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PSICOLOGIA DEL BAMBINO MALTRATTATO


1. LA VIOLENZA VERSO I BAMBINI
1. DEFINIZIONE E CARATTERISTICHE

Un primo problema che devono affrontare i ricercatori è quello di concordare su una definizione generale
di abuso. Secondo il IV Colloquio Criminologico di Strasburgo del Consiglio d’ Europa l’abuso è: “l’insieme di
atti e carenze che turbano gravemente il bambino attentando alla sua integrità corporea e al suo sviluppo
fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono: la trascuratezza e/o le lesioni di ordine
fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del bambino.”
Un’ampia definizione di abuso ispirata dalla convenzione dei diritti dei minori, è: “danno o abuso fisico o
mentale, trascuratezza o trattamento negligente, al maltrattamento, alle diverse forme di sfruttamento e
abuso sessuale intese come induzione e coercizione di un bambino in attività sessuale illegale, lo
sfruttamento della prostituzione o in altre pratiche sessuali illegali, lo sfruttamento in spettacoli e materiali
pornografici, torture o altre forme di trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti, allo
sfruttamento economico e al coinvolgimento in lavori rischiosi.”

Nel 1991 Child Protection Register inglese definisce le seguenti categorie:

1. trascuratezza: una grave o persistente negligenza nei confronti del bambino, o il fallimento dal proteggerlo
da qualsiasi genere di pericolo, o anche gli insuccessi in alcune importanti aree dell’allevamento che hanno
come conseguenza un danno significativo per la salute o lo sviluppo, compreso un ritardo nella crescita in
assenza di cause organiche. Si possono inoltre includere forme di discriminazioni o di trascuratezza selettiva
sociale o culturale, dovuta all’’appartenenza a specifici gruppi minoritari.

2. maltrattamento fisico: implica un danno o il fallimento nel prevenirlo come l’omicidio infantile, i danni
determinati da ostilità tra gruppi e da pratiche rituali.

3. abuso sessuale: comporta lo sfruttamento sessuale di un bambino o adolescente, dipendente o/e


immaturo sul piano dello sviluppo, e anche prostituzione infantile e pornografia.

4. abuso emozionale: (comunemente chiamato maltrattamento psicologico) si riferisce a persistenti


maltrattamenti emotivi e atteggiamenti di rifiuto e di denigrazione che determinano conseguenze negative
sullo sviluppo affettivo e comportamentale.

O’Hagan, ribadendo del primato dell’emozione nello sviluppo psicologico del bambino, distingue l’abuso
emozionale dal maltrattamento psicologico ritenendo che il primo implica da parte dell’adulto una reazione
emozionale stabile, ripetitiva e inappropriata all’esperienza del bambino e alle sue espressioni
comportamentali, mentre il maltrattamento psicologico, nella sua forma di denigrazione verbale, critiche e
svalutazioni, si configura come una risposta comportamentale stabile, ripetitiva e inappropriata che
danneggia o inibisce lo sviluppo di alcune facoltà cognitivo- emotive fondamentali quali l’intelligenza,
l’attenzione, la percezione e la memoria.

2. ENTITA’ DEL FENOMENO

Possiamo identificare dalla letteratura diverse modalità di rilevazione sintetizzabili in studi retrospettivi e
studi di popolazione. Gli studi retrospettivi, basati su interviste o casistiche cliniche di adulti o adolescenti,
solitamente propongono livelli di abuso decisamente più elevati rispetto alle stime ufficiali. Molti lavori
retrospettivi, pubblicati in questi ultimi due anni, hanno segnalato con allarme le percentuali elevate di
adulti che, nel ricostruire la propria storia, riferiscono di aver subito qualche forma di violenze e di abuso.
Più delle ricerche retrospettive sono gli studi di popolazione che, raccogliendo i dati provenienti dalle

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diverse agenzie del territorio che confluiscono nei registri nazionali, forniscono indicazioni più puntuali
sull’incidenza e sulla prevalenza del fenomeno. In tale ambito si pone il problema della “duplicazione” dei
dati (lo stesso bambino segnalato più volte). Non vi è dubbio, quindi, come sia opportuno,
nell’impostazione delle ricerche, fare riferimento al singolo caso onde evitare il ripetersi di segnalazioni in
rapporto allo stesso soggetto. Tornando all’entità del fenomeno, possiamo iniziare col dire come i dati
desumibili dalle statistiche e dalla letteratura ci segnalino chiaramente l’incremento negli anni delle
segnalazioni e delle denunce. In linea generale, i dati riportati nei registri di sorveglianza specifici attivati in
alcuni paesi europei ci forniscono informazioni sull’incidenza del fenomeno quantificabile in un numero che
varia da 3 a 6 anni bambini su 1000, dati decisamente inferiori rispetto a quelli rilevati negli Stati Uniti. In
Italia non abbiamo ancora un registro di sorveglianza nazionale, i dati provengono da stime o sono parziali
in quanto rilevati su gruppi limitati di popolazione e inoltre le categorie di maltrattamento e abuso a cui
fanno riferimento presentano ampie differenziazioni. In un interessante lavoro Finkelhor e Dziuba in cui
sono sintetizzati i risultati di una dozzina di ricerche provenienti da fonti diverse, gli autori distinguono le
diverse forme di maltrattamento in tre categorie, in base all’ampiezza della loro diffusione:

1. vittimizzazioni pandemiche: riguardano la maggior parte dei bambini nel corso dello sviluppo e includono
punizioni fisiche, piccoli furti, aggressioni da coetanei e dai fratelli e atti di vandalismo.
2. vittimizzazioni acute: sono meno frequenti e generalmente comportano esiti più gravi, tra queste si
possono includere: l’abuso fisico, la trascuratezza e il sequestro nella famiglia o da parte di qualche
familiare.
3. violenza straordinaria: comprende l’omicidio come conseguenza del maltrattamento e il sequestro da
parte di estranei.

3. I BAMBINI MALTRATTATI E ABUSATI: ALCUNI DATI

Il quadro sintetico dei dati che viene presentato nasce dall’analisi della casistica dal gennaio 1985 al giugno
1997, giunta all’attenzione del Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi familiare (CMB) di
Milano e si riferisce a 448 minori appartenenti a 261 nuclei familiari segnalati per diversi tipi di
maltrattamenti, per i quali il Centro ha attivato le risorse che di volta in volta si sono rese necessarie. Nella
prospettiva di concentrare la nostra attenzione sulle conseguenze psicologiche della violenza, appare utile
illustrare alcune caratteristiche dei bambini segnalati e seguiti. La ricerca è stata condotta attraverso
l’analisi dei dati contenuti nelle cartelle e sintetizzati in una scheda standard. Ciò ha permesso una raccolta
omogenea di informazioni a scapito, ovviamente, della ricchezza qualitativa che avrebbero potuto offrire le
osservazioni cliniche e psicologiche contenute nelle valutazioni diagnostiche e nelle osservazioni dei
bambini. Troviamo, in primo luogo, una leggera prevalenza di vittime di sesso femminile (231 femmine, pari
al 51,56%). La distribuzione per fasce di età mostra una lieve dominanza di bambini tra i 7 e i 9 anni. Le
tipologie di violenza riscontrate segnalano un’alta percentuale di maltrattamento fisico (46%) seguito da
abuso sessuale (21%), trascuratezza (18%), da maltrattamento psicologico (7%) e situazioni di rischio e
pregiudizio (8%). Possiamo osservare come le tipologie di violenza “pure” si riducano drasticamente a
favore di categorie associate che vedono prevalere diverse forme o la combinazione di alcune di esse. In
relazione all’autore della violenza possiamo osservare la prevalenza di due diverse modalità di esercizio
della violenza: quella che viene perpetrata da entrambi i genitori (35%), spesso all’interno di una situazione
familiare fortemente conflittuale e critica nella quale è assente qualsiasi relazione positiva per il bambino, e
quella che si vede in un solo genitore, nella gran parte dei casi il padre (41%) più che la madre (17%) il
principale responsabile della violenza. Il dato sulla durata della violenza si riferisce solo al 59% dei bambini,
negli altri casi non risulta accertato con precisione né è stato possibile individuarlo. Constatiamo,
comunque, dai dati disponibili l’allarmante fenomeno della cronicità della vittimizzazione del bambino che,
in una percentuale molto alta (31%), vive in una condizione di abuso da più di 4 anni e nel 41% da 2 a 4
anni.

3.1. Età, tipo di violenza, durata e provvedimenti di tutela

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Nel rapporto tra età e tipo di violenza notiamo che, mentre il maltrattamento fisico tende ad aumentare
fino a raggiungere una punta massima nella fascia 7-9 anni, per poi diminuire, la trascuratezza, più
consistente nei bambini piccoli, segue un andamento progressivamente decrescente. Le situazioni a rischio,
sono decisamente più consistenti nei bambini fino a 3 anni, per scomparire nei ragazzi di età superiore ai 15
anni. L’abuso sessuale colpisce prevalentemente bambine molto giovani, con un picco massimo nelle età
tra i 4 e i 6 anni. L’analisi dell’età del bambino e dei provvedimenti di tutela segnala l’ampio numero di
bambini inseriti in strutture specializzate di tipo comunitario e comunità di pronto intervento. Si può
osservare un certo numero di bambini tra i 4 e i 6 anni, rimasti nella famiglia d’origine e una bassissima
percentuale e di affidamenti etero-familiari o a parenti. Nella fase iniziale l’affido etero-familiare diventa un
segnale diagnostico indicativo di una valutazione implicita che vede la famiglia d’origine incapace di attivare
eventuali risorse. Ma vi è anche una seconda ragione, che orienta ad un inserimento in strutture idonee e
specialistiche diverse da una famiglia affidataria e dal nucleo di parenti, i bambini per i quali vengono decisi
provvedimenti di allontanamento dalla famiglia di origine hanno bisogno di una ferma e decisa
“protezione”. Protezione da un lato fisica ovvero strutture idonee a far fronte ad eventuali minacce,
aggressività, intimidazioni che potrebbero essere messe in atto dalle famiglie d’origine, dall’altro protezione
psicologica ovvero la possibilità di poter attuare interventi specialistici che scaturiscono dall’osservazione e
dalla conoscenza delle dinamiche psicologiche ed educative necessarie per bambini con questo tipo di
problematiche. Il rapporto tra età e autore della violenza, come il rapporto tra tipo di violenza e durata, non
appare significativo nel senso che non si notano madri inadeguate verso i bambini più piccoli o padri
violenti verso i più grandi, mentre la presenza di entrambe i genitori quali responsabili della violenza
conferma l’esistenza di modelli relazionali familiari disfunzionali nel loro complesso. Per quanto riguarda la
relazione tra tipo di violenza e autore della stessa vi è una percentuale consistente di genitori
congiuntamente perpetratori, soprattutto nella forma di trascuratezza e maltrattamento psicologico. Il
padre appare il principale responsabile del maltrattamento fisico e abuso sessuale.

3.2. Caratteristiche dei contesti violenti


La violenza ai danni dei bambini è un fenomeno grave e complesso, molte volte vi è la compresenza di
diversi tipi di maltrattamento sullo stesso bambino. L’abuso sessuale di per sé implica violenza psicologica
anche quando essa non si esprime nelle forme di denigrazione verbale o di svalutazione esplicita. Si associa
anche a quella mancanza di protezione e di tutela da parte del genitore non direttamente abusante o
violento che abitualmente viene indicata come trascuratezza psicologica. C’è poi da considerare la storia
familiare nella quale i bambini si trovano coinvolti che permette di osservare la progressione,
l’aggravamento e il moltiplicarsi dei maltrattamenti e degli abusi nel tempo, suggerendo una sorta di
processualità che via via induce la cronicità. Emerge anche un’alta percentuale di bambini nello stesso
tempo trascurati e maltrattati fisicamente. Se non possiamo direttamente riferirci ai dati per quel che
riguarda la “processualità” possiamo invece farlo per la cronicità, che appare un secondo elemento
significativo. In questi casi l’esperienza maltrattante e abusante diventa una caratteristica intrinseca delle
relazioni, le esperienze che questi bambini sono costretti a subire assomigliano ad eventi traumatici
improvvisi e sconcertanti e che con il passare del tempo la regolarità organica con cui si presentano le
trasformano in organizzazioni psichiche e comportamentali interiorizzate e patologicamente coerenti con il
Sé. Un terzo aspetto significativo, sempre ai fini delle conseguenze psicologiche, è la coerenza del sistema
relazionale nel quale il bambino si trova coinvolto.

4. FORME DI VIOLENZA E CONSEGUENZE PSICOLOGICHE

Non è sempre possibile differenziare le conseguenze psicologiche in relazione ai singoli diversi tipi di
violenza. Infatti non solo le relazioni immediate, ma soprattutto i danni fisici e psicologici a lungo termine
sono l’esito di esperienze determinate dalla compresenza di diverse forme di violenza che sono
frequentemente associate tra loro. La violenza psicologica nelle forme di manipolazione affettiva,
imbroglio, confusione delle emozioni è sempre presente nell’abuso sessuale, ma anche nel maltrattamento
fisico e nella trascuratezza. Spesso, inoltre, la trascuratezza si associa al maltrattamento fisico oppure

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evolve in forme di violenza verbale o fisica. Può avvenire inoltre che mentre un genitore può essere
attivamente violento e abusante, l’altro magari è disinteressato affettivamente, trascurante sul piano
emozionale ed educativo, e instaura con il bambino legami insicuri e precari. Ciò che è utile tener presente
nella valutazione delle conseguenze psicologiche è che alcune combinazioni di violenza sono più negative di
altre e la progressione con cui forme diverse si succedono nel tempo o si sommano rappresenta una
condizione che permette l’aggravarsi delle condizioni psicologiche del bambino.

4.1. Maltrattamento psicologico

Essendo presente in tutte le forme, il maltrattamento psicologico rende difficile definirne le conseguenze in
termini di danno. In termini generali, possiamo considerare come maltrattamento psicologico la
reiterazione di pattern comportamentali o modelli relazionali che convogliano sul bambino l’idea che vale
poco, non è amato, non è desiderato, o anche la presenza di biasimo protratto, isolamento forzato, critiche,
disparità e preferenze nell’atteggiamento verso i fratelli e, minacce verbali, e il consentire al bambino di
assistere alla violenza o a conflitti coniugali. Sono state proposte cinque categorie comportamentali
distinte, allo scopo di poter valutare le conseguenze del maltrattamento psicologico: disprezzare,
terrorizzare, isolare, sfruttare e/o corrompere e mancare di responsività emozionale. Viene poi inclusa una
sesta categoria, la trascuratezza nella salute psicologica, medica ed educativa giudicata implicitamente una
forma di maltrattamento psicologico. I diversi atti e i comportamenti appartenenti a queste categorie
possono presentarsi in forma diretta, nel senso che colpiscono personalmente il bambino, o in forma
indiretta quando egli ne subisce le conseguenze in quanto spettatore o osservatore. Le conseguenze
negative del maltrattamento psicologico sono: disturbi dell’alimentazione, bassa stima di sé, instabilità
emozionale, mancanza di fiducia negli altri, dipendenza, incompetenza e difficoltà nell’apprendimento,
depressione, ritardo nello sviluppo, uso di droga, prostituzione ecc. i principali indicatori fisici comprendono
difficoltà nella crescita della prima infanzia e disturbi nel linguaggio e ritardi nello sviluppo in età prescolare.
Gli indicatori comportamentali sono molteplici e riguardano comportamenti impulsivi, iper-adattamento,
tentativi di suicidio, distorsioni della condotta, disturbi del sonno e depressione. Abbiamo visto che nel
maltrattamento psicologico vengono incluse anche quelle condizioni di coinvolgimento o di esposizione
estrema ai conflitti e alla violenza familiare. Il modello di Grych e Fincham mette in evidenza la
processualità e la dinamicità che caratterizza le reazioni dei bambini, superando così una prospettiva
meramente descrittiva. Il conflitto e la mancanza di informazioni, vale a dire l’impossibilità per il bambino di
elaborare psicologicamente quello che avviene intorno a lui o che lo colpisce direttamente, rappresentano
due condizioni connesse dall’esito negativo di queste esperienze. In una prima fase, quella della
“elaborazione primaria” il bambino tenta di ricavare informazioni sul grado di negatività, di minaccia e di
rilevanza della situazione relativamente a sé per verificare se essa è pericolosa oppure no. Il tipo di
elaborazione è influenzato dal livello di sviluppo del bambino. A volte nei bambini molto piccoli
l’elaborazione può sfociare direttamente in un comportamento o in un sintomo, oppure può interferire in
modo rilevante con l’elaborazione, provocando distorsioni interpretative. Nel caso in cui l’esito
dell’elaborazione induca una valutazione del conflitto o della situazione come blandi e “non pericolosi”,
l’attenzione viene distolta; se invece i segnali provenienti dall’ambiente sono percepiti come molto negativi,
il processo di elaborazione continua. Nella fase successiva, che caratterizza solo i bambini più grandi ed
evoluti sul piano cognitivo, l’obiettivo è quello di ricavare ulteriori informazioni, nel tentativo di
comprendere e far fronte al conflitto. Grych e Fincham ritengono che il bambino tenti di stabilire quale sia
la ragione sottesa al conflitto (attribuzione causale), chi ne è il principale responsabile (attribuzione di
responsabilità), quali le sue possibilità di riuscire ad affrontarlo con successo (aspettative di efficacia).
Riuscire a rintracciare la causa di un evento, rappresenta un meccanismo mentale che tranquillizza il
bambino e lo aiuta ad affrontare la situazione, perché permette di anticipare episodi simili e consente di
superare la percezione di “impotenza”. Attribuire la causa di un evento a fattori interni a sé, stabili e
duraturi, costituisce l’insieme di condizioni più negative. In particolare, i bambini in età prescolare che non
possiedono gli schemi cognitivi per risalire a cause temporalmente distanti o complesse, non riuscendo ad

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immaginare che avvenimenti antecedenti possano avere causato il disaccordo tra i genitori, concludono
erroneamente che il loro comportamento sia la causa più probabile del conflitto.

I bambini che subiscono anche maltrattamenti fisici vengono rimproverati spesso per ragioni irrilevanti e
finiscono per pensare di aver indotto la violenza che si riversa su di loro. I bambini che vivono con genitori
depressi si sentono colpevoli o impotenti per non riuscire ad alleviare il malessere dell’adulto. Le
conclusioni a cui giunge il bambino sulle responsabilità del conflitto o delle azioni maltrattanti e abusanti
provocano in lui emozioni specifiche: attribuire a sé stesso la causa di ciò che accade induce una bassa
autostima, un senso di vergogna, di colpa e di confusione. Mentre ritenere i genitori all’origine del disagio
spinge a provare sentimenti di rabbia e a non poter conciliare le immagini positive e negative dei genitori.
Le risposte dei bambini al conflitto o alla situazione di vittimizzazione sono, influenzate anche dalla fiducia
nelle proprie capacità di farvi fronte cioè dalle proprie aspettative di efficacia relative al coping. Tale
aspettativa è influenzata dall’attribuzione della causa del conflitto, dai tentativi di coping effettuati in
passato, dallo stato di attivazione emotiva e dall’età. L’esperienza ripetuta di impotenza riduce le risorse e
le capacità di coping inducendo forti sentimenti di fallimento.

4.2. Trascuratezza

Molti autori sostengono che l’omissione di cure e l’indifferenza siano le caratteristiche distintive di tutti i
maltrattamenti. La negatività di questa forma nasce dal fatto che il bambino ha una estrema difficoltà a
prendere atto o a rendersene conto poiché essa non si manifesta attraverso azioni lesive esplicite, ma
implica omissioni gravi sulle quali egli non può esercitare un’azione autoriflessiva. Sebbene i segni fisici del
maltrattamento fisico siano più evidenti, quelli della trascuratezza anche se meno appariscenti, provocano
altrettanti danni. In casi estremi per mancanza di protezione, per carenze alimentari la trascuratezza porta
addirittura alla morte, in altri casi l’assenza di contatto emotivo e di attenzioni porta progressivamente alla
“morte psicologica”. Nonostante ciò la trascuratezza continua a ricevere insufficiente attenzione. La
trascuratezza solitamente è cronica e nella sua forma estrema si identifica con l’abbandono. Si possono
distinguere diverse forme di trascuratezza:

 la trascuratezza fisica: è quella più riconoscibile e si identifica sia con gli atti che implicano omissioni
nel provvedere ai bisogni di base del bambino, sia con gli insuccessi nel predisporre condizioni di
protezione necessarie ad evitare che possano determinarsi eventuali incidenti o danni.
 la trascuratezza emozionale: è quella più difficile da documentare, caratterizza l’intero contesto di vita
del bambino che non riceve cure adeguate e non è in grado di comprendere la disattenzione o la non
disponibilità di cui è oggetto.
 la trascuratezza medico- sanitaria: si concretizza nella mancanza degli standard minimi richiesti per
salvaguardare le condizioni di saluta fisica e mentale e concerne il rifiuto o l’omissione nelle cure
mediche o psicologiche.
 la trascuratezza educativa: implica non solo inadempienza o abbandono della scuola ma anche il rifiuto
dei genitori a coinvolgersi nelle iniziative e nei programmi indicati dagli insegnanti.

Molto spesso le ricerche sulle conseguenze psicologiche della trascuratezza hanno mirato a far emergere le
somiglianze e le differenze tra i bambini maltrattati fisicamente e quelli trascurati. In entrambi sono stati
rilevati problemi scolastici e di apprendimento, connessi a bassi livelli intellettivi o problemi sociali ed
emozionali comprese ostilità, aggressività, bassa stima di sé, e a lungo termine alta incidenza di delinquenza
giovanile. I bambini maltrattati fisicamente tendenzialmente presentano livelli più alti di aggressività, quelli
trascurati un maggior isolamento e incapacità di entrare in rapporto con i pari. Sebbene entrambi siano
portatori di ritardi o difficoltà nello sviluppo del linguaggio, i bambini trascurati presentano questi problemi
in forma più grave.

4.3. Abuso sessuale

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Tra le forme di violenza, l’abuso sessuale è il più grave e pericoloso per la salute psichica a breve e a lungo
termine. Una differenza sostanziale rispetto alle altre forme di violenza, è costituito da quell’insieme di
problemi che attengono l’area del comportamento sessualizzato. Si parla di atteggiamenti e conoscenze
sessuali impropri del bambino come possibili indicatori ed esperienze sessuali. Nei bambini sembrano
associati all’abuso attività masturbatorie compulsive, il riprodurre contatti orogenitali ed esplorazioni
vaginali con oggetti, inoltre nei bambini abusati sono molto più consistenti e frequenti i sintomi post-
traumatici da stress, per la presenza di segnali quali paura, ansia e problemi di attenzione e concentrazione.
Anche la socialità appare ridotta con tendenza all’isolamento e scarse relazioni tra pari e vi è la presenza di
comportamenti instabili. I disturbi nella sfera cognitiva sembrano fortemente determinati dalle alterazioni
emotive dall’emergere di sentimenti di vergogna e colpa, i bambini che seguono un trattamento
terapeutico hanno un miglioramento nella remissione dei sintomi, sebbene i comportamenti sessuali
inadeguati richiedano un trattamento a lungo termine. Negli ultimi anni sono state descritte diverse forme
di abuso sessuale definite “ritualistiche”, “sataniche” o “occulte”. Oltre al coinvolgimento degli stessi
familiari del bambino, le forme rituali di abuso avvengono in ambienti impegnati di simboli o da attività di
gruppi con connotazione soprannaturale e magica, e possono includere atti criminali quali torture, uccisioni
sacrificali, esplicita adorazione di Satana. Si tratta di cerimonie occulte incompatibili con il sistema
religioso e per questo praticate in segreto.

4.4. Maltrattamento fisico

Le conseguenze psicologiche del maltrattamento fisico, esse possono essere gravi come quelle provocate
dall’abuso sessuale. Anche in questi casi sono noti i sintomi post-traumatici e i fenomeni di rimozione che
incidono sul ricordo del maltrattamento subito. Molti sintomi e disturbi conseguenza del maltrattamento
fisico sembrano coincidere con quelli delle forme di abuso sessuale o anche della trascuratezza e del
maltrattamento psicologico nonostante le evidenti differenze tra questi fenomeni. Ciò che appare simile
sono i disturbi della socialità, quali la difficoltà di ad assumere prospettiva altrui, ad attivare comportamenti
empatici e pro sociali verso i pari e gli adulti, i sintomi post-traumatici, quali le memorie ricorrenti e
intrusive, gli atti aggressivi. Anche alcune effetti a lungo termine, quali il restringimento degli affetti, i
sintomi depressivi, la bassa stima di sé, gli stessi disturbi psichiatrici della personalità borderline ecc.
Sembrano invece più consistenti, nei bambini maltrattati fisicamente, i deficit neurologici e anche quelli
cognitivi nello sviluppo delle competenze precoci, dell’intelligenza e del linguaggio, anche se molto spesso
questi ultimi sono conseguenza di ambienti socio-familiari trascuranti e quindi poco stimolanti. Altre
caratteristiche in comune con la trascuratezza sono la maggiore vulnerabilità alle malattie fisiche, la
presenza di legami di attaccamento insicuro. Sfiducia in sé stessi e difficoltà a fidarsi degli adulti.

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2. CONSEGUENZE PSICOLOGICHE E PROCESSI DI SVILUPPO


1. LO SVILUPPO DELLE CAPACITÀ COGNITIVE SOCIALI

Il neonato possiede una serie di prerequisiti innati che lo predispongono alla relazione sociale ed è anche in
grado, precocemente, di riconoscere e di reagire appropriatamente alle espressioni emotive delle persone
che lo circondano; il neonato è quindi un soggetto attivo, impegnato nella relazione con l’ambiente e con le
persone, vivace e precocemente dotato di capacità che lo rendono idoneo ad entrare in contatto con gli
altri. Modalità violente o abusanti implicano sempre forme di distorsione nella percezione che gli adulti
hanno dei bambini; l’esito maltrattante è sempre strettamente connesso alle dinamiche e alle relazioni che
caratterizzano la famiglia. In molti casi, i genitori inadeguati verso i bambini piccoli, nutrono un misto di
aspettative molto elevate sul nuovo nato, visto come uno “strumento relazionale” idoneo ad aumentare la
stima su di sé delle famiglie di origine, a cui si accompagna un’incapacità a tollerarne il disagio e di
comprenderne le reali esigenze. L’inadeguatezza genitoriale non si modifica positivamente insegnando o
spiegando agli adulti quali siano le caratteristiche dei bambini; è certo però che uno degli elementi di
rischio associato all’inadeguatezza delle cure è il disinteresse dei genitori per le caratteristiche di sviluppo
del bambino. L’indifferenza o il disinteresse per lo sviluppo del bambino implica la rinuncia della
dimensione interattiva, e ciò può comportare una mancanza di sincronia interattiva e il venir meno della
funzione socializzante precoce che consiste nel supportare il bambino ad attribuire significato alle proprie e
altrui esperienze. Le carenze nell’interazione precoce incidono nettamente sullo sviluppo delle capacità
comunicative e cognitive del bambino, mentre la reintroduzione di modalità interattive adeguate esercita
sul bambino un effetto di compensazione estremamente positivo.

Assume rilevanza l’effetto che i suoi comportamenti e le sue emozioni esercitano sugli altri, il modo in cui
gli adulti attribuiscono senso e significato ai segnali che egli emette. La predisposizione del bambino alla
relazione sociale è testimoniata da diversi elementi tra cui i più rilevanti sono la presenza di funzioni
ritmiche e la sua attitudine al riconoscimento della voce e del volto umano. Funzioni all’inizio
biologicamente determinate, poi sempre più connesse alla relazione con gli adulti che svolgono compiti
tutori.

1.1. Ritmi interattivi: la suzione e lo sguardo

Molte risposte dei bambini sono organizzate in sequenze temporali e si presentano secondo ritmi
prevedibili. La suzione, definita micro- ritmo ad alta frequenza, possiede una sua periodicità a base
biologica, ma che precocemente si sincronizza nella relazione; l’adulto impara a modulare i ritmi del
bambino e ad inserirsi in essi regolandoli e modificandoli. Nell’allattamento il bambino non è soltanto un
passivo recettore, ma attivamente influenza gli atteggiamenti della madre; nessun altro animale rispetta
pause nella suzione, così come nessuna madre, se non quella dei piccoli umani, stimola il piccolo più
frequentemente dopo la pausa, come se si trattasse di una risposta istintiva al ciclo suzione- pausa del
bambino. Nelle prime due settimane, le madri imparano presto che i loro interventi non solo devono essere
opportuni, rispettando il ritmo di suzione e pausa del bambino, ma devono anche essere brevi. La pausa del
bambino induce quindi l’intervento della madre che, quando cessa, provoca la ripresa di suzione del
bambino. Alcuni studiosi hanno parlato di diade come sistema per indicare che il bambino e la madre non
sono passivi, anche se, inizialmente, è soprattutto la madre che impara a modulare i ritmi biologici del
bambino. I ritmi appresi nella nutrizione sono fondamentali per lo sviluppo futuro della relazione. Una
seconda area nella quale si sviluppa un’interazione ritmica, è quella visiva. Nei bambini è presente
l’alternarsi tra l’atto di fissare e quello di distogliere lo sguardo. L’azione di distogliere lo sguardo serve a

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modulare il livello di eccitamento dello stimolo, consentendo l’elaborazione dell’informazione. Le fasi di


non attenzione non rappresentano un disinteresse passivo, ma il tentativo di assimilare e integrare
l’informazione.

1.2. Prerequisiti uditivi e visivi

Il bambino possiede vari prerequisiti uditivi e percettivi che ne orientano l’interesse non solo verso gli
oggetti, ma primariamente verso il mondo delle relazioni e che gli consentono di interagire selettivamente
sin dalla nascita con altri esseri umani. Il neonato riesce precocemente ad isolare gli stimoli uditivi “umani”
da quelli “non umani”. Egli presenta una maggiore rispondenza uditiva ai suoni strutturati, simili al
linguaggio umano, rispetto ai toni puri; egli inoltre recepisce la voce umana come stimolo predominante. La
voce materna raggiunge il neonato già nella vita intrauterina e, per questo, viene discriminata più
rapidamente; la continuità tra vita intrauterina e periodo neonatale spiega la capacità del neonato di pochi
giorni di riconoscere e di preferire delle varianti acustiche. Un altro aspetto presente già dai primi giorni di
vita, denominato sincronia interattiva, consiste in una coerente modulazione tra movimenti del bambino e
discorso dell’adulto e si verifica anche in risposta a conversazioni registrate nel ritmo naturale della lingua
parlata; si tratterebbe già di un pattern organizzativo sociale sostenuto da una dimensione interattiva e
ritmica. Oltre alla voce umana, anche la percezione visiva rappresenta un importante prerequisito sociale
innato, che predispone selettivamente alla relazione umana. Il volto umano è la figura di più grande
attrattiva per il piccolo poiché possiede una serie di caratteristiche che sono proprio quelle a cui l’apparato
percettivo infantile è intrinsecamente sensibile. Inizialmente il motivo di attrazione sono caratteristiche
quali: nitidezza dei contorni, movimento, complessità, tridimensionalità, simmetria. Intorno ai due mesi il
bambino sembra scoprire il partner sociale, mentre prima l’esplorazione visiva si concentrava su singole
caratteristiche del volto e non sull’insieme, a due mesi viene preso in considerazione un numero più elevato
di caratteristiche e l’attenzione è rivolta sia ai dettagli esterni che a quelli interni di una forma. Gli occhi
diventano elementi focali e consentono, sul piano interattivo, quello scambio di sguardi importante per lo
sviluppo cognitivo. Le “occhiate distinte” nei primi tre mesi di vita possono essere indicative delle capacità
di assimilare e comprendere una rete complessa di informazioni. Analoga sensibilità percettiva viene
manifestata nei confronti delle diverse espressioni dei volti e, a tre mesi, il bambino è capace di
discriminare i tratti facciali e di distinguere le espressioni di gioia, tristezza e collera rispondendo alle
espressioni della madre in modo appropriato, ovvero con un sorriso agli stimoli gioiosi, con segni di disagio
nel caso di tristezza e con immobilità o aggrottamento delle sopracciglia in caso di collera. A queste prime
espressioni emotive fanno seguito, tra i cinque e i nove mesi, modalità più evolute che consistono
nell’espressione della paura, ad esempio quella per presone estranee o non familiari. Dopo il primo anno
iniziano ad apparire le emozioni sociali, quali la timidezza, la colpa e la vergogna, mentre successivamente
compaiono forme espressive ancora più articolate, idonee a manifestare le emozioni miste.

1.3.Regolazione emotiva ed emozioni sociali

Alcune evidenze sperimentali mostrano come nell’interazione tra madre e bambino si determinano delle
aspettative che creano difficoltà se vengono disattese. Alcuni lavori dimostrano che i bambini in seguito al
rifiuto emotivo della madre, almeno inizialmente, paiono cauti e diffidenti e questo rifiuto emotivo provoca
persino nei piccoli di tre mesi, alti livelli di rabbia, attività ridotta, disforia e ritiro sociale. Poiché lo sviluppo
delle emozioni è strettamente connesso all’interazione con gli adulti, alcuni tra i principali meccanismi di
regolazione e di acquisizione delle competenze emotive vengono intaccati nei primi rapporti se il bambino
vive a contatto con una madre trascurante o maltrattante. I bambini maltrattati sviluppano un’immagine
negative di sé. I genitori o le madri maltrattanti tendono ad accentuare le emozioni negative; quelli
trascuranti a presentare un numero ridotto di emozioni; ed entrambi ad interagire verbalmente molto poco
con il bambino. Lo sviluppo della conoscenza delle emozioni è facilitata dall’osservazione delle emozioni
altrui. I commenti dell’adulto, le sue interpretazioni sullo stato emozionale del bambino, consentono la
differenziazione necessaria all’abilità cognitiva. Le difficoltà riscontrate nei bambini maltrattati e trascurati
dipendono quindi anche dal fatto che gli adulti usano un numero ridotto di emozioni positive oppure una

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prevalenza di emozioni negative, che inevitabilmente riducono la gamma espressiva a disposizione del
bambino. Le ricerche sottolineano come i bambini maltrattati e trascurati sono meno accurati nel
riconoscere le emozioni facciali e meno capaci di utilizzare le informazioni contestuali per spiegare le
incongruenze tra causa delle emozioni ed espressione emotiva discrepante. Questi bambini poi sono anche
più propensi a distorcere le informazioni emotive e ad attribuire ad esse un’interpretazione negativa. Il
maltrattamento e la trascuratezza in età precoce determinano significativi problemi non solo nella
regolazione delle proprie emozioni, ma anche nella capacità di comprenderle e di valutare correttamente le
cause degli stati affettivi altrui. La tendenza ad interpretare negativamente il comportamento altrui e l’ansia
associata all’aspettativa che possano verificarsi eventi negativi attivano reazioni di rabbia e ostilità.

1.4. La colpa e la vergogna: emozioni sociali e morali

Colpa e vergogna cominciano a manifestarsi dopo il primo anno di vita, sono espressioni emotive
complesse legate alla socializzazione, alle pratiche educative, al contesto culturale e richiedono anche
capacità cognitive più evolute di valutazione di sé, degli altri, delle aspettative sociali e di
autoconsapevolezza. La colpa e la vergogna richiedono che il bambino riconosca il Sé come separato dagli
altri e possegga standard in base ai quali valutare sé stesso e gli altri; esse vengono elicitate da circostanze
o situazioni dipendenti dai modelli di relazione e di rapporto che si vengono costruendo tra genitori e figli,
tra l’adulto e il bambino o tra le persone che popolano l’ambiente sociale. La colpa e la vergogna hanno una
specifica valenza sociale e relazionale, quando vi sono eventi negativi il bambino precocemente prova ad
esprimere una serie di emozioni quali la collera, la tristezza, la paura. Le emozioni della colpa e della
vergogna, nascono dal riconoscimento di comportamenti o di attributi negativi rivolti a sé stesso e che
hanno origine dalla percezione del fallimento di standard posti dall’esterno o interiorizzati. Richiedono che
il bambino percepisca e comprenda il senso della trasgressione e che abbia acquisito un primo iniziale
senso della propria identità. La colpa è giudicata un’emozione meno dolorosa della vergogna, perché
riguarda un oggetto o una parte del Sé e non l’intera identità. La vergogna è un’emozione di acuta
sofferenza, tipicamente accompagnata da un senso di impotenza (sentirsi piccolo), da un senso di
mancanza di valore e di indegnità, di impotenza e di inefficacia. Essa è spesso associata all’immagine di
come un sé stesso difettoso potrebbe apparire agli altri. La vergogna fa sì che gli individui si sentano piccoli
e inferiori rispetto agli altri, esposti e preoccupati per l’opinione altrui. Si prova vergogna nel rapporto con
gli altri poiché questi assumono una rilevanza emotiva pregnante, strettamente associata al Sé. Nei bambini
che subiscono maltrattamenti e abusi spesso vi è la coesistenza di sentimenti di colpa che li spingono a
preoccuparsi per gli altri e a voler riparare, e la vergogna che implica una deformazione della percezione e
dell’immagine di sé. In termini generali il senso di colpa possiede una sua qualità adattiva, a volte anche
positiva poiché è associata alla riparazione, e alla possibilità di provare sentimenti empatici; diventa
negativo quando è pervasivo, intenso, stabile e cronico e quando ad esso si associa la vergogna. Il groviglio
determinato di sensi di colpa cronici e di vergogna è tipicamente rintracciabile nei figli di madri depresse i
quali, visto il fallimento dei propri tentativi di soccorrere e aiutare la madre in difficoltà, cominciano a
provare sentimenti di colpa, di impotenza e di inutilità. La patologia delle madri implica infatti un alto livello
di sofferenza che si associa a comportamenti irritabili, ansiosi, critici e rifiutanti. Il bambino viene
precocemente iper-coinvolto e, nel contempo, sperimenta l’inefficacia dei propri tentativi di assistere e
appoggiare l’adulto. I bambini esposti a ripetute esperienze di malessere da parte degli adulti, possono
sviluppare la propensione a pensare di esserne responsabili.

1.5.Colpa, vergogna e consapevolezza di sé

Non è semplice comprendere quando le emozioni di colpa e vergogna cominciano ad essere percepite e
sentite; ciò che sappiamo è che queste due emozioni per emergere hanno bisogno della percezione del Sé;
già a 18 mesi, con l’emergere di un’iniziale senso del Sé, diventano evidenti in loro le reazioni di imbarazzo,
e successivamente di colpa e di vergogna. Una prima sensibilità delle norme è già presente nei bambini di
due anni, anche se non hanno ancora la capacità cognitiva di valutare il significato delle norme morali o
convenzionali; a due, tre anni, i bambini sono capaci di cogliere i sentimenti e le emozioni altrui e di

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regolare il proprio comportamento rispetto a ciò che sentono e percepiscono negli altri. A tre anni i bambini
capiscono la differenza tra realtà e finzione, mentre verso i 4/5 anni il bambino diviene in grado di mettersi
nei panni degli altri. I bambini che vivono in un ambiente con più incentivi e con maggiori opportunità di
interazione, soprattutto nel rapporto con i fratelli, possono acquisire tali competenze più rapidamente; lo
sviluppo di tali abilità cognitive favorisce la comprensione delle regole sociali e permette sia di acquisire le
nozioni di trasgressione, senso del ruolo e punibilità. Solo successivamente, intorno ai quattro anni, si
approfondisce la competenza emotiva che deriva dalla capacità di operare una valutazione cognitiva in
rapporto agli standard sociali e alle regole dell’ambiente. Per il bambino inizialmente è difficile scindere le
emozioni di colpa da quelle di vergogna, anche perché esse spesso si presentano compresenti nella stessa
situazione. Molto spesso in bambini piccoli che hanno subito violenze o abusi si osserva un insieme di sensi
di colpa per errori presunti e di vergogna per il proprio modo di essere. Con il loro comportamento (essere
fin troppo tranquilli, mettere sempre tutto a posto per evitare di essere rimproverati, chiedere scusa
continuamente, non farsi avanti, ritrarsi nel rapporto con gli altri bambini, accettare passivamente gli
ordini, temere sempre di essere rimproverati, anche per cose che non hanno causato, faticare ad
addormentarsi la sera, svegliarsi più volte la notte urlando e, alcune volte, fare del male a se stessi) i
bambini segnalano il loro malessere, le sensazioni di disagio e inadeguatezza, i sentimenti di colpa e di
vergogna per azioni sbagliate che attribuiscono a se stessi, per le quali si puniscono. La colpa e la vergogna
sono emozioni dipendenti dall’attribuzione cognitiva e per essere distinte richiedono che il bambino sia
capace di valutare la causa degli eventi. Il processo evolutivo che porta al riconoscimento consapevole di
queste due emozioni è piuttosto lungo e si conclude di norma intorno agli otto anni.

1.6.Vittimizzazione e reazioni emotive

In chi è oggetto di maltrattamento e di abuso, coesistono alcune componenti fondamentali: da un lato


autocolpevolizzazione per l’incapacità di sottrarsi e di opporsi all’ingiustizia, dall’altro rabbia verso
l’aggressore che, se è un familiare, continua comunque a suscitare anche effetti positivi. Quando un
bambino al di sotto dei sette- otto anni, vive l’esperienza di essere oggetto di maltrattamento fisico o di
abuso sessuale e non è ancora in grado di differenziare dentro di sé i significati delle diverse emozioni, si
trova in una condizione emotiva di estrema vulnerabilità e confusione che lo porta a compiere
autoattribuzioni di colpa o vergogna. La collera per i maltrattamenti e gli abusi subiti non riesce a venir
espressa esplicitamente o ad essere compiutamente verbalizzata; attraverso il comportamento, i giochi o il
disegno, emergono sentimenti ambivalenti che sono un misto di ostilità e rabbia per sé stessi e per il
perpetratore. La denigrazione verbale, le aggressioni fisiche, le critiche e le indiscriminate accuse, tipiche
della violenza fisica e psicologica, agiscono sulla tendenza del bambino piccolo a ritenersi responsabile dei
danni e degli incidenti anche se provocati da altri; questo lo indurrà a viversi come cattivo, inadeguato,
incapace di elaborare strategie per modificare sé stesso e la situazione che lo circonda. Molto spesso il
fallimento di questi tentativi contribuisce a generare forti sensi di impotenza e di auto denigrazione. Un
passaggio importante, nell’elaborazione delle esperienze di violenza, è quello che consente al soggetto di
rileggere le proprie esperienze accettando il dolore di dover ammettere di essere stati rifiutati e maltrattati;
questo passaggio deve indurre nel bambino l’idea che la colpa non è dentro di sé, ma all’esterno. Se questo
non avviene o l’intervento è tardivo, si corre il rischio di stabilizzare un insieme di risposte o di tipo
depressivo (sensi di colpa rivolti prevalentemente al Sé) o di tipo antisociale (se sono rivolti esclusivamente
all’esterno). Nella gran parte dei bambini vittime di abusi sessuali la vergogna, la timidezza e l’imbarazzo
finiscono per essere rinforzati dalla sensazione di essere inadeguati e diversi a causa dei comportamenti
sintomatici percepiti come inaccettabili e inesprimibili; la spirale di emozioni innescate dalla vergogna
induce i bambini a chiudersi, a nascondersi. Le caratteristiche della vergogna implicano: ritrarsi, sentirsi
piccolo, senza valore, impotente, un desiderio di nascondersi e di scappare. Provoca anche reazioni e difese
di esitamento che non si riferiscono solo agli aspetti dell’esperienza subita, ma toccano direttamente alcuni
aspetti del Sé, percepito come sgradevole, ripugnante, addirittura mostruoso; implicano una scissione tra
osservante e osservato. La carica di ansia che spinge all’evitamento e alla momentanea sospensione del
ricordo potrebbe nascere non solo dalla invasività dei pensieri e delle emozioni direttamente connessi agli

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eventi traumatici, ma anche dal riemergere di sentimenti di vergogna inaccettabili per il Sé. Quanto più forti
sono i sentimenti di vergogna tanto più incerte, discontinue e frammentarie appaiono le affermazioni e i
racconti sulla violenza e gli abusi subiti. Soprattutto nei soggetti di sesso maschile la vergogna appare un
forte deterrente non solo a esporsi spontaneamente a dichiarazioni, ma anche a mantenere la continuità
del racconto.

2. IL LEGAME DI ATTACCAMENTO

Bowlby teorizza l’attaccamento, esso compare e si sviluppa durante i primi mesi di vita e si organizza
attorno a una particolare figura (la figura di attaccamento) durante la seconda metà del primo anno di vita.
L’attaccamento è la propensione a cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie
quando si è vulnerabili ai pericoli ambientali. Pur essendo attiva per tutta la vita, la tendenza
all’attaccamento opera con massima intensità all’inizio dell’esistenza. Cure attente e amorose permettono
al bambino di sapere che gli altri lo aiuteranno quando sarà in difficoltà e di diventare sempre più fiducioso
in sé stesso; è però vero che quando al comportamento di vicinanza di un bambino si risponde con
riluttanza, egli manifesterà un attaccamento ansioso, diventerà apprensivo e preoccupato, poco fiducioso
negli altri, incapace di separarsi fisicamente e mentalmente dalla figura di riferimento. Se chi lo accudisce lo
respinge attivamente, il bambino svilupperà uno schema di comportamento in cui l’intervento di quella
persona compete con il desiderio prossimità e cure, mentre il comportamento di collera tende a diventare
preminente.

2.1.Stili di attaccamento

Con riferimento al modello teorico di Bowlby, Ainsworth, attraverso un metodo di osservazione


denominato “Strange Situation”, ha descritto tre stili di attaccamento, a cui negli anni più recenti se ne è
aggiunto un quarto. La Strange Situation è un metodo che serve per osservare il modo in cui i bambini tra i
12 e i 18 mesi reagiscono all’assenza e poi alla ricomparsa della madre. La situazione sperimentale standard
prevede che il bambino venga accompagnato dalla figura di attaccamento in una stanza con giocattoli, in
cui poi entra anche un estraneo. Viene prima osservato il modo in cui il bambino interagisce con la figura di
attaccamento e con la persona estranea, successivamente la figura di attaccamento esce dalla stanza e
dopo tre minuti rientra. Seguono altri episodi di separazione e di riunione. I tre principali pattern di
attaccamento:

 Stile di attaccamento insicuro evitante: madre insensibile ai segnali del bambino, una madre che
scoraggia e rifiuta il contatto fisico quando il bambino ha paura o sta male, formano con la figura
allevante un legame di attaccamento di tipo ansioso-insicuro; che per le particolari modalità di
risposta del piccolo alla separazione e alla riunione con la madre viene detto attaccamento
evitante. Questi bambini quando sono lasciati soli e hanno paura non manifestano il loro sconforto.
Al contrario, esibiscono un eccesso di autonomia e di concentrazione sul compito, non mostrano
rabbia, né bisogni affettivi e si mostrano distaccati e si mantengono a distanza dalla madre
evitandone il contatto”. Al momento della separazione dalla madre il bambino non protesta, non
cerca di seguire la madre, non piange. Continua ad esplorare la stanza o i giochi. Alla riunione evita
attivamente la figura d’attaccamento. Preso in braccio può irrigidirsi, allontana le sue braccia dal
corpo della madre; i segnali di stress sono assenti, il bambino appare competente, ma privo di
affetti. La sua attenzione è rivolta all’ambiente inanimato.
 Stile di attaccamento sicuro: madre responsiva alle richieste del bambino e sensibile ai suoi bisogni
di protezione, i bambini con questo tipo di attaccamento formano con la madre un legame di
attaccamento sicuro. Questi bambini in caso debbano separarsi dalla madre, esprimono il loro
sconforto ma poi sono in grado di esplorare l’ambiente circostante in quanto sanno di poter
contare sulla madre in caso di bisogno, sanno che se piangono avranno una risposta. Nella Strange
Situation, al momento della separazione, il bambino protesta vivacemente, si calma rapidamente al
momento della riunione, accogliendo l’abbraccio della figura d’attaccamento.

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 Stile di attaccamento ansioso ambivalente: madre imprevedibile nella risposta alle esigenze e al
bisogno del bambino, la madre è propensa a manifestare un comportamento fisicamente
affettuoso quando non è il bambino a richiederlo e si mostra invece incline a rifiutare il contatto
quando è il piccolo a richiederlo o ne ignora i segnali. Questi bambini formano con la madre un
legame di attaccamento di tipo insicuro-ansioso. Questi bambini enfatizzano i segnali di protesta
alla separazione dalla madre, piangono inconsolabili non esplorano l’ambiente se lasciati soli e al
momento della riunione con la madre scaricano su di lei la rabbia che hanno accumulato. Quando
desiderano essere confrontati, all’offerta di consolazione respingono la madre manifestando così la
loro ira per non aver potuto avere fiducia in lei. Questi bambini focalizzano la loro attenzione verso
la madre: sono spesso sotto stress e preoccupati per la madre e tendono a concentrare la loro
attenzione soprattutto sulla relazione.

Se il bambino ha avuto delle esperienze precoci con una figura allevante pronta a offrire aiuto e conforto,
costruirà un modello del Sé come di persona degna di amore e conforto, e una rappresentazione interna
degli altri come di persone pronte ad aiutarlo in caso di necessità. Al contrario, se la figura di attaccamento
non è stata sufficientemente responsiva, il bambino formerà un modello mentale del Sé come di un
individuo non degno di essere amato e confortato, e un modello della figura di attaccamento come di
persona da cui non aspettarsi niente. Studi condotti tra gli anni 1986-90, hanno messo in luce un ulteriore
pattern di attaccamento, chiamato “evitante-ambivalente” che viene considerato un fallimento nella
costruzione del legame con la madre poiché il bambino non è in grado di organizzare una strategia
comportamentale unitaria, emette segnali diversificati e inadeguati a mantenere e strutturare il legame.
Egli è incapace di strutturare un comportamento coerente verso la figura di attaccamento e mescola
avvicinamento ed esitamento.

2.2.L’attaccamento nei bambini maltrattati e abusati

Crittenden e Di Lalla (1988) notano come già verso la fine del primo anno di vita molti bambini fisicamente
maltrattati imparino ad essere accomodanti nei confronti delle loro madri, attraverso l’inibizione delle
proprie emozioni di collera, e a tollerare l’interferenza delle madri senza lamentarsi, ma con
accondiscendenza ai loro desideri. Mostrano ipervigilanza per le richieste dell’adulto e accondiscendenza.
Sebbene i bambini maltrattati prima dell’anno rispondano al controllo materno con passività, con
l’aumento dell’età inibiscono i segnali negativi e mostrano un aumento di comportamenti positivi.
L’accentuarsi di compulsive compliance nei bambini di due anni contrasta con l’indipendenza e il
comportamento più libero, tipicamente associato con lo sviluppo normale a questa età. Così un pattern che
in realtà segnala uno stile distorto di interpretazione della realtà, rischia di passare inosservato e di essere
interpretato come non problematico. Intorno al secondo anno di vita, si svilupperanno due distinte
configurazioni di risposta: una negativa, resistente, e una compulsivamente accondiscendente. I bambini
trascurati presentano configurazioni diverse: essi desiderano la prossimità alla figura di attaccamento
quando sono ansiosi e spaventati, ma hanno imparato che le loro madri non rispondono ai loro segnali.
Alcuni bambini anche solo accorgendosi dell’arrivo dei genitori mostrano specifiche reazioni di confusione o
di pianto. Nell’età scolare questi possono mostrare difficoltà nelle relazioni sociali, scarse competenze
cognitive ed emotive e anche sintomi depressivi. Sembra che il maltrattamento e la trascuratezza
determino seri rischi per lo sviluppo lungo tutto l’arco della vita. L’attaccamento disorganizzato nell’infanzia
sembra essere una consistente condizione di rischio poiché determina, da un lato un aumento della
vulnerabilità, l’emergere di ansia, fobie e ad un concetto di sé cattivo, dall’altra disturbi dissociativi. Molto
spesso gli stessi adulti maltrattanti e trascuranti hanno a loro volta strutturato legami negativi nella propria
infanzia. Le madri che hanno subito maltrattamenti nell’infanzia non mantengono quei ricordi positivi nel
rapporto con le proprie madri che permette loro di identificarsi e di strutturare solidi legami con i propri
figli. Sulla base di quanto abbiamo finora messo in evidenza sembra emergere l’esistenza, nell’età adulta, di
uno stretto legame tra le esperienze dei primi anni e alcuni disturbi nelle emozioni e nelle relazioni che
sembrano modellati sul tipo di quelle vissute nell’infanzia e che a loro volta influenzano l’articolazione delle
esperienze successive. Raramente le esperienze precoci e quelle successive sono tra loro indipendenti e

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questo è generato dalla continuità ambientale e familiare. Bambini che vivono in una famiglia con elevata
conflittualità interna, che vengono maltrattati fisicamente, trascurati o abusati sessualmente e che vedono
persistere nel tempo tale condizione, quasi inevitabilmente assumono modelli comportamentali che
esportano in altri ambienti specifici. L’idea che le esperienze negative abbiano un effetto durevole è legata
alla continuità delle esperienze. Le esperienze sfavorevoli e le perdite durante l’infanzia non determinano in
modo assoluto lo sviluppo della personalità, se esse sono seguite da esperienze veramente positive. In
questi casi, le conseguenze negative precoci possono svanire o ridursi quasi totalmente. Gli elementi
cruciali che contribuiscono a determinare l’effetto negativo durevole delle esperienze infantili sono quindi
la persistenza nel tempo della condizione di disagio e la costanza ambientale.

2.3.Attaccamento ed esperienze successive

Oltre al legame di attaccamento, bisogna considerare la qualità e le caratteristiche delle esperienze


successive che il bambino ha occasione di vivere, adottando strategie interpretative più flessibili ed
articolate che tengano conto dei fattori di vulnerabilità e di rischio e delle complesse influenze delle
relazioni familiari ed extrafamiliari. Bisogna impedire che la costanza e la persistenza dell’ambiente
relazionale danneggino il bambino, e predisporre interventi idonei a “riparare” i danni determinati da
legami di attaccamento insicuri e disorganizzati con interventi mirati di tipo educativo e psicologico, ma
soprattutto attraverso un lavoro psicologico con la famiglia d’origine che miri a modificare la relazione tra
genitori e figli. Alcune ricerche hanno portato gli studiosi ad ipotizzare che i sintomi depressivi nell’età
adulta siano mediati dai primi attaccamenti, mentre l’impatto a lungo termine nella capacità degli individui
di affrontare e risolvere i conflitti potrebbe essere direttamente connesso alle esperienze di
maltrattamento. I soggetti che avevano subito maltrattamenti fisici nell’infanzia tendevano a riprodurre col
partner comportamenti impulsivi e a manifestare scarse capacità di affrontare e risolvere le difficoltà. Se
invece le prime relazioni affettive erano state sicure esse sembravano contrastare l’impatto negativo della
violenza, consentendo lo strutturarsi nell’età adulta di relazioni sentimentali positive ed evitare il rischio di
sintomi depressivi. La gravità dell’abuso facilita lo sviluppo dei sintomi del disturbo post-traumatico da
stress, mentre l’insicurezza del legame di attaccamento appare predittivo di angoscia, depressione e
disturbi di personalità. L’abuso sessuale frequentemente nasce all’interno di relazione primarie con la
figura di attaccamento marcate dalla insicurezza e dalla negatività. Le modalità che un bambino già
compromesso mette in atto per reagirvi sono allora mediate dal livello di sicurezza e di forza del Sé. L’aver
strutturato un legame di attaccamento insicuro-evitante fa sì che il bambino non sia capace di difendersi e
di chiedere aiuto agli adulti.

3. COMPORTAMENTO SOCIALE: NORME E REGOLE

Le conseguenze psicologiche della violenza nei bambini determinano una profonda deformazione dei
concetti e dei sentimenti associati al senso di giustizia, di responsabilità e di imparzialità. Deformazioni
dovute a processi mentali e a regole morali derivanti da contesti relazionali governati da specifici
meccanismi deformanti. Secondo Kagan, la sensibilità alle norme inizia quando il bambino comincia a voler
comprendere la causa degli eventi che fanno parte del suo mondo relazionale. Kagan sottolinea come dopo
la metà del secondo anno di vita i piccoli diventano consapevoli delle norme. Se associata alla mancanza o
al danno vi è anche la disapprovazione di un adulto, il bambino acquisisce l’idea che qualcosa non funziona
e le norme cominciano ad essere originate dall’approvazione o disapprovazione dell’adulto. Secondo Kagan
il bambino immagina come dovrebbero essere idealmente i fatti in base a come appaiono normalmente e
prova preoccupazione, inquietudine o stupore di fronte ad un ideale modificato. Un secondo fattore
determinante per la formazione delle norme è la capacità di provare empatia verso gli altri. A due anni

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quasi tutti i bambini diventano capaci di immaginare che anche gli altri soffrano nella stessa situazione e
cominciano a vedere nelle azioni che danneggiano il prossimo una violazione delle norme. Intuiscono
precocemente la sofferenza altrui e vi reagiscono cercando di soccorrere e di andare in aiuto. Una terza
fonte normativa scaturisce dal fatto che il bambino si rende conto di non poter raggiungere un obiettivo coi
propri mezzi. A due anni diventa molto ansioso se non riesce a sostenere una prova di abilità sottopostagli
da un’altra persona. Kagan chiama padronanza l’impegno a cercare di raggiungere un obiettivo. La
compresenza della volontà di attenersi a una norma e dell’incapacità di riuscirvi scatena l’ansia e il pianto.

3.1.Compromissione delle regolarità normative

Già a 3-4 anni, i bambini diventano capaci sia di contestualizzare sia di distinguere tra comportamenti
morali e comportamenti convenzionali, a quest’età sono anche capaci di distinguere tra moralità e
convenzioni quando viene chiesto loro di valutare le situazioni di trasgressione. I bambini più piccoli
percepiscono meglio e in modo più immediato le trasgressioni morali che implicano un danno fisico rispetto
a quelle che hanno come conseguenza un danno psicologico. Quando viene coinvolto in alcune forme di
violenza, il bambino vive l’instabilità dei contesti relazionali che minano le basi per la costruzione delle
regolarità normative. L’elemento che contrassegna la gravità o meno delle conseguenze psicologiche della
violenza è dato dalla costanza e dalla ripetizione della esperienza abusante che implica una sistematica
deformazione delle regole contestuali. La capacità di giudicare il comportamento altrui e la consapevolezza
della maggiore o minore gravità degli atti abusanti o violenti dell’adulto è più spiccata e immediata se i
segnali dell’ambiente sono tali da prefigurare un danno fisico. Il danno psicologico è un concetto più
complesso che richiede la capacità del bambino di comprendere che i sentimenti, i desideri e i pensieri
altrui sono diversi dai propri e quindi che gli altri possono compiere azioni a cui sono sottese intenzioni che
provocano un danno non percepibile con gli organi di senso. Diversamente da ciò che aveva sostenuto
Piaget, i sentimenti e i desideri altrui vengono compresi intorno ai due anni, mentre i pensieri e le
intenzioni intorno ai 4-5 anni con il passaggio dalla comprensione situazionale a quella rappresentazionale.

3.2.Sentimenti empatici

Un altro importante elemento tipicamente connesso alle conseguenze psicologiche dell’abuso e del
maltrattamento e che compromette la costituzione di regolarità normative è la deformazione dei
sentimenti e delle emozioni empatiche. I bambini che sono vittime di violenza diventano incapaci di
soccorrere e aiutare chi è in difficoltà, di tollerare le manifestazioni di dolore e di sofferenza altrui a cui
reagiscono con rabbia e aggressività. Mentre un bambino adeguatamente curato cerca di consolare un
coetaneo in difficoltà, un bambino maltrattato per proteggersi finisce per anestetizzarsi e di fronte alla
sofferenza altrui prova il desiderio di interrompere il disagio altrui, anche con forza e violenza. La
deformazione del sentimento empatico, la sua mancanza o la sua trasformazione sono gravi in quanto si
ritiene che sul piano evolutivo l’empatia rappresenta un’emozione precoce e significativa per la socialità,
ma anche un mediatore importante per l’attivazione delle capacità prosociali quali la condivisione, la
capacità di offrire aiuto, l’altruismo. Hoffman (1975) sottolinea l’universalità, il carattere autorinforzante, la
natura impulsiva ed istintiva delle risposte altruistiche, sottolineando che esse emergono
indipendentemente dal perseguimento di scopi egoistici o particolaristici e sono sostenute e mediate da
emozioni e sentimenti empatici. Hoffmann individua nella precoce capacità di sentire il disagio altrui,
presente già nei primi due anni di vita, la capacità empatica che sollecita risposte attentive e
comportamentali volte ad alleviare la sofferenza altrui. Eisenberg (1986) definisce l’empatia percezione del
bisogno dell’altro, implicante comprensione e simpatia e distingue tre tipi di emozione, spesso confuse con
l’empatia:

 l’empatia o contagio emotivo: consiste nel sentire la stessa emozione dell’altro e nel rifletterla; è una
risposta non cognitiva che può presentarsi nei piccoli che ancora non differenziano chiaramente tra il
proprio e l’altrui disagio;

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 simpatia o comprensione dei sentimenti altrui: si manifesta quando l’individuo risponde all’emozione
altrui con un’emozione che non è identica, ma congrua.
 preoccupazione personale, self-oriented: sentimento negativo, spesso confuso con l’empatia, che
emerge quando ci si sente arrabbiati o ansiosi in risposta al disagio altrui.

Molto spesso il comportamento dei bambini vittime di violenze e abusi appare proprio dominato da
reazione emotive self-oriented, che segnalano da un lato la incapacità del bambino di tollerare la
riattivazione del dolore riflesso nell’altro e dall’altro lato indicano una sua specifica difficoltà nella vicinanza
affettiva e nella condivisione del disagio altrui. Batson (1987) distingue tra risposte di sympathy,
preoccupazione per lo stato o la condizione emozionale altrui, e quelle di personal distress, reazioni
negative auto-orientate che spingerebbero ad alleviare la propria sofferenza e quella di chi si trova in
difficoltà. In generale le prime esperienze empatiche, in età infantile, comportano sempre una certa quota
di disagio, soprattutto nel bambino che non ha ancora imparato a differenziare il proprio Sé da quello degli
altri e quindi, in una certa misura, sono anche dettate dalla esigenza “egoistica” di alleviare la propria
sofferenza. Con il progredire dell’età e con l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e delle
proprie abilità, le risposte empatiche si arricchiscano di altri significati che vanno oltre la capacità di
riconoscere le emozioni e di reagirvi istintivamente. Sul piano dello sviluppo cognitivo la possibilità di
identificare e di comprendere appieno il significato delle emozioni altrui costituisce una abilità complessa e
discriminativa che comincia ad instaurarsi con l’assunzione del punto di vista altrui. L’acquisizione di abilità
di role-taking percettive, cognitive ed emozionali sono aspetti indispensabili per la costituzione dei
significati normativi e morali delle azioni. Hoffman (1983), creò una teoria dell’empatia basata sulla colpa
interpersonale: un sentimento forte di disistima per sé stesso che risulta dall’empatia per qualcuno in
difficoltà, combinata con la consapevolezza di essere la causa di questo disagio. Esistono oggi conferme
empiriche per ritenere che vi sia un sentimento empatico che ha come base la colpa interpersonale. I
bambini che vivono in un clima familiare disturbato in cui il disagio dell’adulto si esprime in ansietà,
insoddisfazione e sofferenza e sono contemporaneamente oggetto di critiche o percepiscono il proprio
comportamento come associato alla sofferenza del genitore, possono pensare di essere la causa delle
difficoltà dell’adulto e provare sentimenti di colpa empatica. Questi bambini sviluppano un eccessivo senso
di responsabilità, di ipercoinvolgimento e di fallimento per non poter aiutare chi è in difficoltà. Viene
minata in essi la padronanza, il senso di efficacia e di stima personale importanti per la sicurezza e la fiducia
in sé stessi. Al polo opposto si colloca l’insieme di problemi che deriva da un deficit di sentimenti di empatia
e di colpa, tipico delle condotte sociopatiche e dei comportamenti antisociali. Il contesto familiare
rappresenta la condizione interpersonale più rilevante laddove sia caratterizzato da assente capacità
empatica dei genitori nel raccogliere i segnali di disagio del bambino, uso della violenza e delle punizioni,
tendenza degli adulti ad attribuire la responsabilità all’esterno. I bambini abusati fisicamente sono
maggiormente a rischio poiché possono sviluppare scarse capacità empatiche e comportamenti antisociali.
Le competenze prosociali, mediate dall’empatia, rappresentano le condizioni che consentono al bambino di
acquisire in modo profondo e interiorizzato il senso del significato sociale delle norme e delle regole.

3.3.Comportamento antisociale

Il comportamento antisociale che si manifesta in età avanzata, appare legato alle situazioni di
maltrattamento e di abuso e trova le sue radici in un forte impoverimento delle competenze prosociali e
delle capacità empatiche. Fortemente a rischio di comportamenti antisociali sono i contesti familiari
caratterizzati da forti conflitti coniugali, maltrattamento fisico e trascuratezza sui figli. Il comportamento
antisociale di tipo delinquenziale volto a procurare danno agli altri può avere alla radice specifiche
esperienze di trascuratezza e maltrattamento fisico che hanno minato le capacità prosociali e i sentimenti
empatici e che hanno compromesso, per l’imprevedibilità del comportamento dell’adulto, le regolarità
ambientali, la fiducia nelle norme e nel senso di giustizia. I disturbi mentali o le devianze sociali di tipo
autolesionistico potrebbero essere più frequentemente conseguenze tipiche di contesti relazionali confusi e

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inaffidabili come quelli in cui vivono le vittime di abuso sessuale. Un momento molto delicato e pericoloso
nello sviluppo delle norme e delle regole si verifica quando i bambini che hanno il ruolo di vittime
all’interno della propria famiglia e si sentono tali anche al di fuori di essa, iniziano a sviluppare una
posizione psicologica e una mentalità da vittima. Questo assetto emotivo e cognitivo li porta ad attribuire
molta importanza alle provocazioni e agli insulti subiti e a considerare la risposta violenta come una forma
di equità che ristabilisce il senso di giustizia, in un ambiente caratterizzato da mancata protezione da parte
dei genitori e degli adulti. I bambini piccoli sono più propensi a pensare che i genitori hanno sempre ragione
e che le regole vanno rispettate perché confermate e sostenute dall’autorità dell’adulto. Di fronte a
ingiustizie e maltrattamenti sono portati a salvare l’immagine dei propri genitori, a prezzo della propria
autostima. Intorno ai 4-5 anni la rivoluzione cognitiva comincia a differenziare le intenzioni altrui e a
rappresentarsele, a cogliere il significato del danno psicologico oltre che fisico. Il bambino inizia ad
accorgersi di subire punizioni ingiuste, sente e interpreta in modo diverso i propri sentimenti. Il bambino
non prova più solo impotenza e vergogna, ma anche rabbia e desideri di vendetta misti alla sensazione di
colpa per provare tali sentimenti. Il bambino comincia a distinguere tra vittima e vittimizzatore. La rabbia
per le ingiustizie subite e il protrarsi della situazione abusante o maltrattante fanno evolvere le reazioni del
bambino in comportamenti autolesionisti e antisociali. Sono anche segnali di desiderio di ristabilire una
forma di giustizia. Quando il senso di giustizia e di equità non vengono ristabiliti si corre il rischio di privare i
bambini e i ragazzi della possibilità di essere compensati e risarciti psicologicamente. Coloro che hanno
subito maltrattamenti, abusi e punizioni ingiuste vivono il problema di una profonda deformazione dei
sentimenti di fiducia nelle norme, nella giustizia e nella possibilità della punizione e presentano una
difficoltà nell’assunzione delle proprie responsabilità, nell’espressione di emozioni empatiche e nella
condivisione delle esperienze.

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3. FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI


1. RISCHIO PROSOCIALE
Le esperienze di abuso e di maltrattamento a cui il bambino è sottoposto nel corso della sua evoluzione
rappresentano importanti condizioni che rischiano di compromettere gravemente il suo sviluppo. Nelle
moderne società occidentali si è aperta un’altra area di rischio: quella dei casi di abuso all’infanzia che può
manifestarsi in forme violente ma anche in forme più silenziose di abbandono psicologico e affettivo. Nella
società contemporanea il bambino a rischio è quello che vive in una struttura sociale e relazionale che non
è in grado di produrre risorse adatte a soddisfare i suoi bisogni affettivi, psicologici, di sicurezza, cognitivi,
fondamentali per la formazione della sua personalità e per l’espletamento di tutte le sue potenzialità. Il
concetto di rischio focalizza l’attenzione sui fattori che possono amplificare o ridurre il danno psicologico
per il bambino. Le dinamiche intrinseche al maltrattamento e all’abuso sono caratterizzate da negazione e
segretezza che rendono difficile seguire il percorso evolutivo dei bambini. Possiamo così ricostruire solo a
posteriori dalla storia pregressa, la tendenza dei genitori a minimizzare o negare anche l’accertato abuso,
quali siano state le condizioni dello sviluppo. Il concetto di “profilo di rischio” si basa sulla prospettiva di
causalità multifattoriale, la quale si fonda sull’individuazione di indici cumulativi di rischio biologico e/o
psicosociale. Un fattore che nella psicologia dello sviluppo può assumere una valenza protettiva o
aggravante il rischio è dato da quelle che vengono chiamate “esperienze non condivise”. Le esperienze
condivise sono quelle che riguardano allo stesso modo i figli di una stessa famiglia (miseria, rotture
familiari, …); quelle non condivise toccano in modo diverso ciascun bambino all’interno della stessa
famiglia: le relazioni che ciascun figlio intreccia con i genitori, con la rete parentale e amicale hanno una
specificità diversa per ognuno dei figli. Le esperienze non condivise, quindi, vengono giudicate molto più
importanti e capaci di esercitare un maggior peso nello sviluppo della personalità di quanto avvenga per le
esperienze condivise.

2. CONSEGUENZE PSICOLOGICHE: VULNERABILITÀ E FATTORI PROTETTIVI

Per la comprensione della genesi del maltrattamento, i livelli di analisi, come ha evidenziato Belsky nel suo
modello ecologico, dovrebbero considerare almeno quattro fattori eziologici interagenti: le caratteristiche
del genitore maltrattante; le caratteristiche del contesto familiare; i fattori sociali ed economici; le
determinanti culturali. Ognuno di questi livelli può essere analizzato in chiave di fattori di rischio e di fattori
protettivi. La personalità e il comportamento dei genitori influenza il livello di funzionamento familiare che
agisce sullo sviluppo psicologico e sulle caratteristiche dei figli.

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2.1. Cronicità e gravità della violenza

Un primo insieme di variabili cruciali appare la cronicità/temporaneità e la maggiore o minore gravità della
violenza subita. Se le varie forme di inadeguatezza genitoriale sono l’effetto di una crisi familiare
momentanea o se vengono rapidamente individuate e interrotte, esse provocano nel bambino segni di
disagio, ma questo può essere adeguatamente superato, ripristinando un normale percorso di sviluppo. Se
consideriamo il rapporto tra età e tipo di violenza ne deduciamo che i bambini piccoli, fino a 3 anni,
subiscono più di frequente o trascuratezza o maltrattamento fisico associato a trascuratezza e sono esposti
a situazioni di pregiudizio quali conflitti o violenze familiari. Erickson sostiene che la trascuratezza non è
quasi mai episodica, ma cronica, e i bambini possono crescere nell’assenza di consapevolezza che questa sia
una forma di maltrattamento, ciò compromette le normali fasi di acquisizioni emotiva e cognitiva. In
relazione al maltrattamento psicologico, è stato evidenziato che la mancanza di sensibilità emozionale
esercita un impatto negativo maggiore nei bambini piccoli che hanno bisogno di cure adeguate per stabilire
una fiducia di base. Nel corso del primo anno la funzione di tutore che l’adulto assume, ha lo scopo vitale di
supportare lo sviluppo delle capacità innate del neonato e di creare contesti di relazione nei quali il sistema
di aspettative, prevedibile e condiviso, consenta l’emergere delle capacità del bambino. Nonorganic failure
to thrive = fenomeno tipico della prima infanzia e caratterizzato da denutrizione fisica, atteggiamento
apatico, ritardo nello sviluppo fisico e comportamentale. Il principale indicatore diagnostico è la rapidità
con cui il bambino recupera peso, vigore e vivacità, se curato psicologicamente e adeguatamente
alimentato. Molte competenze, quali legame di attaccamento, controllo degli impulsi e delle emozioni,
sentimenti empatici, competenze sociali ed emozioni sociali, prendono forma e si organizzano grazie alla
funzione tutoria dell’adulto nei primi anni di vita e possono risultare gravemente compromesse se la
relazione con le figure di riferimento è caratterizzata da trascuratezza fisica, disinteresse emotivo,
disattenzione nelle cure e maltrattamenti fisici. I piccoli che sperimentano queste forme di inadeguatezza
genitoriale nei primi 2 anni di vita presentano conseguenze psicologiche e gravi problemi di sviluppo. L’età
e la continuità dell’ambiente familiare inadeguato costituiscono forti fattori di rischio poiché non solo
determinano reazioni negative nell’immediato, ma anche effetti più duraturi nel tempo. L’aver subito le
stesse esperienze nelle età successive non elimina le conseguenze negative, ma queste sono meno
pervasive poiché la fase delicata dell’acquisizione delle prime competenze sociali ed emotive e dei primi
attaccamenti selettivi non sono state così fortemente danneggiate. Un fattore protettivo capace di
attenuare le reazioni del bambino evitando l’insorgere di conseguenze negative è la risoluzione del
disaccordo tra i genitori con l’assunzione di atteggiamenti più adeguati verso i figli. La frequenza e
l’intensità del conflitto scatenano nei bambini pattern di risposte negative caratterizzate da disagio,
insicurezza, espressioni di rabbia e di collera nelle interazioni. Tra gli elementi che mediano l’effetto del
conflitto va anche considerata l’età del bambino e le sue capacità di coping. Il bambino piccolo appare
meno capace di adottare strategie di coping e difese cognitive e tende ad esprimere le emozioni in modo
più diretto e immediato. Già intorno ai 6 mesi i piccoli sono in grado di reagire alla rabbia degli adulti
esprimendo segnali di preoccupazione e di disagio e intorno ai 2-3 anni appaiono visibilmente sconvolti e lo
manifestano attraverso espressioni di rabbia e di ansia. Le reazioni di paura sono più evidenti fino ai 4-5
anni per poi diradarsi. Mentre il bambino piccolo esprime le proprie emozioni di fronte al conflitto
adottando strategie di coping orientate a distrarre o confortare il genitore, intorno all’età prescolare già
mostra la disposizione ad intervenire, ad assumere una posizione attiva all’interno del litigio come
mediatore. L’ipotesi della sensibilizzazione proposta da Cummings tende a fornire una spiegazione sui
processi mediante i quali certi tipi di risposte infantili si cristallizzano nel tempo, i bambini esposti al
conflitto tra i genitori, sviluppano una maggiore reattività ad essi, espressa attraverso livelli superiori di
disagio, rabbia, aggressività e attivazione. La sensibilizzazione comporta un abbassamento della regolazione
delle emozioni con una conseguente rapida attivazione del disagio sia emotivo sia comportamentale. Vi è
una vulnerabilità più elevata per la presenza di un set di risposte negative già attivate che poco basta ad
innescare, questo tipo di sensibilizzazione, che mette il bambino in uno stato di allerta e di attivazione, lo
induce ad agire aggressivamente nelle relazioni interpersonali e sollecita quelle reazioni negative nei
genitori che aumentano la persistenza dei suoi pattern non adattivi. Questo circolo vizioso spiega una delle

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modalità attraverso cui possono dispiegarsi contesti ripetitivi, anche al di fuori della famiglia, che
definiscono la continuità dell’esperienza di rifiuto. Spesso col perdurare della situazione di tensione e di
conflitto possono determinarsi esiti diversi, se lo scontro nella coppia si accentua, col tempo i figli
cominciano ad essere coinvolti e possono diventare oggetto di maltrattamento, se i bambini vengono anche
colpiti personalmente attraverso maltrattamenti fisici, oltre a pattern di coping e di risposte alla collera
altrui, presentano anche livelli più elevati di paura e una percezione più acutamente negativa del conflitto
stesso. È stato dimostrato che i bambini vittime di una sola esperienza e con un genitore protettivo e
supportivo dopo il disvelamento non manifestano o presentano in modo lieve i sintomi tipici. In questo
caso la presenza di un genitore protettivo modifica l’effetto della singola esperienza traumatica. Le
conseguenze più gravi si manifestano quando l’abuso sessuale è perpetrato da un adulto affettivamente
significativo, dura nel tempo ed implica contatti multipli. In questi casi il bambino viene coinvolto
progressivamente in una relazione cronicamente perversa che modifica e intacca le sue funzioni
fisiologiche, il suo comportamento sociale e la sua attivazione sessuale. Anche nelle situazioni di
maltrattamento fisico possiamo segnalare esiti ed evoluzione più negativi quando la violenza viene
esercitata da un adulto affettivamente importante e dura nel tempo. Il legame precoce e positivo
nell’attaccamento agisce come fattore protettivo anche nelle fasi successive, riducendo l’impatto delle
esperienze negative. Mentre esperienze infantili caratterizzate prima da carenze di cure e successivamente
da violenza e abusi rischia di orientare la traiettoria dello sviluppo verso forme psicopatologiche. Le
differenze di genere appaiono significative perché agiscono sul livello di interiorizzazione - esteriorizzazione
del disagio: mentre nella preadolescenza i maschi tendono a mostrare le proprie difficoltà con un aumento
dell’aggressività, le femmine sembrano più propense a diventare chiuse e ansiose. Alcuni studiosi
sottolineano che nei casi di abuso sessuale sono presenti pattern prevalentemente self-directed (attività
sessuale promiscua e non protetta, prostituzione, abuso di alcool e di droga, disordini alimentari quali
anoressia e bulimia, comportamenti autodistruttivi e suicidari), mentre in quelli di maltrattamento fisico
prevalgono i pattern other-directed (aggressività, ostilità).

2.2 Un genitore testimone partecipe

Oltre alla cronicità/temporaneità e alla maggiore o minore gravità, un ulteriore elemento capace di
svolgere una funzione protettiva e di mediazione in situazioni di violenza acuta o cronica, è la presenza di
uno dei due genitori con funzione di testimone partecipe o autenticamente tutelante. La funzione di uno
dei due genitori può configurarsi o nel ruolo di “testimone partecipe” o in quello di adulto protettivo,
seppur tardivamente. Spesso quando i genitori sono violentemente coinvolti in un conflitto coniugale non
hanno spazio per preoccuparsi dei figli, altre volte il genitore può essere vittima quanto il figlio. Si tratta di
relazioni nelle quali per vari motivi, l’adulto non direttamente violento pur non riuscendo a interrompere o
far evolvere la situazione familiare in senso positivo, mantiene attiva una relazione col figlio e continua a
svolgere nel rapporto con lui una funzione residuale, ma significativa. Un ruolo adulto di questo tipo può
essere percepito dal bambino come debole, impotente, inefficace o di vittima e non rappresenta quindi un
modello di identificazione positivo poiché gli trasmette una immagine di sé come vittima impotente e
genera in lui sentimenti di rabbia. Essere oggetto di aggressioni e di disinteresse da parte di entrambi i
genitori non lascia al bambino alcuno spazio per poter elaborare una visione critica sulle motivazioni e sulle
molteplici ragioni che sono sottesi a questi comportamenti. La posizione passiva e vittimizzata dell’altro
genitore, anche nei casi estremi in cui quest’ultimo non svolga alcun ruolo di conforto e sostegno diretto
nei confronti del bambino, rappresenta un elemento che incrina una realtà familiare distorta e patogena
che altrimenti avvilupperebbe in modo confuso la mente, i pensieri e le emozioni del bambino. Pur in una
situazione familiare estrema e drammatica, i bambini riescono a conservare una percezione delle figure
genitoriali distinte e diversificate e ad attribuire un significato positivo al rapporto con la madre. Se la
funzione di “testimone partecipe” si stabilizza e si normalizza, diventando un elemento della dinamica
familiare, finisce per trasformarsi in quella di un complice, silenzioso e passivo nell’accettazione di una
realtà patologica e implicitamente condivisa, assume allora valenze negative analoghe a quelle delle
famiglie in cui entrambi i genitori sono seppur a diverso titolo responsabili del danno inflitto al bambino.

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Queste situazioni sono spesso difficili e impervie non solo per gli effetti negativi sul bambino ma anche per
la massa a punto di adeguati interventi di protezione. Secondo Miller i sentimenti di collera non
scompaiono nel nulla, ma si trasformano con il tempo in un odio più o meno consapevole contro il proprio
Sé o contro gli altri. Il bambino deve reprimere tali sentimenti e cercare di dimenticare la situazione
dolorosa che li ha provocati, poiché è costretto a vivere insieme alle persone che lo maltrattano, egli deve
rimuovere l’intero ricordo del trauma. Diversa è la dinamica nella quale si consuma l’abuso sessuale, poiché
la vittima è sempre sola e deve affrontare da sola la situazione, almeno fino a quando qualcuno non diventa
capace di cogliere e decodificare segnali più o meno espliciti. Quindi, le conseguenze negative dell’abuso
sessuale sono più consistenti che in altre forme di maltrattamento. Spesso l’altro genitore, nella gran parte
dei casi la madre, non è capace di cogliere i segnali del bambino, in quanto anche lei è trascurante sul piano
dell’accudimento fisico o emozionale, altre volte invece non vengono denunciati questi atti di violenza
perché le intimidazioni dell’abusante sono così subdole da paralizzare il bambino. Altre volte ancora il
bambino è così piccolo da non riuscire a cogliere la differenza tra tenerezza e atti perversi, ed infine altre
volte la madre è complice attiva o connivente. Di frequente, l’abuso sessuale si radica nell’esperienza
quotidiana della vittima che deve farvi fronte nella più totale solitudine e nella paura e nell’impossibilità di
verbalizzare, raccontare ed elaborare ciò che accade. Nei bambini il fatto di non poter parlare dell’abuso è
anche correlato al non poter ricordare, quando lo spazio mentale è occupato da un groviglio di emozioni
che sommerge il sé, la struttura narrativa della memoria subisce improvvise e drammatiche interruzioni. Il
bambino, per essere pronto a raccontare ciò che ha subito, deve poter trovare non solo un terreno
accogliente intorno a sé, ma aver anche maturato capacità autoriflessive che gli consentano di pensare alla
propria esperienza, di discriminare e comprendere meglio il senso delle proprie emozioni. Il maltrattamento
fisico e/o la trascuratezza nei primi anni di vita rappresentano, un fattore che pregiudica fortemente la
salute mentale delle piccole vittime. Mentre un rapporto positivo e legami significativi con i genitori
determinano nel bambino abusato da un estraneo un insieme di risposte negative, ma transitorie e non
altrettanto lesive della salute mentale. La funzione protettiva dell’altro genitore all’atto del disvelamento
riduce il peso delle conseguenze ed evita l’impatto di ulteriori danni che potrebbero derivare dal sommare
un’esperienza di abuso ad una successiva di rifiuto e di incredulità.

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4. LE CONSEGUENZE TRAUMATICHE DELLA VIOLENZA


1. GLI EFFETTI TRAUMATICI DEL MALTRATTAMENTO E DELL’ABUSO
Oggi si ritiene esistano diverse forme di maltrattamento, che a seconda dei casi possono assumere le
caratteristiche di traumi acuti o cronici. Agli inizi degli anni novanta, vi sono state discussione attorno alla
sindrome post-traumatica da stress, per verificarne la significatività nei casi di abuso e maltrattamenti. Il
disturbo post-traumatico da stress comporta uno sviluppo di sintomi tipici che si manifestano in seguito
all’esposizione ad un fattore traumatico estremo, riconducibili a tre gruppi principali:

1. Sensazioni di rivivere l’evento traumatico;


2. Esitamento degli stimoli associati al trauma;
3. Attenuazione della reattività generale e aumento arousal.

Nel DSM-IV vengono presi in considerazione, non solo eventi che colpiscono direttamente il soggetto, ma
anche eventi come assistere o venire a conoscenza di una data informazione. I sintomi più caratteristici di
quasi tutti i traumi infantili, consistono in memorie intrusive e paure legate all’evento. Quando una persona
subisce un trauma, esperisce una grande quantità d’ansia, anche successivamente, ogni volta che uno
stimolo gli ricorda il trauma che l’ha colpita. Quando l’angoscia minaccia di sopraffare l’individuo e di
danneggiare il suo funzionamento psichico, le difese permettono di ridurre l’ansia ad essa associata. Questo
controllo difensivo può essere esercitato in due modi:

 Attraverso l’inibizione da memorie riguardanti il trauma,


 Attraverso l’inibizione delle percezioni associate all’evento traumatico.

1.1.Il disturbo post-traumatico da stress nei bambini vittime di violenza

Alcuni esperti ritengono che tra i bambini abusati sessualmente vi sia un’alta percentuale di disturbi post-
traumatici da stress, mentre nei casi di maltrattamento fisico le percentuali appaiono più basse. Se
consideriamo le tre categorie di sintomi previste dal DMS-IV:

a) rivivere l’evento traumatico attraverso giochi ripetitivi, immagini, pensieri;


b) fenomeni di esitamento degli stimoli associati e diminuzione della reattività generale quali distacco ed
estraneità verso gli altri;

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c) aumentato arousal e ipereccitabilità segnalati da disturbi del sonno, irritabilità; i bambini abusati
sessualmente differiscono significativamente dal gruppo di controllo costituito da non abusati,
soprattutto per sintomi quali paure, ansietà e problemi nella capacità di concentrazione. I bambini
sessualmente abusati soffrono in misura maggiore, di sintomi di re experiencing che si evidenziano
soprattutto in comportamenti sessuali.

1.2.Fattori di mediazione

Secondo alcuni studiosi essere vittima di un evento traumatico aumenta la vulnerabilità a vittimizzazioni
successive e provoca un incremento dell’intensità dei sintomi. La fragilità che deriva dall’essere stati
vittime: abbassa la capacità di difendersi e amplifica le risposte post-traumatiche. Particolarmente
significativa è la relazione madre-figlio, infatti bambini con attaccamento insicuro, se sottoposti ad un
trauma, ne sviluppano più frequentemente i tipici sintomi. Le osservazioni di Goodwin sottolineano che i
sintomi del disturbo post-traumatico da stress, nei bambini abusati sessualmente, si manifestano in modo
diverso a seconda dello stadio evolutivo dei soggetti. Nei piccoli sarebbero prevalenti giochi ripetitivi in cui
viene rivissuto il trauma e in cui l’abusante viene spesso simbolicamente ucciso, inoltre i ricordi
dell’esperienza sessuale a questa età, sarebbero frammentari e incompleti. Tra i quattro e i sei anni i
bambini manifestano il proprio disagio attraverso il coinvolgimento degli altri nella riproduzione dell’atto
abusante e una eccessiva preoccupazione di poter essere sgridati e puniti. Tra i sette e i tredici anni, le
esperienze sessuali possono essere riproposte attraverso il coinvolgimento dei compagni. Nella prima
adolescenza l’ansia cronica potrebbe tradursi nella fuga attraverso l’alcool o l’uso di droghe, ripresentarsi
attraverso flashback in occasione di contatti intimi. In età adulta insonnia e incubi sarebbero sempre più
frequenti insieme a sentimenti di frustrazione, autoaccuse ed intense paure di poter essere nuovamente
vittima di aggressioni. In un lavoro di Kilpatrick e Williams la categoria di disturbo post-traumatico è stata
studiata in relazione alla grave violenza domestica. Con riferimento a ricerche precedenti, gli autori hanno
esaminato un gruppo di bambini di otto anni, confrontati con un campione di controllo. La consistenza e la
presenza di sintomi, nell’80 % dei bambini, induce gli autori a riflettere sull’estrema gravità della violenza
domestica. Particolari problemi pone la vittimizzazione, l’evento traumatico non è transitorio, si ripete più
volte, è imprevedibile e non può essere controllato né evitato. In lavori più recenti emergono almeno due
diversi tipi di trauma: quelli causati da eventi singoli ed inaspettati e quelli che si ripropongono più volte. I
bambini che subiscono maltrattamento fisico o abuso sessuale, ripetuto o prolungato nel tempo
esperiscono modalità di risposta per certi aspetti differenti da quelli che si manifestano in seguito ad un
evento traumatico singolo. Nel trauma singolo, denominato di tipo 1, i bambini sono in grado di ricordare la
situazione traumatica in modo vivido con dettagli. Il trauma di tipo 2, è caratterizzato da eventi ripetuti, la
reazione del soggetto è inizialmente di sorpresa e successivamente di forte senso d’orrore e di
anticipazione. Possono verificarsi perdite di memoria difensive ed in seguito si manifestano anche sintomi
che comportano un’attenuazione della reattività generale, esitamento degli stimoli associati al trauma,
dissociazione e depersonalizzazione. Nei lavori più recenti, la preoccupazione degli studiosi non è più quella
di confermare il rapporto tra disturbo post traumatico da stress e maltrattamento di abuso.

1.3.La memoria di eventi traumatici

Il bambino elabora le informazioni attraverso il sistema di memoria sensoriale, la memoria a breve termine,
e quella a lungo termine, a cui corrispondono diversi processi di elaborazione delle informazioni. La
profondità di elaborazione a cui sarà sottoposta l’esperienza, determinerà l’organizzazione e la
strutturazione del materiale acquisito. Può passare molto tempo, prima che il bambino voglia raccontare o
gli venga chiesto di testimoniare e, in questo intervallo, lo stato dell’informazione immagazzinata può
subire notevoli cambiamenti e il ricordo può essere migliore o peggiore. Le problematiche più rilevanti
riguardano la possibilità che specifiche condizioni possano indurre ricordi non veri, e che il ricordo di una o
più esperienze traumatiche possegga caratteristiche e qualità proprie che lo rendono differente da quello di
situazioni abituali. Le capacità di codifica e di conservazione delle esperienze sono presenti precocemente
e, già a 3 anni il bambino può fornire una grande quantità di informazioni accurate. I processi di recupero, si

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sviluppano dopo i 5 anni, perché richiedono strategie intenzionali ed elaborazioni maggiori. Dalle ricerche
emerge che i bambini ripetutamente traumatizzati non hanno ricordi nitidi e completi, ma conservano
ricordi parziali. Gli episodi traumatici sono soggetti al controllo dei meccanismi di negazione, rimozione e
dissociazione, quando però le operazioni offensive si allentano i ricordi ritornano alla luce. Howe afferma
che nei casi di abuso sessuale, la possibilità di ricordare cresce in funzione del ripetersi dell’esperienza
traumatica, anche se i meccanismi di coping e le difese potrebbero orientare in modo diverso il ricordo. I
singoli dettagli delle diverse situazioni possono confondersi e mescolarsi. Sperimentare eventi successivi
simili può determinare il fenomeno della interferenza retroattiva che impedisce una chiara differenziazione
tra i singoli episodi. Verrebbero, così, ricordati meglio quegli episodi particolari salienti che colpiscono il
soggetto e che sono per lui insoliti e contestuali. E’ frequente, in condizioni di reiterazione traumatica, che il
bambino metta in atto strategie adattive che implicano anche la dimenticanza selettiva di alcune
informazioni importanti. Howe afferma che questa modalità adattiva contrasta con la tendenza che
consiste nell’esercizio di quella attività mentale tipica delle vittime che le vede ripetutamente interrogarsi
sulle ragioni che portano all’abuso e sui modi per poterlo evitare. Intensificando i ricordi piacevoli di eventi
e fatti associati all’ambiente o all’abusante, si tenterebbe di evitare e reprimere i ricordi spiacevoli. Ipotesi
particolarmente interessante poiché fornirebbe una spiegazione plausibile al fenomeno della
minimizzazione e della idealizzazione.

2. LE CONSEGUENZE POST-TRAUMATICHE A LUNGO TERMINE

La sintomatologia post-traumatica non si risolve in un breve lasso di tempo, ma può continuare a


presentarsi per molti anni, anche se la situazione abusante è cessata. E’ stata rilevata una altissima
percentuale di sintomi parziali del disturbo post traumatico da stress in donne adulte che avevano subito
nell’infanzia abusi sessuali continuativi. Esistono elementi in comune tra le vittime di stupro e di abuso
sessuale infantile. La paura e l’ansia sono state rilevate nei veterani di guerra, nelle vittime di stupro e in
quelle di abuso sessuale. Vi sono differenze che qualificano le diverse risposte di paura. Nella violenza
carnale, ad esempio, la paura post-rape è intessuta di contenuti correlati alla specifica esperienza di
gruppo. Al contrario le vittime di guerra e di abuso sessuale infantile hanno reazioni di paura che
generalizzano ad altri stimoli, non immediatamente connessi al trauma. Le disfunzioni sessuali associate al
disturbo post-traumatico, dipendono dall’abuso sessuale e dallo stupro e non dai traumi di guerra.
Un’ipotesi basata sulla teoria del condizionamento sostiene che in seguito alla ripetuta associazione tra lo
stimolo incondizionato ed un elemento ambientale neutro, una persona o una situazione che provoca
paura ed angoscia viene, associata ad uno stimolo ambientale neutro che, in seguito, potrà provocare
paura ed ansia. Per diminuire lo stato ansioso, l’individuo mette in atto una serie di difese che gli
consentono di evitare quello stimolo, ormai non più neutro. Una spiegazione più convincente prevede che
l’individuo dopo ripetuti eventi traumatici incontrollabili ed improvvisi sviluppi un’aspettativa generale di
pericolo e di non controllabilità, in grado di influenzare in modo persistente il suo atteggiamento nei
confronti delle persone e del mondo. E’ stato anche osservato che le vittime adulte di abusi sessuali subiti
durante l’infanzia possono non ricordare l’evento e quindi non manifestano i sintomi tipici di questo
disturbo che potrebbe riemergere in seguito all’esperienza di situazioni simili all’abuso. Quando i ricordi
dell’esperienza traumatica riaffiorano, la sintomatologia si può manifestare in tutta la sua virulenza. Le
persone che sono state vittima di abusi protratti nel tempo, a causa del continuo contatto con il
perpetratore, tenderanno a minimizzarne e a sottovalutarne l’impatto, per effetto delle difese adottate.
Carlson e colleghi propongono un modello costituito da cinque fattori che influenzano la risposta al trauma,
mitigando oppure aggravando il suo impatto:

 Fattori biologici
 Episodi precedenti o successivi l’evento abusante
 Stadio dello sviluppo al momento della vittimizzazione
 Contesto sociale
 Gravità dell’evento traumatico

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Tra i fattori biologici è necessario tener presente sia la diversa vulnerabilità delle persone al trauma sia i
cambiamenti biologici avvenuti in seguito ad una prima esperienza traumatica e in grado di influenzare le
esperienze successive. Si determinerebbe una “sensibilizzazione” a livello biologico e psicologico che suscita
una maggiore intensità e produzione dei sintomi. Anche lo studio evolutivo in cui si trova il bambino è un
fattore in grado di mediare l’impatto del trauma. Quanto minore è la sua età, al momento della
vittimizzazione, tanto più gravi saranno i sintomi. Un ulteriore fattore è il contesto sociale, che comprende
sia il tipo di relazioni familiari sia l’ambiente socioeconomico ed il supporto fornito dalla società o da un
singolo individuo alla vittima. La possibilità di “condivisione sociale” delle esperienze negative assume
un’importante rilevanza. Sul piano della elaborazione mentale che si accompagna ad una esperienza
traumatica, la persistenza di pensieri, emozioni e sentimenti negativi legati alle esperienze spiacevoli dà
luogo alla “ruminazione mentale”, che implica il ripetersi di reminiscenze involontarie che invadono
l’individuo nonostante gli sforzi per evitarle. Sappiamo che il fenomeno della ruminazione mentale nasce
dalla minaccia al concetto di sé e dalla improvvisa falsificazione delle convinzioni, si manifesta per periodi
lunghi e risponde al bisogno dell’individuo di riorganizzare la gerarchia di piani. La condivisione sociale delle
esperienze riveste un ruolo fondamentale per prevenire conseguenze negative a lungo termine.
Abitualmente gli individui sentono la necessità di comunicare le proprie esperienze negative e lo fanno
attraverso la condivisione sociale delle emozioni. Le esperienze di violenza proprio perché intrinsecamente
intessute di sentimenti di rabbia e di vergogna, la vittima non riesce o non è autorizzata socialmente ad
esprimerle, esse rischiano di bloccare la vita emotiva e di perdurare a lungo nel tempo.

2.1.Conseguenze somatiche, dissociative e affettive

Le principali categorie di disturbi a lungo termine che colpiscono gli adolescenti e gli adulti sono quelle che
derivano dalle conseguenze somatiche, dissociative e affettive del trauma prolungato. Per quanto concerne
la somatizzazione, la continuità del trauma amplifica e generalizza i sintomi post-traumatici da stress,
determinando ipervigilanza e ansia cronica che possono tradursi in somatizzazioni gastrointestinali,
addominali, nausee, tremori, cefalee. La vittima, esposta ripetutamente ad esperienze che inducono paura,
può sviluppare un’associazione tra gli stimoli ambientali e il pericolo, così anche elementi ed eventi di per
sé neutri finiscono per generare timore. Le componenti somatiche dell’ansia possono anche indurre
un’intensa timidezza, vergogna, preoccupazione. Le conseguenze dissociative sono l’effetto delle operazioni
di frammentazione mentale elaborate dai bambini per alterare una realtà contraddittoria e non desiderata.
Possono scaturire dal tentativo di delimitare settori separati nella mente e nelle emozioni, possono
coesistere le immagini contrastanti di sé e dei genitori perpetratori della violenza. I disturbi nelle relazioni
affettive dovuti all’instabilità nell’attaccamento e caratterizzati da sentimenti contradditori: paure di venire
abbandonati o di essere dominati, oscillazione tra passività-sottomissione e furiose ribellioni. Un’ulteriore
area compromessa riguarda i cambiamenti nell’identità e nella struttura di personalità: l’immagine
corporea, l’immagine interiorizzata degli altri, i valori e gli ideali vengono invalidati e sistematicamente
distrutti nelle vittime di violenza fisica assoggettate a controllo e a coercizione. Tra le conseguenze a lungo
termine del trauma, vi è la vulnerabilità alla reiterazione dell’esperienza traumatica che implica una
propensione ad esporsi ai rischi e a nuove esperienze negative autoinflitte o perpetrate su altri. Fenomeni
ripetitivi determinati da uno sviluppo patologico della personalità possono portare al coinvolgimento
nell’abuso di altri sia nel ruolo di osservatori passivi, sia in quello di perpetratori, oppure a fenomeni di self-
mutilation. Nella letteratura clinica, la depressione appare associata ad esperienze di abuso sessuale. Le
percezioni e le valutazioni negative invadono il Sé sentito come cattivo, colpevole e soprattutto la vergogna,
l’impotenza, l’impossibilità di controllare l’ambiente e proteggere sé stesso sono sentimenti depressivi dai
quali può essere difficile sottrarsi e che possono riaffiorare nell’età adulta.

2.2.“Post-traumatic stress disorder” e “post-traumatic illness”

I disturbi post-traumatici da stress presenti nelle situazioni di abuso e maltrattamento, pongono un quesito
a cui non è facile rispondere: si tratta di reazioni normali o di una malattia. La caratteristica centrale del
disturbo post-traumatico è che si tratta di un insieme di reazioni normali ad un evento anormale. È un

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processo di adattamento temporaneo ad eventi fortemente stressanti, processo che dovrebbe seguire
un’evoluzione secondo fasi prevedibili per poi risolversi. Nelle situazioni di violenza intra-familiare le cose si
complicano. Negli eventi traumatici circoscritti, e non nella forma complessa in cui la persona è
completamente sotto il controllo del persecutore ed è oggetto di traumi ripetuti, non riusciamo a cogliere
pienamente ciò che accade alle vittime di violenza. Il disturbo post-traumatico complesso si presenta
soprattutto in persone che per condizioni psicologiche, fisiche o economiche dipendono da altre. I sintomi
sono: alterazione nella regolazione degli affetti e degli impulsi, somatizzazione, episodi di dissociazione,
alterazioni patologiche della propria identità e delle relazioni (relazioni instabili, sensi di colpa e di
vergogna), alterazione del sistema di significati e della percezione del persecutore (idealizzazione del
persecutore). Nella forma semplice la ripetizione dell’esperienza può presentarsi sotto forma di memorie
intrusive o di comportamenti che mettono nuovamente in atto il trauma, nella forma complessa, la persona
può nuocere sé stesso o qualcun altro.

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