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RELAZIONE MODULO 3

“La ‘paura’ del diverso:


discriminazione e processi di integrazione”

STUDENTE: Chiara Gelo, Concetta Sanfilippo Frittola, Giorgia Pezzano, Lisa


Cascone, Sarah Cristina
MATRICOLA: 1000032972, 1000026642, 1000034600, 1000003045, 1000019939
RISORSE UTILIZZATE:

1. “Di che parliamo quando parliamo d’identità?”:


https://journals.openedition.org/qds/422

2. “Gli indicatori di integrazione degli immigrati in Italia. Alcune riflessioni


concettuali e di metodo”: https://journals.openedition.org/qds/1345

3. “Legami e origini”: https://journals.openedition.org/qds/343

4. “On #BlackLivesMatter and Journalism”:


https://sociologica.unibo.it/article/view/11425

5. “Condizione occupazionale e dinamiche familiari delle donne immigrate


in Italia”: https://journals.openedition.org/qds/345

6. “Discourses of being a Muslim woman in contemporary Hungary and the


hijab paradox”: https://journals.openedition.org/qds/2609

7. “Imprenditoria cinese in Italia e processi di integrazione sociale”:


https://journals.openedition.org/qds/606
PREMESSA

Se pure con un certo ritardo rispetto ad altri paesi europei, oggi il nostro paese può
essere definito multietnico. In particolare, i figli degli immigrati ci consentono non
solo di immaginare il futuro, ma rappresentano anche un ottimo osservatorio per
rimettere a punto gli strumenti concettuali con cui, fino a questo momento, la
sociologia ha osservato e spiegato i cambiamenti che i processi migratori hanno
portato nelle società occidentali contemporanee.
In questa relazione esaminiamo dunque le basi delle problematiche sorte in questo
secolo riguardanti la discriminazione etnica, soprattutto da un punto di vista
sociologico, partendo dal fenomeno dell’immigrazione e dal concetto di identità
culturale.
CITAZIONI CHIAVE

“L’integrazione deve essere uno scambio reciproco di esperienza umana sul piano
psicologico, deve essere uno scambio culturale dal quale emerga una prospettiva più
ampia e matura e deve essere un inserimento dell’immigrato nella nuova struttura
sociale come una parte vitale e funzionale che arricchisce l’insieme.”
Alberoni e Baglioni, 1965.
(Gli indicatori di integrazione degli immigrati in Italia. Alcune riflessioni
concettuali e di metodo: https://journals.openedition.org/qds/1345)

“Il processo di costruzione identitaria, in particolare nell’adolescente immigrato di


seconda generazione, si gioca su un “terreno socio-psicologico intermedio” tra due
culture all’interno delle quali l’adolescente deve negoziare la propria identificazione al
fine di trovare un filo conduttore tra il proprio retroterra culturale, quindi il legame
con la propria famiglia, e la piena accettazione del contesto culturale dominante.”
Zanetti, 2012.
(Di che parliamo quando parliamo d’identità?”:
https://journals.openedition.org/qds/422)

“Se la costruzione dell’identità dipende dal contesto di appartenenza e se la


comprensione del “chi siamo” si basa non solo sul modo in cui ci percepiamo, ma
anche sul modo in cui siamo percepiti dagli altri attori con cui interagiamo (Hall,
1996; Remotti, 1996; Taylor, 1998), è altamente probabile che l’esperienza della
migrazione – soprattutto se vissuta durante gli anni dell’adolescenza – e le sue
implicazioni (trasferimento in un’altra città/regione/nazione, costruzione di nuovi
rapporti con altri individui, incontro con nuove usanze e modi di fare, ecc.) finiscano
per incidere sul processo di costruzione identitaria.”
- Legami e origini
(https://journals.openedition.org/qds/343)
COMMENTO ALLE CITAZIONI CHIAVE

1. Per “integrazione” si intende di solito l’inserimento di una parte mancante in un


tutto generico, che è necessario o serve a migliorare. E’ però un termine che
può essere utilizzato in senso umano per indicare l’inserimento di un soggetto
all’interno di un gruppo di persone o cose: come in questo caso, l’inserimento
di una persona straniera all’interno di un gruppo sociale e culturale diverso da
quello di provenienza. L’integrazione, però, non comporta solo quello fisico
senza alcuna interazione col gruppo accogliente, bensì è da pensare come un
inserimento psicologico, in cui fra il soggetto accolto e il gruppo che accoglie
vi sia uno scambio di valori, conoscenze, usi e costumi per costruire una
visione più ampia, matura e sensibile nei confronti del “diverso”.

2. Una volta avvenuta l’integrazione del soggetto straniero nel gruppo


accogliente, il giovane immigrato deve fare i conti con la costruzione di una
nuova identità fatta di nuove idee, abitudini e costumi. Questo molto spesso
può causare un conflitto interiore nel soggetto che deve trovare una soluzione
al suo stress che consiste nel riuscire a far convivere in sé stesso le due culture:
quella propria del suo retroterra culturale (e dunque mantenere i rapporti con la
stessa famiglia) e la cultura dominante del gruppo sociale che l’ha accolto.

3. I giovani stranieri si presentano come un gruppo composito e variegato al suo


interno; la maggioranza si definisce “italiano”, alcuni hanno un senso di
appartenenza locale (regione, città…), molti invece si identificano con il paese
di origine. Ma l’identità evolve e cambia in risposta a fattori contestuali e
psicosociali.
RELAZIONE

Nel caso degli immigrati, l’identità è un fattore molto importante: spesso si esprime
nell’identificazione in una comune appartenenza etnica, ma tali caratteri cambiano e
spesso si smorzano a fronte dei processi di integrazione nel paese ospitante.

Che cosa si intende, però, con "integrazione"? La definizione proposta da


Alberoni e Baglioni, in una delle prime e più importanti ricerche condotte in Italia
sull’immigrazione, mette in luce l’ambivalenza di questo processo che ha descritto sia
come adattamento, sia come scambio culturale. Mentre in passato l’integrazione
stata spesso rappresentata come un processo di adattamento degli immigrati alla
società ospitante, negli ultimi decenni si tende a considerarla un processo di
interazione tra immigrati e autoctoni, orientamento accolto anche da istituzioni
nazionali e sovranazionali. In una pubblicazione del Consiglio europeo, un gruppo di
esperti definisce l’integrazione come un “processo di confronto e di scambio di
valori, di standard di vita e modelli di comportamento tra popolazione immigrata e
società ospitante” (cit. in Natale e Strozza, 1997).

Nel nostro paese i giovani di origine immigrata vengono spesso definiti i “nuovi
italiani” in quanto condividono le esperienze, frequentano gli stessi contesti educativi,
ricreativi e partecipano a processi di socializzazione degli stessi coetanei italiani, ma
sorge spontaneo chiedersi se i giovani stranieri si considerano davvero i “nuovi
italiani”? Oppure prevale la percezione di “italiani a metà”, in bilico tra due culture,
impegnati a conciliare valori e stili di vita diversi di cui sono al contempo portatori?
Oppure, ancora, non si sentono affatto italiani e preferiscono coltivare la propria
differenza, riconoscendosi nella cultura di origine?

Il carattere transnazionale dei movimenti migratori sembra indicare più ibridità che
scontro tra la cultura forte e culture dei migranti, tanto che il sociologo Welsch
(1999), elaborando il concetto di transculturalità, sottolinea come la fusione tra
tali modelli porta a ridefinire l’identità non più come identificazione ad un corpus
collettivo, quanto come risultato di connessioni culturali multiple. Per quanto però le
due culture possano ormai dire di essere fuse tra di loro, non mancano le differenze
sociali che conducono al cuore di un dibattito: quello tra differenza e disuguaglianza.
Nonostante questi ultimi siano spesso usati come sinonimi, i due concetti hanno
significati molto diversi.
Nella maggior parte dei casi, la differenza culturale viene ridotta allo stereotipo e al
pregiudizio, e si traduce in atteggiamenti discriminatori nei confronti di coloro
che ne sono portatori. In realtà, quando i soggetti rivendicano la loro differenza,
ci si dovrebbe riferire a questa come a un carattere positivo che ha a che fare con
l’identità collettiva di una minoranza.
Il concetto di disuguaglianza, al contrario, richiama non solo una disparità nella
distribuzione e nel controllo delle risorse tra i vari gruppi sociali, ma anche ai
rapporti di dominio e subordinazione per conservare tale disparità.

Il tema della dimensione identitaria e dell’appartenenza territoriale dei giovani di


origine immigrata è stato ampiamente dibattuto e affrontato nel dibattito
internazionale. Infatti dalla fine del XIX secolo, l’opinione pubblica statunitense era
preoccupata per l’arrivo di un numero crescente di immigrati, all’epoca provenienti
soprattutto dal vecchio continente.
Gli sbarchi dei nuovi arrivati erano talmente frequenti e numericamente consistenti
che gli americani iniziarono a interrogarsi su come potevano riuscire ad “assimilare”
così tanti individui e la comunità accademica iniziò a chiedersi: “Who and what is an
American?” (Mayo-Smith, 1894). La promozione dei “programmi di
americanizzazione” fu la risposta della classe politica, mentre l’idea che il processo
di incorporazione del gruppo di minoranza nella società di adozione fosse naturale,
lineare e ineluttabile si fece largo fra gli scienziati sociali (Park e Burgess, 1921;
Warner e Srole, 1945; Gordon, 1964).
Gli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia di disuguaglianza e
discriminazione nei confronti della popolazione immigrata: la schiavitù, la
segregazione razziale, scolastica e le legislazioni sull'immigrazione. Formalmente
tale discriminazione è stata abolita a partire dalla metà del XX secolo e, con il
trascorrere del tempo, è stata sempre più percepita come socialmente inaccettabile
e/o moralmente ripugnante. La politica di stampo razziale rimane tuttavia un
fenomeno di ampia portata ed il razzismo implicito continua ancora ai giorni nostri
a riflettersi nelle ampie disparità sociali e disuguaglianze socioeconomiche tra
americani bianchi e afroamericani neri, emigrati dal loro paese secoli prima in
seguito alla diaspora africana, ovvero la migrazione dei popoli africani e dei loro
discendenti prevalentemente verso le Americhe (e successivamente in Europa,
Medioriente ed altri luoghi in tutto il mondo).

La brutalità della polizia non è un argomento nuovo in America, ma le recenti


sparatorie di giovani uomini di colore da parte di poliziotti nelle città degli Stati Uniti
lo hanno trasformato in un argomento scottante negli ultimi tempi. Sono state
numerose le proteste e le rivolte a causa di agenti di polizia non incriminati per aver
ucciso giovani neri disarmati e con queste proteste si è formato un nuovo movimento
sociale che è iniziato come un hashtag di Twitter intitolato #BlackLivesMatter.
La professoressa Sarah Jackson della Duke University riflette sulle polemiche e le
tensioni che hanno accompagnato l'ascesa di questo movimento, affermando che,
proprio come altre istituzioni, anche il campo del giornalismo inizialmente esisteva
per pianificare e organizzare l'esclusione e la demonizzazione delle voci nere, in
quanto lo stesso Paese era stato fondato su ideologie suprematiste bianche e dunque
era normale escludere certe storie e/o stereotipare e svilire certi gruppi. A sostegno di
tale tesi si ricorda il primo giornale nero "Freedom's Journal" fondato nel 1827 da
due cittadini afroamericani liberi a New York City e il loro editoriale di apertura, che
citava: "Too long has the public been deceived by misrepresentations of things which
concern us dearly. From the press and the pulpit we have suffered much by being
incorrectly represented” .
Allo stesso modo, si ricorda il giornalismo che Ida B. Wells faceva per raccontare
storie sul linciaggio e la sua violenza, testimonianza che è stata significativa
nell'aiutare a preparare il terreno per l'eventuale approvazione della legislazione
contro il linciaggio negli Stati Uniti. Non sempre, dunque, i processi di migrazione
sono avvenuti con la totale immersione dei migranti all’interno delle società
ospitanti che, al contrario, si sono mostrate ostili a tale fusione.

Quando si parla di processi migratori, però, gli studi si sono sempre concentrati sui
migranti uomini: le donne, invece, sono spesso considerate migranti a seguito degli
uomini, per cui la loro migrazione è considerata involontaria, come suggerisce il
termine inglese tied migrants, “migranti legate”: il marito parte per primo e quando i
costi associati all’emigrazione tendono a 0 (cio quando raggiunge una condizione di
relativa sicurezza e stabilità) parte anche la moglie.
Come conseguenza si osserva per le donne immigrate un tasso di occupazione più
basso non solo di quello delle autoctone, ma anche di quello delle donne emigrate da
sole senza legami familiari, oppure prima del marito/partner. Per quanto riguarda la
qualità del lavoro, sono confinate in mestieri poco qualificati, come la domestica o
la cameriera.
Ma questa non si tratta soltanto di una problematica di genere, ma di
disuguaglianza e di svantaggio nei confronti di tutti gli immigrati:
1- a causa del loro livello di qualificazione, in particolare per i migranti
provenienti da Africa, Asia e America Latina, dove i tassi di istruzione sono in
generale bassi;
2- perché i titoli di studio stranieri sono spesso country-specific, cioè non vengono
riconosciuti dai datori di lavoro e la distanza linguistica spesso impedisce di usare le
proprie competenze nel paese di destinazione. In più, spesso si hanno informazioni
limitate sul funzionamento del mercato del lavoro nei paesi di destinazione e quindi si
fatica a trovare un lavoro adeguato alle proprie competenze e aspettative (Kogan,
2007);
3- a causa di necessità familiari, sono più propensi a inserirsi negli strati inferiori
del mercato del lavoro dove c’è una costante richiesta di lavoro ma con condizioni
lavorative e retributive relativamente basse e scarse possibilità di crescita
professionale;
4- infine, gli svantaggi degli immigrati possono essere conseguenza di
comportamenti discriminatori individuali o istituzionali, tanto più rilevanti quanto più
i migranti presentano tratti somatici differenti rispetto alla popolazione autoctona.

La diversità culturale definita dall’appartenenza etnica quindi c’è, è parecchio diffusa


e, ovviamente, pesa. Ne è un esempio un gruppo di rifugiati che, nel 2015, ha
raggiunto l’Ungheria: più di 500.000 persone, principalmente provenienti da paesi
musulmani, hanno tentato e sono riuscite ad attraversare il confine serbo-ungherese,
ma la loro presenza ha finito per suscitare tensioni e stimolare al tempo stesso
sia l'empatia che l'islamofobia, tanto che il governo ungherese, guidato da Viktor
Orbán, ha portato alla discussione l'idea di costruire un muro attraverso il confine
serbo, per impedire ai rifugiati di entrare nel Paese. I discorsi politici, tra cui
un'attiva campagna anti-immigrazione ideata dal governo e la relativa copertura
mediatica, hanno intensificato la paura dei musulmani tra la popolazione, la quale è
stata indotta a percepire che i migranti e i rifugiati costituissero una minaccia per
la loro sicurezza e benessere.
In particolare, sono state prese di mira le donne a causa della loro identità musulmana
e la loro fede religiosa che le vede indossare l’hijab, ovvero un capo di abbigliamento
femminile riconosciuto sia dai membri del gruppo che da quelli esterni come simbolo
di tale cultura e religione.
E’ possibile parlare, dunque, di “paradosso dell’hijab” per le donne musulmane
immigrate: la ragione principale, o la funzione originale, dell'indossare l'hijab è
evitare l'attenzione indesiderata degli estranei, specialmente degli uomini. Eppure,
indossare l'hijab negli spazi pubblici di un paese non musulmano, come
l'Ungheria, ha esattamente l'effetto opposto: provoca l'attenzione degli estranei.

Numerose ricerche mostrano come appartenere ad una minoranza etnica esponga gli
immigrati al cosiddetto acculturative stress nello sforzo di conciliare sistemi di valori
e credenze culturali propri al contesto familiare e a quello acquisito, tanto da mettere a
rischio autostima e livello di soddisfazione della propria vita. Da qui l’acculturative
dissonance, per indicare il conflitto che può determinarsi tra genitori e figli come
conseguenza di una differenza culturale che può condurre i più giovani a
comportamenti antisociali e devianti.
Questa prospettiva apre a tutta un’altra serie di considerazioni che hanno a che fare
con il concetto di ambivalenza, cioè la presenza simultanea di due istanze culturali tra
loro contrapposte, interdipendenti e ugualmente
vincolanti, ma anche non identificandosi né differenziandosi, non accettando fino in
fondo i valori familiari, né respingendoli. Si prefigura così un orizzonte valoriale
contraddittorio che per alcuni può essere estraniazione e spaesamento, ma che per
altri è cambiamento e iniziativa.

Ne sono esempio gli immigrati cinesi che, nonostante le differenze culturali che hanno
riscontrato nei paesi ospitanti, sono riusciti a creare un’imprenditoria che gioca una
significativa importanza nell’economia di molti paesi, esaltando la propria identità
etnica e proponendola, nel nostro caso, alla società italiana che, al contrario, riproduce
le divisioni etniche e determina il formarsi di nuove gerarchie sociali. Il lavoro è
dunque un aspetto fondamentale dell’integrazione non solo perché dà la possibilità di
sopravvivere o di vivere dignitosamente, ma anche perché è un fattore cruciale per la
costruzione dell’identità e per l’autostima personale.
In Italia è anche il requisito che consente alla gran parte degli immigrati di risiedere
legalmente nel nostro paese: una condizione di disoccupazione, anche temporanea,
comporta il rischio di un passaggio ad una situazione di marginalità, se non di
illegalità. Nonostante ciò, all’elevata integrazione economica, nel caso dei cinesi
immigrati, non ha corrisposto un’analoga integrazione sociale e l’intraprendenza degli
imprenditori stata vista sin dall’inizio con sospetto e ostilità da molti italiani: da
allora lo stereotipo di impenetrabili “Chinatowns”, con diffusi fenomeni di mafia e
criminalità, è stato ampiamente diffuso dalla stampa e dagli altri organi di
informazione. L’emergente ruolo della Cina come nuova potenza economica sembra,
per certi versi, avere accentuato sentimenti di preoccupazione, diffidenza e ostilità
verso i cinesi (di Cina e d’Italia) e anche a distanza di alcuni decenni, essi restano
ancora gli atteggiamenti prevalenti verso questa popolazione tanto che anche le nuove
generazioni, nate e cresciute in Italia, continuano ad essere identificate come estranee
e spinte verso una forzata identificazione etnica.
CONSIDERAZIONI FINALI
CON PROFILO PROFESSIONALE

Osservati i processi di discriminazione possiamo dunque appurare come, nonostante il


progresso dai secoli scorsi e le leggi formali emanate, vi sono e nascono sempre nuove
forme di discriminazione etnica, soprattutto dal punto di vista sociale. Potremmo
chiederci, allora, come appoggiare i processi di integrazione per avvicinarci di più
all'idea di paese multietnico ed egualitario.
La scuola, come afferma Durkheim, non ha come funzione solo la trasmissione della
cultura ma anche e soprattutto la promozione del cambiamento.
Con l’istituzione scolastica non solo le nuove generazioni potranno sviluppare una
maggiore apertura mentale, crescendo in un ambiente dove la diversità rappresenta la
normalità, ma i bambini figli di immigrati verranno integrati nella prima agenzia di
socializzazione diversa dalla propria famiglia, acquisendo così un senso di
appartenenza.
La ‘paura’ del diverso difatti è anche conseguenza dell’ignoranza, della distanza
psicologica verso quei gruppi etnici che vengono esclusi dalla società: la formazione
di docenti ed educatori specializzati ad affrontare le nuove problematiche di un paese
multi etnico, l’inclusione e l’integrazione di quei gruppi minoritari nelle scuole,
rappresentano i primi passi verso il superamento del razzismo sistematico e della
discriminazione etnica, in quanto viene affrontato il problema sin dalla radice, ovvero
sin dalla prima infanzia.

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