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Se pure con un certo ritardo rispetto ad altri paesi europei, oggi il nostro paese può
essere definito multietnico. In particolare, i figli degli immigrati ci consentono non
solo di immaginare il futuro, ma rappresentano anche un ottimo osservatorio per
rimettere a punto gli strumenti concettuali con cui, fino a questo momento, la
sociologia ha osservato e spiegato i cambiamenti che i processi migratori hanno
portato nelle società occidentali contemporanee.
In questa relazione esaminiamo dunque le basi delle problematiche sorte in questo
secolo riguardanti la discriminazione etnica, soprattutto da un punto di vista
sociologico, partendo dal fenomeno dell’immigrazione e dal concetto di identità
culturale.
CITAZIONI CHIAVE
“L’integrazione deve essere uno scambio reciproco di esperienza umana sul piano
psicologico, deve essere uno scambio culturale dal quale emerga una prospettiva più
ampia e matura e deve essere un inserimento dell’immigrato nella nuova struttura
sociale come una parte vitale e funzionale che arricchisce l’insieme.”
Alberoni e Baglioni, 1965.
(Gli indicatori di integrazione degli immigrati in Italia. Alcune riflessioni
concettuali e di metodo: https://journals.openedition.org/qds/1345)
Nel caso degli immigrati, l’identità è un fattore molto importante: spesso si esprime
nell’identificazione in una comune appartenenza etnica, ma tali caratteri cambiano e
spesso si smorzano a fronte dei processi di integrazione nel paese ospitante.
Nel nostro paese i giovani di origine immigrata vengono spesso definiti i “nuovi
italiani” in quanto condividono le esperienze, frequentano gli stessi contesti educativi,
ricreativi e partecipano a processi di socializzazione degli stessi coetanei italiani, ma
sorge spontaneo chiedersi se i giovani stranieri si considerano davvero i “nuovi
italiani”? Oppure prevale la percezione di “italiani a metà”, in bilico tra due culture,
impegnati a conciliare valori e stili di vita diversi di cui sono al contempo portatori?
Oppure, ancora, non si sentono affatto italiani e preferiscono coltivare la propria
differenza, riconoscendosi nella cultura di origine?
Il carattere transnazionale dei movimenti migratori sembra indicare più ibridità che
scontro tra la cultura forte e culture dei migranti, tanto che il sociologo Welsch
(1999), elaborando il concetto di transculturalità, sottolinea come la fusione tra
tali modelli porta a ridefinire l’identità non più come identificazione ad un corpus
collettivo, quanto come risultato di connessioni culturali multiple. Per quanto però le
due culture possano ormai dire di essere fuse tra di loro, non mancano le differenze
sociali che conducono al cuore di un dibattito: quello tra differenza e disuguaglianza.
Nonostante questi ultimi siano spesso usati come sinonimi, i due concetti hanno
significati molto diversi.
Nella maggior parte dei casi, la differenza culturale viene ridotta allo stereotipo e al
pregiudizio, e si traduce in atteggiamenti discriminatori nei confronti di coloro
che ne sono portatori. In realtà, quando i soggetti rivendicano la loro differenza,
ci si dovrebbe riferire a questa come a un carattere positivo che ha a che fare con
l’identità collettiva di una minoranza.
Il concetto di disuguaglianza, al contrario, richiama non solo una disparità nella
distribuzione e nel controllo delle risorse tra i vari gruppi sociali, ma anche ai
rapporti di dominio e subordinazione per conservare tale disparità.
Quando si parla di processi migratori, però, gli studi si sono sempre concentrati sui
migranti uomini: le donne, invece, sono spesso considerate migranti a seguito degli
uomini, per cui la loro migrazione è considerata involontaria, come suggerisce il
termine inglese tied migrants, “migranti legate”: il marito parte per primo e quando i
costi associati all’emigrazione tendono a 0 (cio quando raggiunge una condizione di
relativa sicurezza e stabilità) parte anche la moglie.
Come conseguenza si osserva per le donne immigrate un tasso di occupazione più
basso non solo di quello delle autoctone, ma anche di quello delle donne emigrate da
sole senza legami familiari, oppure prima del marito/partner. Per quanto riguarda la
qualità del lavoro, sono confinate in mestieri poco qualificati, come la domestica o
la cameriera.
Ma questa non si tratta soltanto di una problematica di genere, ma di
disuguaglianza e di svantaggio nei confronti di tutti gli immigrati:
1- a causa del loro livello di qualificazione, in particolare per i migranti
provenienti da Africa, Asia e America Latina, dove i tassi di istruzione sono in
generale bassi;
2- perché i titoli di studio stranieri sono spesso country-specific, cioè non vengono
riconosciuti dai datori di lavoro e la distanza linguistica spesso impedisce di usare le
proprie competenze nel paese di destinazione. In più, spesso si hanno informazioni
limitate sul funzionamento del mercato del lavoro nei paesi di destinazione e quindi si
fatica a trovare un lavoro adeguato alle proprie competenze e aspettative (Kogan,
2007);
3- a causa di necessità familiari, sono più propensi a inserirsi negli strati inferiori
del mercato del lavoro dove c’è una costante richiesta di lavoro ma con condizioni
lavorative e retributive relativamente basse e scarse possibilità di crescita
professionale;
4- infine, gli svantaggi degli immigrati possono essere conseguenza di
comportamenti discriminatori individuali o istituzionali, tanto più rilevanti quanto più
i migranti presentano tratti somatici differenti rispetto alla popolazione autoctona.
Numerose ricerche mostrano come appartenere ad una minoranza etnica esponga gli
immigrati al cosiddetto acculturative stress nello sforzo di conciliare sistemi di valori
e credenze culturali propri al contesto familiare e a quello acquisito, tanto da mettere a
rischio autostima e livello di soddisfazione della propria vita. Da qui l’acculturative
dissonance, per indicare il conflitto che può determinarsi tra genitori e figli come
conseguenza di una differenza culturale che può condurre i più giovani a
comportamenti antisociali e devianti.
Questa prospettiva apre a tutta un’altra serie di considerazioni che hanno a che fare
con il concetto di ambivalenza, cioè la presenza simultanea di due istanze culturali tra
loro contrapposte, interdipendenti e ugualmente
vincolanti, ma anche non identificandosi né differenziandosi, non accettando fino in
fondo i valori familiari, né respingendoli. Si prefigura così un orizzonte valoriale
contraddittorio che per alcuni può essere estraniazione e spaesamento, ma che per
altri è cambiamento e iniziativa.
Ne sono esempio gli immigrati cinesi che, nonostante le differenze culturali che hanno
riscontrato nei paesi ospitanti, sono riusciti a creare un’imprenditoria che gioca una
significativa importanza nell’economia di molti paesi, esaltando la propria identità
etnica e proponendola, nel nostro caso, alla società italiana che, al contrario, riproduce
le divisioni etniche e determina il formarsi di nuove gerarchie sociali. Il lavoro è
dunque un aspetto fondamentale dell’integrazione non solo perché dà la possibilità di
sopravvivere o di vivere dignitosamente, ma anche perché è un fattore cruciale per la
costruzione dell’identità e per l’autostima personale.
In Italia è anche il requisito che consente alla gran parte degli immigrati di risiedere
legalmente nel nostro paese: una condizione di disoccupazione, anche temporanea,
comporta il rischio di un passaggio ad una situazione di marginalità, se non di
illegalità. Nonostante ciò, all’elevata integrazione economica, nel caso dei cinesi
immigrati, non ha corrisposto un’analoga integrazione sociale e l’intraprendenza degli
imprenditori stata vista sin dall’inizio con sospetto e ostilità da molti italiani: da
allora lo stereotipo di impenetrabili “Chinatowns”, con diffusi fenomeni di mafia e
criminalità, è stato ampiamente diffuso dalla stampa e dagli altri organi di
informazione. L’emergente ruolo della Cina come nuova potenza economica sembra,
per certi versi, avere accentuato sentimenti di preoccupazione, diffidenza e ostilità
verso i cinesi (di Cina e d’Italia) e anche a distanza di alcuni decenni, essi restano
ancora gli atteggiamenti prevalenti verso questa popolazione tanto che anche le nuove
generazioni, nate e cresciute in Italia, continuano ad essere identificate come estranee
e spinte verso una forzata identificazione etnica.
CONSIDERAZIONI FINALI
CON PROFILO PROFESSIONALE