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Capitolo 1
La psicoterapia
La principale peculiarità della psicologia, rispetto alle altre discipline scientifiche, è la
mancanza di una teoria come nucleo fondamentale unitamente condiviso.
Ci sono diverse tradizioni di ricerca che focalizzano l’attenzione su diversi aspetti del
funzionamento psicologico Tutto ciò a causa della complessità dell’oggetto di studio.
Ogni teoria ha sviluppato un proprio lessico, nessuna ha “vinto” sulle altre (vale anche per la
psicoterapia); nelle diverse parti del mondo ha preso diverse inclinazioni culturali e sociali –
psicanalisi nella cultura europea, cognitiva e comportamentista in quella anglosassone…
L’attuale varietà dei modelli d’intervento psicoterapeutici comporta una difficoltà nel trovare
una definizione comune di psicoterapia.
Nonostante le differenze epistemologiche, tutti gli approcci possiedono 4 caratteristiche
comuni (Frank):
1. Si basa su una relazione particolare tra terapeuta e paziente, basata sull’alleanza e che ha
come scopo il benessere del paziente.
2. Si attua in un luogo specifico: setting sicuro e ambiente confidenziale (privacy).
3. Il terapeuta con le sue nuove prospettive darà un senso nuovo a idee confuse e indefinite
del paziente, al fine di superare le problematiche presenti.
4. È un insieme di procedure e tecniche esplicitate, che definiscono il modo di operare del
terapeuta.
La psicoterapia è una modalità d’intervento che utilizza mezzi psicologici che differiscono
tra loro in base all’inquadramento teorico di riferimento, è finalizzata ad aiutare le persone
per la soluzione di problemi emotivi, affettivi, familiari e sociali di vario genere, mira al
miglioramento della qualità della vita; essa porta il paziente a cambiamenti personali che
implicano lo sviluppo del modo di pensare, di vedere, di sentire e agire.
Inoltre qualcosa nella vita del paziente lo limita e gli impedisce di vivere nel pieno delle sue
capacita.
Allo stesso tempo però ogni approccio terapeutico si differisce dagli altri sotto molti punti di
vista quali:
─ Definizione degli obiettivi d’intervento: superamento blocchi emotivi, fragilità del sé,
incremento delle risorse intellettuali/emotive, intervento nell’uso delle difese, riduzione
dei sintomi, definizione del sé, comprensione e accettazione limiti...
─ Articolazione del setting: diversa durata e frequenza degli incontri e coinvolgimento o
meno di altre persone (terapia familiare, individuale, di coppia, di gruppo etc.).
─ Impostazione del contratto terapeutico: diversa gestione delle assenze e uso di strumenti
audio e video.
─ Valutazione clinica: diversa concezione del disagio psicologico, riferimento più o meno
rigido alle categorie nosografiche di riferimento.
Effettuare la valutazione clinica delle problematiche presentar in base a diverse
concettualizzazioni e criteri.
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─ Diversità di tecniche e procedure per perseguire gli obiettivi clinici. Utilizzare tecniche e
procedure per il trattamento basate su interpretazione, prescrizioni, persuasione, ascolto,
comprensione.
Un altro problema da analizzare nell’ambito psicoterapeutico è il problema della coerenza tra
il pensare e l’agire: l’esperienza della psicoterapia è infatti qualcosa di diverso dalla teoria
della psicoterapia e questo contrato costituisce una difficoltà ma anche un’opportunità.
Quando l’agire di un buon terapeuta si allontana dalla teoria questo avviene perché sta
cercando di risolvere problemi non ben definiti dalla teoria stessa e solo riflettendo sul
proprio agire può portare ad uno sviluppo e ad una revisione critica di essa e questo tipo di
riflessione può portare, nel tempo, ad un graduale processo d’integrazione fra i modelli
differenti.
È dissimile da ogni altro tipo di relazione poiché è una combinazione di intensità emozionale
e distacco, coinvolgimento e distanza.
Gli aspetti che rendono possibile la sua efficacia sono la fiducia e lo stabilirsi di un’alleanza
cooperativa.
Lo psicoterapeuta però non può offrire una cura immediata al paziente ma solo donare gli
strumenti attraverso i quali il soggetto potrà riuscire a trovare la propria strada verso il
cambiamento.
Ortodossia, Ecletticismo, Integrazionismo
Il problema dell’ORTODOSSIA ha diviso e continua a dividere gli psicoterapeuti:
C’è chi dice che ogni approccio faccia esclusivo riferimento ad una cornice teorica
definita.
C’è chi vuole utilizzare tecniche provenienti da psicoterapie diverse in modo nuovo ed
originale.
Chi pensa sia opportuno varcare i confini dei singoli approcci facendone una sintesi dei
modelli terapeutici.
La modalità più “morbida” di ortodossia parte dall’assunto che sia necessario offrire una
griglia di riferimento sufficientemente precisa e coerente con i fondamenti teorico-
epistemologici di uno specifico approccio clinico e che permetta di assimilare e guidare
l’agire terapeutico coerentemente con essi.
D’altra parte però il richiamo all’ortodossia ha rappresentato da sempre un modello troppo
rigido e conformista nella sua chiusura intellettuale.
Per quanto riguarda invece l’ECLETTISMO TECNICO parte dalla convinzione che sia utile
servirsi di tecniche provenienti da orientamenti diversi combinandole poi sulla base
dell’efficacia clinica.
L’INTEGRAZIONISMO, infine, si basa sulla convinzione che nessuno degli attuali
approcci terapeutici sia in grado di spiegare in modo del tutto esaustivo la complessità
dell’essere umano.
Parlando di integrazione è necessario distinguerne 2 forme con obiettivi del tutto diversi:
1. L’integrazione metateoretica: si propone di superare il relativismo dell’ecletticismo
tecnico per costruire una teoria della psicoterapia di ordine superiore, attraverso la
combinazione di differenti sistemi teoretici.
2. L’integrazione assimilativa: condivide sia la prospettiva contestualista che quella
pluralista e si propone di incorporare concetti derivanti da altri approcci all’interno di uno
specifico orientamento mantenuto come riferimento base.
FIAP (federazione italiana delle associazioni di psicoterapia) Nata grazie all’unione di
ortodossia e integrazionismo mediante un processo di allentamento e restringimento ciclico
delle teorie esistenti (attuabile solo se si accentano le differenze ma si uniscono i punti in
comune.)
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QUINDI: Ortodossia, il termine descrive un tipo di approccio basato sul riferimento rigido
ad un unico quadro epistemologico/teorico di riferimento VS ecletticismo tecnico
integrazionismo: oggi, a differenza del passato, è possibile e diffusa l’integrazione tra
modelli differenti per colmare gli ipotetici vuoti o per adattare meglio un intervento. La
FIAP stessa propone lo scambio di idee ed il pluralismo.
La ricerca sull’efficacia della psicoterapia
Oggi esistono 3 diversi tipi di ricerca, i cui obiettivi sono diversificati:
─ Un primo filone si è occupato della verifica dell’outcome, cioè esiti della psicoterapia
mediante studi prima\dopo. Si concentrano sull’efficacia clinica (quindi efficacia secondo
paziente, terapeuta e società) e su quella sperimentale (in laboratorio).
─ Verifica del processo: analisi dei trascritti e delle registrazioni delle sedute (ad esempio
il PQS o AR o l’analisi del transfert).
─ Verifica dell’outcome e ricerche del processo: studiano la relazione tra ciò che avviene
in terapia ed il risultato della stessa.
Il problema della verifica dei risultati si presenta per ragioni scientifiche, economiche e
sociali; le prime furono condotte da Eysenck già negli anni ’50.
Eyesenck non provò però altro che l’inefficacia della psicoterapia stessa, così negli anni
successivi inizio quella che viene considerata la prima fase della ricerca sull’efficacia
sperimentale della psicoterapia facendo uno studio tra i pazienti che ricevono un aiuto
terapeutico con gruppi lasciati in lista di attesta o che subivano interventi placebo.
Per identificare le relazioni causali tra variabili indipendente (trattamento) e dipendenti
(risultato), i ricercatori definiscono i fattori terapeutici (variabile indipendente), stabiliscono
le condizioni nelle quali agire, i parametri rispetto ai quali valutare i risultati e i criteri
misurabili attraverso essi.
A tale scopo a fine degli anni ‘60 furono messi a punto i cosiddetti manuali di psicoterapia,
guide pratiche che definiscono una chiara definizione dei principi e hanno scale per valutare
la coerenza tra il manuale e i fatti stessi.
La metodologia considerata ottimale in questo ambito è la RCT (Trial Clinici Controllati e
Randomizzati).
Risultati più significativi vengono però raggiunti negli anni ‘80 con una nuova metodologia
statistica (meta-analisi), attraverso la quale il risultato cumulativo viene valutato utilizzando
un indice di misura comune chiamato effect size.
Molti sono i limiti di queste ricerche quali:
I risultati RCT non sono generalizzabili.
Non è adeguato definire il cambiamento solo in termini sintomatici.
I pazienti sono più solitamente poli sintomatici e richiedono quindi terapie più lunghe.
I manuali di psicoterapia portano ad una diminuzione dell’efficacia del trattamento.
Alcuni studi evidenziano una correlazione positiva tra risultati e durata della terapia.
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Gli studi sull’efficacia clinica invece sono costruiti per verificare ce cosa avviene realmente
nella pratica clinica e per definire i criteri di valutazione ci serviremo di Strupp e Hadley,
1977, che sostengono che l’unico modo per superare le differenzi definizioni di psicoterapia
bisogna valutare prospettive multiple:
─ Quella della società che definisce la salute mentale, la stabilità e la conformità alle norme
del paziente.
─ Quella del professionista che definisce la salute mentale in base al proprio modello
teorico di funzionamento.
─ Quella del paziente che considera il proprio benessere sotto un punto di vista soggettivo.
Critica:
Mancanza di rigore metodologico.
Gli studi naturalistici non permettono di effettuare inferenze su relazioni causali tra
psicoterapia ed effetti.
Mancanza di gruppi di controllo.
Risultati di difficile interpretazione.
Difficile stabilire l’accuratezza di valutazioni soggettive.
I pazienti talvolta non sono in grado di riferire l’orientamento teorico del loro
psicoterapeuta e ciò rende impossibile trarre conclusioni valide.
I principali limiti sono costituiti dalle ricadute, inoltre più la terapia è lunga più il risultato
può essere considerato duraturo. Per quanto riguarda l’analisi del processo e dei risultati è
più attendibile quella naturalistica (clinica) tuttavia ci sono palesi limiti metodologici che
impediscono la generalizzazione dei risultati.
Metodologie di analisi che indagano variabili diverse relative al paziente, al terapeuta e alla
relazione tra essi:
PSQ (Psychoterapy process q-short) di Jones, utilizzato per valutare intere sedute di
psicoterapia.
Il CCRT (Cor conflictual relationship theme) di Luborsky e Crits-Christoph che è
finalizzato a monitorizzare l’andamento del transfert nel corso di una seduta o di un’intera
psicoterapia.
L’AR (Referential activity) di Bucci e Miller che valuta l’attività referenziale, ovvero il
grado in cui il linguaggio del parlante si collega alla sua esperienza non verbale.
Limiti della psicoterapia e rischi iatrogeni
La psicoterapia non è per tutti e non può fare tutto, esistono limiti che attengono alle
caratteristiche personali dei pazienti, limiti relativi al tipo di problema, al tipo di
orientamento, o la situazione può rilevarsi più grave di quanto si pensava.
Un altro aspetto rilevante è quello di potenziali rischi iatrogeni della psicoterapia. Con questo
termine ci si riferisce alla possibilità che gli effetti della terapia siano dannosi anziché
positivi, e che il trattamento si concluda con un peggioramento rispetto alla situazione
iniziale.
I possibili errori del terapeuta sono stati classificati in varo modo e da diversi autori come: un
eccessivo attivismo o passività, la cattiva valutazione, sottovalutazione del rischio di
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Capitolo 2
La psicoanalisi e le teorie psicodinamiche
Il modello di uomo: presupposti di base e teoria del funzionamento psicologico
Per terapie psicodinamiche si intende una serie di tecniche terapeutiche derivate dalla
psicoanalisi fondata da Sigmund Freud più di un secolo fa.
È un insieme variegato di tecniche e teorie e quindi oggi si parla di molte psicoanalisi e non
più una sola.
Il panorama della psicoanalisi è caratterizzato da orientamenti diversi, e quindi non c’è un
unico modello di uomo, ma concezione dell’uomo e del funzionamento della mente più o
meno differenziate.
È possibile però descrivere il modello di uomo concepito da Freud, cioè quello appartenente
al nucleo classico di idee caratteristiche di Freud stesso.
Freud era un neurologo che aderiva allo Zeitgeist (spirito del tempo) positivista della sua
epoca, per cui il suo modello d’uomo si basava in origine su una visione materialista, in cui
la biologia doveva costituire l’indagine scientifica.
La teoria del trauma o “teoria della seduzione”
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La concezione di modello d’uomo per Freud andava di pari passo con il suo pensiero
diventando così sempre più complessa.
Inizialmente si era accorto che i disturbi che lui cercava di curare scomparivano se la
paziente ricordava un trauma subito nell’infanzia.
Questo ricordo veniva sotto ipnosi, allora molto praticata, e fu un’osservazione casuale che
gli fece notare che la causa dell’isteria potesse risiedere in un trauma infantile e che si
potesse effettivamente guarire se il trauma (rimosso perché doloroso) tornava alla coscienza
e veniva reintegrato.
Elaborò in seguito concetti come l’inconscio, la rimozione e la difesa e quindi il modello di
uomo che emerge da queste prime ipotesi è rappresentato da un organismo che reagisce
agli stimoli esterni e ambientali TEORIA DEL TRAUMA O DELLA SEDUZIONE.
Tutto ciò entusiasmò molto Freud perché pensava di aver curato l’isteria ma presto dovette
ricredersi poiché si accorse che non tutte le pazienti soggette da isteria avevano realmente
subito un trauma.
Si aprirono quindi due strade legate al modello d’uomo: la teoria psicoanalitica classica che
assegna grande importanza al mondo interno e non solo all’ambiente e le teorie che invece
insistono nell’assegnare molta importanza al mondo esterno, alle esperienze di vita.
La teoria del trauma risulto per Freud troppo semplice, non rendeva conto della complessità
della malattia mentale e del funzionamento psicologico.
Freud aggiunse quindi una variabile, quella interna, per costruire un modello di uomo che
includesse tutte le variabili possibili riconoscendo così l’importanza delle fantasie e della vita
psichica inconscia del soggetto.
Ed è in questo momento che Freud sottolinea l’importanza del conflitto intrapsichico
poiché se soggiornano dentro di noi delle fantasie non accettate da noi stessi, ci ritroviamo in
conflitto.
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Si trattava di costruire una teoria della motivazione per capire quali fossero le forze che
spingono l’essere umano e fu allora che Freud fondò la TEORIA DELLE PULSIONI e
ipotizzò un’energia psichica, che lui chiamò libido, che preme internamente e richiede di
scaricarsi.
Inizialmente Freud pensava che esistessero due tipi di pulsioni: quelle sessuali che mirano
alla conservazione della specie e quelle dell’Io che mirano alla preservazione dell’individuo
(nota poi come prima teoria freudiana delle pulsioni).
Riguardo alla pulsione sessuale o libido, all’inizio Freud pensò fosse autoerotica cioè senza
oggetto, per poi diventare alloerotica cioè con scelta oggettuale.
Postulò poi una fase intermedia tra le due detta narcisista il cui il soggetto univa le due
pulsioni e prende come sé stesso oggetto d’amore (ridefinendo il tutto con un narcisismo
secondario e primario).
Gli stati libidici si avrebbero quindi in quattro fasi: autoerotismo, narcisismo primario,
amore oggettuale e narcisismo secondario, ricordando anche i quattro aspetti della pulsione e
cioè la spina, la meta, l’oggetto e la fonte.
Problema: se nel narcisismo primario il soggetto ama sé stesso, diventa difficile distinguere
le pulsioni dell’Io e quelle sessuali rivolte entrambe a sé.
Risolvendo questo problema, Freud decise di mantenere una dualità delle pulsioni
riferendole non alla fonte ma alla direzione: questa è la SECONDA TEORIA FREUDIANA
DELLE PULSIONI.
SINTESI: Teoria delle pulsioni: ipotizzò a questo punto l’esistenza di un’energia psichica,
la libido, che preme internamente e richiede di scaricarsi; nel bambino si presenta come
autoerotica, successivamente passa da uno stadio narcisistico in cui egli prende sé stesso
come primo oggetto d’amore, tale fase viene chiamata narcisismo primario. La fase
successiva è quella dell’amore oggettuale. Una quarta fase potrebbe essere quella del
successivo ritiro in sé stesso, chiamata narcisismo secondario.
L’intera psicoanalisi pone molte delle sue basi nell’analisi di questa fase in particolare, che
rappresenta il prototipo del conflitto.
Inoltre ci possono essere numerose fissazioni e regressioni nelle diverse fasi: questo porta
inevitabilmente a problemi psicologici di varia natura.
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Freud espose per la prima volta la sua metapsicologia in modo compiuto nel settimo capitolo
dell’”Interpretazione dei sogni” e Rapaport ne ridefinì i modelli della metapsicologia come
punti di vista, e oltre a quello topico strutturale descrisse il punto di vista:
Genetico: comportamento presente influenzato dal passato.
Dinamico: i fenomeni psicologici sono la risultante di un’interazione di forze in conflitto.
Economico: l’energia psichica è distribuita secondo una certa quantità e può essere
trasformata.
Adattivo: il comportamento è in parte determinato dalla realtà esterna in cui si adatta.
In totale sono quindi sei i punti di vista della metapsicologia freudiana: topico, strutturale,
genetico, dinamico, economico, adattivo.
Il funzionamento del pensiero secondo il processo primario e secondario
Il processo primario di funzionamento del pensiero è chiamato così perché si forma per
primo nello sviluppo del bambino: in esso prevale il principio di piacere, i sintomi nevrotici,
i sogni, l’arte, il gioco, la fantasia…
Il processo secondario invece si forma successivamente ed è tipico dell’adulto guidato dal
principio di realtà.
Mentre il percorso primario è caratterizzato da energia mobile, quello secondario è basato
sulla logica del principio di non contraddizione, dal senso del tempo e la capacità di
dilazionare.
Il bambino procedendo gradualmente nello sviluppo, abbandona il principio di piacere e
accetta quello della realtà.
È soprattutto il sogno che ha permesso a Freud di approfondire lo studio del processo
primario.
I sogni
Freud scrisse L’interpretazione dei sogni nel 1899.
Esso fu l’unico suo vero libro nel senso che aveva un carattere compiuto, con un inizio, una
fine e una struttura ben elaborata interna, tutti gli altri furono principalmente saggi.
In questo libro aveva ipotizzato che, tranne alcune eccezioni, i sogni fossero sostanzialmente
motivati dalla soddisfazione di un desiderio.
Nel sogno il desiderio veniva censurato dal lavoro onirico con la produzione di un contenuto
manifesto che tramite simboli nascondeva un significato sottostante, cioè il contenuto
latente.
Freud definì i sogni come la via regia dell’inconscio, nel senso che permettono un accesso
diretto e privilegiato ad esso.
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Ma quali sono le funzioni del sogno? Esse sono essenzialmente funzioni di crescita,
problem-solving, mantenimento e regolazione e se necessario riparazione dei processi
psichici allo scopo di favorire un migliore adattamento e funzionamento mentale.
Sogni: hanno lo scopo di gratificare il sognatore senza disturbarlo, liberano un po’ di energia
psichica con la soddisfazione di desideri/impulsi attraverso simboli che celano i significati
(contenuto latente) rendendoli accettabili e tollerabili alla coscienza (contenuto manifesto).
Sviluppi storici e principali orientamenti all’interno del modello
Il modo corretto di intendere la psicoanalisi dovrebbe essere quello di un unico movimento
allargato con idee nate in un settore e a volte subito assorbite in altri.
♥ LA PSICOLOGIA ANALITICA DI JUNG:
Jung, fedele inizialmente ai pensieri di Freud, se ne distacca per quanto riguarda il concetto
di libido. Inoltre, non riconosce l’importanza del trauma sessuale infantile.
Secondo lui infatti, la libido ha una concezione più ampia definendola come non
esclusivamente sessuale, cioè non come motivazione primaria ma come energia psichica che
si manifesta nel processo vitale ed è percepita dall’individuo come aspirazione e desiderio.
Jung ribattezzò psicologia analitica la propria costruzione teorica.
LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE DI ADLER:
Anche Adler inizialmente appoggiò Freud ma se ne distaccò non accettando l’importanza
della sessualità e la teoria della libido alla quale contrapponeva quella della protesta virile e
dell’aggressività a scopo di affermazione sociale.
La psicologia individuale da lui fondata si basa su un modello d’uomo a orientamento
olistico, teologico e fenomenologico, teoria pragmatica e applicabile in diversi campi.
Per Adler ci sono due motivazioni principali nell’uomo: La volontà di potenza (una spinta a
superare l’inferiorità) e il sentimento sociale (un bisogno di comunità ed appartenenza).
L’ANALISI DEL CARATTERE DI REICH E LE TERAPIE CORPOREE:
Wilhelm Reich fu il primo psicanalista ad intuire l’importanza del carattere.
Prese alla lettera certi concetti freudiani come quello dell’energia libidica ed era convinto
che una società repressiva impediva il sano e libero sfogo della sessualità.
Cercò di coniugare psicoanalisi e marxismo convinto del fatto che il capitalismo avesse un
ruolo importante nel generare alienazione.
LA PSICOLOGIA DELL’IO:
Negli USA la popolarità della psicoanalisi raggiunse il suo apice a metà ‘900.
Heinz Hartmann scrisse il “Manifesto della psicologia dell’Io” e un suo importante
contributo fu quello di concepire nell’uomo fin dalla nascita un’area autonoma e libera da
conflitti, cioè un apparato cognitivo che si sviluppa indipendentemente dalle pulsioni.
L’Io per Hartmann, grazie alle sue funzioni, diviene l’organo specifico dell’adattamento in
presenza di un ambiente medio prevedibile.
A. Freud, Erikson e Hartmann, psicologia dell’io: prosecuzione ideale della psicoanalisi
classica, si concentra sull’io e quindi sulle risorse, cercando di attivare le parti sane
dell’individuo.
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Altre scuole…
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Esistono infiniti autori minori quali Ferenczi che fece coraggiosi esperimenti con pazienti
difficili dando molta importanza al rapporto affettivo, Rank che sosteneva questo
movimento, altri più recenti e una miriade di declinazioni cliniche situate in setting
differenti.
IL MODELLO CLINICO
La spiegazione di un disagio psicologico
Perché una persona si ammala secondo la psicoanalisi?
Freud offrì una spiegazione psicologica del disturbo mentale non sottovalutando cause
biologiche ed ereditarie.
Volendo includere tutte le variabili parlò delle SERIE COMPLEMENTARI per la scienza
che studia le cause della malattia: la predisposizione ha quindi un ruolo complementare con
fattori psicologici e traumi.
Esempio: se rappresentiamo il manifestarsi della malattia con il numero 100 essa può essere
causata da una predisposizione minima 10%, sommata ad un grave fattore scatenante.
Questo schema delle serie complementari rappresenta un modello della vulnerabilità e il
rapporto tra i fattori interni ed esterni.
Freud mirava a costruire una teoria completa dell’insorgenza della psicopatologia, ma
limitandosi alla teoria delle pulsioni per la componente genetica.
Il ruolo del trauma risulta sempre basilare per Freud che ne capisce l’importanza e lo
sviluppo soprattutto quando il paziente, mediante l’aiuto dello psicologo, riusciva a superarlo
non esternando più il disagio con il corpo, ma mediante il linguaggio e la mente.
L’efficacia della psicoanalisi qui è indiscussa!
Criteri per la valutazione clinica
La diagnosi o la valutazione clinica non si basa solo su criteri meramente descrittivi, ma su
quelli strutturali, cioè basati su un’ipotesi di funzionamento mentale che a sua volta è legata
ad un certo modello o ad una teoria della mente.
Un noto modello della diagnosi strutturale è quello di Kernberg (1981) secondo cui esistono
tre principali strutture intrapsichiche (nevrotica, borderline, psicotica) e tre criteri diagnostici
(esame di realtà presente o assente, difese mature o primitive, identità integrata o diffusa) e a
queste strutture corrispondono quadri clinici diversi.
Questo modello è stato seguito da un sistema recente chiamato PDM, il manuale diagnostico
psicodinamico, prodotto dalle principali associazioni psicoanalitiche internazionali, il quale
elenca quattro diversi livelli strutturali: normalità, nevrosi, borderline, psicosi.
Qui il border viene considerato come un aggravamento della sindrome nevrotica più che
come una vera e propria categoria.
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Bisogna però adattare la tecnica al paziente seguendo una teoria generale e comprensiva che
riesce a rendere conto in modo coerente della causa e della terapia di tutti i disturbi mentali, e
questa è la sfida di ogni scuola psicoterapeutica.
Blagys e Hilsenroth propongono le 7 caratteristiche della terapia psicodinamica:
1. Focalizzazione sugli affetti ed emozioni.
2. Esplorazione dei tentativi tesi ad evitare pensieri e sentimenti disturbanti.
3. Identificazioni di temi e modalità ricorrenti (transfert).
4. Discussione di esperienze passate.
5. Focalizzazione rapporti interpersonali.
6. Esplorazioni di desideri e fantasie.
7. Analisi della relazione terapeutica.
La relazione terapeutica: inquadramento e sua funzione nel processo terapeutico
La relazione terapeutica gioca un ruolo centrale nella terapia psicodinamica e il concetto
chiave qui è quello di transfert.
Per transfert si intende ogni tipo di reazione sia positiva, che negativa.
TRANSFERT allude alla possibilità che il paziente “trasferisca” nel presente
comportamenti che derivano dal passato, c’è una distorsione nel presente di tali vissuti e
motivazioni e questi comportamenti sono in qualche modo disfunzionali.
Un momento cruciale della terapia è quando il terapeuta fa riflettere il paziente sul fatto che
le sue modalità dipendono da esperienze passate ed aspettative più che dal suo
comportamento.
Il transfert è un esempio della “coazione a ripetere” tipica degli organismi viventi e un
esempio di costruttivismo: il passato influenza anche la percezione del presente
deformandolo sulla base delle aspettative frutto d’esperienze passate.
Si può intendere anche il trasporto verso il terapeuta, in generale ogni emozione negativa o
positiva che suscita nel paziente; il CONTROTRANSFERT fornisce ulteriori informazioni
sul paziente e ci permettono di conoscerlo meglio.
Quello che caratterizza la terapia dinamica è l’analisi di queste reazioni transferiali.
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Capitolo 3
La psicoterapia cognitivo-comportamentale
Il modello di uomo: presupposti di base e teoria del funzionamento psicologico
La terapia cognitivo comportamentale nasce dalla fusione di due modelli teorici e clinici:
o Il comportamentismo e la terapia comportamentale: questi hanno come modelli
filosofici antecedenti l’empirismo, il positivismo, l’evoluzionismo, il materialismo e il
pragmatismo.
o Il cognitivismo e la terapia cognitivista: questi hanno modelli filosofici molto antichi
nello stoico Epitteto “Gli uomini non sono disturbati dalle cose, ma dalla visione che
hanno di essi”.
Kant fece la distinzione fondamentale per il cognitivismo tra noumeno (cosa in sé
inconoscibile agli uomini) e fenomeno (ciò che noi possiamo conoscere del noumeno).
Si basa sul presupposto che la cosa fondamentale è l’interpretazione (appraisal) che ciascuno
di noi dà alle cose, le strutture concettuali filtrano le informazioni della realtà.
Dunque: modello di uomo che basa il suo essere sull’interazione fra le proprie esperienze di
vita tramite l’apprendimento e la conoscenza e l’interpretazione che viene loro data mediante
le strutture conoscitive che ha elaborato nel corso dell’esistenza, e quindi l’uomo è sempre
visto in una posizione attiva e costruttiva rispetto al proprio ambiente.
Sviluppi storici e principali orientamenti all’interno del modello
Storicamente la TCC può essere suddivisa in 3 GENERAZIONI:
─ La prima quella della vera e propria teoria comportamentale era una ribellione delle
concezioni cliniche prevalenti, poiché i primi terapeuti erano fissati nello sviluppo di
trattamenti su principi scientifici chiari mentre i concetti del comportamentismo si
focalizzano su comportamenti problematici manifestati, al fine di ridurre la gravità
applicando tecniche derivate dalla teoria dell’apprendimento.
Comportamento disturbato = risultato di un apprendimento disadattivo.
─ Negli anni ‘60 ci fu un cambiamento dei metodi cognitivi e con esso ebbe vita la seconda
generazione TCC per la quale la persona è prima di tutto un essere pensante in grado di
organizzare il proprio comportamento e di modificarlo a seconda delle circostanze, ma a
causa di lacune e di qualche errore cognitivo, si decise poi di integrare le due teorie e così
nacque l’etichetta della terapia cognitivo-comportamentale.
Beck e lo studio dei pensieri cognitivi patogeni, avvento dei metodi cognitivi e gli studi
basati su “stimolo-risposta”.
─ Hayes ha descritto l’emergere di una terza generazione all’interno delle psicoterapie
cognitivo comportamentali che comprende la terapia dell’accettazione e dell’impegno,
quella dialettica comportamentale analitica funzionale, la terapia comportamentale
integrata di coppia e la cognitiva.
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Si basa sui principi classici della TCC ma differisce per alcuni aspetti, propongono enfasi
sulle strategie di cambiamento e mettono il focus sulla riduzione della sintomatologia -
empowerment del repertorio comportamentale.
Anche se la terza generazione non è condivisa da tutti, queste forme di psicoterapia potranno
apportare contributi innovativi sia nella teoria che nella pratica della TCC.
Nella realtà italiana la TCC si caratterizza in due associazioni scientifiche: la SITCC (nasce
nel 1972 basata più sul versante cognitivo) e L’AIAMC (nasce nel 1977 e si basa sullo stile
cognitivo-comportamentale in senso classico).
Il modello clinico
Lo scopo è quello di individuare la radice dell’apprendimento e delle credenze negative al
fine di modificare le distorsioni e le emozioni legate; l’intervento è mirato sia a cambiamenti
cognitivi che affettivi.
Il modello clinico della TCC unisce in sé i presupposti della tradizione comportamentista e
quella cognitiva e quindi vengono presi in considerazione tre grandi ambiti su cui si basano
la valutazione ed il trattamento:
─ Comportamentale: i comportamenti possono essere la conseguenza di apprendimenti
disadattivi o di mancati apprendimenti, che vanno ricercati nelle esperienze di vita.
─ Affettivo-emotivo: le emozioni che caratterizzano il quadro clinico sono considerate il
risultato di due processi:
Apprendimenti associativi, legati al condizionamento classico o pavloviano- risposte
automatiche a certi stimoli.
Interpretazioni cognitive, mediante cui determinati stimoli-situazioni vengono interpretati
dal soggetto in base alla struttura cognitiva e quindi originano specifiche emozioni in base
a tale interpretazione.
─ Cognitivo: la TCC si concentra su tre livelli di pensiero del paziente
I pensieri automatici negativi: si riferiscono allo svolgersi di un comportamento in
senso catastrofizzante e svalutativo (finirà male. “Che cosa farò?” “Non sarò in
grado…”).
Le credenze o assunzioni che rappresentano regole tacite che si ipotizza facciano
sorgere i pensieri automatici (se fallisco = mi puniranno).
Gli schemi cognitivi, interpretati come credenze latenti del nucleo centrale e in questo
caso definite in base al contenuto.
Gli schemi sono quindi le regole base che una persona usa per organizzare le proprie
percezioni del mondo, del sé e del futuro e per adattarsi alle sfide della vita.
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Sono considerati materiali del nucleo centrale perché sono assoluti e non condizionali, danno
origine ad altre convinzione di livello superiore ed è difficile avere accesso a esse durante il
trattamento e valutarle, in quanto sono inconsce e poco verbalizzabili.
Per la psicoterapia cognitiva sono particolarmente rilevanti due categorie di schemi: gli
schemi sul sé o SS, che determinano gli atteggiamenti verso di noi e il nostro ambiente, e gli
SI o schemi interpersonali, che consistono in una schematizzazione mentale delle
caratteristiche relative a sé e agli altri in una specie di scenario immaginativo.
Gli schemi possono essere modificati dall’informazione in entrate e quindi rinnovati, quelli
che si sono consolidati precocemente nell’infanzia tendono ad essere più persistenti ed
influenzare le nuove costruzioni mentali.
Alcuni SS possono ignorare selettivamente tutte le informazioni non congruenti con
l’immagine di sé mantenendosi mediante una selezione dell’informazione e questo
costituisce il BIAS COGNITIVO.
= Gli schemi sono responsabili dei Bias e delle distorsioni cognitive in quanto possono
distorcere le informazioni in entrata agendo come un vero e proprio filtro percettivo
(astrazione selettiva, iper generalizzazione, pensiero dicotomico).
Un bias cognitivo è la tendenza esagerata dell’apparato psichico di elaborare a preferenza
certi tipi di informazione rispetto ad altri, essi in genere sono:
Connaturati al funzionamento dello psichismo normale.
Non specifici di una patologia.
Più facilmente attivati nelle situazioni di tensione.
Le principali distorsioni cognitive sono:
─ Personalizzazione: tendenza ad attribuire tutto a sé.
─ Pensiero polarizzato o dicotomico: tutto bianco o nero.
─ Astrazione selettiva: astrarre un dettaglio dal contesto senza porlo in relazione con tutto.
─ Inferenza arbitraria: giungere ad una conclusione da dati insufficienti.
─ Ipergeneralizzazione: da un singolo elemento estrarre una regola generale.
Scopo della TCC è quindi individuare e definire la sequenza di eventi in modo di
modificare i pensieri negativi, le distorsioni cognitive e gli schemi.
L’intervento non è mirato solo ai cambiamenti cognitivi ma anche a quelli comportamentali
e affettivi, con procedure specifiche per ciascuno di questi livelli.
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Le prime sedute sono di assessment, cioè valutazione approfondita del caso a scopo
d’inquadramento diagnostico e analisi funzionale con individuazione delle strutture
cognitive.
Si può fare una previsione della durata del trattamento e si specifica che l’intervento
richiederà una seduta alla settimana di un’ora, dove il setting è lo studio del terapeuta.
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.. La frequenza e la durata non sono mai rigidamente pre- impostate, vengono adattate al caso
durante la terapia, vi sono anche esercizi da svolgere a casa che vengono discussi nelle
sedute successive.
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Fa parte del copione l’imposizione del segreto al bambino dopo l’abuso mediante minacce o
seduzione e in base alle pressioni di questo “segreto” il bambino comincia a poco a poco a
comprendere che quello che sta accadendo è qualcosa di negativo che non si dovrebbe fare.
A questo punto entra in gioco il dilemma cognitivo: com’è possibile che una persona che mi
ama mi faccia queste cose cattive? Piuttosto che optare per l’alternativa insopportabile del
non amore.
L’abusato quindi diviene responsabile di tutto, è lui il seduttore dell’adulto, il corrotto e tale
rimarrà sempre. Da ciò consegue l’autoemarginazione dal gruppo dei compagni di scuola, la
tristezza, il rancore e l’ostilità verso gli adulti.
Con tutti questi aspetti si deve confrontare la psicoterapia affrontando in primo luogo il più
difficile dei processi: i meccanismi difensivi che il bambino mette in atto per la
sopravvivenza psicologica che sono l’auto colpevolizzazione oppure l’ipervigilanza e
l’ipercontrollo e la cancellazione del ricordo con la segregazione delle emozioni.
Anche il modello Social Sharing di Penne Baker offre elementi efficaci per il superamento
di eventi traumatici, comprendendo: disambiguazione stati interni (riconoscimento ed
espressione emozioni), articolazione ed elaborazione cognitiva dell’evento, ricostruzione
concetto del sé e della stabilità delle credenze, ricerca ed accettazione del sostegno sociale e
la ripresa del contatto con l’ambiente sociale.
LA GESTIONE DELL’ANSIA E DEGLI ELEMENTI POST-TRAUMATICI (PTSD):
il trauma interrompe le credenze positive e la vittima cerca con ogni sforzo di assimilare
l’esperienza traumatica alle precedenti assunzioni e di cambiarle perché esse si possano
adattare al trauma.
Edna Foa e Barbara Olasov Rothbaum (1998) hanno formulato la teoria del processo
emotivo secondo cui la vittima di abuso sessuale sarebbe portata a sperimentare di nuovo i
sentimenti di terrore e d’impotenza che all’origine ha provato durante l’abuso.
L’intensità diminuisce nel tempo e quando questo processo della riesperienza non si verifica
adeguatamente l’indice del mancato superamento del trauma è la persistenza o il ritorno di
segni intrusivi di attività emotive come le ossessioni e tali sintomi indicano la presenza di
PTSD.
L’ansia patologica può essere spiegata mediante la teoria bioinformazionale di Lang in cui la
paura è considerata come una struttura cognitiva che serve da programma per fuggire al
pericolo e ciò implica che nella percezione del soggetto stimoli e risposte siano pericolosi.
La paura diventa patologica quando è intensa oltre ogni misura e coinvolge numerosi
elementi di risposta che resistono al cambiamento. Il PTSD costituisce così il rinnovarsi
della memoria della paura con associazioni e valutazione errate per cui il mondo risulta
costantemente pericoloso per il soggetto.
Secondo Foe e Kozak, la tecnica terapeutica dell’esposizione graduata interrompe le
associazioni con stimoli non pertinenti ed elabora una ristrutturazione cognitiva.
Il trauma deve essere metabolizzato per essere percepito meno dolorosamente.
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Essi quindi individuano i processi per ridurre i sintomi: trovarsi in una situazione sicura nel
ricordare il trauma, riconoscere che il richiamare il trauma non vuol dire riviverlo,
circoscrivere l’ansia attraverso il ricordo dei particolari del trauma, sperimentare che non si
perde il controllo, rendersi conto che con una figura di sostegno si può gradualmente vedere
il mondo in modo nuovo.
La tecnica cognitivo-comportamentale specifica per affrontare ciò è l’esposizione graduata.
Foa e Olasov Rothbaum definiscono questo modello prima sulla base degli stimoli
condizionati e dopo aver terminato questa fase si passa all’esposizione agli stimoli
incondizionati dell’abuso sessuale.
L’esposizione graduata consiste nel presentare situazioni via via più ansiogene al soggetto
fino ad arrivare a quella massimizzante in grado di attivarne le paure più forti e ciò produce
l’estinzione della reazione di ansia associata a stimoli post-traumatici permettendo al
soggetto di superare le paure.
Un altro metodo per facilitare la gestione d’ansia è il training auto-istruzionale elaborato da
Meichenbaum e Goodman e questo è suddiviso in cinque fasi specifiche: un modello adulto
esegue il compito problematico parlando ad alta voce definendo così i passi istruzionali, il
bambino esegue il compito diretto dalle istruzioni del modello che sempre ad alta voce gli
suggerisce i passi, il bambino esegue il compito dandosi le istruzioni da solo, sussurrandole,
ed infine ripetendole mentalmente.
Nel caso di laura uno dei problemi erano i flashback, così poi gestiti: devo stare calma questo
è solo un flashback, questo è solo un ricordo non vengo nuovamente abusata, sono capace di
controllare la mia mente, Laura si concentra su un pensiero distraente, ci sono riuscita sono
stata proprio brava!
I COMPORTAMENTI ESTERNALIZZANTI: questi comportamenti possono
manifestarsi in due direzioni: comportamenti aggressivi sia come conseguenza
dell’imitazione e del modellamento e sia per l’identificazione con l’aggressore e i
comportamenti sessualizzati o ipersessuali anche in questo caso si può trattare di
identificazione con l’aggressore ma più spesso si tratta di apprendimenti di modalità
disadattive mirata ad attrarre l’attenzione e ottenere affetto, e tali giovani confondono spesso
perciò le relazioni affettive da quelle sessuali.
Non è certamente facile modificare tali condotte poiché i minori devono prima acquisire le
abilità di auto-monitoraggio che innescano e accompagnano la manifestazione
comportamentale ed è molto difficoltoso però affrontare con bambini il discorso di temi
sessuali.
Per quanto riguarda i comportamenti esternalizzanti Laura non mostrava condotte aggressive
ma quando era in gruppo con coetanei maschi ed era eccitata per i giochi tendeva a buttarsi
addosso ad essi mimando un coito o cercando di toccare loro i genitali.
Fu subito stabilito un training auto-istruzionale e quindi attuato nelle situazioni reali con
successo crescente mediante: inibizione della risposta impulsiva iniziale, definizione del
problema, scelta di una meta, pensiero alternativo, pensiero consequenziale e auto-rinforzo
finale.
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strategie per contrastare ciò e con l’aumento della percezione dell’autoefficacia da parte di
Laura, a poco a poco essi diminuirono.
IL TERMINE DELLA TERAPIA: i minori possono provare affetti ambivalenti circa il
termine della terapia innescando emozioni presenti fin dall’inizio (abbandono...).
In ogni caso è quindi utile sottolineare che la terapia viene terminata a causa dei progressi del
bambino e non per qualche sua cattiva disposizione nei confronti del terapeuta.
Per Laura l’intervento durò circa un anno con sedute settimanali per otto mesi e quindicinali
per altri tre e infine un’ultima seduta dopo un mese dalla precedente.
I risultati furono buoni: scomparsa PSTD, miglioramento immagine di sé, superamento
autocolpevolizzazioni, riduzione stati dissociativi, ampliamento relazioni sociali e attività.
IL TRATTAMENTO DI CASI DI ABUSO IN ETA ADULTA: Con soggetti adulti la
terapia è in gran parte simile con alcune differenze: la complessità per esempio, il problema
centrale è sicuramente la questione del ricordo che può essere completo oppure qualcosa di
ricomparso e nebuloso.
La formazione dello psicoterapeuta: il modello formativo
In Italia gli psicoterapeuti di formazione cognitivo-comportamentale sono psicologi o medici
che hanno frequentato scuole di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal ministero
dell’istruzione dell’università della ricerca.
Il modello formativo segue nelle linee generali quelle dettate dalle norme ministeriali:
quattro anni di studio, ogni anno costituito da cinquecento ore didattiche.
Nei primi due anni trecento ore di docenza divise in una parte generale e una specifica con
duecento ore di tirocinio.
Negli ultimi due anni duecentocinquanta ore di docenza e centocinquanta di tirocinio.
Al termine dei quattro anni avviene l’esame di specializzazione: tesi di otto casi di
psicoterapia seguiti in supervisione di cui almeno sei portati a termine.
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schema di sé profondamente negativo che porta a sensi di colpa ed emarginazione del gruppo
dei pari e famiglia.
Lo scopo dell’intervento è quello di disambiguare gli stati interni e rivivere il fatto
elaborandolo guidati dal terapeuta che fornisce nuove prospettive d’interpretazione di quanto
successo e delle emozioni legate; per controllare l’ansia e l’ipervigilanza conseguenti si
rivela utile l’esposizione graduale guidata modificare le strutture patologiche della
memoria del trauma – ristrutturazione cognitiva!
Comportamenti esternalizzati a sfondo sessuale/ aggressivo: seguono solitamente l’abuso e
derivano dall’identificazione con l’aggressore ed i sentimenti d’inadeguatezza e confusione
affetto-sesso.
A causa dell’abuso il bambino deve affrontare diversi lutti, quello verso il genitore abusatore
che viene allontanato, verso l’idea del genitore che rimane che in qualche modo non ha
saputo proteggerlo e verso l’immagine di sé precedente che viene inevitabilmente
modificata; si lavora inizialmente sul trauma per poi passare al lutto.
Tipici sono gli episodi di trance e dissociazione, anche i sentimenti di AMBIVALENZA che
la psicologia del bambino non è in grado di gestire (tendenza simultanea di sentimenti
opposti verso la medesima situazione/persona).
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Capitolo 4
La psicoterapia cognitivo-costruttivista
Il modello di persona nell’ottica cognitivo-costruttivista: presupposti teorici di base
Conoscenza e realtà
In psicologia l’opzione “realista” è stata tipicamente assunta dal comportamentismo.
Nell’ottica costruttivista non è possibile considerare la conoscenza come un rispecchiamento
del mondo esterno ma essa è vista come una produzione dell’essere vivente connessa al
processo stesso del vivere.
Ogni conoscenza è una costruzione generata da un osservatore in relazione alla struttura e
all’esperienza.
L’osservatore sa che il significato dell’informazione ricevuta non ha un’esistenza oggettiva,
ma dipende dalla struttura del sistema osservante.
Glasersfeld afferma che: non possiamo mai dire se questa conoscenza sia vera, perché per
affermare tale verità avremmo bisogno di un confronto che non possiamo fare.
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Non viene esclusa l’idea che nel mondo esistano però oggetti reali ma il giudizio sulla realtà
viene messo tra parentesi e tale processo viene definito epochè: fare epochè non significa
negare la realtà del mondo, ma semplicemente considerare irrilevante la questione
sottolineando l’essenza dell’esperienza.
In psicologia il primo a porre una prospettiva di questo tipo fu Piaget che parlando di
adattamento dei sistemi viventi ne sottolinea la chiusura organizzativa e definisce
l’autonomia del sistema nei termini della capacità di gestire i cambiamenti strutturali.
La relazione tra ambiente e soggetto è definita da Piaget perturbazione.
Conoscenza personale come esperienza
Domini di conoscenza: nel vivere nel mondo la persona interpreta gli eventi e costruisce i
propri significati mediante i diversi domini di conoscenza.
Tra questi è utile distinguere: la conoscenza dichiarativa (esprimibile direttamente in forma
verbale), procedurale (acquisita mediante esercizio e pratica), emotivo-affettiva (conoscenza
incarnata che emerge dalle percezioni dello stato corporeo), immaginativa (organizzata
tramite immagini mentali), episodica (costituita da informazioni ordinata temporalmente
relative ad eventi autobiografici).
La conoscenza esplicita è definita come tutto ciò che appartiene alla nostra conoscenza
consapevole, tutto ciò che siamo in grado di dirci, e di sapere di sapere. La conoscenza
implicita è tutto ciò che avviene nel nostro organismo senza che si sia in grado di costruire
una rappresentazione diretta a livello della consapevolezza, è ciò che sappiamo senza sapere
di sapere.
Intersoggettività e sintonizzazione affettiva alla base del processo di acquisizione della
coscienza implicita sta il fenomeno dell’intersoggettività.
La conoscenza implicita si costruisce dai primissimi momenti di vita in particolare
all’interno dei legami di attaccamento e mediante il linguaggio, va sottolineato che
nell’intersoggettività stanno soprattutto i fenomeni della sintonizzazione affettiva e
condivisione e questa chiama in causa un sapere non traducibile in quanto basato sulle
emozioni.
Il senso comune il costrutto di senso comune è assimilabile a quanto appena illustrato e
può essere considerato, afferma Stanghellini, come una sorta di senso pre-concettuale che
diversamente dagli altri cinque sensi, è focalizzato sul mondo sociale che governa le nostre
relazioni con le persone, sintonizzandoci con ciò che è comune e condiviso in modo
implicito da tutti quelli che appartengono ad uno specifico gruppo culturale. Ogni persona si
può distinguere da diversi tipi di senso comune come il sociale o il familiare.
Tipi di esperienza
Distinzione:
─ Esperienza immediata o fenomenica: è una conoscenza in prima persona implicita, pre-
riflessiva, incarnata ed immediata.
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È l’esperienza di cui siamo consapevoli mentre accade e che spesso, subito dopo svanisce,
ma che rappresenta quel materiale grezzo a cui attingere in seguito.
─ Esperienza riflessa: appartiene ad un momento successivo a quella precedente, in questo
caso proviamo ad assumere una posizione in terza persona di quello che è appena
accaduto.
Tra le due esperienze è presente un processo di ricorsività mediante il quale la coscienza di
sé viene trasformata, riordinata e rimodellata.
─ Esperienza storica, individuale: è il risultato dell’insieme dei processi che hanno
permesso a ciascun’esperienza immediata e riflessa, di costruirsi.
Questa si costruisce nella nostra memoria in base a schemi di regole definite e individuali
perlopiù implicite.
Sviluppo del sé e identità personale
Non è facile dare una definizione esaustiva del sé, ma può essere definito come quella forma
di organizzazione soggettiva che consente di mantenere il senso della propria individualità e
unicità che permane nel tempo, nonostante le continue variazioni a cui si va incontro.
Damasio sviluppa le proprie ipotesi a partire dalla coscienza, che definisce come uno stato
della mente in cui vi è coscienza della propria esistenza e di quella dell’ambiente circostante.
Due generi di esseri umani: il primo, più semplice definito dalla coscienza nucleare e il
secondo, più complesso, della coscienza estesa.
A ciascuno di questi tue tipi di coscienza corrispondono diversi livelli del sé: nucleare e
autobiografico e il proto-sé (esistente dalla nascita).
Stern Concorda sull’esistenza di uno stato precoce del sé, il sé emergente, al quale farebbe
seguito quello nucleare, il soggettivo e infine il verbale (dai 2 ai 6 mesi, dai 9 ai 18 mesi e
dai 18 mesi in poi).
Ma in che rapporto possiamo mettere l’identità con il sè, dato che è un costrutto più ristretto
rispetto a questi?
L’identità corrisponde all’organizzazione di quell’insieme di proprietà attraverso le quali
possiamo definire noi stessi e che caratterizza il nostro essere\sentirsi sé stessi in ogni
specifico momento e si può distinguere tra: identità sentita (componenti implicite) e identità
narrata (esplicitamente sia a sé sia agli altri).
Cambiamento dei sistemi viventi
Il nostro corpo va incontro in ogni momento a processi di trasformazione.
Il processo di sviluppo individuale mostra un’evitabile continuità dal momento che ogni
cambiamento strutturale prende forma dalle caratteristiche della struttura precedente.
Ma l’accettabilità del cambiamento, per il mantenimento dell’equilibrio sistemico, dipende
dall’entità della minaccia percepita.
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È possibile definire due diversi processi di cambiamento: quello omeostatico (nei confronti
di un evento perturbante cui la minaccia è eccessiva il sistema può reagire mediante un
irrigidimento, in altri casi quando ciò non è possibile si attiva un processo di cambiamento
omeostatico il cui obiettivo è quello di mantenere un equilibrio), o quello dinamico (avviene
un vero e proprio cambiamento ovvero un movimento del sistema in cui lo stato finale è
diverso da quello iniziale poiché l’equilibrio si riconfigura con tutt’altra configurazione).
Sviluppi storici e principali orientamenti all’interno del modello cognitivista
Le origini della terapia costruttivista sono databili alla metà degli anni ‘50 quando George
Kelly pubblicò “The psychology of personal construct”, proponendo una teoria della
personalità da cui sviluppò l’approccio psicoterapeutico che va sotto il nome di psicoterapia
dei costrutti personali (troppo innovativo).
Ellis, mise a punto un altro modello psicoterapeutico, la terapia razionale emotiva.
Fu nel 1967 che Beck utilizzò per la prima volta il termine psicoterapia cognitiva, ma solo
negli anni ‘80 iniziò a svilupparsi, grazie ad a Mahoney, la reale terapia cognitivo-
costruttivista.
Le terapie cognitivo-razionalista
Nella prassi psicoterapeutica, lo schema di analisi e di lavoro comunemente adottato è A-B-
C in cui A sta per evento attivante interno o esterno all’organismo, B per sistema di
convinzioni e C per gli effetti dell’elaborazione cognitiva sul piano emotivo e
comportamentale.
All’analisi della logica A-B-C, segue una fase D di discussione sui contenuti cognitivi e i
processi messi in atto e al termine di questa una fase E di verifica degli effetti.
Le psicoterapie cognitivo-razionaliste rientrano nell’ambito delle cosiddette terapie brevi
intorno alle 30\50 sedute.
Le terapie cognitivo-costruttiviste nel panorama italiano
La prima svolta costruttivista si ebbe nel 1983 con Guidano e Liotti: il modello è definito
strutturalista e l'essere umano viene visto come attivo costruttore della propria esperienza e
della teoria personale di sé e del mondo.
Il costrutto di organizzazione cognitiva: fobica, depressiva, ossessivo-compulsiva, disturbi
alimentari, dimostrano che ciascuna organizzazione è una modalità di adattamento evolutivo
all'ambiente mediante l'attivazione di processi di conoscenza.
Guidano e Liotti si sono differenziati sul ruolo e valore dell'attaccamento: Liotti
evoluzionista mentre Guidano costruttivista radicale sottolineando sì la centralità
dell'attaccamento ma soprattutto la dimensione esperienziale delle dinamiche all'interno del
sistema chiuso.
La conoscenza di sé emerge dalla circolarità tra esperire e spiegare: l'Io agisce dando luogo
all'esperienza immediata, mentre il Me osservante valuta e rifletta sull'esperienza immediata
rendendola coerente con la propria storia.
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Il modello clinico
Il modello teorico-clinico è derivante da un integrazionismo assimilativo, definito
dall’assimilazione di elementi teorici e pratici per ricontestualizzarli nella nuova cornice
teoretica.
La spiegazione dello scompenso psicopatologico
L'equilibrio del sistema dipende quindi da:
Costruire modelli percorribili: anziché usare l’adattamento di Piaget, Von Glasersfeld
propone il termine percorribilità.
Formulare anticipazioni: il sistema di conoscenza deve creare anticipazioni di ciò che può
accadere nel mondo interno ed esterno, questo ci permette di muoverci.
Accogliere le invalidazioni: se le anticipazioni vengono invalidate possiamo riorganizzare
il sistema).
L'uso di anticipazioni più volte invalidate senza che vengano modificate (magari perché
supera la capacità del sistema) produce uno scompenso.
È preferibile il termine scompenso perché:
o Esclude il taglio medico-psichiatrico di sano/malato e di malattia come una cosa da
estirpare.
o Rimette al centro la persona dato che solo lei può definire la propria condizione di
scompenso.
La sintomatologia ha uno specifico valore informativo, manifesta la rottura di un equilibrio.
I criteri di valutazione clinica
Gli obiettivi della valutazione clinica sono molteplici:
Analisi della domanda: ci sono gli elementi per dare inizio al percorso terapeutico?
Comprensione del disagio: mettersi nei panni dell'altro e costruire una prima ipotesi.
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Spiegazione del disagio: la spiegazione non può spiegarsi da sola come la comprensione
non può comprendersi da sola; l'una e l'altra possono aiutare a conoscersi.
Primo colloquio (anche in più sedute): analisi della domanda e definizione del contratto
terapeutico.
Oltre alle tre fasi qui sopra, si devono definire anche le regole del contratto.
La relazione terapeutica si inizia a costruire da subito; si ricostruisce la storia del disagio e
si definiscono le aspettative rispetto alla terapia (si specifica ad esempio che il percorso con
modello cognitivo-costruttivista è lungo, e si chiede se il paziente riesce a farsene carico).
A partire dal primo colloquio gli obiettivi solitamente sono:
─ Comprendere la richiesta del paziente.
─ Costruire una prima ipotesi della genesi del problema.
─ Valutare l’effettiva utilità di una psicoterapia.
─ Definire le regole esplicite del contratto.
Nel contratto si definisce la frequenza, la durata delle sedute, le regole di pagamento, gli
obiettivi e le autorizzazioni per l'uso di dati personali.
Questo approccio di spiegazione-comprensione non si concilia con l'uso di categorie
descrittive o con metodo deduttivo che vada alla ricerca di cause.
Il punto di partenza è lo sguardo da dentro e la verità storica delle memorie costruite e
ricostruite: la storia di vita viene registrata per identificare i marcatori del discorso che
possono anticipare quale sarà lo stile relazionale del paziente nei confronti del terapeuta e, di
conseguenza, delle altre figure di attaccamento.
A partire dall’analisi di questa gli elementi, vengono presi in considerazione per comporre
questo quadro:
Il problema del paziente.
Le modalità di funzionamento del sistema-paziente e le sue caratteristiche.
I processi intersoggettivi che hanno caratterizzato le tappe e i momenti critici dello
sviluppo.
La configurazione attuale di attaccamento e la sua evoluzione nel tempo.
Eventuali altri momenti di scompenso che si sono verificati in periodi diversi di vita.
La storia di vita è analizzata nella costruzione professionale che è un resoconto ad uso
esclusivo del terapeuta.
Il setting
Il setting ha caratteristiche ben definite che rendono possibili la terapia.
Può essere metaforicamente definito un teatro di improvvisazione: architettura flessibile ma
sicura che coniuga elementi fissi, chiamati così poiché devono rimanere stabili ed invariati a
garanzia e protezione del guadagno terapeutico del paziente (luogo, disposizione, durata,
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pagamento, etica professionale) e gli elementi mobili che rappresentano invece quelle
componenti del setting che pur abitualmente stabili, possono essere utilizzati in maniera
flessibile dal terapeuta (possono venir modificate per ragioni terapeutiche ad es. il contatto
corporeo, "lei", contatti extra-setting, posizioni spaziali, incontro di famigliari).
Per quanto riguarda le posizioni che paziente e terapeuta possono assumere all’interno del
setting, quella più comune è vis à vis.
Il modello di intervento terapeutico
Premessa: sistemi organizzativamente chiusi e autoreferenziali; l’informazione non possiede
significato a priori ma lo acquisisce all'interno del sistema che lo interpreta, quindi il
cambiamento non può essere provocato dall'esterno.
Il terapeuta per questo usa un metodo collaborativo e non direttivo che generi una
perturbazione strategicamente orientata e quindi la riorganizzazione dovrebbe favorire una
maggior coerenza tra identità sentita e identità narrata.
Obiettivi del processo terapeutico:
Acquisire consapevolezza metacognitiva.
Cogliere la funzionalità adattiva dei sintomi e non considerarli soltanto come portatori di
sofferenza.
Entrare in contatto con le situazioni affettive ed emotive.
Integrare i diversi domini di conoscenza considerando che ciascun dominio costruisce i
significati in parallelo.
Promuovere articolazione definizione e flessibilità del sistema di conoscenza.
Ricostruire la propria storia.
Favorire una maggiore accettazione complessiva di sé.
La conduzione del processo terapeutico: dopo il racconto della storia di vita (passato) si
lavora sul presente.
La conduzione del processo terapeutico dopo il racconto della storia di vita (passato) si
lavora sul presente.
Abbiamo tre ambiti procedurali:
Procedure conversazionali. Ciò che produce cambiamento è sovraordinato rispetto alla
tecnica, l'effetto va ben oltre lo specifico contenuto del discorso, es c'è la prosodia, il
linguaggio del corpo, le parole usate precedentemente e le intenzioni dei due attori
conversazionali.
Nella conversazione maieutica al paziente vengono fatte domande con lo scopo di acquisire
consapevolezza e creare spiegazioni relative ai propri processi di attribuzione di significato,
gli viene chiesto di osservarsi in terza persona. Lo scopo è quindi di aumentare la
consapevolezza meta cognitiva.
Nella conversazione fenomenologica c'è comprensione del terapeuta rispetto al paziente e del
paziente rispetto a sé, si cerca di farsi attraversare dal discorso dell'altro.
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La psicoterapia in pratica
Esposizione di tre esempi clinici da pag 187 a 208 (dialoghi).
Primo caso—> Valentina, giovane donna di 30 anni che si presenta descrivendo i propri
problemi con una sensazione generale di caos interno, mancanza di obiettivi e di punti di
riferimento inesistenti.
Secondo caso—> una paziente, rimasta orfana di madre alla nascita e del padre a tre anni,
tende a controllare e a iper-razionalizzare tutte le proprie sensazioni emotivo\affettive.
Terzo caso —> esemplificativo per una modalità utilizzata nell’interpretazione dei sogni, la
paziente riteneva che il sogno fosse insignificante ma persistente e in seduta si è cercato di
analizzarlo.
Lei è Antonella, ha 50 anni e non si è mai permessa di coinvolgersi in una relazione affettiva.
La formazione dello psicoterapeuta: il modello formativo
Il processo formativo degli psicoterapeuti nell’ottica cognitivo-costruttivista parte dal
presupposto che la relazione terapeutica rappresenti lo strumento più rilevante del
cambiamento e che vada considerata come un atto relazionale la cui maggiore o minore
efficacia va ben oltre la corretta esecuzione.
L’azione formativa è quindi incentrata su un saper fare che consegue al saper essere del
terapeuta nella relazione e non viceversa.
Gli obiettivi formativi possono essere sintetizzati in:
─ La capacità di stabilire un dialogo autentico con il paziente, comprensione.
─ La capacità di riflettere mentre si agisce nel contatto con l’altro.
─ La capacità di integrare un insieme di informazioni provenienti da fonti diverse.
L’attenzione inoltre deve essere sempre focalizzata sul paziente comprendendo i propri errori
in relazione al proprio essere e sentire.
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La formazione prevede 5 anni di studio dove ogni allievo nel corso del terzo o quattro anno
faccia un minimo di 20 ore con uno psicoterapeuta esperto, in modo tale da fornire al
soggetto un’occasione di analisi delle problematiche gestionali all’interno della relazione di
cura.
Capitolo 5
La terapia centrata sul cliente di Carl Rogers
Il modello di essere umano: presupposti teorici di base
La psicologia umanistica
La vita della scienza può anche essere una vita di passione, bellezza, di speranza
dell’umanità e rivelazione dei valori parole di Maslow, uno dei fondatori della psicologia
umanistica, la caratterizzano molto bene e ne sottolineano il tono rivoluzionario.
Negli anni ‘40, situata tra psicoanalisi e comportamentismo la PU fu un movimento
composto da terapeuti e studiosi di varia provenienza clinica.
La PU deriva dall’incontro della cultura americana, caratterizzata dal pragmatismo e
l’apporto intellettuale degli ebrei e antirazzisti fuggiti dall’Europa negli anni della seconda
guerra mondiale.
Il nucleo della psicologia umanistica è che l’essere umano è un soggetto agente di scelte,
libero e responsabile.
Esso tende a realizzarsi se le condizioni lo consentono, in una personalità sana, matura e
capace di relazionarsi e perciò la tersa forza (PU) è contraria a qualunque visione
meccanicistica e riduzionistica umana.
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Il modello clinico
La spiegazione del disagio psicologico
Tornando al modello della personalità, il disfunzionamento può assumere due forme:
concetto di sé alienato ma integro o i meccanismi di difesa non reggono l’irruzione di
elementi esperienziali incoerenti e si disintegra (nevrosi\psicosi).
Per questo modello si può identificare però la tipologia del cliente: devono essere in grado di
entrare in contatto psicologico con il terapeuta, di percepire correttamente le attitudini di
accettazione, congruenza ed empatia del terapeuta e deve trovarsi in uno stato di
vulnerabilità e ansia dovuti alle incongruenze che lo induca a cercare aiuto da un terapeuta.
Criteri della valutazione clinica
Rogers è fortemente avverso alla classificazione diagnostica nell’ambito clinico considerata
un’etichetta che mortifica le persone.
Diversa è la posizione rispetto alla ricerca, in cui la diagnosi costruisce un indispensabile
strumento di indagine.
Il terapeuta deve seguire il cliente e il suo discorso senza schemi precostruiti, mantenendo il
clima facilitante interpersonale senza il quale la terapia non funziona.
Caratteristiche del contratto e setting
Il setting della terapia sul cliente non ha particolari caratteristiche se non quella di marcare la
parità tra i due interlocutori e la posizione sarà dunque vis à vis e la frequenza è in linea di
massima settimanale.
La relazione terapeutica
In nessun approccio quanto in quello client-centered, il processo terapeutico è così
strettamente legato alla relazione. Abbiamo già sottolineato che deve realizzarsi quel clima
facilitante, accogliente e sicuro.
Roger definisce in particolare tre attitudini: la congruenza, l’accettazione positiva e
incondizionata e l’empatia. Queste sono tradizionalmente definite condizioni necessarie e
sufficienti a promuovere la terapia del client-centered.
Il modello dell’intervento terapeutico: le condizioni necessarie e sufficienti
La congruenza: applicata alla figura di terapeuta essa comporta che i sentimenti provati nei
confronti del cliente siano pienamente disponibili alla sua coscienza.
Rogers insiste su questo punto come prerequisito alle altre due condizioni: l’apertura
all’esperienza propria e come essa renda possibile l’apertura agli altri.
La congruenza costituisce un modello anche per il cliente che impara a famigliarizzare con i
propri sentimenti così come vede fare al terapeuta.
L’accettazione positiva incondizionata: è un modo di accostarsi alla persona rispettandone
l’alterità.
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Secondo Rogers l’aspetto più significativo è il passaggio dalla fissità alla modificabilità della
struttura rigida alla fluidità dalla stasi al processo.
Nei primi stadi il soggetto è in situazione incongruente, negli stadi intermedi il cliente inizia
a mostrare qualche miglioramento e negli ultimi la raggiunta congruenza fa sì che
l’individuo sperimenti un senso di pienezza.
La psicoterapia in pratica
Irene, ragazza di 29 anni, lavora come impiegata in una ditta di spedizioni. La madre è morta
qualche anno fa, il padre e il fratello con problemi di tossicodipendenza abitano lontano. Il
suo problema sono le ossessioni.
La relazione terapeutica che si instaura è buona e la ragazza si rivelerà molto acuta
nell’autocomprensione.
(Dialogo da pp 242 a pp. 246).
La formazione dello psicoterapeuta: il modello formativo
La qualità della relazione è determinante nell’ambito formativo e da qui nasce l’importanza
della costruzione di una comunità di apprendimento.
Il percorso formativo è quindi diviso in tre grandi aree: teorica (lezioni frontali),
esperienziale (laboratori ed esercitazioni), crescita personale (gruppi di incontro).
La finalità del modello formativo è di offrire un processo di sviluppo emotivo, intellettuale e
relazionale all’allievo.
Capitolo 6
La psicoterapia della Gestalt
Il modello di uomo: presupposti di base e teoria del funzionamento psicologico
Gestalt dal tedesco: “Struttura unitaria”, colgono quell’insieme che dà senso e che supera la
semplice somma degli elementi.
Figlia della Psicoanalisi, anche se spesso le differenze sono sottolineate:
Disconoscimento della libido come entità pulsionale primaria.
Privilegio del presente rispetto al passato.
Superamento della dicotomia es super-io.
Privilegio per lo sviluppo della consapevolezza rispetto all’importanza dell’insight tipico
della psicoanalisi.
Sottovalutazione dell’inconscio.
Valorizzazione della relazione intersoggettiva paziente/analista.
Psicologia della forma e il processo figura sfondo
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Perls, Hefferline e Goodman (1951) esportano il principio della Gestalt incompiuta (figura
dei tre cerchi tagliati, l’uomo ci vede dentro un triangolo) applicandolo ad una dimensione
esistenziale ed evolutiva dell’individuo, una situazione inconclusa porta dell’energia che è
però indisponibile per altri tipi di esperienze che non siano legate alla conclusione della
stessa.
Quindi analizzando la struttura interna del modo attuale di relazionarsi all’ambiente
emergeranno le autolimitazioni e le fantasie che li sostengono.
Ciò è collegato alla teoria di Edgar Rubin, la figura/sfondo che fa emergere l’attitudine a
cogliere la realtà emergente, l’elemento più carico di energia e di significato.
L’interazione organismo/ambiente
Kurt Lewin “Teoria del campo” Ogni soggetto non può non intendersi in relazione al
contesto totale nel quale è incluso. L’individuo si muove in campo di forze originate da
interazioni di repulsione o attrazione.
La teoria dei sistemi inoltre ci dice che un sistema chiuso tenderà ad equilibrare, mentre un
sistema aperto sarà soggetto ad una redistribuzione continua delle forze.
Autoregolazione organismica
Concetto introdotto da Goldstein (1939), è la continua negoziazione tra individuo e
ambiente tendente ad un equilibrio energetico. Perls “ognuno tende ad attualizzarsi per
quello che è”.
Dalla psicologia della forma al concetto di “Gestalt in sé”
Perls definisce inesprimibile il concetto di Gestalt, la vede come “fenomeno irriducibile.
È un’essenza che c’è e che sparisce se si frammenta il tutto nelle sue componenti.
Kaffka (1935) invece la definisce “entità concreta e individuale, che esiste come qualcosa
di staccato e che ha come uno dei suoi attributi la forma o la configurazione”: una Gestalt è
perciò il prodotto dell’organizzazione e l’organizzazione è il processo che produce la gestalt.
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Fritz Perls nasce a Berlino nel 1893 da una famiglia ebrea, studia medicina ma nel 1926 si
avvicina alla psicoanalisi.
Diventa assistente di Kurt Goldstein dove conosce Laura Polsner sua futura moglie. Col
nazismo è costretto a rifugiarsi in Sud Africa, nelle sue pubblicazioni di quel periodo già
troviamo elementi lontani dalla concezione classica della psicoanalisi.
L’incontro con Smuts (1961) inoltre lo avvicina ad una visione olistica dell’individuo
all’interno del proprio ambiente.
Terminata la guerra si trasferisce a New York dove lavora con il “gruppo dei sette” (Fromm,
Weisz, Shapiro, Eastman, Goodman, Hefferline) con i quali pubblica “La psicoterapia della
Gestalt: eccitamento e accrescimento nella personalità umana” nel 1951. Un anno dopo
nacque il primo istituto di psicoterapia della Gestalt (New York Institute for Gestalt
Therapy) dalla quale però Perls si allontanò col passare del tempo per il suo temperamento
anticonformista e il suo disinteresse per la creazione di schemi teorici stabili.
Negli anni 60 si stabilisce ad Esalen, in un centro di sperimentazione e propulsione culturale,
le riprese delle sue sessioni sono raccolte in “Gestalt Therapy Verbatim”1.
Nel 1969 si trasferisce in Canada con alcuni collaboratori per sperimentare un’esperienza
comunitaria sui principi della Gestalt, ma muore un anno dopo.
Gli sviluppi della Gestalt sono diversificate in diverse scuole di pensiero raggruppabili in tre
indirizzi:
1. Scuola di New York, o East Coast: vicina alla matrice psicoanalitica.
2. Movimento della West Coast: che segue lo stile di Perls negli ultimi anni di vita,
drammatizzazione nel setting terapeutico, pratiche di consapevolezza.
3. Scuola di Cleveland: orientamento più eclettico, crea un linguaggio comune ad altri
approcci terapeutici, applica la psicoterapia della Gestalt in diversi campi di interazione
(famiglia, gruppi, consulenza aziendale.
Il modello clinico
La “Teoria del Sé”, Perls con il termine self (sé) identifica una sintesi di Es Io e Personalità.
Per la Gestalt il sé è una funzione di adattamento creativo, cioè il risultato
dell’interazione tra organismo e ambiente. Questa interazione viene detta anche contatto per
rimarcare il suo essere molto concreta, il sé infatti non può considerarsi in astratto ma solo in
relazione al campo, all’ambiente, al sistema.
Gli elementi costitutivi del sé sono Es Io e Personalità.
L’Es è l’insieme indifferenziato ed irrazionale di pulsioni, strettamente legato alla
dimensione corporea, è il mondo interno.
La Personalità è sistema degli atteggiamenti nei rapporti interpersonali, le personalità
nevrotiche si fissano su un passato, usano vecchi schemi che non rispondono alle
esigenze del contesto riproducendo un automatismo rigido.
L’Io è la funzione decisionale, di scelta. Ha una funzione mediativa.
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Perls però vede queste tre funzioni come inseparabili da un’originaria dimensione
organistica: l’Io è un’interfaccia tra mondo esterno e mondo interno, “la sua posizione al
confine tra l’esterno e l’interno gli permette di ricevere le eccitazioni dai due lati” (Freud).
L’Io si muove all’interno di una polarità collegata con i due opposti confini di interazione,
quindi possiamo parlare di “duplice contatto” come chiave per l’adattamento creativo. È
dentro questa funzione che troviamo la Gestaltung, cioè l’inventare sempre nuove forme
adattive.
Freud identifica l’Io come derivante dalle sensazioni corporee, come proiezione mentale
della superficie del corpo; quindi l’Io cosciente è Io-corpo. Ciò trova una conferma
embriogenetica in quanto il sistema nervoso è una derivazione del primitivo foglietto
germinativo dell’ectoderma1, tutti gli organi di senso sono differenziazioni dello stesso
foglietto germinativo specializzate nel cogliere determinati input diversi.
La “Teoria del sé” fa riferimento alle modalità che contraddistinguono il modo di essere nel
mondo, in particolare si concentra sui fenomeni di confine tra il soggetto e il mondo con cui
interagisce. Queste modalità interattive sono state variamente denominate dai diversi autori
(vedi pag. 266) che noi descriveremo come “(dis)funzioni del Sé” (Zerbetto).
La Gestalt le ha raggruppate in un numero limitato:
Proflessione: manovra in cui qualcuno fa ad un’altra persona qualcosa che vorrebbe le
fosse fatto” (Crocker Fleming, 1981). Nell’aspetto disfunzionale è patologia di
discontrollo degli impulsi.
Deflessione: manovra per distogliersi dal contatto diretto, evitamento della
comunicazione diretta Io-Tu attraverso circonlocuzioni come parlare troppo, non
guardare direttamente l’interlocutore, essere astratti.
Il Sé è la funzione di adattamento creativo (Perls), è l’interazione di un individuo con il
contesto con luogo e tempo definiti. Questa interazione è detta contatto. È possibile prendere
in considerazione più livelli del sé:
sè organismo: livelli elementari di relazione.
Sé persona: irripetibile modalità di essere nel mondo.
Sé trans personale: persona in relazione con l’altro.
Sé trascendente: l’elemento immateriale.
Questo fa sì che strumenti teorico-metodologici per studiare questi diversi livelli siano
lontani perché metodi Galileiani sono adatti ai primi livelli ma non agli ultimi.
La spiegazione del disagio psicologico
Abbiamo visto che è ricondotto ad una disfunzione nella relazione organismo/ambiente,
tuttavia è opportuno riportare altre griglie di lettura.
1
Foglietti embrionali, o foglietti germinativi, indicano nella biologia evolutiva degli organismi pluricellulari la prima differenziazione di un
embrione in diversi strati cellulari, dai quali successivamente si sviluppano strutture, tessuti e organi differenti. Si distinguono: endoderma;
mesoderma; ectoderma. La trasformazione di cellule di un foglietto embrionale in cellule di un altro, viene chiamata trans differenziazione. Il
primo foglietto embrionale che si forma è l'ectoderma, la cellula primordiale ha già i suoi segmenti definiti. Dorsalmente si verrà a delineare la
futura zona ectoblastica, ventralmente la futura zona endoblastica, e in ultimo fra le due un abbozzo della futura zona mesoblastica. Ciascuna
darà origine rispettivamente: foglietto ectoblastico - tessuti nervosi ed epiteliali; foglietto endoblastico - tessuti apparato digerente e
ghiandole; foglietto mesoblastico - strutture connettive, vascolari e muscolari.
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Le interruzioni nel ciclo di contatto o della soddisfazione dei bisogni; l’individuo è esposto
ad un susseguirsi di esigenze e desideri, quando questi desideri non sono in un’osmosi
funzionale con le risorse ambientali nascono i disturbi (es. tossicodipendenze).
Le diverse fasi sono:
Sensazione: preallarme rispetto alla necessità.
Consapevolezza: metto adeguatamente a fuoco il bisogno, ne prendo coscienza.
Mobilizzazione/Energizzazione: mobilitazione delle energie.
Azione: comportamenti tesi al soddisfacimento del bisogno.
Contatto: conseguimento dell’obbiettivo, bisogno soffi sfatto.
Distacco: disinteresse per l’elemento precedentemente ricercato.
Un’altra griglia di lettura è nelle strutture enneatipiche di personalità.
La riflessione nasce da Naranjo (1994) che si interroga sull’inceppo evolutivo che non ci
permette di apprendere dall’esperienza e che ci vede causa dei nostri stessi mali.
L’enneagramma rimanda a nove fondamentali fissazioni caratteriali, secondo Naranjo è il
carattere l’elemento di difesa fondamentale, infatti la vita è guidata dalla strategia adattiva
che lotta contro l’istinto interferendo con la saggezza.
Infine è interessante notare che le nove strutture di personalità (“ennea” dal greco, 9) si
ritrovano nelle classificazioni dei disturbi di personalità in ambito psicoanalitico
(psicopatica, narcisistica, schizoide, paranoide, depressiva, masochista, ossessiva e
compulsiva, isterica, dissociativa) da McWilliams.
Criteri della valutazione clinica
La Gestalt ha un orientamento idiografico, tuttavia c’è il bisogno di un inquadramento
diagnostico che faccia riferimento a schemi sufficientemente coerenti, quindi senza
penalizzare la fenomenica multiforme dei diversi modi di essere nel mondo.
Uno studio del processo di formazione del significato della relazione figura/sfondo fornisce
la comprensione dell’organizzazione della personalità. “Quando la situazione nel campo
organismo-ambiente è pienamente riconosciuta, sia che la comprensione del problema che
la soluzione diventano più chiari” (Wertheimer, 1945).
Le diverse disfunzioni del Sé in relazione con le interruzioni del ciclo di contatto e delle
strutture enne atipiche permettono di sviluppare un apparato di valutazione integrato ed
efficace.
Inoltre ciascun terapeuta integra con strumenti di valutazione presi da altri modelli di
riferimento.
Caratteristiche del contratto e del setting, durata del trattamento
Il setting è molto importante per la Gestalt, proprio perché osserva l’interazione con
l’ambiente, l’adattamento creativo dell’individuo.
Sebbene la situazione più consueta e utilizzata sia quella di interazione duale, vengono prese
in considerazione altre configurazioni.
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Privilegiata per un lavoro di Gestalt è il setting gruppale perché offre molte situazioni
attivatrici delle funzioni del Sé. Si parla quindi di messa in azione, dove l’agire riacquista
centralità.
Altri setting importanti sono quello di coppia, della famiglia, delle comunità terapeutiche o
delle imprese.
Il modello dell’intervento terapeutico
La Gestalt anziché interpretare i contenuti scissi, propone un percorso esperienziale di
graduale appropriazione ed integrazione delle parti scisse. In ciò sono importanti le emozioni
in quanto trasformano l’eccitazione in azioni sensoriali e motorie (Perls, 1973).
Anche se le cause sono nel passato, le difficoltà dell’agire nel presente sono connesse con
l’agire oggi.
Bisogna favorire il ripristino di un flusso vitale ed evolutivo, per questo serve acquisire
consapevolezza, appropriarci responsabilmente di chi siamo, per poi poter scegliere di
cambiare.
Il lavoro terapeutico è l’identificare i blocchi, aprire i circoli viziosi, riappropriarsi di parti
amputate di noi stessi, fornire strumenti di comprensione, è passare dalla condizione di
scissione all’integrazione di elementi, è lo sblocco, la rottura del meccanismo paralizzante.
La Gestalt incompiuta, la capacità di cogliere lo scarto evolutivo inceppato avrà bisogno di
un’ampia gamma di modalità di intervento, ricondurre il conflitto attuale al trauma
originario, sbloccare un vissuto paralizzante, mobilitare ingorghi energetici.
L’impostazione della terapia nella Gestalt è esperienziale, quindi il metodo galileiano che
punta all’oggettivazione dei processi conoscitivi non è adatto; si predilige un procedimento
conoscitivo fondato sui dati dell’esperienza soggettiva condivisibile, abbiamo quindi una
gamma infinita di percorsi esperienziali.
Affinchè il risveglio della coscienza sia reale, il terapeuta deve facilitare il paziente a
fare delle scoperte su di sé, non insegnare.
L’approccio gestaltico non enfatizza gli aspetti contrattuali. Ogni seduta vede indirizzare
l’attenzione di terapeuta e paziente verso una Gestalt primaria emersa, il paradigma del ciclo
di contatto può evidenziare le possibili fasi di impasse nello sviluppo terapeutico
(sensazione, consapevolezza, mobilizzazione, azione, contatto finale, soddisfazione, ritiro).
L’importanza nella terapia dell’uso del “qui ed ora” è data dal fatto che permette di verificare
in concreto la qualità delle interazioni con l’ambiente, lavorare sulla consapevolezza di
quanto esse siano soddisfacenti o meno, il presente favorisce il contatto diretto con le
emozioni, mentre la dimensione del passato o del futuro le localizza lontano da me; il
presente è inoltre occasione per la messa in azione. Ciò però non è negazione del passato e
del futuro in quanto essi conservano un autentico significato nel presente.
Questa enfasi sul presente non deve farci sottovalutare l’importanza della storia personale,
del potenziale aiuto conoscitivo e curativo implicito nella possibilità stessa di raccontarsi,
nell’istanza dialogica, al di là dai contenuti emersi, c’è l’alchimia che permette la
trasformazione.
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Nella relazione transferiale vengono valorizzati gli aspetti di realtà (terapeuta presente in toto
nella relazione, con i suoi vissuti ed i suoi limiti), si privilegia l’attenzione sul come le
disfunzioni si esprimano nel concreto.
I bisogni della persona emergono come figure su uno sfondo, una buona esperienza è data
dalla percezione di una buona figura dopo l’altra e una buona figura è una figura chiara.
L’alternanza figura-sfondo costituisce il ciclo dell’esperienza (formazione e distruzione di
una Gestalt). Quando ci sono bisogno insoddisfatti si formano Gestalt incompiute che
impediscono la formazione di altre Gestalt.
L’approccio gestaltico, in linea con l’impostazione fenomenologica, non privilegia ciò che si
nasconde (noumeno) ma ciò che si manifesta, si rivela (fenomeno). Si dà credito a ciò che si
mostra favorendo il fatto che verità sottostanti appaiano gradualmente (“sbucciare la
cipolla”). Ci avviciniamo alla visione del mondo della persona attraverso le sue diverse
manifestazioni.
Elemento importante e condiviso con altri approcci è l’identificazione di incongruenze fra
linguaggio verbale e gestuale/mimico. Ciò riflette i diversi livelli dell’essere. Un buon lavoro
gestaltico punta alla tridimensionalità del vissuto emergente, quindi se partiamo da un
pensiero/ricordo, lo colleghiamo poi ad un’emozione e alla sensazione somatica che la
accompagna.
“La Gestalt è una terapia per sani” (Perls). Con questa affermazione il padre della Gestalt
compie una politica di responsabilizzazione del cliente, cioè considerarlo come se fosse
sano. Quindi una privazione dei privilegi legati alla malattia, cioè considerarlo responsabile
delle proprie scelte, porsi in una relazione di accompagnamento, non di tutela. L’interazione
è fra adulti, c’è il diritto di scegliere liberamente, e quindi anche di errare.
La responsabilità vede ognuno artefice della propria sorte, secondo Perls il principio della
responsabilità è fondamentale per la guarigione. Serve rinunciare alle operazioni inconsce di
comodo per porsi come soggetto dei propri accadimenti. Il terapeuta infatti favorisce il
processo di consapevolezza, di assunzione responsabile delle componenti operanti e di
conoscenza nel progetto di vita.
Questa assunzione di responsabilità riguarda anche i terapeuti, “un buon psichiatra deve
rischiare la sua vita e la sua reputazione se vuole arrivare a qualcosa. Deve prendere
posizione.” (Perls, 1969).
La fiducia nella potenziale auto guarigione del paziente si fonda sulla concezione
dell’autoregolazione organistica che ha una solida base clinica.
Il neurologo Goldstein (1939) ha evidenziato la capacità dell’organismo di riorganizzarsi,
ciò implica la continua negoziazione tra individuo e ambiente tendente all’attualizzazione
delle risorse, al raggiungimento di una situazione ottimale di equilibrio. L’Occidente vive
sotto un eccesso di razionalismo, un mondo di idee e pensieri che ci portano lontani dai
vissuti e dalle sensazioni autentiche. Questa dislocazione ci porta alla dissociazione da noi
stessi.
Da qui nasce l’urgenza di interrompere l’involucro razionalistico, l’approccio gestaltico
insiste infatti nel chiedere “cosa senti” piuttosto che “cosa pensi”. In questa prospettiva
lavorare sulla consapevolezza è la caratteristica più peculiare dell’approccio gestaltico.
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Il lavoro sul sogno è un aspetto molto originale dell’approccio gestaltico. Freud si riferiva ai
sogni come via regia per arrivare all’auto-conoscimento, la Gestalt aggiunge la dimensione
del presente dando molto importanza alla narrazione del sogno che sviluppa la consapevole
assunzione delle parti scisse. L’approccio gestaltico non è quindi interpretativo ma
esperienziale. Secondo la Gestalt infatti il sogno ha già un valore auto curativo di per sé, la
narrazione facilita il contatto tra la parte cosciente e il materiale onirico. Il sogno serve a
mantenere la nostra integrità psichica, quindi secondo la Gestalt è una ruminazione psichica
dove si mettono insieme i vissuti, le tracce mnesiche e le rappresentazioni anticipative. Il
lavoro sul sogno è utile per esplorare il sé, serve l’ascolto partecipe per mettere insieme i
diversi elementi della personalità presenti nel sogno per lavorare su una personalità sana,
cioè unificata (Perls, 1947).
La relazione terapeutica
La capacità di instaurare una relazione autentica è nucleo centrale del processo di cura
(Clarkson, 1989) e questo vale soprattutto per la Gestalt dove la relazione terapeuta-
paziente è centrale. Questa relazione punta a vedere la persona reale e non al “come se...”,
ciò però non è possibile dove manca la possibilità di esercitare una scelta (crisi, psicosi,
debolezze emotive ecc.) in quanto la relazione, in quel caso, è asimmetrica. La relazione
terapeutica favorisce una relazione adultizzante, cioè portare il paziente ad assumere
maggiori abilità a rispondere (responsabilità). Lo spazio per la terapia viene pensato come
spazio “sacro” cioè separato dal flusso ordinario, dedicato alla consapevolezza e al di fuori di
condizionamenti esterni. Il terapeuta è presente come accompagnatore, con una posizione
maieutica (far emergere la verità interiore), non resta neutro e asettico.
La teoria della cura: il cambiamento, sua natura e come lo si ottiene
La Gestalt rappresenta la terza via fra i due orientamenti più noti (comportamentismo e
psicoanalisi). Offre la possibilità di ricondurre a disturbi della funzione di contatto
Io/Ambiente le diverse psicopatologie, quindi la possibilità di legare momenti diversi
dell’intervento terapeutico. Ad ogni incontro si cerca di far emergere qualcosa, una Gestalt,
in modo che acquisti densità, energia; è quindi vicina alla maieutica. Il problema è nel come
teorizzare la complessità di questa arte (“La gestalt non rivendica lo status di scienza, ma si
onora di rimanere arte” Ginger, 1987). Naranjo infatti vede una tradizione orale nella gestalt
dove ragione ed intuizione devono convivere.
La psicoterapia in pratica
Racconto di sequenze di lavoro sul sogno con commenti.
Paola, 30 anni, laureata in cerca di professione. Ripete da tempo lo stesso sogno, in premessa
parla del suicidio dello zio, che nel sogno è presente, affogato nella piscina che è Paola. Il
terapeuta le chiede di immedesimarsi nel vissuto per recuperare la dimensione olistica, le
chiede di identificare il suo stato d’animo e di dar voce al vissuto paralizzante (“cosa diresti
allo zio?”), da qui si aggancia alla tecnica del “monodramma” dove P. è chiamata ad
assumere alternativamente i due ruoli presenti nel sogno (lei e lo zio). Alla fine arriva alla
conclusione che lo zio le sta dicendo di non fare come lui, di non stare legata ai vecchi
legami che le impediscono di fare la sua strada. Perls chiederebbe allora “perché questo
sogno adesso?”, facendo riferimento alla tridimensionalità del tempo (tripode delfico), cioè il
fatto che il sogno abbia una dimensione legata al passato, una al presente e una al futuro
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(proiezione di uno scenario possibile). P. infatti dice che deve fare delle scelte, che non è
soddisfatta del suo percorso accademico.
La formazione dello psicoterapeuta: il modello formativo
Mentre l’insegnamento accademico fa riferimento ad un passaggio di informazioni oggettive
(non implica una rilevanza della connessione tra individui), l’insegnamento peripatetico
(insegnamento di Socrate) vede come elemento portante dell’apprendimento l’andare
insieme: non vengono trasmesse solo informazioni verbali ma anche gestuali, modelli di
comportamento; si lavora sulla modalità di essere.
Questo secondo metodo è proprio della Gestalt. Il modello gestaltico dà comunque
importanza alla teorizzazione e all’approfondimento degli elementi costitutivi dell’impianto
epistemologico che è ricco e mirabilmente integrato.
Dicendo “La Gestalt sta sulle proprie gambe” Perls voleva affermare che le integrazioni
concettuali da altri approcci non sono indispensabili per un sistema che è incompleto, ma
auspicabili come arricchimento per un sistema stabile.
La formazione dei terapeuti parte quindi dal modello teorico, poi offre strumenti
metodologici per arrivare a studi di casi clinici concreti; infine c’è la supervisione clinica e la
valutazione conclusiva. Anche in questo caso il setting gruppale è funzionale in quanto
laboratorio privilegiato per le funzioni di adattamento creativo in situazioni interattive.
Capitolo 7
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Nei primi anni Settanta è forte il movimento dell’anti-psichiatria che pone l’accento sulle
determinanti socioeconomiche, quindi sistemiche della malattia mentale, il modello
pragmatico-comunicazionale vede quindi una forte discontinuità rispetto alla tradizione.
Questo modello riconsidera il rapporto famiglia-individuo.
A Milano si sviluppano i maggiori cambiamenti su due filoni: un gruppo si rifà alla seconda
cibernetica e si interroga sulla comunicazione prendendo in considerazione sia gli aspetti
pragmatici che semantici, qui la psicoterapia con la famiglia è co-costruzione di nuovi
significati; mentre il “Gruppo di Milano” (Palazzoli) recupera l’individuo, vede il terapeuta
posto a favorire la ricerca di nuove modalità di incontro, con un temperamento tecnocratico
(quindi risonanze affettive e movimenta transferiali del terapeuta sono lontani dalla terapia).
A Roma invece si sviluppano il pensiero trigenerazionale e i principi della teoria evolutiva.
Qui la comprensione dell’individuo e dei suoi processi di sviluppo avviene attraverso
l’osservazione trigenerazionale che guarda i comportamenti attuali come metafore
relazionali, come segnali indiretti di bisogni. Obiettivo del terapeuta è costruire una storia
con la famiglia nel contesto della terapia e sviluppare l’apprendimento di come ricercare
significati diversi negli eventi, quindi l’apprendimento di una metodologia di lavoro; il
terapeuta ha quindi un’impostazione “fenomenologica”, è attento all’essenza stessa della
famiglia e non solo alle sue funzioni/disfunzioni.
Modello clinico
Spiegazione dello scompenso psicopatologico
A lungo le teorie sistemiche hanno negato la componente strettamente individuale, infatti il
portatore di patologie era descritto come “paziente designato”. Questo è dovuto alle ricadute
negative della teoria del doppio legame (in particolare ne ha risentito la Scuola di Milano).
Dagli anni ’80 ci si è spostati sul versante relazionale: prendere in carico una famiglia è
essere disponibili a incontrare i principali attori della vicenda, cioè “squadra primaria”
(famiglia), le famiglie d’origine e gli attori sociali della vicenda (scuola, servizi ecc.).
La “patologia individuale” è una fase critica nell’evoluzione della famiglia che spesso non
riesce ad usare adeguatamente le proprie risorse per far fronte a questo problema, ciò può
causare blocchi dello sviluppo che sono il “materiale” su cui il terapeuta dovrà lavorare.
I sintomi sono presentati come negativi, sbagliati o indesiderati dalla famiglia, il terapeuta
deve però porsi rispettoso di questi sintomi in quanto sono il primo legame significativo con
la famiglia, non deve porsi come agente di controllo.
Il modello trigenerazionale permette di superare una crisi su una persona per affrontare una
crisi di sviluppo in un gruppo con storia, per questo è utile introdurre la generazione dei
nonni. Osservando l’interazione tra più generazioni è più facile entrare nel mondo interno
dell’individuo.
Criteri della valutazione clinica
L’approccio relazionale-sistemico dà molta importanza al processo di differenziazione del Sé
dalla propria famiglia di origine, quindi l’individuo dovrebbe essere in grado di emanciparsi
dalla propria famiglia.
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famiglia. Questa teoria resta legata all’impalcatura trigenerazionale (quindi tengo presente
questo sistema quando incontro la famiglia).
Fare terapia sistemica significa immergersi con il cliente in una complessa rete di idee,
emozioni, perone significative.
Si segue un pensiero di complementarietà, di causalità lineari e circolari, si privilegia il porsi
domande rispetto al dare risposte trasmettendo così un nuovo modo di connettere gli eventi e
i significati.
Grazie al contributo della narrazione possiamo dire che il cliente si libera di una sua storia
diventata ingombrante e fonte di sofferenza per sviluppare una nuova storia con maggiore
libertà e autonomia.
Nelle terapie gruppali, specialmente in quelle familiari la dipendenza è fuori luogo, un
membro della famiglia può decidere in qualsiasi momento di andarsene in quanto mentre un
individuo sceglie di andare in terapia l’accordo di gruppo è soggetto a notevoli compromessi
e a una costante dialettica (poiché difficilmente condivisa da tutti i membri).
Per questo motivo la motivazione congiunta è il primo obiettivo, motivazioni e attese sono
elementi fondamentali per determinare il contratto e definire il setting più adeguato. Una
famiglia è motivata quando ogni elemento sente di poter ottenere qualcosa di buono per sé
stesso, quindi serve passare dalla problematica sulla sofferenza di un membro a una ricerca
motivazionale di gruppo, in questo modo si ottiene un cambiamento significativo
nell’organizzazione familiare che passerà da una posizione di attesa (delega nei confronti del
terapeuta) all’assunzione di responsabilità, percependosi come risorsa terapeutica. Grazie a
questo passaggio si avrà la possibilità di utilizzare un setting multiplo.
La durata del trattamento è molto eterogenea. Possono esistere tempi estremamente brevi
(una seduta)2come lunghi (difficilmente più di due anni, con sedute mensile o quindicinali).
La psicoterapia individuale è decisamente più lunga, due o tre mesi solo per scoprire i livelli
motivazionali.
Per un parametro generale possiamo dire che le prime tre sedute servono per capire come far
incontrare terapeuta e famiglia e quali mediazioni si possano utilizzare per il progetta
terapeutico. Qui è opportuno evitare il presupposto che la terapia incominci nel momento in
cui le persone si incontrano e quindi chiamare queste sedute come “incontri preliminari per
valutare insieme se cominciare una terapia”, quindi come una fase di consultazione anche se
ciò è valido solo a livello formale (il processo terapeutico nasce dal primo incontro).
Un’altra importante differenza rispetto alla terapia individuale (sedute due volte a settimana)
è nella struttura e nei tempi della terapia. La terapia familiare prevede incontri su base
quindicinale o mensile tenendo conto di una doppia dimensione, quella degli incontri
terapeutici (interventi attivi del terapeuta, palestra per apprendere) e quella invece degli
intervalli tra gli incontri, dove la famiglia si cimenta nel quotidiano in azioni e operazioni
concrete. La media è di 20/25 incontri nell’arco di due anni.
Il modello dell’intervento terapeutico
La terapia relazionale prevede alcuni passaggi fondamentali.
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La terapia arrata dalle fa iglie di A dolfi, ricerca sulla valutazio e a dista za dei risultati della terapia fa iliare
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per entrare nella storia di sviluppo di una famiglia, sono l’elemento di coesione di quella
storia.
Gli effetti positivi sono il risultato di un’esperienza vissuta in gruppo che ha come contenuto
speciale la rivisitazione al presente della storia passata.
La relazione terapeutica: inquadramento e sua funzione nel processo terapeutico
Nel 1971 Jim Framo in Italia presenta il suo lavoro clinico, mostra profonda umanità,
partecipazione emotiva alla sofferenza della coppia riuscendo ad entrare nella profondità del
loro dolore in modo diretto ed autentico senza tecniche particolari.
Lo slogan era “Therapy i san experience”, inoltre il fatto di esporre tematiche coniugali così
delicate e personali di fronte ad un pubblico vasto senza tener conto della privacy suonò
come esibizionista (intervistò una coppia che non riusciva ad avere figli); solo qualche anno
dopo si scoprì il valore dell’esperienza condivisa in seduta con la famiglia come elemento
fondante.
Il lavoro di Whitaker ci ha permesso di riscoprire il valore dell’essere e non del fare il
terapeuta, tuttavia descriverne l’essenza è difficile, si corre il rischio di trasformarlo in un
dogma religioso perdendo il limite nell’operare.
Andolfi descrive come spesso i terapeuti sono concentrati sui cambiamenti perdendo il
valore dello stare nel dolore, nelle difficoltà, capacità che invece permette quel processo di
normalizzazione. Whitaker afferma di cercare nella terapia quei frammenti di esperienze
non ancora rivelate che, quando diventano consapevoli, gettano ombre su tutto ciò che è stato
detto prima (e ciò non lo fa solo il paziente ma anche il terapeuta con la sua esperienza
professionale).
Nello spazio terapeutico si sperimenta qualcosa di profondamente umano e creativo ma
“Cosa ci mette di suo il terapeuta?”. La risposta “la sua competenza professionale” è
banalizzante e lo priva della parte più autentica ed umana.
Il dilemma ruolo e persona è sempre esistito nelle professioni di aiuto. Quando il terapeuta
inizia una terapia familiare si prepara ad un incontro tra due mondi familiari: quello presente
nella seduta e quello della “famiglia interna”, cioè le esperienze precedenti e i vissuti della
propria famiglia.
Il terapeuta quindi da un lato crea un’alleanza con il paziente e dall’altro inizia un dialogo
interno volto a dar senso alle reazioni emotive, questo aiuta nella selezione dei frammenti
delle proprie esperienze da associare appropriatamente alle situazioni del momento.
Così inizia la costruzione del puzzle dove ciascuno mette parti di sé. Successivamente la
famiglia sceglierà quali parti tenere e svilupperà un proprio puzzle.
Chi opera nella sofferenza e il senso di impotenza delle famiglie deve stare molto attento a
non sovrapporre problematiche proprie, c’è il rischio di non essere consapevoli del contro
transfer (proiettare parti di sé nello scenario terapeutico).
A tale ragione è consigliata la co-terapia e il lavoro di equipe, cioè avere un vertice critico e
non autoreferenziale.
Basilari per la formazione del terapeuta sono gli scritti di Stern (pur non essendo un
terapeuta della famiglia), egli studia il conoscere implicito, si concentra sugli eventi che
costituiscono il mondo dell’esperienza, quei momenti condivisi che generano
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consapevolezza. Afferma che il presente e la coscienza sono i centri di gravità (non più il
passato e l’inconscio), il conoscere implicito è quando ci co-creano esperienze
intersoggettive, questa condivisione è colta da entrambi i soggetti e fa parte della conoscenza
implicita sulla loro relazione.
Con Stern l’intuizione della terapia familiare che è la storia a guarire trova un campo di
ricerca scientifico che permette di allargare le “strettoie” del modello sistemico-relazionale.
La teoria della cura: il cambiamento, sua natura e come lo si ottiene
Il processo di unione tra famiglia e terapeuta inizia sin dalla prima telefonata,
contemporaneamente inizia anche il processo di separazione, in quanto il terapeuta non
accetta passivamente le richieste, introduce nuove variabili. Solo grazie al tempo si potrà
parlare di particolari intimi o problemi spinosi e questo grazie al processo di unione,
all’intimità raggiunta.
Alla fine dell’intero percorso di terapia c’è la conclusione del processo di separazione (che
non è un evento ma un processo che dura dall’inizio della terapia). Il terapeuta è quindi in un
continuo movimento tra unione e separazione, ad esempio durante il Joining si accosta il più
possibile alla famiglia (unione) per separarsene proponendo nuovi triangoli relazionali
(separazione).
Secondo Bateson (1979) apprendiamo i contesti in cui i fatti e gli oggetti si collocano,
l’apprendimento più difficile è quello del “contesto dei contesti” (che permette la
comprensione dei vari contesti appresi). L’esperienza dei diversi contesti appresi rappresenta
la nostra storia, ogni contesto è un insieme di più elementi (oggetti, persone, contenuti ecc.) e
la perdita di uno di questi è un’esperienza di separazione, la domanda è quindi: “Come
mantenere una continuità nonostante le differenze e le perdite?”. La risposta è quella di
cercare un contesto dove dare nuova forma e unificazione alle diverse esperienze di
separazione, trovare gli elementi di mediazione che supportino le situazioni contraddittorie,
in questo senso lo spazio terapeutico è spazio di costruzione del “contesto dei contesti”.
Il ritmo della relazione terapeutica è seguito dal tempo delle sedute, dai suoi intervalli.
Questi rappresentano lo spazio per la famiglia di elaborare gli stimoli e produrre elementi di
novità, gli intervalli riflettono anche le diversi fasi della terapia. Infatti nella formazione del
sistema terapeutico (primi incontri) ci saranno intervalli non troppo ampi, mentre quando la
famiglia sentirà il bisogno di sperimentare l’autonomia (bisogno che il terapeuta deve
cogliere, favorire e rassicurare) diminuirà la frequenza degli incontri.
Secondo Karen Horney (1964) la conquista del “Sè reale” passa attraverso un lungo
processo di oscillazione fra “l’immagine idealizzata del sé” è “Il disprezzo di sé”.
Williamson (vero caposaldo delle terapie sistemico-relazionali) vede la crescita come
differenziazione del proprio Sé dalle famiglie di origine, ciò è chiamato “svincolo familiare”.
La valutazione a distanza
Andolfi afferma che “la terapia finisce quando comincia” volendo esprimere il fatto che la
terapia può terminare quando la famiglia fa proprio un metodo di lavoro che le permetta di
sentirsi competente, di affrontare autonomamente nuove crisi evolutive. Per questo è
importante verificare il percorso della famiglia dopo il processo terapeutico; le sedute di
follow-up (dopo almeno sei mesi, a volte anche anni) somigliano più all’incontro di vecchi
amici. Queste sedute rappresentano il rito di chiusura della terapia, qui la famiglia
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La psicoterapia in pratica
Da tempo nell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia vengono offerti servizi clinici. Si
operano prevalentemente dell’area di età evolutiva affrontando quindi un ampio spettro di
problemi infantili (disordini relazionali, autismo, disturbi dell’apprendimento e della
condotta). Recentemente si stanno movendo su un’area di frontiera, la psico-oncologia e
l’ampio e variegato territorio delle perdite traumatiche.
Di seguito verrà descritta una situazione clinica paradigmatica incontrata in terapia da
Andolfi a Toronto.
Thomas e la violenza paterna: Th. È un ragazzo di 11 anni, ha comportamenti aggressivi a
scuola e una forma esasperata di rabbia nei confronti del padre. Il padre alterna assenza a
presenza molte irascibili. Il fratello di Th., Alex, è risparmiato dal modello educativo
centrato sulle percosse del padre grazie al suo handicap psicomotorio. La mamma è
ipercoinvolta, non sa se aspettare l’aiuto del marito o la sua assenza, fa da mediatore tra Th. e
il padre cercando di evitare il peggio. [dialogo p. 342]
Il terapeuta entra nel tema dell’aggressività facendo un sondaggio che coinvolga tutti i
membri della famiglia, emerge la funzione protettiva della madre. Poi il terapeuta cercherà di
provocare, ampliare la rabbia del figlio. [dialogo p. 343-345].
Emerge la distanza esasperata tra padre e figlio e il terapeuta cerca di ridefinirla come
possibilità di vicinanza attraverso un confronto fra i due cambiando canale comunicativo (dal
parlare all’agire). [dialogo p. 345-346]
L’eredità dei padri, far entrare la storia del padre (scappato di casa perché maltrattato dal
padre, lontano dalla madre separata) permette un punto di viraggio. I figli vedono nel padre il
coraggio di abbandonare la famiglia a 12 anni quindi non più solo un padre violento e
depresso. [dialogo p. 347]
La forza percepita come pericolosa e distruttiva viene trasformata (forza di affrontare la
depressione) in un elemento che unisce padre e figlio, in questo Th. sostiene il padre e lo
conferma. [dialogo p. 347-348]
“Penso che lei abbia sofferto molto, che abbia dimostrato una forza incredibile a dodici
anni, ma è molto difficile trasmetterla ai suoi figli, se prima non la ritrova in sé stesso”
(terapeuta rivolto al padre).
La formazione dello psicoterapeuta
La formazione teorica e tecnica non è sufficiente, il terapeuta deve saper entrare in una
relazione intensa e personale per costruire un’esperienza trasformativa. Quindi deve
comprendere e saper utilizzare gli aspetti della propria personalità, fare pratica di una
comprensione sistemica della realtà terapeutica (ciò richiede tempi lunghi).
Whitaker vede il percorso (che può essere lungo un’intera vita professionale) come
passaggio dal fare il terapeuta all’essere terapeuta.
La formazione personale
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Questo primo livello di formazione si occupa dello studio dell’osservazione relazionale dello
sviluppo di famiglie normali, quindi attraverso role-playing si sperimentano domande
circolari e diagnosi relazionali. Si incrementa la capacità auto-riflessiva studiando in gruppo
in genogrammi familiari di ciascun allievo e poi la rappresentazione spaziale (scultura
familiare). Questo permette di osservare le diversità notevoli. In questo senso l’allievo
acquisisce sulla propria pelle.
Il training clinico
È il secondo livello formativo, l’obiettivo formativo sono le basi della psicoterapia familiare.
Si segue un modello integrato (teorie sistemico relazionali e aspetti psicodinamici) e consiste
nel cimentarsi in una terapia in solitaria o in co-terapia sotto la supervisione diretta di un
trainer. L’allievo è sollecitato a mettere in pratica quanto appreso dalla teoria e dai role-
playing, inoltre dovrà analizzare le proprie reazioni emotive per poterle usare a servizio della
terapia.
Dalle sedute con la famiglia emergeranno le potenzialità creative come gli handicap
personali che il trainer dovrà saper accogliere (così come il terapeuta accoglie quelli della
famiglia) per poi poterli trasformare in risorse attive al servizio della terapia.
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