere esercitato su tutta la penisola, e
potere spirituale della Chiesa cattolica, che doveva essere esercitato da quest’ultima senza nessuna
ingerenza da parte dello stato italiano. Secondo tale principio, lo Stato poteva essere libero di
esercitare la sua giurisdizione politica su tutto il territorio italiano solo se la chiesa romana
rinunciava a esistere come stato territoriale indipendente governato da leggi proprie ed entrava a far
parte del Regno d’Italia, sottoponendosi alle sue leggi. La presenza di uno stato autonomo al centro
dell’Italia impediva l’esercizio del potere politico del Regno su tutta la penisola italiana e privava il
nuovo stato italiano della sua città più significativa (Roma). Era una chiara limitazione della sua
autonomia politica. Lo stesso papa doveva essere privato dello status di capo di uno stato autonomo
e diventare “cittadino italiano”. Per converso, al papa veniva garantita la massima libertà
nell’esercizio delle sue funzioni religiose e spirituali e nella organizzazione interna della chiesa
cattolica. Lo stato rinunciava a introdursi in questioni interne alla chiesa, si pensi al diritto di
placet con cui gli stati davano il loro consenso alla nomina dei vescovi. Lo Stato della chiesa
scompariva come entità politica, assorbito nel regno d’Italia, in compenso guadagnava una libertà
d’azione morale, spirituale che non aveva mai avuto.
1) Fine dello Stato della chiesa e sua annessione al Regno d’Italia. Innanzitutto, tale legge
aveva come suo presupposto la fine dello Stato della chiesa e del potere temporale del
papa e l’estensione del potere del Regno d’Italia anche su Roma. Tuttavia riconosceva al
pontefice e alla chiesa “garanzie” molto ampie in modo da garantire la massima libertà
nell’esercizio spirituale
2) Prerogative del pontefice. Nonostante la perdita del potere politico su Roma con tale legge
venivano garantite al papa l'inviolabilità della persona, gli onori sovrani, il diritto di avere al
proprio servizio guardie armate a difesa dei palazzi vaticani, Laterano, cancelleria e Palazzo
Pontificio di Castel Gandolfo; tali immobili erano sottoposti a regime di extraterritorialità
che li esentava dalle leggi italiane. Lo stato assicurava libertà di comunicazioni postali e
telegrafiche e il diritto di rappresentanza diplomatica. Infine si garantiva un introito annuo di
3 225 000 lire (pari a circa 14,5 milioni di euro del 2012) per il mantenimento del pontefice,
del Sacro Collegio e dei palazzi apostolici. L’insieme delle garanzie e delle immunità
contenute nella Legge stessa, sottraevano in molte casi al diritto comune la Santa Sede
e avvicinavano sensibilmente la condizione giuridica di questa alla posizione di un ente
sovrano.
3) Rapporti stato e chiesa cattolica. Venivano regolate anche le relazioni tra lo Stato italiano e
la Santa Sede. Veniva abolita ogni restrizione «all’esercizio del diritto di riunione dei
membri del clero”; veniva abolita il giuramento di fedeltà al re per i vescovi e il diritto dello
Stato di nomina o proposta alle sedi vescovili; veniva abolito l’exequatur e il placet regio,
ovvero il diritto di assenso governativo per la pubblicazione e l’esecuzione degli atti delle
autorità ecclesiastiche». Dopo secoli lo stato rinunciava a intromettersi in questioni
interne alla chiesa.

La Legge delle Guarentigie, in vigore dal 1871 al 1929, non venne mai accettata dalla Santa
Sede, che tra l’altro – e si tratta di un dato significativo – non riscosse mai la dotazione dell’annuale
rendita iscritta nel bilancio dello Stato (lo Stato italiano continuerà ad accumulare le somme dovute
che verranno versate alla santa sede dopo il concordato del 1929). Pio IX, che in seguito alla breccia
di Porta Pia si era chiuso nei palazzi vaticani dichiarandosi “prigioniero politico”, non riconosceva
l’annessione di Roma al Regno d’Italia e la considerava una occupazione militare illegittima. La
non accettazione fu dovuta essenzialmente a due precise ragioni. Innanzitutto la Santa Sede mai
accettò la Legge in quanto, nonostante le immunità e le garanzie ivi contenute, il papa veniva
privato della sovranità. Solo nel 1929 al papa verrà riconosciuta una nuova sovranità con la
nascita dello “stato della città del vaticano” (ciò significa che lo Stato della chiesa scompare dal
1871 al 1929, anno in cui rinasce, anche se in forma ridotta, uno stato governato dal papa, l’attuale
Città del Vaticano: una sorta di monarchia assoluta, con circa 800 abitanti e composta dal Vaticano,
San Pietro, San Giovanni Laterano e Castel Gandolfo). In secondo luogo perché si trattava di
legge unilaterale italiana, non negoziata con la chiesa (i patti lateranensi cercheranno di porre
rimedio anche a questo aspetto, in quanto la legge del 1929 è stata concordata di comune accordo
dalla chiesa e dalla stato)

LA QUESTIONE ROMANA
Il 3 febbraio 1871 Roma è nominata Capitale del Regno d'Italia. Il 13 maggio 1871 veniva
approvata la Legge delle Guarentigie, la quale - come dice il suo nome - stabiliva precise garanzie
per il Papa e la Santa Sede. Il Papa (all'epoca ancora Pio IX), secondo la suddetta legge, diventava
suddito dello Stato italiano da un punto di vista politico e civile, pur potendo godere di una serie di
privilegi rispetto agli altri cittadini (vedi sopra legge guarentigie); per converso gli veniva assicurata
la piena indipendenza spirituale nelle questioni ecclesiastiche, come ad esempio la nomina dei
vescovi. E anche quella economica grazie alla somma destinata annualmente dallo stato alla chiesa.
Tuttavia, il Pontefice non volle mai accettare una legge proposta unilateralmente dallo stato italiano
e che privava la chiesa di un proprio Stato. Dal rifiuto del Papa di riconoscere l’annessione di
Roma allo stato italiano nasce la cosiddetta “questione romana”, un periodo della nostra
storia patria caratterizzato da rapporti affatto conflittuali tra chiesa di Roma e Stato italiano,
costellato da un susseguirsi di incomprensioni e dispetti reciproci. Ripercorriamone alcune
tappe
- Nel 1869 inizia il “concilio Vaticano I”, il penultimo concilio ecumenico della chiesa
cattolica. In questo contesto, la chiesa di Roma assume delle posizioni radicalmente
antimoderniste: liberalismo, socialismo, nazionalismo, positivismo, la scienza stessa
vengono considerate dalla chiesa come dei frutti perversi della modernità e, in quanto tali,
rifiutati. Il medioevo dell’universalismo papale viene visto invece come l’età dell’oro
dell’umanità
- Come detto, per papa Mastai Ferretti l’annessione di Roma, così come quelle del Regno
duosiciliano, della Toscana e dell’Emilia Romagna, erano atti illegittimi in quanto si trattava
di una vera e propria aggressione/occupazione militare. Nel 1874 Pio IX, non riconoscendo
l’esistenza di uno Stato italiano unitario, con la famosa enciclica “non expedit” (“non
conviene”) ingiunse ai cattolici italiani di non recarsi alle urne impedendo loro per più di
quarant'anni la partecipazione attiva alla vita politica del Paese. Il principio guida di questo
scritto papale era “né eletti né elettori”.
- Nel 1878 sale al potere in Italia la “sinistra storica”, schieramento politico da sempre
vicino a posizioni anticlericali. In reazione all’atteggiamento avverso del Papa vengono
presi tutta una serie di provvedimenti che privano la chiesa di alcune prerogative: viene
reintrodotto l’assenso governativo per la nomina dei vescovi, viene ridimensionato
ulteriormente il ruolo della chiesa nell’istruzione, viene abolito l’insegnamento della
religione, le opere di beneficienza vennero affidate ai prefetti statali ecc.
- Il conflitto tra stato e chiesa iniziò a risolversi nel 1913 con il “patto Gentiloni” voluto da
Giolitti. Secondo questo accordo, il papa consentiva ai cattolici italiani di partecipare alle
elezioni appoggiando quei candidati liberali giolittiani che non sostenessero un programma
chiaramente anticlericale (in questi anni non esiste ancora un partito dei cattolici italiani).
- Nel gennaio 1919 Don Luigi Sturzo fonda il Partito Popolare italiano. Il PPI rappresentò
per i cattolici italiani il ritorno organizzato alla vita politica attiva dopo lunghi decenni di
assenza a causa del non expedit conseguente alle vicende dell'unificazione nazionale. Il PPI
sosteneva la dottrina sociale cattolica, il cui fine era quello di una evoluzione sociale ed
economica delle masse proletarie cattoliche. Nel 1926, con le leggi fascistissime di
Mussolini, il PPI viene sciolto e Sturzo viene costretto dal Duce e dal Vaticano all'esilio. Il
Vaticano inviterà esplicitamente i cattolici italiani a schierarsi con il fascismo: nasce il
cosiddetto clerico-fascismo.
- Nel 1929 Mussolini e Papa Pio XI firmano i “patti lateranensi”, che chiudono la
“questione romana”. Con essi, il papa viene dotato nuovamente di sovranità e nasce lo
“Stato della città del Vaticano”. Lo stato italiano riconosce l’esistenza di una entità
territoriale indipendente governata dal papa. A sua volta, la chiesa riconosce finalmente
l’esistenza dello Stato italiano. Inoltre, i patti lateranensi sono concordati bilateralmente tra
stato e chiesa, come sempre succede con gli accordi internazionali (ciò significava che lo
stato riconosceva nella chiesa una entità statale autonoma). Termina la “questione romana” e
Mussolini verrà definito da papa Pio XI “l'uomo della provvidenza”.
- Nell'ottobre 1942, mentre si profilava la sconfitta del regime fascista e nascevano i primi
nuclei della resistenza, venne fondato da Alcide De Gasperi il partito della Democrazia
Cristiana (DC)
- . La DC governerà l'Italia sino al 1994, quando a seguito dell'inchiesta “mani pulite” verrà
sciolta.

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