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Centro studi longobardi.

Convegni 1

DESIDERIO
Il progetto politico dell’ultimo re longobardo

Ai del Primo convegno internazionale di studio (Brescia, 21-24 marzo 2013)


a cura di Gabriele Archei

FONDAZIONE
C ENTR O I TALI ANO DI STU DI
S ULL’ALTO M EDIOE VO
S POLETO
2015
Centro studi longobardi. Convegni 1
collana diretta da Gabriele Archetti

Consiglio scienifico

Cenro studi longobardi


Giuliana Albini, Cesare Alzai, Gabriele Archei, Claudio Azzara, Ezio Barbieri
Angelo Baronio, Xavier Barral i Altet, Paolo Chiesa, Alfio Cortonesi, Piero Dalena
Alessandro Di Muro, Carlo Ebanista, Bruno Figliuolo, Germana Gandino, Simona Gavinelli
Roberino Ghiringhelli, Roberto Greci, Wolfgang Huschner, Ewald Kislinger
Massimo Montanari, Elda Morlicchio, Walter Pohl, Marina Righei, Marcello Roili
Lucinia Speciale, Francesca Sroppa, Carmelina Urso, Giovanni Vitolo

Fondazione Cenro italiano di studi sull’alto medioevo


Massimiliano Bassei, Enrico Menestò

Referenze fotografiche
Archivio Cenrale dello Stato, Roma
Archivio dei Civici Musei di Arte e Storia, Brescia
Archivio dell’Associazione per la storia della Chiesa bresciana
Archivio di Stato di Brescia
Archivio di Stato di Reggio Emilia
Biblioteca Antoniana di Padova
Biblioteca Queriniana di Brescia
Biblioteca Capitolare di Vercelli
Cenro studi longobardi, Milano
Comune di Castelseprio (Va)
Fotostudio Rapuzzi, Brescia

© 2015 by Cenro studi longobardi, Milano


© 2015 by Fondazione Cenro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto
Isbn 978-88-6809-091-3
Paolo Delogu
Sapienza Università di Roma

Ritorno ai longobardi

il titolo di questa conversazione fa riferimento essenzialmente ad un fatto personale;


per me si tratta infatti di un ulteriore ritorno ad un argomento di cui mi sono occupato
più volte nella mia carriera di studioso, ma sempre su commissione e sempre a malin-
cuore. Sin da quando, più di trent’anni fa, ho cercato di raccontare, una volta di più
dopo Bognetti, la storia del regno longobardo, mi è parso che in materia ci fosse ben
poco di nuovo da dire; che si rischiasse di pestar l’acqua nel mortaio, affrontando sem-
pre gli stessi problemi, urtando contro le stesse difficoltà e prospettando, magari con
parole diverse, sempre le stesse soluzioni e sempre con lo stesso scoraggiante margine
di incertezza che fa sì che quelle possibili siano alternative e si escludano a vicenda. Lo
stesso recupero di fonti nuove, avvenuto grazie alla ricerca archeologica, anziché risol-
vere mi pare che abbia confermato la difficoltà di arrivare una buona volta a soluzioni
ragionevolmente fondate e condivise. Dunque, se ho accettato di presentare ancora
una volta qualche considerazione d’insieme sui longobardi è stato soprattutto per l’ami-
chevole insistenza degli organizzatori di questo convegno, che hanno voluto accordarmi
fiducia nonostante il mio dichiarato scetticismo e di questo li ringrazio.
Potrei poi aggiungere un motivo più accademico: la constatazione che negli ultimi
decenni i longobardi sono stati oggetto di una revisione storiografica che ha messo in
crisi la raffigurazione tradizionale del popolo e della sua caratterizzazione storica; forse
la sua stessa riconoscibilità. Si è revocato in dubbio che fossero portatori di costumi e
tradizioni riferibili ad un orizzonte culturale “germanico”, che fossero antagonisti del-
l’ordine imperiale bizantino, che restassero separati dai romani sottomessi; si è invece
supposto che fossero privi di memoria collettiva strutturata e di intenti politici condivisi1.

1
Ricapitolazioni degli orientamenti recenti della ricerca sui longobardi in S. GaSPaRRi, I germani immaginari e
la realtà del regno. Cinquant’anni di studi sui longobardi, in I longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, atti del

19 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

Non so però se la ricerca debba arrestarsi a queste osservazioni considerandole un punto


d’arrivo, o se, pur attribuendo ad esse l’attenzione dovuta, non sia opportuno che si cer-
chi di andare oltre. “Ritorno ai longobardi” potrebbe allora indicare l’opportunità di
tornare a investigare se sia mai esistito un popolo, o almeno individui e gruppi sociali e
politici, che nell’italia tra Vi e Viii secolo ritenevano di essere longobardi, esprimevano
questa idea di sé in modi caratteristici, ancor oggi riconoscibili, e agivano di conseguenza.
La questione può sembrare paradossale, eppure essa va posta in questi termini, in rap-
porto ad una storiografia decostruttiva che ha messo in dubbio significato e attendibilità
di tutte le ipotesi esegetiche su cui in passato si era costruita la fisionomia culturale e po-
litica di un popolo che veniva dato per esistente, consapevole e distinguibile.
Si torna dunque al tema dibattutissimo dell’identità, intesa come dato soggettivo
e come dato oggettivo: consapevolezza e comportamenti. anche questo concetto è
stato messo in discussione in base a osservazioni di psicologia sociale, che mostrano
come individui e gruppi coltivino ed esibiscano identità variabili a seconda dei contesti
e delle occasioni, sicché diviene arbitraria l’estrapolazione di una di esse per farne un
tratto qualificante e permanente2. Non sono però persuaso che questa chiave di in-
terpretazione sia appropriata. Se l’affermazione dell’identità dipende dai contesti, è
in relazione ad essi che deve essere valutata la scelta fatta di volta in volta dai soggetti
che si identificano, tenendo però presente che ciascuna volta la scelta identitaria è as-
soluta ed è fonte di comportamenti pratici. Ciò vale per le tifoserie delle squadre di
calcio come per gli scontri etnici nella dissolta iugoslavia, o per quelli religiosi in corso
in varie parti del mondo. Per quanto riguarda l’italia tra Vi e Viii secolo, si tratta di
vedere quali scelte vennero fatte, da chi e in quali contesti, prima di affermare l’eva-
nescenza di una identità longobarda. Su questo argomento esporrò dunque alcune os-
servazioni, concentrandomi sull’Viii secolo per rispettare la cronologia scelta per que-
sto convegno, anche se il problema dell’identità è stato dibattuto piuttosto in relazione
ai tempi dell’invasione e dell’insediamento, sia per i più immediati agganci con la pro-
blematica generale delle invasioni, sia per la rilevanza che in quel primo periodo ha la

XVi Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 20-23 ottobre 2002 - Benevento, 24-27
ottobre 2002), i, Spoleto 2003 (atti dei congressi 16), pp. 3-28; W. P ohL, Geschichte und Identität im Lango-
bardenreich, in Die Langobarden. Herrschaft und Identität, hrg. von W. Pohl und P. Erhart, Wien 2005 (Öster-
reichische akademie der Wissenschaften. Phil.-hist. Klasse. Denkschriften, 329), pp. 557-566.
2
Cfr. ad esempio G. haLSaLL, Barbarian Migrations and the Roman West. 376-568, Cambridge 2007, soprattutto
pp. 35-44; P.J. GEaRy, The Myth of Nations. The Medieval Origins of Europe, Princeton 2002 (trad. it. Il mito
delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, Roma 2009).

20 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

documentazione archeologica, ricca di dati etnografici particolarmente significativi


per la individuazione del gioco delle culture. D’altro lato, la cronologia tarda rende il
lavoro relativamente più facile, grazie a una documentazione scritta meno problema-
tica di quella archeologica, e gli eventuali risultati dell’indagine, qualora ve ne fossero,
potrebbero poi essere proiettati anche sulle epoche precedenti.
Nell’Viii secolo il regno longobardo si presenta, ai sovrani e ai sudditi, come una
solida organizzazione di governo che ha carattere statale. assumendo come riferimen-
to la legislazione di Liutprando, se ne colgono distintamente i tratti, almeno dal punto
di vista del re. il regno viene concepito come un territorio definito, articolato in grandi
regioni geografiche al cui interno distretti amministrativi gerarchicamente concate-
nati, sono retti da ufficiali responsabili verso il re, che esercitano un potere che ha na-
tura di giurisdizione pubblica e perciò sono qualificati come iudices, indipendentemente
dagli effettivi titoli di autorità che potevano essere quello di duca o di gastaldo. La giu-
risdizione è effettuata nell’interesse di tutti i subiecti del re: termine che può essere
tradotto come “sudditi”, a condizione di intendere con questo la loro dipendenza dal
potere pubblico3. La legislazione dei re succeduti a Liutprando conferma questi carat-
teri4. a loro volta i titolari delle funzioni pubbliche riconoscono la natura statale del
regno, l’autorità regia e il carattere delegato della loro autorità sul territorio, con l’ec-
cezione dei duchi di Spoleto e di Benevento, i cui grandi ducati nel corso dell’Viii se-
colo vennero ripetutamente aggregati al regno, senza essere mai veramente assorbiti
in esso. Ma all’interno della grande area regia costituita dalle tre partes di austria,
Neustria e Tuscia, anche gli episodi di rivolta e i colpi di mano non mirano a scardinare

3
Essenziali per questa ricostruzione: Leges langobardorum [ed. F. BEyERLE, Leges Langobardorum 643-866, Wit-
zenhausen 1962 (Germanenrechte. Neue Folge), = LL], Liutprand, 25-27, pp. 113 sgg.; 44, pp. 121 sgg.; 81,
p. 137, circoscrizioni e competenza territoriale degli iudices; 83, p. 138; 85, p. 140; LL, Ratchis, 11, p. 190
sgg.; LL, ahistulf, 4, p. 195 sulla responsabilità degli iudices, abitualmente puniti con ammende, ma in alcuni
casi con la perdita dell’ufficio (LL, Ratchis, 1, 10, pp. 183 sgg.; 189 sgg.; ahistulf, 4, p. 195) o addirittura con
la morte (LL, Ratchis, 13, p. 192 sgg.). Subiecti in LL, Liutprand, anno XV, Prologo: «unde nostri subiecti
non fatigentur» (p. 139). Per la ricostruzione del sistema statale, v. anche P. DELoGU, Lombard and Carolingian
Italy, in The New Cambridge Medieval History, ii, c. 700-c. 900, a cura di R. McKitterick, Cambridge 1991,
pp. 290-319, qui pp. 290 sgg.
4
La struttura delle circoscrizioni giurisdizionali e la gerarchia dei funzionari è ribadita ad esempio da LL, Rat-
chis, 1, 2, pp. 183 sgg.; ahistulf, 9, pp. 196 sgg. L’organizzazione circoscrizionale della giustizia ben presente
anche ai sudditi del regno: i contraenti di una permuta di beni situati in località ricadenti in distretti giudiziari
diversi si impegnavano a difenderne la validità in caso di contestazione «infra ipso locum vel iuditiaria ubi ipsa
res fuerit». Codice diplomatico longobardo, a cura di L. Schiaparelli, 2 voll., Roma 1929-1933 (Fonti per la storia
d’italia, 63-63) [= CDL], ii, 257, a. 771, p. 351).

21 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

l’ordinamento dello stato, bensì ad impadronirsi delle sue strutture5. a livelli più bassi,
in tutto il regno l’autorità regia viene riconosciuta puntualmente: i documenti legali,
anche quelli privati redatti in sedi periferiche, sono datati con gli anni dei sovrani re-
gnanti, la cui successione è scrupolosamente registrata anche da scribi non professio-
nisti6; sono datati col riferimento a sovrani regnanti anche molti monumenti ed epi-
grafi prive di valore legale7; il nome del re è invocato nei giuramenti e nelle deposizioni
giudiziarie8; prestigiosi personaggi formulano nei loro atti privati auspici per la pro-
sperità del re e del regno9. il clero condivide il sentimento di appartenenza al regno: i
sinodi vescovili acclamano e benedicono i re10; le questioni di giurisdizione ecclesiastica

5
Come nei casi delle usurpazioni di Grimoaldo e alahis, o dei conflitti tra vari aspiranti alla successione di
Liutprando raccontati da PaoLo DiaCoNo, Historia langobardorum [= hL], iV, 51; V, 38-41; Vi, 18-22. in
questa e nelle seguenti note non vengono riportate le pagine delle citazioni dall’hL che può essere consultata
sia nell’edizione di G. Waitz, in Monumenta Germaniae Historica [= MGh], Scriptores rerum langobardicarum et
italicarum, sia in quella curata da L. Capo (PaoLo DiaCoNo, Storia dei longobardi, Milano 1992).
6
indicativa dello scrupolo nel registrare l’esercizio dell’autorità regia è la eccezionale datazione di CDL i, 124,
a. 757, (Pisa), p. 367: «Guvernante domno Ratchis famulu Christi iesu principem gentis Languvardorum,
anno primo», che pur facendo riferimento alla ripresa di potere di Ratchis dopo la morte di astolfo, evita di
attribuirgli il titolo regio e sostituisce «guvernante» al consueto «regnante».
7
Un repertorio di iscrizioni ed epigrafi dell’Viii secolo che menzionano il re in carica in M. SaNNazaRo, Os-
servazioni sull’epigrafia della prima età longobarda in Italia settentrionale, in Fonti archeologiche e iconografiche per la
storia e la cultura degli insediamenti nell’alto medioevo, a cura di S. Lusuardi Siena, Milano 2003, pp. 209-222.
8
CDL, i, 81, p. 238: in una causa di libertà l’inquirente interroga l’indagato sollecitandolo a comprovare il
suo stato giuridico: «et pro anima domni regi salvandum dixi ut diceret quales homenis eius livertate savere,
ego illus per me diligenter inquirere». Lo scongiuro per l’anima del re è evidentemente un modo di rafforzare
l’attendibilità della deposizione.
9
Cfr. ad esempio la datazione della charta dotis del gastaldo senese Wuarnefred (CDL, i, 50, a. 730, p. 165):
«regnante excelsum regem Christum filium Dei perpetuum regem et salvatorem Christianorum, atque donno
precelso Liutprandum Langobardorum eiusque famulum caelestium et potestatis, anno regni eius nono de-
cimo»; o quella del documento di fondazione del monastero di San Pietro di Monteverdi (CDL, i, 116, a. 754,
p. 339): «regnante piissimo atque excellentissimo pro salute totius catholice gentis nostre Langobardorum
domno nostro aistulfo rege, anno regni eius Dei protegente sexto». Cfr. anche la narratio della permuta (CDL
i, 113, a. 754, p. 330): «Placuet atque convinet inter ecclesiam sancti Martini nec non et curtes domni regis
et qualiter au [sic] piissimo et a Deo conserbato domno aistolf est demandatum». invocazioni per la ricom-
pensa divina dei re si trovano anche negli atti dei duchi di Spoleto imposti da Ratchis o da Desiderio nel ducato:
Codice diplomatico longobardo [= CDL], iV/1, a cura di C.R. Brühl, Roma 1981 (Fonti per la storia d’italia, 65),
nr. 5 del duca Lupo; nr. 17 del duca Teodicio.
10
L’arcivescovo di Milano Mansueto così ricapitola per l’imperatore Costantino iV i deliberati del sinodo mi-
lanese del 680: «Nos autem omnes qui sub felicissimis ac christianissimis et a Deo custodiendis principibus
nostris dominis Peretharit et Cunibert, praecellentissimis regibus christianae religionis amatoribus sumus una
cum eorum sancta devotione pari tenore et reverentia traditiones sanctorum apostolorum, seu reverendissi-

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Ritorno ai longobardi

vengono sottoposte all’autorità regia il cui intervento è sollecitato e accettato11; i vescovi


ricevono mandati regi e danno corso alle disposizioni in essi contenute12.
Si sapeva bene che il regno aveva tratto origine da una conquista che aveva sop-
presso l’antica sovranità romana. Proprio gli ecclesiastici, che rivendicavano l’antichità
e la continuità delle loro istituzioni distinguevano con precisione il tempus romanorum
e il tempus langobardorum e sapevano anche che la conquista aveva determinato dissesti
nell’organizzazione ecclesiastica13, ma questa consapevolezza storica non ha rilevanza
nella qualificazione dello stato, che non viene concepito come struttura di dominio et-
nico, ma come organizzazione di governo che include e tutela la vasta generalità degli
abitanti del regno, indipendentemente dall’origine e dalla condizione sociale di ciascu-
no, ed è responsabile del benessere collettivo. Questa affermazione richiede qualche
approfondimento, in quanto non coincide né con la visione di Giovanni Tabacco, se-
condo cui ancora nell’Viii secolo il regno aveva la caratteristica di dominazione etnica
di un popolo-esercito sovrapposto ad una restante popolazione giuridicamente libera,
ma priva di prestigio sociale e di identità politica14, né con quella opposta, frutto della

morum patrum […] nos eorum acta vel statuta omni devotione suscipimus» (G.D. MaNSi, Sacrorum Conciliorum
nova et amplissima collectio, Xi, Firenze 1765, col. 205). Cfr. anche il carme celebrativo della sinodo di aquileia
del 698: «[rex Cuningpertus] elictus gente a Deo ut regeret / Langibardorum» (strofe 5); «gloria Regi regum
in perpetuum / canamus omnes, oremus et pariter / sua ut regem Cunincperto dextera / protecat Christus
hic multa per tempora / vitam aeternam deiceps et tribuat» (strofe 19) (ed. G. Waitz, MGh, Scriptores rerum
langobardicarum et italicarum, pp. 190 sgg.).
11
È il caso della famosa disputa tra le diocesi di Siena e arezzo, in cui le parti ecclesiastiche fanno ricorso al-
l’autorità regia e gli inviati del re hanno un ruolo essenziale nel condurre le inchieste e determinare la soluzione
del conflitto (CDL i, 17; i,19; i, 20).
12
CDL ii, 255, a. 771, p. 340, il vescovo Peredeo di Lucca esamina le ragioni di due ricorrenti avendo ricevuto
una «sacram iussionem excellentissimi domni mei regis» che gli imponeva di farlo; anche CDL i, 113, a. 754,
il vescovo Vualprando di Lucca permuta alcuni beni ecclesiastici su richiesta del re astolfo.
13
Tempus romanorum e tempus langobardorum ripetutamente distinti nelle inchieste e nei giudicati relativi al
conflitto di giurisdizione tra i vescovati di arezzo e Siena per dimostrare la continuità dei diritti sotto le diverse
sovranità succedutesi sul territorio (CDL, i, 17, pp. 48, 50; i, 20, pp. 80, 83). anche nel giudicato tenuto dal
duca di Lucca Vualpert per un’altra questione di giurisdizione ecclesiastica l’inchiesta mira ad accertare «a
cuius ipsas diocesis a tempore Romanorum et Langobardorum fuisset» (CDL i, 21, a. 716, p. 86). Per il ca-
rattere eversivo della conquista longobarda, cfr. CDL, i, 17, il vescovo di Siena ricorda che «dum Langobardi
Tusciam occupassent, et Senense civitate menime episcopus fuisset ordinatus», confermato dal vescovo di
arezzo: «postquam Langobardi italia ingressi sunt, primum quidem tempore domno Rothareni regis ordinatus
est in civitate Senense episcopus»(p. 50).
14
G. TaBaCCo, Dai possessori dell’età carolingia agli esercitali dell’età longobarda, «Studi medievali», 10 (1969),
pp. 221-268, in part. pp. 246 sgg., 253 sgg., 265.

23 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

recente revisione storiografica, espressa ad esempio da Patrick Geary, secondo cui ogni
suggestione di dominio etnico era svuotata di senso reale dal fatto che nell’Viii secolo
«i romani erano diventati longobardi», anche se i longobardi erano rimasti tali15.
L’idea che il regno includesse e coordinasse soggetti diversi, ma con parità di di-
ritti, risulta dalla legislazione dell’Viii secolo. Si può ricordare innanzi tutto la famosa
disposizione di Liutprando che disciplinava la redazione degli atti privati, imponendo
che essi dovessero essere stipulati per legem, non importa se longobarda o romana,
purché corrispondessero ad una definita norma giuridica16. Questa disposizione, spesso
messa in rapporto con l’annessione al regno di popolazioni dei territori bizantini, in
realtà non è tanto destinata a legittimare la legge romana, quanto ad assicurare la va-
lidità giuridica degli atti scritti, dando per già consolidata la capacità dei sudditi del re-
gno di seguire ciascuno una lex sua17. Ciò non vuol dire però che esistessero due regimi
giuridici o due fori paralleli, uno per i longobardi, uno per i romani. Le stesse istituzioni
ecclesiastiche, pur godendo di giurisdizione propria e di diritto particolare, seguivano
la procedura longobarda e facevano riferimento alla legge longobarda nelle questioni
che avevano rilevanza civile18. La disposizione di Liutprando si riferiva solo alla reda-
zione delle cartolae, cioè ad atti di natura contrattuale, che impegnavano esclusiva-
mente parti private. Per ogni altra relazione tutti i subiecti, quale che fosse la lex cui

15
GEaRy, The Myth of Nations, p. 126.
16
LL, Liutprand, 91, p. 143.
17
Ibidem, p. 143: «et quiscumque de lege sua subdiscendere voluerit». Sulla legittimità della lex romana nel
regno cfr. anche LL, Liutprand, 127, p. 160. Un probabile caso di esercizio della prassi romana precedente la
legge di Liutprando del 727 è l’atto di vendita redatto a Treviso da una Candiana che non fa alcun riferimento
al consenso di un parente maschio (CDL i, 37, a. 725-726, pp. 128 sgg.). in questo caso si può notare anche
che tutti i personaggi menzionati nell’atto hanno nomi romani o greci. L’atto è comunque datato con gli anni
di regno di Liutprando e rientra dunque nell’area della giurisdizione longobarda. i documenti disposti da
donne longobarde riportano normalmente il consenso del marito o di altro parente, nel testo o nelle sotto-
scrizioni. Cfr. ad esempio CDL i, 36, 67, 76, 120, 123; CDL ii, 129, 157, 226. Sulle peculiarità di Treviso,
anche L.a. BERTo, L’onomastica latina di Treviso longobarda e i suoi rapporti con la “Venetia” lagunare, «Studi
veneziani», 72 (2013), pp. 1-22.
18
il vescovo di Lucca Peredeo, giudicando nel 764 una lite tra due preti della diocesi, fa ricorso alle istituzioni
longobarde della guadia, dei testi e del giuramento, «secundum lege», che sembra essere appunto la legge
longobarda. CDL ii, 182, p. 159: «super haec iudicavimus secundum lege […] ut ipse Gunduald presbiter […]
iuratus se quinto per sancta Dei evangelia diceret: “quia pretio illo […] de proprio pretio ex iura parentum
meorum fuit, nam per nullo ingenio pertinuit ecclesie Sancti Cassiani, nec legibus ipsam rem perdere pro hoc
non debeo”». L’osservanza della legge canonica nelle relazioni interne della chiesa è attestata invece nella pro-
missio resa dal prete Rotperto allo stesso vescovo di Lucca Peredeo: «et tibi et ad successoribus tuis obedire
promitto legibus nostrae sanctae canonice in omnibus» (CDL ii, 202, a. 766, p. 204).

24 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

personalmente si rifacevano, ricadevano sotto la «regni dicione»19, erano inquadrati


nel sistema delle circoscrizioni giurisdizionali territoriali, facevano capo allo stesso iu-
dex, il quale era però espressione dell’autorità del regno, non del predominio di una
stirpe. Esplicite disposizioni regie obbligavano lo iudex a rendere imparzialmente giu-
stizia a quislibet homo della sua iudiciaria, indipendentemente dalla sua qualificazione
sociale o etnica, che poteva essere esibita, ma era ininfluente20. Egualmente, quislibet
homo, non solo chi vantava una specifica identità longobarda, se riteneva di aver subito
ingiustizia dallo iudex poteva ricorrere al tribunale regio21.
Dovrebbe apparire evidente che queste concezioni non configurano alcun predo-
minio etnico, come riteneva Tabacco. altre disposizioni suggeriscono anzi che le stesse
tradizioni longobarde fossero solo una parte delle situazioni giuridiche tenute presenti
dai re dell’Viii secolo nella loro attività legislativa. Sono le disposizioni introdotte dalla
clausola «si quis langobardus» invece della più frequente e generica «si quis» o «si quis
liber homo». Esse sembrano riferirsi a fattispecie giuridiche particolari, tra l’altro per
modificarle22, ma all’interno di un orizzonte normativo più ampio, che mirava all’in-
teresse e alla tutela di tutti gli abitanti del regno, senza distinzioni di identità etnica.
Ciò del resto era dichiarato dagli stessi re. alcuni prologhi delle leggi di Liutprando
distinguono come beneficiari dell’azione legislativa due categorie di soggetti: i longo-
bardi appunto e i pauperes23. a chi si riferisse Liutprando parlando di pauperes può es-
sere materia di discussione. a prima vista il termine sembrerebbe confermare l’ipotesi

19
LL, Liutprand, 15, pp. 106: «Quicumque homo sub regni nostri dicione cuicumque amodo uuadia dederit».
20
LL, Ratchis, 1, p. 183: «Si quis iudex amodo neglexerit arimanno suo, diviti aut pauperi, vel cuicumque ho-
mini iustitiam iudicare, amittere debeat honorem suum»; LL, Ratchis 2, p. 184: «Si quis vero arimannus aut
quislibet homo ad iudicem suum prius non ambulaverit […] conponat […] solidos quinquaginta. Propterea pre-
cepimus omnibus, ut debeat revertere unusquisque causam habentem ad civitatem suam, ad iudicem suum
[…]. Et si iustitiam non receperit, tunc veniat ad nostram presentiam».
21
LL, Liutprand, 28, p. 114; 96, p. 145; LL, Ratchis, 1, p. 183; 2, p. 184; 10, p. 190; 14, p. 193.
22
Si tratta per lo più di disposizioni che regolano materie successorie. Sul significato delle clausole col riferi-
mento distinto ai longobardi cfr. anche B. PohL-RESL, Legal practice and ethnic identity in Lombard Italy, in
Strategies of Distinction. The Construction of Ethnic Communities. 300-800, a cura di W. Pohl, Leiden-Boston-
Köln 1998, pp. 205-219.
23
LL, Liutprand, Leggi dell’anno Xii (724), Prologo, p. 123: «Ergo si pro gentis nostrae salvatione aut pau-
perum fatigatione aliquid possumus conicere, quod in edicti corpore adiungamus»; leggi dell’anno XV (727),
p. 139: «modo quidem una cum nostris iudicibus et reliquis Langobardis fidelibus nostris […]. iterum pro
quietudine pauperum et omnium Langobardorum fidelium nostrorum tranquillitatem prospeximus in edicti
corpore illa adiungere, unde antea erat incerta definitio».

25 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

di Tabacco, che nel regno vi fossero solo due ceti: i longobardi e una massa di poveri
massari, liberi giuridicamente, ma ridotti in condizioni di soggezione sociale e politica
rispetto ai primi, di cui la legge sanciva il predominio, dando ad esso un fondamento
etnico24. È però possibile proporre una lettura diversa, tenendo presente che anche
Rotari dichiarava di aver compiuto l’opera legislativa «propter assiduas fatigationes
pauperum», e certo egli non vedeva in quei pauperes una «massa di dominati» che al-
l’epoca non potevano essere altri che i romani, ma piuttosto le vittime di una violenta
competizione sociale in corso tra gli stessi longobardi25. in Liutprando il significato di
pauperes può essere ancora diverso: in un contesto ideologico che poneva l’ispirazione
religiosa a fondamento dell’opera di legislazione, esso poteva indicare coloro che non
presentavano una completa identità longobarda, ed erano perciò privi del prestigio
sociale e politico connesso ad essa, senza però essere miserabili o emarginati; anch’essi
facevano parte del popolo del regno ed erano oggetto della sollecitudine del re, che
rinnovava e riformava la legge tradizionale per tutelare tanto loro quanto coloro che
erano considerati propriamente longobardi. Ma quale che sia la lettura migliore, i due
prologhi confermano comunque l’assunto fondamentale: la legge del re riguardava
tutti i subiecti, quelli identificati come longobardi e altri che tale connotazione non ave-
vano, ma erano comunque anch’essi soggetti di diritto; il re aveva cura di tutti simul-
taneamente. Difficile vedere in questo l’affermazione o la consacrazione del dominio
etnico di un gruppo sociale sugli altri; piuttosto si dovrà capire chi fossero quei longo-
bardi e in cosa si distinguessero dagli altri.
Questo è ciò che proverò a fare tra un momento. Ma prima vorrei ancora notare
che un riflesso della concezione del regno come ambito ideale e territoriale di un potere
sovrano che include tutti gli abitanti, indipendentemente dalla loro identità di stirpe,
può essere colto in qualche testo che connota tale ambito facendo riferimento non al
dominio longobardo, ma ad una diversa tradizione storica e culturale. Nella termino-
logia ufficiale il regno veniva definito provincia, indicando con questo termine un ter-
ritorio delimitato da confini, entro i quali vigevano i rapporti di diritto, ma privo di

24
TaBaCCo, Dai possessori dell’età carolingia, p. 253: «Ma in italia la ‘massa’ dei liberi più umili […] non era
quella dei Longobardi, o dei Romani incorporati nell’esercito, […] ma erano quei massari che non fossero
ridotti giuridicamente in servitù, tutti i massari collegati, ai fini della giustizia, col potere pubblico. […] Massa
di dominati, pur se formalmente liberi».
25
LL, Rothari, Prologo all’Editto, p. 16. Ratchis recupera l’impostazione di Rotari nel prologo delle leggi del-
l’anno i, p. 183: «rectum nobis paruit esse una cum nostris iudicibus, ut homines potentes et pauperes qui
suam quaerunt iustitiam, minime fatigentur», dove pauperes è contrapposto a potentes, non a divites, ribadendo
il valore politico, non economico, della distinzione.

26 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

una specifica identità26. altrimenti i testi regi, legislativi e altri, impiegavano il riferi-
mento, anch’esso territoriale, alle tre grandi partes di austria, Neustria e Tuscia. Ma
gli atti privati rogati in Emilia e nel Veneto sono datati con gli anni di regno dei re «in
italia», termine col quale è probabile che si riferissero essenzialmente all’italia set-
tentrionale27; «italia» compare però anche in un documento lucchese come riferimen-
to territoriale distinto e contrapposto a quello di provincia, ma anch’esso dotato di ri-
levanza giuridica28. Nelle tradizioni regionali raccolte e pubblicizzate dagli scribi dei
documenti esisteva dunque una raffigurazione non etnica del territorio del regno, che
si conciliava senza problemi con l’identità longobarda del re.
Suggestioni analoghe, ma con consapevolezza maggiore, si riscontrano in altri am-
bienti, caratterizzati da formazione culturale elevata, vicini alla corte o ai grandi del re-
gno. Testi di natura aulica o commemorativa riferiscono talvolta l’autorità del re longo-
bardo ad un territorio ideale designato con i termini dotti di ausonia, Esperia, o proprio
italia29, con una ambiguità concettuale che deriva dal rapporto non precisato tra il valore
antico del termine e l’estensione effettiva del potere regio. Quest’ambiguità si risolve
però con Paolo Diacono, che esplicitamente identifica ausonia/italia con l’intera peni-
sola facendone l’ambito tendenziale del dominio longobardo. L’espressione più eloquente
di questa concezione è costituita dal racconto del mitico viaggio del re autari fino a Reg-

26
Provincia come territorio del regno, ad esempio in LL, Liutprand, 48, p. 122; 85, p. 140; ma già in Rotari,
Prologo, p. 16 (provincia Italia) e ai capp. 3-5, p. 18; 221, p. 59; 264 p. 69.
27
CDL i, 14, 37 (Treviso); i, 52, 60, 64 (Vianino-Borgo San Donnino); i, 54, 59, 79, 109 (Varsi, isola del
Ceno-Piacenza); ii, 129 (Varsi); 142 (Castell’arquato-Piacenza); 159 (Varsi); 168 (Ceneda).
28
CDL ii, 287, a. 773, p. 419: «et nonnulli liceat nolle quod semel voluit; sed sicut pater iudicat, in eo mode-
ramen persistat eo quod scriptum est quod partibus Etalie usus capeat, non solum Etalie, sed omnis provincie».
il testo, di difficile comprensione, sembra porre una distinzione tra «Etalia» – che intenderei come “italia”
– e «provincia», anche se non è chiaro che cosa esattamente l’estensore intendesse con i due termini.
29
Epitaffio del re Cuniperto: «quem dominum italia patrem / atque pastorem / inde flebile maritum iam vidua
/ gemet» (P. RUGo, Le iscrizioni dei secoli VI-VII-VIII esistenti in Italia, V. La Neustria, Cittadella 1980, p. 100,
nr. 113; F. DE RUBEiS, Le forme dell’epigrafia funeraria longobarda, in Il futuro dei longobardi. L’Italia e la costruzione
dell’Europa di Carlomagno, a cura di C. Bertelli e G.P. Brogiolo, Milano 2000, p. 144, nr. 213). Memoria mo-
numentale del vescovo Cumiano: «hunc misit Scothia ad italicos fines» (RUGo, Le iscrizioni, p. 116, nr. 137);
«itala regna» nell’epitaffio composto da Paolo Diacono per la figlia di Carlomagno adelaide (PaoLo DiaCoNo,
Gesta episcoporum Mettensium, ed. G. Pertz, MGh, Scriptores, ii, Berlino 1829, p. 267); epitaffio del duca au-
doaldo: «sub regibus Liguriae ducatum tenuit audax» (RUGo, Le iscrizioni, p. 97, nr. 107; DE RUBEiS, Le forme
dell’epigrafia, p. 145, nr. 214); epitaffio della regina ansa: «hic namque ausonii coniux pulcherrima regis/
ansa iacet» (ed. G. Waitz, MGh, Scriptores rerum langobardicarum et italicarum, p. 191); anche Paolo Diacono,
Acrostico sulle età del mondo: «alta pace nunc exultat ausonia regio/ Desiderio simulque adelchis regnantibus»
(ed. K. NEFF, Die Gedichte des Paulus Diaconus. Kritische und erklärende Ausgabe, ii, München 1908, p. 9).

27 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

gio Calabria, dove avrebbe fissato i confini del regno30. Ma anche il lungo e dettagliato
excursus sulla struttura geo-storica della penisola italiana posto proprio all’inizio della
Storia dei longobardi è motivato dalla considerazione che tutta la penisola fu il quadro nel
quale si sarebbero svolte le vicende dei longobardi31. Ed è significativo il fatto che nella
Historia romana Paolo Diacono considerasse l’italia come ambito unitario di un regnum o
di una ditio, che erano stati già esercitati, dopo la fine del dominio romano nella penisola,
da odoacre e da Teodorico32. Del resto la prospettiva peninsulare non era solo una raf-
figurazione ideale della cultura dotta: essa corrisponde alla politica di espansione di Liut-
prando e dei suoi successori non solo verso i ducati longobardi centro-meridionali, la cui
tradizionale autonomia divenne oggetto di una tenace politica di riduzione sotto l’autorità
regia, perseguita da tutti i re dell’Viii secolo, ma anche verso le terre bizantine, su cui
non esisteva alcun fondamento rivendicativo se non quello determinato dal fatto che si
trovavano all’interno della penisola italica. È possibile che l’idea di un regno esteso su
tutta la penisola, mediatore autonomo fra il mondo bizantino e quello franco, divenisse
consapevole aspirazione politica proprio al tempo di Desiderio.
Come che sia di questa ipotesi, che probabilmente verrà ripresentata durante i la-
vori del congresso, ciò che va osservato è che in questo regno che tende ad assumere
definizione territoriale e progressivamente ingloba territori e popolazioni nuovi, un
regno in cui le diversità interne determinate da tradizioni giuridiche eterogenee non
erano più avvertite come fattore di divisione o di esclusione, conserva però forte rilievo
la rivendicazione dell’identità longobarda come elemento fondante della sovranità.
Sotto questo profilo le osservazioni di Tabacco recuperano pertinenza, anche se con
un significato diverso, e nello stesso tempo si possono rettificare le concezioni inte-
grazioniste, che immaginano il regno abitato ormai solo da una popolazione meticcia
tutta riunita sotto la generica etichetta di longobardi. La testimonianza fondamentale
cui fare riferimento è costituita ancora una volta dalla legislazione e dai modi in cui

30
Per ausonia = italia, v. hL, ii, 24: «italia etiam ausonia dicitur ab ausonio, Ulixis filio». La spedizione di
autari in hL, iii, 32.
31
hL, ii, 14-24; ii, 24: «igitur postquam de italiae provinciis vel ipsius nomine, intra quam res gestas descri-
bimus, sufficienter est dictum». La proiezione peninsulare dell’interesse storico di Paolo Diacono rilevata
anche da W. GoFFaRT, The Narrators of Barbarian History: Jordanes, Gregory of Tours, Bede and Paul the Deacon,
Princeton 1988, pp. 348 sgg.
32
Historia romana, XV, 10, edizione a. Crivellucci (Fonti per la storia d’italia), Roma 1914, p. 215: «igitur
deiecto ab augustali dignitate augustulo, Urbem odovacer ingressus totius italiae adeptus est regnum»; anche
XV, 18, p. 222: «igitur Theodoricus extincto apud Ravennam odovacre, totius italiae adeptus est ditionem».

28 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

essa veniva prodotta. i re dell’Viii secolo deliberano le aggiunte e le modifiche al corpo


fondamentale dell’Editto in assemblee annuali alle quali partecipano non solo esperti
del diritto e titolari di giurisdizione, indicati sinteticamente come iudices, ma anche
altri deliberanti che vengono indicati collettivamente come longobardi, spesso con l’ag-
giunta che si tratta di fedeli del re33.
Nessuna legge dell’Viii secolo è promulgata in nome e per autorità del solo re; al
contrario, non solo al momento dell’approvazione, ma anche in quello dell’elabora-
zione della norma i longobardi, insieme agli iudices, hanno un ruolo fondamentale34.
Essi appaiono dunque i titolari del potere di legiferare accanto al re, in quanto rap-
presentanti della tradizione longobarda, convocati e giunti da tutte le partes del regno.
Sotto il profilo ideologico e costituzionale, la legislazione, nonostante i caratteri origi-
nali che assume nell’Viii secolo35, conserva una forte connotazione di stirpe: la legge
del regno è intesa come legge del popolo longobardo, che fa corpo con l’Editto nazio-
nale del re Rotari integrandolo e confermandone la perdurante validità.
Va detto che mentre ribadivano l’identità longobarda della sovranità, i re si adope-
ravano anche per dare a tale identità nuovi fondamenti ideali. La connotazione essenziale
della gens langobardorum diventa, nei protocolli regali, e probabilmente anche nella co-
scienza di molti esponenti della società politica, la sua cattolicità, che la pone sotto la pro-
tezione diretta di Dio36. La legislazione, che Rotari aveva costruito e legittimato facendo

33
L’indicazione ricorre in quasi tutti i prologhi delle leggi di Liutprando, nonché in quelli di Ratchis e di astol-
fo. Cfr., ad esempio, LL, Liutprand, leggi dell’anno V, p. 102: «cum omnibus iudicibus nostris de partibus
austriae, Neustriae et de Tusciae finibus, seu ceteris nostris langobardis»; leggi dell’anno iX, p. 110: «una
cum iudicibus et reliquis langobardis fidelibus nostris»; LL, ahistulf, leggi dell’anno i, p. 194: «residente intra
Ticinum in palatio nostro, una cum cunctis iudicibus et langobardis universarum provinciarum nostrarum»;
inoltre anche i testi citati alle note seguenti.
34
LL, Liutprand, 77, p. 135: «ideo autem hoc scripsimus quia etsi adfictum in edictum propriae non fuit,
tamen omnes iudices et fideles nostri sic dixerunt, quod cauuarfeda antiqua usque nunc sic fuissit»; LL, Liut-
prand, 99, p. 147: «de puero intra aetatem decrevit clementiam notram cum nostris iudicibus vel reliquis lan-
gobardis». il processo di formazione della legge è ben descritto in LL, Liutprand, Prologo alle leggi dell’anno
XiV, p. 132: «Quin etiam et iudicis atque fedelis nostri de partibus austriae et Neustriae nobiscum adfuerunt,
et haec omnia inter se conlocuti sunt, et nobis renuntiantes nobiscum pariter statuerunt atque difinierunt».
35
Per cui v. P. DELoGU, Il regno dei longobardi, in P. DELoGU, a. GUiLLoU, G. oRTaLLi, Longobardi e bizantini,
Torino 1980 (Storia d’italia diretta da G. Galasso, i), pp. 125-144.
36
intitolazioni regie nelle leggi: LL, Liutprand, anno V, p. 101: «Liutprand, excellentissimus rex gentis fili-
cissimae ac catholicae Deoque dilectae Langobardorum»; analogamente nelle intitolazioni dell’anno Viii, p.
106; anno iX, p. 109; anno Xii, p. 124; LL, ahistulf, leggi dell’anno V, Prologo, p. 197: «Ego in Dei omni-
potenti auxilio ahistulf, praecellentissimus rex catholicae gentis Langobardorum». Cfr. anche LL, Ratchis,
leggi dell’anno ii, Prologo, p. 185: «ipsius [Christi] auxiliante misericordia ea, que genti nobis commissae

29 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

riferimento all’eredità di consuetudini giuridiche che risalivano all’antichità e costituivano


la tradizione del popolo, diventa sotto Liutprando un atto di devozione, ispirato a un ideale
di giustizia che riflette la giustizia divina ed è finalizzato ad impetrare la misericordia di
Dio a favore del re e della sua gens37. Effetto atteso della legislazione regia è la salvatio della
gens langobardorum: un concetto di natura essenzialmente religiosa e spirituale che nei
testi di Liutprando accompagna o sostituisce quello di status o stabilitas gentis, ricorrente
in molti atti devozionali dei re fin dal secolo precedente38. Ma mentre stabilitas è essen-
zialmente concetto politico, relativo alla tranquillità e alla perpetuazione della gens, la sal-
vatio configura, per Liutprando, una prospettiva di elevazione morale perseguita attraverso
la legislazione che intende allontanare i subiecti dall’errore, inteso ora come peccato. Nella
concezione di Liutprando la cattolicità comportava un rinnovamento sostanziale della
gens langobardorum, che l’avrebbe resa veramente «Deo dilecta»39.

conveniunt, id est catholice et Deo dilecte Langobardorum, statuenda previdimus». il concetto ricorre anche
in documenti privati, ad esempio in CDL, ii, 293, a. 774, p. 434: «sicut a principibus huius gentis catholice
Langubardorum in aedicti pagina est institutum».
37
Legge di Dio come riferimento ideale: LL, Liutprand, a. i (713), Prologo, p. 99: «ea quae iuxta Dei legem nobis
congrua paruerunt»; LL, Liutprand, a. iX (721), Prologo, p. 109: «ea quae recta et secundum Deum tranquilla
nobis conparuerunt»; LL, Liutprand, a. Xii (724), Prologo, p. 124: «ut omnes causae per rationem et iustitiam
terminentur, nec sit aliquis error, sed magis clarescat omnibus sua [Dei] iustitia, unde sine intermissione nomen
Domini benedicatur». Conseguenze spirituali della legislazione: LL, Liutprand, a. Xi (723), Prologo, p. 115:
«quoniam quidem superius in hoc edicti corpore ea, quae nobis et nostris iudicibus vel ceteris langobardis congrua
paruerunt, in quattuor voluminibus adiungere curavimus, et nunc si aliquid pro gentis nostrae salvatione adhuc
adicere possumus, credemus pro his Dei misericordia adipisci et retributionem aeternam ab ipso domino iesu
Christo nihilominus promereri»; LL, Liutprand, a. Xii (724), Prologo, p. 123: «ergo si pro gentis nostrae sal-
vatione aut pauperum fatigatione aliquid possumus conicere, quod in edicti corpore adiungamus»; LL, Liutprand,
a. XVi (a. 728), Prologo, p. 145: «Pluribus iam quidem vicibus in antiquo edicti corpore ea adiungere curavimus
quae pro salute animae et gentis nostrae salvatione esse prospeximus […] considerantes quae secundum Deum
recta esse cognovimus […] non pro aliqua vana gloria aut laude humana querendum, sed Dei omnipotenti pla-
cendo et nostros de errore tollendo subiectos». Fondamento divino della giustizia anche in LL, ahistulf, Prologo
delle leggi dell’anno V (755), p. 197: «Quoniam prophetica nos vacinatio admonet dicens: “iusta iudicate filii
hominum”, et alibi: “iustitiam discite qui habitatis terram, quia iustus dominus iustitiam dilexit”».
38
Status o stabilitas del regnum o della gens langobardorum ad esempio in diploma di Cuniperto a. 688 [CDL,
iii/1, a cura di C.R. Brühl, Roma 1973 (Fonti per la storia d’italia, 64), doc. 7, p. 28]; diploma di ariperto ii
a. 707 (CDL, iii/1, 8, p. 33); diploma di Liutprando a. 714 (CDL, iii/1, 11, p. 47). Dopo Liutprando il concetto
ritorna nei diplomi di Ratchis a. 747 (CDL, iii/1, 21, p. 96); Desiderio a. 767, 772 (CDL, iii/1, 39, p. 234;
41, p. 241). Tutti i diplomi dei re longobardi presentano problemi testuali dovuti alla tradizione per lo più in-
diretta. Tuttavia i testi citati in cui ricorre la menzione della stabilitas sembrano accettabili: cfr. in merito le
introduzioni dello stesso Brühl ai singoli diplomi.
39
Pro peccatis, peccatis imminentibus, peccati honus: LL, Liutprand, 17, p. 108; 130, p. 162; 134, p. 165; Prologo
leggi anno V, p. 102; Notitia de actoribus regis, 2, p. 179. Peccatis facientibus: LL, Ratchis, Prologo leggi anno

30 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

La connotazione cattolica della gens langobardorum venne mantenuta dai re suc-


ceduti a Liutprando: da Ratchis, che ribadì anche l’idea che la legislazione era finaliz-
zata a promuovere il bene e salvare le anime40; da astolfo con la più pratica motiva-
zione di eliminare gli errori fatti dai giudici nell’amministrare la giustizia a causa del-
l’obscuritas della legge41, ma anch’egli facendo riferimento alla giustizia divina «perché
il giusto Signore predilesse la giustizia». Diritto e religione sono dunque i due tratti
con cui i re dell’Viii secolo ridefinirono l’identità morale e istituzionale della gens lan-
gobardorum, differenziandola dalla concezione di Rotari che ancora la configurava in
relazione alle tradizioni ataviche di un popolo-esercito, sia nella linea dell’istituzione
regia che in quella degli usi sociali e giuridici.
Di questa nuova concezione dei valori fondanti l’identità della gens si ha anche
una prova indiretta, ma significativa. La storiografia moderna ha dato molto rilievo al
fatto che al corpus della legislazione longobarda venne talvolta associata come prologo
l’Origo gentis langobardorum, questa sintetica esposizione dell’origine mitica del popolo,
della sua migrazione pre-italica e delle imprese dei re fino a poco dopo la metà del Vii
secolo. Ma se questa associazione venne realmente compiuta al tempo in cui fu com-
posta l’Origo, e ciò spiega perché Paolo Diacono la ritenesse scritta dallo stesso Rota-
ri42, successivamente essa venne trascurata. i codici delle leggi longobarde compilati
fra il tardo Viii e inizi del iX secolo non la recano; probabilmente non è un caso che
il suo testo sia tramandato solo da tre codici relativamente tardi, del X e Xi secolo,

ii, p. 186. Diabolum instigantem: LL, Liutprand, 138, p. 168. Salvatio anche in LL, Ratchis, 1, p. 184 e nel di-
ploma di Desiderio, CDL, iii, 43, a. 770/72, ma con riferimento, rispettivamente, a «terrae istius» e «huius
patriae». il concetto venne successivamente ripreso nel ducato/principato longobardo di Benevento: cfr. W.
DEETERS, Pro salvatione gentis nostrae. Ein Beitrag zur Geschichte der langobardischen Fürsten von Benevent,
«Quellen und Forschungen aus italienischen archiven und Bibliotheken», 49 (1969), pp. 387-394.
40
LL, Ratchis, Prologo dell’anno 746, p. 186: «[il suo predecessore Grimoaldo] que […] ad cultum salutis au-
gendum minuendumque malum adiunxit»; la sua stessa legislazione determinata dalla constatazione che «dum
pravi homines ea quae ad dominum pertinent non considerant, magis huius saeculi lucrum , quam animarum
suarum remedium intendunt […] quoniam peccatis facientibus multos homines neglegenter […] in periurio
cadere cognovimus».
41
LL, ahistulf, leggi dell’anno V, a. 755, Prologo, p. 197: in particolare «praedecessorum nostrorum omnia
instituta perpendens, quedam ibi repperimus non adnexa, de quibus maximus error nostros iudices ad danda
iudicia involvebat».
42
hL, i, 21: «hoc si quis mendacium et non rei existimat veritatem, relegat prologum edicti, quem rex Rothari
de Langobardorum legibus conposuit, et pene in omnibus hoc codicibus, sicut nos in hac historiola inseruimus,
scriptum inveniet». Si può notare il «pene in omnibus codicibus», dovrebbe confermare il fatto che l’associa-
zione non era costante.

31 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

composti in circostanze e ambienti decisamente mutati43. L’Origo, che attribuiva al no-


me e al popolo longobardo un’origine mitica in cui avevano ruolo fondamentale gli dei
pagani Wotan e Freia, doveva suscitare perplessità e sospetto nel clima culturale e ideo-
logico dell’Viii secolo. Probabilmente non è un caso che la lista dei re in essa contenuta
si interrompa col regno di Grimoaldo. Dopo di allora il testo non venne più aggiornato,
probabilmente perché non corrispondeva più alla raffigurazione di un’identità collettiva
della gens langobardorum adeguata ad un clima culturale diverso. Paolo Diacono, che
più tardi avrebbe riportato la storia dell’imposizione del nome da parte di Wotan, con-
temporaneamente la avrebbe esorcizzata, dichiarandola favola ridicola44. Una successiva
narrazione dell’origine del popolo, preposta agli inizi del iX secolo ad una raccolta delle
leggi, la ignorò completamente, insistendo invece sul processo di cristianizzazione come
fondamentale caratteristica dell’identità storica dei longobardi45.
Del resto, anche la storia pre-italica del popolo longobardo sembra che perdesse
interesse, tanto che Paolo Diacono, nel recuperarla appunto dall’Origo, dovette poi
invocare l’autorità della fonte per garantire la realtà dei fatti che narrava, su cui si at-
tendeva incredulità46. Tuttavia riforma della legge e cattolicità non toglievano valore,
nella concezione regia, all’antichità e alla continuità della tradizione giuridica nazio-
nale. Questa era rappresentata ora dalla codificazione di Rotari, che conservava im-
mutata validità in tutte le disposizioni non modificate dai re dell’Viii secolo, ed era
perciò da loro più volte richiamata, insieme alla gloriosa memoria del re legislatore47.
Restavano in vigore perfino le arcaiche e talvolta grottesche procedure previste per la
composizione di plagas aut feritas, o il diritto dei familiari di uccidere la donna libera
che si era unita ad un servo, o del dominus di uccidere il servo colpevole di furto48.

43
La circostanza rilevata anche da W. PohL, La costituzione della memoria storica: il caso dei longobardi, in Studi
sulle società e le culture del Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di L. Gatto, P. Supino Martini, ii, Firenze
2002, pp. 563-580, qui pp. 573 sgg.
44
hL, i, 8: «Refert hoc loco antiquitas ridiculam fabulam», e poi: «haec risu digna sunt et pro nihilo habenda».
45
Historia langobardorum codicis Gothani, edizione G. Waitz, MGh, Scriptores rerum langobardicarum et italica-
rum, pp. 7-11.
46
il brano di hL, i, 21, riportato a nota 42, segue infatti l’esposizione delle vicende dei re pre-italici Tato e
Waccho e delle loro vittorie su altri popoli barbarici.
47
ad esempio: LL, Liutprand, 8, p. 103; 15, p. 107; 20, p. 111; 24, p. 112; 65, p. 130; 78, p. 136; 94 p. 144;
96, p. 146; 130, p. 162; 141, p. 171; LL, Ratchis, leggi dell’anno ii, a. 746, Prologo, p. 185.
48
Composizione di plagas aut feritas secondo il dettato dell’Editto: LL, Liutprand, 123, p. 159; 124, p. 159;
134, p. 165. Uccisione della donna libera che sposa un servo: LL, Liutprand 24, p. 112, con riferimento a LL,
Rothari 221; uccisione del servo da parte del dominus: LL, Liutprand 64, p. 129.

32 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

L’editto, con tutte le successive modifiche, costituiva patrimonio storico dei longo-
bardi, che i re custodivano e trasmettevano, pur aggiornandolo49.
Ci si può allora domandare nuovamente se i “longobardi” che nelle leggi appaiono
esercitare quell’essenziale ruolo deliberativo e costituzionale che si è detto, corrispon-
dano a tutta la popolazione del regno, o solo ad una parte di essa. Già si è ricordato che
nell’Viii secolo il regno comprendeva individui che vivevano a legge romana e forse
avevano almeno in parte origine romana: ecclesiastici, ma anche laici, oltre a gente
proveniente dalle provincie bizantine50. Essi erano comunque sudditi del re longobardo,
ma possono essere esclusi dall’indagine sulla consistenza e l’identità dei longobardi nel
regno. Tra l’altro è degno di nota il fatto che nei protocolli delle assemblee legislative
non sia mai menzionata la presenza di ecclesiastici, che godevano appunto di un diritto
speciale. Ma altre differenze, meno chiaramente definibili, sembrano esistere nella po-
polazione del regno, anche tra coloro che professavano la legge longobarda.
i protocolli di alcune assemblee legislative del tempo di Liutprando distinguono tra
iudices e longobardi da un lato, che esercitano col re la funzione legislativa, e dall’altro
un «reliquus populus», che pure assiste all’assemblea, ma, a quanto pare, senza capacità
deliberante51; inoltre, come già notato, frequentemente i «longobardi» deliberanti sono
qualificati come «fedeli del re». Essi dunque sembrano distinguersi dalla totalità del po-
polo del regno, ma cos’era allora questo populus e in che cosa era diverso dai longobardi?
Come ho già suggerito, è possibile ipotizzare che esso comprendesse uomini liberi che
pur avendo pieno inquadramento nel regno, tanto da poter essere convocati alle as-
semblee regie, non rappresentavano integralmente la tradizione longobarda, non erano
inseriti in un rapporto di specifica fedeltà al re. Certamente non erano poveri massari

49
antichità come caratteristica qualificante del patrimonio giuridico longobardo in LL, ahistulf, leggi dell’anno
i, Prologo, p. 194: «[lacuna] in generatione et tempora antiquorum Langobardorum promiserunt et antiquorum
suorum dispositiones usque nunc servaverunt. Sed modo […] previdimus enim ut cum edictus Langobardorum
antiquorum regum predecessorum nostrorum fuerat institutum, paruit in eius volumine adaugeri».
50
Per le annessioni di territori bizantini in Emilia: hL, Vi, 49. «Romani» a Pavia, in rapporto con la corte:
hL, V, 37 (Teodote «puellam ex nobilissimo Romanorum genere orta» al tempo del re Cuniperto; forse di
origine romana anche il Senator figlio di albino autore di una donazione pia al tempo di Liutprando, CDL, i,
18, pp. 51 sgg.).
51
LL, Liutprand, leggi dell’anno i, p. 100: «Ego in Dei nomine Liutprand […] una cum omnibus iudicibus
tam de austriae et Neustriae partibus, necnon et de Tusciae finibus, vel cum reliquis fedelibus meis lango-
bardis et cuncto populo adsistente»; Leggi dell’anno Viii, p. 106: «una cum inlustribus veris obtimatibus meis
Neustriae, austriae, et Tusciae partibus, vel universis nobilibus langobardis […] asistente omni populo». La
qualifica di nobiles attribuita ai longobardi nell’ultimo testo è del tutto isolata nei prologhi e va probabilmente
intesa come espressione d’onore piuttosto che come specificazione sociologica.

33 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

emarginati, ma nemmeno partecipi a pieno titolo della sovranità longobarda. Su cosa


poteva basarsi la distinzione? Non su un dato etnico. Difficile immaginare che il «re-
liquus populus», anzi il «cunctus populus» fosse costituito da romani, o da discendenti
dei romani vinti. La risposta va cercata piuttosto nella configurazione giuridica e ideo-
logica della società del regno, come essa si era venuta definendo nell’Viii secolo. La
documentazione consente infatti di credere che vi fosse una notevole differenza tra la
semplice condizione di libertà personale, comunque essenziale per l’esercizio della ca-
pacità giuridica in termini di iniziativa e proprietà, e il godimento della pienezza dei di-
ritti politici con la partecipazione attiva all’esercizio di funzioni sovrane.
Uno spunto per la soluzione del problema può venire dalla qualifica di exercitalis
che accompagna frequentemente i nomi di attori e testimoni nelle carte private, anche
se con questa indagine si torna ad impelagarsi in una questione quanto mai spinosa.
Gli exercitales costituiscono una categoria distinta di uomini liberi; ciò emerge dalla
ben nota inchiesta condotta a Siena dal notaio regio Gunteram nel 715 per appurare
la dipendenza ecclesiastica di un certo numero di pievi e monasteri contesi fra il ve-
scovo di Siena e quello di arezzo52. Le deposizioni dei testimoni sono raccolte e regi-
strate per categorie distinte: prima gli ecclesiastici, poi gli exercitales e i minori fun-
zionari locali, infine i liberi homines privi della qualifica di exercitalis. Chi fossero gli
exercitales è suggerito dal termine stesso: persone tenute al servizio militare e, va spe-
cificato per una serie di considerazioni che si faranno in seguito, al servizio militare
pubblico, al seguito del re o dei titolari locali dell’autorità pubblica: i duchi e i gastaldi.
Che differenza ci fosse tra loro e i semplici liberi homines è più difficile da stabilire. Si
è supposto che i liberi del regno divenissero exercitales in funzione dell’età e cessassero
di esserlo quando questa non consentiva più l’esercizio delle armi53, ma l’ipotesi è in-
debolita dalla menzione, proprio nella stessa inchiesta senese, di un exercitalis senex54.
Credo piuttosto che gli exercitales fossero un ceto di liberi tenuti, a differenza di altri
liberi, ad una continuativa prestazione di servizio militare, che si esplicava non solo
nella partecipazione all’esercito regio, ma anche nel seguito armato di duchi e gastaldi
in operazioni di controllo dei confini e delle strade, di polizia locale, o anche solo di
addestramento e parata; e ancora nell’accompagnamento alle assemblee regie. Un te-

52
CDL, i, 19.
53
TaBaCCo, Dai possessori dell’età carolingia, p. 229.
54
CDL, i, 19, p. 75: Castorinus. Va considerato che la qualifica di senex, attribuita anche a diversi liberi homines,
è un rafforzativo dell’attendibilità del testimone, non l’indicazione di una sua singolarità.

34 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

sto di legge suggerisce che dovessero prestare servizio a cavallo, armati di scudo e lan-
cia55. Questa interpretazione è suffragata dalla parallela considerazione del famigerato
termine longobardo arimanno, che, com’è noto, compare nei testi legislativi dell’Viii
secolo, sporadicamente in quelli di Liutprando, poi ripetutamente in quelli di Ratchis
e astolfo. in Liutprando il termine sembra indicare semplicemente ogni uomo libero
di legge longobarda56, ma in Ratchis e in astolfo è evidenziata ripetutamente la di-
stinzione tra l’arimanno e il quicumque homo: sottoposti entrambi alla giurisdizione
pubblica del giudice naturale; entrambi garantiti dal re nel diritto di ottenere giustizia
sollecita e imparziale, ma diversi nelle prestazioni dovute e nel rapporto col iudex, che
nel caso dell’arimanno sembra personale e diretto57. Nella raffigurazione di questi re
non tutti i liberi erano arimanni.
Tuttavia il termine “arimanno” non sembra avere assunto valore tecnico per in-
dicare una categoria di liberi giuridicamente distinta. Esso conserva infatti, sia in Rat-
chis che in astolfo, anche il significato generico di “uomo libero”, tanto da poter es-
sere applicato, nella forma femminile, alle donne, per indicare la loro condizione di
libertà58. il suo impiego sembra piuttosto in relazione con una raffigurazione ideale
dei re, ai quali il termine tradizionale longobardo sembrava appropriato per indicare
un tipo di libero più vicino ai titolari di autorità pubblica e più partecipe che non altri

55
LL, Ratchis, i, 4, p. 185, riportato più sotto. La circostanza che non tutti i liberi fossero exercitales è con-
fermata dalle carte del ducato di Spoleto, che recano spesso la sottoscrizione di exercitales accanto a quella di
altri testi laici, evidentemente qualificati socialmente, che non hanno tale qualifica. La frequenza della circo-
stanza rende improbabile che essa dipenda solo dall’arbitrio del trascrittore.
56
LL, Liutprand, 44, p. 122; Notitia de actoribus regis, cap. 5, p. 181.
57
LL, Ratchis, i, 1, p. 183: «sed si quis iudex amodo neglexerit arimanno suo, diviti aut pauperi, vel cuicumque
homini iustitiam iudicare»; LL, Ratchis, i, 2, p. 184: «Si quis arimannus aut quislibet homo ad iudicem suum
prius non ambulaverit et iudicium de iudice suo non susceperit»; anche LL, ahistulf, i, 4, p. 195: «similiter
conponat iudex qui neglectum fecerit ad inquirendum […] quod arimannus eius hoc fecisset, aut alius homo
in eius iudicaria». Le espressioni arimannus suus, arimannus eius che ricorrono in queste disposizioni suggeri-
scono un rapporto diretto col iudex che sembra andare oltre la semplice pertinenza territoriale. Tale rapporto
risulta confermato e potenziato dalla disposizione di LL, Ratchis i, 4, p. 185, che tra l’altro specifica i doveri
particolari dell’arimanno: «ut unusquisque arimannus, quando cum iudicem suum caballicaverit, unusquisque
per semetipsum debeat portare scutum et lanceam, et sic post ipsum caballicet […] et si iudex ille, cuius ari-
mannus hoc distulerit implere, non distrinxerit... etc.». Un simile rapporto diretto dell’exercitalis con i poteri
pubblici sembra implicito anche nel giudicato del duca di Spoleto Gisulfo, in cui compare un «alfrid exercitalis
noster» (CDL, iV/1, 14, a. 761, p. 40). Costui aveva ricevuto un casale dal duca predecessore di Gisulfo. il
rapporto con i duchi sembra dunque diretto.
58
LL, Ratchis ii, 6, p. 188.

35 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

all’attività militare e politica del regno e forse rispondeva anche all’intenzione di sot-
tolineare il carattere etnico della tradizione militare longobarda.
Questa raffigurazione poteva proiettarsi e caratterizzare anche in senso ideologico
la figura dell’exercitalis. La tendenza a considerare equivalenti exercitalis e arimanno è
testimoniata nell’Viii secolo, sebbene solo il primo termine sembri avere un valore
tecnico diffuso e riconosciuto59, e infatti del tutto eccezionale è l’autoqualificazione di
un testimone come arimanno negli atti privati, mentre è frequente quella di exercitalis60.
Ma proprio l’empirica equivalenza dei due termini consente di riferire agli exercitales,
che come tali non vengono mai menzionati nelle leggi dell’Viii secolo, quelle carat-
teristiche che le leggi attribuiscono invece agli arimanni. Essi costituivano un ceto te-
nuto al servizio militare permanente, a differenza degli altri liberi che forse erano sog-
getti alla leva solo in caso di mobilitazione generale. Così si può spiegare la differenza
tra la caballicatio al seguito dello iudex, che Ratchis considera funzione specifica degli
arimanni, e l’exercitus, menzionato in alcune disposizioni di Liutprando e dei suoi suc-
cessori61. Proprio a quest’ultimo caso potrebbe riferirsi la famosa disposizione di astol-
fo che regolava l’armamento obbligatorio per tutti i sudditi del regno, distinguendone
la composizione in ragione della disponibilità economica piuttosto che della funzione,
della qualità sociale o dell’origine etnica e imponendo che in caso di mobilitazione ge-
nerale anche i poveri concorressero allo sforzo militare, se pure con armamento leg-
gero, diverso da quello richiesto agli arimanni62.

59
CDL, i, 20, p. 81, fa riferimento all’inchiesta condotta da Gunteram «per ipsos prebiteros et per arimannos»;
ma il verbale dell’inchiesta non parla di arimanni, ma solo di exercitales. il precetto di Liutprando del 14 ottobre
715 ricorda un’altra inchiesta svolta dal missus Guntheram «qui et causas e merito tam per ipsos presbiteros
et diaconos […] seu et per singulos arimannos ipsius Senensis civitatis inquisivit» (CDL, iii/1, 13, p. 60).
60
Exercitalis nelle sottoscrizioni ad esempio CDL, i, 58, 109; CDL, ii, 129, 142, 249, 263, 264, 291. L’unico
caso di sottoscrittore che si qualifica arimanno è CDL, i, 104, p. 300, redatto a Sovana nel 752, sottoscritto
da un «Possone aremanno» insieme ad un ubiscarius domni regis e ad altri tre testi senza qualifica.
61
Sul servizio degli arimanni, LL, Ratchis, i, 4, p. 185: «haec autem volumus et statuimus, ut unusquisque
arimannus, quando cum iudicem suum caballicaverit, unusquisque per semetipsum debeat portare scutum et
lanceam, et sic post ipsum caballicet. Et si ad palatium cum iudicem suum venerit, similiter faciat. hoc autem
ideo volumus ut fieri debeat, quia incertus est homo, quid ei superveniat aut quale mandatum suscipiat de nos
aut de terra istius, ubi oportet fieri caballicatio». Sulla leva generale, LL, Liutprand, i, 83, p. 138, che prevede
che anche i minimi homines «qui nec casas nec terras suas habent» siano tenuti al servizio militare «quando in
exercito ambolare necessitas fuerit», confermato da LL, ahistulf, i, 21, p. 203: «ut postquam iussio regis
fuerit in exercitum ambulandum et constitutum positum ad movitionem faciendam... etc.». Le due disposizioni
possono riferirsi a casi di mobilitazione generale dell’esercito regio, piuttosto che al normale servizio armato
dell’exercitalis, espresso nella caballicatio.
62
LL, ahistulf, i, 2, 3, pp. 194 sgg.

36 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

Non è chiaro se il rapporto degli exercitales / arimanni con i titolari di autorità pub-
blica nel regno fosse concretizzato in un impegno formale eventualmente espresso da
un giuramento. Di fedeltà giurata fa menzione un testo di Liutprando che però sembra
riferirsi a tutti i longobardi, piuttosto che ad una categoria distinta fra loro63. L’ipotesi
che gli exercitales prestassero comunque un giuramento speciale potrebbe trovare so-
stegno dalla qualifica di viri devoti che molti di loro esibiscono nelle carte private in cui
compaiono. Si è immaginato che la loro devotio avesse natura militare, come nella tarda
antichità, e comportasse, come allora, un giuramento ai poteri pubblici64. Ma non tutti
i viri devoti dei documenti si qualificano exercitales; addirittura si registra qualche caso di
chierici che si proclamano viri devoti65; inversamente ci si imbatte più volte in exercitales
che non sono viri devoti, e che si qualificano viri honesti66. il predicato vir devotus non sem-
bra dunque strutturalmente associato alla funzione di exercitalis, anche se sovente le due
qualifiche sono esibite dalla stessa persona. Fino a prova migliore, si può pensare che esso
indicasse una condizione sociale distinta, superiore a quella dei viri honesti, come sugge-
risce il fatto che ad essi era riconosciuta particolare attendibilità come testimoni e addi-
rittura come estensori di documenti, ma non una posizione istituzionalmente definita67.

63
Notitia de actoribus regis, cap. 5, p. 181: «insuper in periurii reatum nobis conparuit pertinere, eo quod nobis
iuratum habet, quod nobis fidelis sit». il prestatore di tale giuramento è indicato nella frase solo con «qui»; ter-
mini contigui nel testo della disposizione fanno riferimento a «livero eremmanos» e a «unus quis Langubardus».
L’ipotesi più probabile è dunque che il «qui» sia il libero longobardo, anche se ciò pone ulteriori problemi relativi
alla eventuale pratica di un giuramento generalizzato prestato al re da tutti i liberi indistintamente.
64
La tesi esposta ed elaborata soprattutto da P.M. CoNTi, ‘Devotio’ e ‘viri devoti’ in Italia da Diocleziano ai ca-
rolingi, Padova 1971.
65
CDL, i, 106, a. 752, p. 303; 108, a. 753, p. 312; probabilmente anche CDL, i, 88, a. 746, p. 258, tutti a Lucca.
66
Viri honesti exercitales: CDL, i, 52, 54, 59, 60, 64, 79; CDL, ii, 129, 159; la circostanza che questi documenti
provengano tutti dalla regione di Piacenza non deve far concludere che la qualifica vir honestus dipenda da
consuetudini notarili locali, in quanto dalla stessa regione provengono altri documenti sottoscritti da viri devoti.
È più probabile che la concentrazione dipenda dalla struttura sociale della regione. Viri honesti attestati anche
in Toscana, ad esempio in CDL, i, 23, 46, 55, 56, 74, 80, 88, 91, sebbene senza la qualifica di exercitalis. Po-
tevano verificarsi incertezze sulla qualifica spettante alle singole persone: in CDL, i, 49, a. 730, pp. 162 sgg.
gli autori vengono qualificati nel testo viri honesti, ma sottoscrivono come viri devoti. Nelle carte del ducato di
Spoleto il predicato vir devotus ricorre una sola volta (CDL, V, 35, a. 763, p. 132), attribuito ad alcuni testimoni
che figurano anche in altre carte, ma senza alcun predicato. La circostanza può essere attribuita ad una prassi
notarile locale, ma anche ad una diversa considerazione sociale del valore del predicato. Vi è anche un caso di
vir magnificus exercitalis in CDL, ii, 168, a. 762, p. 123 a Ceneda.
67
Diversi atti stipulati da viri honesti hanno per testimoni viri devoti. La condizione sociale dei viri devoti risulta
comunque varia: esibiscono la qualifica artigiani di vario genere (CDL, i, 80; CDL, ii, 130, 133, 210), nego-
ziatori (CDL, i, 88), perfino persone tenute a prestazioni angariali (CDL, i, 85).

37 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

Come si conseguisse tale qualifica resta però completamente oscuro68. La prestazione


di un giuramento da parte degli exercitales / arimanni deve perciò essere discussa facendo
riferimento ad altri indizi, per lo più indiretti: essenzialmente ipotizzando che la fedeltà
al re e ai rappresentanti locali dell’autorità pubblica che ci si attendeva da loro non abbia
un significato etico, ma tecnico, come del resto suggerisce un testo di Liutprando69. in
tal caso questa potrebbe esser stata una discriminante giuridica che distingueva un ceto
particolare all’interno della popolazione del regno. Ma anche se ciò non fosse, tutti i dati
relativi alla configurazione ideale e reale della società longobarda fanno ritenere che al-
l’interno della fondamentale condizione di libertà, vi fossero diversi livelli di partecipa-
zione e rappresentatività politica e che il metro con cui venivano espressi fosse quello
dell’adesione all’identità longobarda, più piena e riconosciuta in alcune condizioni so-
ciali70. Gli exercitales / arimanni, i fedeli del re che armati di scudo e lancia accompa-
gnavano il loro iudex alle assemblee regie, vi esercitavano le funzioni sovrane e potevano
essere utilizzati dal re per missioni militari che si fossero rese improvvisamente neces-
sarie71, potevano incarnare al meglio questa fisionomia di veri longobardi72.
Del resto, il fondamento militare della partecipazione politica si spiega bene nel-
l’Viii secolo, in considerazione dell’intensa attività che venne allora svolta dai re. La
storiografia, seguendo l’evoluzione della società longobarda nel corso dei secoli, tende
a perdere di vista il carattere militare ben evidente nelle prime fasi dell’insediamento
in italia, grazie anche alla suggestione delle testimonianze archeologiche – le sepolture

68
Casi complessi: CDL, i, 16, a. 713/714, p. 46: quattro fratelli sottoscrivono una donazione del proprio padre
prete; di essi solo due esibiscono la qualifica di vir devotus, che dunque non sembra legata ad una prerogativa
familiare; CDL, ii, 263, 264, a. 772, pp. 363-366, Guntifridus vir devotus si dichiara figlio di Tato exercitalis,
distinguendo le due qualifiche; CDL, i, 44, a. 729, p. 149, sottoscritto da tre viri devoti e da un quarto testimone
che si qualifica civis novariensis, conferma l’esistenza di condizioni sociali significative che non comportano
l’attributo di vir devotus.
69
LL, Notitia de actoribus regis, cap. 5, p. 181: «insuper in periurii reatum nobis conparuit pertinere eo quos
nobis iuratum habet, quod nobis fidelis sit», ma con riferimento generico a «liveros eremmanos».
70
La legge di Liutprando 62, p. 128, che fissa i valori minimi e massimi delle composizioni dovute per l’uc-
cisione di exercitales e gasindi regi va probabilmente intesa come protezione di categorie distinte della società
longobarda, cui il re presta particolare attenzione, lasciando la adpretiatio delle persone appartenenti ad altre
categorie al dibattimento giudiziario.
71
il riferimento fondamentale per queste funzioni è LL, Ratchis i, 4, p. 185, riportato in nota più sopra.
72
Può essere interessante notare che Rotari proclamava di avere costituito l’editto «pari consilio parique con-
sensum cum primatos iudices cunctosque felicissimum exercitum nostrum» (LL, Rothari, cap. 386, p. 93). i
longobardi dei protocolli dell’Viii secolo sembrano assumere la funzione che in questo testo ha l’exercitus e
ciò può confermare la loro caratteristica di exercitales.

38 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

con armi –, per mettere piuttosto in rilievo l’importanza crescente delle città, la for-
mazione e le modalità di gestione dei patrimoni fondiari, gli albori di un’economia di
scambio, implicitamente suggerendo che la vocazione militare del popolo longobardo
andasse svanendo, causa non ultima della catastrofe finale73. Ma va ricordato che il
lungo regno di Liutprando è contrassegnato da una serie continua di campagne contro
i territori bizantini nell’Esarcato, nella Pentapoli e ai confini del ducato romano, contro
i ducati di Spoleto e Benevento, occasionalmente anche contro i saraceni in Sardegna
e in Provenza; Ratchis, nonostante le sue propensioni romaneggianti, condusse spe-
dizioni in Pentapoli e contro Perugia; astolfo nei suoi cinque anni di regno entrò in
Ravenna, corse il ducato romano, sottomise gli spoletini; e anche Desiderio, nono-
stante la soggezione imposta dai franchi, portò l’esercito a Spoleto e Benevento, invase
l’Esarcato e penetrò ripetutamente in armi nel territorio romano74.
indipendentemente, e già prima delle guerre di difesa contro i franchi, gli exerci-
tales longobardi furono dunque impegnati continuamente nelle imprese regie, alle
quali vanno aggiunte le guerre sostenute dai duchi di confine, ben testimoniate so-
prattutto per il Friuli, ma ipotizzabili anche altrove75. È possibile che gli eserciti ve-
nissero raccolti di volta in volta su base diversa e avessero diversa consistenza, senza
svuotare ripetutamente il regno del suo ceto militare. Questo continuo impegno spiega
anche perché le prestazioni militari fossero richieste soprattutto a coloro che avevano
una base economica sufficientemente larga, fondata essenzialmente sulla proprietà
fondiaria lavorata da fattori e contadini che non erano soggetti alla leva: sarebbe stato
difficile sottrarre ripetutamente la forza lavoro all’attività produttiva se la leva fosse

73
in generale, sulla società dell’Viii secolo: C. WiCKhaM, Aristocratic power in eighth century Lombard Italy, in
After Rome’s Fall. Narrators and Sources of Early Medieval History. Essays Presented to Walter Goffart, a cura di a.C.
Murray, Toronto 1998, pp. 153-170; iD., Social Structures in Lombard Italy, in The Langobards Before the Frankish
Conquest. An Ethnographic Perspective, a cura di G. ausenda, P. Delogu, C. Wickham, Woodbridge 2009, pp.
118-148; Carte di famiglia. Strategie, rappresentazione e memoria del gruppo familiare di Totone di Campione (721-
877), a cura di S. Gasparri e C. La Rocca, Roma 2005; S. GaSPaRRi, Il regno longobardo in Italia. Struttura e fun-
zionamento di uno stato altomedievale, in Il regno dei longobardi in Italia. Archeologia, società, istituzioni, a cura di S.
Gasparri, Spoleto 2004, pp. 1-92; S. GaSPaRRi, Italia longobarda. Il regno, i franchi, il papato, Roma-Bari 2012.
74
Per l’attività militare dei re dell’Viii secolo vedi le voci relative in Dizionario biografico degli italiani. Le guerre
di Liutprando contro i romani sinteticamente ricordate in hL, V, 54. invece in CDL, ii, 230, a. 769, p. 285,
si presenta un caso di convocazione in exercito in un periodo in cui non sono attestate guerre contro i franchi.
L’interessato, che fa testamento, non è qualificato exercitalis, né vir devotus.
75
Si veda ad esempio l’epigrafe funeraria del duca audoald, che esalta le imprese belliche da lui condotte
contro nemici vicini e lontani e i trionfi che lo avevano reso celebre «per urbem» (RUGo, Le iscrizioni, V, p.
97, nr. 107; DE RUBEiS, Le forme dell’epigrafia, p. 145, nr. 214).

39 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

stata fatta ogni volta su base generale. Ma questo comporta anche che il prestigio so-
ciale conservasse connotazione militare e che i veri longobardi venissero ancora ca-
ratterizzati come i guerrieri del regno, distinti dal resto della popolazione76.
Si potrebbe così spiegare la distinzione che i re ponevano tra longobardi e populus,
tra arimanni e liberi homines nel configurare la struttura politica del regno: una distin-
zione che non riposava più sulla contrapposizione etnica, né sulla diversità del regime
giuridico, ma sul servizio e sulla vicinanza di un particolare gruppo di uomini ai poteri
e alle funzioni del regno. altre figure sociali, pur essendo inquadrate a tutti gli effetti
nella struttura politica e istituzionale del regno, pur partecipando del diritto longobardo
ed essendo tenute in casi particolari a prestazioni militari, probabilmente godendo an-
che di prospere condizioni economiche, costituivano un più generico populus che non
aveva partecipazione diretta alle funzioni della sovranità. Del resto, alcuni passi di
Paolo Diacono suggeriscono che questa distinzione non venisse fatta solo dai re; che
essa fosse presente anche agli osservatori comuni, come dato di fatto, non solo come
ideologia costituzionale. L’indagine passa così dall’analisi del livello pubblico e giuridico
dell’identità a quella delle percezioni e delle raffigurazioni individuali e sociali.
il più significativo dei testi in questione è il racconto del conflitto tra il patriarca di
aquileia Callisto e il duca del Friuli Pemmone. il patriarca, che le continue incursioni
dei confinanti veneti costringevano a risiedere nel castello di Cormons, tollerava male –
dice Paolo Diacono – che un altro vescovo, titolare della sede di zuglio, fosse abusiva-
mente andato a vivere a Cividale, «col duca e con i longobardi», mentre lui era costretto
a vivere in compagnia della sola plebe77. alla lettera, questo passo testimonia che per i
protagonisti della storia, e per lo stesso Paolo Diacono, la popolazione del ducato non
era omogenea: longobardi erano solo una parte di essa, caratterizzata dalla vicinanza al
duca e dalla residenza concentrata nella capitale del ducato. Questa testimonianza può
servire da chiave per intendere anche un altro passo di Paolo Diacono: quello secondo
il quale la città di Brescia aveva sempre avuto un gran numero di eminenti longobardi78,

76
Può essere indicativo di questa concezione il documento del gastaldo di Siena Vuarnefrid che ricordando di
aver fondato una chiesa, dice che il fatto era ben noto «Deo et omniorum sacerdotio vel exercitum Senensium
civitatis» (CDL, i, 50, a. 730, p. 165). agli occhi del gastaldo, il corpo politico della città era costituito da queste
due sole categorie sociali, anche se probabilmente esse non esaurivano tutta la popolazione libera della città.
77
hL, Vi, 51: «Quod Calisto, qui erat nobilitate conspicuus, satis diplicuit, ut in eius diocesi cum duce et Lan-
gobardis episcopus habitaret, et ipse tantum vulgo sociatus vitam duceret».
78
hL, V, 36: «Brexiana denique civitas magnam semper nobilium Langobardorum multitudinem habuit»,
dove il termine multitudo attenua il valore tecnico del termine nobiles. La traduzione potrebbe essere «di illustri
longobardi».

40 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

che sembra connotare una situazione particolare rispetto ad altre città in cui il numero
dei longobardi non era altrettanto elevato. Un terzo passo, forse più ambiguo, può co-
munque essere letto nello stesso senso: racconta Paolo Diacono che quando il duca di
Benevento Grimoaldo mosse alla conquista del potere regio, mandò prima il conte di
Capua Trasmondo nello Spoletino ed in Tuscia, «per trarre dalla sua parte i longobardi
di quella regione»79. L’ espressione può essere intesa in senso generico, come equivalente
a “gli abitanti di quella regione”, ma è possibile, e forse probabile, che rimandi anch’essa
ad una distinzione, implicita nel pensiero di Paolo Diacono, tra longobardi come attori
politici e popolazione generale, priva di partecipazione diretta alle vicende del regno.
i passi di Paolo Diacono non sono tanto espliciti da rendere assolutamente certa
questa interpretazione, che d’altra parte si innesta sulla più generale questione del-
l’attendibilità dello scrittore e del suo racconto. Tuttavia si può osservare che, così co-
me è espressa, l’individuazione dei longobardi in rapporto a una popolazione più ge-
nerale non ha funzione dimostrativa e sembra dipendere da una considerazione della
struttura sociale in certo modo data per evidente. D’altronde essa si accorda bene con
la distinzione che i re ponevano tra longobardi e reliquus populus. Vi sono poi vari dati
che suggeriscono che i caratteri distintivi dei primi, i “longobardi”, non consistessero
solo nel fatto giuridico e istituzionale della prestazione militare e dell’eventuale giura-
mento degli arimanni / exercitales. accanto ad esso, altri elementi di varia natura ali-
mentavano il modo in cui individui, famiglie o gruppi di insediamento si costruivano
e raccontavano un’identità caratteristica, attingendo ad un patrimonio di memorie e
tradizioni che avevano una perdurante connotazione etnica. Uno di questi elementi
identitari era la memoria genealogica tenuta viva da famiglie che associavano le proprie
vicende a quelle della stirpe e del regno. La testimonianza principale ancora una volta
è la ben nota storia familiare che Paolo Diacono inserisce nella sua narrazione rico-
struendo la sua ascendenza per quattro generazioni, non a caso fino all’antenato che
avrebbe preso parte all’invasione dell’italia, inserendo i successori nelle vicende del
ducato friulano e riferendo la portentosa vicenda che aveva portato al radicamento del
bisnonno in Cividale80. La memoria di questa e di tutti i nomi degli antenati testimo-
niano come fosse formata e tramandata l’identità familiare, che del resto ancora nel-

79
hL, iV, 51: «ut eius regionis Langobardos suo consortio coaptaret».
80
hL, iV, 37: «Exigit vero nunc locus, postposita generali historia, pauca etiam privatim de mea, qui haec
scribo, genealogia retexere […] Eo denique tempore quo Langobardorum gens de Pannoniis ad italiam venit,
Leupchis meus abavus ex eodem Langobardorum genere cum eis pariter adventavit».

41 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

l’Viii secolo era fondamento per l’esercizio di diritti successori e patrimoniali81. È


possibile che il caso di Paolo Diacono sia rappresentativo di una condizione particolare,
propria di ambienti conservativi quale sembra essere stato il Friuli. Sfortunatamente
la documentazione non offre altri esempi, altrettanto espliciti, di memoria familiare
lunga, associata alle tradizioni “nazionali” del popolo longobardo. Del resto le trasfor-
mazioni sociali avvenute nel secolo e mezzo precedente favorirono probabilmente la
costituzione di famiglie per così dire neo-longobarde, che non potevano vantare me-
morie altrettanto lunghe e coerenti. Tuttavia testimonianze sporadiche, come l’epi-
taffio del duca aldone, che ricorda la sua discendenza dalla stirpe di un Gudehoc il cui
nome ricorda quello di uno dei re pre-italici82, suggeriscono che altre famiglie di tra-
dizione esistessero e conservassero la memoria del passato longobardo.
Comunque vi sono altre evidenze di una eredità etnica lunga, risalente a un passato
di cui si conservavano elementi qualificanti, anche se è meno facile individuarne i por-
tatori. Uno di questi elementi sembra essere la lingua. Fino a qualche tempo fa è stata
opinione diffusa e condivisa quasi senza discussione l’idea che la lingua longobarda si
fosse progressivamente estinta nel corso del Vii secolo, vedendo anzi in questo una si-
gnificativa spia dei processi di integrazione sociale e culturale degli invasori nella società
italico-romana. oggi questa convinzione è rimessa in discussione da ricerche che ac-
creditano un bilinguismo prolungato, ancora vitale nell’Viii secolo. Pur ammettendo
senza riserve che tutti gli abitanti del regno parlassero la lingua romanza nelle sue varie
forme locali, si ritiene probabile, sulla base di vari indizi, che il longobardo fosse ancora
in uso, almeno, secondo la formula dei linguisti, come “lingua familiare”, all’interno
dunque di gruppi di tradizione, che ne facevano un connotato distintivo e lo trasmet-
tevano da una generazione all’altra83. Del resto, anche Paolo Diacono, pur nell’ambi-

81
LL, Rothari 153, p. 39: «omnis parentilla usque in septimum geniculum nomeretur, ut parens parenti per
gradum et parentilla heres succedat; sic tamen ut ille qui succedere vult, nominatim unicuique nomina pa-
rentum antecessorum suorum dicat». La legislazione di Liutprando, pur non specificando i gradi di parentela,
fa genericamente riferimento ad essi, quando manchino gli eredi diretti; LL, Liutprand, 13, p. 105: «volumus
ut accipiant [la compositio] propinqui parentes eiusdem qui occisus fuerit, illi qui per capput succedere potue-
runt»; anche LL, Liutprand, 17, 73, 105.
82
RUGo, Le iscrizioni, V, p. 32, nr. 16: «clara nobilitas de genere Eguuino et Gudehoco». Cfr. anche S. LU-
SUaRDi SiENa, “Pium (su)per am(nem) iter”. Riflessioni sull’epigrafe di Aldo da San Giovanni in Conca a Milano,
«arte medievale», ii serie, iV/1 (1990), pp. 1-12.
83
W. haUBRiChS, Amalgamierung und Identität. Langobardische Personennamen in Mythos und Herrschaft, in Die
Langobarden, pp. 67-102; W. haUBRiChS, Langobardic personal names: given names and name-giving among the
Langobards, in The Langobards Before the Frankish Conquest, pp. 195-250.

42 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

guità di molte sue espressioni, sembrerebbe confermare che il longobardo fosse ancora
una lingua parlata quando riporta la traduzione, appunto in longobardo, dei termini la-
tini da lui utilizzati nella sua scrittura, non solo per designare istituzioni giuridiche ca-
ratteristiche, ma anche oggetti comuni come poculum o piscina, quando essi assumono
nel racconto una funzione determinante. in questi casi, Paolo Diacono si esprime in
modo da far credere che l’uso del longobardo fosse ancora attuale84.
Comunque la testimonianza più significativa della conservazione della lingua lon-
gobarda come lingua viva, almeno in alcuni ambienti, è costituita a mio avviso dai so-
prannomi esibiti da due duchi longobardi, ancora alla metà dell’Viii secolo, in mo-
numenti pubblici da loro commissionati. Mi riferisco alle iscrizioni dedicatorie dei due
famosi altari di Ratchis a Cividale e di ilderico a Ferentillo, nei quali il nome del duca
dedicante è accompagnato da un appellativo personale in lingua longobarda: Ratchis
Hidebohorit e hildericus Dagileopa. Due termini assolutamente singolari, che spiccano
nel contesto latino delle rispettive epigrafi, e che sono spiegabili nell’ambito dei lin-
guaggi germanici tra i quali si colloca il longobardo. Sembra ragionevole dedurre che
all’epoca in cui vennero realizzati i due monumenti la lingua tradizionale avesse ancora
senso e potesse anzi essere modellata in forme e significati originali85.
Un altro filone di tradizioni conservate e tramandate nel regno longobardo con
potenziale identitario è costituito dalle consuetudini giuridiche che non erano state
raccolte nell’editto e che tuttavia venivano osservate nelle relazioni sociali e nella pra-
tica giudiziaria. il nome stesso con cui vengono indicate tali consuetudini, cavarfide,
rimanda se non necessariamente ad una antichissima origine, quanto meno alla per-
suasione che esse facessero parte del patrimonio giuridico proprio della gens longo-
barda, e che avessero la stessa forza e lo stesso valore dell’editto e della legislazione
regia. anche in questo caso non è facile stabilire quali persone e quali ambienti fossero
portatori di queste tradizioni e quale fosse il loro ruolo e la loro posizione nel regno.

84
hL, Vi, 24: «rector loci illius, quem ‘sculdhais’ lingua propria dicunt»; ii, 9: «Gisulfum […] qui eidem
strator erat, quem lingua propria “marpahis” appellant; Vi, 6: «cum stratore suo, qui lingua propria “mar-
pahis” dicitur»; i, 15: «piscina, quae eorum lingua “lama” dicitur»; i, 27: «quod genus poculi apud eos “scala”
dicitur». Per il valore attuale di “lingua propria”, hL, iV, 44: «eisdem Slavis propria illorum lingua locutus
est»; iV, 37: «rex avarum, quem sua lingua cacanum appellant».
85
Per il significato dei due appellativi cfr. haUBRiChS, Langobardic personal names, p. 206: hidebohorit (*ide-
burjan) = ri-elevato, nuovamente elevato, resuscitatus; dagileopa (*dagi- laibo) = brillante eredità. il significato
encomiastico di questo secondo termine, insieme alla sua posizione nella frase, rendono poco credibile l’ipotesi
che si tratti di un nome femminile, relativo a una donna della famiglia di ilderico.

43 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

alcuni passi delle leggi fanno però vedere che esse erano ben note agli iudices e ai
“longobardi” che partecipavano alle assemblee legislative. Sembra che all’occorrenza
fossero proprio loro a ricordarle ai re, i quali le consideravano tanto autorevoli da san-
zionarle con le proprie leggi e da rinunziare a modificarle, anche se in contrasto con i
criteri generali che ispiravano la loro legislazione86. Se, come si è supposto, iudices e
longobardi rappresentavano il ceto politico del regno, si deve pensare che proprio in
esso fosse conservata e tramandata la conoscenza delle norme giuridiche tradizionali.
Una base più larga potevano avere altri tipi di memorie tradizionali relative a gran-
di eventi o gesta memorabili che avevano coinvolto gruppi locali o personaggi emi-
nenti. Com’è evidente, il grande archivio di queste memorie è costituito dalla storia
di Paolo Diacono, e la loro valutazione dipende in gran parte dall’idea generale che si
ha di quest’opera. Se si dovesse accettare, come è stato sostenuto, che essa è governata
essenzialmente da una accortissima strategia narrativa, in funzione della quale vengono
scelti e collocati personaggi ed episodi, non solo reinterpretati, ma anche inventati per
secondare il disegno generale del progetto, tutti i dati in essa contenuta testimonie-
rebbero solo di Paolo Diacono, e non avrebbero nessuna rappresentatività generale.
Non è il caso di riprendere il dibattito sulla proposta di Walter Goffart, che co-
munque mi sembra fondata essenzialmente su una immaginosa narrazione parallela
del testo di Paolo Diacono, priva di conferme oggettive, tanto che altre se ne potreb-
bero fare, egualmente suggestive ed egualmente arbitrarie. invece per quanto riguarda
l’origine dei fatti memorabili riportati da Paolo, e in particolare la possibilità che essi
siano frutto di invenzione, si può osservare che essi riguardano sempre personaggi e
vicende delle regioni in cui lo scrittore trascorse periodi della sua vita: il Friuli, con le
storie esemplari dei duchi e le epiche vicende delle guerre contro avari e slavi; Pavia
con le storie dei re; Benevento, con le imprese dei duchi contro le milizie imperiali
bizantine. Mancano totalmente nella storia episodi relativi ai longobardi del Piemonte
e della Toscana; per lo Spoletino vi sono bensì notizie annalistiche relative a fatti dei

86
LL, Liutprand 77, p. 135: «ideo autem hoc scripsimus, quia etsi adfictum in edictum propriae non fuit,
tamen omnes iudices et fidelis nostri sic dixerunt, quod cauuarfeda antiqua usque nunc sic fuisset»; analoga-
mente LL, Liutprando 133, p. 165: «hoc autem ideo nunc adfiximus, quia tantummodo causa ipsa in hoc
modo semper et antecessorum nostrorum tempore et nostro per cauuarfida sic iudicatum est; nam in edicto
scripta non fuit». altre disposizioni fanno riferimento alla consuetudo, egualmente caratterizzata in senso et-
nico; LL, Liutprand 118, pp. 155: «quia incerti sumus de iudicio Dei et multos audivimus per pugnam sine iu-
stitia causam suam perdere; sed propter consuetudinem gentis nostrae Langobardorum legem ipsam vetare
non possumus». Consuetudo come riferimento giuridico anche in LL, Liutprand 24, p. 155; Prologo delle leggi
dell’anno XiV, p. 132. Usus in Liutprando, Prologo delle leggi dell’anno XV, p. 139.

44 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

duchi contemporanei, ma solo una storia esemplare che però Paolo conobbe proba-
bilmente a Pavia87. Questa geografia delle notizie, unita al fatto che la più consistente
e suggestiva serie di esse riguarda il Friuli, suggerisce insomma che Paolo Diacono
raccogliesse e riferisse tradizioni e memorie locali, conosciute sul posto, attinte cioè
da memorie vive nelle società locali che frequentava. Un modo di documentarsi che
del resto gli era abituale quando non poteva avvalersi di testimonianze scritte. Tutto
quello che riferisce relativamente al suo soggiorno in Francia nella storia dei longo-
bardi, è sempre suffragato dall’aver visto determinati posti e monumenti o dall’aver
acquisito precise testimonianze88. È dunque molto probabile che anche i grandi fatti
che hanno a protagonisti personaggi del passato longobardo fossero stati conosciuti
da Paolo attraverso i suoi rapporti con gli ambienti e le persone che li conoscevano e
li tramandavano attraverso le generazioni89.
altra questione è se essi avessero carattere di “leggende” come riteneva Goffart,
cioè di racconti autonomi derivati da temi folclorici largamente diffusi o modellati su
tipologie narrative che risalivano fino alla Bibbia. Ma episodi come la contesa d’onore
tra il duca del Friuli Lupo e il gastaldo Ferdulfo, o l’eroico comportamento del precet-
tore del duca Romualdo durante l’assedio posto dall’imperatore Costante a Benevento
e altri ancora non hanno carattere folclorico e possono essere piuttosto classificati co-
me memorie storiche canonizzate. il processo attraverso il quale queste si formano è
ricostruibile sulla base dello stesso Paolo Diacono e di altri testi storici ricchi di episodi
narrativi, come il Chronicon Salernitanum. Un fatto reale, o divulgato come tale, viene
notato e ricordato dai contemporanei perché insolito o sorprendente. Nella trasmis-
sione orale alla successiva generazione il fatto viene stilizzato in rapporto a parametri
di valore generale che ne accentuano il contenuto di eccezionalità ed esemplarità. Pas-
sando a successive generazioni il fatto memorabile può essere ulteriormente elaborato

87
Non è il caso di dare l’elenco completo degli episodi che rispondono a questa geografia, dato che costitui-
scono la gran parte della hL. Per l’evento spoletino narrato in hL, iV, 16, con il miracoloso intervento di san
Savino contro il duca ariulfo, cfr. il commento di L. Capo, nella sua edizione dell’Historia langobardorum (p.
498), che attendibilmente ne argomenta la provenienza pavese.
88
ad esempio hL, i, 6 (sui vortici dell’oceano); ii, 13 (sulla visita al sepolcro di Venanzio Fortunato). invece
i Gesta episcoporum Mettensium non contengono alcuna esplicita dichiarazione di soggiorno di Paolo Diacono
nella città.
89
Sulla trasmissione delle memorie cfr. anche hL, i, 27: «arma quoque praecipua sub eo [alboino] fabricata
fuisse, a multis hucusque narratur». Sulla loro acquisizione da parte di Paolo Diacono, cfr. ad esempio hL,
ii, 58; V, 19, con riferimento ad anziani informatori che non sembra un topos letterario.

45 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

agganciandolo a motivi archetipici o stereotipi narrativi, che cristallizzano e tipicizzano


la memoria. Ciò non toglie che l’origine del racconto sia un fatto reale, e che perciò il
racconto abbia un fondamento non leggendario, ma storico. il testo di Paolo Diacono
presenta aspetti che consentono di ricostruire questo processo. i fatti memorabili più
prossimi all’autore hanno ancora una consistenza e una verosimiglianza che li riporta
all’accaduto. Man mano che si risale nel passato, i fatti con protagonisti storici assu-
mono invece aspetti leggendari o romanzeschi, frutto della canonizzazione immagi-
nativa. Un bell’esempio di questa tipizzazione sono le storie di Teodolinda e dei suoi
re, con il loro accento cortese che corrisponde a una nuova sensibilità culturale che
stava formandosi proprio all’epoca di Paolo Diacono e che avrebbe avuto seguito negli
ambienti dell’aristocrazia carolingia.
Le memorie locali raccolte da Paolo Diacono rimandano per gran parte a questa
genesi: sono frutto della elaborazione di fatti reali, avvenuta all’interno delle comunità
in cui erano accaduti. altro problema è se esse avessero uno specifico carattere lon-
gobardo, tale da poter diventare elemento significativo di una coscienza identitaria del
gruppo. a questo proposito si potrà osservare che sia le memorie friulane che quelle
beneventane si riferiscono sempre a situazioni di conflitto dei longobardi locali contro
avversari esterni etnicamente connotati: avari e slavi da un lato, greci imperiali dal-
l’altro. Esse avevano dunque un reale potenziale identitario, poiché servivano a dimo-
strare e a tramandare le virtù militari dei duchi e dei guerrieri nel difendere la loro li-
bertà ed imporre il loro prestigio come gruppo distinto e contrapposto agli avversari.
Le memorie pavesi non si collocano tutte in contesti egualmente conflittuali, in
particolare contro nemici esterni. Esse sono però relative ai re della stirpe e ricordano
sia le loro imprese belliche che i fatti straordinari di cui molti di loro furono protago-
nisti. il livello di stilizzazione dei vari episodi è diverso e va dalle vicende romanzesche
della fuga di Pertarito alle insidie degli spiriti maligni contro Cuniperto; dalle astuzie
belliche di Grimoaldo alla eroica devozione dei chierici per Cuniperto. È il prodotto
della particolare cultura pavese, letterata e aulica, influenzata anche da importanti
componenti clericali90. Proprio questa varietà di tematiche e di valori conferma che le
memorie significative avevano una genesi e una trasmissione eminentemente locali.
Paolo Diacono poi le raccolse facendole diventare patrimonio comune di tutto il popolo

90
Sulla cultura pavese: F.E. CoNSoLiNo, La poesia epigrafica a Pavia longobarda nell’VIII secolo, in Storia di Pavia.
ii. L’alto medioevo, Milano 1987, pp. 159-176; E. CaU, M.a. CaSaGRaNDE MazzoLi, Cultura e scrittura a Pavia
(secoli V-X), Ibidem, pp. 177-218; C. ViLLa, F. Lo MoNaCo, Cultura e scrittura nell’Italia longobarda, in Die
Langobarden, pp. 503-523.

46 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

longobardo, rivelatore delle virtù e dei meriti di tutta la gens. in questa operazione si
può vedere, volendo, l’aspetto falsificante della sua opera. i grandi fatti memorabili
erano innanzi tutto patrimonio delle comunità locali e circolavano poco fuori dai ter-
ritori cui li legavano nomi, luoghi, persone. Da lui vennero accorpate e trasformate in
patrimonio identitario di tutta la stirpe.
Ci si può domandare quale consistenza e quale estensione avessero i gruppi sociali
che condividevano e trasmettevano queste memorie. Sarebbe suggestivo identificarli
con le famiglie di exercitales / arimanni cui si è attribuito il ruolo di ceto politico del
regno, anche se è credibile che in sede locale esse circolassero in ambiti sociali meno
strettamente connotati. Piuttosto sarebbe importante individuare quale fosse il ruolo
dell’aristocrazia nella loro elaborazione e conservazione. È assai probabile che tutti gli
aspetti fin qui esaminati, tradizioni familiari e di gruppo, lingua atavica, consuetudini
giuridiche, fossero ben presenti nelle famiglie aristocratiche e venissero anzi trasfor-
mate in connotazioni di rango. Tuttavia testimonianze dirette di coscienza e auto-rap-
presentazione aristocratiche mancano pressoché completamente, se si eccettuano al-
cune iscrizioni, dedicatorie o funerarie, che peraltro più che la stirpe mettono in evi-
denza la nobiltà, la virtù militare e la potenza del personaggio commemorato91. Ciò
conferma, se mai ve ne fosse bisogno, il carattere fondamentalmente militare dell’au-
torità, oltre che del prestigio. Un segno esteriore di questo può vedersi nel fatto che i
grandi del regno cingevano abitualmente la spada, portandola anche a corte e nelle
riunioni di governo. Poiché essa non viene ricordata nell’armamento dell’exercitalis,
è probabile che costituisse, oltre che un’arma, anche un segno di status92.

91
Epitaffio del duca audoaldo: «Sub regibus Liguriae ducatum tenuit audax/ audoald armipotens claris natalibus
ortus/ victrix cuius dextera subegit naviter hostes/ […] belligeras domavit acies et hostilia castra» (DE RUBEiS, Le
forme dell’epigrafia, p. 145, nr. 214). Epigrafi dedicatorie della costruzione di S. Mustiola da parte del duca di
Chiusi: «Gregorius armipotens et robustissimus dox»; anche ivi la cosiddetta epigrafe di Sisebuto: «Nobilis vasta
nitens rediviva an fabrica templi/ regia progenies ornarunt culmina pulchre/ fulgidus vita prius Gregorius aptus
ubique» (P. RUGo, Le iscrizioni, iii. Esarcato, Pentapoli, Tuscia, Cittadella 1976, p. 69, nr. 91; V. CiPoLLoNE, M.
DE MaRTiNo, Note per una prima sistemazione del materiale epigrafico altomedievale di Chiusi: le “tavole longobarde”
della chiesa di Santa Mustiola, in Goti e Longobardi a Chiusi, a cura di C. Falluomini, Chiusi 2009, pp. 43-54). La
mancanza di diplomi rilasciati dai duchi del regno non consente di ricostruire la loro titolatura ufficiale. i duchi
di Spoleto nei loro diplomi si intitolano abitualmente gloriosissimus summus dux e solo raramente aggiungono il
qualificativo etnico langobardorum, cfr. C.R. BRühL, Chronologie und Urkunden der Herzöge von Spoleto im 8.
Jahrhundert, «Quellen und Forschungen aus italienischen archiven und Bibliotheken», 51 (1972), pp. 1-92.
Tuttavia l’intitolazione comprensiva del qualificativo etnico è abituale nelle datazioni delle carte private.
92
Diversi episodi di Paolo Diacono attestano come i nobili, come i re, portassero abitualmente la spada; ad
esempio hL, iV, 51; Vi, 38.51. Sull’armamento degli exercitales v. sopra.

47 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

D’altra parte nell’Viii secolo l’aristocrazia ricorreva ad una pluralità di linguaggi


per manifestare il suo prestigio sociale, in particolare in rapporto all’altro grande ele-
mento qualificante costituito anche per questo ceto dalla fede cattolica. in questo campo
la tradizione etnica aveva poco da offrire, mentre la circolazione delle maestranze ar-
tigiane e l’influenza dei modelli stranieri avevano un ruolo decisivo nel configurare le
espressioni di devozione manifestate nell’edificazione di edifici di culto pubblico e pri-
vato. Si può osservare anzi l’estrema varietà delle suggestioni che stanno alla base delle
poche opere di architettura superstiti che possono essere attribuite ad iniziativa ducale,
a Cividale, a Benevento, a Spoleto, o nella stessa Brescia93. Però sembra che la nobiltà
manifestasse l’identità di stirpe anche nel vestiario e principalmente nell’acconciatura
del capo. La testimonianza viene ancora una volta da una fonte letteraria, che fortuna-
tamente non è la storia di Paolo Diacono e non presenta dunque i problemi esegetici
che essa solleva. Si tratta infatti dei noti passi della Vita di adriano del Liber pontificalis,
ove si riferisce che nella catastrofe del regno, quando Desiderio venne sconfitto alle
Chiuse, molti spoletini, si può immaginare di alta qualificazione politica, si rifugiarono
a Roma, chiedendo la protezione del papa, cui giurarono sottomissione e fedeltà, e in
quell’occasione «vennero tonsurati all’uso dei romani»94. L’acconciatura del capo risulta
dunque essere distintiva ancora a quell’epoca, tanto da costituire segno di appartenenza
politica; se in questi passi non viene menzionata propriamente la foggia longobarda di
portare i capelli, la precedente vita del papa Gregorio iii vi fa invece esplicito riferi-
mento, in una situazione rovesciata, in cui molti nobili romani, catturati dai longobardi
in una scorreria nel territorio romano, vennero tonsurati «more langobardorum», piut-
tosto per sfregio, immagino, che per manifestare una adesione politica estorta95.
L’esplicita evidenza delle due notizie, che ricorrono in testi riferiti a situazioni di-
verse, composti in epoche successive ed esenti da intenti etnografici, dovrebbe privare
di mordente l’obiezione, sostenuta a più riprese dalla recente storiografia, che abiti e
acconciature non avessero preciso valore identitario e venissero liberamente scelti in

93
Sulla produzione artistica cfr. in generale Il futuro dei longobardi, cit. e L’VIII secolo. Un secolo inquieto, a cura
di V. Pace, Cividale del Friuli 2012.
94
Liber pontificalis, hadrianus XXXii, 311 (ed. L. Duchesne, Le Liber pontificalis. Texte, introduction et com-
mentaire, i, Paris 1955, pp. 495 sgg.).
95
Liber pontificalis, Gregorius iii, XiV , 202 (i, p. 420). La circostanza che il passo figuri in una redazione
interpolata della vita di Gregorio non toglie valore alla testimonianza, che è confermata nella sua attendibilità
dai passi sopra ricordati della Vita di adriano. Del resto l’interpolazione è assegnata da Duchesne all’epoca di
Stefano ii (752-757).

48 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo


Ritorno ai longobardi

base al gusto soggettivo delle persone e alle mode prevalenti96. Non è possibile sapere
quale fosse l’acconciatura longobarda nell’Viii secolo; la testimonianza di Paolo Dia-
cono sulla diversità dei costumi dei longobardi antichi raffigurati nel palazzo di Monza
rispetto a quelli della sua epoca97, tante volte invocata per dimostrare la scomparsa dei
costumi tradizionali, non significa che nell’Viii secolo i longobardi non si distingues-
sero per la foggia dei capelli e forse anche della barba, diversa rispetto ai tempi del-
l’invasione, ma pur sempre caratteristica e ostentata come segno di identità in rapporto
ai romani e probabilmente anche ad altri popoli. Semmai sarà ragionevole immaginare
che questi usi distintivi non fossero osservati da tutta la popolazione del regno, che
non tutti i maschi adulti, dal Friuli alla Tuscia e magari al Beneventano, portassero i
capelli allo stesso modo. È probabile che l’uso intenzionale e dimostrativo fosse limitato
agli esponenti della nobiltà, più in generale ai ceti politici e militari del regno, come
del resto suggeriscono gli episodi di affiliazione e adozione spirituale, che compren-
devano sempre il taglio dei capelli o della barba98; resta il fatto che nonostante le tra-
sformazioni avvenute dai tempi della conquista all’Viii secolo esistevano e venivano
mantenute ancora forme esteriori di manifestare l’identità longobarda, almeno da par-
te di coloro che avevano interesse a manifestarla e a distinguersi in virtù di essa.
Dentro un regno longobardo che includeva diversi livelli di partecipazione politica
e identitaria, pur nella concezione inclusiva della sovranità, vi erano dunque gruppi
sociali, non necessariamente omogenei, che conservavano ed elaboravano un’identità

96
La tesi sviluppata da Ph. VoN RUMMEL, habitus barbarus. Kleidung und Repräsentation spätantiker Eliten im
4. und 5. Jahrhundert, Berlin-New york, 2007 (Ergänzungsbände zum Reallexikon der Germanischen al-
tertumskunde, 55) per l’epoca tardoantica; cfr. anche le considerazioni di W. P ohL, Telling the difference: signs
of ethnic identity, in Strategies of Distinction. The Construction of Ethnic Communities. 300-800, a cura di W. Pohl,
h. Reimitz, Leiden-Boston-Köln 1998, pp. 51 sgg. per l’acconciatura nell’epoca successiva.
97
hL, iV, 22.
98
adozione (ingannevole) del friulano Tasone da parte del patrizio bizantino di oderzo, hL, iV, 38: «nam
promittens Tasoni ut ei barbam, sicut moris est, incideret, eumque sibi filium faceret»; adozione del franco
Pipino da parte di Liutprando, hL, Vi, 53: «Circa haec tempora Carolus princeps Francorum Pipinum suum
filium ad Liutprandum direxit, ut eius iuxta morem capillum susciperet. Qui eius caesariem incidens, ei pater
effectus est». in entrambi i casi è possibile ipotizzare che il rituale fondamentale dell’adozione consistesse
nell’adeguare l’acconciatura – barba o capigliatura – dell’adottato alla tradizione propria dell’adottante. a
proposito del valore dell’acconciatura si può ricordare anche, sebbene sia più tarda e relativa a vicende suc-
cessive, la notizia di Erchemperto, Historia langobardorum beneventanorum, cap. 4: alla morte del principe di
Benevento arechi ii, Carlomagno si sarebbe indotto a consentire che il figlio, Grimoaldo iii, gli succedesse,
«set prius eum sacramento huiusmodi vinxit, ut Langobardorum mentum tonderi faceret, cartas vero num-
mosque sui nominis caracteribus subscribi semper iuberet» (ed. G. Waitz, MGh, Scriptores rerum langobar-
dicarum et italicarum, p. 236).

49 Ritorno ai longobardi
Paolo Delogu

specifica caratterizzata come etnicamente longobarda99. Non voglio dire con questo
che i longobardi dell’epoca delle invasioni si perpetuarono con le loro tradizioni nel
corso di due secoli come gruppo chiuso, distinto dalla popolazione romana in mezzo
alla quale si accamparono senza integrarsi né acculturarsi. Sotto il profilo etnico e so-
ciale si può tranquillamente riconoscere che i discendenti degli invasori si mescolarono
con quelli della popolazione indigena; che le distinzioni fondate sull’occupazione pro-
gressivamente si attenuarono; che elementi biologicamente romani si assimilarono ai
longobardi; che la società del regno divenne progressivamente più complessa con la
ripresa di attività economiche complesse, espresse anche dalla ripresa della vita citta-
dina, sicché la diversità delle condizioni etniche non fu più fondamento di margina-
lizzazione sociale. Sono questi del resto aspetti della grande trasformazione generale
che ebbe luogo tra Vii ed Viii secolo. Ma ciò non significa che si lasciasse svanire il
valore politico dell’identità nazionale, magari sostituito da una generica consapevolezza
di appartenenza al regno, né che si abbandonassero riferimenti culturali che risalivano
ad un passato più o meno lontano, ed erano considerati come tradizione specifica del
dominio politico. Nel corso del tempo, continuamente reinterpretati, essi divennero
i riferimenti propri del ceto politico che assunse il governo del regno e che li utilizzò
per qualificare se stesso e la propria base sociale.
Chi ha avuto la pazienza di seguire fin qui le mie faticose argomentazioni avrà no-
tato il carattere ancora una volta ipotetico e sperimentale delle conclusioni. Tuttavia
nei limiti in cui esse possono essere accolte, almeno come ipotesi di lavoro, andrebbero
tenute presenti anche per impostare il problema dell’identità longobarda nel periodo
dell’invasione e dell’insediamento in italia. Si tratta certamente di un campo di ricerca
più arduo di quello che ho percorso in questa occasione, perché mancano quasi com-
pletamente le fonti scritte, che con tutte le loro ambiguità restano sempre rivelatrici di
intenzioni e valori, mentre le fonti archeologiche sono soggette a problemi di interpre-
tazione ancora maggiori. Quello che mi sembra di poter dire è che il compito che si
presenta oggi al pensiero storico, e dunque anche alla ricerca archeologica, è quello di
cercare di individuare in positivo, dribblando i paletti posti da decenni di sperimenta-
zione decostruttiva, in che modo gruppi sociali e politici definiti, in determinati mo-
menti della loro storia, considerarono se stessi e si rappresentarono agli altri.

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W. PohL, Le identità etniche nei ducati di Spoleto e Benevento, in I longobardi dei ducati di Spoleto e di Benevento,
i, pp. 79-103 giunge a conclusioni analoghe (in part. p. 98), ma sembra limitare la rivendicazione di identità
a nuclei sociali ristretti, anziché ritenerla partecipata da più estesi settori della società del regno.

50 Desiderio. il progeto poliico dell’ulimo re longobardo

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