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BENITO MUSSOLINI

Nacque a Dovia di Predappio (Forlì) il 29 luglio del 1883. Figlio di Alessandro, fabbro, e di Rosa
Maltoni, maestra elementare, visse un'infanzia modesta, conseguendo nel 1901 il diploma di
maestro elementare. Quello stesso anno, in dicembre, viene assunto quale "supplente" in una
scuola elementare. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano sin dal 1900, mostrò subito un acceso
interesse per la politica attiva stimolato tra l'altro dall'esempio del padre, esponente di un certo
rilievo del socialismo. Emigrato in Svizzera (1902) per sottrarsi al servizio militare, entrò in
rapporto con rivoluzionari, ponendo contemporaneamente le basi della propria cultura politica.

Ripetutamente espulso da un cantone all'altro per il suo attivismo anticlericale e antimilitarista,


rientrò in Italia nel 1904 approfittando di un'amnistia che gli permise di sottrarsi alla pena prevista
per la renitenza alla leva. La Polizia lo schedò come "sovversivo" e "pericoloso anarchico".

Dopo aver insegnato francese qualche tempo in una scuola privata, tornò a Predappio, dove si
mise a capo dello sciopero dei braccianti agricoli. Il 18 luglio fu arrestato per aver minacciato un
dirigente delle organizzazioni padronali. Processato per direttissima, fu condannato a tre mesi di
carcere. Dopo 15 giorni è posto in libertà provvisoria dietro cauzione. In settembre venne
incarcerato per dieci giorni, per aver tenuto un comizio non autorizzato.

Ricoprì quindi la carica di segretario della Camera del Lavoro di Trento (1909) e diresse il
quotidiano "L'avventura del lavoratore". Presto in urto con gli ambienti moderati e cattolici, dopo
sei mesi di frenetica attività propagandistica, non priva di successo, fu espulso anche da qui tra le
proteste dei socialisti trentini, suscitando una vasta eco in tutta la sinistra italiana.

Tornato a Forlì, Mussolini si unì, senza vincoli matrimoniali né civili né religiosi, con Rachele Guidi,
la figlia della nuova compagna del padre e da essa ebbe, nel settembre 1910, la prima figlia Edda
(Vittorio sarebbe nato nel 1916, Bruno nel 1918, Romano nel 1927, Anna Maria nel 1929, mentre
nel 1915 sarebbe stato celebrato il matrimonio civile e nel 1925 quello religioso).

Quando sopraggiunse la guerra di Libia a mutare i rapporti di forza tra le correnti del socialismo
italiano, (che del resto era stato condannato a un anno, poi ridotto a cinque mesi e mezzo, di
reclusione per le manifestazioni organizzate in nel settembre del 1911 Romagna contro la guerra
in Africa, trasformate in azioni rivoluzionarie di sabotaggio) apparve come l'uomo più adatto a
impersonare il rinnovamento ideale e politico del partito.

Assunse la direzione dell' Avanti! il 1° dicembre del 1912. Lo scoppio del conflitto mondiale lo
trovò allineato sulle posizioni ufficiali del partito, di radicale neutralismo. Nel giro di qualche mese,
tuttavia, in lui maturò il convincimento che l'opposizione alla guerra avrebbe finito per trascinare il
PSI a un ruolo sterile e marginale, mentre sarebbe stato opportuno sfruttare l'occasione offerta da
questo sconvolgimento internazionale per far percorrere alle masse quella via verso il
rinnovamento rivoluzionario dimostratasi altrimenti impossibile.

Dimessosi perciò dalla direzione dell'organo socialista pensò di realizzare un suo quotidiano. Il
giorno dopo l'assemblea straordinaria del PSI milanese approvò la linea propugnata da Mussolini.
Ma la direzione nazionale la pensava diversamente. Il 15 novembre pertanto, accettando l'aiuto di
un gruppo di finanziatori facenti capo a Filippo Naldi, pubblicò "Il popolo d'Italia",
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ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa e in grado di
conseguire immediatamente un clamoroso successo di vendite. Espulso di conseguenza dal PSI. Un
mese dopo, il 24 maggio, quando l'Italia entrò in guerra, definì questa giornata "la più radiosa della
nostra storia". Richiamato alle armi (agosto 1915), dopo essere stato ferito durante
un'esercitazione (febbraio 1917),   poté ritornare alla direzione del suo giornale.

Tuttavia, man mano che la situazione italiana si andava deteriorando e il fascismo si caratterizzava
come forza organizzata in funzione antisocialista e antisindacale, Mussolini otteneva crescenti
adesioni e favori da agrari e industriali e quindi dai ceti medi. Alle elezioni del maggio 1921 alla
Camera vennero eletti 36 deputati fascisti.

Il 24 ottobre del 1922, in una riunione all'Hotel Vesuvio di Napoli, Mussolini e i suoi collaboratori
decisero di marciare su Roma. Il 27 ottobre, quando i fascisti erano alle porte della capitale, il
presidente del Consiglio Facta presentò le sue dimissioni. Il 28 ottobre i fascisti entrarono a Roma.
Il Re rifiutò di firmare il decreto per lo stato di assedio e il 30 ottobre diede a Mussolini l'incarico di
costituire il governo. Il 17 novembre la Camera approva il governo con 306 voti favorevoli e 116
contrari.

Giolitti e molti altri politici moderati replicarono a questo punto l'errore già fatto: credettero che il
conferimento dell'incarico a Mussolini rappresentasse il primo passo verso il  riassorbimento del fascismo
entro i consueti canoni della politica. Erano sostenuti in tale convinzione dalla composizione stessa
dell'esecutivo: rivelandosi un intelligente politico, Mussolini formò un governo di cui facevano parte, oltre
ai fascisti, anche nazionalisti, liberali, popolari e indipendenti, nonché rappresentanti delle forze armate.
Mussolini intendeva «normalizzare» la vita del Paese legalizzando l'azione fascista: di volta in volta, si
appoggiò piú o meno all'azione terroristica degli squadristi, che furono inquadrati nella Milizia volontaria
per la sicurezza nazionale. I fascisti furono messi a capo dei settori chiave dell'amministrazione pubblica, le
attività sindacali e politiche furono limitate, cosí come la libertà di stampa. Dal dicembre del 1922, acquistò
notevole peso il Gran consiglio del fascismo, assunse compiti spettanti tanto al governo quanto al
parlamento.
Nel 1923 il fascismo intervenne su un'altra importante istituzione pubblica, cioè la scuola, la cui riforma fu
elaborata dal ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile. A lui fu affidata la riorganizzazione della
scuola, definita da Mussolini la «più fascista» delle riforme.

la cultura umanistica a scapito di quella scientifica. Egli, inoltre, si sforzò di uniformare al fascismo anche la
cultura italiana universitaria, redigendo nel 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti. D'altro canto, il
regime intraprese a partire dalla metà degli anni Venti anche un'opera di condizionamento della cultura
popolare, sfruttando le potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa, come la radio.

Per occupare lo spazio politico e istituzionale desiderato, Mussolini aveva bisogno di una 
nuova legge elettorale, che costringesse all'angolo le opposizioni. Affinché fosse approvata era però
necessario vincere le resistenze dei popolari, il cui leader Sturzo si era personalmente impegnato a
difendere le regole politiche democratiche. Per aggirare l'ostacolo posto da Sturzo, Mussolini intrecciò
abilmente le intimidazioni e le trattative con la Chiesa.

L'azione combinata degli approcci politici e delle azioni intimidatorie permise infine a
Mussolini di ottenere il ritiro dei ministri popolari dal governo e, nel luglio 1923, le dimissioni di Sturzo dalla
segreteria del Partito popolare. La nuova legge elettorale aveva adesso la strada spianata in parlamento e
fu approvata nel novembre 1923. Prese il nome di «Legge Acerbo» da Giacomo Acerbo.

Ovunque, ma soprattutto nel centro e nel nord della penisola, la campagna elettorale e le votazioni si
svolsero però in un clima di intimidazioni, minacce e violenze squadristiche, di cui fecero le spese

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soprattutto cattolici e socialisti. Tali illegalità furono portate allo scoperto dal leader socialista Giacomo
Matteotti, che le aveva rese pubbliche in Belgio e in Inghilterra e le denunciò alla Camera con un durissimo
discorso di opposizione al fascismo, contestando la validità delle elezioni, Il 10 giugno 1924,  qualche giorno
dopo il suo intervento in aula, il deputato socialista fu per ritorsione rapito e ucciso a Roma da una banda di
sicari. Il suo corpo fu ritrovato nelle campagne circostanti la capitale solo il 16 agosto, ma già
nell'immediato emersero le responsabilità del fascismo: capo della banda di rapitori era infatti lo squadrista
Amerigo Dumini (1894-1967), arrestato a metà luglio. Non fu mai provato che Mussolini fosse a conoscenza
di quanto avveniva o, addirittura, che lui stesso avesse ordinato l'eliminazione di Matteotti, ma l'ondata
d'indignazione che attraversò allora il Paese mise in serie difficoltà il capo del governo: perfino tra gli stessi
fascisti alcuni iniziarono a prendere le distanze. 
 

Da piú parti giunsero a Vittorio Emanuele III pressioni perché revocasse l'incarico a Mussolini: il sovrano
però non intervenne. Anzi, mentre nelle strade le «camicie nere» agivano ancora indisturbate, fu Mussolini
stesso a porre fine alla crisi, il 3 gennaio 1925, con un discorso alla Camera che troncò ogni dubbio sui futuri
sviluppi politici e istituzionali del Paese. Il presidente del Consiglio, infatti, si assunse «la responsabilità
politica, morale e storica» del delitto Matteotti, ammettendo il superamento dello Stato liberale e di diritto
e sfidando il parlamento a ostacolarlo.

Nel settembre dello stesso anno l'anarchico G. Lucetti lanciò una bomba contro l'auto del capo del
fascismo; l'ordigno scivolò sul tetto della vettura ed esplose a terra ferendo lievemente soltanto un
passante. Sempre in quell'anno, nell'ottobre, un altro attentato fu attribuito a un giovane che
avrebbe sparato, senza successo, sfiorando appena il bersaglio, e che fu subito dopo pugnalato a
morte dai legionari fascisti. Mussolini si salvò da altri due attentati progettati e non eseguiti per
ingenuità o per mancanza di determinazione nel 1931 e nel 1932, che furono condannati a morte
solo perché avevano avuto l'intenzione di commettere il reato. Il 21 aprile del 1927 venne
pubblicata la "Carta del Lavoro", che prevedeva 22 corporazioni. L'11 febbraio del '29 M. firmò i
Patti Lateranensi con il Vaticano che rappresentavano la conciliazione fra lo Stato italiano e la
Santa Sede.

Un'incessante propaganda cominciò a esaltare in maniera spesso grottesca le doti di "genio" del
"duce supremo" (il titolo dux fu attribuito a Mussolini dopo la marcia su Roma).

Il 9 maggio 1936 M. annunciò la fine della guerra e la nascita dell'Impero italiano d'Etiopia. L'11
dicembre di quello stesso anno uscì dalla Società delle Nazioni. Nel frattempo l'Italia emanava le
leggi razziali contro gli ebrei, che entrarono in vigore il 17 novembre del '38. Nel 1939, infine, M.
firmò il "patto d'Acciaio" legandosi definitivamente a Hitler.

Mussolini scelse di entrare in guerra benché impreparato e contro le idee dei suoi più vicini
collaboratori (Badoglio, Grandi, Ciano), nell'illusione di un veloce e facile trionfo. Egli stesso dirà in
un discorso di considerare "la pace perpetua come una catastrofe per la civiltà umana". In realtà
ottenne solo insuccessi che ridiedero spazio a tutte le energie contrarie al fascismo
precedentemente represse. E così vennero le gravi vicende della guerra, in Grecia (1941) e poi in
Egitto (1942); fino a che, dopo l'invasione anglo-americana della Sicilia e il suo ultimo colloquio con
Hitler (19 luglio 1943), fu sconfessato da un voto del Gran Consiglio (24 luglio) e fatto arrestare dal
re Vittorio Emanuele III (25 luglio). Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo
Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre fu liberato dai paracadutisti tedeschi. Mussolini liberato
fu portato in Germania, da dove il 15 settembre proclamò la ricostituzione del Partito Fascista
Repubblicano.

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Ormai stanco e malato e in completa balia delle decisioni di Hitler, si insediò quindi a Salò, capitale
della nuova Repubblica Sociale Italiana (fondata il 23 settembre 1943), inutilmente cercando di far
rivivere le parole d'ordine del fascismo della "prima ora". Sempre più isolato e privo di credibilità,
quando le ultime resistenze tedesche in Italia sparirono Mussolini iniziò la fuga verso la Valtellina.
Riconosciuto a Dongo dai partigiani, fu arrestato e il 28 aprile 1945 giustiziato insieme alla
Petacci. Più tardi i loro corpi, assieme a quelli degli altri gerarchi, vennero esposti nel Piazzale
Loreto, a Milano

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