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Tossicomania: è uno stato d'intossicazione periodica o cronica prodotta dal consumo ripetuto di un
farmaco o di una sostanza psicotropa, le cui caratteristiche sono:
Un piano AMBIENTALE: in che ambiente vive il futuro tossicodipendente? Il fatto che venga
trasferito in comunità fa presagire che le relazioni con i familiari possano ostacolare il percorso
terapeutico del tossico.
Un piano MEDICO-FENOMENOLOGICO: il mondo del tossicodipendente è il mondo
della dipendenza e dell’impossibilità di rompere la relazione con la sostanza e questo piano ha tentato, e
continua, a cercare delle soluzioni.
Dov’è il soggetto?
È la risposta a questa domanda, vero obiettivo del testo, che rappresenta il vero filo conduttore tra i piani
elencati ora.
Perché soggetto nascosto? Perché quando ci si trova di fronte al tossico, si ha la sensazione che non si ha di
fronte a sé un individuo, coi suoi desideri, speranze, ecc. ma di esser davanti a un uomo che vive un eterno
presente, in cui tutto ruota intorno al fattore “disponibilità/indisponibilità della sostanza”. Sembra che la
sostanza abbia distrutto la personalità del soggetto e che ora egli sia solo un tossicodipendente, proprio
così come siamo abituati a immaginarlo: quella del tossico diviene un’identità fittizia ma molto potente. Ci
sono fattori che favoriscono questa identificazione:
Il risparmiarsi la fatica di esser qualcos’altro e di costruirsi un’immagine, di esser se stesso
Il sentimento di appartenenza che il tossico prova nella comunità tossicodipendente, che ha valori
e norme contrastanti con quelli della comunità non tossicodipendente
Lo stigma che viene quasi ricercato dallo stesso tossico e sbandierato agli operatori dei servizi,
quasi fosse la conferma che ha fatto bene a intraprendere la strada che ha scelto.
La terapia del tossico non consiste solo nella disintossicazione, altrimenti una volta usciti dalla comunità
non ci sarebbero tassi di ricadute così elevati; di certo la disintossicazione è il primo passo per condurre il
soggetto a sopportare l’idea di essere una persona, con la sofferenza che ciò comporta. Il tossico va
accompagnato alla scoperta di sé, cosa non facile per vari motivi, uno tra questi la diffidenza che il soggetto
nutre verso la società e quindi anche il terapeuta, che sarà trattato alla stregua di un oggetto da sfruttare. è
anche vero, paradossalmente, che man mano che si crea il rapporto, c’è il rischio che il soggetto
progressivamente sostituisca il terapeuta alla sostanza da cui dipendeva: si crea una lotta tra le due
dipendenze, inasprita dalla profonda ambivalenza che il tossicomane nutre verso la dipendenza e la
conseguente oscillazione emotiva.
Alla ricerca del soggetto: psicoanalisi come approccio introduttivo alla clinica delle tossicodipendenze
La psicoanalisi, intesa come atteggiamento mentale, scientifico e terapeutico, ci aiuta a rispondere alla
domanda “dov’è il soggetto?”. L’assunto della psicoanalisi propone che lo sviluppo in senso filogenetico e
ontogenetico della coscienza, accompagnato dall’uso del linguaggio ha comportato un prezzo e cioè la
separazione dell’uomo da se stesso: l’uomo non è sempre permeabile a se stesso, non sempre capisce cosa
prova, cosa vuole, ecc. L’uomo vive una frattura tra conscio e inconscio, come Correale scrive in modo
evocativo, e la sua fatica psichica è proprio quella di armonizzare se stesso, la propria coscienza e i propri
bisogni e desideri. L’autocoscienza ne è l’esempio lampante: quando l’uomo si trova a riflettere, riflette su
sé stesso, c’è una parte osservante e una osservata. Freud, come aveva concettualizzato, credeva che l’Io
sia un’istanza psichica che si trova a combattere su due fronti e cioè la realtà e l’inconscio. Inoltre l’Io non è
solo Io, cioè il soggetto, ma è anche “me”, cioè l’Io osservato dagli altri e modellato sulle loro aspettative. Il
soggetto in tale concettualizzazione è la funzione che collega Io e me, in cui l’Io è la parte dell’individuo che
cerca l’oggetto (in termini psicoanalitici, quindi l’altro) e in cui il me è la parte identificata con l’oggetto;
quelle identificazioni che poi hanno acquisito un certo grado di “autonomia psichica” sono state definite
dalla psicoanalisi come oggetti interni [credo sia possibile paragonare l’Io al vero sé e il me alle
identificazioni]. Emerge che in realtà la psicoanalisi non ricerca l’inconscio, ma il soggetto stesso, cioè l’Io
che soggiace alle identificazioni e tenta di determinare una giusta oscillazione tra Io e me. Una delle
tragicità in questo processo fisiologico e naturale è la non totale identificazione con l’altro affidabile che sia
presente in modo costante per motivi che vengono approfonditi di seguito. Per questo la psicoanalisi parla
di SOGGETTO e non di identità: l’identità è essere qualcosa di fronte a quel qualcosa che è l’altro. Altro
concetto degno di discussione è il concetto di SE’, è un termine di matrice fenomenologica che riguarda la
percezione potente del proprio esistere, come corpo e mente, e che il cui concetto include un centro, una
nucleo stabile. Il concetto di soggetto, a differenza, più che il nucleo è utile a rappresentare il continuo
passaggio di identificazioni e disidentificazioni, aperture e chiusure. Un concetto simile è quello
winnicottiano di Vero Sé e Falso Sé, il primo è la potenzialità del soggetto, quel gioco tra Io e me, il Falso Sé
invece è il sé sociale, il sé imitato per vivere nel mondo sociale.
La psicoanalisi, fatta tale introduzione, propone l’idea che il tossico sia un soggetto sommerso da
identificazioni rigide per liberarsi dalle quali cerca di creare un vuoto artificiale tramite la sostanza. Questa
assumerebbe un ruolo duplice:
Strumento per la ricerca di piacere
Strumento per liberarsi da oggetti interni ingombranti e rigide, e divenire qualcos’altro.
Il PUNTO CRITICO è che la sostanza non fa cogliere questo qualcos’altro, che sarebbe poi il soggetto stesso.
È fondamentale quindi in questa ricerca del soggetto il TRANSFERT, concetto introdotto da Freud e
concepito da lui come una riedizione di antichi conflitti; solo in un secondo momento ne coglie la portata e
cioè quella di essere il “vero campo di battaglia della cura” (Freud), in cui la libido è spostata dal sintomo
all’analista, il quale può reindirizzarla su nuovi investimenti: il transfert è l’attivazione della speranza di
sperimentare un rapporto nuovo, speranza che si intreccia sempre col timore che verrà delusa. C’è quindi
una doppia corrente nel fenomeno transferale:
La tendenza a ripetere
La speranza che il soggetto con cui si ripeterà potrà introdurre elementi di novità. Elemento
fondamentale perché si manifesti il transfert è poi che chi abbiamo davanti sia un soggetto che
supponiamo saperne più di noi e che possa aiutarci, e ciò accade nel caso del terapeuta: Correale scrive
che nel terapeuta ogni paziente incontra se stesso e l’altro se stesso che è in noi ed è rifiutato o
temuto. Il transfert è un fenomeno ubiquitario, presente anche nelle istituzioni ed è importante
riconoscerlo affinché non sia mal gestito; invece in tali contesti è relegato sullo sfondo perché
identificato come dipendenza, e sostituito col termine “relazione”: in realtà sono concetti diversi e
fondamentali entrambi:
Relazione coglie l’aspetto diadico e reciproco,
Transfert coglie il livello passionale e ripetitivo (e quindi fantasmatico) del rapporto.
Sono aspetti di primaria importanza perché non è possibile una terapia significativa senza un rapporto
personalizzato, in cui il paziente e il terapeuta possano ripercorrere una strada in cui gli oggetti interni (le
identificazioni) accettati o temuti, siano riesaminati nelle loro valenze affettive e fantasmatiche: la
terapia si configura come una graduale liberazione dalle ripetizioni e dai traumi.
Quindi il transfert va mantenuto nelle istituzioni e questo è difficile per due fattori:
1. La sostenibilità del transfert da parte dell’operatore che lo vive come pericoloso o divorante.
2. La dimensione temporale ignota della durata dell’investimento affettivo di cui l’operatore si sente
gravato.
Perciò serve che l’operatore sia formato a ciò e al fatto che la stessa ambivalenza sarà vissuta dal paziente
stesso che vivrà una commistione di speranza e sfiducia verso di lui e di certo farà attacchi al legame o
azioni pericolose per tentare di svincolarsene: spesso infatti il tossico ha vissuto o vive un rapporto molto
ambivalente con una figura di riferimento e quel vecchio legame, seppur scomodo, è conosciuto. Per
fronteggiare questo difficile transfert è utile che delle figure del contesto terapeutico possano svolgere la
funzione di oggetti di transfert collaterali o intermediari; allo stesso modo l’esperienza gruppale può esser
più gradita al soggetto tossicodipendente, il cui processo terapeutico non potrà però prescindere da quel
legame personale cui fare riferimento costante in cui leggere l’esperienza alla luce del binomio ripetizione-
cambiamento.
Nell’800 la situazione cambia: i consumatori sono letterati e artisti che usano oppio e laudano per ampliare
la percezione e ribellarsi al conformismo sociale: Baudelaire elogia le proprietà delle sostanze ne I fiori del
male.
Da sostanza a farmaco
I progressi della chimica diedero a fine ‘800 una spinta alla produzione di sostanze psicotrope: queste erano
facili da ottenere e semi-legali, visto che erano vendute in farmacia sostanze come morfina, eroina, codeina
ecc. come antidolorifici. L’EROINA fu introdotta dalla ditta Bayer come farmaco per le malattie respiratorie;
la COCAINA aveva fini medici e di ricerca: già Freud ne conosceva l’uso e ne scoprì che era a rischio di
abuso.
I Post-freudiani
Abraham (’27) considera l’etilismo come Freud, cioè una fissazione alla fase orale che porta un
allentamento delle difese e una conseguente sessualità indiscriminata: collega omosessualità e più in
generale perversione all’alcolismo, così come anche Tausk (’15).
Adler (anni ’20) parla di “finzioni patologiche”: per allontanarsi dalla realtà il tossicomane si rifugia in un
mondo fittizio, ciò a causa di un originario “senso di inferiorità” dovuto a un’infanzia negativa; l’autore
propone due casi prototipici di bambino a rischio di tossicomania: il “bambino viziato” che sostituisce la
sostanza alla madre in un rapporto di dipendenza e il “bambino maltrattato” che ha un vissuto di carenza
affettiva. Tesi centrale è che le cause della tossicomania sono le stesse della nevrosi, ma i meccanismi sono
simili a quelli melancolici, e cioè il tossicomane per il suo senso di inferiorità non saprebbe investire
affettivamente l’altro, giungendo così a idealizzare mete irraggiungibili che, non riuscendo a ottenere,
rafforzerebbero il circolo vizioso di soddisfacimento unicamente tramite la sostanza.
Simmel (’29) parla di sostanza come di “mania artificiale”, cioè come potenziatrice delle difese maniacali
contro la depressione; il dolore provato nei momenti di astinenza sarebbe in realtà il dolore provocato
dall’identificazione con un oggetto interno portatore di tristezza.
Rado (’33) si interessa al meccanismo di mantenimento della dipendenza da sostanze e crea il costrutto di
“farmacotimìa”, cioè il desidero persistente e irrefrenabile di drogarsi, inteso come disposizione di base alla
tossicodipendenza: questa tendenza sarebbe proprio di soggetto narcisisti o in stati maniaco-depressivi, per
i quali la sostanza assume rispettivamente la funzione di sollievo immediato e onnipotente e un controllo
sui propri stati d’animo depressivi.
Emerge già fin qui la tendenza comune dell’approccio psicoanalitico a considerare la tossicomania come
sintomo di strutture psicodinamiche sottostanti.
Fenichel (’45) parla di “impulsi patologici” presenti in tossicomanie, bulimia e cleptomania, questi ultimi
considerati da lui “tossicomanie senza droghe” e riuniti tutti e tre sotto il termine di addiction inteso come
“urgenza del bisogno e impossibilità di soddisfarlo”.
Glover (’49) opera una sistematizzazione clinica delle tossicomanie: ritiene che siano allo stesso tempo
nevrotiche e psicotiche e riconducibili a tre organizzazioni di personalità: depressivomaniacale, paranoide,
ossessivo. Glover fu il primo a proporre l’idea che la sostanza vada a curare una sofferenza interiore
personale, nel caso dell’ossessivo ad esempio assumerebbe una funzione difensiva diretta al controllo degli
impulsi sadici.
Tra gli autori non direttamente riconducibili a Freud abbiamo:
Lacan (’75) ritiene che la sostanza offra un piacere sessuale senza la necessità di ricorrere a un oggetto
sessuale reale e quindi senza i problemi connessi alla relazione con l’altro.
Olivenstein (’81) allievo di Lacan, crede che i tossicomani abbiano un deficit costituzionale di personalità e
che l’uso compulsivo della sostanza celi un bisogno psichico arcaico: parla di “specchio infranto” ad indicare
la frammentazione della sua personalità dovuta a una mancanza di rispecchiamento con la figura di
riferimento che farebbe sì che a ogni esperienza di separazione il soggetto viva un senso di non esistenza, la
sostanza gli offrirebbe un senso di ricomposizione. Freda (2001) riprende Lacan e sottolinea che la droga sia
un’alternativa alla relazione e offra una soddisfazione immediata del bisogno: il tossicodipendente vivrebbe
un difficile rapporto con la propria sessualità genitale a cui rinuncerebbe per un godimento oggettuale.
Freda sottolinea inoltre come il sintomo nelle patologie da dipendenza che alimentari svolga una funzione
identitaria, cioè permetta al soggetto di identificarsi.
lei del tutto, regredendo a uno stato fusionale: ciò che è stato carente in tali casi secondo l’autore è la
funzione normativa paterna, il Nome del Padre, che fornendo al bambino l’accesso a un linguaggio
ordinatore e un’apertura al mondo, favorirebbe la separazione dalla madre. In L’Uomo senza inconscio
l’autore affronta la condizione dell’uomo postmoderno e la psicopatologie tipiche (tra cui disturbi
alimentari e tossicodipendenze), rinvenendo la radice della sua sofferenza all’aver fatto prevalere il
godimento (scarica immediata della pulsione sull’oggetto) sul desiderio (movimento verso l’altro in una
relazione io-tu): è la situazione che nel senso comune è definita “mentalità consumistica”.
Recalbuto si chiede a cosa è dovuta la morte dell’inconscio di cui parla Recalcati: si risponde che la
spazialità e la temporalità vissuti sono cambiati. L’uomo contemporaneo è abituato a ricevere cure
immediate, senza concedersi uno spazio elaborativo del proprio pensiero e delle proprie emozioni, è una
spazialità “maniacalizzata”, uno “spazio drogato”, così come anche la temporalità, focalizzata
sull’immediato, forse, come scrive il fenomenologo Bin, per celare sentimenti depressivi. Così Recalbuto
ritiene che le sostanze siano per il tossico dei collanti al senso di frantumazione sottostante e che l’agito
corporeo sia l’espressione della libido che non trova significazione. In tutto ciò, la società colluderebbe con
tale bisogno, offrendo situazioni facili: emerge già da qui il peso sociale sullo sviluppo della psicopatologia
individuale.
I contributi della Psicoanalisi delle Relazioni Oggettuali
Balint (’68) crede che la sostanza, compreso l’alcool, offra un lenitivo alla vulnerabilità narcisistica, a un Sé
frammentato.
Rosenfeld (’87), psicoanalista kleiniano, ritiene che l’uso di sostanza riveli il bisogno del soggetto di
introiettare oggetti buoni e proiettare oggetti cattivi, in un atteggiamento ambivalente di onnipotenza e
diniego della dipendenza.
Kernberg (’75) conferma quanto appena detto e cioè che le sostanze aiutino il soggetto a trasformare il Sé
e l’Oggetto in “tutto buono”, in linea col meccanismo della scissione, tipico delle organizzazioni borderline
di personalità.
Winnicott (’71) interpreta la dipendenza patologica come tentativo di recuperare il rapporto simbiotico con
la madre, giungendo a sostituire la madre con la sostanza: così il tossico si comporta come il bambino, cioè
nega il dolore, si ritira in un mondo soddisfacente e attua difese onnipotenti.
…e della Psicoanalisi del Sé
Kohut (’71) che ha approfondito la patologia narcisistica e la relazione primaria madre – bambino, afferma
che la mancanza di empatia e di un giusto riconoscimento da parte dei genitori produrrebbe nel bambino
un blocco nello sviluppo, che produrrebbe un deficit nella strutturazione di un Sé integro: il narcisista, nella
concettualizzazione kohutiana, non sarebbe in grado di alleviare il dolore procurato dall’abbandono,
frustrazione, svalutazione e la sostanza può fungere da lenitivo. Altri autori hanno approfondito l’influenza
delle figure genitoriali e degli aspetti relazionali nella strutturazione della personalità tossicomanica:
Knight (’37) studia la famiglia dell’alcolista, in cui rileva una disparità genitoriale in cui il padre è freddo e la
madre severa.
Blatt (’84) approfondisce il tema della preference, cioè la scelta della sostanza intesa come scelta di uno
specifico oggetto che assolve a una specifica funzione. L’eroina ad esempio:
Aiuterebbe il soggetto a contenere l’aggressività
Soddisferebbe il bisogno di una relazione simbiotica (senso di fusione col tutto)
Allontanerebbe gli stati depressivi.
sostanza sarebbe per l’autore la sensazione di aver perso il controllo e il potere, e ciò paradossalmente
poiché il soggetto perde poi il controllo sulla sostanza.
Bergeret (’90) dà un contributo importante: parla di “a-strutturazione psichica” dell’Io e del SuperIo nel
tossicodipendente, che si manifestano come deficit delle regolazioni narcisistiche del comportamento. Il
soggetto sarebbe in balia della pulsionalità a causa della debolezza dell’Io e sfrutterebbe l’altro affinché gli
rimandi un’immagine di sé idealizzata; l’autore ritiene poi che la tossicomania sia transnosografica (non c’è
una sola personalità tossicomane) e si può manifestare in quadri nevrotici-psicotici e depressivi, in modi
diversi, ad esempio:
Nella depressione: uso di sostanze per ridurre l’angoscia (eroina)
Nella mania: sostanze eccitanti (cocaina)
Nella psicosi: sostanze allucinogene che facilitano il contatto con un mondo alieno.
Questa differenziazione è per la preference, cioè la scelta in base al bisogno specifico del soggetto.
CAP. 4 – IL SINTOMO E LA MALATTIA
Gli effetti delle sostanze sono categorizzabili in due linee principali:
1. L’ampliamento di facoltà psichiche e l’estensione delle conoscenze: l’effetto descritto è quello di
percepire una maggiore vitalità negli oggetti della realtà, mentre lo sfondo quasi si annulla, a tal punto
che sembrano messaggi da un altro mondo. A tal fine è stata usata da letterati e artisti sino alla “beat
generation”, per rompere schemi di pensiero abituali.
2. La volontà di evasione e di disfarsi di se stessi (Pontalis) e della fatica della vita, a favore invece dei
desideri e della fantasia (l’ideale dell’Io) che pare così reale sotto effetto della sostanza ma che tuttavia
possono essere soddisfatti solo in modo allucinatorio. C’è in questo caso un’ipertrofia del soggetto e
l’appuntamento con la sostanza è vissuto con impazienza. Questi aspetti non sono in contrasto, sono
due linee di tendenza e si intrecciano tra loro.
L’angoscia può derivare da inibizioni, conflitti, traumi, vissuti di impotenza e di morte: può delinearsi quindi
come angoscia nevrotica, perversa, traumatica, psicotica. Lo studio delle angosce specifiche di ogni
tossicodipendente ci può aiutare a comprendere e ricostruire come quella specifica sostanza ha risposto al
suo bisogno; è importante in particolare collegare il primo ricorso all’uso della sostanza alla questione
dell’angoscia. Le sostanze inoltre danno un piacere aggiuntivo, oltre che sollievo dall’angoscia, in un duplice
rinforzo: Correale paragona l’effetto della sostanza a una soglia da varcare che porta dalla prima stanza, in
cui c’è angoscia, alla seconda, in cui le angosce non sono più importanti; una volta finito l’effetto si torna
nella prima stanza. Ed è per questo motivo che non è sufficiente disassuefare un tossico per guarirlo, ma
renderlo consapevole di quanto la sostanza lo ha trasformato e accompagnarlo nel mondo della prima
stanza. Le sostanze sono quindi un problema sia psichiatrico sia psicoanalitico sia medico sia tossicologico.
Inoltre l’angoscia non è mai solo intrapsichica ma frutto di legami con figure fortemente investite, la cui
potenza affettiva genera angoscia e il cui esito possibile, come rilevò già Freud, è l’identificazione con tale
figura. L’abusatore di sostanze per Correale è il soggetto che cerca di liberarsi da questi legami, dando vita a
un mondo personale svincolato dalle relazioni, e tale autonomia può essere nella forma di un isolamento
grandioso e inattaccabile o in quella di accettazione esclusiva dei legami che si sottomettono al desiderio
del tossico. Una terza possibilità è quella stile Dr. Jackyll e Mr. Hyde in cui il soggetto conduce una vita
pressoché normale a patto del suo appuntamento fisso con la sostanza.
I tossicodipendenti cercano una sorta di assoluta dipendenza e la sostanza da cui si dipende prospetta una
libertà condizionata questa è definita da Correale “negazione della dipendenza”, dipendenza psichica
Correale descrive quanto detto da più angolazioni. Possiamo dire ancora che:
• Il borderline vive una perenne inquietudine: la quiete è un momento di riposo reso possibile da un
rapporto pacificato con l’altro reale e l’altro interiorizzato. Il border non ha però la capacità di
evocare un Altro buono: l’altro è vissuto come imprevedibile, irraggiungibile, impenetrabile, così la
quiete è impossibile e diviene vuoto angoscioso e noia.
• Il border tende a spingere all’estremo le situazioni e le esperienze, questa estremizzazione è
dovuto al sentimento di catastrofe e morte incombente che il trauma attuale, per quanto limitato
(ad esempio una separazione immaginata), può richiamare.
• Il borderline in più ricerca in modo spasmodico l’autenticità nell’altro, scova immediatamente le
ipocrisie e i formalismi e la sua fame di oggetto lo può indurre ad assumere modalità provocatorie
per far emergere la verità dell’altro. Allo stesso modo può essere intollerante nei confronti di
regole sociali che ritiene ipocrite.
• La vita psichica del border infine si fonda sul senso di ingiustizia subita e sulla ricerca di una realtà
utopica in cui i genitori amano i figli e trionfa sempre la giustizia: questo aspetto può dare sbocco a
tratti antisociali nel caso in cui per sfuggire all’angoscia, l’identificazione con l’altro “cattivo” diviene
troppo forte.
In un assetto psicodinamico, il disturbo borderline è stato ben descritto da Kernberg che, grazie ai
contributi della Klein, lo considera il prodotto della scissione tra oggetti buoni e cattivi: il bambino, per
controllare la sua rabbia distruttiva verso la madre, scinderebbe l’oggetto-madre in una parte idealizzata e
in una cattiva, questo meccanismo di difesa al fine di preservare l’oggetto tramite appunto l’identificazione.
È questa bisogno radicato di scindere che caratterizzerebbe il soggetto border per tutta la sua vita e
sarebbe causa della stabile instabilità (Rossi Monti); allo stesso modo questa oscillazione tra buono e
cattivo si ripresenterebbe anche nel transfert analitico.
Borderline e trauma
Ci limitiamo qui al trauma relazionale, cioè una relazione in cui il trauma tende a ripetersi. Il trauma è
definito dall’autore come un’esperienza di impotenza, passività, di fronte un “oggetto” (in senso
psicoanalitico, quindi l’altro) sentito impenetrabile. L’altro è sentito come un muro, talvolta i soggetti
border riferiscono di aver vissuto l’esperienza penosa di sentire che il proprio contenuto mentale (affetti,
pensieri, ecc.) espressi in modo verbale o no, non transitassero dalla propria mente a quella dell’altro,
spesso il genitore, o fossero travisati. Questo senso di impotenza, ogniqualvolta è risperimentato in un
trauma attuale, dà origine a rabbia, solitudine, disperazione e una transitoria depersonalizzazione.
Depersonalizzazione in quanto l’altro è vissuto come estraneo per la sua inaccessibilità, così il bambino si
vive come estraneo a se stesso (forse nel senso del mancato rispecchiamento); non è la
depersonalizzazione pre-psicotica a cui fanno seguito deliri e allucinazioni tramite cui lo psicotico anima il
mondo, ma “post-traumatica”: il soggetto ha un senso nudo e crudo della realtà, vissuta come fredda e
insensibile.
Correale spiega il concetto dell’impenetrabilità dell’altro nell’esperienza del border: nella loro famiglia non
hanno necessariamente sperimentato abusi fisici – cosa che però è frequente – ma un eccesso emozionale
dell’adulto, una sua incontinenza emotiva. Questo è spiegabile con il concetto di trauma
intergenerazionale, spesso infatti i genitori dei border sono a loro volta soggetti traumatizzati, e questi
traumi hanno subito un processo di “incistamento”: certe aree mentali sono state sequestrate in luoghi
sotterranei della mente, a seguito di meccanismi di scissione e negazione, e la parte visibile di queste aree
sotterrate è l’insensibilità del genitore e i suoi eccessi emozioni in risposta alla sollecitazione del bambino
circa certi temi. Si verifica una DOPPIA INFELICITA’:
Il bambino sperimenta una chiusura dell’adulto
Il genitore risponde alla sollecitazione di certi temi tabù con controreazioni violente, repressioni
ecc.
È molto importante a fini terapeutici affrontare il tema del trauma relazionale in terapia.
1. Il senso di impotenza vissuto nella relazione attuale è vissuto come un trauma che ripresentifica il
trauma antico e determina la depersonalizzazione,
2. La depersonalizzazione apre la via alla dissociazione, cioè a un’alterazione dello stato di coscienza
in cui il soggetto vive uno sdoppiamento, più o meno accentuato:
o una parte della mente è occupata da un oggetto sentito come estraneo che se ne
impadronisce, è un’”identificazione alienante”: questo è un fenomeno più radicale
dell’identificazione con l’aggressore, infatti nel primo caso l’oggetto violento e persecutore
può determinare un’imitazione quasi immediata, un’assunzione di se stesso nel soggetto
con modalità coercitive. Tale momento è vissuto dal border come il tentativo di una forza
biologica sconosciuta di colonizzarlo;
o un’altra parte, minoritaria, assiste spaurita e impotente a tale colonizzazione.
3. Acting, uso di sostanze, atti impulsivi e conseguenze connesse.
2) Il border vive un costante STATO DI ALLARME: non solo è inquieto, ma si sente in pericolo e questo
perché il trauma relazionale lascia in lui una traccia mnestica profonda sempre pronta a riattivarsi, in
una forma di iper-reattività. Tale allarme è anche a livello fisiologico in forma di vigilanza pronta a
cogliere ogni rischio e pericolo, è questo che rende il border particolarmente sensibile alle emozioni e
alle intenzioni altrui, e spesso gli è sufficiente un’espressione fuori posto dell’interlocutore per avere la
conferma di un suo attacco o della sua indisponibilità.
3) È evidente in taluni casi la TENDENZA ALLA RIPETIZIONE intrinseca alla patologia del trauma, specie in
quello relazionale. Già Freud aveva compreso la traccia mnestica lasciata dal trauma modificata da
fenomeni di rimozione come forme di difesa, quando poi nella vita del soggetto c’è un evento che
riattiva tale memoria rimossa si ha un fenomeno di retroazione, l’apres coup: la traccia mnestica è
riattivata e ripresa alla luce della nuova esperienza, andando a determinare una sintesi dei due eventi.
Il trauma attuale non ricorda il trauma antico, ma lo presentifica in una sorta di a-temporalità, fino a
integrarsi in una sintesi: la ripetizione sembra essere una dimensione costitutiva del trauma stesso ed è
la causa degli scoraggiamenti di molti terapeuti. Ci vuole tempo infatti ma è necessario far cogliere al
paziente queste ripetizioni nella imprevedibilità dei loro vissuti, questa comprensione è alla base del
cambiamento; tale comprensione non è facile, perché al momento del ripresentarsi della trauma e
della crisi, il soggetto dimentica velocemente la causa scatenante, che può considerare futile, come una
telefonata non ricevuta, una critica indesiderata ecc.
Nel corso della dissociazione infatti le capacità rappresentative sono danneggiate, si perde la dimensione
globale e domina l’emozione; il soggetto vive una frammentazione, come se avesse perduto la capacità di
ordinare gli eventi in una successione temporale. Non è sempre così: può accadere che non ci sia la
frammentazione ma che l’evento traumatico dia effetti corporei e attivi reazioni fisiche di carattere
viscerale (nausea, vomito) o neurologico (tremori, vertigini). Non è una conversione isterica, in cui c’è una
simbolizzazione e il corpo parla al posto della mente, ma il corpo assume qui il ruolo di cassa di risonanza:
la memoria della sequenza è andata momentaneamente perduta ed è importante ricostruirla. In tal caso il
terapeuta dovrà ascoltare e far sfogare per tutto il tempo richiesto, chiedere chiarimenti, spingere al
racconto, insomma lavorare per ottenere una narrazione quanto più coerente e dettagliata, favorendo
anche la descrizione dell’altro che nella relazione ha contribuito a scatenare la sequenza. Questo punto ci
rimanda alla funzione, carente spesso nei soggetti border, della mentalizzazione (attribuire all’altro
pensieri, emozioni, fantasie, tesi a comprenderne i comportamenti).
4) Nel disturbo borderline ha poi rilevanza la TENDENZA TRAUMATOFILICA del soggetto, cioè la tendenza
a ricercare attivamente le situazioni e le relazioni traumatiche, un esempio su tutti la scelta in amore di
un uomini inaffidabili, psicopatici ecc. Questo perché il border sceglie inconsciamente qualcuno che
confermi la sua credenza di fondo, cioè che l’altro lo deluderà, e in molti casi si creano coppie collusive
del tipo salvatore-vittima. La tendenza traumatofilica è agita in un ulteriore modo, quello cioè di
cercare motivi di frustrazione reale spinti all’estremo (la tendenza del border a estremizzare) per far
verificare l’evento traumatico attesa: è come se il soggetto preferisse la certezza dell’evento traumatico
alla penosità dell’ attesa di un pericolo imminente di cui non si conosce la natura.
In conclusione si comprende ora il nesso tra disturbo borderline e uso di sostanze: dal trauma attuale si
origina una angoscia tipica fatta di un miscuglio di emozioni negative in forma di tensioni talora fisiche (per
l’irrappresentabilità dell’esperienza), a cui le sostanze paiono dare un sollievo immediato. In linea generale
il disturbo border, essendo multifattoriale, può predisporre il soggetto all’uso di una sostanze, se non al
poliabuso, durante le crisi:
Gli oppiacei (eroina) danno pace e senso di fusione col tutto;
L’alcool disinibisce a sufficienza da permettere di liberare gli acting compensatori durante le crisi;
Le sostanze eccitanti (cocaina, anfetamine) favoriscono le identificazioni alienanti a tinta
onnipotente che offrono una via d’uscita alla crisi tramite l’identificazione con un oggetto
invincibile.
sesso è la quintessenza della pulsione, una spinta incontrollabile che proviene dall’interno e non
evitabile, cioè non permette alle difese psichiche di disinvestirlo rimuovendo la quota di affetto connesso
e magari sublimarla. Per cui c’è nel soggetto una lotta iniziale tra eccitamento e scena eccitante, ne segue
angoscia e la necessità di disinvestire la scena: il disinvestimento è però impossibile, per cui la scena si
unisce per vie associative ad altre scene, con nuove immagini e scivola così verso nuove configurazioni: in
tal modo si verifica un compromesso tra pulsione e difese, tra eccitamento e tendenza alla stabilità. Il
trauma sessuale in età infantile inoltre è un’intensa esperienza al tempo stesso eccitante e angosciante,
infatti in questa età l’eccitamento non è puro ma commisto al pericolo e ciò provoca angoscia,
aumentata dal dover coprire il vissuto con una “prima falsificazione”, una prima bugia.
La traccia mnestica del trauma in parte si conserva, in parte è modificata da vie associative singolari: quasi
sempre ciò che in fin dei conti si mantiene è un derivato, un dettaglio periferico che oscura la scena
principale, ad esempio il soggetto potrà ricordare in modo ossessivo che vestito indossava quel giorno. La
traccia mnestica non resta immobile nel tempo: quando nella pubertà i desideri sessuali si fanno più
intensi, nuovi stimoli si affollano nella mente e nel corpo del soggetto e riattivano le vecchie tracce che
vengono rielaborate alla luce delle nuove, tramite il meccanismo dell’apres coup, la dialettica costante tra
ripetizione e trasformazione.
Una conseguenza di questo approccio freudiano è che il fattore quantitativo dell’eccitamento ha un ruolo
centrale, è infatti direttamente connesso alla potenza dei meccanismi di difesi attuati – in tali casi
scissione e identificazione proiettiva. Questa tematica della quantità dello stimolo fu sviluppata da Freud
in Aldilà del principio di piacere in cui, studiando le nevrosi traumatiche da guerra, rileva che lo stimolo
eccessivo di tipo violento (in quel caso) genera una lacerazione dell’immagine del corpo da cui fuoriesce
l’energia vitale ma allo stesso tempo un eccitamento compensatorio sotto forma di attenzione ossessiva
al punto dolente, tesa a contrastare l’angoscia di svuotamento – quasi a dire che il soggetto concentra le
sue risorse a “elaborare” l’evento, che spesso è in realtà un pensarci ossessivamente e allo stesso tempo
ci si intrattiene (forse nel senso di godere inconsciamente dei benefici secondari che ne derivano) per
salvaguardarsi dall’esserne soverchiato. Il processo è un misto di eccitamento e angoscia e il soggetto
torna sempre sul “luogo del delitto”, anche in forma di pensieri intrusivi ricorrenti, e questo perché per
tamponare la falla passa attraverso il pensiero fisso della falla stessa. La mente è impegnata a creare la
coerenza di una serie di eventi di cui ha solo frammenti sensoriali invece che il ricordo. Freud nel ’19 nella
sua opera Un bambino viene picchiato specifica inoltre che l’esperienza traumatica vada considerata
come esperienza di impotenza, e spiega per quali vie il trauma possa esser compensato: la passività
vissuta può divenire il suo contrario (identificazione con l’aggressore), oppure il desiderio di sottomettersi
unito a quello di opporsi (sadomasochismo).
C’è quindi nel trauma una mescolanza inestricabile di eventi e fantasie, sottomissione e ribellione ecc.
Anche se in forme modificate e rielaborate c’è sempre una quota di incancellabilità dell’evento traumatico,
in forma di frammenti nella vita psichica del soggetto: in parte sarà rielaborato, ma la finestra che ha aperto
sulla caducità dell’esistenza è qualcosa di irriducibile. La psicoanalisi post-freudiana si è concentrata su
questo aspetto (il cambiamento catastrofico di Bion, o il breakdown di Winnicott, cioè la rottura dei
contenitori psichici che il trauma opera), in particolare sulla capacità dell’altro di offrire una presenza o un
pensiero trasformativi dell’evento traumatico. Lacan si è concentrato più sul ruolo del linguaggio
nell’elaborare il trauma, offrendo una rete simbolica al soggetto che diviene in grado di ordinare gli eventi,
ma tuttavia anch’egli rinviene qualcosa di irriducibile: il trauma non si esaurisce in toto sul piano simbolico
del linguaggio, ma mantiene in parte un carattere di “cosa” non pensabile e rompe la trama del linguaggio;
per Lacan è traumatico proprio ciò che rompe tale trama e non può esser verbalizzato.
La relazione traumatica
Le esperienze relazionali traumatiche sono situazioni in cui l’esperienza stessa non trova modo di
espressione o condivisione con l’adulto, a causa di una sua ostruzione psichica: il vissuto non transita,
non si forma il processo simbolico e l’incomunicabile resta nel bambino come tensione irrisolta o
desiderio. Il trauma relazionale si forma tra due soggetti, ognuno dei quali ha un’ostruzione. Trauma
quindi non è solo ciò che non passa per il linguaggio, ma ciò che resta come traccia fissa o come
emozione drammatica sempre ricorrente (l’incomunicabile); Correale dice che possiamo pensare al
trauma relazionale come un’esperienza di solitudine davanti all’altro, ne deriva un senso di impotenza
che genera emozioni miste di rabbia e disperazione. Il trauma come abbiamo già detto orienta la mente
in modo significativo, infatti ogni esperienza attuale può riattivare il trauma relazionale antico, per cui
l’angoscia traumatica è sempre in agguato e l’aspettativa di esser delusi è forte. Il soggetto oscilla tra un
ritorno continuo sull’evento e il suo sequestro e quando il trauma è incistato il soggetto nega o evita ogni
stimolo o esperienza che possono avvicinarlo a quell’area sotterrata. Quest’area è spesso trasmessa alla
generazione successiva, e si esprime nell’impossibilità di accedere a certi temi o emozioni. Le difese dal
trauma, specie per l’ambivalenza del soggetto, sono spesso incomplete, è la sostanza che può offrire un
potenziamento delle difese:
Gli oppiacei permettono il ritiro in un mondo autistico-psicotico, Gli eccitanti esaltano
le identificazioni potenti e la negazione della realtà,
L’alcool allenta le inibizioni e favorisce i vissuti immaginari al posto dei reali. Correale fa un
breve accenno all’empatia, come scambio di vissuti emotivi tra terapeuta e paziente, necessaria
ma non sufficiente: è da integrare con uno scambio di un linguaggio poeticometaforico (stato
d’animo, identificazioni nascoste, gesti, fantasie riposte), è la reverie bioniana, che permette di
trattare il “negativo” dell’altro, ciò che il paziente vuole rimuovere o tende a scindere, per
poterglielo progressivamente restituire.
sul ruolo delle prime relazioni oggettuali nella formazione delle istanze psichiche e dei correlati neuronali
che le sostengono: buone relazioni permetterebbero di sviluppare un apparato corticale adatto a
sopportare il dolore e le frustrazioni; al contrario cattive relazioni primarie renderebbero il soggetto
particolarmente propenso all’angoscia e indifeso dalla sofferenza, il che – come abbiamo già visto – è un
fattore predisponente la tossicodipendenza, dato che un ipotetico percorso di vita di un tale soggetto è la
ricerca di difese “artificiali”, quali sono le sostanze. È importante dire che tali organizzazioni cerebrali
sono modificabili dall’esperienza: una psicoterapia ben condotta determina cambiamenti psico-fisici e
neuronali.
La scelta dell’alcool
Ci sono alcuni punti fondamentali nella comprensione di questa scelta:
1. Effetto disinibente. L’alcool indebolisce le inibizioni: i pensieri fluiscono, i ricordi si affollano
e i desideri e i sogni si fanno più accessibili e sembrano realizzabili; la distanza tra Io e Ideale dell’Io
si accorcia. Tuttavia questa disinibizione non conduce all’azione o a un progetto ma resta solo
immaginazione e il soggetto appagato è destinato a restar sempre deluso appena ripresosi. Non
possiamo trarre conclusioni generali e dire che è sempre così, c’è infatti la fascia intermedia di
artisti e scrittori che hanno trovato un delicato equilibrio, sapendo sfruttare l’azione disinibente
dell’alcool per costruire un’opera musicale o poetica.
2. Rapporto col femminile. L’alcool è un fenomeno prettamente maschile ed è luogo comune
che l’alcolista senta la femminilità come irraggiungibile e ostile, perciò la teme. L’alcolista tipo
infatti è fortemente ambivalente sulla propria virilità, la esalta ma al tempo stesso la vive come un
peso.
3. Fenomeno del doppio. Il tema del doppio, studiato da Otto Rank, è un aspetto peculiare
nell’alcolismo. Il bevitore viene a contatto nei momenti di ebbrezza con la parte di sé rimossa e
rinnegata: la parte di sé osservata assume carattere di mistero, estraneità e morte, ciò produce
terrore e piacere. Quello dell’alcool pare essere un tentato processo di autocoscienza che viene
però bloccato e la parte di sé rimossa resta relegata in uno stato allucinatorio.
4. Dipendenza affettiva. L’alcolista è spesso una persona dipendente da una figura esterna
accudente la cui assenza genera senso di abbandono, tale dipendenza è però negata dal soggetto
con modalità di autonomia apparente finalizzata a indurre nell’altro una dipendenza; questi
comportamenti confondono l’altro e inducono giochi e collusioni che possono assumere una tinta
perversa. Come ha rilevato anche la Chasseguet-Smirgel (’85) la fantasia dell’alcolista ha qualcosa
di perverso, psicoanaliticamente inteso come fantasia grandiosa di alcuni bambini piccoli che
sognano di esser più attraenti del padre e poter conquistare la madre grazie alla loro “piccolezza”.
L’alcolista ha in realtà una profonda ambivalenza nei confronti della figura materna, idealizzata e
odiata: si aspetta che la madre lo ami nella sua “piccolezza” e si sente al tempo stesso un eterno
danneggiato dall’incapacità materna.
Lo “sballo”
Sballo è il termine usato per descrivere lo stato d’animo caratterizzato da una totale immersione nel
presente con una accentuazione della dimensione sensoriale e percettiva e un aumentato senso di
potenza e imperturbabilità. È associato al poliabuso ed è un modo per disfarsi di se stessi, di confondersi in
una comune identità vincente tesa alla soddisfazione immediata di bisogni e desideri. Il soggetto ricerca in
tale stato quell’indipendenza già accennata in precedenza, una separatezza non sentita come penosa ma
vincente [ciò pare rientrare entro la tendenza traumatofilica, attuata inconsciamente per vincere quelle
situazioni – traumatiche – da cui il soggetto era uscito perdente]. Lo sballo è vissuto come un
appuntamento fisso, magari settimanale, che aiuta il tossicomane a vivere, sapendo che presto avrà la sua
ricompensa; purtroppo lo sballo è spesso un transito verso forme di tossicodipendenza più gravi.
costruzione di un rapporto di fiducia con una figura del servizio. Talvolta addirittura la disintossicazione è
da posticipare al momento in cui il soggetto avrà stabilito una sana dipendenza dal servizio, quasi come
sostitutivo, nel caso opposto si rischia di slatentizzare la psicopatologia sottostante. Ancora una volta, il
percorso è a ritroso fino al sintomo, questa volta per affrontare quell’angoscia con l’aiuto di un altro (non
più con la sostanza): per il tossicodipendente questa possibilità è una scoperta sconvolgente, che passa
però per fasi difficili in cui la novità e la bellezza dell’investimento affettivo si mescola alla diffidenza e al
senso di oppressione per una relazione così intima. Proprio perciò è utile affiancare alla relazione
personale centrale una terapia di gruppo, in cui c’è più varietà nel gioco delle identificazioni e il soggetto
non si sentirà oppresso o perseguitato, infatti il gruppo è meno superegoico e offre una possibilità di
confronto tra pari. È fondamentale, per il tossicodipendente, sapere che c’è qualcuno lì fuori dalla
comunità ad aspettarlo, che lo va a trovare e, per la figura centrale, essere supportato dall’equipe curante
che dovrà fare riferimento a lui.
soggetto che sfogherà con acting e ricorso a sostanze. Possiamo dire che la tendenza
traumatofilica è una ricerca di senso agita e non pensata, è un ritornare sul luogo del delitto per
ricostruirne la dinamica. Il piacere dell’essere capiti e della vicinanza emotiva può lentamente
antagonizzare queste modalità disadattive di liberarsi dell’angoscia: il lungo tempo richiesto è
dovuto anche alla scissione tra emozione e capacità rappresentativa determinata del trauma. Il
trauma riduce la memoria episodica e accresce l’attivazione di quella semantica ed emozionale,
ciò comporta un peggioramento della capacità del soggetto di assimilare ricordi nuovi, di
contestualizzare gli eventi e la tendenza a generalizzare le reazioni emotive negative: il clinico
dovrà trasmettergli una profonda fiducia nel provare piacere nella propria vita e offrirgli un
modello concreto, in parte tramite il gioco, come attività mentale che lega immaginazione e
concretezza. È importante che il clinico resista agli attacchi al legame, non dovrà farsi
maltrattare e lavorare per creare un ambiente sicuro in cui poter poi ricostruire le sequenze
traumatiche antiche; proporre un’interpretazione precoce è un rischio a cui il paziente potrà
reagire con acting o intellettualizzare. Per “ricostruire” il terapeuta deve però accettare di
diventare una figura importante per il paziente, senza temere la dipendenza. Questa “effrazione”
del trauma è però continuamente interrotto da fenomeni di depersonalizzazione post-traumatica
che determinano nel soggetto un senso di estraniamento a sé e al mondo. Correale paragona
questo fatto – la crisi del borderline – a un’emorragia psichica: la fisicità si svuota di vitalità, la
struttura mentale perde familiarità con le cose e il corpo diventa dolente; il soggetto esperisce
quell’angoscia di frammentazione, quel senso di cambiamento catastrofico imminente che la
sostanza, nel caso del percorso tossicodipendente, va a lenire. Il benessere dato dalla sostanza
dipende – per ripetere – dalla stretta connessione col corporeo nella modalità di espressione
dell’angoscia, è tuttavia un benessere fittizio poiché priva il soggetto di buona parte di capacità di
elaborare la crisi e perpetua così la ripetizione del trauma.
La depersonalizzazione può aprire la via a esperienze di DISSOCIAZIONE, che è uno stato
alterato di coscienza che riattiva vissuti traumatici, in cui il soggetto vive quelle identificazioni
alienanti già affrontate: è come se parti automatiche della coscienza si riattualizzassero; la
dinamica tipica della dissociazione è l’assunzione di ruoli diversi tra vittima, carnefice e salvatore.
Di solito tale meccanismo non è riconosciuto nei servizi e il paziente viene etichettato come
“violento”; è importante che il terapeuta sia attento alla possibilità della dissociazione e la
prevenga tramite un atteggiamento fermo, rassicurante e contenitivo. Altrimenti il terapeuta
entrerà nel gioco di quelle identificazioni rigide e parziali e si troverà a recitare parti rigide in
risposta agli stati del paziente, come la madre affettuosa o il padre abusante. È per questo motivo
che la costanza del clinico è fondamentale: è la base per la fiducia e a tal fine il terapeuta dovrà
accettare di tollerare le proiezioni finché necessario, per poi farle lentamente cadere.
La terapia deve quindi partire da un approccio fenomenologico e arrivare poi a uno psicodinamico, dal
trauma attuale all’antico. Il lavoro terapeutico va scandito in fasi consecutive:
1. Limitare la crisi;
2. Descrivere il trauma recente, ricostruirne la sequenza in base agli elementi relazionali;
3. Descrivere il trauma antico, ricostruendo la sequenza antica.
L’intervento sulla famiglia. È un intervento necessario per spezzare relazioni cristallizzate e distorte, e
implica spesso l’invio in comunità. È importante però che questo tipo di interventi non tolga spazio al
percorso terapeutico del paziente con la figura di riferimento personalizzata.
La combinazione di queste tre variabili conduce all’addicted brain che provoca col tempo:
• Una ridotta sensibilità agli stimoli ambientali gratificanti
• Ridotto controllo dei comportamenti drug-seeking
• Tendenza al craving e alle recidive
• Ipofrontalità funzionale
A livello farmacologico nel presente capitolo sono elencati una serie di farmaci maggiormente adottati nel
trattamento biologico della tossicodipendenza, che qui riporto:
Agonisti Oppiodi (metadone, naloxone)
Alcolmimetici (GHB)
Modulatori ricompensa (naltrexone)
Avversativi (disulfiram)
Agonisti e Antagonisti Serotonina
Antagonisti Dopamina
Antagonisti Glutammato
Sostanze Naturali (iperico)
La legge assegna al Ser.T (che fa parte delle Aziende USL) la responsabilità esclusiva di condurre interventi
di prevenzione primaria della tossico-alcool-dipendenza, ad esempio tramite la possibilità esclusiva di
prescrivere farmaci sostitutivi, prevenzione che va poi concretizzata in interventi di prevenzione e
informazione sul territorio integrandosi in tal caso assieme agli altri Servizi USL e del Privato Sociale.
Accanto al mandato istituzionale, va sottolineato che la società ha sempre assegnato ai Ser.T un mandato
implicito, quello cioè di controllo sociale, inteso come difesa della salute dei cittadini e tutela rispetto ai
danni economici e morali provocati dai tossicodipendenti.
Alcool
L’alcool etilico o etanolo è una sostanza liquida derivante dalla fermentazione di zuccheri semplici o per
distillazione del mosto fermentato, è una sostanza estranea all’organismo, non necessaria e tossica, in
particolare l’acetaldeide che è il suo metabolita, non nutriente (ha principi nutritivi solo in tracce), con
alto valore calorico (7kcal/grammo) ma utilizzabile dall’organismo solo per il metabolismo basale, fa
ingrassare. Il suo assorbimento inizia già nell’esofago, viene poi assorbito quasi del tutto dalla mucosa
gastrica.
A livello cerebrale, l’alcool agisce sull’organismo tramite un’interferenza con recettori sul complesso del
GABA e interagisce con altre monoamine e peptidi cerebrali.
L’alcool ha un effetto bifasico:
A basse dosi ha un effetto euforizzante
A dosi più alte e col passare del tempo, la sostanza ha un effetto ansiolitico e sedativo, legato a un azione
inibitoria sugli NMDA (i recettori degli amminoacidi eccitatori) e l’incremento dell’azione GABA-ergica.
Quando l’alcool raggiunge dosi elevate il soggetto può giungere allo stato di intossicazione in cui subisce
un’alterazione del comportamento (es. è aggressivo), dell’eloquio, degli aspetti motori, delle funzioni
cognitive (memoria, giudizio, attenzione). Quando il tasso alcolemico raggiunge i 3/3.5 grammi/litro è
altamente probabile lo stupor o il coma.
A livello endocrino l’alcool produce un aumento del cortisolo, il che potrebbe spiegare l’ipersurrenalismo
degli alcolisti e i conseguenti effetti immunosoppressivi dell’alcool. L’acetaldeide influenza la funzione
gonadica maschile e aumenta i livelli di prolattina, correlata a impotenza nell’uomo.
A livello psicologico il consumatore moderato si aspetta che l’alcool migliorerà le sue abilità relazionali,
l’umore, lo stress; anche negli alcolisti c’è questo uso dell’alcool a scopo autoterapeutico degli stati
ansioso-depressivi e dei deficit relazionali. È risaputo che l’alcool ha infatti effetti disinibitori del
comportamento tramite la sua azione sulle strutture subcorticali che regolano la rabbia, infatti la sua
assunzione continuativa determina un’alterazione ingravescente della personalità con modificazioni del
carattere (litigiosità) e del senso etico (tendenza al ritiro): c’è una frequente comorbidità psichiatrica con
i disturbi dello spettro ansioso e il dist. antisociale.
Le conseguenze sulla salute includono in delirium da astinenza e intossicazione alcolica che non consiste
nel delirio, ma in un’alterazione di attenzione, percezione (illusioni, allucinazioni lilipuzziane e somatiche
sono frequenti) e consapevolezza; il delirium si sviluppa in poche ore e ha un andamento fluttuante, tra i
sintomi compaiono spesso: l’alterazione del ritmo circadiano, sintomi fisici (tremori, sudorazione,
febbre), suggestionabilità, sbalzi umorali.
Allucinogeni
Possono essere naturali, sintetici, semisintetici e sono definiti tali per i loro effetti sull’uomo, agendo sul
SNC producono infatti illusioni sensoriali, distorsioni della realtà sino ad allucinazioni proprie. Il più noto
allucinogeno è l’LSD. I suoi effetti sono stati attribuiti alla sua azione agonista-serotoninergica, ma è più
plausibile che derivino da una complessa interazione con il sistema dopaminergico e con il
serotoninergico: l’LSD produce un’alterazione dello stato di coscienza (il soggetto perde il concetto di
individualità, si fonde con l’ambiente e prova euforia), ha un effetto rinforzante e produce dipendenza
psicologica; gli effetti dipendono strettamente dalla personalità del consumatore. I sintomi
comportamentali prodotti sono simili a quelli schizofrenici e l’uso continuo può indurre conseguenze
psicopatologiche che vanno da una sindrome ansioso-depressiva, a più gravi reazioni psicotiche sino
all’HPPD, il disturbo percettivo persistente allucinogeno. Le conseguenze a livello fisico sono sintomi
somatici di tipo simpaticomimetico (rossore, tachicardia, tremori, aumento della pressione arteriosa,
ecc.).
Anfetamine e Metanfetamine
Sono sostanze stimolanti sintetiche che agiscono sul SNC, sono in forma di polvere cristallina bianca,
amara e inodore che si scioglie in acqua o in alcool o possono essere sniffate o iniettate. Furono
sviluppate a inizio ‘900 come decongestionanti nasale e bronchiale, sono tornate in voga negli anni ’90
(nel ’90 l’Italia ha stabilito che fossero sostanze ad alto potenziale d’abuso), dopo un periodo di assenza
dal mercato a causa dei comportamenti violenti dei consumatori, sono oggi tra le droghe più usate in
Europa e in Asia. Le metanfetamine contano più di 180 tipologie e sono continuamente immesse sul
mercato, alcune sono frutto di ulteriori sintesi dell’MDMA, danno assuefazione e causano gravi danni al
SNC, sono note come speed, ice o crystal. Allo stesso modo delle anfetamine aumentano l’attività
motoria e il senso di benessere e riducono l’appetito: questo effetto dura massimo 8 ore, dopodiché il
soggetto sperimenta senso di agitazione che può portarlo ad agiti violenti. Gli usi medici sono scarsi
(obesità, ADHD, narcolessia), anche perché le conseguenze fisiche dell’abuso sono gravi: ipertermia e
disidratazione, che può portare all’ipotensione e al rischio di collasso. I trattamenti più efficaci contro la
dipendenza che ingenerano nel soggetto sono quelli cognitivo-comportamentali che uniti all’attività dei
gruppi di supporto, hanno dimostrato sortire ottimi risultati; non ci sono invece farmaci a tal fine, eccetto
l’uso di antidepressivi in ex-abusatori. Se il soggetto ha un’intossicazione acuta, sarà necessario un
periodo di osservazione in ambiente sicuro e silenzioso. Le conseguenze psicologiche variano dall’ansia
alla psicosi indotta, sui quali si potrà agire con i farmaci.
Cannabis
Anche detta Canapa, è una pianta erbacea della famiglia delle Cannabinacee. Ne esistono più varietà e il
principio psicoattivo è il THC, il delta-9-tetraidrocannabinolo: Hashis, marijuana e olio sono le droghe
principali che vengono ricavate dalla pianta e in particolare dalla resina, dalle inflorescenze femminili e
dalle foglie. La potenza della cannabis è maggiore rispetto agli anni ’70 e assieme al tabacco, alcool,
caffeina è divenuta la droga più diffusa al mondo.
Esistono anche dei cannabinoidi endogeni, una classe di lipidi bioattivi che si legano ai recettori
cannabinoidi, questi vanno a costituire un sistema di neuromodulazione finalizzato a regolare
l’eccitabilità neuronale: nello specifico regolano i circuiti cerebrali del vomito, l’appetito, la memoria, la
risposta immunitaria, regolano la vasodilatazione e la vasocostrizione, hanno un’azione analgesica e anti-
stress. Il principale endocannabinoide cerebrale è l’anandamide, questo viene metabolizzato dall’enzima
FAAH, Free Acid Amide Hydrossylasis, e nel caso di una carenza genetica dell’enzima assistiamo a un
aumento di anandamide e a una conseguente diminuzione della sensibilità dei recettori post-sinaptici,
stesso fatto si osserva nelle cavie dopo l’esposizione prolungata alla cannabis. Poiché il sistema
cannabinoide endogeno sembra svolgere un ruolo centrale nello sviluppo della schizofrenia, l’ipotesi è
che proprio la variante genica che compromette l’espressione del FAAH potrebbe essere coinvolta
nell’etiopatogenesi del disturbo e di conseguenza i soggetti con tale deficit genetico potrebbero essere a
rischio sia di abuso di sostanze che di sviluppare psicosi indotte. Pare esserci questa correlazione tra
cannabis e sintomi psicotici, specie positivi (studio di Verdoux del 2003): non a caso nella schizofrenia c’è
una particolare propensione a usare cannabis e nicotina.
Cocaina
È una sostanza stupefacente che agisce sul SNC, deriva dalla macerazione delle foglie di coca, della
famiglia delle eritroxilacee, che contengono alcaloide. Dalla macerazione si ottiene una polvere bianca
incolore e inodore che contiene la cocaina cloridrato, sostanza che viene “tagliata” con altre sostanze, sia
attive (altre droghe, es. anfetamine) che inattive (zucchero, talco, maizena).
Ne deriva che le preparazioni contenenti la cocaina sono molte e variano in base a:
Quantità della sostanza presente
Via di somministrazione
Caratteristiche farmaco-cinetiche.
Nello slang la cocaina ha vari nomi, come coke, C, snow, flake ecc. A livello neurobiologico la cocaina
agisce bloccando il transporter della dopamina, il che genera un aumento della dopamina intra-sinaptica.
L’effetto è immediato e si svolge in 3 fasi:
1. Euforia (entro 10 minuti dall’assunzione),
2. Ebbrezza: stimoli sono vissuti intensamente, il soggetto può avere allucinazioni visive e
sperimenta senso di forza e onnipotenza,
3. Esaurimento: dopo 50 minuti l’effetto scema e dopo 1 ora e mezza al massimo c’è un
tracollo (vuoto, depressione, ansia), accompagnato da effetti fisici, quali dolori muscolo-
scheletrici, insonnia, tensione.
Accade che la cocaina lascia a livello psico-fisico il ricordo di un benessere così intenso (effetto
rinforzante) che si crea presto un legame con la sostanza, una dipendenza psicologica; non si crea la
dipendenza fisica, nel senso che il soggetto non smette di produrre dopamina, continua a produrla
normalmente, tuttavia quei livelli non gli bastano più.
A lungo andare la cocaina modifica i siti recettoriali della dopamina, possono verificarsi due situazioni:
Il soggetto assume sporadicamente la cocaina e tramite la up-regolation, fenomeno per
cui i neuroni aumentano la quantità di siti recettoriali per il neurotrasmettitore DA in risposta a
una sua diminuzione nella concentrazione extracellulare. Si verifica così un quadro di
sensibilizzazione alla cocaina, o tolleranza inversa, per cui la sostanza produce effetti psicotici,
ipercinetici e indesiderati a concentrazioni sempre inferiori.
Il soggetto consuma abitualmente la cocaina e tramite la down-regolation, fenomeno
inverso per cui i neuroni diminuiscono la quantità di siti recettoriali per il neurotrasmettitore DA
in risposta alla eccessiva presenza nel liquido extracellulare. Si verifica così un quadro di
tolleranza, per cui la stessa dose di cocaina produce effetti sempre minori: ciò porta il soggetto a
craving, disforia astinenziale e al binge di cocaina.
aspettative del soggetto dipendente. La reazione soggettiva all’uso e all’abuso di cocaina poi è
strettamente connesso ai suoi tratti di personalità e a eventuali problemi psichiatrici.
Ecstasy
È una sostanza sintetica con funzioni stimolanti e allucinogene, induce senso di energia e distorsione
percettiva. È tossica, è assunta via orale e ha un effetto di massimo 6 ore, è nota anche come MDMA,
tuttavia studi hanno dimostrato che le pastiglie di ecstasy sono diverse dall’MDMA e contengono altre
sostanze dannose, come cocaina, caffeina, metanfetamina. Il danno aggiuntivo è che tale droga è spesso
accompagnato dall’uso di alcool e marijuana. Si è accertato tramite il brain imaging che l‘ecstasy
danneggia il sistema serotoninergico; studi recenti hanno dimostrato il danno che arreca al sistema
dopaminergico: tale droga produce negli heavy users (più di 100 assunzioni di ecstasy) sintomi
parkinsoniani, ansioso-depressivi, problemi alla memoria prospettica (fatto riconducibile anche a una
possibile alterazione del lobo frontale), perdita di peso, danneggia la normale funzionalità dell’asse HPA
(sotto controllo dopaminergico) e quindi la risposta allo stress.
Eroina
È una sostanza semi-sintetica ottenuta dall’oppio grezzo, il succo del Papaver Somniferum e tramite
processi di laboratorio reso eroina in forma di polvere bianca, bruna o rossastra.
È assunta per iniezione, inalazione o fumata e gli effetti sono:
Un iniziale stato di euforia, in cui il soggetto prova uno slancio, un rush che dipende dalla
quantità di sostanza assunta e accompagnata da sintomi fisici di accaloramento,
secchezza delle fauci e senso di pesantezza alle estremità; Un seguente senso di
malessere e dolori fisici diffusi, fase in cui di solito il soggetto resta assopito per molte
ore. Le sue funzioni mentali, cardiaca e respiratoria si offuscano e diminuiscono e c’è il
rischio di morte.
Dà forte dipendente a causa della velocità con cui giunge dal circolo sanguigno al cervello, in cui si lega ai
recettori degli oppioidi; l’overdose è rischiosa se la sostanza è spessa acquistata per strada e non ci si
può accertare sulla sua purezza.
Per curare la dipendenza ci sono dei farmaci sostitutivi l’azione dell’eroina. In Italia sono prescritti il
Metadone e la Buprenorfina (o Naloxone, è una combinazione di farmaci per il controllo della
dipendenza, riduce quasi a zero la possibilità di abuso) che sono molto efficaci nella fase di
disintossicazione. Altri farmaci sono usati per ridurre i sintomi dell’astinenza: Clonidina: ha benefici
sugli effetti secondari dell’eroina, cioè sedazione e ipotensione;
Lofexidine: è un agonista dell’adrenalina;
Antagonisti: sono chiamati “salva-vita”, sono infatti usati in caso di overdose e agiscono
bloccando il recettore degli oppiacei;
Naltrexone: ha effetti che durano sino a 3 giorni, blocca gli effetti piacevoli dell’eroina ed è efficace con
pazienti molto motivati a smettere; si è dimostrato efficace nel prevenire le ricadute.
cognitivo-comportamentali: per aiutare il paziente a modificare le aspettative e i
comportamenti disadattivi sull’uso di sostanze e fornirgli strategie di coping alternative.
• Interventi farmacologici.
Tali interventi ripristinano un livello di normalità delle funzioni tali da poter trovare un lavoro e inserire il
soggetto in un circolo virtuoso di guarigione e riabilitazione sociale.
Smart drugs
Sono preparati di origine naturale o sintetica che contengono sostanze psicotrope di origine vegetale
(efedrina, caffeina ecc.): smart drugs significa “droghe furbe” dette così perché la legge proibisce il
consumo e la detenzione di sostanze, ma è possibile acquistare le piante che contengono i principi attivi
alla base, anche se naturali infatti sono dannose alla salute. Tra le principali abbiamo la ketamina, una
sostanza sedativa che ha un’azione complessa sulla coscienza e sul corpo, ha effetti psichedelici
(diverso dall’LSD), analgesici, simpatomimetici ottenuti agendo la funzione di antagonista non
competitivo sui recettori NMDA: induce nei soggetti sani comportamenti tipici della schizofrenia o
dell’intossicazione alcolica.
L’effetto sperimentato dal soggetto è un senso di abbandono del proprio corpo in un’ascesa in un tunnel
di luce: dà sintomi dissociativi. Le conseguenze psicologiche sono spiacevoli: vanno dall’ansia, al panico,
ai sintomi del DPTS, a sintomi depressivi, insonnia, paranoia, fino alle allucinazioni e ideazione suicidaria.
La ketamina ha un effetto paradossale, infatti pur essendo un sedativo, a dosi minime ha un effetto
eccitante; è una droga meno pericolosa delle precedenti, infatti è difficile raggiungere la dose tossica.
Non per questo non dà dipendenza, ha in realtà un alto potere rinforzante e la dipendenza psicologica è
possibile anche nei soggetti che non la assumono in modo continuativo; talvolta è pari a quella data da
cocaina, con tanto di craving.
Tabacco
Nei prodotti a base di tabacco ci sono oltre 4000 composti chimici, tra cui la nicotina, componente
primario del rinforzo. Il tabacco può essere masticato, fumato, sniffato: è primariamente fumato tramite
la sigaretta che è un sistema di auto-somministrazione efficace; ogni sigaretta contiene circa 1-2 mg di
nicotina, che sale rapidamente al cervello e dà dipendenza. La nicotina è assunta anche dai fumatori che
non aspirano, tramite la mucosa orale, e arriva al cervello con minore velocità; arrivata al cervello,
questa stimola le surrenali che producono adrenalina, la quale causa un rilascio di glucosio e un aumento
di respirazione, pressione e battito. Allo stesso tempo sopprime il rilascio di insulina del pancreas, i
fumatori hanno infatti una leggera iperglicemia.
Si dice che la sigaretta abbia un effetto calmante: in realtà questo è dovuto alla riduzione degli effetti
dell’astinenza al momento dell’assunzione di nicotina. Ci sono vari metodi per smettere di fumare e
disassuefarsi, ognuno dei quali ottimale in base alle caratteristiche personologiche del fumatore, ai suoi
personali bisogni, alla sua volontà di smettere e alla presenza di eventuali disturbi. Studi rivelano che
l’astinenza dura in media un anno poi il soggetto può ricadere: questa possibilità dipende da fattori
personali, ambientali, motivazionali ecc. La ricaduta riflette la natura cronica della dipendenza e non per
questo deve scoraggiare i fumatori che vogliono smettere, ma essere un ulteriore stimolo a smettere di
fumare. Infatti recenti ricerche rivelano che la motivazione è un fattore fondamentale e i sicuri di
smettere otterranno risultati grazie alla combinazione di interventi psico-comportamentali e
farmacologici, che hanno un tasso di successo doppio rispetto al solo placebo: questo perché tali
interventi portano il fumatore a riflettere in modo critico sul senso del fumare e ad analizzare ciò che lo
spinge a fumare, conducendolo a valutare comportamenti alternativi per soddisfare quei bisogni.
Anche gli incontri di gruppo di tipo cognitivo-comportamentale sono efficaci: si partecipa a corsi
intensivi di disassuefazione (5-10 incontri) e poi sono inseriti in corsi di auto-mutuo aiuto per il
consolidamento di quanto appreso, in cui il confronto tra le esperienze di ognuno è necessario alla
riuscita del percorso; sono inoltre fornite strategie di coping nei casi di astinenza.
Nel ’75 in Italia fu vietato di curare i tossicodipendenti nei manicomi; dopo che ’78 è promulgata la legge
180 (legge Basaglia), nasce progressivamente la psichiatria del territorio, che si disfa di patologie
neurologiche e della tossicomania che invece nel resto dell’Occidente rimane appannaggio della
psichiatria. Così in Italia già dagli anni ’80 si diffondono i servizi per le dipendenze (es. il CAOT) e negli
anni ’90 il Ser.T: mentre negli anni ’60-’70 la droga principale era l’eroina, dopo l’apertura di servizi
specializzati, il corrispondente utilizzo del metadone come sostituto e la corrispondente epidemia di HIV
hanno mutato lo scenario della tossicodipendenza. Prima delle leggi che hanno normato l’affido
settimanale o mensile della terapia metadonica, il tossicodipendente doveva recarsi al Ser.T ogni giorno;
con la diffusione dell’AIDS e il cambiamento di stile di vita e di tipo di sostanze assunte, il panorama
muta. Si è diffuso il consumo di designer drugs, sostanze dispercettive da assumere in discoteca
(allucinogeni e stimolanti sostituiscono gli oppiacei), cambia la via di somministrazione (soprattutto
nasale), il prezzo crolla e si mira allo sballo, raggiunto tramite il poliabuso, in più cambiano le esigenze
sociali che tendono sempre più verso la performance.
Fenomenologia del “mondo tossicomane”
Per Heidegger (Essere e Tempo, ’27) ciò che caratterizza l’uomo nel suo essere-nel-mondo è la cura:
l’uomo è uomo in quanto si prende cura di qualcuno, di qualcosa o di sé stesso. Il progettodi-mondo,
reazione umana all’esser-gettato-nel-mondo (cioè all’esser nato) si fonda sulla cura. Il tossicomane
invece antropologicamente non si cura di sé, manca quindi del progetto-di-mondo: Callieri (’93) scriveva
che all’eroinomane manca la capacità di progettarsi in modo autentico, poiché egli vive il corpo come un
ostacolo, non diviene partecipe della vita: il Koerper prende il posto del Leib, il corpo è mero oggetto
fisico, la sessualità ristagna nel circolo chiuso dell’essere fatto e l’incontro si riduce all’uso di un altro
corpo; viene del tutto meno l’apertura all’altro. Il craving diviene un sintomo della rottura della
continuità tra la sessualità ed esistenza, nella forma di un desiderio irrefrenabile che assorbe tutti gli altri
desideri. Per Callieri la rottura della capacità dell’incontro è riconducibile alla polarizzazione del
tossicomane nel lato Koerper, nell’avere il corpo piuttosto che esserlo. Perciò la relazione terapeutica
secondo l’autore del capitolo, il fenomenologo Di Petta, si deve configurare come un corpo-a-corpo
vissuto al di fuori di ogni setting in cui il clinico si deve porre “nudo, ingenuo ed amoroso” senza negare
un pacca sulla spalla, un abbraccio etc. cosa che mai accadrebbe in analisi, questo al fine di alleggerire
una corporeità appesantita. E’ necessaria l’empatia fenomenologia, che parte dall’epochè radicale, e che
tende a rimettere in gioco gli elementi umani del paziente ancora sani come inizio di un circolo virtuoso.
Questa fenomenologia è “ad alto zero”, nel senso che conta solo l’operatore in quanto uomo e il
tossicodipendente in quanto uomo, tanto è che si finisce per prescindere dai ruoli: è una navigazione a
vista e il tossicomane viene valorizzato come portatore di una ricerca di senso di cui l’operatore si fa
compagno di strada.
Prospettive psicoterapeutiche
Di Petta scrive nel 2006 Gruppo-analisi dell’esserci in cui introduce la fenomenologia tramite la
dimensione gruppale, in base a cui il gruppo si incontra in un setting molto fluido, non strutturato. La
novità non è il gruppo ma la modalità di conduzione del gruppo: all’incontro partecipano tutti, utenti,
operatori, volontari ecc., senza asimmetrie e ognuno comunica l’esperienza che vive nel qui-e-ora, e il
conduttore facilita solo i passaggi ad alto livello emozionale. Il senso di questa esperienza è che ogni
vissuto dotato di carica intenzionale va a contattare altri vissuti, questi danno un’impronta trasformativa:
anche se l’atmosfera è tragica e vuota si può giungere alla condivisione. Il conduttore pratica l’epochè,
dà forma ai vissuti che intuisce, una volta delineati e liberati, tali vissuti di vanno a costellare l’uno con
l’altro in strutture più complesse: è questa la navigazione a vista e l’unica condizione è l’esserci. L’autore
è convinto infatti che la dimensione dell’esserci che è prioritario a ogni riconoscimento – anche a quello
del proprio corpo – abbia in sé un enorme potenziale terapeutico: se la droga è un attacco alla
soggettività e alla separatezza, il riconoscimento del senso di sé è il primo passo verso l’individuazione.
paziente con un’identità “sbriciolata” può lasciar risuonare la propria briciola vissuta dentro la vita di un
altro, il terapeuta. Questa condivisione avviene anche nella gruppo-analisi, il gruppo si fa contenitore
dell’esperienza e si realizza progressivamente un passaggio cruciale: dall’esserci alla trascendenza della
noità-che-ama e cioè si passa dall’essere uno accanto all’altro all’essere uno con l’altro. I pazienti in
questo percorso non cercano uno specialista, ma un viandante che li accompagni e talvolta li guidi. Scrive
Correale (’05) che è da chiarire se tale momento fenomenologico sia sufficiente o rappresenti una base
su cui operare poi con gli altri approcci.
costituire, nei casi più vulnerabili, il campo di attuazione di un esordio psicotico. In tale eventualità il
soggetto scivola dall’irritazione iniziale a fenomeni di ordine dispercettivo e delirante, in una sequenza di
transizione (Klosterkoetter) colta dall’approccio fenomenologico e documentata dal rilevamento di
sintomi di base tramite strumenti clinici (BSABS di Huber e Gross; FBF di Sullwod). La psicosi nascente su
una tossicomania non ha nosograficamente un’insorgenza e decorso tipici, ma ha un andamento
peculiare e conserva alcuni aspetti indifferenziati che derivano dalla sua diversa patogenesi: la sua
peculiarità è che, a causa dell’assunzione di sostanze in adolescenza e della questione della
neuroplasticità, tale psicosi basale, da riconoscere nei tossicomani per poterla trattare precocemente, si
configura come una paradossale cronicizzazione dell’acuto. Il soggetto vive in un “eterno presente”, il
che rende la psicosi tossica ancora più tragica della psicosi classica, è infatti priva di una storia, di un
decorso, di una crisi ecc., i contenuti tematici non sono quelli commoventi dello schizofrenico classico; la
psicosi tossica ha caratteristiche di elusività, offre meno presa al trattamento che dovrà concentrarsi non
sui sintomi produttivi ma alla ricerca del core negativo per cogliere quel punto di snodo tra stato di
intossicazione e esordio psicotico.
L’IPOTESI – per ripetere – è che lo stato crepuscolare sia una soglia critica tra diverse psicopatologie,
similmente al concetto di atmosfera predelirante (Wahnstimmung), che precede appunto la restituzione
di senso al mondo tramite la strutturazione di un delirio.
macro-ambiti della salute mentale e cioè psichiatria, handicap e tossicomania, tuttavia quest’ultima
categoria è ancora poco identificato.
A fine anni ’80 e tutti gli anni ’90 inizia la politica della riduzione del danno in cui, mossi dai dubbi risultati
ottenuti nelle CT (i tossici spesso passavano anni ad entrare e ad uscire di continuo dalla comunità) e dai
costi economici di tali interventi, si punta sul trattamento sostitutivo nei Ser.T, con farmaci sempre nuovi
e diversi somministrati dagli operatori, affiancati da servizi sociali e psicologi. Si costruisce in tale periodo
il profilo degli operatori del servizio.
In questi anni quindi si consolida la clinica della tossicomania ma al tempo stesso, paradossalmente,
muta rapidamente, in tale processo risultano fondamentali due fattori:
1. L’organizzazione dei servizi imposta dall’aziendalizzazione della sanità: il dibattito sulla
specificità psicopatologica della tossicomania porta alla comprensione che la tossicodipendenza
non è un abuso edonistico ma ha una radice di multifattorialità in cui ha un ruolo centrale la
personalità del soggetto. Così, dalla comprensione della multifattorialità si passa all’ipotesi della
diagnosi multipla e infine della doppia diagnosi: questa concettualizzazione ingenua conduce a
conseguenze importanti sul piano praticoburocratico, il budget aziendale esige ora una chiara
ripartizione delle spese tra i servizi. Nascono i servizi per le dipendenze patologiche, in cui si
inizia ad osservare la natura ”di confine” della tossicomania con altre patologie che condividono
il carattere compulsivo e ansiolitico dell’uso di qualcosa.
2. La proliferazione di nuove droghe sintetiche e la corrispondente estensione del
trattamento farmacologico, che inizialmente hanno effetti svantaggianti, come ad esempio la
cronicità indotta dai farmaci, l’aumento del numero di abusatori e la “normalizzazione” del
drogarsi, legata alla sterminata quantità di droghe immesse di continuo sul mercato e
autorizzate implicitamente dalla concezione ideologica del mercato capitalista che promette una
felicità a pagamento (es. pay-tv). Tale esplosione del consumo cambia solo in seguito il modo di
intendere la malattia: se c’è il poliabuso, non si può far derivare dall’uso di una sola sostanza la
definizione della tossicomania, questa si scompone in varie forme connesse ai modi in cui il
soggetto vi ricorre nella sua vita; ciò toglie importanza ai farmaci, poiché è chiaro che ci sono
meccanismi psicodinamici in gioco.
L’estensione di un consumo meno distruttivo in un arco di tempo limitato lega il fenomeno della
dipendenza all’evoluzione della personalità.
Per questi motivi la psicoanalisi è necessaria, a scapito dei farmaci che rischiano di strutturare nei servizi
e nel senso comune la necessità di una biologizzazione degli interventi, fatto assolutamente errato per
Felliciotti: si fa in tal modo lo stesso gioco che ha fatto il tossicodipendente, si va a curare le sue angosce
con dei farmaci e non con la relazione. In tal modo si limita quel lavoro psichico necessario (perché
l’intervento biologico è un intervento passivo) che è alla base della vita soddisfacente fatta di relazioni
con gli altri, con sé, col mondo.
Per questo motivo il transfert è il cardine della clinica e per questo – propone l’autore – la psicoanalisi
deve inserirsi nella rete delle cure socio-sanitarie, i riferimenti imprescindibili per tale operazione clinica
ispirata alla psicoanalisi sono:
Il sintomo è esito dell’adolescenza, è egodistonico e trattabile; La
relazione e dunque il transfert sono gli strumenti per passare dalla psicopatologia alla
clinica.
Quindi quando il lavoro del lutto non riesce, il soggetto si deve appoggiare a qualcosa di esterno
(es. un’identificazione immaginaria o fissa), come l’immagine del corpo magro o l’identificazione al
tossicomane: la sostanza indica un modo per godere almeno un po’. Una prima conclusione è che la
dipendenza patologica non è un sintomo ma un’inibizione patologica che può essere nevrotica,
perversa o psicotica. La sostanza diviene “necessaria” poiché il soggetto non ha strutturato una
relazione simbolica con l’Altro (che peraltro è la base del transfert) e la pulsione che deve sempre
soddisfarsi si chiude sul corpo, si manifesta come Super-Io feroce e l’angoscia diviene insopportabile;
la droga offre una apparente soluzione.
I nuovi scenari socio-familiari hanno modificato l’espressione del disagio e sono emerse delle nuove
forme del sintomo: non sono più disagi relazionali ma centrati sul soggetto e sul proprio corpo,
dall’anoressia e bulimia, al panico, alle tossicodipendenze, all’autolesionismo ecc., tutte forme cliniche
che rivelano l’incapacità di elaborare simbolicamente affetti, emozioni, sentimenti, e un conseguente
vuoto di significato, disturbi difficili da trattare e causati dalla mancata risoluzione della crisi
adolescenziale.
soddisfazione in modo da coinvolgere l’altro, non ha raggiunto insomma la genitalità matura e non
sapendo come gestire questo impasse, prolunga la permanenza nell’adolescenza e non permette l’uscita
dall’edipo.
Non è raro che in tali soggetti l’inizio della tossicomania sia segnato da delusioni amorose, che sono per
loro l’ennesima conferma della loro inadattabilità alla soddisfazione. Un periodo particolarmente
delicato sono le scuole medie: alcuni ragazzi non si sentono proprio di avere le risorse per affrontare la
prova della scuola, della pubertà, della crescita e così:
Prolungano la latenza, bloccandosi dopo un tentativo di seduzione respinto ad esempio, fatto
che può sfociare in una depressione adolescenziale, difficile da trattare, e in un generalizzato senso
di inferiorità;
Oppure non affrontano il problema, imitano i compagni, approdando spesso a uno stile di vita
ipernormale che cela una profonda fragilità e determina comportamenti rigidi. In conclusione,
freudianamente parlando, affermiamo che: LA TOSSICOMANIA E’ IL BLOCCO DELLA FASE
ADOLESCENZIALE, IL SINTOMO NE E’ L’USCITA.
l’uomo non ha una regola universale: il padre umanizza la legge (perciò lo psicotico vive
come un computer).
Cosa fare?
I tossicodipendenti sono difficili da trattare, sono confusi con rapidi cambiamenti di identificazioni, di
umore, con un Io fragile che metteranno continuamente a repentaglio la terapia. Va tenuto presente che
quando arrivano ai servizi, il disagio come quello dell’anoressica in fase acuta: vivono una sofferenza
indistinta a livello somatico più che psichico in cui la droga si inserisce come ansiolitico. Prima di operare
bisogna chiedersi con chi si ha a che fare e ricostruire la situazione del paziente, la diagnosi, l’anamnesi, il
progetto di intervento ecc. La collaborazione e la pazienza servono: il caso necessiterà di una lettura
condivisa in equipe e i risultati andranno valutati.
Il primo passo lo farà il medico o lo psichiatra del Ser.T mostrando al giovane una competenza sui
farmaci, questo ha spesso un effetto rassicurante poiché sa che qualcuno può aiutarlo. Spesso il medico
è vissuto come idealizzato e super-egoico, perciò figure intermedie possono essere utili e fungere da
mediatori quali l’infermiere, lo psicologo, l’assistente sociale (che ricava info sull’ambiente socio-
familiare) ecc. Quindi: si parte da un quadro statico di diagnosi fino ad ottenere progressivamente un
quadro dinamico di interazione con l’ambiente familiare. Si elabora un progetto di intervento, il quale va
verificato regolarmente e realizzato con la collaborazione di altre istituzioni, come i centri diurni, la CT,
ecc. L’intervento deve essere GLOBALE per essere efficace, il lavoro psicoanalitico che in tal caso non è
utile offre però un contributo fondamentale, e cioè quello del sapere e del saper fare, che servirà agli
operatori per tenere le fila di un intervento che spesso si frammenta e mantenere viva la mente gruppale
dell’equipe sul caso. Il passaggio alla CT è importante ma non il solo, è essenziale che la CT sia
collaborativa e non si chiuda in sé, se infatti la regola della comunità non è interiorizzata, la stabilità
raggiunta lì dentro svanirà all’uscita.
CAP. 4 – I TRE PIANI DELLA FORMAZIONE
I servizi psichiatrici stanno attraversando un periodo di difficoltà a causa di una crisi di risorse:
Sia sul piano strutturale: mancano le residenze, il personale, le risorse economiche;
Sia sul piano relazionale: gli operatori si sentono spesso travalicati dalla domanda
dell’utente, che sfocia spesso in una richiesta di affettività, protezione e accudimento. Al livello
del secondo punto si pone il problema della formazione, molti insuccessi infatti derivano proprio
dal senso di incapacità che gli operatori provano di fronte a talune domande.
La formazione deve compensare almeno tre piani problematici delle condizioni di lavoro: 1) La
formazione personale, che è l’attitudine personale ineliminabile e consiste: o Da un lato nella
vocazione, cioè ciò che spinge il soggetto a fare il lavoro di psichiatra, psicologo, terapeuta ecc.
insomma la professione di aiuto: tra le motivazioni inconsce possono esserci il bisogno di sentirsi utile,
il bisogno di proteggere un genitore ammalato ecc. oppure un’ansia di potere, un bisogno narcisistico
di avere una certa autorità su qualcuno o qualcosa ecc. o Dall’altro lato è la capacità di contatto
col paziente, in particolare la capacità di lasciare spazio ai suoi vissuti, alle sue emozioni e pensieri –
spesso bizzarri, distruttivi, tragici – e permettere che alberghino nella propria mente.
2) La vita istituzionale: è necessario sviluppare una consapevolezza sufficiente di quanto
l’appartenere a un gruppo di lavoro organizzato influisca sull’attitudine del singolo curante, che
può essere influenzato da dinamiche di potere, emozioni collettive, dalla pressione del gruppo
etc., per non esserne in balia.
3) Le condizioni della scienza psichiatrica odierna: manca di integrazione a causa degli
innumerevoli orientamenti che sembrano inconciliabili, come quello della psichiatria biologica
che continua a fare acquisizioni notevoli ma si chiude al dialogo con gli approcci che si
focalizzano sul mondo interno del paziente; quello fenomenologico, che resta relegato sullo
sfondo; quello della psichiatria sociale, che mira al reinserimento nella società e trascura
l’interiorità del malato. Gli operatori sono spesso disorientati di fronte a questa varietà e
finiscono per privilegiare un approccio definito in modo talvolta acritico, per la paura del
confronto. È auspicabile una formazione trasversale e non solo verticale.
Correale indaga nello specifico questi tre piani e fa proposte formative.
La componente personale – Il terapeuta ha delle proprie caratteristiche personologiche, valoriali,
affettive, comunicative, esistenziali ecc., che divengono importanti nella relazione terapeutica, sempre
più intima e che condurrà prima o poi ad affrontare anche i dilemmi della vita come il lutto, l’amore, il
sesso. Come può il terapeuta crescere in questo campo? Riprendendo la divisione già accennata prima
possiamo focalizzarci su:
Il tema della vocazione. Ci sono alcuni prototipi di persone che scelgono di diventare una
figura impegnata nel campo della cura, in tal caso un terapeuta:
a. Il salvatore: ha alle spalle esperienze di vita difficili e talvolta traumatiche, in cui ha
sviluppato un’acuta percezione di tipo etico e ha deciso di correre in aiuto quando necessario.
Questa istanza etica lo può condurre ad atteggiamenti di dedizione e di riparazione delle storture
umane, di solidarietà e pazienza, tutte doti utili per il lavoro di terapeuta. L’altro lato della
medaglia è che il salvatore è talora incline a un senso di colpa dovuto ad una eccessiva auto-
responsabilizzazione che, se prevale, può far emergere aspetti di rigidità dannosi nel contesto
terapeutico, come quello di infantilizzare inconsciamente il paziente per guidarlo ed educarlo
alla vita. L’etica dovrebbe quindi lasciare un margine.
b. Il bambino troppo rapidamente cresciuto: questo tema fu approfondito da Winnicott, il
quale notò che alcuni soggetti con un’infanzia particolarmente travagliata da situazioni come
lutti, malattie, separazioni ecc. hanno dovuto “rinunciare” troppo presto alla loro infanzia. Il
terapeuta la cui vocazione si fonda su questo tipo di esperienza può sviluppare tratti ossessivi o
vivere un senso di velata malinconia, come se si rimpiangesse qualcosa che non si è potuto
godere.
c. Il “ricercatore”: è un soggetto che ha sempre percepito in sé aspetti francamente bizzarri
o malati non facilmente condivisibili che, con la scelta professionale, vuole più o meno
consciamente bonificare. La sua attenzione ai propri vissuti può diventare delicata sensibilità
verso aspetti soggettivi dolorosi come crisi di depersonalizzazione, sbalzi umorali ecc. La sua
vocazione inconscia è quella di venire a capo di qualcosa che non riesce a comprendere.
Per affrontare e dare importanza alla tematica della vocazione è utile e consigliata l’analisi personale che
tuttavia non è sempre possibile, motivo per cui Correale si chiede se sono possibili iniziative prese
dall’equipe finalizzate proprio alla crescita personale.
Circa la formazione personale in senso stretto possiamo dire che l’operatore debba percepire già in sé –
o se non è così, conviene che ci si interroghi – le tematiche tipiche delle psicosi e dei disturbi gravi di
personalità e cioè il senso del reale: egli dovrebbe custodire dentro di sé il senso drammatico e
imprevedibile del reale, e al tempo stesso accoppiarlo con qualcosa di amorevole e ironico, deve cioè aver
fatto esperienza delle brutture della vita, come il lutto, ma averle sapute affrontare, dimostrando che è
possibile gioire della vita. Il terapeuta si configura in tal senso come un convalescente che accompagna il
paziente.
Le attitudini da sviluppare consistono in una sorta di “saggezza”, termine che nell’antica Grecia voleva
significare un dialogo continuo con sé e con gli altri sui temi pregnanti dell’umanità.
Hadot dà delle direzioni in cui sviluppare tale saggezza:
- L’attenzione, intesa come ricerca di particolari e non trascuratezza dei dettagli, talvolta
infatti è necessario per comprendere la situazione cogliere un’espressione del volto o un lapsus
del paziente, e in tale categoria, in senso fenomenologico possiamo ricordare la pratica
dell’epochè e dell’attenzione liberamente fluttuante.
- Il controllo di sé, delle proprie emozioni, non inteso come negazione o rimozione ma una
padronanza stoica di sé; questa implica una conoscenza di sé, delle emozioni nostre e fatte
provare dal paziente. Il terapeuta dovrebbe lasciarsi andare in modo consapevole e controllare
gli acting, le emozioni isteriche ecc. Nei servizi tale attitudine è carente e in questo il gruppo può
avere una funzione importante di rinforzo del controllo. - La meditazione, intesa come
capacità e possibilità di lasciarsi impressionare da pensieri, ricordi, sogni sul paziente e che ci
dicono qualcosa che in seduta non si è riusciti a cogliere. Talvolta è necessario allenarsi al
silenzio, anche nei gruppi di lavoro, per sviluppare tale attitudine.
L’istituzione è una struttura stabile, diretta a orientare scelte, comportamenti, sentimenti della
collettività rispetto a determinati temi centrali della convivenza umana. È l’insieme di persone che,
lavorando fianco a fianco, costruiscono una mentalità, valori, ricordi comuni.
L’organizzazione è l’insieme dei compiti che l’istituzione deve svolgere, i ruoli assegnati, le
responsabilità, l’autorità che ogni membro ha.
La comunità è quel quid in più che rende il tutto maggiore della somma delle parti, sono i legami affettivi
e la coesione che rende il gruppo tale. L’aspetto comunitario può essere un alimento affettivo o una
minaccia; ciò che contribuisce a costruire la comunità è lo stile della leadership, lo stile dei legami
professionali e affettivi, le entrate e le uscite dei nuovi operatori, etc.
La comunità rende possibile una ricca serie di scambi, sia di compiti, responsabilità, poteri, che scambi
personali, di fantasie ed affetti. Possiamo dire che: - Nell’organizzazione c’è una gerarchia di potere
- Nella comunità c’è una gerarchia di affetti.
Si crea un importante intreccio tra questi due livelli dell’istituzione, tra affetti e potere, dal cui equilibrio
deriva una vita istituzionale ricca e arricchente ogni singolo membro.
Un rischio è che la comunità possa irrigidire alcune sue caratteristiche e che lo stile personale di uno o
del gruppo diventi stereotipato e ideologizzato, quando ciò avviene vuol dire che gli aspetti identitari
prendono il sopravvento su quelli comunitari. Lo stesso rischio può avvenire a livello istituzionale, e cioè
che le componenti “organizzazione” e “comunità” non si armonizzino e che si vengano a creare dei
sottogruppi in contrapposizione tra loro: chi non si sentirà appartenente all’istituzione, si vorrà sentire
appartenente almeno ad un sottogruppo. Talvolta questa separazione è favorita dalla tendenza esclusiva
di talune istituzioni in cui le cose vanno come fosse necessario escludere qualcuno o qualcosa; questo
qualcosa è spesso una componente personale percepita dall’istituzione troppo intensa o diversa e perciò
pericolosa che, proprio perché esclusa, torna in altre forme, come acting, forme nevrotiche, lotte di
potere, polemiche…
che il linguaggio ordinario, dotato di un forte potere evocativo, si aggiunga a quello tecnico per
favorire una visione binoculare.