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Riassunto Tra rischio e protezione. La valutazione delle


competenze parentali
Psicologia dello sviluppo tipico e atipico (Università Cattolica del Sacro Cuore)

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TRA RISCHIO E PROTEZIONE: LA VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE PARENTALI


Capitolo 1: fattori di rischio e fattori protettivi nella valutazione delle competenze parentali: la
cornice teorica di riferimento
La cornice teorica di riferimento: il modello process-oriented
Il protocollo sui fattori di rischio e sui fattori protettivi nasce per valutare i bambini che vivono
relazioni familiari caratterizzate da difficoltà e disagio, e deriva dall’esperienza clinica e di ricerca
realizzata in questi anni nell’ambito delle problematiche della promozione della salute, della
prevenzione e della valutazione e trattamento delle famiglie e dei bambini vittime di violenza e
abusi.
Esso si ispira all’approccio process-oriented usato nella psicopatologia dello sviluppo per
descrivere la complessa articolazione di elementi che entrano in gioco nei percorsi evolutivi e nei
processi sottesi alle dinamiche dell’adattamento e del maladattamento.
Il percorso elaborato dal Centro del Bambino Maltrattato (CBM) di Milano prevede diverse fasi:
una prima fase di rilevazione per raccogliere gli elementi salienti sulla intera situazione familiare e
una seconda di valutazione del danno subito dal bambino.
Se viene rilevato un danno sono possibili due percorsi: il primo caratterizzato da danno lieve e da
richiesta spontanea della famiglia, che rendono possibile l’intervento con la collaborazione della
famiglia stessa; il secondo connotato da grave danno del bambino e da incapacità del genere
nell’accettare il sostegno che rendono necessaria una segnalazione per tutelare il minore.
Il danno per il bambino deriva inevitabilmente dal fallimento parentale, da omissioni o da azioni
intenzionali o non intenzionali connesse alle pratiche di accudimento.
L’esito di adattamento o di maladattamento delle competenze genitoriali è un percorso costellato
da eventi accidentali, incontri, legami e da prerequisiti che acquistano il loro significato alla luce
della dinamica processuale e delle interconnessioni tra i diversi elementi.
Abbiamo creato un grafico del modello process-oriented (pp.22):

nella parte sinistra troviamo i fattori biologici, genetici e psicologici, gli elementi della storia o delle
condizioni di tipo sociale, ambientale familiare e individuale che influenzano il modo in cui i singoli
fanno i genitori; la parte centrale è denominata funzionamento dei genitori e riguarda i processi e
le risposte dell’individuo che possono mediare la relazione tra le influenze sociali e ambientali
passate e attuali, e gli esiti connessi all’adattamento o al maladattamento.
Le singole risposte comportamentali nell’esercizio della genitorialità possono assumere il
significato di reazioni occasionali che non si ripeteranno o risposte organizzate in pattern che si
ripetono.

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È importante analizzare i pattern di funzionamento, cioè le sequenze ripetitive che definiscono le


relazioni.
I differenti fattori nel modello assumono diversi gradi di importanza in base alla fase di evoluzione
delle competenze parentali.
Inoltre sono molto importanti sia la qualità della relazione di attaccamento che i genitori hanno
sperimentato in età infantile con le proprie figure di allevamento, sia la relazione attuale tra i
partner, mentre le competenze necessarie a occuparsi di un figlio preadolescente o adolescente
dipendono dall’abilità di monitorare le influenze esercitate dalle relazioni con i pari.
Nella parte destra del modello ci sono due ampie dimensioni come esito del processo evolutivo: la
dimensione dell’adattamento cioè la competenza parentale capace di integrare le molteplici
influenze personali e relazionali con le esigenze del bambino, e il maladattamento che indica una
difficoltà nella modulazione dell’esercizio della genitorialità.
La competenza genitoriale è un percorso in cui parametri si delineano nel tempo come risultato di
approssimazioni e aggiustamenti definiti dai figli stessi, dalle relazioni, dagli eventi.
La dimensione dell’adattamento, che implica una relazione ancora preservata in senso positivo fra
genitori e figli, può essere compresa e spiegata nei termini di presenza o prevalenza di fattori
protettivi che possono contrastare i fattori di rischio e di stress e che consentono a genitori, pur
segnati da difficoltà e ostacoli, di comprendere e affrontare adeguatamente le esigenze del
bambino.
Possiamo individuare due tipi di funzionamento parentali: uno più lesivo delle esigenze di cura e di
accudimento e caratterizzato dall’assenza di fattori protettivi e dalla presenza di fattori di rischio e
di fattori di stress, e l’altro attraversato da criticità e disequilibri che creano disagi nei figli e
contrassegnato dalla coesistenza di fattori di rischio e di fattori protettivi.
2.Fattori di rischio e fattori protettivi
2.1.Rischio, protezione e resilienza
Negli individui e nelle famiglie esistono una dinamicità e una stretta interrelazione tra eventi
positivi e negativi, non riducibili alla semplice individuazione descrittiva degli uni e degli altri.
Non si può pensare di ipotizzare una popolazione a rischio e una popolazione non a rischio poiché
esiste una continuità incompatibile con dimensioni polarizzate.
Vi è quindi una propensione a voler rintracciare fattori plurimi co-occorrenti che si basa su un
concetto di causalità multifattoriale che spesso ha portato i ricercatori a individuare un profilo di
rischio, desumibile dalla presenza di indicatori cumulativi derivanti da diversi domini di tipo
biologico e/o psicosociale.
Perché questa concezione, in fondo feconda, appare insoddisfacente?
Per il fatto che non riesce a spiegare le ragioni per cui molte persone che sperimentano o hanno
sperimentato svariati eventi negativi presentano la capacità di mantenere un discreto
adattamento, di adottare strategie di coping efficaci e sono in grado di conservare aree di
competenze insospettate.
Con il termine resilienza si intende una capacità d’adattamento, di flessibilità, di resistenza allo
stress, all’ansia e all’avversità, essa rappresenta la manifestazione di un adattamento positivo,
nonostante condizioni esistenziali avverse, è un fenomeno che viene inferito dalla coesistenza di
una duplice condizione: la presenza di elevate condizioni avverse e un adattamento relativamente
buono, nonostante condizioni negative.
Le diverse caratteristiche dei soggetti resilienti possono confluire in due principali aree di
competenza: quella relativa alla stima di sé, che si riferisce a una valutazione cognitiva e a
sentimenti autoriferiti sostanzialmente positivi, e quella relativa alla progettualità e pianificazione
futura, intesa come disposizione a perseguire scopi e obiettivi a lungo termine.

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La resilienza quindi implica un’emozionalità temperamentale positiva, una spinta a voler capire e
affrontare i problemi, una certa dose di indipendenza, di iniziativa e di efficacia personale.
Il concetto di resilienza modifica le classiche concezioni sul rischio, cioè la prospettiva della
causalità diretta e quella della causalità multifattoriale; infatti induce a riflettere sul fatto che
un’analisi basata solo sulle condizioni di rischio, non consentirebbe di accorgersi di comprendere la
natura della resilienza e indurrebbe a una sottostima di eventuali abilità e potenzialità degli
individui.
Si parla inoltre di “resilience as a process”, per sottolineare la dimensione dinamica e non statica
della resilienza.
Un’elaborazione, chiamata anche per meccanismi e processi, ha introdotto alcuni concetti chiave
utili a descrivere il modo nuovo in cui si intrecciano questi diversi concetti: quello di risorsa, di
fattori protettivi e di processi protettivi, opposti alla nozione di rischio.
Il concetto di risorsa è inteso in senso generale per indicare gli aspetti concreti e materiali di cui
dispongono gli individui.
Esso si riferisce alle caratteristiche obiettive dell’ambiente sociale e territoriale, quelle abitative ed
economiche della famiglia, alla rete di connessioni parentali e amicali.
I fattori protettivi sono connessi alle relazioni, la qualità dell’ambiente e delle persone con cui si
interagisce o da cui provengono le cure.
I processi protettivi indicano il modo in cui i fattori protettivi agiscono in condizioni di rischio.
Spesso però l’analisi delle risorse, di fattori protettivi e dei processi protettivi non è facile poiché le
famiglie tendono a celare i problemi: quest’atteggiamento rischia di generare in chi deve
effettuare una valutazione un assetto mentale che privilegia ancor di più l’osservazione delle
condizioni di rischio, a scapito dei fattori protettivi.
2.2Fattori distali e fattori prossimali
Le condizioni di rischio implicano l’esposizione a esperienze avverse di tipo cronico o acuto, che
possono lentamente smorzare, distruggere fisicamente e psicologicamente oppure irrompere
nella vita delle persone, in forma di avvenimenti traumatici.
Il concetto di rischio rimanda a eventi di cui si possa valutare e stimare la probabilità e comprende
quindi, da un lato la nozione di caso di probabilità, e dall’altro quella di perdita e di danno.
Nel linguaggio comune il termine rischio ha assunto il significato prevalente di pericolo, tale
nozione viene usata per indicare minacce, danni potenziali e per segnalare condizioni oggettive
con caratteristiche negative.
In realtà il termine rischio ruota essenzialmente attorno al concetto di probabilità ed è quindi
inteso come il prodotto delle probabilità e delle conseguenze del verificarsi di un certo evento
avverso.
Baldwin ha introdotto la distinzione tra fattori distali e fattori prossimali per approfondire le
sfaccettature del concetto di fattori di rischio.
I fattori distali sono così denominati perché esercitano un’influenza indiretta e rappresentano
l’humus su cui vengono a innestarsi altri elementi più vicini e prossimi all’esperienza di cui sono
intessute le relazioni.
Nel modello abbiamo indicato 11 fattori di rischio distali, con molta probabilità esiste una
correlazione interna che lega questi fattori di rischio, ad esempio il disinteresse per lo sviluppo del
bambino potrebbe riguardare genitori con basso livello di istruzione, privi di una rete sociale di
sostegno e provenienti da famiglie povere, essi tuttavia da soli non sono sufficienti a generare
danni o conseguenze.
I fattori prossimali possono essere di rischio o protettivi e vengono così chiamati perché sono
contigui e prossimi da un punto di vista relazionale, coincidono con le esperienze del quotidiano e
si riferiscono a caratteristiche individuali e ambientali oppure a eventi che esercitano un’influenza

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diretta nelle relazioni, sono percepibili soggettivamente e investono lo spazio di vita, le emozioni e
i comportamenti quotidiani.
Quando hanno una valenza negativa, parliamo di fattori prossimali di amplificazione del rischio,
quando hanno una valenza positiva parliamo di fattori prossimali protettivi e di riduzione del
rischio.
L’efficacia dei processi protettivi risiede quindi nell’intreccio con quelli di rischio.
Se a causa dei fattori prossimali di rischio, le condizioni di vulnerabilità della famiglia vengono
ulteriormente aggravate, aumenta la probabilità di un’evoluzione negativa delle competenze
parentali.
In questa prospettiva il concetto di rischio perde l’accezione di evento negativo o inteso solo come
pericolo e minaccia per recuperare il suo significato originario di evento critico, connotato da
incertezza, caos, disorganizzazione da cui potrebbero derivare conseguenze dannose o esiti che
stimolano la resilienza.
Schema pp. 31

2.3Processi di rischio e di protezione


La prospettiva classicamente adottata per individuare le condizioni che possono generare la
violenza verso i bambini ha concentrato l’attenzione sul rischio, individuando quattro ampie classi
di variabili e precisamente:
1. variabili demografiche
2. variabili relative alle relazioni familiari
3. variabili sulle caratteristiche dei genitori
4. sulle caratteristiche delle vittime
Anche nell’interessante studio longitudinale condotto da Brown, l’attenzione viene posta sulla
specifica combinazione di elementi connessi al tipo di violenza, ma non sulle risorse potenziali che
potrebbero scongiurarne le manifestazioni.
Il maltrattamento fisico ha maggiori probabilità di manifestarsi se i genitori, in particolare la
madre, sono stati vittime di maltrattamenti nell’infanzia o durante l’adolescenza, se mancano gli
adeguati supporti sociali e familiari, se sono molto giovani e vivono in condizioni di povertà.
Questi fattori devono associarsi ad altre condizioni di rischio quali disforia, stress familiari, scarse
capacità di coping, impulsività, adozione di strategie educative dure e punitive e problemi di
aggressività o deficit attentivi dei bambini.

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I fattori di rischio distali che abbiamo incluso nello schema, coincidono con elementi del contesto
di vita, con concezioni, valori o esperienze personali pregresse che esercitano un’influenza sulle
competenze parentali e che spesso rappresentano il terreno su cui si radicano incomprensioni,
distorsioni percettive, pratiche educative rigide oppure incompetenza nelle cure o violenza
familiare.
Degli 11 fattori distali, alcuni sono aspecifici nel senso che sono presenti in situazioni familiari che
soffrono per forme diffuse di disagio psicologico o sociale, altri sono fortemente caratterizzanti i
contesti nei quali viene esercitata violenza e abuso verso i figli.
In relazione ai fattori aspecifici (povertà, monoparentalità, basso livello di istruzione dei genitori
ecc.) che attraversano situazioni familiari multiproblematiche, sono molti i programmi di
prevenzione realizzati per contrastare le conseguenze medico-sanitarie e psicologiche che
derivano da condizioni economiche disagiate, dalla carente competenza nell’accudimento, dalla
disinformazione o ignoranza sulle cure da prestare ai bambini o dallo stress e dall’isolamento in
situazioni di monoparentalitá.
I fattori specifici in associazione con quelli aspecifici o da soli, caratterizzano più di frequente le
famiglie nelle quali vengono attuati comportamenti omissivi o commissivi che danneggiano la
prole.
In molti paesi europei tra cui anche l’Italia, programmi di prevenzione primaria hanno puntato a
sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi, ad esempio sulla stigmatizzazione delle punizioni
corporali a scopo educativo, o sulla proibizione della violenza nei media.
Gli elementi di rischio prossimali, classicamente noti e descritti dalla letteratura come potenziali
minacce per lo sviluppo, attengono alla sfera dell’individuo, della famiglia e del sociale ad esempio
in chiave di gravidanze e maternità non desiderate, relazioni attuali difficili con le famiglie
d’origine, conflitti di coppia, violenza domestica, temperamento difficile del bambino.
Tra i fattori individuali abbiamo inserito: la sindrome da risarcimento, la debole o assente capacità
di assunzione di responsabilità, la distorsione delle emozioni e delle capacità empatiche.
Per analizzare il processo di amplificazione o riduzione del rischio dobbiamo usare un esempio
chiaro: Famiglia composta da due genitori con problemi economici, difficoltà acuite dalla nascita
non prevista di un figlio, stress che porta ad incrinare la relazione tra i due coniugi, si passa alle
squalifiche e alle accuse e la famiglia diventa sempre più povera poiché si riducono le motivazioni
dei genitori a migliorare la loro situazione.
La povertà è quindi una grave piaga ma non si può affermare che essa sia direttamente connessa
ai fallimenti parentali o ai comportamenti maltrattanti.
Un altro fattore di amplificazione del rischio è considerato la giovane età della madre, ma
ovviamente perché si generino comportamenti inadeguati verso i figli è necessario che ci sia
un’associazione con elementi distali o prossimali.
In modo inverso opera il processo di riduzione del rischio, innescato da fattori protettivi che
contribuiscono a mitigare l’effetto dei fattori di rischio distali o prossimali, è imporrante imparare
ad individuarli e poi comprenderne l’effetto sui fattori di rischio.
Un esempio noto di funzione protettiva è quella svolta da un membro della famiglia d’origine
presente e supportivo, come una nonna, essa è magari estranea ai conflitti tra i genitori e i figli
possono trarre giovamento dalla relazione stretta con una figura adulta positiva.
I meccanismi della resilienza, intesa come capacità di far fronte e elaborare gli eventi, incremento
dell’autostima, sicurezza e padronanza sul mondo, indeboliti dal conflitto tra i genitori, vengono
rivitalizzati dal rapporto con un adulto affettivamente importante.
Un altro esempio di processo protettivo può essere la rielaborazione delle esperienze negative
subite nell’infanzia, spesso sono genitori che hanno subito traumi infantili, sono distratti e fanno

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correre rischi ai figli oppure sono confusi, manifestano quindi una disregolazione emotiva o nella
espressione scarsa o eccessiva delle emozioni.
L’elaborazione emotiva implica un processo ampio che consiste:
a) Nel vivere l’esperienza emotiva a livello consapevole
b) Nel vivere l’esperienza emotiva nel momento in cui si manifesta
c) Nel tollerarne la presenza per un tempo sufficiente a riconoscerla
d) Nell’attribuirle una denominazione verbale
e) Nel comunicarla all’esterno
f) Nell’usare un linguaggio che sia realmente collegato all’emozione e non solo attraverso il
pianto che potrebbe essere un modo rapido per eliminare l’emozione all’esterno
L’elaborazione di esperienze personali viene facilitata dalle capacità cognitive: capacità che non
coincidono in senso stretto con il livello intellettivo, ma con quell’adattamento all’ambiente che
consente di modificarlo e modificarsi, di mantenere livelli di autostima e autonomia personale
adeguati e che sono una guida per orientare sentimenti empatici e attivare processi di
elaborazione e riflessione personale.
3.Percorsi di intervento
3.1.Prevalenza di fattori protettivi: aiuto e sostegno alla famiglia e al bambino
Sul piano degli interventi, possiamo dire che se prevalgono fattori protettivi in grado di contrastare
quelli di amplificazione del rischio, siamo in presenza di una prima categoria di situazioni
caratterizzata da famiglie da aiutare per difficoltà economiche, problemi medici o eventi
traumatici che hanno messo in crisi l’equilibrio e la stabilità del nucleo familiare.
Questi genitori riconoscono il bisogno di un supporto e sono in grado di provare gratitudine,
manifestando il desiderio di collaborare, sono capaci di assumersi le loro responsabilità e di
esprimere una certa autonomia.
L’influenza positiva dei fattori protettivi è stata evidenziata in alcuni studi longitudinali su ragazze
istituzionalizzate che, pur avendo vissuto abbandoni e deprivazione, diventano buone madri se
sostenute da un partner affettuoso.
Ci sono invece giovani madri che a causa di legami di attaccamento precoci e insicuri, finiscono per
legarsi a partner altrettanto problematici e diventano per i figli un modello di insicurezza e
instabilità.
Il problema è quindi se tale effetto sia permanente, indipendentemente da ciò che avviene in
seguito.
Alla luce di queste considerazioni si può comprendere come la relazione affettiva di un individuo
insicuro con un partner che possiede un modello di attaccamento sicuro eserciti un’influenza
positiva nella coppia poiché riesce a modificare l’assetto mentale del partner insicuro e anche il
suo stile d’accudimento della prole.
La presenza di un componente della rete parentale e amicale capace di fornire sostegno, aiuto e
che instauri una buona relazione con i bambini coinvolti nel conflitto, può configurarsi in funzione
protettiva, non solo per lo sviluppo del bambino ma per lo stesso genitore.
È però necessario che la dinamica del rapporto tra tale adulto e i genitori non sia di appropriazione
del bambino ma di supporto sostanziale e affettivo che non escluda o svaluti il ruolo dei genitori
stessi.
Vi sono poi delle esperienze non condivise che si riferiscono a condizioni oggettive e a relazioni
personali che non toccano allo stesso modo tutti figli di una stessa famiglia.
Le esperienze scolastiche, il tipo di relazione con gli insegnanti e con i pari, le preferenze familiari
vengono vissute in modo peculiare da ciascun componente della famiglia, diversamente da altre
condizioni quali povertà, sovraffollamento, rotture familiari che sono quindi esperienze condivise.

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Sembra che le esperienze non condivise siano molto più importanti di quelle condivise ed
esercitano un peso maggiore della personalità e nell’adattamento psicologico.
Possiamo presumere che l’inadeguatezza nell’esercizio delle funzioni parentali sia più radicata e
più difficile da affrontare se scopriamo che quell’adulto, oltre a essere stato trascurato, ricopriva
nella propria famiglia anche il ruolo di capro espiatorio.
Si può comprendere come la propensione a voler rielaborare siffatte esperienze negative, magari
accettando un intervento specialistico, sia un importante fattore protettivo e un passo
indispensabile, che prevedibilmente consente di riattivare risorse individuali che restituiscano
autostima, desiderio di migliorarsi, unitamente all’abbandono delle aspettative e all’illusione di
ottenere un risarcimento nell’ambito dei rapporti con la famiglia d’origine.
3.2.Compresenza di fattori di rischio e di protezione: monitoraggio del bambino e della famiglia
Una seconda categoria di situazioni è quella caratterizzata dalla compresenza di fattori di rischio e
di fattori protettivi.
Possiamo esemplificare una situazione di questo tipo pensando a una famiglia attraversata da
difficoltà economica, con una madre giovane in attesa del secondo figlio e incapace di far fronte
all’esigenza del primogenito, molto irrequieto e con un temperamento difficile.
Il supporto che riceve dalla propria madre riesce solo in parte a consentirle di far fronte a una
situazioni di stress con il partner.
In questo caso il fattore protettivo non è da solo sufficiente a ridurre l’impatto delle altre
condizioni esistenziali e relazionali negative che gravano sulla coppia e deve quindi essere
rafforzato dagli interventi dei servizi.
Tra gli interventi che ricordiamo, uno dei più noti é l’Early Intervention Programme (EIP), un
intervento di home visiting che prevede incontri per i genitori prima della nascita del bambino,
corsi di baby massage rivolti alle coppie madre-bambino per insegnare le principali tecniche di
rilassamento dei bambini.
Ci sono poi altri interventi che includono il sostegno economico, l’educazione dei genitori, la
costruzione di una rete sociale e il coinvolgimento della comunità in cui le famiglie a rischio
vivono.
L’efficacia degli interventi si traduce in una riduzione delle ospedalizzazioni, degli incidenti
domestici, dell’esposizione a eventuali maltrattamenti e trascuratezza.
Secondo alcuni dati, a certe condizioni la presenza di operatori con funzioni di home visiting
contribuisce ad aumentare le capacità dei genitori e questo permette di evitare il rischio che si
manifesti la violenza, in altri casi contribuisce all’individuazione precoce della violenza e alla sua
segnalazione.
Non sempre comunque la crisi familiare consente di sviluppare, tra genitori e operatori, un
rapporto di fiducia, caratterizzato da una richiesta spontanea d’aiuto all’interno di un contratto
chiaro.
Va sottolineata l’importanza di mantenere un forte ancoraggio alla dimensione temporale-
processuale, anche per evitare forme eccessive di coinvolgimento e implicazioni emotive.
Si tratta quindi di impegnarsi a trasmettere agli utenti questo enorme sforzo di fiducia e di
aspettative molto elevate nei loro confronti, motivato dalla convinzione che il benessere futuro
dei loro figli o la riduzione del malessere e danno siano possibili solo se coniugati con un pari
impegno da parte loro.
Valorizzare i fattori protettivi e fornire supporti per innescare le risorse presenti non significa
negare l’effettiva presenza di elementi negativi.
3.3.Prevalenza di fattori di rischio: protezione e tutela del bambino, valutazione della famiglia
Infine una terza categoria di situazioni è caratterizzata da assenza, o ridotta presenza, di fattori
protettivi che non riescono a compensare quelli di rischio distali o prossimali.

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Siamo qui in presenza di genitori in crisi fino al punto da determinare condizioni di pregiudizio per
lo sviluppo del bambino.
L’attenzione degli operatori si orienta qui alla valutazione dei segnali di danno, di benessere o
malessere psicologico del bambino, alle differenze nel modo in cui ciascun genitore prospetta la
situazione e alle modalità di parenting, per individuare con precisione gli elementi su cui far leva
nella progettazione dell’intervento.
Il servizio dovrà quindi provvedere alla protezione del bambino.
Tutela e protezioni attuate attraverso provvedimenti di allontanamento dalla famiglia d’origine
vanno intesi nella salvaguardia del diritto del bambino ad essere psicologicamente aiutato non
solo in chiave di sostegno e aiuto ma anche nell’elaborazione del suo rapporto con i genitori e con
le esperienze negative in cui è stato coinvolto.
Non è quindi né sufficiente né adeguato un intervento di semplice protezione fisica se non si
accompagna all’approfondimento delle dinamiche personali e delle reazioni emotive sulle
caratteristiche dei legami familiari.
L’intervento ha anche lo scopo di verificare la suscettibilità della famiglia o dei genitori al
cambiamento, affinché il bambino stesso, laddove sia possibile, possa ristabilire relazioni
soddisfacenti con la propria famiglia d’origine o con uno dei genitori.
Due principali domini hanno un alto potenziale produttivo: da un lato la percezione interna di
controllo e dall’altra la propensione alla socializzazione.
I bambini che affrontano i compiti scolastici o le relazioni sociali ritenendo che i successi o i
fallimenti dipendano dalle loro azioni e da ciò che essi fanno o non fanno (controllo interno)
sviluppano una percezione di autoefficacia che li protegge da esiti depressivi e li aiuta a far fronte
allo stress meglio dei bambini che attribuiscono a fattori esterni (controllo esterno) le ragioni degli
eventi o dei fallimenti.
Il secondo dominio che favorisce la resilienza nei bambini maltrattati è la presenza di relazioni
amicali stabili e positive che aumentano il senso di sicurezza e di benessere, permettono di
sperimentare l’accettazione del gruppo dei pari e consentono di migliorare quelle abilità sociali
che le famiglie maltrattanti raramente si preoccupano di favorire.
L’intervento di protezione del bambino contribuisce a rendere intelligibili per il bambino eventi
altrimenti ineluttabili, a rafforzarlo psicologicamente, a restituirgli la percezione di poter
controllare se stesso e le proprie azioni.
4.Conclusioni
Nella definizione della “Consultation on Child Abuse and Prevention” della Who, ripresa nel
rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Who, 2002), la violenza all’infanzia assume
una connotazione estensiva, nella quale sono comprese: “tutte le forme di cattiva salute fisica e/o
emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale o altro che
comportano un pregiudizio reale o potenziale per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza,
per il suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità,
fiducia o potere”.
Occorre quindi riportare l’attenzione sia sulle dinamiche familiari e sulle caratteristiche dei sistemi
umani nelle loro articolate, caotiche o disarmoniche interazioni sia sul fenomeno della resilienza e
dei processi protettivi, per cogliere appieno i diversi e sottili nodi critici da cui si avviano traiettorie
di adattamento o di maladattamento.
Occorre anche prefigurare interventi e progettualità integrate, sensibili alla fase evolutiva della
famiglia, in modo che il sostegno e l’aiuto non cadano nel baratro di dinamiche ormai
irrecuperabili, o al contrario per evitare che interventi forti di tutela e allontanamento dei minori
colpiscano nuclei che, se opportunamente aiutati, avrebbero potuto dispiegare risorse autonome
o cogliere opportunità impreviste.

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Capitolo 2: Parenting: definizione, modelli e caratteristiche culturali


Che cosa si intende con parenting?
Le numerose ricerche in questo campo hanno cercato di fornire una definizione unitaria del
concetto di parenting, arrivando a concepirlo come la capacità di un genitore di soddisfare i
bisogni fondamentali del proprio figlio, da un punto di vista fisico e psicologico.
Il “parenting” viene concettualizzato come un insieme di comportamenti genitoriali specifici che
operano da soli o in sincronia nella definizione dei comportamenti infantili.
Il parenting viene generalmente ancora a due elementi: la capacità del genitore di rispondere ai
bisogni del proprio figlio e la capacità di porre dei limiti.
La responsività viene definita come il limite a cui i genitori arrivano nel promuovere
intenzionalmente l’individualità del bambino, la sua autoregolazione e affermazione attraverso
l’adattamento, il supporto e l’acquiescenza nei confronti dei bisogni e delle richieste del bambino.
La capacità di porre dei limiti viene definita come le richieste che i genitori fanno ai bambini
affinché essi diventino parte integrante della famiglia e che si concretizzano in richieste di
maturità, controllo, sforzi disciplinari e volontà.
Bornstein definisce il parenting come la capacità di prendersi cura del figlio: esso investe non solo
l’ambito fisico e i bisogni corporei, ma anche le necessità affettive, di relazione e di socializzazione.
Tale competenza si articola per l’autore in 4 livelli: il nurturant caregiving, il material caregiving, il
social caregiving e il didactic caregiving.
1. Nurturant caregiving: comprende accoglimento e comprensione delle esigenze fisiche de
bambino, quali l’alimentazione, il sonno, la pulizia.
2. Material caregiving: riguarda le modalità con cui i genitori preparano, organizzano e
strutturano il mondo fisico del bambino, ad esempio gli adulti sono responsabili delle
stimolazioni cui il figlio è sottoposto.
3. Social caregiving: include tutti i comportamenti che i genitori attuano nel coinvolgere
emotivamente i bambini in scambi interpersonali, siano essi visivi, verbali, affettivi e fisici; i
genitori attraverso la negoziazione, l’ascolto e la vicinanza emotiva possono valorizzare i
propri figli, farli sentire accettati.
4. Didactic caregiving: si riferisce alle strategie che i genitori usano per stimolare il figlio a
comprendere il proprio ambiente, essi sono chiamati a fare da mediatori e interpretare al
bambino ciò che avviene nel mondo esterno, insegnando come affrontare le situazioni
oppure fornendogli l’opportunità di osservare e imparare.
Altri autori hanno proposto di suddividere il concetto di parenting in due dimensioni: la pratica e lo
stile genitoriale.
La pratica viene definita come un insieme di comportamenti che puntano a risultati specifici, che si
realizzano all’interno di contesti definiti e che possono assumere svariati significati all’interno di
gruppi culturali differenti.
Lo stile genitoriale è invece connesso a una serie di comportamenti che si verificano in un’ampia
gamma di situazioni, dando così origine all’atmosfera nella quale si sviluppa la relazione genitore-
bambino.
2.Stili educativi dei genitori
L’attenzione dei primi studi si era focalizzata nell’individuare una sorta di stile ideale, la tipologia
del “buon genitore”, in grado di favorire uno sviluppo sano e adeguato delle competenze infantili.
Veniva inoltre messa in evidenza l’importanza dell’interconnessione tra comportamento
genitoriale e specifiche caratteristiche del bambino per consentire l’instaurarsi di relazioni
caratterizzate da scambi e reciproche influenze, in una circolarità causa-effetto.
La classificazione degli stili educativi più conosciuta e utilizzata è quella proposta da Baumrind
(1971) la quale ha individuato quattro dimensioni del comportamento genitoriale:

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il controllo sull’attività dei figli, la sollecitudine nei loro confronti, la chiarezza comunicativa e la
richiesta di comportamenti adulti.
Da ciò ha poi individuato tre stili genitoriali: autoritario, permissivo e autorevole.
I genitori che adottano stile autoritario sono caratterizzati da una continua ricerca di affermazione
del proprio potere e da atteggiamenti distaccati nei confronti dei loro figli, sollecitano raramente
l’opinione del bambino, mostrando di rado piacere e sincero interesse per i risultati da lui ottenuti.
Tendono ad essere esigenti, a plasmare il comportamento del figlio, controllandolo e gestendo le
sue scelte attraverso il frequente ricorso a restrizioni e punizioni e pretendendo un’obbedienza
incondizionata.
Per questi genitori è molto importante il rispetto per l’autorità e una rigida disciplina: credono
fortemente nella gerarchia familiare, non stimolano la discussione e pretendono che il figlio si
conformi alle loro idee e alle loro credenze, ponendo confini severi per limitarne l’autonomia.
I bambini solitamente sono sgarbati, insolenti, dipendenti e socialmente incompetenti, in modo
particolare nei confronti dei coetanei.
Raramente prendono iniziative, mancano di curiosità e spontaneità, mostrando inoltre bassi livelli
di autostima che deriva dalla sofferenza per la freddezza e il poco affetto dei genitori nei loro
confronti.
Sono obbedienti rispetto all’adulto per paura delle punizioni, ma in assenza dei genitori tendono a
oltrepassare ogni limite a causa della mancata interiorizzazione delle regole.
Invece i genitori caratterizzati da uno stile permissivo hanno la tendenza a essere eccessivamente
accentanti e non punitivi verso i loro figli, li consultano ogni qualvolta devono prendere una
decisione, non pongono alcuna richiesta, né limiti o controlli, ma li lasciano soli nello stabilire le
norme di comportamento.
A ciò si associano alti livelli di calore affettivo e vicinanza emotiva.
Si considerano come una risorsa che il bambino può usare e non come agenti attivi e responsabili
della correzione del suo comportamento.
Il basso grado di controllo può avere diversi significati a seconda che derivi da atteggiamenti
responsivi o da rifiuto e ostilità.
Nel primo caso, l’eccessiva indulgenza da parte degli adulti può derivare da una scelta ideologica
dei genitori, i quali ritengono che il figlio debba fare le proprie esperienze senza un attivo sostegno
da parte dell’adulto, o dalla loro incapacità di esercitare un adeguato controllo su bambini
particolarmente difficili.
Quando invece i genitori permissivi sono freddi, distaccati, poco empatici e ostili, il quadro diviene
ancora più negativo.
I bambini di genitori permissivi sono spesso privi di obiettivi, poco assertivi, aggressivi e
irresponsabili.
Mostrano immaturità, difficoltà a controllare gli impulsi, ad accettare le responsabilità delle loro
azioni, hanno scarsa autostima e fiducia in se stessi e sono poco motivati nel raggiungere i loro
obiettivi.
Infine, i genitori che adottano uno stile autorevole cercano di guidare le attività e i comportamenti
del figlio, incoraggiando la comunicazione e il dialogo e considerando fondamentale l’espressione
di maturità e di indipendenza.
Il genitore evita di usare punizioni e minacce, impiegando il ragionamento come strumento per far
migliorare il proprio bambino.
È quindi un genitore che esercita la propria autorità sul figlio, senza prevaricarne i diritti e allo
stesso tempo mostrando un adeguato calore affettivo.
Questi genitori sostengono comportamenti socialmente competenti e incoraggiano i loro figli
verso nuovi obiettivi, aiutandoli correttamente nel loro cammino.

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Essi non ricercano la perfezione nei figli, ma li accettano e li accolgono con i loro limiti, le loro
difficoltà e le loro paure, offrendo un adeguato supporto alla loro crescita.
I bambini di genitori autorevoli risultano più competenti e tendono a essere più fiduciosi nelle loro
possibilità.
Questi bambini sperimentano elevati livelli di autostima, non si arrendono di fronte alle difficoltà
ma si impegnano profondamente per raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati e nei quali
credono, si sentono liberi di esprimere pensieri e opinioni.
Oltre alle importanti considerazioni di Baumrind anche il successivo di lavoro di Maccoby e Martin
(1983) è stato finalizzato all’individuazione e alla descrizione di quattro stili educativi a partire
dalla combinazione di due dimensioni fondamentali: accettazione/ostilità e permissività/severità.
La prima dimensione si sviluppa lungo un continuum all’interno del quale i genitori si differenziano
in base al calore affettivo che mostrano nei confronti del figlio: avremo quindi genitori accettanti,
solleciti e orientati verso il figlio e all’estremo opposto genitori ostili, rifiutanti, non responsivi e
centrati su se stessi.
La seconda dimensione descrive il comportamento educativo su un continuum
permessività/severità e differenzia tra genitori esigenti, direttivi e controllanti e genitori
permissivi, non esigenti e scarsamente controllanti nei confronti del figlio.
Dall’incrocio tra le diverse polarità vengono individuati quattro stili educativi, tre dei quali
coincidono con la classificazione della Baumrind mentre la quarta introduce una modalità nuova
definita stile trascurante e di rifiuto che si contraddistingue per una condotta disimpegnata del
genitore, in relazione sia alla dimensione del calore affettivo sia a quella della
permessività/severità.
I genitori non controllano le attività del bambino, non sono di sostegno e tendono a fornire pochi
strumenti di comprensione del mondo e delle regole sociali fondamentali per viverci.
Inoltre non promuovono lo sviluppo dei propri figli dal momento che non sono in grado di fornire
regole sensate e criteri realistici di interazione con gli altri, portandoli a manifestare una notevole
maturità sia nella sfera cognitiva sia in quella sociale.
Hoffmann descrive le diverse modalità di costrizione (fisica o psicologica) e di persuasione
(razionale o emotiva) che i genitori usano nell’interazione con i figli.
L’autore individua uno stile educativo costrittivo basato sul potere fisico, sulle punizioni, sulle
privazioni materiali di oggetti cari al bambino come giocattoli e sulle proibizioni di svolgere attività
piacevoli come uscire a giocare o incontrare i compagni.
Queste posizioni possono essere definite di tipo espiatorio: i genitori controllano il bambino
attraverso la loro autorità, il potere, la forza e la superiorità fisica.
Questo stile è quello che arreca al bambino i maggiori svantaggi: il dialogo è completamente
ignorato, i genitori non forniscono spiegazioni e spunti di riflessione, impedendo così al bambino
di attuare strategie comportamentali alternative e ostacolando il passaggio dall’eteronomia
all’autonomia morale, condizione quest’ultima in cui l’obbedienza ai principi non deriva più dal
rispetto dell’autorità, ma dalle aspettative e dal benessere degli altri.
Una seconda tipologia di relazione affettiva caratterizza i genitori che usano con i figli uno stile
educativo anch’esso costrittivo, ma basato sulla sottrazione dell’affetto.
Questa modalità si esprime nella privazione della stima, dell’attenzione, e sulla propensione ad
ignorare i tentativi del bambino di riconciliazione, sul distanziamento affettivo quando il bambino
è ansioso e in cerca di sostegno, sull’uso di espressioni che segnalano sentimenti di rifiuto e di
abbandono (“se fai così non ti voglio più bene”).
Anche questo stile ha un impatto negativo: può agire in profondità scatenando paure di
abbandono e di separazione, soprattutto se il bambino è piccolo e quindi meno capace di
comprendere che la punizione ha una durata limitata nel tempo.

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Il bambino tenderà a reprimere i sentimenti di ostilità verso gli adulti, confessare le sue colpe e a
cercare l’approvazione del genitore.
Un terzo stile educativo, certamente più positivo e vantaggioso è quello definito induttivo, perché
è basato su ragionamenti e sul dialogo persuasivo di tipo razionale.
L’adulto si rivolge alla razionalità del bambino, lo stimola a riflettere, lo spinge a comprendere le
motivazioni che l’hanno portato a mettere in atto un certo tipo di comportamento e ad
assumersene progressivamente le responsabilità.
Viene declinato poi da Hoffman il quarto stile fondato sul dialogo persuasivo di tipo empatico-
emotivo e sulla trasmissione di informazioni che consentono di capire i sentimenti degli altri e che
aiutano a riflettere sulle conseguenze del comportamento.
Tutte queste descrizioni si collocano lungo un continuum che individua modalità di allevamento
considerate maggiormente in grado di favorire uno sviluppo sano del bambino a modalità che
invece non lo permettono.
Un limite in questa classificazione consiste nel fatto che è stata presa come riferimento la
popolazione bianca americana, senza tenere in considerazione i valori e le credenze di riferimento
di altri gruppi culturali.
3.Parenting e cultura
Certamente uno dei compito più impegnativi che i genitori immigrati devono affrontare consiste
nella necessità di integrare le norme e i valori della cultura d’origine con quelli della cultura
dominante.
L’immigrazione si riferisce alla mobilità in termini di trasferimento in altri luoghi, mentre
l’acculturazione richiede l’adattamento psicosociale a un diverso ambiente culturale.
L’acculturazione è caratterizzata dalla necessità, per il nucleo familiare, di ridefinirsi, di instaurare
nuovi legami interpersonali significativi e di rielaborare la perdita di quelli lasciati nel proprio
paese d’origine.
L’acculturazione e l’adattamento a una nuova cultura possono includere molti livelli: la gioia
iniziale, il sollievo e l’idealizzazione della nuova cultura, la disillusione associata con
l’aggiustamenti e l’accettazione graduale degli aspetti positivi e negativi della nuova cultura.
Arredondo-Down sottolinea come tale processo sia influenzato da diversi fattori, tra cui il tipo di
esperienza migratoria, la motivazione o la facilità ad assimilare i valori della cultura dominante, la
nostalgia per la terra di origine, la frequenza nei contatti con persone della propria nazione e il
tempo di permanenza nella cultura ospitante.
Il livello di acculturazione può essere definito attraverso un continuum che va da un saldo
ancoramento ai valori della cultura originaria a un totale adeguamento alla nuova cultura
dominante.
Super e Harkness hanno elaborato il concetto di “nicchia di sviluppo” concettualizzato in tre
componenti: il contesto fisico e sociale della vita del bambino, le abitudini e le pratiche regolate
dalla cultura della cura e dell’educazione dei bambini, la psicologia del caretaker.
Super e Harkness affermano che questi tre sottosistemi condividono la funzione comune di
mediare l’esperienza di sviluppo individuale con il più ampio sistema culturale.
Le regolarità dei sottosistemi forniscono materiale da cui il bambino desume regole sociali,
affettive e cognitive della cultura.
Le tre componenti della nicchia di sviluppo formano il contesto culturale dello sviluppo del
bambino.
Ritts descrive come le pratiche d’allevamento delle famiglie cinesi siano caratterizzate da un
elevato controllo genitoriale, da una disciplina rigida, dal rispetto per i più anziani e per le
tradizioni e dal mantenimento dell’armonia, mentre le famiglie giapponesi, in cui bambini sono
considerati estensioni delle madri, vediamo come il valore che più di ogni altro viene veicolato è

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quello dell’interdipendenza che si concretizza nel dormire insieme o fare il bagno insieme, ciò
permette la continua vicinanza fisica della madre al bambino.
Un’altra caratteristica dei genitori giapponesi è quella di proteggere il bambino da ogni forma di
stress.
Nella cultura indiana invece c’è una rigida struttura gerarchica che porta i genitori a insegnare ai
figli l’obbedienza per l’autorità e una rigida disciplina, vengono usate anche delle punizioni fisiche
per disciplinare.
I genitori arabi di religione mussulmana hanno una concezione gerarchica della struttura familiare,
in cui sono ben definiti i generi maschili e femminili: i maschi sono educati per poter esprimere la
loro aggressività, mentre le femmine sono educate alla passività.
Uno studio molto importante si sofferma nell’analizzare le differenze esistenti tra culture orientali
e culture occidentali.
In particolare le ricerche condotte da Hess hanno indagato come le diverse credenze delle mamme
giapponesi e di di quelle americane fossero connesse con la peculiarità della propria cultura di
appartenenza.
In Giappone c’è un forte senso di comunità e di gruppo, mentre negli Stati Uniti è molto più
importante l’individualità e l’indipendenza.
Sono stati somministrati a mamme americane e giapponesi una serie di quesiti sulle competenze
verbali, sulla maturità emotiva e sulle competenze sociali dei figli con ulteriore richiesta di indicare
se i bambini dovessero possedere queste competenze prima dei quattro anni, tra i quattro e i sei o
dopo i sei anni.
Le mamme giapponesi si aspettavano che i loro bambini fossero emotivamente maturi a un’età
inferiore rispetto alle mamme americane.
Le mamme americano incoraggiano maggiormente i loro bambini a giocare con gli oggetti, mentre
quelle giapponesi incoraggiano il gioco diadico o sociale.
Ci sono quindi due modalità di socializzazione contrapposte: una di tipo indipendente (quella
americana) e una di tipo interdipendente (quella giapponese).
Lo studio di Lin e Fu ha cercato di cogliere differenze tra culture occidentali e orientali attraverso il
confronto tra modalità educative dei genitori americani e dei genitori cinesi.
Gli autori hanno messo a confronto le modalità di allevamento dei bambini in famiglie cinesi, in
quelle cinesi immigrate in America e nelle famiglie bianco-americane.
I genitori cinesi, immigrati e non immigrati, ponevano un’enfasi più elevata sul controllo e sulle
strategie per promuovere un alto rendimento nei bambini rispetto a quelle bianco-americane.
Le madri cinesi presentano un maggior controllo rispetto alle madri cinesi immigrate.
Diversi autori hanno indagato come le pratiche di allevamento di quattro gruppi di genitori
immigrati (cambogiani, filippini, messicani e vietnamiti) e quelle di due gruppi di genitori nati e
cresciuti negli Stati Uniti incidessero sulle pratiche di allevamento.
I risultati hanno mostrato che i genitori nati negli Stati Uniti stimolano nei figli comportamenti di
indipendenza più che di conformismo.
I genitori immigrati considerano il conformismo un atteggiamento positivo, da trasmettere ai loro
figli poiché coincide con la capacità di adattarsi alla nuova cultura.
Uno dei pochi lavori che ha confrontato le modalità di parenting proprie di una specifica cultura
europea tedesca con quelle di un gruppo culturale differente (camerunense del gruppo NSO) è
quello di Kaller da cui è emerso che le madri interagivano con il proprio bambino mettendo in atto
comportamenti molto diversi in relazione alla propria appartenenza culturale.
Le madri tedesche consideravano il proprio bambino come un partner con caratteristiche e
competenze simili all’adulto, mentre le madri camerunesi considerano i bimbi come apprendisti,
prospettiva coerente con un modello di interdipendenza.

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L’autrice ha mostrato alle mamme i filmati che aveva videoregistrato a proposito delle interazioni
delle mamme tedesche e NSO con i loro bambini, e ha chiesto loro di commentare quello che
ritenevo importante, dannoso, carente nella modalità di parenting delle mamme appartenenti alla
propria o all’altrui cultura.
Da ciò è emerso che le mamme tedesche consideravano troppo energico il modo in cui in cui le
mamme NSO toccavano e scuotevano i bambini.
Le mamme NSO manifestavano riserve sulla mancanza di vicinanza fisica delle madri tedesche ai
loro bambini.
Da queste ricerche è emerso che le famiglie che si trovano a vivere in contesti culturalmente
differenti dal proprio sono chiamate a dover integrare le proprie modalità di parenting con quelle
della nuova cultura, integrazione non facile.
4.Valutazione delle competenze genitoriali
Esistono diverse classificazioni di parenting, ognuna delle quali tenta di delineare un continuum
che oscilla tra modalità di allevamento idonee a modalità non idonee.
Reder e Lucey, sulla valutazione delle competenze genitoriali, propongono di indagare innanzitutto
l’adattamento del genitore al proprio ruolo, il tipo di relazione instaurata con il bambino, le
influenze della famiglia, le interazioni con la comunità e le potenzialità di cambiamento.
Anche Browne individua, tra le aree da indagare nell’approfondimento delle capacità genitoriali, le
conoscenze e gli atteggiamenti che il genitore ha sul proprio figlio e sulle modalità più adeguate di
prendersene cura, il modo in cui genitore vede e considera alcuni comportamenti e atteggiamenti
del bambino, la capacità di gestione dello stress, le modalità di interazione genitore-figlio e il tipo
di legame di attaccamento presente nel bambino.
Azar, Lauretti e Loding, partendo da un modello di parenting di stampo cognitivo-
comportamentista, suggeriscono di analizzare cinque aree funzionali: la capacità del genitore di
assolvere il proprio ruolo, le sue competenze cognitive relazionali, la sua capacità di autocontrollo,
la sua capacità di gestione dello stress e infine le sue competenze sociali.
Budd elabora un modello di valutazione basato su tre aree:
1. la modalità di parenting, che si concretizza nel tipo di funzionamento genitoriale e nella
qualità della relazione genitore-bambino,
2. le competenze funzionali usate dal genitore nel modo di fornire quotidianamente cura e
supporto,
3. il minimo necessario a garantire la sicurezza al bambino.
Quest’ultima area è però considerata problematica dal momento che non si è ancora giunti alla
definizione di standard universali minimi delle funzioni genitoriali.
Numerose ricerche hanno infatti sottolineato la presenza di differenze sostanziali nelle credenze e
nelle pratiche genitoriali connesse con lo status socioeconomico, l’etnia e la religione.
Per questo motivo è importante cercare di comprendere quegli atteggiamenti, valori e pratiche di
allevamento che un determinato gruppo culturale considera importanti, senza però ricorrere
ipergeneralizzazioni che facciano perdere di vista i bisogni in cui si trova uno specifico nucleo
familiare.
Il compito degli operatori che devono valutare l’adeguatezza genitoriale è quello della
comprensione della capacità dei genitori di soddisfare i bisogni fondamentali del proprio bambino,
da un punto di vista sia fisico sia psicologico.
Questo lavoro è ancora più difficoltoso quando si è chiamati a valutare genitori stranieri, dal
momento che è necessario prestare attenzione ai valori, alle credenze e alle pratiche di
allevamento della loro cultura di appartenenza, integrandoli con le tradizioni e i modelli
interpretativi del reale ambiente di vita.

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CAPITOLO 3 – VIOLENZA ALL’INFANZIA E CAPACITÀ GENITORIALI


se si fa riferimento ad una prospettiva dinamica che tine e conto dei cambiamenti della famiglia nel suo
ciclo di vita appare interessante chiedersi cosa succede quando nuclei famigliari attraversati pesantemente
da dinamiche maltrattanti e abusanti vengono poste di fronte alla necessita che i propri genitori cambino
per poter riallacciare i rapporti con il proprio bambino. Non tutti reagiscono allo stesso modo.
Il lavoro che occorre fare è individuare i fattori che contribuiscono a sostenere un processo evolutivo
positivo che permette di ripristinare le relazioni tra genitori e figli e i fattori che invece ostacolano questo
processo.
La distinzione tra diverse forme di violenza è solo un’astrazione perché spesso la segnalazione di un certo
tipo di violenza è accompagnata da una compresenza di maltrattamenti diversi. In molto nuclei
maltrattanti ad esempio, forme di trascuratezza sono accompagnate da maltrattamento psicologico.
Inoltre è noto ormai come forme di abuso sessuale implicano già di per sé forme di maltrattamento
psicologico. Le storie e le dinamiche famigliari ci fanno vedere inoltre intravedere una progressione, un
aggravamento ed un moltiplicarsi dei maltrattamenti nel tempo, suggerendoci una processualità che inizia
con difficoltà coniugali, violenza domestica che via via inducono cronicità e aggravamento della crisi che si
estende ai figli.

UNO SGUARDO ALLE FAMIGLIE MALTRATTANTI: FATTORI DI RISCHIO COMUNI A TUTTE LE FORME DI
VIOLENZA
È utile identificare una serie di fattori che in modi diversi con tempi ed effetti differenti permettano di
definire situazioni di rischio di violenza all’infanzia.
Ethier e colleghi ritengono utile assumere una prospettiva che individua molteplici fattori di rischio
raggruppandoli in 3 gruppi:
- Fattori individuali  esperienze di violenza subite nell’infanzia, alti livelli di stress, depressione
materna, scarsa istruzione, basso QI
- Fattori famigliari  povertà ( non solo intesa come basso reddito, ma mancanza di risorse
personali), elevato numero di figli, monogenitorialità, partner violento
- Fattori ambientali  isolamento, scarso sostegno sociale
In particolare la giovane età della madre è un fattore di rischio persoanle legato alla povertà intesa come
mancanza di risorse. . Essa rappresenta un fattore di rischio per diversi motivi: è alta l’incidenza di nati
prematuri, spesso affetti da disturbi mentali e neurologici. Inoltre nelle famiglie premature il rapporto
genitore-figlio può essere pregiugicato già in partenza.
I conflitti e la violenza domistica sono altri fattori di rischio connessi a tutte le forme di violenza. Secondo
Russo i bambini vissuti in ambienti violenti hanno la propensione a perpetuare il modello famigliare della
sopraffazione in cui la violenza sembra essere l’unica risposta possibile.

Fattori di rischio nei casi di maltrattamento fisico


Black individua variabili distali e variabili prossimali.
- Variabili distali essere stati maltrattati da piccoli, aver ricevuto uno scarso supporto sociale e
famigliare durante l’infanzia, giovane età della madre, problemi di alcolismo per il padre, vivere in
comunità povere.
- Variabili prossimali disforia, stress famigliari, scarsa capacità di coping
- Caratteristiche delle vittime problemi di comportamento nel bambino, presenza di deficit
attentivi
Alcuni autori hanno messo a punto una checklist dei fattori di rischio tra cui spiccano caratteristiche
genitoriali come un’educazione ricevuta eccessivamente rigida, eventi stressanti verificatisi nell’ultimo
anno, disoccupazione o lavoro instabile del padre, problemi mentali, relazioni coniugali insoddisfacenti.

Fattori di rischio nei casi di trascuratezza


Nonostante la trascuratezza sia la forma prevalente di violenza negli Stati Uniti, essa ha ricevuto poca
attenzione da parte dei ricercatori. La trascuratezza è la forma di violenza più soggetta a recidiva.
I dati a disposizione ci dicono che le variabili più significative in relazione alla trascuratezza sono le
caratteristiche psicologiche dei genitori e le limitate risorse economiche: tra le variabili psicologiche

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genitoriali si trovano bassa autostima, impulsività. Queste vengono accompagnate da scarso supporto
sociale scarse interazioni tra le madri e i propri bambini e caratteristiche comportamentali dei bambini tra
cui problemi comportamentali.
Altri fattori di rischio importanti sono: monogenitorialità, vivere in case popolari, non poter usufruire di una
buona assistenza medica, disoccupazione del capofamiglia.
Spesso la trascuratezza si accompagna ad altre forme di violenza.
Esistono diverse forme di trascuratezza: fisica, emozionale, medico-sanitaria ed educativa. È difficile
individuare fattori di rischio comuni alle diverse forme di trascuratezza.
Ethier ha condotto una meta-analisi da cui sono risultati significativi i seguenti fattori di rischio: basso
reddito famigliare, monogenitorialità, violenza domestica, giovane età della madre, precedenti esperienze
di violenza, basso livello di scolarità, complicazioni prenatali, abuso di sostanze, problemi mentali , elevati
livelli di depressione e stress.

Fattori di rischio nei casi di maltrattamento psicologico


Vi è innanzitutto un problema di definizione. Il maltrattamento psicologico è difficile da individuare e
quantificare. Questo è un problema che accomuna tutte le ricerche in merito. Nonostante la letteratura
non sia così ricca e sviluppata, gli autori individuano diversi fattori:
- Variabili sociodemografiche il rischio di abuso psicologico aumenta all’aumentare dell’età del
bambino. Le famiglie più a rischio sono quelle a basso reddito, dove il bambino appartiene a etnie
diverse da quella dominante
- Caratteristiche del bambino aggressività, delinquenza infantile, problemi relazionali
- Caratteristiche genitoriali  comportamenti aggressivi e violenti, nevrosi aver vissuto con padri
poco accudenti ed essere stati sgridati tanto da piccoli. in una ricerca le madri abusanti del
campione mostrano sintomi distimici, nevrotici, aggressività, ostilità, ansia, bassa autostima, scarso
coinvolgimento sociale, bassi punteggi nel ragionamento verbale, malattie nell’anno precedente.
Rispetto alle proprie famiglie d’origine rivelano scarso accudimento ricevuto, controllo eccessivo
privo di affetto
- Caratteristiche delle relazioni famigliari scarsa affettività, conflittualità nelle relazioni.
Quindi in generale appare che variabili distali storiche, fattori di personalità, stress ambientali, e variabili
prossimali siano tutte in relazione con il maltrattamento psicologico e siano una base da cui partire per
risolvere i problemi di definizione e costruire modelli di prevenzione specifici.

Fattori di rischio nei casi di abuso sessuale


L’identificazione dei fattori di rischio in questo ambito si concentra sulle caratteristiche dei minori vittime,
delle famiglie e dei possibili abusanti sessuali.
In particolare è stato visto che i giovani adulti maschi possono essere a rischio di perpetrare violenza
sessuale a condizione che siano cresciuti in ambienti famigliari ostili in cui hanno assistito a violenze tra i
genitori, o che hanno sperimentato violenza fisica e sessuale.
I fattori di rischio inerenti ai perpetratori sono:
- scarsa istruzione e povertà
- problemi emotivi e sessuali
- incapacità di reggere lo stress, rigidità, solitudine, infelicità.
Interessante il concetto di protostoria del soggetto abusante  egli ha nel suo pregresso una situazione
originaria di gravi carenze accuditive che hanno prodotto vissuti abbandonici e sentimenti di mancanza. Ciò
esita in un bisogno di ricevere ciò che è mancato.
Non sono le vittime a provocare la loro vittimizzazione, ma alcune caratteristiche del bambino sono
associate ad un aumento del rischio di subire violenza:
- età del bambino  per alcuni il rischio maggiore è nella fascia 6-11 per abusi intrafamigliari e nella
fascia 12-17 per abusi extrafamigliari. In altri casi è emerso che il rischio maggiore si corre al di
sotto del 12 anni ma lavori successivi hanno messo in luce come i soggetti maggiormente a rischio
siano i teenagers
- genere in particolare femmine, nere che vivono in comunità pericolose il rischio è elevato
- bassi livelli di intelligenza, problemi comportamentali, ri-vittimizzazione,

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i genitori con una storia di vittimizzazione alle spalle hanno molte probabilità di esercitare a loro volte la
vittimizzazione sui propri figli. La vittimizzazione dei genitori è risultata la variabile più predittiva accanto
poi a variabili diverse a seconda dell’età in cui vengono subiti gli abusi: isolamento sociale e il rimanere
orfani di madre per quanto riguarda le violenze subite sotto i 12 anni, mentre l’abuso fisico e la presenza di
una patologi amentale della madre quando gli abusi vengono subiti dopo i 12 anni.

LE FAMIGLIE ABUSANTI: CAPACITÀ GENITORIALE E FUNZIONAMENTO FAMIGLIARE


Gli autori osservano che la struttura delle famiglie abusanti sia molto complessa, instabile, irregolare e
soggetta a continui cambiamenti. Tali nuclei sono caratterizzati da matrimoni precoci, divorzi,
monogenitorialità, e trasferimenti frequenti. Tutti questi cambiamenti esauriscono le risorse complicano la
vita del nucleo e non donano stabilità alla famiglia. Le relazioni coniugali sono caotiche e instabili. Anche le
relazioni con le figure esterne alla famiglia sono scarse o caratterizzate da astio o indifferenza.
I genitori fisicamente maltrattanti mostrano specifiche difficoltà e biases cognitivi che portano a
relazionarsi con i propri figli in maniera violenta. Essi si attendono che i propri figli si comportino in
maniera esclusivamente provocatoria e negativa e allo stesso tempo tendono a leggere in maniera negativa
il comportamento dei figli. Qualsiasi comportamento negativo del figlio viene letto come espressione di
un’attitudine, di caratteristiche di personalità negative e come frutto di una intenzionalità ostile che deve
essere punita. Nella relazione con il figlio si instaura una dinamica coercitiva che porterà poi a maltrattare i
figli.
I genitori che nella loro infanzia sono stati vittime di un’educazione violenta e, rigida, di rifiuto
svilupperanno sentimenti di insoddisfazione, delusione e ingiustizia. Tali sentimenti li renderanno
vulnerabili a reagire in modo violento.
I genitori trascuranti tendono a vivere relazioni molto attenuate, tendono a essere distanti, non responsivi,
indifferenti nei confronti dei figli di cui assumono il controllo solo occasionalmente e attraverso urla. Ne
deriva che i figli penseranno di avere genitori psicologicamente poco disponibili. Le famiglie trascuranti
appaiono carenti sul piano delle abilità di problem solving e di negoziazione che favoriscono l’emergere di
relazioni conflittuali. Inoltre si riscontrano difficoltà a esprimere le proprie emozioni, scarse capacità
empatiche e un tono depresso.
Le famiglie cronicamente abusanti sembrano avere un numero inferiore di risorse, sembrano
contrassegnate da alta conflittualità, da madri con problemi di salute fisica e mentale e aspettative
irrealistiche sui figli e scarse conoscenze sullo sviluppo infantile. Le famiglie con episodi di trascuratezza
limitati e circoscritti invece, sembrano avere difficoltà ad affrontare specifici eventi critici. Esse sembrano
caratterizzate da sentimenti di solitudine, incertezze e timori.
Le famiglie sessualmente abusanti sono caratterizzate da una mancanza di ruoli, povertà nella
comunicazione, scarsa capacità di risoluzione dei conflitti, isolamento sociale e perdite o esperienze
abbandoniche.

Dinamiche famigliari violente


Cirillo e Di Blasio identificano specifici “giochi famigliari” strettamente legati all’insorgenza di trascuratezza
e maltrattamento.
Dua categorie di situazioni:
1. nuclei con i bambini ancora piccoli in cui i genitori maltrattanti o trascuranti non sanno accudire i
figli.
In queste situazioni i genitori sono legati alle proprie famiglie di origine o al partner da vincoli
conflittuali e ambivalenti non risolti fino al punto in cui il maltrattamento o la trascuratezza
assumono un significato relazionale di appello teso a ottenere la mobilitazione dei propri congiunti.
L’incapacità genitoriale in questo caso è dovuta al fatto che il suo mondo interiore è totalmente
dominato da relazioni insoddisfacenti che gli impediscono di investire le proprie energie emotive
nel rapporto con il figlio. Spesso il destinatario dell’incapacità geniotirale come messaggio è la
famiglia d’origine del genitore inadeguato. In generale quando una madre esibisce la propria
incapacità sperando che il genitore si attivi, conta di ottenere una sorta di risarcimento per non
essere stata accudita adeguatamete durante l’infanzia. Questa strategia però è fallimentare perché
qualora la nonna si rifiutasse di accudire il nipote, la madre sarebbe sempre più frustrata e
trasferirebbe il suo rancore sul figlio. Nel caso invece in cui la nonna dovesse aiutarla, la madre si

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accorgerebbe però che quel risarcimento non la soddisfa in quanto il rapporto che si creerebbe tra
la nonna e il nipote tenderebbe ad escludere la madre facendola sentire ancora più ferita e
deprivata.
2. nuclei in cui il maltrattamento o la trascuratezza s esprimono sui figli più grandi e vedono l’attiva
partecipazione del maltrattato al mantenimento di questo gioco patogeno. In questa situazione
succede che in una relazione di coppia compromessa da conflitti, i figli ormai grandicelli iniziano a
prendere una posizione dalla parte di uno dei due genitori. I bambini tendono a esprimere una
preferenza per il genitore che mostra più interesse e attenzione. Questa propensione tende ad
essere accolta dal genitore che senza accorgersene favorisce la presa di posizione del figlio. Si può
parlare di ruolo attivo del figlio nella misura in cui il figlio non intenzionalmente incoraggia e
sollecita la rabbia e l’irritazione già latenti in uno o entrambi i genitori inasprendo i conflitti e
assumendo così la posizione di capro espiatorio. Leggendo superficialmente questa situazione si
potrebbe pensare che si tratta di famiglie in cui vi è un genitore violento verso il partner e la prole,
mentre l’altro genitore riesce a stabilire una buona relazione con il figlio. In realtà non è così perché
la relazione tra il figlio e il genitore non maltrattante non appare quasi mai autenticamente
protettiva, ma assume la forma di un relazione compensatoria e strumentale. Il bambino può non
accorgersene.
Bouchard suggerisce 4 tipologie di famiglie maltrattanti:
1. il bambino vittima assume la funzione ci capro espiatorio. Il bambino è vittima di denigrazione e
rifiuto, spesso possiede caratteristiche non desiderabili e non è voluto. La vittima viene esclusa dai
momenti di intimità e coesione famigliare e l’unita della coppia genitoriale viene preservata alle
spese del figlio.
2. La dinamica famigliare si struttura intorno alla figura paterna dominante intimidatoria e
intollerante. I figli subiscono minacce, denigrazioni e intimidazioni. Il padre-padrone perde spesso
la pazienza, esprime rabbia e violenza mentre la madre cerca di preservare la pace domestica. La
madre può sentirsi sovrastata dalla fatica e il figlio rischia di venire maltrattato fisicamente e
psicologicamente.
3. La dinamica famigliare si struttura intorno ad una madre autoritaria e rigida in cui i figli risultano
vittime di eccessiva durezza educativa, denigrazione e controllo. Le madre accentrano tutto il
potere su di sé e non accettano interferenze. Spesso il partner è assente e quando è presente
scompare sullo sfondo.
4. Genitori incompetenti creano un ambiente ostile e caotico. Il contesto è caratterizzato da una
inversione dei ruoli, alienazione e rifiuto e trascuratezza dei bisogni psicologici di base. I genitori
vivono situazioni psicologiche difficili o portano i segni di un difficile passato che ha compromesso il
loro equilibrio psicologico.
Groth individua due tipologie di nuclei famigliari abusanti:
1. Un marito si relaziona alla moglie considerandola come un individuo dipendente che deve
rispondere ai suoi bisogni emozionale anziché come un partner paritario. La moglie trascurata dopo
qualche tempo decide di intraprendere la strada verso l’autonomia ponendo una certa distanza tra
sé e il marito. A quel punto il marito deluso potrebbe rivolgersi alla figlia vedendola come una
partner sostitutiva della moglie sia da un punto di vista emozionale che poi anche sessuale.
2. Il marito occupa in famiglia un ruolo dominante di potere. La moglie potrebbe infastidirsi di questo
atteggiamento e non corrispondere ai bisogni emozionali del marito. Il marito a quel punto può
rivolgersi alla figlia e il suo narcisistico e patologico senso di diritto di legittimità potrebbe farlo
avvicinare alla figlia anche da un punto di vista sessuale.
In tutte queste situazioni si assiste al progressivo dissolvimento dei confini generazionali con la
conseguente attribuzione di un ruolo e di un potere genitoriale alla figlia nella totale indifferenza dei suoi
bisogni infantili.
Finkelhor parla di 4 precondizioni necessarie affinché si compia l’abuso sessuale :
1. Esistenza nell’abusante di blocchi evolutivi, spinta sessuale e incongruenza emotiva. L’abusante a
causa di situazioni traumatiche e delle gravi carenze accuditive sperimentate durante l’infanzia,
cerchi compenso nella ricerca di un partner debole con cui costruire un rapporto fusionale.
2. L’abuso di alcool o droghe, la presenza di psicosi e di un controllo inadeguato degli impulsi porta al
superamento delle inibizioni interne

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3. La presenza in famiglia di una madre assente, non empatica non protettiva dominata o dipendente
e l’isolamento sociale portano a superare le inibizioni esterne
4. L’utilizzo della coercizione, la presenza di un bambino insicuro e deprivato, un rapporto di fiducia e
di dipendenza del bambino nei confronti dell’abusante e una scarsa conoscenza dell’abuso sessuale
da parte del bambino permettono di superare le resistenze del bambino.
Attraverso la manipolazione affettiva, le lusinghe, le minacce la paura, la violenza il genitore costringe il
bambino a mantenere il segreto. Tale segreto finisce per diventare segreto per la famiglia che viene
custodito più o meno consapevolmente e per diversi motivi dai membri della famiglia. Tale segreto rende
impensabile che nella famiglia ci ossa essere un abuso e tale impensabilità costituisce parte della
dominanza psicologica dell’abusante sulla famiglia che modifica il contesto di apprendimento del bambino
rendendo normale e naturale l’abuso e disinnescando qualsiasi movimento reattivo che si attiverebbe alla
notizia di un abuso perpetrato in famiglia.
Per quanto riguarda le risorse invece va detto che una famiglia che di fronte all’intervento dei Servizi e del
Tribunale accetta la propria responsabilità e riconosce di avere determinato un danno al bambino, riesce a
utilizzare gli interventi psicologici e sociali proposti, a modificare il proprio funzionamento e renderlo
adeguato dopo il rientro dei figli a casa. Se la durata del maltrattamento non è superiore ad un anno, se
non è stato necessario procedere ad un iter penale, se almeno uno dei due genitori non ha avuto una
condotta violenta e ha avuto un rapporto buono con il figlio, ci sono i presupposti per un cambiamento
positivo. Il cambiamento può avvenire anche grazie all’intervento di operatori capaci di valutare la
situazione, interrompere le dinamiche negative e favorire l’attivazione di risorse individuali e famigliari
presenti.

CAPITOLO 4 – ASSISTERE ALLA VIOLENZA FAMIGLIARE: EFFETTI ED ESITI EVOLUTIVI


I bambini che assistono a conflitti famigliari aggressivi sono considerati vittime di maltrattamento sia
perché il comportamento violento è traumatizzante di per sé sia perché il genitore violento fallisce nel suo
compito protettivo non preservando il figlio dalla propria violenza. Le conseguenze sono molte e vanno a
colpire i bambini non soltanto in modo diretto ma anche in modo indiretto e sottile tramite la perdita delle
capacità di parenting delle madri vittime di violenza e la concomitante deformazione dei rapporti
famigliari. Gli stessi padri infatti pur mostrando interesse per i figli non sono comunque genitori adeguati e
responsabili. Gli autori differenziano i padri maltrattanti da quelli non maltrattanti secondo queste
variabili:
- Uso della autorità  i padri maltrattanti si aspettano obbedienza immediata e indiscussa faticando
ad accettare le critiche. Non riescono a modulare il livello di severità
- Disimpegno  i padri che maltrattano le proprie compagne risultano meno coinvolti nel processo
di crescita dei propri figli. I figli possono essere visti come una proprietà o in altri casi come un
fastidio o impedimento
- Delegittimazione della madre  maltrattare fisicamente e verbalmente la madre implica una
delegittimazione della figura genitoriale che lei rappresenta con al conseguenza che con il tempo i
figli potrebbero imitare il padre
- Autoreferenzialità  i padri maltrattanti tendono a considerare se stessi come il centro della
famiglia e faticano a modificare le proprie abitudini per accogliere i bisogni dei figli. È il padre che
si attende che i figli soddisfino i suoi bisogni
- Differenza tra comportamento privati e pubblico  spesso nelle situazioni sociali il padre appare
attento e affettuoso con i figli.
I bambini che vivono in contesti violenti non solo hanno paura per la propria incolumità ma risentono del
doloroso senso di impotenza e colpa per non poter fermare la rabbia e l’aggressività del padre. La violenza
assistita +è uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di condotte maltrattanti o abusanti nei
genitori o per l’insorgenza di comportamenti antisociali e delinquenziali nei figli.

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LA VIOLENZA ASSISTITA: UN FATTORE DI RISCHIO PER…


Violenza domestica e abuso all’infanzia: quale relazione?
La compresenza di violenza assistita e maltrattamenti è ampiamente dimostrata. Il genitore che si dimostra
violento con il proprio partner nel corso dei primi 6 mesi di vita del bambino, avrà una probabilità maggiore
di attivare un comportamento maltrattante nei confronti del figlio entro i successivi 5 anni. Rispetto al tipo
di violenza perpetrata dalle ricerche emerge che ella maggior parte dei casi la violenza domestica precede
l’abuso. Gli autori hanno verificato che la separazione o il divorzio dal partner violento sia un fattore che
diminuisce la probabilità di un comportamento abusante nei confronti del figlio. Nonostante sia noto come
la separazione possa aumentare il rischio maltrattamento, l’allontanamento d3ella prole e della madre dal
partner violento diminuisce il rischio di maltrattamento.

Gli effetti della violenza assistita sul bambino


La violenza domestica oltre che indebolire le competenze parentali, è un fattore di rischio per
comportamenti violenti verso la prole. L’esposizione alla violenza domestica è un forte predittore di
maladattamento nella vita adulta, maggiori livelli di ansia, problemi della condotta e dipendenza da alcol.
Inoltre la violenza assistita può favorire lo sviluppo di PTSD. I sintomi del PTSD non sono influenzati né dalla
durata né dall’intensità degli atti di violenza per cui anche episodi saltuari di violenza assistita sono
sufficienti per lo sviluppo della patologia. L’esposizione a tale forma di violenza può avere effetti anche
dopo che essa sia cessata. L’esposizione a violenza assistita comporta lo sviluppo di problemi di
aggressività, depressione, ansietà nei bambini e difficoltà emotivo-relazionali e ridotta capacità a
instaurare rapporti interpersonali e intimi negli adolescenti a cui si sommano anche deficit cognitivi che
causano fallimenti scolastici e disturbi comportamentali che a loro volta si traducono in aggressività verso
pari o adulti delinquenza ecc.
 Rispetto agli effetti in relazione al genere i dati sono controversi:
- sembra esserci una marcata differenza di genere rispetto alle risposte ad accesi conflitti famigliari
di fronte ai quali le femmine mostrano un più alto livello di ansia e stress.
- Vi sono anche risposte comportamentali differenti. Nello specifico le femmine mostrano una
condotta caratterizzata da ostilità ed episodi di aggressione verso i membri della famiglia mentre i
maschi tendono ad accentuare le manifestazioni violente dirette verso l’esterno, quindi verso pari o
adulti sconosciuti.
- Vi sono somiglianze per quanto concerne il livello di autostima le la presenza di sintomi depressivi
o post traumatici
- Rispetto alle strategie di coping i maschi hanno reazioni emotive più marcate e una minore capacità
di elaborazione del trauma rispetto alle bambine.
 Rispetto alle competenze linguistiche e verbali si registra come nei bambini vittime di violenza ci sia
una compromissione delle capacità verbali rispetto al gruppo di controllo. La violenza domestica
agisce intaccando le capacità linguistiche del bambino che si aggravano in presenza di una madre
depressa che non stimola verbalmente il bambino.
Questo dato è importante perché dice che gli effetti della violenza si vedono già dai primi anni di
vita del bambino e perché dice dell’importanza della mediazione dell’ambiente famigliare e delle
relazioni di attaccamento.
Gli effetti della violenza non si esauriscono con la cessazione della violenza stessa: una madre che
nonostante la cessazione della violenza non sia in grado di superare il suo stato depressivo non sarà
in grado di creare un ambiente positivo per i figli.
 Rispetto agli effetti sulla fratria si nota come figli della stessa famiglia vengono esposti in maniera
diversa alla violenza famigliare e l’elaborazione della violenza di questi bambini avviene in modo
diverso. In particolare i fratelli più grandi sono esposti maggiormente agli episodi di violenza poiché
ne subiscono l’effetto negativo per più tempo, ma i più piccoli si sentono maggiormente minacciati
dal conflitto famigliare. Da un lato questo potrebbe dire che i figli più piccoli vengono in qualche
modo protetti dalle liti famigliari, ma dall’altro questo dato potrebbe significare che i figli più grandi
esposti per più tempo alla violenza ne siano in qualche modo anestetizzati, o siano talmente
invischiati in relazioni disfunzionali che non le percepiscono più come pericolose.

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 Rispetto all’effetto della violenza assistita sull’attaccamento i dati dicono che all’aumento della
gravità della violenza subita dalla madre, aumenta anche la possibilità che i figli instaurino un
attaccamento di tipo disorganizzato.
 La violenza assistita non esaurisce i suoi effetti nella sfera individuale o famigliare ma si riflette
anche nell’ambito sociale. Bambini esposti a violenza sono più propensi a esercitare forme di
bullismo verso i pari, oppure risultano essere vittime di bullismo. La loro diminuita autostima, la
depressione e la paura li induce ad essere più facilmente identificabili come vittime da parte dei
bulli. Nelle famiglie caratterizzate da conflittualità e instabilità vi sono difficoltà di tipo relazionale e
comunicativo che si traducono in una ridotte competenze sociali nei bambini. La qualità del
rapporto genitori- figli sembra essere il prototipo delle relazioni interpersonali successive.
Gli effetti della violenza assistita si esprimono in termini di trasmissione intergenerazionale del
comportamento violento osservato in casa che viene ripetuto negli altri contesti e con le altre persone.
Il concetto di trasmissione intergenerazionale della violenza  spiega il motivo per cui bambini vittime di
violenza assistita, una volta grandi tendono a mettere in atto comportamenti violenti. Secondo
l’apprendimento sociale i bambini che osservano un comportamento in modo sistematico, tendono a
incorporarlo nel proprio repertorio comportamentale. I bambini che assistono a forme di violenza
apprendono che tale comportamento non è solo possibile ma addirittura vantaggioso.
Jaffe Wolfe e Wilson hanno proposto la Family Disruption Hypothesis tentativo di spiegazione del circolo
della violenza famigliare:
- Nella prima fase la violenza sconvolge la routine famigliare e diventa un elemento destabilizzate a
cui il bambino reagisce mettendo in campo reazioni emotive di paura e tristezza e reazioni
comportamentali di lotta fuga isolamento ecc.
- Nella seconda fase queste reazioni diventano ricorrenti e tendono a stabilizzarsi come pattern di
comportamento abituali. Queste azioni hanno conseguenze disadattive per il bambino nello
sviluppo.
Il bambino si trova a dover fare i conti sia con l’effetto distruttivo della violenza, sia con la necessità di
adattarsi in fretta a una situazione di disequilibrio cronico e di instabilità delle relazioni famigliari. L’evento
stressante di vedere la violenza sulla sua mamma comporta il fatto di dover rapportarsi a un genitore
improvvisamente pericolosa e a condizioni di vita che cambiano continuamente. La madre non può essere
più in grado di ricoprire il suo ruolo genitoriale in modo efficace.
La trasmissione intergenerazionale della violenza secondo questi autori sarebbe il modo in cui il bambino
interiorizza specifici comportamenti per compensare i cambiamenti imprevedibili che caratterizzano il suo
ambiente di vita.
Markowits sostiene che non si asolo il comportamento ad essere appreso, ma soprattutto l’atteggiamento
di base nei confronti di quel comportamento.
I giovani vittime di violenza categorizzano i comportamenti aggressivi ma non apertamente violenti ( ad es.
gridare litigare) come molto più simili ai comportamenti violenti. Dal punto di vista cognitivo questo
significa che la distanza tra un comportamento conflittuale e uno violento è minore e che in situazioni
conflittuali le vittime di violenza possono passare più facilmente da un comportamento conflittuale a uno
esplicitamente violento. È ipotizzabile che le vittime di violenza non abbiano mai sperimentato liti e
diverbi famigliari non violenti e che quindi non siano in grado nemmeno di concettualizzarli.

FATTORI CHE APLIFICANO O RIDUCONO IL RISCHIO


I fattori famigliari che amplificano il rischio di mettere in atto comportamenti violenti sono : status socio-
economico svantaggiato, separazione coniugale, presenza di stress extrafamigliari, problemi di
adattamento nei genitori.
La presenza di violenza nei confronti della partner è un fattore predisponente per l’insorgenza di successivi
maltrattamenti verso i figli sia da parte del partner violento sia da parte della vittima che vede la sua
capacità genitoriale messa in scacco dalla difficile situazione in cui si viene a trovare.
Gli autori hanno studiato i fattori che possono facilitare o limitare l’insorgere di violenza domestica. I
risultati dicono che : la frequenza degli stressor e la percezione della loro gravità possono predire
l’insorgenza di un comportamento violento. Questo significa che le famiglie che hanno subito un numero
maggiore di eventi stressanti o hanno percepito come molto stressanti alcuni eventi hanno una maggior
probabilità di manifestare comportamenti violenti. Inoltre a seconda del sesso viene dato un peso

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differente agli eventi stressanti. Quindi per gli uomini sono soprattutto gli stressor lavorativi e quelli di
perdita a ingenerare violenza, mentre per le donne l’impatto di diversi stressor nel generare violenza è
uguale. La spiegazione di questi risultati può essere quella della necessità di aderire a ruoli di genere
stereotipati in cui la perdita del lavoro coincide con la perdita dell’immagine di sé e del proprio ruolo per
un uomo e questo può aumentare il rischio di mettere in atto comportamenti violenti. Per le donne invece
il comportamento violento può essere considerato come reattivo nei confronti di una vittimizzazione già
consolidata nel tempo.

FATTORI PROTETTIVI
Si distinguono diverse tipologie di fattori protettivi:
- Fattori che si riferiscono all’individuo si riferiscono alle capacità, alle potenzialità e alle strategie
che l’individuo mette in campo di fronte a eventi stressanti.
Le strategie di coping sono un fattore importantissimo: mettere in atto strategie di tipo attivo e di
supporto protegge da sintomi depressivi e contrasta il calo dell’autostima e l’insorgenza di disturbi
fisici e psicologici.; mettere in atto strategie di evitamento amplifica i comportamenti di
internalizzazione e esternalizzazione; mettere in atto strategie di distrazione può prevenire
problemi di salute fisica. Il recupero di bambini che da soli non riescono a mettere in campo
strategie adattive di coping passa attraverso il potenziamento di una rete di supporto e delle
capacità di ridefinizione emotivo-cognitiva del trauma.
Rispetto alle variabili di genere ed età i risultati dicono che le bambine sono meno protette dagli
effetti della violenza rispetto ai coetanei maschi e sembrano più vulnerabili agli effetti della
violenza assistita. L’età può essere un fattore protettivo in quanto i ragazzi più grandi esposti a
violenza mostrano un minor numero di disturbi psicologici rispetto ai più piccoli.
I risultati di una ricerca inoltre dicono che per le donne essere vittime di violenza produce un
inaspettato miglioramento dell’efficacia delle pratiche di parenting quasi mettendo in atto una
compensazione per colmare lacune dei loro partner violenti come genitori.
Sembra decisivo inoltre il ruolo del supporto sociale per le madri abusate nel migliorare le loro
condizioni psicologiche.
- Fattori che si riferiscono al nucleo famigliare
- Fattori che si riferiscono all’ambiente extrafamigliare

L’INTERVENTO NEI CASI DI VIOLENZA ASSISTITA


I programmi tradizionali puntano sul miglioramento nella risoluzione dei conflitti, su un’aumentata capacità
di apprendimento nella modulazione dell’ira e dell’impulsività, e sull’individuazione di comportamenti
target socialmente accettati grazie all’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali. Questi programmi
sembrano ottenere solo buoni risultati a breve termine.
Altri interventi più specifici hanno come obiettivo primario il proporre supporti e aiuti che permettano di
limitare l’organizzazione disfunzionale della famiglia favorendo la coesione e negoziando i conflitti con
modalità funzionali per i coniugi e i figli. I progetti di sostegno più efficaci per i bambini vittime di violenza
sono quelli che prevedono colloqui individuali e indagini psicosociali utili a comprendere le caratteristiche
del suo ambiente.
Negli Stati Uniti sono stati sperimentati gruppi di mutuo aiuto in cui venivano coinvolti sia gli adulti che i
bambini con lo scopo di definire chiaramente il tipo di violenza e la responsabilità dell’adulto, consentire
l’espressione delle emozioni, favorire la comunicazione, le capacità di problem solving e coping ,
incrementare l’autostima, individuare punti di riferimento e supporto, innalzare il livello di sicurezza
percepito.
Per quanto riguarda i programmi di intervento nei contesti di vita del bambino sono risultati efficaci quelli
implementati a scuola in contesti educativi protetti dove portare avanti un programma di sensibilizzazione
e riconoscimento delle varie forme di violenza al fine di far emergere situazioni di disagio mai denunciate.
Negli Stati Uniti sono stati proposti anche interventi di counseling e interventi educativi rivolti agli uomini
che aggrediscono le loro mogli con lo scopo di interrompere la violenza e recuperare le competenze
genitoriali di questi padri.

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CAP 5 – L’AFFIDAMENTO FAMILIARE


1.AFFIDAMENTO E SITUAZIONE ITALIANA
L’affidamento è un intervento sociale complesso, fondamentale per la tutela di bambini in condizioni di forte
disagio o grave pregiudizio. Quadro normativo in Italia: l’affidamento è regolato dalle leggi 184/1983 e
149/2001 e dal Libro Primo del Codice civile. Le leggi mettono in primo piano la figura del minore, il suo
benessere e il suo diritto a crescere e a essere educato nell’ambito della propria famiglia. In presenza di
incapacità dei genitori di esercitare la potestà genitoriale, lo Stato e gli organi preposti (Tribunale, Servizi
sociali) intervengono a sostegno dei nuclei familiari a rischio, per prevenire l’abbandono e consentire al
minore di restare nella propria famiglia. Quando la famiglia naturale, nonostante gli interventi attuati, non
fosse in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del figlio, il bambino viene dichiarato
“temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo”: a questo punto si hanno due strade, o
l’affidamento familiare o l’inserimento del bambino all’interno di una comunità. L’obiettivo è garantire al
minore un contesto di crescita protetto ma temporaneo, al fine di ripristinare la genitorialità naturale con
interventi di recupero della famiglia per consentire il rientro del minore nella stessa.
Nello studio condotto dal Centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza (2002), emerge
che i motivi che spingono alla definizione del processo di affidamento sono per lo più dovuti a condotte
abbandoniche o a grave trascuratezza della famiglia di origine, oltre che a gravi problemi economici,
tossicodipendenza dei genitori, conflittualità di coppia, disturbi psichiatrici dei genitori e condotte
abusanti/violente.

2.CARATTERISTICHE PSICOLOGICHE DEI BAMBINI IN AFFIDO


Secondo lo studio condotto dal Centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza (2002), gran
parte dei bambini in affido intra o eterofamiliare non presenta particolari problemi di sviluppo. Tuttavia, una
percentuale consistente presenta difficoltà relazionali, difficoltà scolastiche, scarsa stima di sé, aggressività
auto e eterodiretta e comportamenti devianti.
La letteratura internazionale conferma questi dati: molti bambini in affidamento presentano problemi
comportamentali e emotivi più frequenti rispetto alla popolazione generale, a causa di una maggiore
vulnerabilità causata dalla presenza di diversi fattori di rischio. Spesso questi bambini sono stati vittime di
maltrattamento, trascuratezza o abuso; inoltre hanno famiglie d’origine caratterizzate da condizioni
economiche disagiate che non permettono l’accesso ai servizi di cura prenatale, condizioni abitative
inadeguate, limitate opportunità di formazione scolastica; infine hanno spesso genitori con problemi
psichiatrici o di dipendenza da sostanze e con relazioni di coppia conflittuali; la stessa esperienza di
separazione dal nucleo familiare, poi, può diventare un’ulteriore fonte di sofferenza.
Alcuni studi evidenziano gli effetti negativi a lungo termine che l’esperienza di affidamento vissuta in infanzia
potrebbe avere sull’adattamento in adolescenza e nella vita adulta. Buehler e altri (2000) sottolinea che, in
adolescenza e nella vita adulta i bambini che hanno vissuto in affidamento, hanno maggiori probabilità di
trovarsi in condizione di disoccupazione, senza abitazione adeguata e privi di supporto sociale. Egli ha
confrontato il livello di benessere raggiunto in età adulta da persone che avevano vissuto in affido con quello
di soggetti cresciuti nelle loro famiglie; sono stati esaminati 4 indicatori di benessere (indipendenza in età
adulta, problemi comportamentali, relazioni familiari e supporto sociale, benessere personale) su un
campione di 303 soggetti divisi in tre gruppi:
-adulti vissuti in affidamento per almeno sei mesi dalla nascita all’età di 18 anni
-soggetti di controllo scelti in modo casuale dalla popolazione generale di riferimento
-soggetti di controllo selezionati in modo da possedere caratteristiche simili ai soggetti del primo gruppo
L’analisi dei risultati mostra che:
-nei soggetti del primo gruppo il raggiungimento dell’indipendenza viene compromesso dal fatto che essi
presentano livelli inferiori di successo scolastico, minori opportunità di occupazione e un livello socio-
economico più basso

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-in relazione ai problemi comportamentali, nel primo gruppo emerge un numero elevato di problemi di
dipendenza da sostanze e comportamenti delinquanziali
-per quanto riguarda le relazioni familiari e il supporto sociale, gli adulti in affidamento registrano un maggior
numero di divorzi e relazioni di coppia conflittuali e relazioni problematiche con le proprie famiglie di origine,
e sono meno coinvolti nelle attività della comunità di appartenenza.

3.IL PERCORSO DELL’AFFIDO E LE CONDIZIONI PER UN AFFIDAMENTO DI SUCCESSO


L’affidamento serve a tutelare i minori che vivono in una famiglia che sta attraversando un periodo difficile;
le caratteristiche essenziali sono:
 Temporaneità
 Mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine
 Previsione di rientro nella famiglia di origine
Distinguiamo tra affido consensuale e affido giudiziario:
-affido consensuale: l’intervento è disposto dal servizio locale, previo consenso dei genitori, e reso esecutivo
dal giudice tutelare
-affido giudiziario: in assenza dell’assenso dei genitori, interviene il Tribunale per i minorenni, sulla base degli
articoli 330 e seguenti del c.c. che riguardano la sospensione e la decadenza della potestà genitoriale e
l’allontanamento del minore.
La legge italiana prevede la possibilità di collocare il bambino in una famiglia con o senza figli minori, a singoli,
a comunità di tipo familiare o a istituti. Dalla letteratura emerge che il successo dell’affidamento dipende da
una serie di fattori associati ai protagonisti coinvolti e all’organizzazione del progetto, che deve essere
definito in modo rigoroso. È indispensabile che il provvedimento di affidamento venga inserito all’interno di
un progetto più ampio di tutela del minore e che vengano rispettate precise condizioni in ogni momento del
percorso (scelta dell’affidamento, abbinamento con la famiglia, conclusione del percorso e rientro a casa).
Analizziamo i diversi fattori che possono incidere sull’efficacia dell’affidamento, con riferimento agli
affidamenti familiari giudiziari.

3.1 LA VALUTAZIONE DEL BAMBINO E DELLA FAMIGLIA D’ORIGINE


La prima fase del percorso dell’affido è costituita dalla valutazione del bambino e della sua famiglia. È
necessario comprendere a fondo la situazione di crisi della famiglia; una valutazione tempestiva della famiglia
e del bambino permette di elaborare un progetto individualizzato, condiviso da tutti gli attori e capace di
rispecchiare le reali esigenze del bambino e della famiglia.
L’affidamento va proposto quando le condizioni familiari, seppur difficili, non sono ancora del tutto
compromesse e il bambino non è ancora segnato da deficit affettivi e educativi; in questi casi ci sono le
condizioni per proporre un affido consensuale. Quando invece si rende necessario l’intervento urgente del
Tribunale, in base agli articoli 330 e seguenti c.c., l’affidamento viene disposto anche senza attivare gli
opportuni interventi a favore della famiglia di origine e senza la sua condivisione.
In situazioni di maltrattamento e abuso, in cui sono gli stessi genitori gli autori del danno sul bambino per il
quale si rendono necessarie alternative eterofamiliari, il problema della condivisione si pone in termini
diversi. Queste famiglie tendono a negare l’esistenza di problemi e non ritengono di essere inadeguate. In
questi casi è impossibile prevedere un affidamento condiviso simile a quello realizzabile quando eventi
improvvisi stressanti e temporanei favoriscono la disponibilità della famiglia ad accogliere il supporto di un
altro nucleo.
La ricerca sui casi di maltrattamento e abuso suggerisce l’opportunità di prevedere misure di protezione del
bambino (anche con l’allontanamento dalla famiglia) non disgiunte da interventi di valutazione e di
trattamento della famiglia stessa, per capire se vi siano dei margini di recuperabilità e risorse residue affinchè
il bambino possa tornare a vivere nella famiglia d’origine. In un percorso di intervento volto al trattamento
terapeutico della famiglia naturale può essere funzionalmente inserito l’affidamento del bambino. L’affido

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familiare da solo non rappresenta una soluzione alle difficoltà del bambino; dovrebbe essere affiancato in
parallelo da un progetto di intervento e recupero del nucleo familiare naturale.
Non appare opportuno collocare il bambino in affido né in situazioni di emergenza, né prima di aver
effettuato una valutazione psicologica della famiglia naturale che permetta di comprendere le ragioni del
disagio e gli spazi di recuperabilità delle funzioni parentali.
Quando l’affido diventa un provvedimento di protezione o tutela per il bambino occorre sempre informarlo
e prepararlo. La separazione dalla famiglia naturale è sempre infatti per il bambino un’esperienza che genera
sentimenti complessi (anche se sottratto a una situazione di maltrattamento, il bambino prova sentimenti di
lealtà e appartenenza verso il nucleo d’origine, colpa e preoccupazione per il futuro della famiglia). Spesso
sono bambini che hanno sviluppato un attaccamento insicuro, di tipo ansioso, evitante o disorganizzato, che
induce da un lato a desiderare la vicinanza della figura di riferimento, dall’altro a sfuggirla perché può
diventare pericolosa. Questi modelli di relazione distorti e ambivalenti possono essere trasferiti sulla famiglia
affidataria.

3.2 LA SCELTA DELLA FAMIGLIA AFFIDATARIA


La fase successiva del percorso di affido riguarda la scelta della famiglia e il momento dell’abbinamento tra
famiglia affidataria e minore. È fondamentale effettuare un abbinamento corretto tra con la famiglia che
meglio risponde alle esigenze del bambino. L’obiettivo non è selezionare famiglie ideali, ma capire le
dinamiche relazionali e procedere a un abbinamento mirato tra una specifica famiglia e uno specifico
bambino. È importante il problema dei criteri da adottare per selezionare le famiglie. Gli operatori sembrano
attribuire rilevanza alle aree tematiche della motivazione all’affido, dell’organizzazione, delle dinamiche
familiari e agli atteggiamenti dei coniugi verso l’affido.
Roncari (1998) descrive dettagliatamente il modello di raccolta delle informazioni utilizzato dal Cam (centro
ausiliario per i problemi minorili) per effettuare un corretto abbinamento, evidenziando l’importanza di
approfondire se la famiglia, con le proprie risorse materiali e affettive, sia idonea a sostenere un progetto di
affido a breve o lungo termine. Il progetto di abbinamento dovrebbe essere fondato sulla compatibilità tra
bisogni e risorse del bambino, della famiglia naturale e della famiglia affidataria e persino dei Servizi, poiché
l’obiettivo è rendere possibile una coevoluzione dei protagonisti, che sia reciprocamente vantaggiosa e
coerente con il progetto di affido-
Uno studio italiano ha studiato quanto l’abbinamento possa incidere sull’andamento del percorso di affido.
Dai dati emerge che gli affidi con esito positivo sono quelli in cui si è verificato un abbinamento tra famiglie
affidatarie di ceto medio-alto, con precedenti esperienze di affido, fondata su ideali religiosi, e bambini con
disabilità fisiche o psichiche trascurati da madri non competenti o ammalate. Appaiono invece più
problematici gli abbinamenti tra famiglie affidatarie con scarse risorse socio-culturali, relazioni conflittuali,
con coniugi di età avanzata, e minori con un passato segnato da maltrattamenti, istituzionalizzazioni,
precedenti esperienze di affidi interrotti e un’età superiore ai dieci anni.
Un abbinamento corretto permette di evitare interruzioni precoci del progetto di affido, anche se non
garantisce un percorso a lungo termine.

3.3 CONDIZIONI DI RISCHIO RELATIVE AI TRE ATTORI COINVOLTI NELL’AFFIDO


In letteratura emergono diverse condizioni di rischio associate agli attori coinvolti nel percorso di affidamento
(genitori naturali, bambino, genitori affidatari e servizi sociali).
Condizioni di rischio associate al minore:
 Età superiore ai dieci anni al momento dell’ingresso nella famiglia affidataria; le difficoltà maggiori si
incontrano con l’affidamento di ragazzi adolescenti (in questa età si è impegnati nel processo di
costruzione della propria identità, e si vivono alti livelli di stress per il fatto di dover affrontare
l’allontanamento dalla propria famiglia e l’inserimento in un nuovo nucleo familiare)
 Presenza di disturbi di comportamento; alcuni studi mostrano come l’affido possa funzionare meglio con
bambini che non presentano disturbi emotivi o di condotta

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 Deficit di attenzione e iperattività


 Disabilità
 Temperamenti difficili; alcuni studi hanno evidenziato l’elevato rischio di fallimento nel caso in cui
vengano affidati bambini con temperamento difficile a genitori caratterizzati da stili educativi inflessibili
 Appartenenze culturali e religiose diverse rispetto a quelle dei genitori affidatari
 Storia del bambino caratterizzata da esperienze di maltrattamento, abuso o grave trascuratezza (è una
condizione prognostica che orienta in senso negativo il percorso dell’affidamento). La storia pregressa di
maltrattamento è tra le prime cause di allontanamento del minore; ma proprio i bambini maltrattati,
compromessi sul piano relazionale, potrebbero incontrare difficoltà anche nelle nuove famiglie
Fattori di protezione/rischio associati ai genitori affidatari:
 Motivazione all’affido: è importante che i genitori siano realmente disponibili ad accogliere e prendersi
cura di un bambino in difficoltà e contemporaneamente a sostenere la sua famiglia naturale; l’esito
positivo dell’affido sembra associato a ideali fondati su valori religiosi e di solidarietà. In riferimento a
motivazioni non autentiche, la letteratura evidenzia come molte famiglie che si candidano all’affido
nascondano un desiderio adottivo. È sconsigliabile riferirsi a queste famiglie per l’affido, poiché i
presupposti dei due percorsi sono molto diversi; il rischio è che la famiglia affidataria perda di vista
l’esigenza del minore in affido e la logica del sostegno temporaneo alla famiglia in difficoltà, a favore
delle proprie esigenze di affiliazione (schierandosi contro la famiglia di origine). In alcuni casi i servizi
fanno comunque ricorso a queste famiglie; in questi casi bisognerebbe non colludere con l’aspettativa
adottiva della coppia proponendo anche bambini di età e sesso diverso da quelli auspicati, oppure
bambini con preciso progetto di rientro a breve termine nel proprio nucleo, che debbano mantenere
rapporti frequenti con i genitori naturali
 Competenze genitoriali: gli studi sottolineano l’importanza di un atteggiamento sensibile e responsivo,
fondato sull’accettazione del bambino e su interazioni coerenti e autorevoli, che consentano lo stabilirsi
di un attaccamento sicuro. Esiste ad esempio una connessione tra pratiche educative dei genitori
affidatari e lo sviluppo di aggressività nel bambino affidato.
 Caratteristiche strutturali della famiglia: è importante che la famiglia affidataria sia solidale, o quanto
meno non ostile, nei confronti della famiglia d’origine del bambino, cercando di aiutarla a recuperare le
capacità per riaccogliere il proprio bambino. Il bambino stesso sente l’esigenza di mantenere questo
duplice legame d’appartenenza e la stessa legislazione sull’affidamento ne sottolinea il valore essenziale.
Greco e Iafrate (2002) hanno condotto una ricerca sul ruolo complementare delle famiglie affidatarie
rispetto a quelle naturali, mettendo in luce le rappresentazioni reciproche delle due famiglie. La famiglia
affidataria si percepisce in tre modi: solidale verso la famiglia naturale, distante oppure ostile, mentre la
famiglia naturale in modo simmetrico vede la famiglia affidataria come accogliente, ambivalente, oppure
ostile. Dalla ricerca emerge che il sentimento di solidarietà della famiglia affidataria verso la famiglia
naturale e il rispetto per il legame tra il bambino e i propri genitori influisce sul benessere psicologico del
bambino e in modo particolare sulla sua autostima.
La letteratura sottolinea l’importanza di prestare attenzione alla eventuale presenza di figli biologici nella
famiglia affidataria; occorre valutare la posizione che il minore ricoprirà nella fratria. Poi è necessario
coinvolgere i figli biologici dei genitori affidatari nel progetto di affido. I servizi sociali devono valutare
anche il loro punto di vista in merito e di prepararli ad accogliere il nuovo arrivato, in modo che possano
diventare ulteriori risorse per la riuscita del progetto di affidamento.
Gli operatori dei servizi sociali sono il punto di riferimento per tutti i protagonisti della vicenda. Il servizio
sociale locale, l’ente gestore degli interventi assistenziali, ha il compito di disporre l’affidamento, di vigilare
ed è tenuto a fornire al tribunale per i minorenni una relazione semestrale sull’andamento del programma
di assistenza (durata, evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza). Inoltre il
servizio sociale svolge opera di sostegno educativo e psicologico, agevola i rapporti con la famiglia di
provenienza e il rientro nella stessa del minore, avvalendosi anche di altre strutture del territorio. I servizi
devono preparare e sostenere entrambe le famiglie durante l’intero periodo dell’affidamento e nel momento

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del ricongiungimento del bambino con i suoi genitori. La ricerca empirica evidenzia la necessità di considerare
la famiglia affidataria come un’estensione e non come sostituto della famiglia naturale del bambino, come
un elemento della rete, una risorsa nel percorso di recupero e risoluzione delle difficoltà della famiglia
naturale. Il sostegno continuativo, attuato attraverso visite domiciliari nelle famiglie di origine, attività di
sostegno a favore delle famiglie affidatarie e incontri settimanali tra i due nuclei familiari, si dimostra una
risorsa importante per l’andamento dell’affidamento.

3.4 LA CONCLUSIONE DELL’AFFIDAMENTO


L’affidamento è un provvedimento temporaneo. La normativa italiana sottolinea che deve essere indicato il
periodo di presumibile durata dell’affidamento, che deve essere rapportato agli interventi volti al recupero
della famiglia d’origine. Il periodo non può superare 24 mesi, ma è prorogabile da Tribunale per i minorenni
quando la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore.
Assume grande importanza la fase di conclusione del progetto d’affido e della riunificazione del minore con
la propria famiglia. La letteratura concorda sulla necessità di valutare il momento più opportuno per il rientro
a casa del bambino. Esso non dovrebbe essere forzato dal tribunale o dagli operatori, poiché una
riunificazione precoce potrebbe comportare un rischio maggiore di fallimento. La stabilità della collocazione
in affido è un fattore determinante; l’instabilità dell’affido (cambiamenti continui da una famiglia all’altra)
sono frequentemente associati con una maggiore presenza di problemi psicologici.
Jones (1998) ha esaminato il rientro in famiglia di 445 bambini alla conclusione dell’affidamento. Ha verificato
3 tipologie di rientro nelle famiglie di origine: rientro con successo (con nessun caso di abuso o trascuratezza
rilevato dopo i 9 mesi), rientro con successo ma al limite (con una ricaduta ma senza un ritorno in affido),
rientro fallito (casi che rientrano in affido). Queste 3 tipologie sono state studiate in relazione alla struttura
e composizione della famiglia naturale, allo stato socio-economico, al tipo di maltrattamento agito sul
bambino e alle caratteristiche psicologiche dei genitori. Dai dati emerge che il fallimento del rientro in
famiglia è dovuto a tre condizioni principali: lo stato di povertà e la deprivazione economica ancora presente
nel nucleo originario, i persistenti problemi di salute o di comportamento del bambino che i genitori naturali
non riescono a gestire, la scarsa capacità di sostegno e supporto emotivo e economico offerto alle famiglie
naturali durante il periodo dell’affido.
Possiamo quindi sottolineare l’importanza del supporto continuativo che i servizi dovrebbero offrire alle
famiglie d’origine, sia durante il periodo di affidamento sia dopo il rientro a casa del bambino, per aiutarle a
risolvere i problemi che hanno motivato il provvedimento di allontanamento e affido.

4. L’AFFIDO COME STRUMENTO DI TUTELA


Sottovalutare alcuni fattori può influenzare negativamente l’efficacia dell’affidamento, che resta comunque
un provvedimento con alto valore di tutela rispetto all’adattamento nella vita adulta di bambini in difficoltà.
Lo studio del Centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza di Firenze (2002) mostra dati
relativi all’esito dell’affidamento sottolineandone la valenza molto positiva (al momento della conclusione
dell’affido sia etero che intrafamiliare una buona percentuale di bambini non presentavano più problemi
comportamentali, altrettanti hanno mostrato un notevole miglioramento, alcuni sono rimasti stazionari e
solo una bassa percentuale ha presentato un peggioramento). A sostegno di questi dati anche uno studio di
follow-up ha evidenziato gli effetti terapeutici (ad esempio, una grande percentuale di bambini con
esperienza di affido è stato poi in grado di integrarsi perfettamente a livello sociale).
Questi studi sottolineano il valore di tutela del percorso dell’affido, dimostrando come tale esperienza possa
configurarsi come un percorso compensatore e protettivo per buona parte dei bambini.

5. CONCLUSIONI
Alcune problematiche spesso presenti nei bambini, come comportamenti aggressivi e difficoltà relazionali o
scolastiche, possono mettere a rischio il percorso di affidamento, poiché rendono difficile la relazione con i

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nuovi genitori, che vedono deluse le proprie aspettative e sentono il fallimento dei propri tentativi di
compensare le carenze del bambino.
La letteratura sulle conseguenze psicologiche di gravi esperienze sottolinea come una storia di abuso sessuale
comprometta lo sviluppo della fiducia negli altri, l’immagine di sé, la regolazione emotiva e quindi costituisca
una condizione di rischio anche per l’esperienza di affidamento. Questi elementi di rischio tuttavia possono
essere arginati se intervengono fattori protettivi come relazioni positive stabili con altri adulti significativi.
Un altro elemento da valutare è la condizione della madre naturale (ad es presenza di fattori di rischio come
tossicodipendenza, precarietà economica, storia personale travagliata).
La famiglia affidataria può presentare dei fattori di rischio, come nutrire delle aspettative pseudo-adottive
che possono ostacolare un corretto rapporto con il nucleo d’origine del minore e determinare la creazione di
un duplice legame di appartenenza del bambino con le due famiglie.
L’appoggio psicologico specialistico al bambino e il monitoraggio dei servizi possono contribuire a un
miglioramento della condizione psicologica.

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6. LA GENITORIALITA’ ADOTTIVA
1.LA GENITORIALITA’ ADOTTIVA: UNA SFIDA?
L’adozione permette a una coppia di genitori e a un bambino di diventare una famiglia adottiva; è una
transizione familiare rischiosa, ossia un bivio: può essere occasione di crescita per tutti i membri ma può
provocare anche una stagnazione, l’instaurarsi di modalità relazionali disfunzionali fino alla comparsa di
comportamenti sintomatici o all’espulsione del minore.
È possibile infatti incontrare diversi ostacoli che rendono difficile e complessa la costruzione del legame
adottivo, il cui esito non sempre è positivo, con la messa in gioco di molteplici dinamiche e sfide per tutti i
protagonisti coinvolti: il bambino adottato, la famiglia naturale che spesso reclama il figlio oppure avendolo
abbandonato, la famiglia adottiva e i servizi coinvolti, che devono gestire situazioni complesse. È frequente
che alcune coppie adottive, a causa delle diverse difficoltà che si presentano nel rapporto con il bambino e a
livello personale, fatichino a portare a buon fine il percorso adottivo che nei casi peggiori si risolve in una
restituzione del bambino. In diverse situazioni i genitori non sono adeguatamente preparati ad affrontare la
distanza emotiva dell'adottato e le continue incomprensioni, le difficoltà comunicative, i comportamenti
oppositivi del bambino, la mancata reciprocità affettiva tra i genitori e il bambino inducono, nei nuovi
genitori, sentimenti di inadeguatezza e di impotenza che spesso si accompagnano allo sconforto e alla
remissiva scelta di restituzione del minore, dopo il primo anno di affido preadottivo. Tale restituzione, a sua
volta, crea un amplificazione del rischio per lo sviluppo psicofisico del minore, poiché rinforza nel bambino la
percezione di sé come non degno di cura e di amore e gli conferma un ulteriore fallimento nella possibilità di
trovare figure adulte che si prendano cura di lui.
In generale, sono dunque molteplici i fattori che entrano in gioco in tutto il percorso di adozione e che sono
stati indicati nella letteratura scientifica nella storia pregressa del bambino, nel livello di funzionamento della
coppia genitoriale adottiva, nelle difficoltà di adattamento al nuovo nucleo familiare e al diverso contesto
socio-culturale. La letteratura individua alcuni possibili fattori di rischio, intendendo caratteristiche proprie
del bambino, dei genitori e dell'ambiente, che possono in qualche modo mettere in crisi la genitorialità
adottiva; accanto ad essi si possono individuare anche quelle risorse che fungono da fattori protettivi, che
rappresentano cioè punti di forza che impediscono il fallimento nell'esercizio di una genitorialità competente.
In letteratura viene proposta un'analogia tra la decisione di adottare un bambino da parte di una coppia di
genitori e una piccola ruota, i cui raggi rappresentano molte delle variabili in gioco: la valutazione di se stessi
come futuri genitori, le caratteristiche del proprio compagno o compagna, tutto ciò che concerne il bambino
che arriverà, l'ambiente in cui vivere, i criteri di ammissione del paese scelto, il fattore salute e il fattore
spazio tempo. Analizziamo alcuni di questi fattori, soffermandoci sulle due grandi aree delle caratteristiche
del bambino e dei genitori.

2. IL BAMBINO E LE SUE CARATTERISTICHE


Il bambino è protagonista di una transizione estremamente complessa a livello psicologico, emotivo e sociale.
Numerosi studi hanno dimostrato come i bambini adottati siamo generalmente più a rischio dei loro coetanei
in varie aree dello sviluppo psicofisico, sottolineando in particolare l'elevata incidenza di disturbi della
condotta, iperattività, ansia, difficoltà nelle relazioni con i pari, aggressività auto ed eterodiretta e bassa
autostima. Alcuni studi hanno approfondito il ruolo rivestito dal passato del bambino e dalla storia
precedente l'adozione, focalizzando l'attenzione sul background socio-culturale e familiare e l'età in cui il
bambino entra nella nuova famiglia. In generale viene messo in luce che un passato caratterizzato da
instabilità, carenze, ripetute violenze o continui passaggi in diversi nuclei affidatari o comunità, da una parte,
sia l'essere adottato in età scolare, dall'altra, determinino una maggiore vulnerabilità e rischio elevato per lo
sviluppo, rispetto ai bambini provenienti da nuclei relativamente più stabili e bambini adottati in età
prescolare. I bambini collocati in adozione hanno spesso dovuto affrontare privazioni nelle cure,
trascuratezza nei bisogni fisici ed emotivi e anche violenze sia in forma diretta che indiretta. La storia
pregressa di questi bambini li segna in modo indelebile e, nonostante vengano allontanati da questi contesti

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inadeguati, le conseguenze permangono nel tempo e tendono a riprodursi nelle relazioni e nei
comportamenti all'interno della famiglia adottiva. Diversi studi hanno infatti dimostrato che i bambini
adottati, con un passato caratterizzato da abusi e violenze, siano da considerare una popolazione a rischio
per lo sviluppo di comportamenti antisociali e devianti, di sintomatologie psichiatriche e di problemi di
adattamento.
L'abuso sessuale e il maltrattamento fisico sono significativamente correlati ad attività delinquenziali tra gli
adolescenti adottati. Le esperienze pregresse che il bambino ha interiorizzato e si ripropongono all'ingresso
nella nuova famiglia adottiva, in quanto le situazioni primarie carenti e i pattern di attaccamento disfunzionali
e strategie di coping maladattivo e consolidate, nonostante l'atteggiamento positivo della nuova famiglia, si
configurano come fattori di rischio per l'insorgere di disturbi comportamentali, d'attaccamento odi
psicopatologie future. I diversi disturbi che caratterizzano bambini e adolescenti adottati sono stati
riconosciuti anche in coloro che, pur non avendo subito violenza, avevano vissuto in contesti familiari e socio-
culturali poveri ed emarginati e ciò assumeva un valore di rischio ancor più marcato se questi bambini erano
stati adottati in tarda età. Diverse ricerche evidenziano il ruolo significativo che riveste l'età del bambino al
suo ingresso nella nuova famiglia in relazione alla sua storia pregressa. L'età del bambino infatti sembra
essere un altro fattore rilevante per valutare gli esiti del percorso adottivo, sia per quanto riguarda l'adozione
nazionale sia per quella internazionale: come emerso per l'affido, la probabilità di un'interruzione della
relazione adottiva aumenta con il crescere dell'età del minore al momento dell'adozione.
I bambini che vengono adottati dopo il primo anno d'età e che hanno sperimentato modalità di cure
inadeguate con un caregiver trascurante e incapace di rispondere ai loro bisogni sono più inclini a mostrare
un maggior numero di problemi comportamentali, gravi disturbi psichiatrici e stati d'ansia diffusi durante
l'adolescenza. Invece i bambini che sono stati adottati entro il primo anno di vita e hanno avuto una storia
pregressa adattiva sono oggi i giovani adulti senza problemi comportamentali maggiormente protetti rispetto
all'insorgenza di problemi di alimentazione, microcriminalità, violenza contro i membri della famiglia,
espulsione dalla scuola,...
Sembra possibile isolare fattori pre-adottivi che si configurano come predittori dei disturbi comportamentali
di cui sopra: maltrattamento fisico o abuso sessuale, trascuratezza, genitori o caregiver con personalità
dipendente, frequenti spostamenti in diverse famiglie affidatarie. A questi si aggiunge, come ulteriore
amplificatore di rischio, la tarda età di adozione del bambino. La combinazione tra età al momento
dell'adozione e qualità delle cure ricevute dal bambino prima dell'adozione sembra incrementare il rischio di
insorgenza di disturbi comportamentali ed emozionali in adolescenza e aumentare la probabilità della
relazione adottiva.

3.CARATTERISTICHE GENITORIALI E SUCCESSO DEL PERCORSO ADOTTIVO


Prendiamo in esame alcune caratteristiche dei genitori adottivi, dei quali solitamente si indagano le
motivazioni consce e inconsce, i valori etico sociali e le loro ipotetiche capacità educative. Vengono poco
analizzati in che modo e con quali mezzi i genitori adottivi siano in grado di fronteggiare una situazione per
loro nuova, emotivamente coinvolgente e spesso imprevedibile. L'adozione va considerata come un percorso
non lineare, in cui i fattori di rischio per una possibile interruzione dell'adozione sembrano essere molti
(adozione in età preadolescenziale o adolescenziale, aspettative irrealistiche dei genitori adottivi, rigidità di
pattern di funzionamento della famiglia adottiva, problemi comportamentali del bambino adottato), ma dove
esistono anche variabili che possono ridurre e mitigare le difficoltà di inserimento e adattamento del
bambino in un nuovo contesto.
Tali variabili possono essere individuate nel livello di flessibilità e adattabilità della famiglia adottiva. In uno
studio longitudinale, i coniugi che sono stati in grado di modificare il proprio standard di vita e di mantenere
una costante flessibilità durante gli anni successivi all'adozione mostrano, quando il figlio entra
nell'adolescenza, livelli di soddisfazione maggiore, giudicano più positivamente la scelta compiuta e tutto
questo si traduce in un effettivo benessere del giovane adottato in un buon grado di adattamento al nuovo
contesto di vita in cui è stato inserito. Diversi studi prendono in esame le caratteristiche di uno solo dei

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genitori, in particolare la madre biologica. Mentre una buona istruzione della madre naturale e un
background socio-culturale medio alto appaiono fattori associati a un riuscito adattamento al nuovo contesto
di vita per il minore adottato, i casi in cui la madre biologica abbia esposto il bambino, già in epoca prenatale,
a sostanze tossiche come droga e alcol sono quelli in cui più facilmente il piccolo correrà il rischio di sviluppare
disturbi della sfera comportamentale che tendono a perpetuarsi anche dopo l'ingresso nella nuova famiglia.
Sembra esistere una sorta di rischio genetico nei minori adottati, secondo quanto sostenuto da uno studio
che, attraverso l'applicazione del modello ecologico di Bronfenbrenner, dimostra che gli adolescenti adottati
mostrano un elevato numero di problemi comportamentali, soprattutto nei maschi, a causa appunto di un
elevato rischio genetico.
La flessibilità dei genitori e la loro capacità di fornire risposte sufficientemente forti ma non coercitive in
occasione delle difficoltà comportamentali del bambino rappresentano variabili importanti in grado di
moderare tali difficoltà comportamentali e di adattamento al nuovo contesto familiare. I fattori contestuali
fungono da mediatori tra le predisposizioni genetiche, influenzando il comportamento dei genitori adottivi.
Se la nuova famiglia adottiva reagisce alle difficoltà del bambino dimostrandosi rigida e inflessibile, il bambino
incrementerà i suoi comportamenti disturbati e ciò non farà altro che rinforzare la disciplina autoritaria dei
genitori. Sembrano quindi svolgere un ruolo importante la flessibilità dei genitori e la loro capacità di fornire
risposte sufficientemente forti ma non coercitive di fronte alle difficoltà comportamentali che il bambino
manifesta. Non sempre però questo è sufficiente. Infatti gli adolescenti adottati, pur dichiarando una buona
qualità nella relazione e un livello di comunicazione con i genitori migliore rispetto ai coetanei non adottati,
sembrano possedere un livello di autostima ed adattamento comunque piuttosto basso e inferiore rispetto
ai coetanei. Ciò indica che le relazioni con i genitori adottivi, giudicate come molto positive, potrebbero non
essere sufficienti a compensare le conseguenze dei traumi occorsi prima dell'adozione, determinando molte
difficoltà adattamento, problemi comportamentali e disturbi della condotta che si riscontrano nelle
popolazioni di adolescenti e giovani adulti adottati. E quindi probabile che l'adozione sia un processo che
avvantaggia il bambino, mitigando ma non annullando completamente gli elevati rischi di problemi
psicosociali e psichiatrici in adolescenza, associati al background della famiglia biologica o a caratteristiche
genetiche del minore stesso.

4. UNO SGUARDO ALL’ADOZIONE INTERNAZIONALE


L'adozione internazionale viene studiata come possibile fattore di rischio per lo sviluppo e l'adattamento del
bambino nel nuovo paese. Spesso le famiglie che ricorrono a questa adozione sono spinte dal desiderio di
ottenere il più in fretta possibile un bambino, per soddisfare immediatamente un desiderio genitoriale; in
questo modo vengono però a mancare i presupposti psicologici e mentali per sviluppare un contesto di
accoglienza delle problematiche del minore straniero. Al momento dell'inserimento nella nuova famiglia, i
genitori si trovano spesso di fronte a un bambino doppiamente traumatizzato a causa della perdita delle
proprie figure d'attaccamento primarie e, in secondo luogo, anche delle proprie radici sociali e culturali,
perdite che lo pongono di fronte a una notevole sofferenza e difficoltà di adattamento.
Tali difficoltà, unite ad altri fattori, possono risolversi in una restituzione del minore straniero ovvero nel
fallimento e conseguente interruzione della relazione adottiva. Nel nostro Paese non ci sono ancora
indicazioni chiare sull' entità del fenomeno restituzione del minore adottato, anche se in generale si osserva
una progressiva diminuzione dei minori giudicati adottabili. Uno studio condotto su 23 casi di restituzione di
minori stranieri adottati in Italia, ha evidenziato una serie di fattori comuni che possono determinare
l'interruzione di un'adozione. Gli autori individuano tre sistemi principali di riferimento all'interno dei quali
sono stati sottolineati alcuni fattori di rischio che determinano il fallimento adottivo:
 Il sistema famiglia:
o Mancata elaborazione consapevole della scelta adottiva: si pensa a un bambino come sostituto
di qualcosa (sterilità) o di qualcuno (figlio perduto) che manca alla coppia senza operare il
passaggio dalla genitorialità naturale a quella affettiva

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o Ricorso a canali di intermediazione non autorizzati: ci può essere l’idea che questo tipo di
adozione sia una forma di solidarietà verso bambini meno fortunati dove conta solo garantire al
bambino i beni materiali
o Età avanzata dei coniugi al momento dell’adozione: il rischio è che i genitori non siano
sufficientemente flessibili per operare le trasformazioni necessarie per far posto al nuovo
bambino
o Tendenza a nutrire eccesive aspettative nei confronti del nuovo venuto: i genitori cercano di
assimilare il minore alla propria cultura negando ogni tipo di differenza
o Nei minori stranieri adottati spesso sono presenti problemi comportamentali: il minore straniero,
per il timore di un secondo abbandono da parte della famiglia adottiva, cerca inizialmente di
adeguarsi alle aspirazioni dei genitori adottivi, ma quando avverte che deve annullare la propria
soggettività inizia a manifestare problemi comportamentali che spesso diventano l'espediente
per la sua restituzione.
o Inoltre alcuni autori sostengono l'importanza del supporto reciproco e delle comunicazioni
adeguate all'interno delle relazioni familiari, sottolineando come alla base della restituzione del
minore adottato, nella maggior parte dei casi, si celi l'eccessiva conflittualità nella relazione
madre adottiva-bambino, mentre la relazione padre adottivo-bambino appare più stretta e
positiva il padre rappresenta spesso una figura di supporto, di contenimento, facilitante la
comunicazione e il sostegno nella crescita del figlio in misura maggiore della madre.
 Il sistema bambino:
o Età e storia pregressa: il bambino incontra notevoli difficoltà di adattamento al sistema
socioculturale, soprattutto se è già preadolescente; La fascia più a rischio è quella che va dai 10
ai 15 anni, perché questi ragazzi, avendo un carattere già formato e avendo appreso e
interiorizzato stili di vita e valori propri della cultura d'origine, faticano ad adattarsi a un nuovo
mondo. Le difficoltà aumentano se la famiglia adottante richiede un totale assorbimento delle
caratteristiche nella nuova realtà familiare, sociale e culturale. Anche le relazioni con i pari
risultano difficili a causa dell'incomprensione linguistica e di una difficoltà a instaurare rapporti
con bambini spesso più piccoli dell'adottato, perché quest'ultimo viene spesso inserito in classi
inferiori rispetto alla sua età per garantirgli un apprendimento più lento. Queste situazioni
alimentano la già scarsa autostima del ragazzo che si percepisce come indegno, vivendo così,
oltre al trauma dell'abbandono, anche il disagio di trovarsi in una nuova realtà da cui non si può
scappare, se non con un nuovo abbandono.
o Il livello di supporto e sostegno che gli adolescenti adottati ricevono e percepiscono dalla
relazione con la propria madre, una variabile critica per una buona o cattiva riuscita
dell'esperienza adottiva: nel confronto con i coetanei non adottati, i minori stranieri
percepiscono una maggiore apertura comunicativa e meno difficoltà relazionali con entrambi i
genitori. La qualità delle interazioni comunicative sembra influenzare in modo significativo
l'adattamento al nuovo contesto socio culturale e diventa cruciale a questo proposito la figura
della madre adottiva, in quanto è proprio un livello di supporto percepito nella relazione con tale
figura, insieme all'apertura della comunicazione, a costituire in più importante fattore protettivo
dal rischio psicosociale negli adolescenti stranieri. La figura del padre è un altro essenziale
elemento protettivo poiché gioca un ruolo centrale nel network relazionale dell'adolescente.
 il sistema degli operatori sociali

5. IL RUOLO DEGLI OPERATORI


Nelle fasi di valutazione, ma anche in quelle di verifica delle coppie adottive, i colloqui sono spesso
caratterizzati dalla applicazione inconsapevole da parte degli operatori di modelli mentali che possono
rinforzare l'idea che i nuovi genitori siano i salvatori di quel bambino che risolveranno tutti i suoi problemi.
Appare difficile far emergere nella coppia le aspettative sul bambino o i reali sentimenti -che accompagnano

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ad esempio il primo incontro con lui-. Una volta stabilità l'idoneità, trascorrono spesso tempi d'attesa molto
lunghi, che non prevedono incontri tra gli operatori e le famiglie adottanti. Durante questo spazio di assenza
di un bambino reale, si amplificano le aspettative e le fantasie della coppia adottante. Quando poi il bambino
viene assegnato alla famiglia, diventa essenziale un monitoraggio della stessa da parte dei servizi. È
necessario un sostegno professionale per tutto il nucleo familiare che funga da protezione per i cambiamenti
e adattamenti dei suoi membri. Il sistema degli operatori sociali è una risorsa che va rinforzata nell'adozione
affinché si possa favorire la costruzione di una relazione adottiva positiva, instaurando con il minore e la sua
nuova famiglia un rapporto autentico e diretto nel quale tutti i protagonisti si sentano sostenuti nel loro
percorso di preparazione, crescita e cambiamento sia nella fase precedente all'adozione sia nel resto di tutto
il percorso. Il rapporto con gli operatori spesso si ritiene concluso con l'invio della relazione e la
proclamazione dell'adozione definitiva da parte del Tribunale.

6. CONCLUSIONI
-riferimenti al caso di Marco e Simona, vedi libro-

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CAPITOLO 7: PSICOPTATOLOGIA E GENITORIALITA’

In molte situazioni problematiche con cui gli operatori entrano in contatto si possono trovare tracce, più o
meno conclamate, di patologia dei genitori; molti bambini sono nella condizioni di crescere con un genitore
con sofferenza psichica. Alcuni genitori soffrono di patologie minori e temporanee, altri presentano patologie
gravi e croniche. È importante tenere in considerazione anche l’analisi dei fattori che aggravano le già difficili
situazioni familiari nei quali vi sia un paziente psichiatrico e di quelli che possono ridurne gli effetti negativi
per poter giungere una migliore comprensione di come si sviluppi la relazione genitori-figli.

1) Crescere con un genitore affetto da psicopatologia: uno sguardo alla letteratura


La letteratura internazionale indica che i genitori con problemi psichiatrici persistenti, come i disturbi di
personalità, abuso di sostanze, depressione cronica o schizofrenia, sono molto frequenti. Le ricerche
sottolineano l’importanza di considerare l’adattamento e il funzionamento familiare complessivo, di prestare
attenzione alla relazione di coppia, a come il bambino vive la malattia del genitore e a quali strategie utilizza
per farvi fronte, piuttosto che concentrarsi esclusivamente sulla gravità o sulla diagnosi del genitore.
I problemi psichiatrici dei genitori esercitano un impatto negativo sullo sviluppo e sul benessere dei bambini.
Da uno studio di follow-up emerge che un terzo dei figli di genitori affetti da psicopatologia sviluppa problemi
gravi e persistenti, un terzo mostra disturbi temporanei, mentre i restanti presentano difficoltà emotive e
comportamentali. In uno studio successivo, la percentuale di bambini che mostrano forme psicopatologiche
gravi è aumentata. Tra i problemi riscontrati vi sono disturbi psicosomatici, patologie legate all’ansia,
problemi cognitivi, condotte aggressive e antisociali, bassa autostima, depressione, fallimento scolastico e
difficoltà nella socializzazione.
La presenza di disturbi psichiatrici nei genitori può costituire un fattore di rischio in termini di difficoltà
psicosociali, disturbi affettivi e comportamentali, psicopatologia, abuso fisico e sessuale, trascuratezza e
addirittura morte dei figli.
Non necessariamente le psicopatologie implicano l’esercizio di una genitorialità sempre negativa. Il fattore
di rischio determinante, quindi, non è il tipo di diagnosi, ma piuttosto il comportamento del genitore nel
quotidiano.
Hall individua 3 diversi ordini di fattori, la cui interazione influenza lo sviluppo del bambino, contribuendo
alla sua resilienza o alla sua vulnerabilità allo stress.

1.1) Fattori predisponenti


Si riferiscono agli aspetti intellettivi temperamentali, di personalità, cognitivi, fisici, legati al genere, alla
presenza di malattie o disabilità congenite o acquisite che possono rendere il bambino più vulnerabile e più
incline a incontrare difficoltà nel far fronte alla presenza di un genitore affetto da problemi psichiatrici.
- Il buon livello intellettivo costituisce un fattore di protezione: bambini con una buona dotazione
cognitiva risultano maggiormente in grado di far fronte allo stress, anche quello legato alla malattia
del genitore.
- Vi sono altre caratteristiche di base, connesse ai ritmi e alle regolarità iniziali che compongono il
temperamento, che non sempre hanno un’analoga valenza positiva. Tra i figli di genitori psicotici, vi
è una maggiore incidenza di bambini con temperamento difficile: caratteristiche temperamentali
connotate da ritmi irregolari nella alimentazione e nel sonno, da segnali di ritiro e rifiuto delle
situazioni molto intense, mettono a dura prova le capacità genitoriali e fanno correre al bambino il
rischio di maltrattamento e abuso. La presenza di psicopatologia può fungere da amplificatore del
rischio, perché i genitori vivono il temperamento del figlio come un fallimento personale.
La presenza di problemi comportamentali nel bambino costituisce un altro fattore di stress.
- Le differenze di genere rivestono una certa importanza, soprattutto per il fatto che la depressione
materna esercita un impatto più negativo sulle figlie rispetto che sui figli maschi, mostrando
un’incidenza più elevata rispetto alle coetanee di sintomi depressivi. Sembra valere il processo di

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identificazione: i figli di genere omologo a quello del genitore psicologicamente disturbato sono più
a rischio di sviluppare disturbi nel corso dello sviluppo, perché mettono in atto comportamenti di
imitazione e interiorizzano le problematiche del genitore dello stesso sesso.
- Tra i fattori predisponenti si riscontrano anche i fattori genetici, per spiegare la notevole incidenza di
figli che presentano anch’essi, come i genitori, disturbi psichiatrici. Tuttavia non vi sono chiare
evidenze in letteratura circa l’ereditarietà del disturbo psichiatrico. Quello che si può dire è che la
presenza di psicopatologie legate all’ansia, associate o meno a sintomi depressivi, risultano correlate
allo sviluppo nei figli di quadri fobici e ansiosi. La depressione, invece, indipendentemente dalla
comorbilità con le forme di patologia ansiosa, è apparsa correlata, riguardo ai figli, all’incremento del
rischio di sviluppare fobia sociale, depressione, disturbi della condotta, scarso funzionamento
sociale, disturbi d’ansia. Tuttavia non esiste una causalità diretta e lineare. Tienari et al. sostengono
che disturbo del genitore non viene trasmesso a livello genetico, ,a rappresenta un fattore
predisponente che, nell’interazione con i fattori ambientali, può incrementare il rischio di uno
sviluppo psicopatologico. Se ne deduce che la positività dell’ambiente può costituire un fattore di
protezione. Il ruolo dei fattori genetici non è chiaro, dal momento che è difficile isolarne gli effetti e
valutare l’interazione con i fattori ambientali.
- Tra i fattori predisponenti sono state individuate le difficoltà pre o perinatali, che sono più frequenti
nei figli di genitori pazienti psichiatrici e appaiono correlate a un’elevata incidenza di psicopatologia
nei figli.
Nelle famiglie con genitore psicotico i fattori di rischio sono numerosi a causa delle gravidanze
precoci e non desiderate e per il fatto che spesso tali madri negano la gravidanza, assumendo
comportamenti a rischio per il feto. Ciò si correla a una maggior incidenza di bambini nati pretermine
o con patologie fisiche e, infatti i neonati di madri depresse presentano bassi punteggi Apgar,
ipotonia, scarse capacità di auto-calmarsi: fattori che a loro volta costituiscono un rischio per la
creazione del legame mamma-bambino. Inoltre, nelle madri affette da schizofrenia, sono più
frequenti le interruzioni di gravidanza spontanee o volontarie e vi è una maggior incidenza dei bimbi
nati morti. Tali madri finiscono per ricevere un sostegno peri e post-natale inadeguato. Inoltre dopo
la nascita del neonato, le madri schizofreniche sono maggiormente a rischio di sviluppare sintomi di
depressione post-partum o addirittura psicosi post partum.
Le madri schizofreniche interagiscono meno con i propri neonati, mostrano rabbia e disappunto e
elevati livelli i aggressività fisica e verbale. La presenza di patologia psichiatrica nella madre incide
negativamente sulla possibilità di vivere positivamente il rapporto con il proprio bambino.
- La presenza di alcuni tratti fisici particolari del bambino, come handicap o malattie croniche, che
anche in genitori psicologicamente sani predispongono verso trascuratezza e abuso, diventano
elementi ancor più favorenti l’espressione di maltrattamento da parte di genitori con patologie
psichiatriche.

1.1. Fattori perpetuanti


Perdurano durante il corso di vita e, interagendo in modo diretto con la vulnerabilità determinata dai fattori
predisponenti, possono compromettere lo sviluppo e il benessere del bambino.
- Qualità del legame mamma-bambino: alcuni fattori protettivi, quali la breve durata della separazione
connessa ai ricoveri, la possibilità per il bambino di ricevere cure adeguate da un adulto che vicaria
la funzione materna, la continuità di incontri positivi tra la madre naturale e il bambino, possono
ridurre l’impatto delle conseguenze negative. Inoltre, l’epoca di insorgenza della malattia della
madre si configura come un altro importante fattore di mediazione. L’insorgenza precoce della
malattia del caregiver può minare la costituzione di un attaccamento sicuro; l’aver sperimentato una
relazione positiva con la madre e il conseguente instaurarsi di un attaccamento sicuro diventano
fattori protettivi nei casi in cui a patologia della madre insorga successivamente. Quanto più
precocemente si presentano i sintomi della malattia psichiatrica e quanto più si inscrivono inquadri

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complessi e mutisintomatici, tanto più saranno minate le basi per la costituzione di una relazione
positiva mamma-bambino. Per di più, l’assenza di un partner o altro familiare che possa vicariare può
implicare l’allontanamento del bambino e il suo inserimento in un ambiente idoneo a rispondere ai
suoi bisogni (il recupero, anche in caso di neonati deprivati, è rapido e sostanziale).
- Ambiente socio-culturale in cui la famiglia vive: la presenza di una rete familiare e amicale supportiva
può costituire un fattore protettivo poiché migliora le competenze di parenting e incrementa le
capacità dei bambini di far fronte allo stress. La valenza protettiva delle figure di supporto dipende,
tuttavia dal tipo di relazione che esse sono in grado di stabilire col genitore affetto da patologia.
- Livello socio-economico: le difficoltà economiche di un certo rilievo, associate alla presenza di
psicopatologia nel genitore, costituiscono importanti fattori di rischio. La presenza di difficoltà
economiche può interagire negativamente con i sintomi del genitore malato sia in modo diretto,
tramite l’innalzamento del livello di stress, sia in modo indiretto, favorendo lo sviluppo di dinamiche
familiari disfunzionali, che a loro volta si ripercuotono negativamente sul benessere del bambino. è
comunque difficile distinguere gli effetti della povertà sullo sviluppo psicofisico dei bambini da quelli
derivanti dal vivere con un genitore paziente psichiatrico.
- Dinamiche familiari: le caratteristiche delle relazioni familiari possono variare notevolmente non solo
tra differenti famiglie, ma nella stessa famiglia in momento diversi. Le dimensioni connesse ai
differenti stili familiari indagate in letteratura sono varie e per questo vengono spesso collocate lungo
un continuum che caratterizza le singole dimensioni: dimensione della vicinanza, dimensione
dell’organizzazione, dimensione affettiva, modalità di gestione del conflitto.
Stili genitoriali caratterizzati da indifferenza, non coinvolgimento e trascuratezza sono associati
all’incremento, nei bambini, di aggressività, di bassa autostima, di scarso controllo degli impulsi, e di
difficoltà nella relazione genitore-figlio. Nelle famiglie con un genitore psicopatologico si incontrano
frequentemente stili di questo tipo. Lo stile parentale è un fattore predittivo dello sviluppo di
difficoltà emotive e comportamentali nei figli adolescenti, più che il tipo di patologia cui erano
portatori i genitori. Gli effetti dello stile genitoriale sono tuttavia mediati dalla durata delle
interazioni, dalla loro coerenza nel tempo e dalla presenza di un genitore con uno stile differente e
positivo, che faccia sperimentare al bambino una buona relazione.
Le famiglie con un membro psicotico vengono spesso stigmatizzate dalla società e finiscono per
sentirsi in colpa, responsabili della malattia del loro congiunto e gli stessi membri della famiglia
incontrano gravi difficoltà psicologiche nel parlare apertamente della malattia.
La chiara definizione di una diagnosi e la possibilità di spiegarla apertamente ai figli permette a questi
ultimi di adattarsi alla malattia e di sentirsene meno responsabili. Il bambino, in tal modo, riesce a
prendere dalla malattia e dal genitore quella distanza che gli consente di investire in relazioni
esterne, senza per questo compromettere i suoi legami familiari.

1.2. Fattori precipitanti


Variabili che possono intervenire in modo contingente durante il ciclo di vita della famiglia, interagendo
negativamente con la psicopatologia del genitore e aumentando il rischio per i bambini.
- Eventi di vita negativi: le famiglie con genitori malati psichiatrici sono coinvolte in modo
significativamente superiore in eventi di vita negativi, come separazioni precoci genitore-figlio,
disoccupazione, conflitto coniugale, divorzio, frequenti cambi di partner, lutti e perdite.
- Difficoltà familiari temporanee, tra le quali il conflitto familiare ma anche dinamiche meno evidenti,
ma ugualmente dannose, ad esempio la presenza di rapporti preferenziali tra un genitore e un figlio,
che suo malgrado viene coinvolto nel conflitto coniugale e triangolato. La triangolazione è molto
frequente nelle famiglie con genitore psicopatologico, e si verifica quando il genitore non malato
chiede ai propri figli di sostituirlo nella cura del partner malato o di diventarne sostituti 
parentificazione del bambino. si determina un’ipermaturità dei figli di genitori affetti da
psicopatologia: bambini bravi a scuola, in buona salute, ben adattati, che danno un’impressione di

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serietà, equilibrio e maturità, ma che in realtà esprimono attraverso la compiacenza e l’adeguamento


solo unno pseudo-adattamento; spesso negano le proprie emozioni, per sopportare l’insicurezza, la
tensione e la paura legata alla patologia del genitore.

2) Disturbi psichiatrici nei genitori e violenza all’infanzia


La presenza di psicopatologia nei genitori sembra essere correlata a una maggior incidenza di maltrattamento
e abuso, anche se i meccanismi soggiacenti non sono ancora stati sufficientemente chiariti. Maltrattamento,
abusi sessuali e trascuratezze rinviano, infatti, a dinamiche familiari disfunzionali o a disturbi non sempre
inquadrabili in sindromi psichiatriche e che comunque vanno oltre la malattia mentale del singolo genitore.
Da uno studio longitudinale è emerso che i bambini vittime di abusi e maltrattamenti rappresenta l’1% della
popolazione in esame; se si analizzano nello specifico le caratteristiche genitoriali connesse al
maltrattamento troviamo sia la psicopatologia del genitore sia fattori altrettanto rilevanti quali la giovane
età della madre e del padre al momento della gravidanza, il basso livello di istruzione di entrambi i genitori,
storie pregresse d’abuso e maltrattamento e assenza di una figura paterna nell’infanzia della madre.
Tra i genitori maltrattanti vi è un’incidenza superiore di disturbi psicopatologici a cui spesso si associano tratti
di personalità e atteggiamenti caratterizzati da bassa autostima, scarso controllo degli impulsi, affettività
negativa e comportamenti antisociali che favoriscono l’espressione di comportamenti violenti e maltrattanti.
Emerge anche una differenza tra madri e padri che vede le prime responsabili in misura più elevata di atti di
omissione (trascuratezza) a causa dell’impatto di senso di impotenza, sfiducia, bassa autostima, scarsa
capacità di concentrazione, anedonia e dissociazione sull’esercizio delle capacità genitoriali; i padri affetti da
psicopatologia sono invece coinvolti con maggiore frequenza in atti di commissione (abusi e maltrattamenti)
dovuti a scarso controllo degli impulsi, aggressività e irascibilità, abuso di alcol e sostanze. Quello che si è
notato è che accanto a azioni trascuranti e maltrattanti, un fattore significativo è rappresentato dalle
esperienze pregresse di violenza subite dai genitori stessi nella propria infanzia.
Alcuni autori sostengono che la depressione renda i genitori facilmente irritabili e ostili e ciò li può indurre a
reagire negativamente ai comportamenti dei propri figli, in quanto ritenuti sbagliati, mettendo in atto stili
educativi abusanti. La presenza di DPTS non sembra invece essere correlata direttamente all’aumento di
rischio per l’abuso e maltrattamento, ma è associata a un funzionamento familiare caotico e a irritabilità, che
potrebbero evolvere o no in atteggiamenti negativi rivolti ai figli.
Nel caso di madri schizofreniche, i rischi per lo sviluppo emotivo del bambino e la possibilità di
maltrattamento sono molto amplificati nelle situazioni in cui il bambino entra a far parte del contenuto dei
deliri del genitore, nei quali assume il ruolo di persecutore che minaccia l’integrità psichica della madre
stessa. Queste madri, temendo attacchi e pericoli, possono costringere i loro bambini ad assumere
atteggiamenti e comportamenti bizzarri (andare a scuola con abiti strani, che nei loro deliri hanno funzione
magico-protettiva; ostacolare la frequenza della scuola a causa di pericoli; impedire l’assunzione di cibi fuori
di casa o lo scambio di oggetti tra amici).
Una forma estrema di violenza è l’infanticidio. Possiamo riscontrare 3 tipologie di madri infanticide:
- Madri che uccidono i propri neonati nelle 24 ore dopo il parto: in questo caso vi è un’assenza di
patologia psichiatrica conclamata e diagnosticata. Si tratta di ragazze molto giovani, appartenenti a
differenti livelli socio economici, etnie o religioni, nella maggioranza non sposate e spesso single, la
cui principale caratteristica è la negazione della gravidanza sia con se stesse sia con gli altri per il
timore che la gravidanza prima, e la nascita del bambino poi, le escludano dal proprio ambiente
sociale. Nella loro storia ci sono spesso fenomeni dissociativi. Paura della gravidanza, grande
incertezza e solitudine che le porta a dissociarsi e a non rendersi conto coscientemente dei
cambiamenti del proprio corpo e, anche quando riconoscono di aspettare un bambino, non sono in
grado di fare piani futuri. Spesso vivono in contesti caratterizzati da bassi livelli culturali, scarsità di
supporto, isolamento emotivo, stato occupazionale precario.
- Madri che uccidono per fatalità i proprio bambini: tipologia connessa a disturbi di personalità
dipendente o borderline. Il figlio viene ucciso in modo accidentale a causa di grave trascuratezza o

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all’interno di una storia di maltrattamenti ripetuti. Madri giovani, single o sposate con uomini non
coinvolti nella cura dei figli, alti livelli di stress, assenza di supporti sociali, minimizzazione della
gravità di atti di trascuratezza o maltrattamento.
- Madri che uccidono i propri bambini volontariamente: donne affette da gravi patologie psichiatriche.
La patologia costituisce un fattore di rischio, ma raramente è di per sé responsabile dell’atto
compiuto dalla madre: il rischio per i figli nasce dall’interazione tra la patologia materna e altri fattori,
quali l’isolamento, l’assenza di reti di supporto e la povertà ecc.
Queste madri non percepiscono difficoltà nel prendersi cura dei propri figli nei periodi di remissione
della malattia o nei periodi precedenti al suo insorgere, ma presentano alti livelli di stress e difficoltà
molto elevate associate al ruolo genitoriale all’insorgere delle crisi psicotiche. Denunciano difficoltà
nel capire i bisogni dei proprio bambini, descritti in modo scissionale (o bravi o cattivi): difficoltà nel
rapportarsi in modo realistico ai bambini poiché la relazione è filtrata e deformata da sintomi
psichiatrici.
Uccisione del bambino spesso spiegata come gesto altruistico, fatto per amore. Molto spesso si
assiste a un tentativo di suicidio in cui la madre trascina con sé il figlio, spiegabile sulla base
dell’identificazione della madre con il proprio bambino, avvertito come un prolungamento del
proprio corpo, come parte di sé: gesto motivato dal desiderio di proteggerlo dai pericoli.
Dopo il tragico evento non c’è in queste madri una piena consapevolezza della gravità di ciò che
hanno fatto, anche se sono frequenti i sensi di colpa e la difficoltà di elaborare la perdita dei loro
bambini.
I bambini non investiti affettivamente, percepiti dalla madre come estranei e distanti affettivamente,
sono perlopiù risparmiati nel coinvolgimento nei tentativi di suicidio.
Nel caso in cui siano i padri gli autori dell’infanticidio, essi presentano un profilo simile a quello delle madri
del secondo tipo, in un quadro di generale maltrattamento. Questi padri presentano meno frequentemente
psicopatologie conclamate, ma evidenziano disturbi di personalità caratterizzati da scarso controllo degli
impulsi e aggressività.

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CAPITOLO 8: GENITORI DEVIANTI E ANTISOCIALI

L’incarcerazione dei genitori può ripercuotersi sullo sviluppo psicologico ed emotivo dei figli, determinando
gravi carenze educative e conseguenze anche a lungo termine rintracciabili di generazione in generazione.

1) Il comportamento antisociale
Cleckey è il primo a fornire una descrizione clinica completa della personalità antisociale, evidenziandone
come caratteristica predominante un comportamento così caotico da essere in scarsa sintonia con le richieste
della realtà e della società, accompagnato da un estrema superficialità nei rapporti interpersonali,
irresponsabilità in ogni relazione, mancanza di rispetto per i sentimenti altrui e incapacità di apprendere
dall’esperienza. La personalità antisociale si organizza in un complesso e articolato repertorio di azioni, le cui
cause fanno riferimento alle caratteristiche psicologiche dell’individuo e al suo conteso di appartenenza.
È un fenomeno multifattoriale: il fenomeno antisociale è concepito come il risultato della complessa
combinazione e interazione tra fattori sociali, psicologici e biologici.
Eysenck ha elaborato una teoria biosociale del crimine: l’interazione tra fattori biologici e sociali gioca un
ruolo determinante. Egli sostiene che certi tratti stabili del carattere, a marcata connotazione biologica,
possono incrementare il rischio di formazione di una personalità antisociale, soprattutto se il soggetto risulta
inserito in un ambiente sociale disorganizzato e carente da un punto di vista delle risorse materiali
psicologiche. Secondo alcuni ricercatori, la propensione a compiere azioni criminali è in parte geneticamente
determinata: la componente ereditaria del comportamento antisociale sembra connessa a un deficit del
funzionamento del sistema nervoso autonomo, riconducibile a una scarsa predisposizione nei confronti del
condizionamento e dell’incapacità di interiorizzare le norme morali.
Due diverse tipologie del comportamento criminale: quello che si manifesta solo nell’adolescenza e quello
che inizia nell’infanzia e prosegue nel tempo. Nel secondo caso, sembra che il comportamento antisociale sia
strettamente connesso a fattori di natura biologica e alla loro interazione con un ambiente di vita inadeguato.
Nel tentativo di comprendere e prevenire le situazioni di rischio diviene quindi importante, per prima cosa,
considerare adeguatamente la potenziale influenza del contesto in cui il nucleo familiare risiede.
Negli Stati Uniti sono stati sviluppati programmi di prevenzione volti alla riduzione delle complicazioni
perinatali, soprattutto in famiglie già vulnerabili da un punto di vista socio-economico, al fine di limitare
l’influenza dei fattori biologici in contesti sociale potenzialmente negativi.

2) Genitori incarcerati e sviluppo psicologico dei figli


È stato evidenziato che i figli di persone detenute in carcere possono manifestare il loro disagio attraverso
problemi comportamentali e/o scolastici, oppure accostandosi a loro volta al mondo della delinquenza. La
convivenza con un genitore deviante e l’impatto dell’incarcerazione dei genitori agiscono negativamente
sullo sviluppo emotivo, comportamentale e cognitivo del bambino. Comportamenti aggressivi e di
isolamento sociale e multi problematicità sono stati osservati in bambini i cui genitori erano in prigione.
L’effetto del comportamento deviante, dell’incarcerazione e dell’arresto dei genitori sull’assetto psicologico
dei figli è stato studiato a lungo dal Center for Children of Incarcerated Parents (Ccip). I servizi offerti da
questo centro riguardano la progettazione di interventi di riunificazione familiare rivolti alla tutela del
rapporto tra genitore in prigione e famiglia, l’attuazione di servizi terapeutici e supporto alla famiglia
attraverso un aiuto concreto e psicologico soprattutto per quanto riguarda l’accudimento e l’allevamento dei
figli. Dopo anni di ricerca, il Ccip ha messo in evidenza come la situazione dell’arresto e dell’incarcerazione di
un genitore rappresenti per il bambino un evento particolarmente doloroso: sono numerosi i casi in cui i
bambini sono costretti a esperire il trauma di separazioni improvvise che li rendono vulnerabili a sentimenti
di ansia, rabbia, paura, depressione, vergogna e colpa. Separazione e vissuto traumatico divengono quindi le
parole chiave del problema, attorno cui si innestano i possibili effetti e le conseguenze psicologiche. Se
l’arresto e l’incarcerazione si ripetono come pattern stabili nella vita del genitore e del figlio, le conseguenze

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sociali possono essere ancora più gravi e profonde, fino all’eventuale trasmissione intergenerazionale della
delinquenza.
Da una ricerca è emerso che i figli di genitori incarcerati presentano livelli significativamente superiori di
disturbi della condotta e deficit dell’attenzione e disturbi dell’iperattività e sono più soggetti a sospensioni,
espulsioni scolastiche, arresti e incarcerazioni. Esperiscono durante la loro vita un numero maggiore di
esperienze negative (avere uno dei due genitori dipendente da droga e alcol, trovarsi in condizioni
economiche svantaggiose e precarie, avere una storia di abuso e/o maltrattamento, essere testimoni di scene
di violenza, vivere profonde crisi familiari). Vi è un’interazione tra incarcerazione dei genitori e altri fattori di
rischio concomitanti o già presenti. Numerose ricerche hanno dimostrato uno stretto legame tra criminalità
dei genitori e incremento dell’incidenza dei disagi comportamentali ed emotivi nei figli. La condizione di
criminalità spesso si accompagna a una serie di altri fattori critici che possono avere un’influenza
estremamente negativa sull’assetto psicologico dell’individuo, indipendentemente dalla presenza di un
comportamento antisociale parentale. E’ difficile distinguere con chiarezza gli effetti direttamente
connessi all’incarcerazione dei genitori rispetto all’influenza esercitata dalle altre variabili.
L’incarcerazione di un genitore è un evento traumatico per l’intero gruppo familiare, che può sconvolgere gli
equilibri tra i membri, la gestione della quotidianità e le relazioni interpersonali tra gli individui. Una
conseguenza immediata può tradursi nell’affido del minore a famiglie diverse. Oppure spesso i bambini sono
costretti a vivere con un solo genitore: la monoparentalità potrebbe costituire un fattore di rischio per lo
sviluppo, poiché diminuisce da parte del genitore educativamente presente la possibilità di offrire al figlio il
controllo, la supervisione, la disciplina congiunta della coppia.
Un altro fattore di rischio in casi di incarcerazione è il conseguente disagio economico e a volte la grave
povertà.
Altro fattore di rischio è la presenza di dipendenza da sostanze stupefacenti, che molto spesso è precedente
l’arresto e/o l’incarcerazione del genitore.
L’evento dell’arresto e dell’incarcerazione di un genitore è solo uno tra i numerosi fattori di rischio che
possono influire sull’assetto psicologico del bambino: in queste situazioni il bambino è soggetto
all’esposizione di fattori di rischio legati alle caratteristiche die genitori e dell’ambiente circostante. È
necessario intervenire supportando la famiglia, non solo da un punto di vista economico, cercando di
migliorare le condizioni materiali di vita, ma soprattutto sostenendola da un punto di vista psicologico ed
emotivo, con interventi mirati al potenziamento delle capacità genitoriali e al sostegno.

3) Differenze di genere: madri e padri con comportamento deviante


Per le madri in carcere la separazione dai figli e la limitazione nei contatti è senza dubbio un importante
fattore di stress, che ha implicazioni profonde sul legame d’attaccamento e sulle competenze parentali,
capace di generare ansia, depressione e disturbi di natura psicotica. L’impatto sulla famiglia dell’arresto e
dell’incarcerazione della madre risulta più dannoso di quello del padre. La condotta della madre è un fattore
di mediazione determinante nella trasmissione intergenerazionale del comportamento antisociale.
Nel caso in cui sia la madre a manifestare comportamenti antisociali, i ricercatori hanno orientato l’attenzione
sull’eventuale influenza esercitata da tale condotta deviante sullo sviluppo e sul comportamento dei figli. La
criminalità della madre sembra avere un effetto indiretto sui figli, mediato dalle sue effettive competenze
genitoriali, e che sono le figlie a essere maggiormente influenzate dal comportamento deviante materno, al
punto da poter parlare di una sorta di continuità intergenerazionale sesso-specifica. Un importante elemento
da non trascurare è il periodo di insorgenza del comportamento antisociale. La presenza di comportamento
antisociale nella madre prima dell’età di 15 anni sembra costituire un serio fattore di rischio: le donne con
problemi di devianza fin dall’adolescenza si dimostrano incapace di prendersi realmente cura dei bisogni dei
propri figli, perché non riescono a istaurare con loro una relazione gratificante e sicura. Se il comportamento
antisociale della madre compare dopo i 15 anni, i risultati delle ricerche mostrano che le competenze
genitoriali materne fungono da fattore di mediazione nella trasmissione intergenerazionale della devianza:
le capacità di accudimento e la possibilità di instaurare un legame di attaccamento sicuro con il bambino non

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vengono pregiudicate dalla condotta delinquenziale della madre. La madre dunque potrebbe possedere le
risorse adeguate per prendersi cura dei figli in modo sufficientemente responsivo e sensibile.
Poche ricerche si sono orientate verso gli effetti del comportamento deviante del padre sui figli. I padri, in
generale, giocano un ruolo secondario nell’accudimento della prole, in quanto trascorrono con loro minor
tempo, e di conseguenza, la relazione padre-figlio risente maggiormente dell’influenza del contesto sociale.
La condotta deviante spesso può accompagnarsi a uno stile parentale carente, non soltanto da un punto di
vista affettivo, ma soprattutto per quanto concerne il monitoraggio della situazione e delle condotte dei figli.
L’influenza del comportamento deviante paterno sembra interessare maggiormente i figli più grandi.

4) La trasmissione intergenerazionale del comportamento deviante


Numerosi studi e ricerche hanno mostrato come alcune condotte violente e aggressive, i comportamenti
devianti, l’uso di sostanze stupefacenti o d’alcol, la violenza familiare e l’abuso all’infanzia possano essere
trasmesse da una generazione all’altra. Sono molteplici i meccanismi psicologici che portano i figli ad adottare
e interiorizzare progressivamente lo stile parentale dei genitori. Sono poche le ricerche volte a verificare se
genitori con comportamenti devianti hanno figli con analoghi comportamenti devianti. Alcuni studiosi
ritengono che il coinvolgimento dei genitori in comportamenti delinquenziali potenzialmente può essere
trasmesso ai figli. La presenza di un membro della famiglia di origine con tendenze antisociali può essere un
elemento fortemente predittivo per il comportamento delinquenziale nelle generazioni. L’influenza
intergenerazionale risulta più probabile per individui dello stesso sesso e per i figli più grandi: il
comportamento deviante dei padri sembra influenzare maggiormente la condotta dei figli maschi e
analogamente avviene nel rapporto tra madri e figlie. L’influenza intergenerazionale si manifesta anche nella
predisposizione alla formazione di coppie coniugali, in cui entrambi i partner presentano comportamenti
antisociali.
Da uno studio longitudinale che prende in considerazione 3 generazioni emerge che vi è un’alta
concertazione familiare di membri con problemi legati alla criminalità. La maggior parte delle persone
arrestate risultano concentrate in pochi nuclei familiari.
Se un membro della famiglia presenta un comportamento antisociale vi è una buona probabilità che qualche
altro parente prossimo manifesti lo stesso genere di problema (trasmissione maggiormente evidente se è il
padre ad avere problemi con la giustizia).
La trasmissione intergenerazionale della delinquenza fa parte di un ampio circuito di deprivazioni sociali e
psicologiche e colpisce principalmente le famiglie definite multiproblematiche.
Ci sono due aspetti centrali delle competenze parentali in grado di contrastare l’emergere di condotte
antisociali nei figli e di interrompere quindi la catena della devianza:
- La presenza di una relazione affettivamente gratificante e appagante tra genitore e figlio, che
permetta la costruzione di un legame di attaccamento sicuro e garantisca la condivisione dei valori
morali e delle regole sociali.
- Un controllo attento e mirato del comportamento dei figli, attraverso l’esercizio e la supervisione di
norme disciplinari chiare e coerenti.
 Si tratta dello stile autorevole, che sembra essere un fattore protettivo fondamentale per l’adeguato
sviluppo psicologico del bambino.
Il genitore deviante si dimostra spesso aggressivo, dispone di limitate capacità relazionali e vive in
ambienti caratterizzati da criminalità e trasgressione delle regole, carente di risorse personali e sociali
da investire sugli altri e incapace di assumere le proprie responsabilità genitoriali.
Sembrerebbe utile monitorare le situazioni familiari dei minori con problemi di devianza, individuando
tempestivamente i ragazzi a rischio e attuare interventi mirati non soltanto a tutelare il minore nel presente,
ma anche a prevenire la trasmissione del comportamento disadattivo alle generazioni successive. È
fondamentale un’attenta indagine psicosociale della famiglia, in cui sia ben chiara la situazione socio-
economica e la presenza di ulteriori fattori di rischio che possono amplificare lo stress.

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5) Conclusioni
È stata riscontrata un’alta percentuale di genitori che si trovano in uno stato di detenzione e che, nonostante
la difficile situazione, devono continuare a esercitare il proprio ruolo e funzione parentale.
La condizione di incarcerazione non si verifica mai isolatamente, ma è accompagnata da numerosi altri fattori
negativi che esercitano un’influenza congiunta sul nucleo familiare, isolando i suoi membri, di generazione in
generazione, in condizioni di deprivazioni e carenza. Circolo vizioso, che si ripete e si ripercuote di padre in
figlio, permettendo la trasmissione intergenerazionale non soltanto del disagio sociale, ma anche del
comportamento antisociale.
La famiglia con un genitore in prigione ha bisogno di essere supportata sia per quanto riguarda le risorse
economiche-materiali sia per il sostegno psicologico ed emotivo, affinché superi le difficoltà in termini di
carenze educative e di mancanza di controllo dei comportamenti disadattivi dei figli. Uno degli ostacoli
maggiori per queste famiglie è infatti il riuscire a far fronte alla mancanza di un riferimento educativo e
autorevole. Inoltre, in termini preventivi, diventa fondamentale riuscire a interrompere la trasmissione della
criminalità e del comportamento violento, evitando che i figli si trovino a commettere le stesse azioni dei
padri, a ripercorrere le tappe delinquenziali, a vivere in maniera disadattata all’interno della società.

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CAPITOLO 9 - CRESCERE CON GENITORI CHE ABUSANO DI SOSTANZE

Premessa
È noto come crescere in una famiglia nella quale un genitore o entrambi facciano uso di sostanze
stupefacenti sia uno dei principali fattori che mettono a rischio il normale percorso di sviluppo dei
figli.
In generale, l’abuso di sostanze stupefacenti ha gravi effetti sul comportamento degli individui, e a
lungo termine tende a produrre situazioni di notevole deterioramento in tutti gli ambiti di
funzionamento.
Come conseguenza, le competenze genitoriali delle persone con diagnosi d’abuso di sostanze
vengono pesantemente intaccate dal consumo regolare di stupefacenti.
L’influenza dell’abuso di sostanze, peraltro, non si esaurisce nel limitare ed inibire le capacità di
parenting dei genitori. Dagli studi sulla prevalenza dell’abuso all’infanzia emerge, infatti, come la
presenza di un genitore tossicodipendente sia una delle variabili maggiormente presenti nei casi
segnalati ai servizi di tutela e come l’assunzione di sostanze stupefacenti in gravidanza sia
strettamente correlata con il successivo comportamento abusante o trascurante nei confronti dei
figli.
Dal punto di vista della vita familiare, l’abuso di sostanze da parte di un genitore o di entrambi
mette in scacco quasi ogni area funzionale.
Velleman  gli effetti dell’abuso di sostanze possono disgregare i ruoli familiari, le ruotine, il
livello di comunicazione tra i membri della famiglia, la vita sociale, le finanze, e persino i rituali
familiari.
Le conseguenze del crescere in una famiglia caratterizzata dall’abuso di sostanze, inoltre, sono così
pervasive da suggerire un pattern di trasmissione intergenerazionale sia della predisposizione alla
dipendenza da stupefacenti sia della tendenza a maltrattare, abusare e/o trascurare i propri figli.

1. I genitori con dipendenza da sostanze come fattore di rischio


Mayes e Truman  possiamo distinguere quattro ambiti nei quali l’abuso di sostanze dei genitori
crea situazioni a rischio per la prole:
1. innanzitutto l’abuso di sostanze ha delle conseguenze dirette sin dalla fase prenatale,
inficiando lo sviluppo naturale del feto. le conseguenze possono essere svariate: basso
peso alla nascita, aumento di rischio per la sids (morte improvvisa dell’infante),
malformazioni congenite, limitata capacità di regolazione dello stato di attivazione.
2. in secondo luogo, le conseguenze dirette proseguono dopo la nascita, come effetto
dell’inalazione delle droghe assunte dai genitori: il bambino è esposto direttamente agli
effetti delle sostanze in una fase di rapida crescita.
1. durante lo sviluppo, gli effetti delle sostanze stupefacenti sui genitori si riflettono
direttamente sulle pratiche di parenting: scarsa capacità di rispondere alle necessità del
figlio, bassa tolleranza alle frustrazioni, ridotta regolazione delle emozioni, inibizione delle
abilità cognitive. È probabilmente in questo terzo ambito che l’abuso di sostanze da parte
di un genitore o d’entrambi determina le maggiori ripercussioni, sia per l’importanza

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psicoaffettiva che le figure genitoriali rivestono per i figli sia per la cronicità e la
reiterazione nel tempo della condizione di rischio.
3. accanto agli effetti diretti dell’uso di sostanze sulle competenze genitoriali, troviamo infine
una serie di conseguenze della dipendenza che si riverberano sull’ambito sociale
(isolamento), economico (problemi sul lavoro), relazionale, penale e soprattutto familiare.
Innanzitutto si può notare come le persone che abusano di sostanze abbiano un’elevata
comorbilità con altri disturbi psichiatrici: in particolare disturbi dell’umore quali la depressione o
stati di ansia generalizzata o persino disturbi di personalità conclamati.
Una tra le conseguenze più gravi si rileva nella strutturazione del legame d’attaccamento: i figli di
genitori con problemi di tossicodipendenza mostrano più spesso un attaccamento di tipo
disorganizzato, a causa della scarsa regolarità sia degli ambienti di crescita sia delle modalità
interattive con le quali il caregiver si rapporta ai figli.
Ma il percorso attraverso il quale il comportamento tossicomanico influisce sulle capacità di
crescere la prole può essere molto più silente. I genitori tossicodipendenti sembrano
frequentemente caratterizzati da una personalità egocentrica e narcisista, dispiegando nel
contempo un atteggiamento punitivo nei confronti della prole. In genere questi genitori hanno
gravi difficoltà a comprendere i bisogni dei loro bambini, sia a causa di carenze nella capacità di
base di decodificare i segnali di richiesta di cure, sia perché tendono a sovrastimare le competenze
dei loro figli. Per effetto di questi fattori, il genitore può diventare ipercontrollante o autoritario
nei confronti della prole o al contrario disimpegnato e non coinvolto. La conseguenza, in entrambi
i casi, è una minor efficacia nel disciplinare i figli.
A questi aspetti si sommano le dirette ricadute sugli stati di coscienza e d’attivazione cognitiva
dovuti agli effetti delle sostanze stupefacenti.
Coleman e Cassell  effetti diretti sui genitori delle diverse tipologie di sostanze.
I sedativi (alcol, tranquillanti e solventi), deprimendo il funzionamento del sistema nervoso
centrale e favorendo il rilascio dei freni inibitori, possono mettere un genitore nella condizione
d’oscillare tra atteggiamenti esageratamente affettuosi e scoppi improvvisi d’ira che possono
portare ad episodi di violenza.
Gli oppiacei (eroina) hanno l’effetto di ridurre la responsività emotiva ed indurre uno stato di
benessere generalizzato, che si trasforma in sedazione, sonnolenza e perdita di coscienza in caso
di alto dosaggio. La dipendenza da oppiacei tende a condizionare le capacità genitoriali al punto
che questi genitori riescono, a fatica, a occuparsi dei figli solo quando sono sotto l’effetto della
dose, mentre in situazione d’astinenza o d’assunzione non regolare della sostanza mettono a
rischio i figli in modo grave.
Gli stimolanti (anfetamine, cocaina, ecstasy), visti gli effetti eccitatori esercitati sugli utilizzatori,
alterano in modo grave la capacità del genitore di accudire la prole in quanto sovente, dopo aver
assunto la sostanza, il genitore si trova in uno stato d’agitazione incontrollabile, al quale fa seguito
uno stato depressivo grave, che alcuni casi può sfociare in psicosi paranoie.
Gli allucinogeni, infine, quali la cannabis e soprattutto l’Lsd, modificano la percezione sensoriale in
modo tale da rendere il genitore che ne subisce gli effetti incapace di prendersi cura dei propri
figli.

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Dal punto di vista del funzionamento sociale i genitori tossicodipendenti mostrino più
frequentemente comportamenti devianti che spesso sfociano nell’incarcerazione, di fatto
privando il bambino di una figura genitoriale o che comunque determinano un incremento nel
livello di violenza presente nel nucleo familiare, oltre a generare possibili distorsioni dal punto
delle valutazioni di natura valoriale e morale nei figli.
Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine, l’avere genitori tossicodipendenti rimane uno dei
maggiori fattori di rischio per l’insorgenza di un comportamento d’abuso di sostanze in età adulta:
come risulta da una ricerca di Hoffman e Cerbone, avere avuto un genitore che abusa di sostanze
incrementa di svariate grandezze la probabilità di diventare a propria volta consumatori di
stupefacenti. Le principali variabili di mediazione in questo caso sono un alto livello di coesione
familiare, che diminuisce il rischio, e la presenza di disturbi dell’umore dei genitori, che al
contrario l’aumentano.
 ambito nel quale le conseguenze della tossicodipendenza genitoriale sono probabilmente più
gravi, vale a dire i comportamenti abusanti e negligenti nei confronti dei figli.
Da numerose fonti risulta come l’associazione tra l’abuso di sostanze e comportamenti d’abuso
e/o negligenza sia notevole, tanto che in alcuni di questi studi la co-presenza di utilizzo di droghe e
di comportamenti abusanti si è rilevata in un numero di soggetti superiore al 55% di quelli
esaminati.
Nella ricerca di Ammerman et al.  è stato analizzato tramite un apposito strumento clinico il
“potenziale” di maltrattamento nei confronti dei propri figli da parte dei genitori di 290 bambini di
età compresa tra i 10 e i 12 anni. I genitori sono stati divisi in base alla presenza o assenza di una
diagnosi d’abuso di sostanze e i risultati hanno chiaramente mostrato come esso produca un
aumento nella possibilità di maltrattamento nei confronti dei figli.
È tuttavia il terzo dato riportato da Ammerman e colleghi ad essere di particolare interesse: la
presenza di un genitore con disturbo da abuso di sostanze incrementa significativamente la
possibilità per l’altro genitore di divenire a sua volta maltrattante nei confronti del figlio.
È probabile, secondo gli autori, che l’elevato grado di stress che si riscontra nelle famiglie con un
genitore tossicodipendente abbia il potere di degradare anche le competenze genitoriale del
genitore “sobrio” e in tal casi verrebbe ad essere messo in discussione uno dei principali fattori
protettivi sovente invocati in queste situazioni, vale a dire la presenza di un genitore o di una
figura d’attaccamento non addicted. La messa in atto di comportamenti violenti, peraltro, non si
esaurisce nei confronti della prole ma spesso si estende al partner.
A queste conseguenze, di livello prettamente individuale, dobbiamo aggiungere il fatto che spesso
la trasmissione dei pattern d’abuso di sostanze e dei correlati in termini di maltrattamento ed
abuso assume una traiettoria intergenerazionale. Fattori quali l’abuso di sostanze dei genitori, il
maltrattamento subito in infanzia e in età adulta, e le competenze genitoriali interagiscono tra
loro diventando di volta in volta fattori di rischio o protettivi.
 ci sono due contributi originali: da una parte, uno studio che isola le conseguenze delle cure
genitoriali a rischio rispetto alle conseguenze dell’esposizione in utero agli effetti delle sostanze;
dall’altra, una ricerca che ancora al dato somatico le ricadute di un parenting inadeguato.
Il lavoro di Fals-Stewart et al.  analizza il livello d’adattamento psicosociale di figli di padri
tossicodipendenti, permette di valutare le conseguenze dell’esposizione a pratiche genitoriali non

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ottimali isolando nel contempo l’effetto dell’esposizione in utero a sostanze stupefacenti. Le madri
dei 112 minori esaminati non avevano, infatti, abusato di sostanze stupefacenti né d’alcol durante
la gravidanza. I risultati di questa ricerca hanno dimostrato come i minori in esame fossero tutti
caratterizzati da alti livelli di maladattamento psicofisico e in particolare come ben il 42%
superasse il punteggio di soglia per una condizione di conclamato rischio clinico. Le variabili
maggiormente implicate nell’aumentato grado di disadattamento psicosociale dei figli sono
risultate l’età dei genitori, il livello economico della famiglia, il conflitto genitoriale e la violenza da
parte dei genitori.
Lavoro di Moss et al.  è possibile, invece, ricavare indicazioni sulle conseguenze di natura
prettamente fisiologica determinate dall’abuso di sostanze da parte dei genitori.
Attraverso analisi di laboratorio gli autori hanno misurato la concentrazione di cortisolo presente
nella saliva sia in figli di tossicodipendenti sia in un gruppo di controllo di figli di genitori non a
rischio e le misurazioni sono state effettuate in situazioni di alto stress e di basso stress.
I risultati hanno mostrato come nei figli di genitori tossicodipendenti il livello di cortisolo salivare
sia identico in situazioni di alto e basso stress ed in particolare come questo livello sia
significativamente inferiore in entrambe le condizioni rispetto a quello dei figli di genitori non
tossicodipendenti.
Dato che il livello di cortisolo rappresenta un buon indicatore del livello medio di stress in un
individuo, il fatto che i bambini “a rischio” abbiano il medesimo livello sia nelle situazioni ad alto
sia in quelle a basso stress significa che l’esposizione ad un ambiente di crescita cronicamente
inadeguato li ha “abituati” anche dal punto di vista fisiologico ad avere un elevato livello di
tensione.

2. I fattori che mediano il rischio


Il lavoro di Nair et al. ha l’obiettivo di rilevare i principali fattori di rischio cumulativi per le madri
che fanno uso di sostanze.
La ricerca ha studiato in profondità 161 donne, già segnalate ai Servizi per il loro problema di
tossicodipendenza, tramite l’applicazione di svariati strumenti di diagnosi clinica e non.
I fattori di rischio cumulativo, tali cioè da elevare al loro aumentare il livello di rischio di un
successivo sviluppo patologico della prole, sono risultati dieci:
1. Depressione materna;
2. Violenza domestica;
3. Violenza non domestica;
4. Dimensioni della famiglia;
5. Condizioni di senzatetto;
6. Incarcerazione;
7. Assenza di un partner convivente;
8. Eventi di vita negativi;
9. Sintomatologia psichiatrica;
10. Gravità dell’abuso di sostanze.

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Ognuno di questi fattori di rischio è risultato in grado di determinare un aumento della condizione
di rischio per la prole, ma è in particolare l’accumularsi di cinque o più di questi fattori a generare
una situazione di rischio molto elevato.
Un precedente lavoro di Nair et al. aveva identificato come ulteriori fattori predittivi per
l’allontanamento del figlio dalle cure materne entro i 18 mesi la giovane età della madre, la
positività della medesima all’esame tossicologico al momento del parti e la presenza di sintomi
depressivi.
Il poter contare su relazioni significative all’interno della famiglia allargata è uno dei fattori citati
più frequentemente in letteratura come indicativi di protezione rispetto alle conseguenze che
derivano dall’avere un genitore dipendente da sostanze. Questo dato conferma una prassi
abituale nell’intervento degli operatori, che qualora si trovino nella necessità di dover ricorrere
all’allontanamento del minore per proteggerlo dall’esposizione a cure parentali fortemente
distorte, pensano alla famiglia d’origine del genitore dipendente da sostanze come possibile
risorsa per un affido.
Barnard e Tyler  lavori di particolare interesse poiché forniscono due punti di vista
complementari su un possibile fattore protettivo quale l’intervento della famiglia allargata nel
sopperire alle mancanze genitoriali.
Il lavoro di Barnard appare connotato da una visione più “ottimistica” circa l’intervento dei
parenti: in base ad uno studio qualitativo condotto intervistando 62 genitori con problemi d’abuso
di sostanze, l’autrice ha ricavato indicazioni molto significative sulla possibilità di contare sulla
famiglia allargata per ricevere aiuto nella crescita dei figli. In primo luogo, la ricerca evidenzia
l’importanza della famiglia d’origine e dei parenti come “tampone” che media e diminuisce
l’impatto della tossicodipendenza genitoriale. L’apporto della parentela è, inoltre, sovente decisivo
per colmare lacune nelle cure genitoriali che spesso sono anche molto evidenti e vanno a toccare
aspetti “concreti” quali l’alimentazione o le cure primarie. L’aspetto che, di contrasto, emerge con
altrettanta chiarezza da questa ricerca riguarda il carico di stress che questo ruolo di tampone
comporta per le famiglie allargate, sia perché i nonni devono prendersi cura di nipoti che sono di
per sé difficili, sia perché la percezione che queste famiglie ne ricavano è quella di rimanere nella
propria tossicomania disinteressandosi delle responsabilità genitoriali.
Lavoro di Tyler et al.  fornisce uno sguardo pessimistico sulle possibilità che possono essere
offerte dalle famiglie allargate: in base ad un confronto tra le cure genitoriali messe in atto da un
campione di madri tossicodipendenti che avevano conservato la custodia del figlio e quelle
prestate da un campione di figure parentali sostitutive, è emersa una sostanziale parità in termini
di qualità del parenting misurato tramite videoregistrazione delle interazioni caregiver-bambino.
La qualità delle cure di entrambi i campioni, peraltro, è risultata molto inferiore alla soglia
considerata ottimale. L’unica differenza ha riguardato l’incolumità dei bambini: mentre nel
campione delle figure sostitutive non ci sono stati episodi di maltrattamento nei confronti dei
neonati, all’interno del campione composto dalle madri naturali si sono verificati due casi di
sospetto maltrattamento e tre casi di morte accidentale antecedente il primo mese di vita del
bambino.
I genitori di genitori tossicodipendenti sono stati a loro volta padri e madri non ottimali: conflitti
irrisolti e pratiche educative francamente patologiche vengono trasmesse di generazione in

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generazione e questi aspetti vengono di sovente misconosciuti e quindi negati sia dai genitori sia
dagli stessi figli tossicodipendenti.
 ricognizione sui fattori che possono far evolvere una situazione di rischio evidente verso una
maggiormente favorevole lo sviluppo della prole.
I fattori protettivi più citati in letteratura sono: la possibilità di seguire un percorso di
disintossicazione della madre in fase prenatale, che permette di eliminare quasi del tutto le
conseguenze in termini di malformazioni ed alterazioni somatopsichiche dei neonati; un percorso
di disintossicazione e trattamento per i genitori anche dopo la nascita del figlio, che permette di
eliminare almeno i rischi prossimali derivati dall’effetto delle sostanze sui genitori e
conseguentemente sui figli; infine, di valore protettivo possono essere sia un’alta coesione nei
legami familiari sia la possibilità per la prole di avere degli ambiti di socializzazione che siano esenti
dall’influenza del genitore tossicodipendente, come la scuola ed i gruppi di pari formali ed
informali.
Catalano et al.  hanno condotto uno studio di valutazione sugli effetti di un training relativo alle
competenze genitoriali messo in atto in concomitanza con un percorso di disintossicazione con
metadone: a 12 mesi di distanza, i genitori che avevano usufruito del training aggiuntivo
dimostravano migliori competenze sia in relazione alla qualità della relazione con i figli sia nello
stabilire delle regole di disciplina efficaci all’interno della famiglia.
In realtà anche il processo di disintossicazione non è una garanzia del miglioramento della
situazione, perché il percorso è difficile e costellato di frustrazioni che possono sommarsi ad altri
fattori di rischio.
Baker e Carson  le persone che abusano di sostanze possono comunque conservare delle
percezioni positive circa le proprie competenze genitoriali, soprattutto quando riescono a
provvedere ai bisogni primari dei figli o a proteggerli dai pericoli. Il difficile compito degli operatori
è riuscire a rilevare queste aree di funzionamento genitoriale relativamente intatte e far leva su
esse in modo da permettere al genitore il recupero di un’immagine di sé positiva e competente,
non esclusivamente connotata dal marchio dell’inabilità nel provvedere ai propri figli.

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CAPITOLO 10 - LE FAMIGLIE ALCOLISTE

Premessa
L’alcolismo, per anni considerato prerogativa esclusiva del singolo individuo, si è progressivamente
rivelato una condizione che sconvolge l’intero sistema familiare. L’abuso di alcol, infatti, influisce
direttamente sul funzionamento delle famiglie intossicando la relazione genitore-figlio e
compromettendo le competenze parentali.
I figli dei genitori alcoldipendenti sono, inoltre, una popolazione che corre il rischio di
sperimentare varie esperienze traumatiche come il maltrattamento, la trascuratezza, l’abuso e la
violenza domestica.
La relazione tra alcol e maltrattamento appare sempre più evidente, al punto che la dipendenza da
alcol è riconosciuta come un rilevante fattore di rischio che predispone ad assumere
comportamenti fortemente lesivi dell’integrità fisica dei figli.

1. Il rischio di vivere con genitori alcoldipendenti


Diverse ricerche empiriche indicano i figli di genitori alcol dipendenti come una popolazione
“vulnerabile”, “a rischio” per lo sviluppo di molteplici problematiche psicologiche, emotive e
sociali.
Emerge anche un’associazione tra abuso d’alcol e sostanze stupefacenti. Inoltre i figli di genitori
che abusano d’alcol iniziano a bere precocemente e aumentano l’uso d’alcol durante
l’adolescenza, in misura maggiore rispetto ai coetanei.
Ugualmente significativa è l’elevata incidenza di disturbi comportamentali ed emotivi nei bambini
che vivono con genitori affetti da queste problematiche. In particolare, la letteratura individua
diverse aree di disagio che concernono:
a. disturbi della condotta quali furti, fughe da casa, scarso controllo degli impulsi;
b. difficoltà scolastiche quali disturbi dell’apprendimento, scarso rendimento;
c. problemi relazionali, specialmente in età adulta, quali conflitti di coppia e difficoltà ad
instaurare relazioni intime soddisfacenti;
d. disordini psichiatrici quali disturbi d’ansia, vissuti depressivi, tentativi di suicidio.
Da alcuni lavori emerge una grande eterogeneità nello sviluppo dei bambini che provengono da
famiglie alcoliste.
Harter  afferma che solo un terzo dei bambini incorre in disturbi psicosociali rilevando, quindi,
come l’avere un genitore alcol dipendente sebbene sia un fattore di rischio per l’insorgenza di
problematiche di vario genere, non implichi automaticamente che tutti i figli d’alcolisti siano
destinati a sviluppare comportamenti disfunzionali.
White, Johnson e Buyske  per meglio illustrare il complesso problema della “trasmissione
intergenerazionale” della dipendenza da alcol, hanno sottolineato l’importanza del ruolo svolto dal
modellamento, documentato dai risultati di una ricerca longitudinale, che ha visto coinvolti per 13
anni (dai 15 ai 28 anni) 432 soggetti, 218 maschi e 214 femmine, selezionati con metodo random,
e che ha dimostrato come i figli d’alcolisti apprendano, tramite l’osservazione diretta, le modalità
d’abuso d’alcol dei genitori, incluse quelle relative alla quantità e alla frequenza d’uso.

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Oltre all’importanza dei meccanismi d’imitazione che modellano il comportamento dei figli, anche
altre dimensioni relative al funzionamento familiare sono apparse particolarmente rilevanti e
frequentemente associate all’uso di alcol.
El-Sheikh e Buckhalt  hanno evidenziato come le interazioni tra i componenti siano
caratterizzate da forti conflitti tra i coniugi e nel rapporto genitore-figlio. Il conflitto associato alla
mancanza di coesione familiare ed alla presenza di cure parentali deficitarie risultano, quindi, i
fattori di stress che, interagendo tra loro, esercitano il maggior impatto negativo sullo sviluppo dei
figli.
Emergono diversi elementi che minano le relazioni all’interno della famiglia. In particolare tali
nuclei sono caratterizzati da:
1. Negazione, distorsione, confusione e segreti: nelle famiglie dipendenti è imposta la “regola
del silenzio” e i bambini sono incoraggiat6i fin da piccoli a “non dire”.
2. Perdita: è il sentimento che accomuna la maggior parte dei figli d’alcolisti. Perdita d’amore,
perdita di genitori responsivi, perdita dell’infanzia e di una vita normale.
3. Conflitto: le relazioni nelle famiglie dipendenti sono spesso caratterizzate da conflitto e
disarmonia.
4. Violenza, abuso ed emozioni di paura.
5. Confusione ed inversione di ruoli: i figli di persone dipendenti si trovano spesso ad
assumere un ruolo genitoriale, occupandosi dei propri genitori, dei fratelli e della casa.

2. Alcol e parenting
 studiare più approfonditamente quali siano le modalità d’accudimento e le strategie di
parenting che incidono negativamente sullo sviluppo.
Brody e Ge  hanno esaminato lo sviluppo del Sé e della regolazione delle emozioni dimostrando
come i comportamenti non supportavi e le relazioni conflittuali, elementi dominanti in queste
famiglie, pregiudichino la capacità del bambino di controllare e monitorare i comportamenti diretti
verso uno scopo e d’acquisire una padronanza di sé. In sostanza, gli atteggiamenti negativi dei
genitori affetti da problemi d’alcolismo stimolerebbero nei figli vissuti di rabbia e d’aggressività
intensa, che ne comprometterebbero la più globale capacità di regolare il comportamento
emotivo.
Oltre all’influenza sulla regolazione delle emozioni sono stati anche esaminati gli specifici stili
educativi che generalmente, in questi genitori, sono poco supportavi, caratterizzati da frequenti
ordini e punizioni e dall’incapacità di riconoscere e rispondere in maniera adeguata ai bisogni
diversificati che, di volta in volta, i figli esprimono. È stato notato come i comportamenti verso i
figli, spesso mediati dall’effetto dell’abuso d’alcol, siano dettati più dalle esigenze contingenti e
personali dei genitori stessi che dalle reali richieste dei figli. Questi ultimi finiscono così per
considerare i propri genitori imprevedibili e per rifiutarli come modelli da imitare, con il
conseguente fallimento nell’interiorizzazione di norme e valori convenzionali e la propensione ad
affiliarsi a gruppi devianti per ottenere protezione e di cui fanno propri i comportamenti
antisociali.
Ma quali processi impediscono a questi genitori di seguire e monitorare il comportamento dei
figli?

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In primo luogo, l’abuso di bevande alcoliche riduce fortemente la capacità di discriminare e


percepire i bisogni dei figli e di riconoscerne i comportamenti devianti e determina, in secondo
luogo, tentativi di controllo poco coerenti accompagnati dal carente uso di strategie centrate sul
compito e orientate alla risoluzione dei problemi. In sostanza, quando i genitori sono sotto
l’effetto dell’alcol, prestano meno attenzione ai figli, non li ascoltano e stabiliscono con loro
persino un contatto oculare inferiore, rispetto ai genitori sobri. Se questo stile diviene un pattern
interattivo ricorrente e stabile, compromette fortemente l’efficacia nel parenting poiché induce ad
adottare azioni autoritarie ed esigenti, connotate da ripetuti ordini emessi senza alcuna capacità
d’attendere il momento opportuno o un feedback adeguato.
Sintetizzando, si può affermare che l’alcol promuove interazioni disorganizzate e incoerenti. Questi
genitori, infatti, forniscono un numero elevato di ordini seguiti da atteggiamenti indulgenti,
tendono ad impegnarsi in discussioni irrilevanti, non sono in grado di attuare comportamenti
orientati alla risoluzione di un compito: fattori che, di conseguenza, contribuiscono a determinare
interazioni caotiche con i figli.

3. Alcol e violenza
La letteratura rileva la presenza di una stretta correlazione tra abuso d’alcol e violenza. Questi due
fattori, interagiscono aumentando il rischio di disturbi psichiatrici e di problemi comportamentali
nei figli.
Flett e Hewitt  hanno proposto un modello che illustra come l’abuso d’alcol interagisca con altri
fattori nell’amplificare il rischio d’abuso e maltrattamento e sottolineano come la violenza sia la
conseguenza dell’interazione tra fattori di personalità, stress interpersonale e strategie di coping.
In particolare i tratti di personalità quali psicopatia, perfezionismo ed ostilità depressiva sono
concepiti come fattori prossimali, nel senso che esercitano un impatto immediato sulle strategie di
coping, messe in atto per far fronte a situazioni stressanti. Per psicopatia gli autori intendono la
condizione che caratterizza quegli individui comunemente descritti come antisociali, poco
empatici, che difficilmente provano rimorsi e che possono manifestare comportamenti criminali.
Per perfezionismo, invece, si riferiscono alla tendenza a cercare costantemente risultati rigorosi
nelle relazioni con gli altri ovvero aspettarsi che le altre persone si comportino sempre in modo
ineccepibile. L’ostilità viene intesa come “ostilità depressiva” nel senso di tratti di suscettibilità ed
irritabilità che inducono a rispondere con rabbia ed ostilità quando si ritiene di aver subito un
torto.
Queste specifiche caratteristiche nei genitori alcolisti, inducono ad enfatizzare anche situazioni
negative lievi, a viverle come fortemente stressanti, a reagirvi in modo massiccio attraverso
strategie di coping d’evitamento e facilitano anche una più ampia tendenza ad autogenerare stress
ed a trasmetterlo agli altri.
Va, inoltre, tenuto presente che i figli di genitori dipendenti, sono frequentemente esposti anche
al rischio di subire maltrattamenti esterni alla famiglia. Questi bambini, infatti, proprio per il fatto
di crescere in famiglie con genitori dipendenti da alcol o da sostanze, sviluppano una scarsa
autostima e cercano nell’ambiente esterno le affermazioni e il nutrimento affettivo di cui hanno
bisogno.

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Queste caratteristiche possono incrementare la vulnerabilità a farsi inconsapevolmente


coinvolgere in relazioni violente e abusanti da persone esterne alla famiglia.
La compresenza d’abuso d’alcol e di tendenze aggressive può essere particolarmente pericolosa
anche in chiave trans generazionale.

4. Fattori amplificatori o moderatori del rischio


Diversi sono gli studi che si sono focalizzati sull’individuazione dei fattori che intervengono nella
relazione alcol-violenza, amplificando o moderando il rischio d’abuso, maltrattamento e
trascuratezza dei minori. Lo stress che caratterizza i genitori alcolisti appare il più predittivo di
condotte violente poiché riduce sia l’abilità nel rispondere adeguatamente e controllare i
comportamenti disfunzionali dei figli, sia di tollerarne le richieste e di rispondervi senza perdere la
calma.
Per comprendere più approfonditamente quali strategie adottino gli individui alcoldipendenti in
situazioni stressanti  lo studio di Michel et al. nel quale sono state confrontate le strategie di
coping di 159 donne alcol dipendenti con quelle di 150 senza problemi d’alcol.
I dati della ricerca sottolineano come il primo gruppo, quello che abusa d’alcol, presenti difficoltà
nel pianificare le abituali attività, nel concentrarsi e nel prendere decisioni ed utilizzi strategie
disadattive quali acting out (inclusi tentativi di suicidio), negazione, evitamento, associati a
disorientamento e a pensieri pessimistici.
Le donne alcoliste risultano capaci d’attivare le proprie abilità di coping in situazioni stressanti
anche per la difficoltà a cercare aiuto all’esterno ed a condividere i propri problemi con amici o
familiari, vale a dire sollecitare quel supporto sociale considerato risorsa importante nel mediare
lo stress.
Un altro capitolo drammaticamente tutto al femminile è quello dell’abuso d’alcolici in gravidanza,
che arreca gravi danni ai nascituri. L’alcol, infatti, attraversa la placenta e raggiunge il feto, nel
quale si possono riscontrare quantità d’alcol simili a quelle presenti nel sangue materno.
Un’assunzione smodata nei primi 3 mesi di gravidanza provoca danni gravissimi e rischi d’aborto.
Se l’abuso avviene dal secondo semestre in poi si potranno verificare ritardi nella crescita del feto
o complicanze durante il parto.
L’abuso di alcol in gravidanza, inoltre, influisce negativamente sulle competenze genitoriali della
futura madre.
Spieker et al.  hanno rilevato che le madri abusanti d’alcol e sostanze stupefacenti anche in
gravidanza hanno aspettative poco realistiche relative i comportamenti dei bambini e credono che
i propri figli vogliano intenzionalmente infastidire i genitori con le loro azioni e le loro richieste di
affetto ed attenzione. Non essendo in grado, inoltre, di comprendere che esiste una stretta
relazione tra i comportamenti del neonato ed i propri, tendono a percepire il figlio come un
“bambino difficile” ed a ricorrere più frequentemente a stili educativi punitivi, con rischio di
maltrattamento o trascuratezza.
Un altro fattore che frequentemente si associa all’abuso d’alcol nell’amplificare il rischio di
maltrattamento e trascuratezza è la presenza di un disturbo depressivo che gioca un ruolo
fondamentale nel promuovere uno stile di parenting caratterizzato dall’uso frequente di punizioni
severe e dalla carenza di comportamenti responsivi.

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La depressione, infatti, accompagna spesso sia un utilizzo incoerente della disciplina, sia
l’induzione di sensi di colpa come strategia per controllare i comportamenti dei figli.
Le madri che soffrono di un disturbo depressivo, inoltre, instaurano spesso relazioni con partner
alcolisti, che influiscono negativamente sulle interazioni madre-figlio mettendo a dura prova il già
precario equilibrio familiare.
Altro fattore predisponente al maltrattamento dei figli è una storia pregressa d’abuso.
È stato dimostrato come spesso le persone con problemi di dipendenza da alcol e da sostanze
siano state vittime d’abuso e maltrattamento durante l’infanzia.
A differenza delle condizioni che amplificano il rischio, i fattori moderatori sono stati esaminati in
misura minore. I pochi studi presenti, comunque, concordano sul ruolo fondamentale del
supporto sociale per ridurre il rischio d’abuso e maltrattamento.
Le madri dipendenti da alcol e sostanze vivono frequentemente in una situazione d’isolamento
sociale, in quanto tendono ad allontanarsi precocemente dalla famiglia d’origine ed a cercare
protezione presso gruppi devianti, all’interno dei quali instaurano relazioni costruite sull’abuso di
sostanze come stile di vita comune.
Il supporto sociale può moderare l’impatto negativo degli eventi stressanti, aiutando i genitori a
gestire meglio il proprio stress.
L’adesione del genitore alcolista ad un programma riabilitativo risulta un altro fattore che riduce il
rischio d’abuso e maltrattamento dei figli, in quanto da una parte segnala una motivazione a farsi
curare, dall’altra indirettamente implica l’accettazione del supporto sociale fornito dal gruppo
stesso.
Un ultimo fattore in grado di moderare il rischio in famiglie alcoliste sembra essere la presenza di
un genitore in grado d’adottare pratiche educative responsive e di promuovere nei figli
l’interiorizzazione di valori e norme appropriate, che favoriscano la comparsa di comportamenti
socialmente adeguati.

5. Rischio di comportamenti maltrattanti recidivi


Uno degli obiettivi principali dei Servizi a favore dei minori è tutelare i bambini che sono stati
abusati o trascurati da ulteriori maltrattamenti. Negli Usa, molti Stati utilizzano la “recidiva di
maltrattamenti” come indicatore dell’efficacia dell’intervento dei Servizi.
Fuller e Wells  hanno individuato i fattori predittivi della reiterazione di maltrattamento nelle
famiglie con genitori che abusano d’alcol e/o sostanze stupefacenti. Esaminando 290 casi di
famiglie alcoliste in cui i bambini abusati e/o trascurati sono stati oggetti di ulteriori
maltrattamento, hanno identificato 4 fattori di rischio particolarmente rilevanti:
1. L’uso eccessivo e continuativo d’alcol o sostanze, che danneggia seriamente la capacità del
genitore di supervisionare, proteggere e prendersi cura dei figli.
2. La propensione dei genitori a commettere azioni illegali aumenta sensibilmente il rischio di
maltrattare nuovamente i figli.
3. Il mancato coinvolgimento delle forze dell’ordine. I casi in cui la pubblica sicurezza è stata
coinvolta sono risultati a minor rischio di comportamenti maltrattanti recidivi.

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4. L’appartenere a famiglie monoparentali composte da madri sole. Questa condizione è


frequentemente associata a situazioni economiche disagiate e solitudine, fattori che
incrementano il rischio di maltrattamento e abuso.

6. Considerazioni conclusive
I figli di genitori alcoldipendenti sono considerati “vulnerabili”, in quanti propensi a sviluppare
molteplici problematiche psicologiche, emotive e sociali.
Hogan  non tutti i figli d’alcolisti mostrano condotte problematiche. Per questo motivo, le sole
componenti biologiche non sono in grado di fornire una spiegazione esauriente.
Diverse ricerche, quindi, si sono focalizzate sull’analisi dei processi che mediano la relazione tra
l’abuso d’alcol da parte dei genitori ed i disturbi comportamentali dei figli, evidenziando come
l’alcolismo non sia un problema che riguarda solo il singolo, ma coinvolge l’intera famiglia poiché
compromette l’intero sistema familiare.
Dall’analisi dei lavori emerge una stretta relazione tra alcol e violenza.
Da una parte questi due fattori interagiscono incrementando il rischio di disturbi psichiatrici e
problemi comportamentali nei minori.
Dall’altra, avere un genitore alcolista incrementa notevolmente il rischio di maltrattamento.
Altre ricerche, inoltre, hanno rilevato che l’elevato stress, la presenza di un disturbo depressivo ed
una storia pregressa di maltrattamento, se associati all’abuso d’alcol, incrementano il rischio
d’abuso, maltrattamento e trascuratezza.
Sono invece pochi gli studi centrati sui fattori che moderano il rischio di maltrattamento e la
maggior parte concorda sia sul ruolo fondamentale del supporto sociale, come aiuto per i genitori
nella gestione dello stress, sia nell’adesione a un programma riabilitativo, come indicatore di
motivazione alla cura e occasione di supporto sociale.
In conclusione, i lavori esaminati sottolineano l’importanza e la necessità di avvicinarsi alle famiglie
alcoliste con una visione multidimensionale, che tenga conto della complessità di questi sistemi,
dei vari processi presenti e dell’interazione dei diversi fattori intervenienti.

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CAPITOLO 11 - PROFESSIONI D’AIUTO COME PROFESSIONI A RISCHIO: BURNOUT ED


EMOTIVITA’, QUALE LEGAME?

Premessa
Uno dei compiti principali delle emozioni è quello di fornire informazioni su di noi, sul nostro
ambiente e sulle interazioni con chi ci sta intorno.
Le emozioni assumono un ruolo fondamentale per guidare i nostri processo di ragionamento e di
pensiero e sono comprensibili solo in un determinato contesto personale e culturale.
Agli operatori dei Servizi, le emozioni possono fornire informazioni importanti e necessarie per
condurre una valutazione precisa e mirata nei confronti dell’utente che richiede aiuto, consapevoli
del fatto che le loro risposte emotive alle situazioni possono influenzare direttamente il modo in
cui interagiscono con i loro utenti.

1. Professioni d’aiuto e stress lavorativo


Lo stress ed il burnout delle persone che lavorano in ambito socio-educativo e sanitario ha avuto
negli ultimi decenni un’attenzione crescente da parte della letteratura in ambiti disciplinari
differenti, anche in conseguenza di una serie di significativi cambiamenti amministrativi, sociali e
politici che hanno influito sul ruolo di questi professionisti e sul loro contesto lavorativo.
Il burnout nasce come sindrome caratterizzante le professioni d’aiuto (helping professions), che
fanno della vocazione dell’aiutare gli altri e del conseguente tipo di relazione il loro tratto
distintivo e professionalizzante.
 significato dell’espressione “relazione d’aiuto”.
Da un punto di vista etimologico, il termine “relazione” porta con sé sia la dimensione del legame
(religo) sia quella della connessione, della ricerca di senso (refero): il termine “aiuto” dice di un
movimento di avvicinamento e prossimità (ad) al fine di portare giovamenti (iuvare) a chi si
presenta in una situazione di difficoltà fornendogli qualcosa che possa essergli utile in quel
momento.
La dimensione forte sottesa non è però quella di un dare e fornire unidirezionale, ma di un dare
reciproco, che connota la relazione d’aiuto come relazione di scambio. Il processo che si attiva
porterà, quindi, dei cambiamenti in entrambe le persone coinvolte, rendendo necessario un
continui lavori di definizione e ri-definizione delle distanze interpersonali con tutte le fatiche
(emotive, psicologiche) che tale lavoro comporta.
La chiara definizione di un setting di lavoro, il riconoscimenti di un contesto organizzativo e
istituzionale specifico al cui interno il progetto comune nasce e si sviluppa, la rimodulazione
costante delle distanze interpersonali, l’attivazione di una funzione di ascolto dell’altro e di se
stesso possono esser colti come elementi definitori della relazione d’aiuto per qualsiasi
professionista che nel sociale si trova a lavorare.
Vi è, però, un’altra forte caratteristica che accomuna le professioni d’aiuto ed i contesti
organizzativi in cui vengono fornite ed è la presenza di forti ambivalenze ed ambiguità presenti a
più livelli che spesso portano a costruire una notevole distanza fra quelle che l’operatore avverte
come essere le richieste cui è chiamato, in quanto professionista, a rispondere e le risorse che il
contesto-servizio e lui stesso in quanto operatore possono e riescono ad individuare e offrire

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all’utente. L’ambiguità di ruolo che ne deriva diventa un fattore d’insoddisfazione per l’operatore
esposto e richieste conflittuali, chiamato a svolgere mansioni che esulano dal suo mansionario,
non in grado d’occuparsi di ciò che invece gli competerebbe effettivamente.
Savicki  gli strumenti del “mestiere” su cui questi operatori fanno affidamento sono quelli
impliciti nella dimensione dell’aiuto, che dovrebbero consentire loro di lavorare in situazioni
dolorose e faticose, coinvolti in interazioni con persone non sempre collaborative, quando non
addirittura conflittuali.
Facilmente allora il permanere in situazioni ambigue nei loro confini ed ambivalenti nelle loro
effettive possibilità d’intervento potrà portare l’operatore a sviluppare sintomi di stress tali da
configurarsi come sindromi da burnout.

2. Burnout: una possibile definizione


L’espressione “burnout” nasce negli Stati Uniti intorno agli anni ’70, a seguito di un sempre più
frequente fenomeno che colpiva un gran numero di professionisti d’aiuto che “si bruciavano”
dopo un certo periodo di lavoro, manifestando atteggiamenti d’indifferenza, apatia, nervosismo
sempre crescente verso le proprie mansioni lavorative.
A partire dai lavori sul tema di Christina Maslach e dalla costruzione del metodo Maslach Burnout
Inventory, tale sindrome è stata ampiamente studiata e rintracciata in varie categorie di lavoratori
(infermieri, insegnanti, consulenti, psicologi, assistenti sociali, educatori), trovando un posto di
rilievo all’interno della letteratura che di professioni d’aiuto si occupa e che cerca d’individuare le
cause di tale fenomeno, e, soprattutto negli anni più recenti, i possibili rimedi sia in chiave
preventiva che d’intervento.
Il burnout viene ad essere concettualizzato come la risposta ad una serie di fonti lavorative
stressanti (stressors) avvertire come intollerabili, risposta evidentemente non funzionale e che
necessita laddove si manifesta di essere accolta e curata.
Lo stress che caratterizza tale fenomeno producendolo è di tipo cronico e non acuto, ovvero non è
individuabile come evento con un inizio e una fine, ma come una serie di circostanze ripetute di
continua avversità e richiesta incessante.
Il processo che esita nel burnout ha inizio quando l’operatore, consapevole di vivere situazioni
lavorative stressanti, non riesce però più ad individuare delle soluzioni attive che gli consentano di
fronteggiare i problemi che incontra. L’intollerabilità risiede in quell’eccessiva distanza che si viene
a creare fra risorse e richieste, dove sia le prime sia le seconde possono essere tanto interne
quanto esterne, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di delineare un set di segnali o sintomi
indiscutibili e da applicare a tutti gli individui circa la comparsa del burnout.
Kahill  propone una categorizzazione dei sintomi del burnout, raggruppandoli in 5 categorie: i
sintomi fisici (tensione, irritabilità, bassa energia, mal di testa..), i sintomi emotivi (depressione,
disillusione, ansia, ostilità…), i sintomi comportamentali (assenteismo, turnover, diminuzione della
performance lavorativa, aumento del fumo…), i sintomi interpersonali (bassa socializzazione,
rigidità di ruolo, allontanamento dagli utenti e dai colleghi…), i sintomi attitudinali (cinismo,
rigidità di pensiero, bassa autostima).

3. Fonti possibili di burnout e sue dimensioni evolutive

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 le principali cause di burnout che risiederebbero in fattori situazionali e fattori individuali.


All’interno della prima categoria troviamo una serie di elementi che si rifanno alle caratteristiche
del lavoro, al coinvolgimento in esso ed alle caratteristiche organizzative del contesto lavorativo.
Di particolare interesse in questo primo gruppo sono gli elementi legati alla situazione lavorativa
che non vengono scelti dal singolo, ma sono dati e che nelle professioni d’aiuto s’identificano con
un sovraccarico lavorativo, con la richiesta continua d’intimità, con la mancanza spesso di
feedback positivi e di connesso stress emozionale, con la percezione della perdita di controllo circa
l’effettiva possibilità di monitoraggio sulla prestazione erogata e di cui l’operatore non si sente in
realtà responsabile in quanto non coinvolto nelle scelte operative d’intervento e di metodo
individuate e applicate.
Nella seconda categoria vengono invece collocate le caratteristiche personali, quali quelle
demografiche, quelle di personalità e le attitudini lavorative, cercando per ognuna di esse di
coglierne il potenziale effetto di protezione o di rischio rispetto allo sviluppo di burnout.
Maslach  individua 3 dimensioni del burnout: l’esaurimento emozionale, la spersonalizzazione e
la ridotta realizzazione personale, una conseguente all’altra in una spirale che unendole rende
impossibile alla persona continuare a lavorare pre-occupandosi degli altri.
La prima risposta alla situazione di stress emotivo è appunto quella dell’esaurimento emozionale,
che comporta da parte dell’individuo una sensazione di svuotamento e sfinimento. La persona
sente di non riuscire a dare più nulla di sé agli altri e cerca, quindi, di sottrarsi al coinvolgimento,
tentando così di proteggersi emotivamente.
Quella che viene a vivere è un’arida routine burocratica, preludio di quel distacco cinico ed
impersonale caratterizzante la seconda fase del burnout, quella della spersonalizzazione. La
reazione dell’individuo verso gli altri è sempre più negativa, denigratoria, porta ad evitare gli
utenti e a negarsi a loro.
Si arriva così al terzo momento, quello della ridotta realizzazione personale, quando l’operatore si
avverte come inadeguato per il proprio lavoro e vive ogni nuova situazione come opprimente. Si
crea così una sorta di situazione a spirale da cui sembra davvero difficile uscire.
A partire da questa visione dimensionale sono stati proposti negli anni diversi modelli di sviluppo
del burnout.
Fra le altre, una proposta alternativa individua nella dimensione della depersonalizzazione come la
prima fase seguita da scarsa realizzazione personale e da esaurimento emozionale: un altro
modello vede le tre dimensioni svilupparsi contemporaneamente, ma indipendentemente l’una
dall’altra.
Complesso si presenta, quindi, il quadro esplicativo del burnout con risultati di ricerca non sempre
coerenti fra loro, ma con alcune trasversalità che, al di là della variabilità individuata, consentono
comunque d’indagare questo fenomeno sia nei suoi aspetti d’insorgenza, sia in quelli di sviluppo,
che in quelli di cura ed intervento.

4. La supervisione: significato e funzione


Esistono diverse forme di supporto sociale in grado di porsi come fattore protettivo sia in chiave
preventiva sia d’intervento contro l’insorgenza della sindrome del burnout.

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Maslach  opera una distinzione fra approccio individuale ed approccio organizzativo, dove il
primo parte dal singolo che avverte la criticità della propria situazione lavorativa e coinvolgendo
un gruppo di colleghi, si collega all’organizzazione di cui fa parte avviando un intervento che arrivi
ad incidere sulla dissonanza fra risorse e attese.
Tra le forme di supporto sociale esistenti, la supervisione è senza dubbio quella maggiormente
utilizzata nelle professioni d’aiuto. Essa viene proposta sia come aiuto nella gestione dei casi
particolarmente difficili sia come strumento per aumentare le competenze professionali.
Gli effetti di tale tipologia d’intervento si avvertono in particolare sul livello di soddisfazione
lavorativa degli operatori e conseguentemente sulla qualità dei servizi offerti agli utenti.
In quest’ottica, nella supervisione prendono forma e si costruiscono congiuntamente bisogni,
domande, richieste d’aiuto, espressioni ed elaborazioni di problemi; si stabiliscono relazioni di
fiducia e regolazioni disimmetriche tra diversi interlocutori professionali, si negoziano
comportamento, punti di vista e posizioni organizzative e lavorative, in una logica di possibile
crescita e costante regolazione del proprio profilo professionale.
Diversi, quindi, saranno i possibili oggetti su cui centrare la supervisione, individuati a partire da
un’attenta analisi dei bisogni e delle fatiche che il contesto lavorativo con i suoi operatori e i suoi
utenti elicita.
La supervisione si connota, dunque, come quell’elemento di plusvalore che giova all’operatore, dal
momento che propone un setting più riflessivo, più stimolante e meno ansiogeno, al cui interno
viene favorita la comprensione di risorse e di dinamiche che nel quotidiano lavorativo possono
risultare oscurate o fraintese.
La supervisione può davvero svolgere una funzione di protezione in chiave ripartiva, rispetto alla
spersonalizzazione avvertita dall’operatore, contenitiva, lavorando sul vissuto emotivo di
esaurimento percepito, e di rinnovata ricerca di significato rispetto al tema della realizzazione
professionale persa o comunque duramente messa alla prova dal quotidiano lavorativo.

5. Le emozioni degli operatori


Gli operatori che lavorano nel sociale e nell’educativo sono chiamati quotidianamente ad
affrontare situazioni individuali e familiari altamente problematiche, in cui spesso i protagonisti
vivono livelli disperazione, ansia e rabbia molto intensi. L’operatore cerca di mantenere un
sufficiente distacco emotivo dalle sofferenze dei suoi utenti al fine di prendere decisioni razionali
che riflettono solo valutazioni obiettive dei casi, per quanto questo possa essere un compito
estremamente difficile.
Gli operatori non sono solo vulnerabili nelle dimensioni personali che queste esperienze evocano,
ma corrono anche il rischio di essere sommersi da questi sentimenti, che possono creare
sensazioni ingestibili d’ansia. Questa situazione diventa particolarmente vera quando si lavora con
bambini ed adulti che, per la loro storia di vita, hanno un controllo limitato sulle proprie emozioni
e sui propri comportamenti.
Tale implicazione emotiva è particolarmente presente nei casi di maltrattamento ed abuso, in cui
l’operatore si trova sia a dover proteggere il bambino sia a cercare di aiutare i genitori.
Lavorare sempre a contatto con situazioni difficili richiede all’operatore di riuscire a tollerare
sentimenti d’inadeguatezza, vergogna, attacco e abbandono, sentimenti a volte difficili da gestire.

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Kauffmann  definisce “controtransference hostage syndrome” le situazioni in cui gli operatori si


sentono controllati nella loro possibilità d’azione dai comportamenti dei loro utenti: la possibilità
di mettere in atto degli interventi efficaci sembra bloccata e questo li porta a volte a perdere lo
stimolo per andare avanti, appiattendosi di fronte alla realtà che l’utente continua a portare loro.
Davis  sottolinea, però, come sia impossibile aiutare persone o famiglie problematiche a
sviluppare competenze di cura e relazioni interpersonali significative, qualora gli operatori non
riescano ad accedere ai propri vissuti emotivi ed a quelli degli utenti. Infatti, continua l’autore,
senza la consapevolezza delle proprie emozioni, gli operatori dei servizi sociali sono deprivati di
un’importante fonte di conoscenza.
Per riuscire a sistematizzare il significato che assumono le emozioni per gli operatori Davis
propone un modello che si basa su 5 principi.
L’autore sostiene che una prima funzione delle emozioni sia di fornire informazioni su chi sia
l’operatore, sul suo ambiente e sulle sue interazioni; in secondo luogo le emozioni sono
considerate necessarie per guidare il ragionamento e il pensiero e, terzo principio, assumono
significato solo alla luce del contesto personale e culturale. L’autore continua sostenendo come la
capacità degli operatori d’affrontare una situazione sia influenzata dal modo in cui utilizzano i loro
vissuti emotivi per determinare i danni e i benefici della situazione affrontata; infine, viene posta
l’attenzione sull’importanza dell’apertura all’intensità e alla diversità delle emozioni nel lavoro
effettivo con le famiglie.
Vassalli  propone una griglia che individua tre fonti di malessere e si pone come obiettivo quello
di aiutare l’operatore a collocare al posto giusto le diverse emozioni e a individuare quale sia
quella prioritaria in una determinata situazione. Le fonti di malessere sono:
1. disfunzione del sistema  il malessere è visto come risultato di un funzionamento carente
della istituzione in cui l’operatore lavora, carenza che non può permettergli di mettere
ordine o svolgere correttamente le sue mansioni
2. contatto diretto con la sofferenza degli altri, la quale può portare l’operatore a provare
sentimenti di pena o angoscia
3. aspetti emotivi propri degli operatori che possono essere risvegliati di fronte a una
particolare situazione
Davis sostiene che le due modalità maggiormente utilizzate dagli operatori sociali per tenere sotto
controllo le emozioni suscitate dalle situazioni che si trovano a dove gestire sono più
frequentemente l’iperidentificazione con uno dei membri della famiglia e il congelamento delle
informazioni che risultano emotivamente stimolanti.
Queste due modalità rappresentano strategie per difendersi dalle emozioni, in modo che esse non
possano sopraffare ed immobilizzare l’operatore.
Dal momento che tali modalità non permettono di accedere alle proprie emozioni, l’operatore non
è neanche in grado di utilizzarle come fonte di conoscenze e come abilità per lavorare con le
famiglie. Inoltre, queste emozioni non integrate possono distorcere le capacità di ragionamento e
di percezione su ciò che è realmente accaduto.
Davis sottolinea come, durante gli incontri di supervisione con gli operatori dei servizi di tutela dei
minori, questi facessero molta fatica ad esplorare i loro vissuti emotivi e quelli degli utenti per
paura d’apparire eccessivamente intrusivi.

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L’autore sottolinea come spesso gli operatori abbiano bisogno di essere incoraggiati a riconoscere
come le loro reazioni emotive possano interferire con il lavoro e come la loro necessità di
contenete l’ansia possa portare all’evitamento della comprensione e all’ipercontrollo delle
famiglie.
La possibilità di riuscire a gestire e regolare le emozioni provate in una determinata situazione
viene considerata un’importante capacità di coping. In particolare Davis sottolinea come le
emozioni provate dall’operatore possano essere un buono strumento da utilizzare nel fronteggiare
le situazioni particolarmente problematiche.
Per riuscire a valutare ed a fronteggiare la fonte di stress in modo efficace, è necessario quindi
possedere una quantità d’energia mentale sufficiente da convogliare nei processi di pensiero.
Compito dell’operatore e con lui dell’organizzazione sarà allora quello di riuscire a trovare la giusta
distanza emotiva fra i propri vissuti e quelli del minore e della sua famiglia, in modo che la sua
capacità di lettura ed analisi della realtà, pur colorata emotivamente non risulti inibita dal punto di
vista cognitivo.
In questo modo all’emotività verrà restituita una dimensione interpretativa funzionale al lavoro
dell’operatore, che imparerà a non farsi “bruciare” dai propri vissuti e dalle situazioni
particolarmente drammatiche e coinvolgenti con cui il suo operare necessariamente lo confronta.

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PROTOCOLLO SUI FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI NELLA VALUTAZIONE DELLE
COMPETENZE PARENTALI

1. Obiettivi del protocollo


Questo protocollo fa riferimento al modello sui fattori di rischio e ai fattori protettivi qui tradotto in
una prospettiva concreta e operativa per favorire una valutazione dei diversi elementi individuali e
familiari che caratterizzano i nuclei situazionali di rischio. Può essere impiegato per integrare la
classica valutazione svolta dai professionisti con competenze psicologiche e sociali, ma non intende
certo sovrapporsi ai compiti diagnostici abitualmente svolti in ambito medico, psicologico o
psichiatrico. Si basa sull’ipotesi che le relazioni umane, e quindi anche quelle all’interno della
famiglia e tra l’operatore e l’utente, abbiano una specificità e nel contempo una complessità legate
al contesto, al funzionamento mentale e alle strategie di coping dei singoli individui. La paziente
valutazione di questo complesso intreccio di fattori potrà garantire un processo valutativo
metodologicamente idoneo a decidere se e come proteggere o tutelare i bambini che in tali
situazioni sono coinvolti.
È importante tenere presente che:
- Le aree su rischio e protezione si collocano organicamente all’interno della raccolta di
informazioni anamnestico-biografiche, sociali e relazionali abitualmente oggetto della
professionalità esercitata all’interno dei Servizi territoriali.  Consentono di adottare in
modo più esplicito una prospettiva basata sull’analisi delle risorse e del processo di resilienza
correggendo un punto di vista centrato sulla semplice individuazione degli aspetti funzionali
e favorendo un bilancio ragionato tra elementi negativi e spazi di accessibilità e trattabilità
della famiglia.
- Le aree del protocollo hanno lo scopo di favorire la valutazione delle relazioni familiari che
mettono a rischio il bambino, attraverso un’analisi dell’ambiente di vita, delle risorse
presenti sul territorio, delle relazioni tra i componenti della famiglia e del funzionamento
individuale. Permette di concentrarsi sulla flessibilità dei fattori di rischio e protezione che,
nel tempo, possono contribuire a far migliorare o far peggiorare la condizione esistenziale
del bambini. Questi fattori non esauriscono la complessità delle reazioni psicologiche e
comportamentali degli individui né hanno obiettivi diagnostici di tipo psicologico, medico o
psichiatrico. È essenziale stabilire una collaborazione sistematica e integrata con gli Enti e i
Servizi territoriali non a caso nel protocollo è stata sottolineata l’importanza della rete.
- I fattori di rischio e di protezione sono massimamente utili se applicati alla comprensione di
quell’area di problemi intermedia tra l’adattamento e il disagio, quell’area grigia che induce
dubbi e incertezze circa l’opportunità o meno di suggerire o adottare misure di tutela del
bambino. L’applicazione del protocollo potrà fornire indicazioni aggiuntive sulle risorse
presenti nella famiglia e nel contesto in cui vive il bambino e sugli eventuali spazi di
intervento.
I destinatari del protocollo sono gli operatori sociosanitari, chiamati a intervenire con famiglie e con
bambini che vivono situazioni di disagio non sempre chiaramente identificabili e che richiedono a
volte sostegni di natura preventiva, altre volte un attento monitoraggio, altre ancora interventi
congiunti di tutela e di aiuto.

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Lo scopo del protocollo è favorire lo sviluppo di un percorso valutativo orientato a comprendere i


processi individuali e relazionali dei soggetti dell’intervento e i loro cambiamenti nell’incontro con
il sistema dei Servizi.
La procedura si basa sull’acquisizione progressiva di conoscenze sui destinatari e sui contesti
relazionali o ambientali in cui essi vivono, realizzata includendo nelle abituali aree informative
informazioni sui fattori di rischio e protettivi.
Il metodo prevede l’integrazione tra le diverse fasi di raccolta di informazioni, valutazione delle
informazioni, ipotesi, verifica, decisione, intervento, in un continuo interscambio tra aspetti
descrittivi e valutativi.

2. Organizzazione del protocollo


Il modello process-oriented che sostiene il protocollo ha una struttura orizzontale che, meglio di
quella verticale, ne visualizza la dimensione processuale di costante interscambio e reciproco
influenzamento tra i diversi fattori che lo compongono e che si manifestano poi nel comportamento
degli individui day-to-day.
La sua traduzione operativa nel presente protocollo prevede due ampie dimensioni interconnesse:
- Prima dimensione= aree di indagine che vengono usualmente esplorate all’interno dei
Servizi per iniziare a conoscere gli utenti, e mira a raccogliere le informazioni necessarie per
compilare la cartella, che tradizionalmente ogni Servizio utilizza. Richiede sia
l’approfondimento delle dimensioni biografico-individuali, familiari, sociali e contestuali, sia
degli elementi che concorrono a spiegare il funzionamento parentale (vale a dire gli aspetti
cognitivi, emozionali, comportamentali e sociali dei genitori come individui). Questa raccolta
dati può essere effettuata direttamente con le persone coinvolte o indirettamente
impiegando ad esempio resoconti dei colleghi di altri Servizi tale raccolta dati deve
contenere tutti gli elementi per identificare gli utenti stessi e collocarli in una rete di
relazioni, per individuare le ragioni dell’invio al Servizio, per comprendere cosa i diversi
componenti della famiglia pensino, come vivano, come si relazionino all’interno della
famiglia e nella comunità. Chiaramente non tutte le informazioni raccolte hanno lo stesso
peso, tenendo in considerazione gli obiettivi che ne hanno guidato la raccolta.
- Seconda dimensione di tipo valutativo implica una riflessione di sintesi, desumibile
dall’articolazione e organizzazione delle informazioni raccolte in relazione ai fattori di rischio
e protezione. Tale riflessione è utile per elaborare ipotesi, per decidere quali ulteriori
approfondimenti ricercare e quali interventi proporre o attuare. Nella raccolta di
informazioni, qualunque sia la sequenza di raccolta, devono esservi elementi che
appartengono alle 3 seguenti aree:
 Storia della famiglia e delle sue relazioni sintetizzabili nel genogramma
 Mappa dei fattori di rischio e dei fattori protettivi che includa le risorse socio-
ambientali familiari e personali, i fattori di rischio distali, i fattori prossimali di
amplificazione del rischio e i fattori prossimali protettivi di riduzione del rischio
indispensabili per decidere quale progettualità avviare.
 Profilo specifico delle percezioni e delle aspettative dei genitori o del genitore nei
confronti del minore, per individuare la presenza di condizioni eccessive di stress

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nell’esercizio del ruolo genitoriale può essere utile avvalersi del Parenting Stress
Index, in forma ridotta).

3. Indicazioni per l’applicazione del protocollo


Nella raccolta di informazioni e nella compilazione del protocollo appare opportuno seguire alcune
semplici regole consentono una migliore trasmissibilità dei dati e una più attenta valutazione:
- L’operatore dovrebbe mantenere una costante e vigile consapevolezza dei vincoli
istituzionali e contestuali, nei quali si va sviluppando il proprio intervento per poter
proporre o ipotizzare soluzioni concrete sostenute da adeguate risorse presenti nel territorio
nel quale opera. Il protocollo prevede 3 aree, denominate Risorse, che aiutano a comporre
il quadro necessario a definire la cornice entro cui orientare le soluzioni possibili:
 Area 1. Risorse presenti nel contesto sociale è preliminare a tutte le altre, poiché
si riferisce alle risorse presenti sul territorio, indipendentemente dalla specificità
delle esigenze dei singoli utenti. Richiede sia la conoscenza ampia della mappa delle
possibilità concrete di intervento realizzabili dai presidi territoriali sia la consapevole
informazione sui presidi utilizzabili nel momento in cui la famiglia entra in contatto
con il Servizio stesso. Ovviamente la cognizione dell’assenza di risorse che sarebbero
state necessarie per quella situazione attivarsi nel formulare proposte di
programmazione e articolazione futura dei Servizi, da trasmettere alle sedi
opportune.
 Area 5. Risorse presenti nella famiglia concernono la disponibilità economiche,
l’articolazione dei ruoli dei genitori nell’accudimento dei bambini in termini di
impegno quotidiano e la rete di supporti obiettivi e concreti provenienti dalle famiglie
estese e dagli amici. Le risorse raccolte a questo livello sono ancora meramente
descrittive e vanno arricchite di dati valutativi per effettuare questa valutazione
occorre avvalersi delle conoscenze sui fattori di rischio e protettivi. Es. nell’area
Risorse la disponibilità della nonna paterna a occuparsi per tre pomeriggi alla
settimana del bambino è considerato come risorsa. Ma come, valutando fattori
protettivi si scopre che il rapporto tra suocera e nuora non si configura come un
fattore protettivo poiché punteggiato da asprezze e incomprensioni che vertono
soprattutto sullo stile educativo da adottare, sulla critica costante della nuora da
parte della suocera. Questa nonna allora è efficace o controproducente?
 Area 6. Risorse individuali dei genitori e del bambino mira a permettere la
conoscenza delle condizioni di salute psicofisica, delle competenze intellettive ed
emotive, degli elementi di personalità ecc. dei componenti della famiglia, deducibili
da fonti esterne e non solo dalle dichiarazioni degli utenti.
 Non è sempre facile completare tutte queste voci in breve tempo, poiché richiedono
contatti con presidi medici, psicologici e psichiatrici.
- È importante che vengano raccolti inizialmente alcuni dati sintetici di identificazione
generale sulla famiglia, sui minori, sull’inviante e sul tipo di richiesta avanzata dal Servizio
(Area 2), allo scopo di facilitare la contestualizzazione della situazione nella quale sia
l’operatore sia gli utenti sono inseriti. Sono dati che servono a comprendere meglio quali
siano la richiesta, il committente e il contesto. Ad esempio una richiesta corredata da un

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decreto del Tribunale per i minorenni pone limiti temporali, predefinisce regole di intervento
orientate al monitoraggio dei minori e implica che la valutazione sui destinatari degli
interventi non siano solo gli utenti stessi, ma prioritariamente il Tribunale, al quale inviare la
relazione.
- Definizione della cornice di riferimento implica anche attenzione alla rete di Servizi presenti
all’atto della presa in carico della famiglia (Area 3), allo scopo di evitare omissioni di
informazioni o sovrapposizioni con progetti o interventi di altri colleghi. Questa area prevede
anche il reperimento di dati sull’uso attuale e pregresso dei Servizi da parte delle famiglie
estese, per iniziare a cogliere gli elementi di cronicità assistenziale transgenerazionali.
- Le informazioni relative al quadro socio-anagrafico, alla composizione della famiglia nucleare
ed estesa e dati più specifici sui genitori e sui figli rappresentano aree molto importanti e
significative (Aree 4, 4.1, 4.2, 4.3, 4.4). Si tratta di acquisire conoscenze corpose che,
probabilmente, richiederanno svariati colloqui con più di un componente della famiglia,
contatti con colleghi e l’utilizzo ance di fonti extra-familiari. Alle Aree 4.1, 4.2, 4.3 e 4.4 sono
connessi i fattori di rischio distali (FRD), quelli prossimali di amplificazione del rischio
(FPR&AR) e quelli prossimali protettivi e di riduzione del rischio (FPP&RR).
 Area 4.1 Famiglia: genitori e relazione di coppia contiene i punti relativi alle
informazioni anagrafiche e personali sui genitori, sui figli, sulla relazione di coppia e
sugli stili educativi che si suggerisce di raccogliere per la compilazione della cartella.
Nel mentre vengono rilevati questi dati si possono anche introdurre domande per
capire se sono presenti condizioni di rischio o protettive per far questo bisogna
conoscere i “Fattori di rischio e protettivi” connessi all’Area 4.1 (es. povertà cronica,
basso livello di istruzione dei genitori, famiglia monoparentale, accettazione della
violenza e delle punizioni come pratiche educative, accettazione della pornografia
infantile sono tutti fattori di rischio distali; gravidanza e maternità non desiderate,
conflitti di coppia e violenza domestica sono fattori prossimali di rischio;
sentimenti di inadeguatezza per la dipendenza dai Servizi, capacità di gestire i
conflitti fattori prossimali di protezione).
Si suggerisce di mantenere un atteggiamento flessibile nella raccolta di queste
informazioni, seguendo le piste che via via vengono introdotte dall’utente, prestando
però attenzione a ritornare sulle informazioni mancanti e a riportare l’attenzione su
eventuali temi che intenzionalmente o involontariamente sono stati evitati o disattesi. I
colloqui quindi dovrebbero avere un andamento ad imbuto temi più ampi all’inizio e
proseguendo poi in modo sempre più stringente nelle fasi successive, in modo anche da
porre l’utente di fronte a sue eventuali contraddizioni o incompletezze.
*Le informazioni sulla famiglia vanno poi trasformate nei simboli del genogramma
(contenuti nell’Area 4, “Quadro socio-anagrafico della famiglia e simboli del
genogramma) restituisce un’immagine di sintesi facilmente leggibile e trasferibile.
- Mantenere separate le opinioni dai fatti e indicare le diverse fonti da cui vengono desunte
le informazioni. Può anche essere opportuno cercare di riportare le parole verbatim con cui
si sono espressi gli utenti soprattutto se si pensa di usarle per avvalorare o sostenere il
contenuto delle relazioni da destinare al Tribunale. Si suggerisce di evitare generalizzazioni
e opinioni personali non corredate da fatti o non desunte da verbalizzazioni provenienti dalle
fonti. Il parere professionale dell’operatore è comunque molto importante va sempre
fornito ma in forma puntuale e con riferimento ad elementi oggettivi o in forma di

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commento ad essi. Si suggerisce inoltre di prestare attenzione alle sequenze temporali che
si snodano nel rapporto tra utenti e Servizi e nell’articolazione degli eventi in modo da
poter documentare e riportare i cambiamenti e gli sviluppi in relazione agli interventi
effettuati. Ad esempio l’Area 7 sugli interventi è stata divisa in due fasi: quella iniziale
(progettazione e realizzazione dei primi interventi) e una successiva (azioni attuate nei primi
sei mesi, cambiamenti e eventuali riprogettazioni degli interventi stessi).
È stato proposto uno schema riassuntivo finale (12.4) che ripropone l’articolazione dei fattori
di rischio e di protezione e prevede l’indicazione sulla loro presenza, assenza o possibilità di
rivelazione ed è connesso ai possibili percorsi di intervento (aiuto e sostegno al bambino e
alla famiglia prevalgono fattori protettivi; protezione e monitoraggio del bambino e della
famiglia se vengono rilevati sia fattori di rischio sia protettivi; protezione e tutela del
bambino sono assenti fattori di protezione e presenti solo quelli di rischio). Da qui devono
scaturire valutazioni pensate e calibrate, non solo frutto di un conteggio di numero di fattori
di rischio e di protezione.

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