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La storiografia inglese è frequentemente riconosciuta per essere uno splendido esempio di

quello spirito di imparzialità, di rigore, di obiettività che, secondo la Vulgata diffusa, la


caratterizza e la distingue rispetto ad altre storiografie del continente, decisamente più inclini
alla faziosità e al soggettivismo dei punti di vista. E questo sebbene anche un occhio non
tecnico, leggendo alcune pagine per esempio relative alla annosa questione irlandese, vi ravvisi
sempre l’idea veterotestamentaria del “popolo eletto” che ritorna. Non importa che questa idea,
nella cultura filosofica e storiografica inglese, sia stata secolarizzata e convertita nella versione
laica dell’ideologia liberale: quel che conta è che il popolo eletto (in senso razziale, religioso e
culturale: gli Inglesi protestanti e “moderni”) sia da sempre, con più o meno consapevolezza,
descritto in marcia verso la Terra Promessa del benessere, della libertà e del dominio navale. Il
celebre e più contemporaneo punto di vista della History from Below, ovvero la narrazione
storica che assume come presupposto narrativo il punto di vista della gente comune, e non
quello della leadership, se applicato al periodo storico esaminato per questa assegnazione non
si autoassolve dalla stessa possibilità di critica.
La guerra dei Cent'anni fu una guerra tra aristocrazie: inglesi contro francesi, borgognoni (alleati
degli inglesi) contro francesi e, subito dopo la fine di questa guerra, il casato Lancaster contro
quello York, che portò in Inghilterra alla guerra delle Due Rose.
E tuttavia, alla fine della guerra dei Cent'anni e anche di quella delle Due Rose ad aver avuto un
effettivo guadagno dall’evoluzione delle cose, in Inghilterra, fu soltanto la borghesia, che riuscì a
far valere l'idea della monarchia assoluta nazionale, contro il decentramento feudale della
nobiltà. L'idea del decentramento in sé non era sbagliata. Era sbagliato il suo carattere
"feudale", cioè la forma dello sfruttamento basato sulla rendita parassitaria: una forma divenuta
insopportabile non solo alle masse contadine ma anche a quelle borghesi, che non riuscivano a
espandersi nei contadi (o feudi) come avrebbero voluto.
Dato questo assunto, pare un assoluto il fatto che nella narrazione in lingua inglese esaminata
non venga fatta menzione di questo epilogo, né di alcun punto di vista altro rispetto a quello
britannico.
Alcuni passaggi critici, come la battaglia di Agincourt, che rappresenta il tramonto della
cavalleria feudale, non sono esaminati attraverso la lucidità critica delle fonti - che riconosce la
superiorità anglosassone nella scelta delle tecniche di battaglia, prima che nella elezione
dell’animo.
Certo, bisogna tener conto che i testi messi a confronto non possono essere considerati paritari
dal punto di vista dell’indagine storiografica, e tuttavia quello che abbiamo è sufficiente per
delineare questo quadro di presunta imparzialità: i pochi hanno avuto ragione dei molti, la
marmaglia nel fango ha schiantato la nobiltà: schema perfetto per canzoni, poemi, cronache.
Shakespeare portò il suo secolare sostegno teatrale in attesa di quello del cinema. Ed è in
questa versione che quella vittoria è entrata nella mitologia inglese. La mitizzazione di
Azincourt ha nascosto tuttavia il fatto che fu, in fondo, una falsa vittoria. La guerra dei “Cento
anni” si avviò comunque ad una favorevole conclusione per la Francia, che, forgiata da oltre un
secolo di combattimenti, si preparava a divenire la più grande potenza europea, capace di
imporre la sua volontà in tutto il Vecchio Continente.

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