Sei sulla pagina 1di 12

Dispense del corso di Storia Contemporanea1

Corso di Laurea in Sociologia – prof. Igor Pellicciari

Dispensa n. 4

4. LO STATO FASCISTA
4.1 La marcia su Roma.
In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con
tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista nel nuovo governo;
rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli
industriali annunciando di voler restituire spazio all’iniziativa privata. Dall’altro lasciò che l’apparato
militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di Stato.
Cominciò cos’ì con il prendere corpo il progetto di una Marcia su Roma, ossia una mobilitazione
generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. L’inizio della
mobilitazione fu fissato per il 27 ottobre. Lo stesso Mussolini credeva poco nella possibilità di un
successo dell’operazioni miltiare e pensava piuttosto di servirsi della mobilitazione come mezzo di
pressione politica, contando nella debolezza del governo e sulla benevola neutralità della corona e delle
forze armate.
In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali, fu l’atteggiamento del re a risultare decisivo a
evitare ad ogni costo una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre, di
firmare il decreti per la proclamazione dello stato d’assedio. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la
strada per Roma e al loro capo la via del potere. Forte della resa ottenuta senza colpo ferire, Mussolini
non si accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati, ma chiese e ottenne che
fosse chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di
squadristi fascisti cominciavano ad entrare nella Capitale senza incontrare alcuna resistenza, Mussolini
fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo governo era già pronto. Ne facevano parte oltre a cinque
fascisti, esponenti di
tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra,
democratici e popolari. La crisi era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo. I fascisti gridarono il
trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in realtà era stato solo simulata. I moderati si
rallegrarono per il fatto che la legalità costituzionale, violata nei fatti era stata rispettata nelle forme. I
rivoluzionari, massimalisti e comunisti, si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza dal momento
che ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe.


1
Avvertenze: queste dispense costituiscono materiale didattico integrativo, esclusivamente destinato ai
frequentanti il corso. I non frequentanti dovranno preparare l’esame sui testi.

1
4.2 Verso lo Stato autoritario.
Una volta assunta la guida del governo, Mussolini continuò ad alternare la linea dura alla linea
morbida, agevolato in questo dalla miopia delle altre forze politiche, in particolare degli alleati liberali
e cattolici. Né valsero a chiarire le idee sugli intenti di Mussolini i due provvedimenti con cui il Partito
fascista assumeva ruolo e funzioni incompatibili con i principi basilari dello stato liberale. Nel
novembre del ’22 fu istituito il Gran Consiglio del Fascismo, che aveva il compito di indicare le linnne
generali della politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio del ’23 le
squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per a sicurezza nazionale, un corpo armato
di partito che aveva come scopo dichiarato quello di proteggere gli inesorabili sviluppi della
rivoluzione fascista, ma che nelle intenzioni di Mussolini serviva anche a limitare il potere dei ras.
Le vittime principali della repressione fascista che iniziò a consumarsi furono i comunisti, costretti già
dal 1923 a una sorta di semiclandestinità. Le conseguenze di questa azione combinata su quel poco che
restava delle organizzazioni del movimento operaio furono disastrose.
La compressione salariale era del resto una componente importante della politica economica del
governo, che, fedele alle promesse della vigilia, mirò soprattutto a restituire libertà d’azione e margini
di profitto all’iniziativa privata. Sul piano strettamente economico, la politica liberista, impersonata
soprattutto dal ministro delle finanze De Stefani, parve ottenere discreti successi: fra il ’22 e il ’25 vi fu
un notevole aumento della produzione, sia industriale che agricola e il bilancio statale tornò in
pareggio. Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui, l’avvento del
nuovo pontefice Pio XI, stavano prendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Mussolini
abbandonati i toni anticlericali tipici del primo fascismo, fu prodigo di riconoscimenti alla “missione
universale” della Chiesa e si mostrò disposto a importanti concessioni. Anche la riforma scolastica
varata dal governo sotto la spinta dell’allora ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile,
andava incontro alle attese del mondo cattolico.
La prima vittima dell’avvicinamento della Chiesa al fascismo fu il partito popolare, considerato ormai
dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via del miglioramento dei rapporti con lo Stato.
Nell’aprile del ’23 Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari. Poco dopo, don Sturzo, sotto
le pressioni del Vaticano, lasciò la segreteria del Ppi.
Liberatori del più forte e scomodo fra i suoi alleati di governo Mussolini aveva il problema di
rafforzare la sua maggioranza parlamentare, sanzionando al tempo stesso la posizione di preminenza
del fascismo. Fu questo lo scopo delle nuova legge elettorale Maggioritaria, varata nel luglio del ’23,
col voto favorevole della maggior parte dei liberali e dei cattolici di
destra. La legge avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa (con
almeno il 25% dei voti), assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. (Legge Acerbo). Quando
all’inizio del 1924 la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali accettarono di presentarsi alle elezioni
nelle liste fasciste per l’occasione chiamate “liste nazionali”. Si venne a delineare così lo stesso blocco
delle elezioni del ’21, ma questa volta a parti invertite, vedendo i fascisti in una posizione dominante.
Le forze antifasciste erano profondamente divise. I due partiti socialisti, i comunisti, i liberali

2
d’opposizione e i popolari assieme ad altri partiti minori si presentarono con liste autonome,
condannandosi così al suicidio politico. Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non
rinunciarono alla violenza contro gli avversari. La scontata vittoria fascista assunse così proporzioni
clamorose, tanto da rendere inutile il meccanismo della nuova legge elettorale. Infatti le liste nazionali
ottennero oltre i l65% dei consensi e più di tre quarti dei seggi. Il successo fu massiccio soprattutto nel
Mezzogiorno e nelle isolem cioè nelle regioni in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era
rapidamente ingrossato, dopo l’alleanza di governo tra fascisti e notabili moderati.

4.3. Il delitto Matteotti e l’Aventino


Il successo nelle elezioni rafforzò la posizione di Mussolini e alimentò le speranze dei fiancheggiatori
che, chiudendo gli occhi davanti alle violenze e illegalità, speravano in un’evoluzione del fascismo in
senso liberal-conservatore. Le opposizioni, indebolite e sfiduciate, non sembravano in grado di
reinserirsi nel gioco politico. Ma a poco più di due mesi dalle elezioni un evento tragico ed inaspettato
intervenne a mutare drasticamente lo scenario. Il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti,
segretario del Psu fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi e trucidato. Il cadavere fu poi ritrovato
solo due mesi dopo. Dieci giorni prima di essere rapito Matteotti aveva pronunciato alla Camera una
durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e contestando la validità delle
elezioni.
Il paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai consolidata di violenze ed
impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci ne portavano intera responsabilità. Il fascismo, che fino a
pochi giorni prima era parso inattaccabile, si trovò improvvisamente isolato. Divise e distintivi
scomparvero dalle strade. Ma l’opposizione drasticamente ridimensionata dalle elezioni, non era in
grado di affrontare una prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza. L’unica iniziativa
concreta presa dai gruppi di opposizione fu quella di astenersi dai lavori parlamentari e di riunirsi
separatamente finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica. La secessione dell’Aventino,
come fu definita con un termine della storia romana, aveva un indubbio significato ideale, ma era di per
se priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti “aventiniani” si limitarono infatti ad agitare di fronte
all’opinione pubblica una “questione morale”, sperando in un intervento della corona o in uno
sfaldamento della maggioranza fascista.
Nel giro di pochi mesi l’ondata antifascista rifluì e Mussolini, premuto dall’ala intransigente del
fascismo, decise di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, il capo del governo
ruppe ogni cautela legalitaria, dichiarò chiusa la questione morale e minacciò apertamente di usare la
violenza contro le opposizioni.
Anziché provocare la fine del fascismo, il delitto Matteotti e la crisi che ne scaturì, determinò la disfatta
dei partiti democratici e accelerato il passaggio da un governo autoritario ad una vera forma di
dittatura.

3
4.4. La dittatura a viso aperto
La svolta del 3 gennaio 1925 non lasciava aperto spazio agli equivoci e i compromessi. Intanto il
fascismo portava a compimento l’occupazione delle Stato, chiudeva ogni residuo spazio di libertà
politica e sindacale. Molti esponenti antifascisti furono costretti a prendere la via dell’esilio. Giovanni
Amendola morì in Francia nel ’26 a causa dei postumi di un’aggressione squadrista. Gli organi di
stampa dei partiti antifascisti furono messi in condizione di non funzionare. Nell’ottobre 1925 il
sindacalismo libero ricevette un colpo mortale dal patto di Palazzo Vidoni, con cui Confindustria si
impegnava a riconoscere la rappresentanza sindacale ai soli aderenti al sindacato fascista. Eliminate o
ridotte al silenzio le voci d’opposizione, il fascismo non si accontentò di esercitare una dittatura di
fatto, ma procedette alla formulazione di nuove leggi destinate a travolgere definitivamente o connotati
dello Stato liberale. La prima importante legge costituzionale del regime fu quella emanata nel
dicembre del ’25, la quale concedeva maggiori poteri al presidente del consiglio, sia rispetto ai ministri
sia rispetto al Parlamento. Nell’aprile del ’25 una legge sindacale proibì lo sciopero e stabili che solo i
sindacati “legalmente riconosciuti”, avevano il diritto di stipulare contratti collettivi. Infine, nel
novembre ’26, all’indomani dell’ultimo attentato a Mussolini, una vera e propria raffica di
provvedimenti repressivi cancellò le ultime tracce di vita democratica. Furono sciolti tutti i partiti
antifascisti, decaduti dal mandato i parlamentari aventiniani. Fu reintrodotta la pena di morte per i
colpevoli di reati contro “la sicurezza dello Stato”. La costruzione del regime sarebbe stata completata
successivamente con la legge elettorale del 1928 che prevedeva la lista unica e lasciava agli elettori il
potere di votarla o respingerla in blocco, e con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio che sempre
nel ’28 divenne organo di Stato dotato di ampie prerogative soprattutto in campo elettorale. Già però,
nel 1926,le leggi fascistissime avevano messo fine alla parabola dello Stato liberale e avevano dato vita
ad un nuovo regime.

4.5 Il totalitarismo imperfetto


Nella seconda metà degli anni’20 in Italia lo Stato totalitario era già una realtà consolidata nelle sue
strutture giuridiche e ben riconoscibile nelle manifestazioni esteriori. Caratteristica essenziale del
regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato, che aveva
conservato l’impalcatura esterna dello Stato monarchico (di cui Mussolini si serviva per esercitare il
potere e trasferire i comandi dal centro alla periferia attraverso i prefetti) e quella del partito con le sue
organizzazioni collaterali (con l’obiettivo di fascistizzare la società italiana). Il punto di congiunzione
tra le due strutture era il Gran Consiglio del Fascismo, organo di partito investito anche di importanti
funzioni costituzionali. Al di sopra di tutti esercitava il potere incontrastato Mussolini il quale riuniva
nelle sue mani la qualifica di capo del governo e di duce del fascismo. Si ricordi come più volte
ribadito nel corso delle lezioni che lo Statuto Albertino prevedeva una procedura semplice per essere
modificato, a differenza della carta costituzionale attualmente vigente in Italia. Il regime fascista fu
certo totalitario nelle intenzioni. Ma alle intenzioni non sempre corrisposero i risultati, visti i notevoli
ostacoli che il fascismo doveva superare nel suo tentativo di permeare a se la società. L’ostacolo

4
maggiore senza dubbio era rappresentato dalla Chiesa cattolica. In un paese in cui oltre il 99% della
popolazione si dichiarava di fede cattolica, in cui la pratica religiosa era diffusa in modo massiccio, in
cui le parrocchie rappresentavano spesso l’unico centro di aggregazione sociale e culturale, non era
facile governare contro la chiesa o senza trovare con essa un qualche modus vivendi .
Consapevole di ciò, Mussolini non solo aveva cercato un’intesa politica, come nel caso dello
scioglimento del Ppi, ma cercò di ricucire lo storico strappo tra Chiesa e Stato, figlio dell’unificazione.
Le trattative fra governo e Santa Sede cominciarono nell’estate del ’26, si protrassero per due anni e
mezzo nel più assoluto segreto e si conclusero nel febbraio 1929 con la stipula dei “Patti Lateranensi” .
I patti Lateranensi rappresentarono per il regime fascista un notevole successo propagandistico.
Presentandosi come l’artefice della “conciliazione”, come l’uomo che era riuscito laddove altri avevano
fallito, Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti
sino al allora ostili o indifferenti. Le prime elezioni plebiscitarie, tenutesi nel marzo del ’29 con il
nuovo sistema elettorale del listone unico, registrarono un afflusso alle urne senza precedenti, i votanti
furono il 90% della popolazione con il 98% dei consensi a favore. Un risultato da valutare con cautela,
come tutti quelli dei vari plebisciti autoritari, ma comunque indicativo di un diffuso orientamento del
regime.
Se il fascismo trasse dai Patti Lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano a cogliere i
successi più significativi e duraturi. La chiesa acquistò una posizione di indubbio privilegio nei rapporti
con lo Stato, anche in materie portanti come l’istruzione e la legislazioni matrimoniale, e rafforzò
notevolmente la presenza nella società: le venne garantita infatti l’autonomia delle proprie
organizzazioni, in primo luogo l’Azione Cattolica, dove si formò una classe dirigente di ricambio
pronta a prendere il posto di quella fascista.
La Chiesa non costituì l’unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie del fascismo. Un altro limite
insuperabile stava all’interno, anzi al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato dalla
monarchia. Mussolini infatti dovette fare i conti con un’autorità, quella del re, che non gli era in alcun
modo subordinata e che non derivava dal fascismo i suoi titoli di legittimità. Infatti al sovrano
spettavano il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e addirittura il potere di
nomina e revoca del capo del governo. Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché
il regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo carismatico capo. Ma in caso di crisi, le carte
migliori sarebbero state in mano al re, il che rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea
debolezza.

4.6. Il regime e il paese


Nonostante i segni di sviluppo post crisi economica, alla vigilia della seconda guerra mondiale l’Italia
era ancora un paese fortemente arretrato e il suo distacco dalle grandi potenze europee non si era
ridotto. Alla fine degli anni ’30, il reddito medio italiano era poco più della metà di quello francese, un
terzo di quello di un inglese. Nonostante spendesse più dellametà del suo reddito in consumi alimentari,
l’italiano medio si nutriva essenzialmente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre

5
volte inferiore a quelle di un inglese o di un
americano, considerava generi di lusso il caffè, lo zucchero e il tè. La spesa non alimentare era esigua
rispetto ai cittadini inglesi e francesi, per non parlare della spesa per beni durevoli. Il fascismo come il
nazismo predicò il “ritorno alla campagna”, esaltò la bellezza e la sanità della vita campestre, lanciò a
più riprese la parola d’ordine ruralizzazione e tentò di scoraggiare senza però riuscirvi l’afflusso dei
lavoratori verso i centri urbani. Il fascismo inoltre, d’accordo con questo con la Chiesa, difese ed esaltò
la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo
demografico del paese. Ispirandosi anacronisticamente alla dottrina che identificava la potenza con la
forza del numero, il regime cercò di incoraggiare con ogni mezzo l’incremento della popolazione:
furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, furono favorite le assunzioni dei padri di famiglia,
furono istituite premi per le coppie più prolifiche, fu addirittura imposta una tassa sui celibi (1927). In
coerenza con questa teoria il governo ostacolò il lavoro delle donne e, più in generale si oppose al
processo di emancipazione femminile. Anche le donne ebbero durante il fascismo, le loro strutture
organizzative: quella dei Fasci femminili, quella delle giovani italiane più importante di tutti quella
delle massaie rurali. Ma si trattava di organizzazioni poco vitali, la cui funzione principale stava nel
valorizzare le virtù domestiche della donna.
Il fascismo se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall’altro era
in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione del cosiddetto uomo vero, verso un
sistema totalitario moderno, in cui l’intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime,
sensibile agli appelli del capo e pronta a combattere per la grandezza nazionale. Per la realizzazione di
questo progetto il ritardo economico e culturale del paese rappresentava un ostacolo insormontabile.
Ma era la scarsezza di risorse a disposizione della collettività che impediva al fascismo di praticare una
politica economica e salariale tale da permettergli di far breccia fra le classi lavoratrici. Le generiche
enunciazioni contenute nella Carta del Lavoro non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della
perdita di qualsiasi autonomia e capacità contrattuale.
I maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, il regime li ottenne non a caso presso la
media borghesia. Per dare una risposta sintetica agli interrogativi sulla reale fascistizzazione del paese,
si può quindi concludere che questo fenomeno fu ampio, ma riguardò essenzialmente gli strati
intermedi della società, toccando solo superficialmente le classi popolari e l’alta borghesia.

4.7. Il fascismo e l’economia


Tutti i movimenti fascisti si presentarono ai loro esordi come portatori di soluzioni nuove e originali
per i problemi dell’economia e del lavoro (la famosa “terza via” tra capitalismo e socialismo). Il
fascismo italiano pensò di individuare la sua “terza via” nella formula del corporativismo.
In sostanza il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell’economia da parte delle
categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori di attività e comprendenti
sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Questo sistema non trovò però mai una vera e propria
attuazione. Quando infine vennero istituite, nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova

6
burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti. Il fascismo non inventò un nuovo sistema economico e
soprattutto non mantenne nel corso del ventennio una linea di politica economica coerente e
riconoscibile. Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò come già abbiamo
anticipato, una linea liberista e “produttivistica”, volta cioè a rilanciare la produzione incoraggiando
l’iniziativa privata e allentando i controlli statali. Questa linea provocò però, assieme a un consistente
incremento produttivo, un riaccendersi dell’inflazione, un crescente deficit nella bilancia commerciale
ed un forte deterioramento del valore della lira, il cui tasso di cambio con la sterlina scese a livelli mai
toccati in passato. Con l’estate 1925, la politica economica del governo subì una brusca svolta: il
ministro delle finanze De Stefani fu sostituito con Giuseppe Volpi, industriale e finanziere veneziano,
che inaugurò una politica protezionistica, deflattiva, di stabilizzazione monetaria e che prevedeva a
differenza del passato un’intervento dello Stato nell’economia più marcato.
Primo e più importante intervento di questa nuova politica economica fu nel ’25 l’inasprimento del
dazio sui cereali, volta a favorire il settori cerealicolo, ma questa volta fu accompagnata da una
rumorosa campagna propagandistica detta “battaglia del grano”. Scopo della battaglia era il
raggiungimento dell’autosufficienza nel settore dei cereali, sia attraverso l’aumento delle terre
coltivabili a grano sia attraverso l’utilizzo di nuove tecniche. Lo scopo fu raggiunto per buona parte ma
il prezzo lo pagarono altri settori come l’allevamento e le colture specializzate rivolte all’export.
La seconda battaglia fu quella della rivalutazione della lira. Nell’agosto ’26 il duce fissò l’obiettivo
ritenuto quasi da tutti irrealistico di “quota novanta” (90 lire per una sterlina). Alla base di questa scelta
c’era soprattutto il desiderio di dare al paese un’immagine di stabilità monetaria oltre che politica,
rassicurando i ceti medi risparmiatori. L’obiettivo di “quota 90” fu raggiunto in poco più di un anno, in
virtù di provvedimenti che limitavano fortemente il credito e con l’aiuto di un cospicuo prestito
concesso allo Stato da grandi banche statunitensi. I prezzi interni diminuirono per effetto della politica
deflazionistica e del minor costo delle importazioni e la lira recuperò il potere d’acquisto perduto. Ma a
goderne non ne furono il lavoratori dipendenti, che si videro tagliare i salari e gli stipendi in misura più
che proporzionale. La produzione agricola e industriale subì una certa flessione. Furono colpite
soprattutto le industrie che lavoravano per l’esportazione, mentre, quelle che operavano per il mercato
interno poterono giovarsi della contrazione del costo del lavoro, degli sgravi fiscali concessi dal
governo e di un forte aumento delle commesse pubbliche.

4.8. Lo “Stato- imprenditore”


L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi
sentire le conseguenze della grande crisi mondiale. La recessione fu pesante anche in Italia. Il
commercio estero si ridusse drasticamente, l’agricoltura subì un nuovo duro colpo in tutti i suoi settori
a causa del calo delle esportazioni e dell’ulteriore tracollo dei prezzi.
La risposta del regime alla crisi si attuò su due direttrici fondamentali: lo sviluppo dei lavori pubblici
come strumento per rilanciare la produzione e attutire le tensioni sociali; e l’intervento diretto ed
indiretto dello Stato per il sostegno dei settori in crisi.

7
A metà degli anni ’30 furono realizzate nuove strade nuovi tronchi ferroviari, costruiti nuovi edifici
pubblici dove il fascismo potè appagare il suo gusto monumentale. Fu varato il risanamento del centro
storico della capitale,, che provocò la distruzione di interi vecchi quartieri della Roma medievale. Ma
soprattutto fu avviato un programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero e alla
valorizzazione delle terre incolte o mal coltivate. Il progetto di bonifica inte3grale ostacolato sia da
difficoltà finanziarie dello stato sia dalle resistenze dei grandi proprietari terrieri, fu attuato solo
parzialmente. (Si veda la nascita di città come Sabaudia e Littoria, l’attuale Latina e il risanamento di
tutto l’Agro pontino).
Fu comunque nel settore dell’industria e del credito che l’intervento dello Stato assunse le forme più
originali e incisive, sotto la spinta di una crisi che minacciava, se non affrontata in tempo, di provocare
un collasso senza precedenti dell’intero sistema bancario. Colpite in particolar modo dalla crisi furono
le grandi banche “miste” che, create alla fine dell’800 con lo scopo di sostenere gli investimenti
nell’industria, si erano trovate a gestire quote azionarie sempre più consistenti di importanti gruppi
industriali. La caduta della borsa che si verificò anche in Italia in coincidenza con la crisi che mise in
grave difficoltà le banche, le quali per sostenere il corso dei titoli, effettuarono nuovi massicci acquisti,
aggravando così la loro esposizione.
Per far fronte alla crisi e salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne dapprima creando un
istituto di credito pubblico l’IMI (1931), col compito di sostituire le banche nel sostegno alle industrie
in crisi e dando vita due anni dopo all’IRI, dotato di competenze eccezionalmente ampie. Valendosi di
fondi forniti in gran parte dallo stato, l’IRI divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne
rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune fra le maggiori imprese
italiane tra cui troviamo l’Ansaldo, l’Ilva e la Terni. Il governo decise poi nel ’37 di trasformare l’IRI
in un ente permanente.
In questo modo lo Stato si trovò a controllare ,se pur indirettamente, una quota dell’apparato industriale
e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato (esclusa l’Urss): diventò cioè Stato-
imprenditore. Ancor meno possiamo parlare di una fascistizzazione dell’economia, visto che per gli
interventi più importanti Mussolini non si servi di personale proveniente dal partito o dalla nascente
burocrazia corporativa, ma si affidò piuttosto a tecnici “puri”. Nei nuovi enti parastatali e nella banca
d’Italia si formò così una burocrazia parallela, destinata a giocare un ruolo di primo piano nell’Italia
postfascista.
Intorno alla metà degli anni ’30 l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi e, (sia pure a prezzo di
sacrifici non lievi a spese soprattutto delle classi popolari), ne era uscita prima e meglio delle altre
potenze industriali. A partire dal 1935, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese
militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l’isolamento
economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che per i settori interessati dalle commesse
belliche, quegli effetti positivi che il riarmo produsse sulla struttura industriale ben più forte della
Germania nazista. Cominciava per l’Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a
prolungarsi senza soluzione di continuità fino al secondo conflitto mondiale.

8
4.9. L’imperialismo fascista
Come sinteticamente anticipato nei paragrafi precedenti, nel movimento fascista fu sempre presente, fin
dalle origini, una forte componente nazionalistica. Nonostante le delusioni subite a Versailles (vedi
prima parte), l’Italia era pur sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente
l’intricata questione adriatica. Fino ai primi anni ’30 le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero
vaghe e spesso contraddittorie e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una
generica contestazione dell’assetto uscito dalla firma degli accordi di Versailles: dunque appoggio alle
velleità revisioniste dei paesi insoddisfatti, come Austria e Ungheria, polemica ricorrente contro le
democrazie “plutocratiche”, contrapposte secondo una formula già cara ai nazionalisti, all’Italia
proletaria, ricca di popolazione ma povera di risorse ;richiesta mai precisata nei dettagli di un nuovo
assetto nell’equilibrio mediterraneo più favorevole all’Italia. Tutto ciò contribuì a rendere più tesi i
rapporti con la Francia ma non impedì di trattenere buone relazioni con la gran Bretagna, secondo una
linea tradizionale di politica estera italiana, e di restare nel complesso all’interno del sistema di
sicurezza collettiva fondato sull’accordo tra le potenze vincitrici il primo conflitto mondiale. L’accordo
di Stresa dell’aprile del ’35 fu la manifestazione più significativa di questa fase della politica estera
fascista. Ma fu anche l’ultima. Mentre si accordava con le democrazie occidentali contro il riarmo della
Germania, Mussolini stava già preparando l’aggressione all’Impero etiopico, unico grosso Stato
indipendente del continente africano.
Con la guerra d’Etiopia Mussolini intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del
fascismo, vendicando lo scacco subito dall’Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua(vedi prima parte), e
mostrando che il suo regime poteva riuscire la dove la classe dirigente liberale aveva fallito. Ma voleva
anche creare una nuova occasione di mobilitazione generale popolare che facesse passare in secondo
piano i problemi economico-sociali del paese. Mussolini pensava inoltre di poter sfruttare la favorevole
congiuntura diplomatica creata dalla politica hitleriana, che rendeva l’amicizia con dell’Italia più
preziosa che in passato per le potenze occidentali.
Quando ai primi di ottobre del ’35 l’Italia diede inizio all’invasione dell’Etiopia senza nemmeno farla
precedere da una dichiarazione di guerra, i governi francese e inglese non poterono fare a meno di
condannare ufficialmente l’azione e di proporre al Consiglio della Società delle Nazioni l’adozione di
sanzioni consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria della guerra.
Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l’invasione, le sanzioni ebbero un’efficacia
molto limitata.
L’immagine dell’Italia proletaria cui le nazioni plutocratiche, già padroni di sterminati imperi coloniali,
volevano impedire la conquista di un proprio “posto al sole” riuscì in effetti a far breccia nell’opinione
pubblica italiana, non escluse le classi popolari. Le piazze si riempirono di folle inneggianti a
Mussolini e alla guerra. Studenti e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni anti-
inglesi. Milioni di coppie tra cui quella reale, parteciparono all’iniziativa della raccolta dell’oro
donando la loro fede nuziale, manifestazione questa del tutto simbolica per le casse statali. Anche
alcuni noti antifascisti, fra cui Benedetto Croce, si sentirono in dovere di esprimere solidarietà alla

9
nazione in guerra.
Gli etiopici si batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus. Ma il loro
esercito male organizzato ed equipaggiato alla peggio, nulla poteva contro un corpo di
spedizione che giunse a impegnare circa 400.000 unità e fece ampio ricorso a mezzi corazzati e
all’aviazione. Il 5 maggio 1936 le truppe italiane comandate dal Maresciallo Badoglio, entrarono ad
Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle folle plaudenti di poter fornire al
sovrano la corona di “Imperatore d’Etiopia”.
Da un punto di vista economico, la conquista dell’Etiopia , paese povero di risorse naturali e poco
adatto agli insediamenti agricoli, rappresentava per l’Italia un peso non indifferente, aggravato dai
problemi suscitati dalle sanzioni e non compensato dai temporanei benefici arrecati all’industria
bellica. Ma sul piano politico fu un successo clamoroso ed indiscutibile. Portando a termine una
campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e
costringendole poi ad accettare il fatto compiuto. Mussolini diede a molti l’impressione di aver
conquistato per l’Italia lo status di potenza di primo ordine. In realtà , si trattava di una sensazione
illusoria: l’Italia, infatti, non era in grado di affrontare uno scontro contro una grande potenza e aveva
potuto “tirare dritto” sulla questione abissina, perché gli inglesi, pronti a mobilitarsi a parole, non
avevano alcuna intenzione di mobilitarsi per difendere realmente l’Etiopia.
Mussolini era consapevole di tutto questo, ma inebriato dal successo etiopico, credette ugualmente di
poter condurre una politica adeguata a una grande potenza, sfruttando ogni occasione per allargare
l’area di influenza italiana giocando sulla rivalità fra tedeschi e franco- inglesi. In questo gioco doveva
rientrare, almeno in un primo momento, il riavvicinamento dell’Italia alla Germania, cominciato subito
dopo la guerra etiopica e sancito nell’ottobre del 1936, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il
nome di Asse Roma-Berlino. Rafforzata dal comune impegno nella guerra civile spagnola e
nell’autunno del ’37, dalla adesione dell’Italia al patto Anticomintern, l’Asse non assunse tuttavia,
nonostante le pressioni tedesche, la forma di una vera e propria alleanza militare. Mussolini
considerava infatti l’avvicinamento alla Germania non tanto come una scelta irreversibile, quanto un
mezzo per far pressione sulle potenze occidentali, in modo da poter alzare il peso contrattuale
dell’Italia. Ma il dinamismo aggressivo della Germania era tale da non consentire a Mussolini i tempi e
gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi servire
dell’amicizia tedesca, il dice ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto di dover accettare
passivamente tutte le iniziative di Hitler, comprese anche quelle più sgradite come l’annessione
dell’Austria. Finchè nel maggio 1939, privato di un margine d’azione, si decise alla scelta che sarebbe
risultata fatale al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania (il pazzo d’acciaio),
che legava definitivamente le sorti dell’Italia a quelle dello stato nazista.

4.10. Apogeo e declino del regime fascista


La vittoriosa campagna contro l’Etiopia segnò,per il regime fascista, l’apogeo del successo e della
popolarità. A suscitare disaggio e perplessità era la politica economica fascista, sempre più ispirata a

10
motivi di prestigio nazionale e condizionata dal peso delle spese militari, che oltretutto servivano, più
che a realizzare un vero riarmo, a domare i residui focolai di guerriglia in Etiopia e a sostenere i costi
dell’intervento in Spagna. Alla fine del ’35, traendo spunto dall’episodio delle sanzioni, Mussolini
decise di intensificare e di rilanciare la politica autarchica, già abbozzata negli anni ’20 e consistente
nella ricerca di una sempre maggiore
autosufficienza economica, soprattutto in campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in
caso di guerra. Molte industrie, chimiche, metallurgiche, meccaniche e minerarie, trassero cospicui
vantaggi dall’autarchia. Ma non mancarono nelle alte sfere economiche perplessità nei confronti di una
politica che implicava fra l’altro uno stretto controllo governativo sulla produzione, il commercio e gli
scambi valutari. I risultati finali dell’autarchia non furono brillanti. L’autosufficienza rimase un
traguardo irraggiungibile. L’indice della produzione industriale crebbe ma piuttosto lentamente.
Crebbero anche i prezzi e ciò comportò un peggioramento dei livelli di vita nelle classi sociali più
deboli.
A questi motivi di disagio si aggiungevani le diffuse preoccupazioni per il nuovo indirizzo di politica
estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore: suo genero Galeazzo Ciano assurto poco
più che trentenne, con una decisione che suscitò scalpore, alla carica di ministro degli Esteri. L’aspetto
che più inquietava l’opinione pubblica era senza dubbio l’amicizia con la Germania, un’amicizia che
urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della grande guerra.
La nuova politica mussoliniana si mostrava inoltre priva di risultati immediati, ( al contrario non
mancavano gli scacchi clamorosi come quello dell’Anschluss), e faceva sembrare più vicina
l’eventualità di una nuova guerra europea. Non fu un caso se le uniche manifestazioni di spontaneo
entusiasmo popolare di questo periodo si ebbero in coincidenza col ritorno di Mussolini dalla
conferenza di Monaco e furono rivolte al duce in quanto presunto salvatore della pace.
Il duce auspicava per l’Italia un avvenire di conquiste e di confronti militari. Mussolini pensava che gli
italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel profondo,
trasformandosi in quello che non erano mai stati: un popolo di attitudini e tradizioni guerriere.
Per avvicinarsi all’obiettivo che si prefiggeva, il regime sarebbe dovuto diventare più totalitario di
quanto non fosse stato fin allora. Da qui scaturirono una serie di modifiche istituzionali, che andavano
dalla creazione del ministero per la Cultura popolre all’accorpamento delle organizzazioni giovanili
nella Gioventù italiana del littorio, dall’ampliamento delle funzioni del Pnf alla sostituzione, nel 1939,
della Camera dei Deputati con una nuova Camera dei Fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni
funzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime;
l’imposizione della divisa per i funzionari pubblici, l’adozione del “passo romano” per conferire un
aspetto marziale alle sfilate militari. Ma la manifestazione più seria ed aberrante si ebbe con
l’introduzione voluta da Mussolini nell’autunno del 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei
confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano per grandi linee quelle naziste del ’35. Anziché suscitare
consenso e mobilitazione le leggi razziali suscitarono sconcerto o quanto meno perplessità
nell’opinione pubblica e aprirono per giunta un serio contrasto con la chiesa, contraria non tanto alla

11
discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni biologico-razziali. Fu solo con lo scoppio del
conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a perdere progressivamente il sostegno
sul quale più contava: quello appunto dei giovani. I quali diventati nel frattempo soldati e ufficiali,
vissero in prima persona il drammatico fallimento di un regime che, avendo puntato tutto sulla politica
di potenza e sull’esaltazione bellica si dimostrò poi incapace di preparare sul serio la guerra, la perse
rovinosamente e finì per questo col crollare come un castello di carte.

12

Potrebbero piacerti anche