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CAPITOLO 1

Le crisi della pars Occidentis


Ci si chiese a lungo quale fosse stata la causa scatenante della caduta della parte occidentale
dell'impero. Per alcuni la colpa era dei barbari, per altri del diffondersi del cristianesimo, per altri
ancora la debolezza strutturale dell'impero. Attualmente si tende a ritenere che concorsero più
cause alla di Roma, nessuna direttamente finalizzata allo scopo. I popoli del nord-est che si
insediarono nei territori dell'impero erano attratti dalle sue ricchezze e avevano rapporti spesso
di antica data con Roma, nonostante non godessero degli stessi vantaggi dei cittadini dell'impero.
Roma era un gigante centralizzato, il cui funzionamento era basato sulla capacità di prelevare
tasse, spesso sotto forma di derrate alimentari, per ridistribuirle in ogni angolo dell'impero.
L’unità territoriale consentiva l'assenza di barriere alla circolazione delle merci. Quando questa
unità però si ruppe, inevitabilmente il commercio e l'economia di Roma ne furono influenzati. Si
deduce, quindi, che nonostante l’incidenza dei fattori esterni, all’organizzazione interna
dell’impero è da attribuire la colpa della sua caduta. L'area mediterranea si reggeva
prevalentemente su un'economia agraria, anche se molto importanti erano stati i commerci. Nel
vicino Oriente il ruolo dominante era svolto dal commercio. Rispetto ai secoli precedenti, le
ricchezze non erano concentrate più solo a Roma o in Italia, ma diffuse, ancorché non
armonicamente, in tutto l'impero. In Italia, però, questo fenomeno ebbe conseguenze negative.
Nella penisola la forza lavoro era basata prevalentemente sugli schiavi catturati in guerra ma, dal
momento che la pace nell'impero non favoriva l'approvvigionamento di schiavi la produzione
cominciò a calare e a subire la concorrenza delle province. Alla carenza di manodopera, infatti,
non aveva seguito una politica di finanziamenti o la ricerca di nuove tecniche. A ciò si aggiunse il
progressivo spopolamento causato, in parte, da ragioni climatiche. L’agricoltura subì le dirette
conseguenze di questa situazione e i latifondi scarsamente produttivi si andarono allargando e il
ceto dei contadini liberi si assottigliò. Quando l'impero iniziò ad essere minacciato a nord-est, si
trovò nella condizione di chiedere tributi straordinari a regioni che non erano in grado di
sostenere il peso.

Diocleziano (284-305)
Dopo gli anni dell'anarchia militare, nel 284 ascese al potere Diocleziano, un militare di origine
dalmata che inaugurò un'importante era di riforme. Egli si impegnò a rafforzare il carattere
assolutistico dell'autorità imperiale, riprendendo tradizioni di origine orientale, come l'uso del
diadema (una fascia di stoffa bianca d'origine sacerdotale arricchita di gemme che si intrecciava
alla corona). I ministri erano soggetti a un rigido cerimoniale di corte che andava ad imitare quello
persiano. Il rafforzamento del culto imperiale, inevitabilmente, lo portò a scontrarsi con il
cristianesimo. Si ricorda a proposito l'emanazione dell'editto persecutorio del 303 che ordinava
la distruzione delle chiese, il rogo delle sacre scritture e misure che colpissero i cristiani che
svolgevano mansioni pubbliche. Le persecuzioni continuarono fino al 311, quando l'imperatore
Galerio emanò l’editto di tolleranza. Diocleziano, inoltre, inaugurò il periodo del dominato e della
tetrarchia. Egli divise la gestione amministrativa dell'impero tra due augusti che governavano
rispettivamente l'oriente dalla capitale Nicomedia (Anatolia, odierna Turchia) e l'occidente da
Milano. Alle dipendenze dei due augusti stavano due cesari, candidati a succedere loro, che
governavano rispettivamente l'area greco-balcanica con capitale Sirmio (città nell’attuale Serbia)
e il nord-ovest europeo con capitale Treviri (città nell’attuale Germania). Roma continuava a
svolgere il ruolo di città sacra, ma la sua posizione non consentiva più di servirsene come centro
politico e amministrativo. Le regioni augustee vennero sostituite da 12 diocesi rette da vicari, a
loro volta suddivise in 101 province, al fine di semplificare le pratiche amministrative e limitare

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il potere territoriale dei grandi comandi militari. Diocleziano si occupò anche di una riforma
dell'esercito: il grosso di esso era costituito dai limitanei, truppe di frontiera, affiancate da
comitatenses, reparti scelti deputati a spostarsi rapidamente. Come previsto, nel 305 si ritirò e
morì nel 313.

Costantino (306/324-337)
Come previsto, nel 305 i due augusti si ritirarono e gli succedettero i cesari Galerio e Costanzo.
Quest'ultimo morì quasi subito e alcune legioni acclamarono augusto suo figlio Costantino. Ciò
portò allo scoppio di una guerra tra i pretendenti, che si concluse con la nomina in Occidente di
Costantino e in Oriente di Licinio. In questo contesto si colloca l’editto di Milano (313), nel quale
si accordava la piena libertà di culto a tutte le religioni dell'impero.. La pace durò solo nove anni
e nel 324 Costantino sconfisse Licinio ad Adrianopoli, nella penisola balcanica (oggi parte più
occidentale della Turchia). Il sistema tetrarchico non venne più restaurato. Costantino prese atto
che l'asse dell'impero ormai si era spostato ad Oriente, per questo nel Bosforo, in un'area
occupata dalla modesta città di Bisanzio (Turchia), non lontana da Nicomedia capitale
dell'augusto d'oriente, la nuova capitale chiamata Costantinopoli. Il punto da lui scelto era un
crocevia tra Asia ed Europa. In ricordo dell'assetto tetrarchico rimase la divisione in quattro
prefetture, divise in 14 diocesi e, a loro volta, 117 province. L’oriente era la zona senz'altro più
ricca e, quindi, più necessaria da difendere dalle minacce persiane e del nord-est. I problemi
economici dell'impero avevano influito anche sui quasi duecento giorni festivi annui, necessari
per placare le istanze della plebe e dar loro mezzi di sostentamento. Allontanarsi dalla morsa della
plebe romana era sembrato a molti imperatori la scelta più ovvia. La tradizione lesse la svolta in
senso cristiano intrapresa da Costantino come la conseguenza di un sogno avuto prima della
battaglia contro Massenzio, che l'avrebbe condotto alla conversione. Nel medioevo si impose la
leggenda di un Costantino battezzato e cristiano. Nella realtà è possibile che egli abbia ricevuto il
battesimo (come ricevette presumibilmente iniziazioni di altri culti), ma non rinuncio mai al suo
ruolo di pontefice massimo, il capo supremo dei collegi sacerdotali pagani. Inoltre, l'interesse
dimostrato per la Chiesa cristiana, a tal punto da presenziare nel 325 al concilio di Nicea, va
allineata al suo disegno politico, nella volontà di appoggiare e farsi appoggiare da un gruppo in
crescita che a lui si sarebbe indissolubilmente legato. Nei confronti delle eresie non fu per nulla
tollerante.

Da Costante a Teodosio
Il IV secolo conobbe l'ultimo accanito contrasto tra cristiani e pagani. La crisi raggiunse il suo
apice nel 357 con la contesa intorno all'altare della vittoria. Costante II, succeduto a Costantino,
fece rimuovere l'ara sacra alla quale i senatori rendevano omaggio. Ciò provocò un'offensiva
pagana guidata dallo stesso imperatore Giuliano, etichettato dalla tradizione cristiana con
l'epiteto di apostata (rinnegatore del proprio credo). Giuliano, pagano ma cresciuto alla fede
cristiana, lasciò sostanziale libertà di culto, pur abolendo i privilegi concessi alla chiesa da
Costantino, e facendo il tutto per contenere l'influenza cristiana sulla vita pubblica (ostacolò la
carriera pubblica dei cristiani). Alla morte di Giuliano, la Chiesa riprese il sopravvento grazie a
Graziano e alla sua vicinanza ad Ambrogio, vescovo di Milano, sotto la cui influenza decise di non
fregiarsi del titolo di pontefice massimo. Nel 380, con l’Editto di Tessalonica, Graziano, Teodosio
e Valentiniano sancivano l'adozione del cristianesimo, inteso secondo il credo niceno, quale
religione di Stato. Proibivano, inoltre, l'arianesimo e i culti pagani visto l’esclusivismo religioso
del cristianesimo. Negli anni successivi, specie in Oriente, fanatici cristiani si accanirono nella
distruzione degli antichi luoghi di culto pagano, istigati spesso dagli stessi imperatori.

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La diffusione del cristianesimo
Il cristianesimo si era affermato nell'impero fin dal I secolo d.C., suscitando non pochi consensi,
ed era approdato a Roma mimetizzandosi tra le altre tendenze religiose orientali. In principio si
diffuse nelle città portuali, tipo Brindisi, per poi raggiungere le regioni dell'entroterra lungo le
principali vie di comunicazione, tipo la via Appia. Dalle testimonianze si sa che San Paolo toccò
Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli prima di giungere a Roma. Nei primi decenni dopo la morte
di Gesù, avvenuta intorno al 35 d.C., i suoi fedeli lo identificavano con il Messia, letteralmente unto
del Signore, che rinvia alla cerimonia dell'unzione connessa con la proclamazione di un nuovo re.
Il nuovo sovrano, per gli ebrei, apparteneva solo a loro (cultura giudeo-cristiana). Si attribuisce a
Paolo l'aver imposto la tesi secondo la quale la nuova fede non riguardava solo il popolo di Dio
(quello ebraico), ma tutti i popoli della terra. Il cristianesimo venne in un primo momento
ritenuto una setta ebraica a causa dello scoppio di risse e disordini. Quasi immediatamente si
registrarono i primi segnali di insofferenza verso la nuova religione, a partire dalle espulsioni
degli ebrei da Roma nel 49 ad opera dell'imperatore Claudio. Si può ricordare anche l'utilizzo dei
cristiani come capri espiatori da parte di Nerone, nell'incendio di Roma del 63. Si ricordano anche
le persecuzioni operate da Decio (libellus) e da Valeriano (editti). Alla base delle rimostranze nei
confronti dei cristiani vi era il rifiuto delle cerimonie pubbliche, dei giochi gladiatori, della vita
politica e del servizio militare d la segretezza dei culti.

Le Sacre Scritture
Nel mondo cristiano, non appena aveva cominciato a uscire dall'ambito dell'ebraismo, si era
manifestata l'esigenza di leggere ta biblia, le sacre scritture ebraiche, che coincidono per i cristiani
con l'Antico Testamento. I cristiani non ebrei, non conoscendo la lingua, vi avevano accesso
attraverso le traduzioni in greco. La più importante era quella redatta ad Alessandria tra il III e il
II secolo a.C., attualmente il testo biblico ufficiale della Chiesa greca. A questo testo, i cristiani
affiancarono nella loro Bibbia un Nuovo Testamento, costituito dai quattro Vangeli, dagli atti degli
apostoli scritti da Luca, dalle lettere degli apostoli e dall'apocalisse attribuita a Giovanni. Questi
nuovi libri furono composti tutti nella koinè dialektos. Importante fu l'opera di traduzione in
latino operata da San Gerolamo, nota con il termine Vulgata, dall'ebraico per il Vecchio
Testamento e dal greco per il Nuovo Testamento. Altri libri di dubbia tradizione furono detti
apocrifi e non rientrano nel canone biblico, ovvero la sequenza dei testi dichiarati canonici,
redatto nel 1546 durante il Concilio di Trento. Al II e al III secolo sono datate anche le prime
domus ecclesiae, cioè case private sistemate in modo da renderle idonee al culto. A partire dai
primi del IV secolo si cominciò ad adattare al culto cristiano la basilica, edificio pubblico romano.

L’organizzazione della Chiesa


Le comunità dei credenti in Cristo, le ekklesiai ovvero Chiese, si erano insediate liberamente luogo
per luogo man mano che l’evangelizzazione cristiana procedeva. I fedeli si riunivano attorno ai
presbyteroi, i più anziani, ai quali spettava l'insegnamento delle sacre scritture e la celebrazione
memoriale della Santa cena. A partire dal IV secolo, le chiese locali si riunirono in diocesi,
organizzazioni territoriali modellate sulle circoscrizioni civili dell'impero, e a capo di ciascuna
diocesi venne posto un episcopos, il vescovo. Fra questi si distinguevano per autorità i patriarchi
delle quattro sedi vescovili, che si dicevano fondate dagli apostoli: Roma, Costantinopoli, Antiochia
e Alessandria. Anche la nuova fede provò il bisogno di esprimersi mediante cerimonie: l'insieme
di queste prese il nome di liturgia, termine già utilizzato in riferimento alle cerimonie ebraiche
affidate ai sacerdoti. La comunità dei credenti si divise a partire da allora in clero e laici.
All'interno del clero i membri furono organizzati secondo un sistema di conoscenze in differenti

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ordini, distinti in minori e maggiori. I preti, originariamente i più anziani, divennero sacerdoti e
la Santa cena divenne la messa. Durante il IV secolo la struttura della messa si articolò in tre parti:
le letture bibliche, l'offertorio e la liturgia eucaristica. I momenti di incontro erano i concili, che
se avessero riguardato l’intera Chiesa sarebbero stati denominati ecumenici (tutti i vescovi),
oppure i sinodi, che riunivano il clero di una diocesi. Il primo concilio ecumenico fu celebrato nel
325 a Nicea, alla presenza dell'imperatore Costantino. Il fine di questi era definire i punti cardine
della dottrina da professare, come il rapporto tra Cristo, Dio e lo Spirito Santo, il ruolo della
Madonna e le eresie. Le prime e principali eresie furono cristologiche riguardanti cioè la persona
e la natura di Cristo e il suo rapporto con umanità e divinità.1

1. per approfondimenti su concili ed eresie vedi Castiglia.

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CAPITOLO 2
I popoli delle steppe
Nel corso del II secolo d.C. si era avviata una lunga fase di raffreddamento climatico nell'emisfero
boreale del pianeta, portando con sé un naturale peggioramento delle condizioni di resa agricola,
delle condizioni economiche e un aumento delle malattie epidemiche. Questo peggioramento
coinvolse in egual misura i due imperi che si trovavano all'estremo Occidente e all'estremo
Oriente della massa eurasiatica, Roma e l'impero cinese. In Asia centrale interi popoli nomadi, la
cui sopravvivenza dipendeva dai pascoli, furono costretti a muoversi alla ricerca di un clima più
mite. I due imperi reagirono per arginare, o quantomeno disciplinare, questi nuovi flussi
migratori. I romani avevano rapporti mercantili, sia pur mediati, con l'estremo Oriente e con la
Cina, per loro il paese dei produttori di seta. Ai confini della Cina, nell’altopiano mongolico, vi
abitava una popolazione chiamata dalle fonti occidentali unni. I cinesi, che intendevano creare un
esercito di squadroni a cavallo per difendersi dalle incursioni, avendo devoluto quasi tutte le terre
fertili all'agricoltura, dovettero entrare in contatto con gli unni per comprare i loro cavalli. Dalla
necessità della guerra, quindi, emergevano i primi scambi commerciali e la necessità di creare vie
di comunicazione. Questo portò alla nascita delle vie della seta. I popoli delle steppe si spostarono
anche verso Occidente, dove interagirono con le popolazioni germaniche e slave che,
gradualmente, si avvicinavano ai confini dell’Impero Romano. Alla crisi istituzionale e territoriale
e all’imporsi di una nuova fede, si aggiunse l’arrivo di nuovi popoli all’interno del territorio
dell’impero a sconvolgere gli equilibri. Fra l’VIII e il III a.C. la regione compresa tra la Transilvania
e il Mar Nero era stato interessata da molte migrazioni di popoli seminomadi che i greci
identificarono con i nomi di geti ed i daci. Vanno indubbiamente citati anche gli sciti, un popolo
nomade di stirpe nordica composto da abilissimi cavalieri e arcieri dediti a cerimonie di tipo
sciamanico che prevedevano stati di estasi indotta da hashish. Gli sciti non erano un popolo
compatto, ma un vasto gruppo di tribù guerriere nomadi che avevano in comune la lingua, la
religione, le armi e le tecniche d'allevamento del cavallo. Numerose loro caratteristiche erano
condivise dai sarmati, di origine nord-iranica. Il loro ingresso nei territori contesi fra persiani e
romani portò entrambi gli schieramenti, ma soprattutto i primi, a ingaggiare questi temibili
cavalieri.

I germani
L'incontro tra i nomadi delle steppe e i germani determinò alcuni cambiamenti. Questi ultimi, ad
esempio, combattevano esclusivamente a piedi prima dell'incontro con i nomadi. Tra il III e il IV
secolo d.C. i germani, spinti da peggioramenti climatici e dalla pressione esercitata dalle tribù
nomadi delle steppe alle loro spalle, si misero in cammino la ricerca di terre maggiormente
ospitali. Fu per questo che gruppi più o meno consistenti di barbari entrarono nel territorio
dell’Impero Romano, in genere come ausiliari dell'esercito, ottenendo in cambio il diritto di
insediarsi su alcune terre e di lavorarle, trasformandosi così da nomadi o seminomadi ad
agricoltori e contribuendo, almeno in parte, a rimediare allo spopolamento delle campagne. Non
si deve pensare al mondo germanico come un insieme compatto ed omogeneo, scevro dalle
influenze esterne. Ad esempio, divinità come le Norne assomigliano alle parche e alle moire, così
come Thor ad Ares-Marte. Thor, il cui attributo è il martello, arma da lancio assimilabile ad un
fulmine, appare il destinatario di un culto solare celeste. Più difficile comprendere la natura di
Odino, divinità dai caratteri sciamanici che presiede la magia, si trasforma in animale, legge nel
futuro, è legato alla poesia, al diritto e alla guerra. Nel I secolo d.C. Tacito afferma che i germani
non avevano un'organizzazione di santuari e luoghi sacri e non erano soliti rappresentare le
divinità in sembianze antropomorfe. Il dato più evidente della loro religiosità era il prevalere del

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culto di elementi naturali, come alberi e boschi. È noto il sacrificio di uomini e animali
impiccandoli ai rami degli alberi di un bosco sacro. Il rito è probabilmente riferito all'iniziazione
di Odino, che avviene attraverso una lunga sospensione un albero sacro. Questa somiglianza
formale tra l'iniziazione di Odino e la crocifissione di Gesù venne utilizzata dai missionari cristiani
che tra l'VIII e il X secolo convertirono i popoli germanici dall’Europa centro-orientale e
settentrionale. Nella tradizione germanica l'ordine cosmico sarebbe stato sconvolto alla fine dei
tempi nel ragnarok. Anche questa analogia con l'apocalisse fu sfruttata dai missionari. Dal punto
di vista sociale, il nucleo base della popolazione germanica era quello che riuniva più famiglie
collegate da rapporti di parentela.

La divisione dell’impero e il sacco di Roma del 410


Del IV secolo la pressione delle popolazioni germaniche contro il limes dell'area reno-danubiana1
era diventata molto incalzante. Le popolazioni in questione sono oggi note con i nomi di alamanni,
svevi, burgundi, franchi, vandali, ostrogoti e visigoti. Verso la fine del IV secolo, le lotte interne alla
dinastia imperiale e la pressione dei visigoti, che avevano sconfitto i romani nella battaglia di
Adrianopoli del 378, avevano portato a rivedere il principio dell’unicità dell’impero riaffermato
da Costantino. Ciò aveva portato alla creazione di una diarchia. Per tenere a bada i visigoti,
Teodosio stipulò con loro un accordo e li accettò quali federati nei confini dell'impero, in Pannonia
(parte di Ungheria e Croazia). Non da tutti queste forme di insediamento erano viste di buon
occhio, anche perché in diverse località i germani avevano occupato proprietà di privati. Le
continue lotte per impossessarsi del ruolo di augusto avevano portato alla morte di Graziano e
Valentiniano, lasciando in vita solo Teodosio. Questi, poco prima di morire, lasciò nel 395 la parte
occidentale ad Onorio e la parte orientale ad Arcadio. Nella pratica Teodosio aveva inteso
garantire all'impero la sopravvivenza, concentrandosi nella pars orientis, più ricca e più sicura
per quanto minacciata dai persiani, e accettare che la pars occidentalis, alla quale l'impero non
rinunciava, seguisse il suo destino. La lotta tra i due fratelli fu una delle cause del divaricarsi dei
destini delle due parti. Il generale Stilicone contrastò valorosamente la rivalità dei due fratelli, che
favorivano le rivolte l'uno nei territori dell’altro, e batté più volte i visigoti di Alarico, cercando al
contempo una politica d'intesa con i barbari. Proprio per questo motivo fu accusato e fatto
giustiziare. Ciò provocò la ripresa delle ostilità da parte dei visigoti con i quali Onorio fu incapace
di trovare un accordo. Nel 410 i visigoti ripresero la loro marcia e giunsero ad occupare a
saccheggiare Roma, mentre Onorio rimaneva al sicuro nella sua capitale, Ravenna, difesa dalle
paludi. Il saccheggio di Roma non fu un episodio in sé troppo drammatico, vi furono sì violenze,
ma il re visigoto era cristiano e rese omaggio ai sepolcri degli apostoli. Tuttavia, l'impressione fu
tale che ispirò Sant'Agostino ad intraprendere la stesura del de civitate dei, nel quale si chiedeva
perché Dio aveva potuto permettere un fatto così inaudito e terribile come la profanazione
dell'Urbe. Alarico partì da Roma portando con sé la principessa Galla Placidia, sorella di Onorio,
ma morì in Italia meridionale in procinto di passare il mare diretto in Africa. Il suo successore
sposò la principessa romana e occupò la Gallia meridionale e la Catalogna e si impegnò,
nonostante la morte precoce, a trovare una pacifica convivenza con i romani e dotare visigoti di
una loro autocoscienza nazionale, la Gothia. I visigoti ottennero dall’impero il riconoscimento del
loro insediamento nella Gallia meridionale nella penisola iberica. Intanto, altre popolazioni
germaniche si dislocavano in tutta l'area della pars Occidente: i vandali nella Spagna meridionale,
da dove poi sarebbero passati in Africa, e gli angli e i sassoni nella Britannia.

Dal terzo sacco di Roma alla caduta della pars occidentis

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Nella metà del V secolo, gli unni si presentarono in Italia guidati da Attila, la cui feroce è diventata
leggendaria. Egli non era a capo solo degli unni, ma di una federazione di genti germaniche, nord-
iraniche e slave. Il generale Ezio lo batté nel 451 in Gallia, ma ottenne solo che egli ripiegasse
verso l'Italia. Tuttavia, nel 452 il principe unno inspiegabilmente si arrestò mentre stava
puntando su Roma e tornò sui propri passi, di lì a poco sarebbe morto. È probabile che temesse
la reazione degli eserciti imperiali d'oriente, ma secondo la tradizione fu Papa Leone I che,
soccorso da un’arcana visione, lo dissuase dal profanare quella che ormai era diventata la capitale
della cristianità. La stessa reverenza non fermò il cristiano, seppur di fede ariana, Genserico, re
dei vandali. Il terzo sacco di Roma, avvenuto nel 455, fu motivato formalmente dall'indignazione
di Genserico alla notizia che l'imperatore Valentiniano III era stato eliminato e sostituito da un
usurpatore. Dalle personalità di spicco del periodo è possibile dedurre che i germani venissero
soventemente e in vario modo inseriti nell'assetto giuridico romano, attraverso patti di foederatio
e l’istituzione dell hospitalitas2. Grazie alle loro abilità facevano carriera come guardia del corpo
degli imperatori o come comandanti delle forze armate romane (es. Stilicone ed Ezio). Fu appunto
un barbaro che era al tempo capo mercenario nell'armata romana, Odoacre, che nel 476 pose fine
alla commedia che era ormai divenuto l'impero d'occidente. Egli depose ed esiliò il giovanissimo
imperatore Romolo Augustolo, figlio di Oreste, ex segretario di Attila che era riuscito a diventare
comandante dell'esercito. Odoacre uccise Oreste, conquistò la capitale amministrativa
dell'impero (Ravenna) ed esilio il ragazzo. Romolo Augustolo fu l'ultimo imperatore della pars
occidentalis perché Odoacre, rompendo la consuetudine della nomina di sovrani fantoccio, inviò
l’insegna imperiale all'augusto della parte orientale, Zenone, accompagnandole con il messaggio
che un solo imperatore bastava per tutto l'impero. Il sovrano rispose conferendo ad Odoacre il
titolo di patricius, grazie al quale gli poté governare l'Italia come funzionario pubblico, fino al 493
quando venne battuto e ucciso dallo ostrogoto Teodorico.

Gli angli e i sassoni in Britannia


I goti ti avevano fatto, in un certo senso, da battistrada a ulteriori immigrazioni. Durante il V secolo
il limes reno-danubiano cedette in più punti. Le popolazioni in questione non avevano alcuna
intenzione di contestare le istituzioni imperiali né tantomeno di abbatterle, volevano
semplicemente insediarsi nell'area che, almeno formalmente, queste istituzioni controllavano.
Tra di loro ci ricordano i vandali, gli svevi, i burgundi, i turingi e gli avari. Le legioni romane si
erano ritirate nella prima metà del V secolo dalla Gallia settentrionale e dalle due grandi isole di
Britannia e Ibernia (Irlanda). Ciò indusse alcune genti germaniche a passare il canale della manica
per giungere in Britannia, sottomettendo gli originari abitanti celti più o meno romanizzati. Molti
celti varcarono il mare d'Irlanda per rifugiarsi nell'isola Ibernia o a sud presso le affini popolazioni
della penisola di Armorica, che dai britanni immigrati assunse il nome di Bretagna (Francia).
L'antica Britannia veniva in gran parte occupata dagli angli e dai sassoni. Sembra che le genti
celtiche conservassero a lungo in opere epiche, prima orali e poi scritte, il ricordo delle lotte
celtiche contro gli angli e i sassoni. Ne nacque più tardi nel corso del XII secolo l'epopea del re
Artù, leggendario capo della resistenza celtica.

I franchi in Gallia
Di particolare consistenza era il gruppo dei franchi. Le prime notizie di qualche rilievo sul loro
conto si incontrano nelle fonti verso la metà del III secolo, quando essi, al pari di molti germani
entrarono, in contatto con l’Impero romano. I franchi, più che un'entità etnica unitaria, erano una
lega di tribù. Le forme dei loro contatti con l'impero, sulle quali si è solamente parzialmente
informati, non sembrano mostrare tattiche o strategie precise. Nella seconda metà del III secolo,

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insieme ad altri gruppi di germani, i franchi si resero protagonisti di numerose scorrerie. Tuttavia,
alla fine dello stesso secolo, con l'avvento di Diocleziano l'impero riacquistò un certo controllo sui
propri confini, che si protrasse sino alla metà del IV secolo. In questi decenni, coloni di prigionieri
germani vennero insediati lungo il limes come contadini e, all'occorrenza, soldati. Tra questi
erano presenti molti franchi che occuparono la Gallia settentrionale. Nello stesso periodo si ha
notizia di una loro cospicua infiltrazione nell'esercito romano. All'inizio del V secolo i franchi
sembrano ormai essersi stabilizzati nella Gallia centrale come federati dell’impero, per conto del
quale difendevano la frontiera renana contro le altre popolazioni. Tuttavia, la probabile presenza
di differenti raggruppamenti all'interno del mondo franco, faceva sì che essi non seguissero una
linea politica univoca, come testimonia la notizia di uno scontro con l'esercito imperiale. Il
disfacimento della compagine occidentale dell'impero consentì loro di distribuirsi più
liberamente sul territorio, dando vita ad alcuni regni nei pressi del Reno.

1. Confine reno-danubiano

2. regime della foederatio = comportava l’obbligo di combattere per Roma e difendere


l’Impero, dietro pagamento di un compenso;
sistema dell’hospitalitas = consentiva loro di stanziarsi in un determinato territorio
ricevendone in cambio un terzo (tertia), o proventi o quote fiscali corrispondenti come
fonte di sostentamento.

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CAPITOLO 3
I regni romano-barbarici
Da quando nel 476 l'ultimo imperatore romano d'occidente era stato deposto, costante
preoccupazione dei sovrani di Costantinopoli era stata quella di consentire all'occidente un
assetto che non li obbligasse a intervenire di continuo con pesante dispendio di mezzi in una
regione impoverita. Fu così che gli imperatori romano-orientali fecero buon viso a tutti quei capi
barbari che si arrogavano il governo di certe zone occidentali, a patto che riconoscessero la
superiore autorità di Bisanzio, salvando in tal modo il principio dell'unità dell'impero.
Ovviamente erano possibili interventi volti a favorire colpi di Stato e congiure in modo da
impedire che qualcuna di queste monarchie divenisse troppo forte. Queste monarchie prendono
il nome di romano-barbariche, per sottolinearne il carattere misto.

I goti
I goti furono i protagonisti della migrazione più ampia e significativa, anche se non si parla di un
popolo unitario, ma di una confederazione. La tradizione li fa originari della Scandinavia, mentre
le tappe del loro percorso sono in larga parte ignote. Dal III secolo risultavano divisi in visigoti e
ostrogoti. Nel corso del IV secolo si convertirono al cristianesimo, nella sua confessione ariana,
condannata dal concilio di Nicea, ma molto diffusa. Nella seconda metà del IV secolo, il vescovo
ariano Ulfila tradusse la Bibbia in goto. Di questo personaggio si sa i nonni, cristiani di lingua greca
e di cultura ellenistica, erano stati rapiti e ridotti in schiavitù. Perfetto conoscitore di più lingue,
pare svolgesse attività diplomatica per i goti presso la corte bizantina. A seguito di questi
prolungati rapporti fu designato vescovo dei goti.

I visigoti in Gallia e Spagna


Dopo la morte di Alarico, come già visto, le tribù dei visigoti si erano stanziate tra la Spagna e la
Gallia, arrivando a controllare quasi tutta la Gallia occidentale. Tuttavia, furono sconfitti
militarmente dai franchi di Clodoveo nel 507 e costretti a ritirarsi al di là dei Pirenei. Da allora
essi costituirono nella penisola iberica un regno dotato di leggi scritte, di chiara influenza romana,
che riuscì ad allargare il proprio dominio sulla penisola iberica, arrivando a conquistare anche il
regno Svevo. I visigoti abbandonarono alla fine del sesto secolo la fede Ariana convertendosi al
cattolicesimo. All'inizio dell'VIII secolo, il regno visigoti fu travolto dalla conquista musulmana.

Gli ostrogoti in Italia: Teoderico


Alla fine del V secolo, dopo che Teoderico sconfisse Odoacre, egli, con il titolo di patricius
attraverso il quale governava per conto dell'impero in Italia, si insediò a Ravenna. Sotto Teoderico
il regno d'Italia era divenuto la principale potenza territoriale europea. Oltre all'Italia, i confini
includevano l'antica illiria, una porzione della Rezia (parti delle attuali Svizzera, Austria, Svevia,
Baviera, Trentino-Alto Adige, Lombardia) e la Gallia meridionale. Teoderico aveva agito con
autonomia nella costruzione del regno, cosa che inevitabilmente avrebbe portato presto a una
reazione bizantina. Il sovrano seguiva un cerimoniale nelle apparizioni pubbliche non dissimile
da quello dell'imperatore vero e proprio, era chiamato augustus dai funzionari al suo servizio, ma
ebbe sempre l'accortezza di farsi chiamare rex, mai imperator, in modo da non creare dissidi con
Bisanzio, già preoccupata per i suoi vasti poteri. Egli distribuiva le cariche amministrative tra i
senatori, spesso latini, e si occupava della plebe attraverso l'organizzazione di giochi e le
distribuzioni di derrate alimentari. Ovviamente, era attento a non tralasciare la parte germanica
del suo regno. In politica estera si alleò con i visigoti di Spagna e i franchi di Gallia. Ostrogoti e
romani convivevano in un regime di separazione giuridica: i primi, che istituzionalmente erano i

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foederati dell'impero, si occupavano delle questioni militari, i secondi solo di quelle civili. Il fatto
che i goti fossero ariani mentre i latini seguivano il credo niceno favorì lo sviluppo della vita
parallela della comunità, ciascuna delle quali aveva i suoi edifici di culto, il suo clero e la sua
liturgia. Una politica così accorta falli a causa degli intrighi del governo imperiale romano, che
aveva cominciato a guardare con rinnovato interesse alla pars occidentis e a seminare discordia
tra goti e latini, sia a causa dell'intransigenza di molti capi goti, che avrebbero preferito ridurre i
latini schiavitù.

Gli ostrogoti in Italia: da Eutarico alla guerra greco-gotica


Nel 518 era divenuto imperatore d'oriente Giustino. Il nuovo imperatore accettò di riconoscere
Eutarico come successore di Teodorico, del quale aveva sposato la figlia Amalasunta. L’anno
successivo si era giunti anche alla conclusione dello scisma acaciano, scoppiato a causa
dell'affermazione della natura esclusivamente divina di Cristo. Il Papa da Roma si schierò contro
questa teoria scomunicando Acacio. Si trattava del primo contrasto tra la chiesa orientale e quella
occidentale. Dopo la risoluzione dello scisma, Giustino intraprese una dura politica di
persecuzione anticlericale: a farne la spesa furono molti ariani. Nel 525 Giustiniano era succeduto
a Giustino. Fu lui a raccogliere l'ambasceria di Papa Giovanni I, il quale per conto di Teoderico
chiedeva la cessazione delle persecuzioni contro gli ariani, anche se la missione si risolse in un
nulla di fatto. Ciò acuì i contrasti con il nuovo imperatore e Teoderico, dovendo designare un
nuovo successore a causa della morte di Eutarico, decise di non consultare Giustiniano. Si decise
per la designazione del nipote, al tempo circa decenne. Alla morte di Teoderico la figlia
Amalasunta ne assunse la reggenza. La donna decise di riprendere la politica di conciliazione
condannando le azioni di governo ai danni dell'aristocrazia romana, con lo scopo di instaurare
nuovi rapporti con Giustiniano. Tuttavia, esisteva una frattura all'interno del fronte germanico
tra quanti volevano riavvicinarsi all'impero e quanti, invece, avrebbero preferito ormai escludere
i romani. La morte del giovanissimo Atalarico fece precipitare l'Italia nel caos. Amalasunta provò
a proclamarsi regina, contro ogni convenzione, cercando appoggi tanto sulla sponda romano-
orientale, ormai protesa a tornare in possesso della penisola, quanto nel fronte gotico. In
quest'ultimo campo la sua scelta cadde su Teodato, avverso al partito romano. Questi, fingendo di
accettare la proposta di Amalasunta, la fece imprigionare su un'isola e ne ordinò l'assassino. Fu
questo il casus belli atteso da Giustiniano: egli proclamò Teodato usurpatore e scatenò una
campagna destinata a rivelarsi distruttiva per la penisola italica, passata alla storia con il nome di
guerra greco gotica (535-553).

La peste di Giustiniano
In passato si definiva peste qualsiasi tipo di epidemia, mentre oggi si fa riferimento alla yersinia
pestis, il cui contagio avviene per puntura di pulce infetta e la diffusione tramite, principalmente,
i roditori. La peste bubbonica è la più diffusa. La prima pandemia scoppiò nel 541 e, provenendo
dall'Asia, flagellò Costantinopoli per poi investire anche l'Europa. Lo storico Procopio di Cesarea
racconta che il morbo venisse annunciato da apparizioni e sogni alcune volte, mentre altre colpiva
del tutto inaspettato. Si manifestava con febbri non particolarmente gravi a cui seguivano
rigonfiamenti bubbonici su addome, ascelle, orecchie e cosce. Alcuni malati andavano in coma,
altri erano presi da attacchi di delirio. La convalescenza poteva durare fino a qualche giorno.
Procopio attesta che la mortalità aumentò con il passare del tempo, fino a contare 10.000 morti
al giorno. Dopo aver mietuto vittime in Oriente, la peste arrivò in Italia al seguito delle truppe
bizantine che combattevano nella guerra greco gotica e rimase endemica fino all'VIII secolo circa.
Fu proprio tra il VII e l'VIII secolo che si registra lo spopolamento più grave dell’Europa e

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l'abbandono dei villaggi da parte dei contadini, che preferivano barattare la loro libertà
ponendosi al servizio di proprietari terrieri, rifugiatisi nelle villae rurali.

I longobardi in Italia
La riconquista imperiale dell'Italia fu presto insidiata dall'arrivo nella penisola dei Longobardi,
un nuovo popolo germanico. Essi cominciarono la loro migrazione piuttosto tardi, forse agli inizi
del V secolo, spinti da una carestia. L’arrivo dei Longobardi segnò tradizionalmente una rottura
nella storia d’Italia. Dal 568/569 in poi, infatti, la Penisola dovette subire quasi quattordici secoli
di disunione. Nel 569 conquistarono Milano, dopo Treviso, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo,
mentre Pavia, che diventerà̀ capitale del regno longobardo, cadde nelle loro mani tre anni più̀
tardi. Il nome Langobardia maior, nell’alto medioevo, indicava i domini longobardi dell’Italia
settentrionale della Toscana. Altri gruppi si spinsero verso sud ed occuparono Benevento, che
divenne il centro principale dei territori longobardi nel Meridione. Il nome Langobardia minor
indicava nello stesso periodo i domini longobardi dell’Italia centro-meridionale, corrispondete ai
ducati di Spoleto e di Benevento. I nuovi padroni, almeno in un primo tempo, si dettero ad alcuni
massacri. Il primo re longobardo dopo la conquista fu Alboino. Prima dell’invasione dell’Italia
aveva condotto vittoriose campagne contro i Gepidi, uccidendone personalmente il loro re, del
quale aveva poi sposato la figlia. Questo matrimonio gli fu però fatale, poiché́ la moglie non tardò
a vendicare la morte del padre: nel 572 la regina ordì, infatti, una congiura che portò all’uccisione
di Alboino. Gli succedette Clefi, a cui seguì un lungo decennio senza sovrano (574-584), che si
chiuse con l'elevazione al trono di Autari. Sotto di lui fu ricostituita l’autorità̀ regia. Al fine di
rafforzare la propria posizione, Autari cercò alleanze con altre popolazioni germaniche, e sposò
la principessa barbara, Teodolinda, di religione cattolica. Molto vicino a papa Gregorio I,
Teodolinda contribuì̀̀ al passaggio al cristianesimo niceno-efesino-calcedoniano e all’adozione da
parte delle diocesi rette da vescovi longobardi della liturgia e della disciplina romana. Un altro
sovrano molto importante fu Rotari, che promosse la formazione di un testo scritto, latino, di leggi
longobarde e modificando molte leggi di origine germanica.

I longobardi in Italia: i rapporti con i romani


A differenza dei Goti, i Longobardi esercitarono in Italia un dominio duro e repressivo, restio al
dialogo, alieno dai compromessi. Le strutture amministrative romane furono cancellate e i sudditi
di origine romana relegati in posizione d’inferiorità̀ : essi non erano considerati uomini liberi e di
conseguenza non avevano il diritto di portare le armi. L’aristocrazia romana, che sotto i Goti aveva
mantenuto una posizione di rilievo, fu sistematicamente abbattuta: le sue terre furono confiscate
e molti suoi rappresentanti furono messi a morte. Un avvicinamento tra Longobardi e Romani si
ebbe alla morte di re Autari, quando la regina Teodolinda sposò in seconde nozze Agilulfo. In
questa politica svolse un ruolo decisivo la religione, attraverso una personalità̀ di spicco come
Papà Gregorio Magno. L’avvicinamento al cattolicesimo, tollerato da Agilulfo, divenne aperto
consenso presso i suoi successori, finché il re Ariperto (653-661) sconfessò apertamente
l’arianesimo e aderì ufficialmente alla religione cattolica.

I longobardi in Italia: l’economia


L’invasione longobarda trovò un paese in disfacimento, fiaccato dalla ventennale guerra greco-
gotica e prostrato da una spaventosa pestilenza, che nel 565 aveva spopolato città e campagne.
L’impatto dell’invasione longobarda fece precipitare una situazione già molto critica. Le attività̀
commerciali crollarono e si ridussero a scambi in natura su scala locale. Anche la circolazione e la

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coniazione di moneta si contrassero bruscamente. Il pesante calo demografico incise sulla
produzione agricola: la mancanza di manodopera e la contrazione del fabbisogno alimentare
favorirono l’abbandono di molte aree coltivate, con conseguente ampliamento degli spazi aperti
e incolti. Anche l'Editto trasmette informazioni riguardo all'economia e all'organizzazione del
lavoro. La ricchezza era costituita dalla proprietà di terra, di servi, di bestiame. Il commercio era
un'attività secondaria. Importante era la caccia (che integrava il fabbisogno di carne) e della
raccolta (ghiande, miele, frutti selvatici, ecc.). Alcune norme dell'Editto, per esempio, regolano in
modo minuzioso lo sfruttamento degli alveari o si soffermano sul criterio per assegnare una preda
colpita da più cacciatori. Fondamentale era l’allevamento del cavallo.

I longobardi in Italia: la società


Vivendo a stretto contatto con i celti e germani occidentali, i longobardi ne avevano acquisito la
rigida suddivisione in caste. La compagine sociale longobarda era suddivisa nettamente tra liberi,
guerrieri, e servi, che provvedevano al lavoro dei campi e alla pastorizia. Tra questi due livelli ve
n'era uno intermedio, quello degli aldi, uomini semiliberi, che non possedevano né terre né armi
e si ponevano sotto la protezione di un padrone. La distinzione tra liberi e non liberi determinava
anche una diversificazione delle pene a fronte di reati commessi. Un altro elemento tipico
dell'organizzazione sociale longobarda, la fara, termine derivante da una radice che allude al
viaggio e rinvia quindi al concetto della vita nomadica. Informazioni sulla loro organizzazione
vengono fornite dall'editto di rotari e dall'Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Due erano
le strutture fondamentali: le Sippe, famiglie allargate, e le congregazioni di guerrieri attorno a un
capo; quest'ultima prevaleva sulla Sippe. L'idea di regalità appare piuttosto lontana dalla storia
longobarda, dove sembra aver avuto maggior sviluppo alla figura del condottiero che domina
grazie al proprio valore. Certamente anche Longobardi conoscevano alcune dinastie che per
illustri natali si elevavano al di sopra di altre; tuttavia, è probabile che alcuni di questi lignaggi
appartenessero originariamente non al popolo longobardo ma gruppi assimilati nel corso dei
secoli. Per quanto riguarda il ruolo della donna, era riservata grande attenzione alla protezione
della sua dignità: essendo impossibilitata a difendersi da sola un reato violento che la coinvolgeva,
richiedeva una composizione finanziaria più alta rispetto all'omologo compiuto nei confronti di
un uomo. Se una moglie si atteneva alle regole imposte dalla società il marito non aveva su di lei
potestà illimitata. La donna godeva anche di parte nel patrimonio del marito dal momento che vi
contribuiva anch'essa al momento delle nozze. Tacito racconta di una loro devozione a una
divinità della fertilità, il che porta a pensare a un qualche interesse verso le pratiche agricole,
nonostante fossero in origine nomadi o seminomadi. Le norme contenute nell'editto di Rotari a
proposito sono infatti poche e rappresentano un adattamento alla situazione italica, numerose
sono quelle riferite all'allevamento del cavallo. Loro attribuivano grande importanza al cavallo e
ne facevano il simbolo del prestigio e della posizione sociale dell’individuo.

I franchi in Gallia
Tra le varie monarchie romano barbariche e quella dei franchi segnò profondamente la storia
europea. Come già detto, inizialmente non erano un popolo coeso. La prima vera unità politica
delle diverse tribù franche fu garantita da re Clodoveo (VI sec.), discendente di un leggendario
capostipite chiamato Meroveo, dal quale derivò a tutto il lignaggio il nome di Merovingi. Per
governare i territori conquistati Clodoveo si avvalse della collaborazione dell’aristocrazia gallo-
romana, laica ed ecclesiastica, utilizzando quanto sopravviveva delle strutture amministrative
imperiali. Allo scopo di consolidare tale rapporto e di farsi accettare dalla larghissima
maggioranza di sudditi non franchi il re, che era pagano, accettò il battesimo cattolico per mano

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del vescovo di Reims Remigio e fu seguito in tale scelta, anche se in modo graduale, da tutta la
stirpe franca. La conversione al cattolicesimo (anziché all’arianesimo, eresia diffusa tra i popoli
barbari) rese i Franchi interlocutori privilegiati per l’Impero e per il papato di Roma, oltre a
favorire all’interno del Regno la progressiva fusione tra l’elemento franco e quello gallo-romano.
Nel corso del VI secolo il loro regno si era allargato su gran parte dell'attuale Francia. I sovrani
merovingi regnavano su una popolazione composta prevalentemente da gallo-romani e la
conversione al cristianesimo avevo facilitato la collaborazione e la fusione con questo popolo. La
morte del re Clodoveo, avvenuta nel 511, comportò la divisione del regno fra i suoi quattro figli
maschi. I successori esteso i confini della dominazione franca a tutta la Gallia. Nel VI secolo il
regno risultava diviso in4:
- Neustria (bacino della Senna, prevalenza gallo-romanica);
- Austrasia (dalla Mosa a oltre il Reno, prevalenza germanica);
- Burgundia (dal Rodano all’odierna champagne, forte componente latina);
- Aquitania (attuale Aquitania, prevalenza gallo-romanica).
I re merovingi del VI secolo, passati alla storia con l'epiteto di “re fannulloni”, vennero affiancati
da alcune famiglie aristocratiche dalle quali sceglievano i loro primi ministri o maestri di palazzo
(i maggiordomi), che finirono con il sostituirli nel governo. In genere ogni regione storica aveva
il suo maggiordomo espressione di questo o di quel gruppo aristocratico, il regno tendeva così a
frazionarsi. Solo nel 613 il merovingio Clotario II di Neustria riuscì a riunire tutti i franchi sotto la
sua sovranità, grazie all'aiuto di Arnolfo, poi nominato vescovo di Metz, e Pipino I, maestro di
palazzo. Non erano mancati precedenti tentativi di riunificazione, come quello di Brunechilde,
regina d'Austrasia, che tuttavia venne messa a morte. La leadership di Clotario venne accettata
perché, si ipotizza, lasciasse ampia possibilità di manovra alla nobiltà del governo. Il ruolo di
vescovo non si esauriva alla carica religiosa, ma conferiva anche una funzione amministrativa
centrale. Già a partire da Clodoveo i sovrani merovingi avevano perfettamente compreso la
complessità della funzione del vescovo, assumendosi dunque il controllo delle nomine episcopali
nonostante gli usi i canonici prevedessero la libertà di scelta da parte del clero. Proprio a tal fine
Clotario II rese ufficiale con un editto la necessità della sanzione reale per le nomine episcopali. Il
maestro di palazzo invece era l'amministratore della domus del re. Poiché il regno era considerato
proprietà personale del sovrano, chi amministrava i beni si trovava investito di ampi poteri. Tra i
due collaboratori si instaurò una grande alleanza, saldata anche dal matrimonio tra i rispettivi
figli. Dall'unione delle due famiglie ebbe origine la stirpe degli arnolfingio-pipinidi, poi noti come
carolingi. Il successore di Clotario, avvertendo il potere di Pipino, si trasferì a Parigi dove
quest'ultimo aveva meno appoggi e il suo ruolo ne usciva sminuito. A distanza di qualche anno,
un figlio di Pipino riuscì a prendere la carica di maestro di palazzo che, grazie al padre era
diventata ereditaria, ma, meno abile di lui, tentò di compiere un colpo di mano assicurando il
trono a suo figlio. Il tutto si concluse con la loro morte. Seguirono alcuni decenni di confusione,
caratterizzati da riunificazioni e scissioni. La situazione si sbloccò soltanto nel 687 quando Pipino
II, frutto di quel matrimonio, riuscì a riunire i franchi sotto un’unica guida.

Liutprando e Carlo Martello


I Longobardi passarono alla confessione niceno-efesina-calcedoniana solo verso la metà del VII
secolo, ma la loro tardiva conversione non aveva facilitato i rapporti con le genti latine della
penisola. Inoltre, la compresenza della dominazione romano orientale1, frutto della guerra gotica,
nel litorale adriatico e nel territorio a sud della Toscana, esclusi i ducati di Spoleto e Benevento,
creava una certa instabilità. A cercare di porre rimedio alla situazione fu Liutprando, eletto nel
712. Noto anche per una legislazione che prendeva in considerazione anche la nuova situazione

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economica. Emergeva in modo netto il ruolo più attivo del commercio, la diffusione della moneta,
di guadagni non esclusivamente agricoli, del prestito a interesse. Nel 722 o 723 fece portare i resti
mortali di sant'Agostino dalla Sardegna a Pavia, sicuro di essere guidato dalla volontà divina. A
Pavia progettò di creare un sacrario dei re longobardi (il padre, re Ansprando, vi era già sepolto);
di lì a poco vi sarebbe giunto sant'Agostino, e anche lui pensò di riposarvi in eterno. Liutprando
nel 730 si alleò di Carlo Martello, impegnato a respingere gli attacchi dei Saraceni. Nel 737 adottò
Pipino III, figlio di Carlo Martello, facendogli acquisire lo status di figlio legittimo, concedendogli
così aspirare al trono franco. Egli seppe abilmente approfittare della crisi che si era aperta con la
nascita a Bisanzio dell'eresia iconoclasta. Capì che per scalzare il potere imperiale dalle aree più
vicine al regno sarebbe stato necessario cominciare occupando i territori del ducato romano,
dipendenti dall'impero all'interno dei quali viveva anche il Papa. Quest'ultimo non vedo di buon
occhio tale espansione. Nonostante Liutprando fosse riuscito a strappare alle milizie romano-
orientali nel 728 il castello di Sutri, al confine tra Toscana e Lazio, il Papa riuscì con molto sforzo
a farselo consegnare. Nasceva in questo modo il Patrimonium Petri , primo nucleo del potere
temporale della Chiesa romana. L'energica politica di Liutprando aveva allarmato il Papa e gli
stessi ducati longobardi di Spoleto e Benevento. Dopo il difficoltoso equilibrio raggiunto con il
pontefice, la situazione precipitò di nuovo al punto che Liutprando assediò Roma. Il Papa, che era
il vero governante della città dato che l'amministrazione imperiale era debolissima, ma che non
disponeva di forze militari né poteva sperare di ricevere aiuti da Costantinopoli, impegnata con il
califfato arabo di Damasco, chiese aiuto a Carlo Martello, maestro di palazzo del regno franco
d'Austrasia e figlio di Pipino II. Questi si era a sua volta scontrato precedentemente con la chiesa
romana per una questione di terre espropriate e sapeva che una parte dell'aristocrazia del suo
paese sarebbe stata contraria a una guerra contro i longobardi. Inoltre, tra Carlo Martello e
Liutprando vi era un forte legame. Il maestro di palazzo decise quindi di intervenire solo
diplomaticamente, ma ciò bastò perché Liutprando abbandonasse l'assedio (739).

Pipino il Breve e la Donazione di Costantino


Dopo la scomparsa di Carlo Martello due anni dopo, il nuovo pontefice si mostrò incline ad
accordarsi con Liutprando, ma in cambio di nuove numerose concessioni territoriali. Tuttavia la
pace era precaria e il conflitto con il papato riprese alternando ad episodi bellici episodi
diplomatici. Il risultato più importante fu che Papa Stefano si recò in Francia e unse re3 il maestro
di palazzo Pipino III, detto il breve (figlio di Carlo Martello) e i suoi due figli, li proclamò protettori
di Roma e ratificò con il nuovo sovrano dei franchi un accordo in ossequio al quale nel 754 Pipino
scese in Italia contro il nuovo re de Longobardi, costringendolo alla pace. Pipino consegnò al
pontefice le ex terre imperiali dell'Italia settentrionale centrale tra Romagna e Lazio2. Il pontefice
poteva accettare questo dono perché in quel momento l'impero assediato dai musulmani non era
in grado di agire. Sotto il profilo formale si compiva un gesto illegittimo, ma giustificabile perché
l'imperatore era in quel momento, in quanto iconoclasta, un eretico (II concilio di Nicea). D'altro
canto la cessione era giustificata da un falso documentario appositamente confezionato, La
Donazione di Costantino, secondo il quale l'imperatore Costantino aveva donato al pontefice la
città di Roma con tutte le pertinenze e l’uso delle insegne imperiali. La falsità della donazione,
ritenuta autentica per tutto il medioevo, fu dimostrata nel quattrocento dall'umanista Lorenzo
Valla. Nasceva così nell'VIII secolo, da quel primo intervento dei franchi, il Patrimonium Petri, che
più tardi sarebbe stato definito stato pontificio.

I longobardi nel Sud Italia

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La conquista del Sud da parte dei Longobardi si completò con l'istituzione di un ducato, con
capitale Benevento (seconda metà del VI secolo). Dopo il 774 il Ducato di Benevento raccolse
l'eredità politica del regno longobardo, estendendosi, nel VII secolo, dall'Abruzzo e dal Lazio
meridionali fino alla Calabria settentrionale. Le vicende della penetrazione dei Longobardi nel
Mezzogiorno rimangono tuttavia oscure, in quanto poco riferisce la Historia Langobardorum. Si
sa che, poco dopo il 570, il Ducato di Benevento venne fondato da Zottone. Dopo la conquista
dell'Italia da parte di Carlo Magno, il Ducato di Benevento rimase autonomo, elevato da Arechi Il
nel 774 al rango di principato, esteso su tutto il Meridione continentale, ad eccezione delle enclave
costiere di Gaeta e Napoli, del Salento e della Calabria, rimaste in mano ai Bizantini. In queste
regioni la presenza longobarda si protrarrà sino alla metà dell'XI secolo, producendo esperienze
originali d'incontro con le culture greca e islamica da un lato e con quella del mondo franco-
tedesco dall'altro. È in queste regioni che rimane la densità più alta di testimonianze artistiche e
monumentali riconducibili all'eredità longobarda. Importanti reperti di architetture, arredi
liturgici, epigrafi o ancora gioielli testimoniano la cultura tardo longobarda mostrando anche le
contaminazioni di stilemi d'origine arabo bizantina. Ancora alla metà del IX secolo il ducato di
Calabria confinava a nord con i castaldati longobardi di Laino, Cosenza e Cassano, citati da Paolo
Diacono, e la demarcazione di confine (limes) tra Longobardi e Bizantini è probabile che fosse
segnata dai corsi dei fiumi Crati e Savuto, seguendo una linea che dalla Jonio portava fino ad
Amantea sul Tirreno. In Calabria il toponimo Sant'Angelo o San Michele risulta largamente
diffuso, specialmente nei territori della Calabria settentrionale. Un'indagine statistica ha
evidenziato sull'intero territorio nazionale 97 località con questo toponimo. Di queste, ben 62
sono sul territorio dell'attuale provincia di Cosenza, ex Calabria Longobarda, ma è probabile si
tratti di un culto giunto in Calabria in epoca posteriore, forse a seguito dei Normanni.

1. territori longobardi e territori


bizantini riconquistati dopo la guerra
greco-gotica -
2. donazioni di Pipino il breve (in
viola).
3. con questa mossa viene scalzato
l’ultimo dei sovrano Merovingi.
4. divisione della Francia alla morte
di Clodoveo.

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CAPITOLO 4
La città santa
Per seguire le vicende della Chiesa è necessario tornare al V secolo. Tanto Odoacre quanto
Teodorico avevano continuato a governare da Ravenna. Sarà grazie al vescovo di Roma, detto
papà (da abbà= padre) e pontifex, che Roma avrebbe trovato una nuova centralità. Tra il IV e il V
secolo si affermò l'idea della supremazia romana sulle altre sedi episcopali. Il concilio di
Calcedonia (451)aveva riconosciuto il primato, almeno morale, del vescovo di Roma, che gli
proveniva dal fatto che primo vescovo dell'Urbe era stato Pietro. L'autorità del Papa era
contrastata dagli arcivescovi, i vescovi a cui si affidava il coordinamento delle diocesi vicine, e dei
vescovi delle chiese orientali, che guardavano piuttosto a Costantinopoli. Il disgregarsi delle
istituzioni imperiali nella parte occidentale lasciava la chiesa romana esposta a molti pericoli ma,
in cambio, rese necessario che i suoi rappresentanti, in mancanza di funzionari pubblici laici,
accettassero di assumersi responsabilità anche di tipo politico. Al contrario le chiese orientali
rimasero legate al potere statale. Questo fu, insieme al permanere del latino come lingua ufficiale
della Chiesa d'occidente e con lo sviluppo del greco come lingua ufficiale di quella d'oriente, il
dato distintivo delle due compagini che si andarono gradualmente allontanando l'una dall'altra.
La Chiesa di Roma si oppose agli scempi dei monumenti antichi che si verificavano nella parte
orientale dopo l'editto di Tessalonica. Essa mostrò di rinnegare la memoria dell'impero pagano,
ma di volersene fare erede, ciò è legato anche al fatto che il ceto senatorio manteneva a Roma
un'importanza non secondaria e che era importante cercare con esso una linea d'accordo e di
convivenza. La volontà di preservare le memorie antiche di Roma cominciò ad attenuarsi a partire
dal VI secolo, il papato mirava ormai a cristianizzare la città anche sotto il profilo della sua
immagine architettonica. Nel tardo antico il cristianesimo diffuse il culto dei martiri dei santi,
coloro che professavano la fede dimostrando virtù eroiche. I luoghi di sepoltura e le reliquie dei
santi divennero oggetti di culto. Inizialmente i corpi dei santi non vennero traslati in città; si
evitava rigorosamente di profanare in alcun modo il loro riposo. Soltanto a partire dalla prima
metà del VI secolo ciò fu fatto perché oltre le mura si viveva un clima di pesanti insicurezza. Nel
secolo successivo si pose il problema dei molti corpi di santi che giacevano nei cimiteri suburbani,
ormai esposti a depredazioni, e si avviò una politica di traslazione. Poiché i papi non
permettevano la circolazione di parti del corpo dei santi posti solo alla loro giurisdizione, le
reliquie messe in circolazione erano dette “da contatto”, cioè oggetti ordinari (es. strisce di stoffa)
che venivano accostate alla reliquia corporea.

Benedetto da Norcia e il monachesimo latino


Tra il V e il IX secolo, che hanno coinciso con una vasta generale depressione continentale, i
monasteri benedettini hanno tessuto sull’Europa intera la loro tela organizzativa e culturale,
riqualificando l'agricoltura e la produzione, salvaguardando manoscritti antichi e fornendo
sicurezza entro i limiti del possibile. È dai Dialoghi di Papa Gregorio Magno che si ottiene il ritratto
di San Benedetto. L’esperienza monastica non esalta, come accade in oriente, il lato mistico, bensì
l'equilibrio tra vita di spirito e vita quotidiana e il sereno impegno nella risoluzione dei problemi
concreti. Benedetto, nato in una famiglia agiata a Roma e disgustato dal clima che si respirava
nella capitale, decise di ritirarsi a Subiaco per darsi una dura esperienza eremitica. Qui raccolse i
suoi primi discepoli. Costretto dall'ostilità del clero locale ad abbandonare Subiaco, Benedetto si
trasferì a Montecassino, dove su una vetta già consacrata a un santuario pagano fondò il
monastero mentre non lontano sua sorella Scolastica fondava il primo cenobio femminile. Fu a
Montecassino che Benedetto redasse la regola. Egli, accanto alla lettura sacra e la preghiera,
prescrisse il lavoro manuale come l'agricoltura, l'artigianato e la trascrizione dei codici

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manoscritti. In quegli anni l'Italia era tormentata dalla guerra greco-gotica e il monastero
benedettino divenne un rifugio. Tra le norme fondamentali si ricordano l'obbligo di risiedere per
tutta la vita in un medesimo monastero e la buona condotta morale. Nel tempo vennero fondati
nuovi monasteri che alla regola di San Benedetto giunsero altre speciali norme. Vi erano anche
monaci laici, ma tutti vestivano un medesimo abito e vivevano secondo la stessa regola.

Il monachesimo celtico
In Irlanda l'ecclesiastico Patrizio aveva dato vita a un'esperienza di monachesimo originale che si
strutturava in comunità di villaggio che erano al tempo stesso monasteri. Egli fu consacrato
vescovo d’Irlanda e qui grazie al contributo di altri missionari vi diffuse il cristianesimo. Fra il V e
il IX secolo il monachesimo irlandese si irradiò verso l'Inghilterra e la Scozia. Gli irlandesi avevano
elaborato un loro sistema di vita anacoretica basato sul pellegrinaggio. I monaci celto-ibernici
intraprendevano su piccole imbarcazioni lunghi viaggi verso le isole. La narrazione di questi
viaggi è giunta attraverso resoconti prima orali, poi trascritti. In uno di essi si racconta l'arrivo in
un continente che potrebbe essere identificato con quello americano. Tutt'oggi numerosi
toponimi indicano la dedicazione a Santhià irlandesi di villaggi sorti intorno alle chiese loro da
loro fondate. Anche sotto il profilo culturale un'importantissima attività di conservazione e di
copia di manoscritti fu svolta dai monasteri irlandesi, dove non era andata perduta la conoscenza
della lingua greca, a differenza di quanto stava accadendo nell'occidente continentale.

Il pellegrinaggio penitenziale
Attraverso l'azione evangelizzatrice dei monaci irlandesi si diffuse una nuova forma di penitenza
strettamente legata al l'itineranza, si tratta del sistema di “penitenza a tariffe” collegato al
pellegrinaggio penitenziale. I promotori di questo nuovo sistema furono i monaci. Il peccatore
confessava i suoi peccati in privato al sacerdote tante volte quanto aveva peccato; a ogni peccato
corrispondevano degli obblighi a cui il peccatore doveva adempiere. La tariffa era l'entità della
pena da scontare per espiare la colpa commessa. Le tariffe erano raccolte in libri detti
“penitenziali”. Siccome le pene imposte per i vari peccati si sommavano, si potevano totalizzare
penitenze più lunghe dell'intera vita. Per ovviare a tali inconvenienti si introdusse il sistema della
commutazione, che rendeva possibile scambiare lunghi periodi penitenziali con atti più intensi e
gravosi ma di minore durata. Si ammise anche il riscatto della pena mediante un contributo
pecuniario. I carolingi cercarono di porre rimedio a questa sostanziale anarchia stabilendo che i
peccati pubblici avrebbero dovuto avere un'espiazione pubblica, quindi affilata al diritto,
lasciando la penitenza tariffata solo per i peccati che in nessun modo si fossero configurati come
reati. Il pellegrino era assimilabile a un vagabondo, perché costretto a muoversi in continuazione
in terre sconosciute, a vivere di elemosina, nudo e senza scarpe. C'è chi ha voluto rintracciare
l'origine di questa pratica nel diritto romano che prevedeva la deportazione su isole remote per
gli adulteri, chi invece ha affermato che l'idea del pellegrinaggio penitenziale inteso come
vagabondaggio fosse derivata dalla maledizione che colpì Caino dopo l'assassinio di Abele.

L’opera di cristianizzazione dei missionari


L'azione dei missionari che si dedicarono all'evangelizzazione dell'Europa tra il VI e l'VIII secolo
non fu promossa da un unico centro, ma contribuirono tanto il papato quanto i singoli monasteri.
Cominciò nel 596 quando Gregorio Magno inviò in Inghilterra quaranta monaci del monastero
benedettino romano che egli stesso aveva fondato, guidati da Agostino. Giunti sull'isola il sovrano
non si convertì, ma concesse ai monaci di insediarsi nell'attuale città di Canterbury. Da lì partirono
le missioni evangelizzatrici rivolte a tutta la regione. Agostino divenne vescovo di Canterbury e

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fondò la prima chiesa. A Bonifacio, invece, si deve invece la nascita della Chiesa tedesca. Quasi in
concorrenza con le missioni inviate da Roma, anche i monaci irlandesi si mossero in altre terre da
evangelizzare, come la Caledonia (Scozia). Questa era rimasta immune dall'influenza dell’Impero
Romano e il suo radicato tradizionalismo la rendeva ostica anche alla penetrazione cristiana. I
primi cristiani dinanzi ai pagani avevano sempre mostrato una rigorosa severità, rifiutando
qualunque concessione, ma adesso ci si rendeva conto che era impossibile che la conversione
coincidesse con una rapida cancellazione di secolari tradizioni e che era necessario trovare un
punto d'incontro. Ciò rende difficile dire con certezza di che tipo fosse il cristianesimo ai quali i
popoli altomedievali si convertirono. Rimasero così nell'Europa alto medievale delle sacche di
pagani, solo super superficialmente cristiani, che riversarono nella nuova religione antiche
usanze e antichi riti.

Monachesimo anacoretico e cenobitico vedi Castiglia.

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CAPITOLO 5
Costantinopoli
È necessario tornare al IV secolo, alla fondazione di Costantinopoli. L'imperatore traeva la sua
autorità dalla tradizione romana e dal suo ruolo di sacra persona, che con il cristianesimo non
poteva più venir concepito in senso divino, ma adesso il sovrano diventava il rappresentante del
Cristo sulla terra e il garante della vita e della sicurezza della Chiesa. I concili erano i momenti nei
quali la funzione protettrice dell'imperatore veniva riaffermata. Anche nella cerimonia che
segnava l'ascesa al trono del nuovo sovrano erano presenti elementi religiosi. La nuova capitale
doveva rispecchiare tale sacralità e rivaleggiare in grandezza con l'antica Roma. I lavori per
l'edificazione sulla vecchia Bisanzio durarono pochi anni e furono conclusi nel 330. Si dice che
Costantino avesse fatto trasportare da Roma di nascosto il palladium, l'effige lignea che Enea
avrebbe trasportato da Troia nel Lazio. L'imperatore avrebbe fatto seppellire quel simulacro
sotto la colonna al culmine della quale era stata collocata la sua statua. Già nei primi anni del V
secolo Costantinopoli si rivelò esposta al pericolo delle sempre più frequenti incursioni
barbariche e fu necessario ampliare la sua cinta muraria. Il più straordinario monumento
dell'impero fu la chiesa di Aghia Sofia, riedificazione della chiesa dedicata alla divina Sapienza.

La pars orientis dell’impero


Non diversamente dal limes renano, anche la penisola balcano-danubiana fu tra il VI e il IX secolo
interessata da ondate di popoli nomadi provenienti dalle steppe dell'Asia., dette uralo-altaiche,
perché provenivano tra la l'area compresa tra queste due catene montuose, oppure popolazioni
slave. Queste popolazioni iniziarono ad insediarsi nella penisola balcanica, facendole perdere i
suoi caratteri greci a favore di elementi slavi. Visto l’impoverimento della parte occidentale,
durante tutto il V secolo il governo imperiale di Costantinopoli si orientò verso il consolidamento
delle sue posizioni asiatiche, permettendo che in Occidente si formassero delle monarchie
romano barbariche, accontentandosi di un lealismo più o meno teorico da parte di esse. Da
Arcadio in poi si era cercato di indirizzare queste popolazioni sempre più spesso verso la parte
occidentale, preservando quella orientale. La restaurazione dell'unità territoriale dell’Impero
Romano e lo spostamento nuovamente verso Occidente dell'asse politico lo si deve a Giustiniano,
sotto cui l'impero bizantino raggiunse la massima espansione territoriale.

Giustiniano (525-565): l’ultimo imperatore romano sul trono di Bisanzio


Giustiniano stipulò con la Persia una pace perpetua che gli consentì di volgersi alla riconquista
dell'occidente. Sbaragliato il regno vandalo, ristabilì il potere imperiale sull'Africa settentrionale.
Durante la campagna con tri vandali si era verificata una grave rivolta, detta della Nika.
L'insurrezione era cominciata da uno scontro tra i fautori di due fazioni nelle gare circensi. Dal
punto di vista politico, Giustiniano:
- abolì molte province e potenziò l’accentramento amministrativo;
- attuò una politica di rigoroso risparmio e di recupero sistematico delle somme dovute al
fisco imperiale:
- portò al termine la cristianizzazione, almeno formale, dell'impero chiudendo nel 529
l'ultimo baluardo della cultura pagana, l'Accademia neoplatonica di Atene;
- ribadì l'ortodossia religiosa giungendo, nel 548, a imprigionare Vigilio, vescovo di Roma,
il quale si era rifiutato di legittimare l'editto dei tre capitoli, che condannava alcune opere
teologiche. Quell'episodio fu uno dei molti che contribuì ad allontanare la chiesa orientale
da quella occidentale.

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- promulgò il Corpus Iuris Civilis: stesura di un corpus di leggi articolato in quattro parti
(raccolta delle opere di giuristi, raccolta delle leggi, testo base destinato all'insegnamento
del diritto, raccolta di leggi emanate da Giustiniano dopo il codex).

Giustiniano portò avanti con decisione un programma di riunificazione dell'impero. Il momento


poteva sembrare favorevole vista la crisi scaturita dalla morte di Teoderico e, successivamente,
del nipote. L’imperatore accolse la morte di Amalasunta come pretesto per invadere l'Italia,
dando inizio alla guerra greco gotica. Venne nominato re dagli ostrogoti Baduila che nel 541 che
batte ripetutamente romani, fino a quando il controllo dell’esercito non passò nelle mani di
Narsete. Sconfitto Baduila, il generale ricevette allora l'incarico di governare l'Italia. La penisola
fu, secondo l'assetto imperiale, costituita in prefettura con sede centrale a Ravenna; tuttavia, lo
spopolamento e le razzie resero quasi impossibile l'ordinata gestione del paese. L’arrivo nella
penisola dei Longobardi strappò alla amministrazione imperiale il controllo del nord e del centro
Italia. L'impegno verso l'area mediterranea di Giustiniano aveva creato un forte squilibrio ad
oriente, di cui si erano approfittati i persiani, che invasero Antiochia. Nel 562 venne stipulata una
nuova tregua, ma soltanto a patto che il governo bizantino versasse a quello persiano un ingente
tributo in oro. L’impero intanto era attraversato da una vasta pressione economica e da una forte
epidemia di peste, detta “di Giustiniano”.

La nascita dell’impero Bizantino


I successori di Giustiniano non conservarono quasi nulla dell'impronta occidentalista che aveva
contrassegnato la sua politica, ciò sarebbe stato oltretutto impossibile a causa della appesantita
pressione barbarica. Tra i suoi successori ricordiamo:
- imperatore Maurizio (VI): riuscì a contenere la pressione avara e, al tempo stesso, egli
prese atto della situazione critica nell'impero, che lo indussero a fondare a Ravenna e a
Cartagine due esarcati, cioè due province rette da un magistrato speciale, che aveva
funzioni politiche militari. Le due province di confine erano necessarie per contenere la
pressione rispettivamente dei Longobardi in Italia e delle tribù berbere in Africa.
- imperatore Eraclio (VII): riuscì a battere il potente impero persiano che aveva distrutto
Gerusalemme. Organizzò il territorio dell'impero in 32 distretti, detti temi, governati da
uno stratigos, con poteri civili e militari.
Alla morte dell'imperatore Eraclio, per quanti latino fosse tutt'altro che cancellato, l’impero
parlava greco e non si definiva più Respublica Romanorum bensì Basileia ton Romaion. Lo stesso
Eraclio aveva sostituito il titolo imperator con basileus. Si era ,quindi, consumato un ulteriore
distacco dalla parte occidentale dell'impero, nonostante vi fossero ancora alcune zone (es.
Calabria) in cui si continuava a parlare a intendere il greco. Con il definitivo sopravvento della
lingua greca nel VII secolo, quello che fino ad allora era stato finito impero romano d'oriente
prende il nome di impero bizantino.

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CAPITOLO 6
La penisola arabica e i beduini
Da oltre un millennio prima di Cristo, l'area corrispondente alla penisola arabica, arida e
desertica, era prevalentemente abitata da popolazioni nomadi, i beduini, che, distinti in tribù,
allevavano dromedari, pecore e capre spostandosi da oasi in oasi. Il loro senso di unità era dato
da una medesima lingua, di ceppo semitico, che disponeva di una ricca tradizione poetica orale.
Oltre che di pastorizia, di allevamenti (dromedario) e di razzie, i beduini vivevano anche di
commercio. La penisola arabica era un’area di convergenza di una serie di cammini e di rotte, ad
esempio la “via dell'incenso” o “delle spezie”, attraverso la quale merci preziose ed aromi
giungevano dall'India ai porti mediterranei. Lungo la via dell'incenso, nelle rare oasi, sorsero città
carovaniere come Petra e Palmira, favorite anche dai contrasti tra romani e persiani. Le due
potenze avevano spinto la nascita di due rispettivi regni arabi che, inevitabilmente, si scontrarono
la loro, causando migrazioni verso nord e favorendo La Mecca. Gli arabi avevano ereditato una
serie di riti e culti ricchi di figure mitologiche, specie femminili, prossime alle divinità babilonesi
o fenice. I beduini, che spostandosi assimilarono tradizioni dei popoli con i quali venivano in
contatto, avevano sentito profondamente l'influenza del popolo ebraico, a loro affine per origine
etnica, lingua e tradizioni. Nel sesto VI d.C. la maggioranza degli arabi professava una sorta di
monoteismo imperfetto, detto enoteismo. La loro fede era nel Dio unico della Bibbia, chiamato
Allah, e in una serie di divinità e culti minori, come quello delle pietre di origine celeste
(solitamente meteoriti) che si credevano sede della forza di Dio. La più famosa di queste era la
pietra nera, conservata alla Mecca. Si diceva che fosse stata portata dall'arcangelo Gabriele e che
originariamente fosse bianca, ma si fosse annerita a causa dei peccati degli uomini. Al santuario
della Kaaba, dove era custodita, convenivano periodicamente varie tribù, contribuendo ad
arricchire la città. Ovviamente non c'era solo il politeismo ma tra le genti della penisola arabica,
ma era diffuso anche il monofisismo, il nestorianesimo, e l’ebraismo.

La predicazione di Maometto
Su Maometto si hanno poche informazioni, principalmente contenute nella Sira, la sua agiografia.
Si pensa sia nato tra il 570 e il 571 alla Mecca e che fosse membro di una delle più importanti
famiglie cittadine. Egli trascorse l'infanzia e la giovinezza sotto la tutela dello zio e a venticinque
anni sposò una vedova più anziana di lui. Iniziarono in questo periodo i lunghi ritiri spirituali, le
visioni angeliche e le voci che gli parlavano, manifestazioni accompagnate da febbri, convulsioni
e crisi epilettiche. Egli usava ritirarsi in preghiera sul monte Hira, dove una notte del 611 l’angelo
Gabriele lo svegliò dal sonno per comunicargli che era l’inviato di Allah. Maometto rivelò
dapprima queste sue esperienze solo a pochi intimi, tra cui il cugino Ali. Iniziò, quindi, nel VII
secolo la sua predicazione in pubblico, basata sulla rivelazione monoteistica. Egli si proclamò
inviato da Dio per proseguire e concludere il messaggio dei profeti, il sigillo dei profeti. La sua
predicazione, in ferma opposizione alle tradizioni idolatriche che costituivano uno dei motivi di
prosperità della Mecca, fu violentemente osteggiata dall'aristocrazia mercantile che lo costrinse
ad abbandonare la città nel 622 (Egira). Egli si rifugiò in una città che da allora prende il nome di
Medina, letteralmente La Città. Il 622 è l'anno di inizio della nuova era per tutti i paesi musulmani:
la nuova fede impose anche un sistema calendariale nuovo, fondato su un anno di 354 giorni
distinti in dodici mesi lunari. A Medina, lasciando la briglia sciolta sul collo della sua cammella,
delimitò l'area della prima moschea. L’incontro positivo con le tribù beduine, fedeli e bellicose,
che abbracciarono la nuova fede, fu alla base della diffusione del suo pensiero e alla conquista, in
pochi anni, di un vero e proprio impero. Maometto rivestì il ruolo di legislatore, capo militare e
guida politica nel nome di Dio. Nonostante, inizialmente, tollerasse ebrei e cristiani, non

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mancarono episodi di persecuzione, prima che le due feti ricevessero uno statuto che permetteva
loro di venire esercitate in terra musulmana. Per favorire i meccani e per designare la distanza
della nuova fede monoteistica rispetto agli altri due monoteismi abramitici, Maometto sostituì La
Mecca a Gerusalemme come prima e più importante Città Santa. Il santuario principale divenne
la Kaaba, liberato dagli idoli profani, fatta eccezione per la pietra nera.

L’Islam
L'islam non è connesso ad alcun gruppo etnico privilegiato, nasce storicamente nel VII secolo d.C.
nella penisola arabica, terra santa per l’islam, grazie alla predicazione di Maometto. Avendo
ricevuto la parola di Dio in arabo, questo idioma è la lingua sacra dell'islam. È improprio sostenere
che Maometto sia stato il fondatore di una nuova religione, lui stesso si riteneva il restauratore
del monoteismo abramitico che l'ebraismo aveva in qualche modo stravolto (nell'islam un ruolo
primario viene attribuito a Ismaele, capostipite degli arabi e figlio di Abramo, mentre nel racconto
biblico tale ruolo spetta a Isacco, capostipite degli ebrei). Le parole Islam e salam (pace) derivano
dalla sola identica radice slm. Il buon muslim è colui che si affida al Signore rispettando i 5 pilastri:
- professione di fede: non vi è altra divinità se non Dio e Maometto è l'inviato di Dio;
- preghiera: rituale da compiersi 5 volte al giorno con il volto riverso rivolto alla Kaaba.
Tranne la preghiera di mezzogiorno del venerdì, che deve essere fatta collettivamente
nella moschea, si può pregare ovunque;
- pellegrinaggio: andare in pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. Qualora si
fosse impossibilitati si può supplire inviando altri o con elemosine;
- digiuno: si osserva nel nono mese dell'anno lunare, ramadan, durante il quale fu rivelato
il Corano. In questo mese sono vietati l'assunzione di cibi e bevande e avere rapporti
sessuali dall'alba al tramonto;
- elemosina: originariamente un prelievo proporzionale sui beni superflui di ciascuno,
destinato a coprire le spese della comunità e degli indigenti. Ad essa si affianca l’elemosina
volontaria.
Ai 5 pilastri se ne aggiunge, secondo alcuni, un sesto: il jihad, ovvero lo sforzo. Il jihad è oggetto
presso i non musulmani di molti equivoci, in quanto viene di solito tradotto con l'espressione
Guerra Santa. In realtà, come spiegato in un passo del Corano, il jihad può essere la lotta contro
un nemico esterno, ma è principalmente la lotta interiore contro il peccato.

Il Corano e la Shari’a
Fonte primaria dell'islam nella quale teologia e diritto coincidono è il Corano, da al-Quran
letteralmente recitazione ad alta voce, dettato direttamente da Dio. Le altre sacre scritture
d'origine divina, quali la Bibbia ebraica e i Vangeli cristiani non sono misconosciute dall'islam e
vengono considerate sì ispirate da Dio, ma inquinate dall'errore degli uomini. Ancora oggi è
problematica fra i musulmani la dimensione di una filologia coranica fondata sull'interpretazione.
Il Corano si andò elaborando oralmente attraverso la predicazione del Profeta, ma se si pensa che
anche prima della sua morte alcuni brani fossero stati trascritti. La redazione completa venne
effettuata sotto i primi califfi. L’originale del libro si troverebbe in cielo in una tavola ben
custodita. È composto da 114 sure (capitoli), divisi in versetti. Ogni sura è preceduta dal titolo,
generalmente una parola caratteristica contenuta nella sura stessa. Il corpus scritturale
musulmano non si esaurisce nel Corano, esiste anche una Sunna, costituita di altri tipi di scritture,
accettati dalla maggior parte dei musulmani e per questo chiamati sunniti. Il Corano è anche alla
base del diritto, chiamato Shari’a (strada rivelata). È la legge divina, nel senso che impersona la
volontà divina, alla quale l’uomo deve attenersi. Ovviamente non bisogna dimenticare che i

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differenti regimi musulmani hanno sviluppato, accanto alla legge divina che resta alla base del
diritto, una legge civile pensata per le differenti esigenze della vita comunitaria di una società in
evoluzione.

Il califfato
Maometto nel suo testamento non aveva lasciato alcuna informazioni circa l'assetto politico da
conferire alla comunità dopo la sua scomparsa (632), ma senz'altro qualsiasi istituzione che
potesse assomigliare alla regalità era rifiutata in quanto considerata caratteristica dei popoli
pagani. Si era, tuttavia, diffusa l'idea che la guida del popolo musulmano avrebbe dovuto essere
assunta da un suo successore, il punto era che il profeta non aveva avuto figli maschi. La scelta
ricadde, quindi, sul suocero del profeta Abu Bakr (632-634), nonostante non tutti fossero
d'accordo. Nel frattempo, molti capi tribù volevano rinunciare al loro giuramento di fedeltà
sostenendo che era stato fatto a Maometto e non aveva valenza alla sua morte. Ne nacque una
guerra che si concluse con considerevoli concessioni ai vari capi. Alla morte di Abu Bakr, gli
successe Umar (634-644), sotto il quale l'islam conobbe una straordinaria espansione: Damasco,
Gerusalemme, Persia, Egitto e Siria. Soprattutto nel caso di questi due ultimi paesi, è probabile
che le popolazioni locali, stanche del duro dominio bizantino e delle persecuzioni contro le eresie,
avessero favorito i musulmani, visti come liberatori. Infatti l’islam non perseguitava le eresie
cristiane, a patto che pagassero un tributo. Molti monofisiti scelsero però di convertirsi, facendo
carriera nell’amministrazione califfale. Il grande espansionismo è giustificato anche dalla
debolezza delle potenze dell’epoca, fiaccate da oltre un secolo di conflitti interni ed esterni.

Il califfato elettivo
Umar, conscio della difficoltà di trovare consenso sulla designazione del successore, propose la
formazione di un consiglio al quale sarebbe stato affidato il compito di eleggere il nuovo califfo,
con sede a Medina. Due erano i candidati: Uthman e Ali, genero e cugino di Maometto. Quando
Umar fu assassinato, la scelta ricadde su Uthman (644-656), ma ben presto si notò che favorisse
il proprio clan assegnando loro ruoli di rilievo. L'operato del califfo cominciò a sollevare il
malcontento, che portò all'assassinio di Uthman. I suoi seguaci accusarono Ali, sospetti che
crebbero quando questi venne eletto califfo (656-561) e che portarono alla sua uccisione dopo
cinque anni di incarico. Ciò provocò una scissione tra i seguaci di Ali, detti sciiti, e i seguaci di
Uthman, detti sunniti. I primi limitavano l'ambito della eleggibilità come successore del Profeta ai
soliti discendenti diretti, i secondi ritenevano eleggibili tutti i membri della sua tribù. Il califfo
sunnita è un capo temporale con il compito di difendere l’islam, ma privo di prerogative in campo
religioso, al contrario l'imam sciita (come vengono chiamati i successori di Ali) viene considerato
superiore alla comunità ed è guidato dal Profeta, così come lui lo era stato da Dio. Una parte dei
seguaci di Ali non aveva accettato l'uccisione di Uthman e questo creò ulteriori divisioni.

Il califfato ereditario (661-750)


Alla morte di Ali, ad avere la meglio furono i sunniti che fondarono con la dinastia omayyade il
califfato ereditario avente sede Damasco, città dalle tradizioni culturali greche, che andò sempre
più assomigliando alla corte bizantina. In questo periodo crebbe il ruolo dei non arabi all'interno
dell'islam e vi fu un notevole espansionismo. Con la battaglia di Talas (751) venne segnato al
confine tra l'espansione musulmana e quella cinese, mediante la spartizione dell'area altaica.
Vuole la tradizione che tra i prigionieri cinesi alcuni conoscessero l'arte di filare la sete di
fabbricare la carta, conoscenze che si sarebbero trasferite così nel mondo musulmano. In
Occidente i musulmani riuscirono ad impossessarsi di tutta l'Africa settentrionale fino al Marocco.

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La situazione inevitabilmente allarmò il regno visigoto in Spagna. Nel 711 una grossa flotta
musulmana riuscì ad approdare in Spagna, sconfiggendo le truppe del re visigoto Roderico. I
musulmani riuscirono a conquistare tutti i territori della monarchia visigota a sud dei Pirenei, ma
continuarono a sopravvivere tra i monti alcuni focolai di resistenza cristiana. Dalla Spagna
riuscirono a passare in Francia, venendo, secondo la tradizione, fermati nel 732 con la battaglia di
Poitiers da Carlo Martello. Le razzie continuarono anche negli anni successivi, senza che ciò
conducesse ad alcuna sistematica e definitiva conquista territoriale saracena al di là dei Pirenei.
Nel corso degli anni Trenta dell'VIII secolo la spinta espansionistica dell'islam sembrò esaurirsi.

1. espansionismo islamico

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CAPITOLO 7
L’economia curtense
L'alto medioevo si caratterizza per l'economia curtense, fase di passaggio dall'economia della villa
romana a quella della signoria fondiaria dell'età feudale. Si affermò nel VII secolo
prevalentemente regno dei Franchi e con qualche variante un po’ in tutta Europa. La curtis era sia
centro di residenza che di produzione (da fattoria a laboratorio). In queste strutture lavoravano
e vivevano i coloni, non schiava ma neppure pienamente liberi, legati alla terra dove lavoravano
e obbligati a prestare opere gratuite la cui entità era decisa unilateralmente dal proprietario. La
nascita di questa figura fu una conseguenza del frantumarsi dei poteri pubblici che privarono i
più deboli di protezione. Attorno alla residenza del Signore si raggruppavano gli edifici più
importanti (scuderie, mulini, frantoi, fienili, pozzi, una chiesa). All'interno della corte si
fabbricavano tutti i manufatti necessari al suo mantenimento, dai tessuti alle armi. In appositi
locali veniva preparato il cibo e avveniva la trasformazione delle materie prime in prodotti finiti
(dall'uva al vino). La proprietà era suddivisa in porzioni, dette mansi, date in concessione sia a
coloni di condizione libera o servile, sia affidate alla gestione diretta del signore (laico o
ecclesiastico) che le amministrava attraverso persone di sua fiducia. Tale suddivisione risaliva già
alla tarda età romana. L'elemento unificante e innovativo che caratterizzò l'economia curtense fu
il precisarsi delle prestazioni d'opera che i tenutari dei mansi, indipendentemente dalla loro
condizione, erano tenuti ad offrire sotto forma di corvées lavorative al padrone. Le eccedenze
produttive venivano immesse sul mercato, talvolta col sistema dello scambio tra prodotti diversi.

La gestione della terra da parte dei germani


Per capire come si giunse dalla villa romana alla curtis bisogna analizzare, innanzitutto, la crisi
che aveva travolto la piccola proprietà Fondiaria all'indomani delle invasioni barbariche. In Italia
la distribuzione di quote della terra romana alle varie tribù germaniche che servivano
nell’esercito non segnò un'effettiva emarginazione del ceto dei proprietari latini, i quali
convissero spesso fianco a fianco con i proprietari germanici conservando piena libertà. La
redistribuzione avvenne entro un quadro di abbandono terriero che non provocò conflittualità.
La distribuzione dei terreni all'interno dei germani sarà alla base di una differenziazione sociale.
Per quanto riguarda i longobardi non si hanno grandi informazioni circa le modalità di
occupazione del suolo. È improbabile però che si sia determinato un fenomeno generalizzato di
riduzione in schiavitù dei romani o di appropriazioni delle loro terre. È stato ipotizzato, al di là
della comparsa di una classe di semiliberi, che i romani avessero conservato insieme alla libertà
personale anche l'uso delle loro terre. È altresì appurato che molti romani di condizione inferiore
cercarono riparo presso i longobardi per sottrarsi alla tirannia dei padroni romani. È forse nella
distribuzione delle terre da ricercare la divisione in farae. Con l'inizio del regno si avviò una
profonda opera di romanizzazione del costume longobardo che conferma il dato di superiorità
numerica dei dominati rispetto ai dominanti. Sarà sotto Liutprando che verranno autorizzati i
matrimoni misti. Anche in Spagna e nella Francia meridionale, i germani trovarono sistemi ed
istituzioni profondamente radicate, entro le quali si inserirono senza modificarle
sostanzialmente. La ricca tradizione legislativa dei re visigoti consente abbastanza agevolmente
di seguire l'evoluzione economica delle campagne iberiche. Non si riscontrano, qui come in Italia,
insediamenti caratterizzati da un uso comune a stampo familiare della terra. Venne favorita una
stretta convivenza tra romani e goti, cui dettero impulso anche l'uso collettivo delle foreste e degli
incolti. I franchi, invece, inserendosi entro le frontiere imperiali senza grandi problematiche, non
sentirono la necessità di radicali divisioni della proprietà fondiaria. Le riserve cui i franchi
ricorsero per ricompensare i militari erano composte da eredità rimaste intestate, terre imperiali

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ed ecclesiastiche. Era prevista la parità di diritti tra romani e franchi, cosa che garantì la
preservazione del patrimonio fondiario dei primi. Anche qui si registra un uso comune degli
incolti e dei territori boschivi. Diversissima fu la forma di occupazione del suolo nel mondo
anglosassone, dove i nuovi occupanti non si incontrarono con le poche strutture che il mondo
romano poteva aver introdotto nella regione. La conquista venne gestita secondo i costumi di una
aristocrazia militare. È stato ipotizzato, sulla scorta della tipologia dei campi aperti presente nelle
aree agricole britanniche, che gli abitanti dei villaggi praticassero forme comunitarie di lavoro
agricolo, anche se alcune leggi sembrano smentire ciò.

Gli scambi al tempo delle curtes


È innegabile che la curtis tendesse a produrre al proprio interno tutto ciò di cui necessitava;
tuttavia, proprio la razionalizzazione delle risorse determinò una circolazione di eccedenze che
consentì spesso la creazione di magazzini nelle aree urbane maggiori o lungo le principali vie
fluviali, dov'era possibile assicurare uno smercio della sovrapproduzione. La concentrazione di
patrimoni nelle mani di pochi favorì anche una, sia pur relativa, circolazione di prodotti tra curtes
lontane. Ovviamente la curtes non fu il solo modello agricolo dominante nella realtà europea alto
medievale. Anche in Occidente, sulla scia di quanto avveniva in Oriente, venivano battute monete
d'oro che, tuttavia, erano scarsamente diffuse e servivano più al prestigio o ad importanti acquisti
di pregiate merci orientali che non ad una vera e propria economia di circolazione monetaria.
Oltre all'Italia meridionale, bizantina, anche il resto della penisola e le coste della Spagna e della
Gallia beneficiavano ancora di una certa vivacità commerciale. In questo periodo si registrano
attività minerarie e un fiorente artigianato, dalla ceramica ai tessuti, in particolar modo lana. Sotto
i Merovingi furono praticati scambi commerciali a lungo raggio (spezie, seta e papiro). Oltre ai
generi di lusso, ne venivano importati altri di uso più comune, come l'olio e i legumi. Le
esportazioni, invece, erano meno frequenti, ma si ricordano comunque il sale e le armi. La
circolazione monetaria era certamente presente anche se la netta prevalenza delle importazioni
sulle esportazioni impoverì in fretta le riserve auree. L’atteggiamento della Chiesa romana non
favorì certo i contatti con l’Oriente,

Le città altomedievali
I centri urbani conobbero un fenomeno di contrazione: interi quartieri furono abbandonati e le
linee delle fortificazioni urbane retrocedettero all'interno della città, tuttavia restavano centri
politici e amministrativi importanti in cui risiedevano i vescovi. Le città medievali europee si
presentarono come distinte in due grandi categorie: quelle di origine romana (o greca) e quelle
edificate tra il X e l’XI secolo in seguito alla ripresa demografica e al commercio con l’oriente. Le
prime presentavano una pianta quadrangolare e due direttive principali (nord-sud e ovest-est).
Nelle città romane gli antichi edifici decaddero oppure furono riconvertiti in dimore e chiese. Le
esigenze del culto cristiano primitivo prevedevano che le cattedrali, quando possibile, andassero
edificate nei luoghi di martirio dei patroni cittadini, facendo sì che il centro cittadino si spostasse
sulle necropoli, che secondo l'ordinamento romano dovevano essere fuori dal perimetro urbano.
Questo fenomeno provocò l'abbandono di interi quartieri. Il contrarsi della vita economica,
commerciale e cittadina provocò il degradarsi del sistema stradale romano, fenomeno utilizzato
anche in chiave difensiva. Alle strade, più pericolose, si predilessero i fiumi. Anche le coste, sedi
tradizionali delle città più popolose, si svuotarono a causa del continuo pericolo delle invasioni
saracene, con conseguente creazione di centri in aree meglio difendibili.
CAPITOLO 8
L’ascesa dei Carolingi

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La battaglia di Poitiers (732) condotta da Carlo Martello, contrariamente a quanto volle far
credere la propaganda che la innalzò ad atto mediante il quale i franchi salvarono la cristianità
dall'invasione musulmana, non fermò realmente l'invasione musulmana in Europa. Tuttavia,
Carlo Martello si rese conto della necessità di riorganizzare il regno attraverso la creazione di una
classe di proprietari-guerrieri appartenenti alle famiglie a lui legate. Facendo ciò rafforzò i
maggiordomi di palazzo, che riuscirono a soppiantare i sovrani merovingi. I re fannulloni però
avevano dalla loro il privilegio della sacralità, frutto di un'antica tradizione pagana che il
cristianesimo non era riuscito ad eliminare e ciò rendeva difficile metterli da parte. Inoltre, in un
primo tempo, l'azione di Carlo incontrò la forte resistenza della Chiesa a causa degli espropri di
terre ecclesiastiche. Con le sue abili mosse, Carlo riuscì a dividere il regno tra i suoi due figli
(Pipino III e Carlomanno), segnando la fine dei re merovingi. A distanza di poco, Carlomanno si
ritirò, lasciando il regno al fratello, capostipite della dinastia dei carolingi. Pipino era ben
cosciente che la sua era una vera e propria usurpazione nei confronti di un casato regio
ammantato di sacralità, cosa che lo portò a cercare nella Chiesa di Stefano II un'autorità disposta
a sancire tale mossa. Il nuovo re venne posto sul trono nel 754 con una cerimonia fondata
sull'unzione con il sacro crisma, derivata direttamente dalla Bibbia e di cui secondo la leggenda
era stato protagonista anche re Clodoveo. Pipino ottenne dal pontefice anche l'unzione per i figli
Carlo e Carlomanno, dividendo il regno alla sua morte tra di loro. Pipino dovette intervenire due
volte in Italia contro i longobardi, il cui re per ingraziarsi i franchi diede in sposa la figlia a Carlo.

Carlomagno in Italia
Carlo nacque nel 742 e morì nell'814 ad Aquisgrana, capitale del suo impero. Qualche notizia
sulla sua vita privata trapela dai suoi biografi, tra i quali spicca Eginardo. Tuttavia, si tratta di testi
da prendere con le pinze in quanto ritraggono un modello ideale di sovrano. Tra mogli (5)
concubine egli ebbe almeno diciannove figli. Nel Natale del 770 vennero celebrate le nozze tra
Carlo e la principessa longobarda Desiderata, figlia di re Desiderio. Il matrimonio durò circa un
anno, la donna venne ripudiata e rinviata al padre. Non si sa effettivamente quali furono le cause
di tale scelta, forse la preoccupazione di lasciare campo libero al re longobardo in Italia. Desiderio
aveva dalla sua un'altra possibilità di mediazione con i franchi garantita dal matrimonio di
un'altra donna longobarda con Carlomanno. Tuttavia, quest'ultimo morì nel 771. Il re longobardo
chiese al pontefice Adriano I, fortemente legato a Carlo, la consacrazione reale dei due figli di
Carlomanno, che tuttavia gli venne rifiutata. Arenata la possibilità di un'alleanza stabile, nel
febbraio del 772 Desiderio mosse verso Roma, rompendo i patti stipulati dal suo predecessore
con il pontefice e con i franchi. Il pontefice riuscì a resistere a lungo ma dovette comunque
chiedere supporto a Carlo, il quale non era sicuro che tutta l'aristocrazia franca sarebbe stata
concorde nel sostenere una guerra contro i longobardi. Per questo motivo egli offrì una forte
somma a Desiderio che venne però rifiutata. Carlo, nell'estate del 773, partì alla volta dell'Italia
costringendo Desiderio a rifugiarsi a Pavia. La cognata ed i figli vennero catturati e rinchiusi in un
monastero, come lo stesso Desiderio. Il figlio Adelchi, invece, riuscì a trovare rifugio a
Costantinopoli da dove negli anni successivi provò ad organizzare congiure contro i franchi senza
avere successo. Terminati gli scontri, Carlo si recò a Roma nel 775 per incontrare il pontefice: era
la prima volta che un sovrano franco si recava di persona nell'Urbe. Qui fu insignito del titolo di
re dei franchi, dei Longobardi e protettore dei romani, ma comunque egli si limitò a sostituirsi ai
precedenti sovrani, lasciando ai longobardi le loro leggi e le loro consuetudini, nonostante la
presenza di alcuni focolai di opposizione longobarda. Carlo fece battezzare dal Papa il figlio
Pipino, che divenne re d'Italia, e Ludovico, che ottenne la corona di Aquitania. A questo punto
l’Italia si trovava divisa in quattro zone di influenze:

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- Italia franca: corrispondente al vecchio regno longobardo;
- Italia bizantina: Sicilia, Sardegna, Calabria e parte della Puglia;
- patrimonio di San Pietro;
- ducato longobardo di Benevento.

Le campagne di conquista
L'espansionismo carolingio non fu una strategia mirata alla fondazione di un impero europeo.
Furono le tradizioni guerriere e il forte ideale religioso, la molla dell'espansionismo franco. Carlo
Magno si riteneva artefice di una grande missione, convertire l'Europa al cristianesimo. Nelle
vesti di monarca cristiano, Carlo Magno convocò e presiedette concili di vescovi ma, a differenza
dell'imperatore di Bisanzio, non confuse mai il potere spirituale con quello temporale. Terminate
le azioni in Italia, Carlo riuscì ad impossessarsi della Baviera, il cui duca si era da tempo convertito
al cristianesimo e aveva giurato fedeltà a Pipino III . Tuttavia, il suo operato non convinse
pienamente Carlo che decise di destituirlo. Nell'ottica delle campagne di conquiste e di
conversioni di Carlo Magno si ricordano il massacro degli avari e dei sassoni. Nemmeno i Mori di
Spagna, così chiamati in quanto provenienti dall'antica Mauritania (attuali Algeria e Marocco,
Nord Africa), non rappresentavano un grandissimo pericolo per Carlo. Egli aveva tentato di
inserirsi nelle lotte fra i piccoli emirati aragonesi, ma questa impresa non ebbe l’esito sperato. In
questo contesto si colloca l'episodio di Roncisvalle, durante il quale sarebbe caduto un
collaboratore parente di Carlo, il conte Rolando, che diede poi vita alla Chanson de Roland. In
realtà, i franchi quell'occasione non vennero battuti dai musulmani ma da alcune popolazioni
basche di fede cristiana, ostili alla marcia di un esercito straniero attraverso le loro terre. Ad ogni
modo, Carlo riuscì ad organizzare subito a sud dei Pirenei una marca di confine sotto il controllo
franco, la marca di Catalogna. Nei confronti nell'islam e di Bisanzio egli mantenne aperti i rapporti
diplomatici. Carlo sembrava puntare all'unificazione di tutto quello che rimaneva dell'occidente
romano barbarico, escluse le isole britanniche. Rientra in questa politica il rapporto privilegiato
con il papato, il quale da parte sua aveva come obiettivo la creazione di un sicuro patrimonium
sancti Petri. Carlo sapeva bene che uno dei motivi per il quale la Chiesa di Roma si era allontanata
da Bisanzio ed aveva ripiegato sui franchi era appunto quello. Ma lo stesso sovrano franco non si
dimostrò meno esigente dei bizantini, ma ormai il papato non aveva alternative.

L’incoronazione imperiale
Per comprendere l'ascesa di Carlo alla corona imperiale bisogna considerare due fattori
fondamentali. Il primo è che nel mondo cristiano-mediterraneo l'impero d'oriente, in quanto
diretta prosecuzione dell’Impero Romano, restava l'unica fonte riconosciuta di autorità. Il Papa
stesso accettava questa realtà ma, se la lontananza da Costantinopoli da un lato lo avesse sottratto
al controllo imperiale, dall’altro lo avrebbe mantenuto lontano dall'unico vero centro di potere.
Perciò risultò necessario per i pontefici romani creare un centro di potere alternativo in
Occidente, rispetto al quale proporsi come interlocutore interlocutori privilegiati. Il secondo
fattore è che Carlo, pur essendo in contatto con il mondo bizantino attualmente in crisi a causa
dello scisma iconoclastico, voleva cercare di evitare un riavvicinamento troppo tra corte
imperiale e curia papale, poiché temeva di venire così estromesso. Morto Papa Adriano I, salì sul
soglio pontificio Leone III., la cui elezione suscitò subito gelosie a tal punto da renderlo
protagonista di un assalto volto ad accecarlo e a strappargli la lingua. Egli riuscì a salvarsi e a
fuggire e si recò da Carlo in cerca di aiuto in quanto protettore della Chiesa romana.
Contemporaneamente all'arrivo del Papa, una fazione di aristocratici romani inviò ambasciatori
per accusare il pontefice di varie colpe. Carlo decise di reintegrare il pontefice sapendo che così

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quest'ultimo sarebbe stato suo grande debitore. La notte di Natale dell'800 nella basilica di San
Pietro, Carlo Magno al termine della messa fu incoronato imperatore e il pontefice, secondo
l'usanza orientale, si prostrò ai suoi piedi in adorazione, secondo quanto riportato.
L'incoronazione si rivelò vantaggiosa più per il Pontefice che per il nuovo imperatore. Fu infatti
una geniale mossa politica del Papa. Leone III divenne il vero artefice del Sacro Romano Impero,
con una procedura che in seguito sarebbe stata necessaria per ogni sovrano che intendesse
portarne la corona. Sul piano internazionale, il Papa disconosceva di fatto il potere degli
imperatori bizantini, tanto pressanti in materia religiosa quanto militarmente distanti, ed
esaltava la potenza dei sovrani franchi. Il rituale dell'incoronazione aveva un profondo significato
simbolico: il potere imperiale discendeva da Dio e dal suo rappresentante in terra, il Papa.
L'imperatore, di conseguenza, era detentori di un'autorità temporale soggetta all'autorità
spirituale del pontefice. Rinasceva in Occidente un impero, che non era però la ripetizione di
quello a suo tempo scomparso, ma era cristiano e latino sotto la protezione del pontefice. A
Bisanzio l'incoronazione di Carlo Magno venne considerato una vera e propria usurpazione, da
parte di un re barbaro, del titolo che da sempre era aspettato al vero imperatore romano. Nell’
812 Carlo Magno, in cambio di alcune concessioni territoriali, venne riconosciuto dall'imperatore
bizantino Michele I imperatore e augusto, anche se non imperatore dei romani.

Le istituzioni carolinge
L'aristocrazia franca, abituata sì a una tradizione di obbedienza al suo re, non aveva il senso dello
Stato ed era quindi stato per Carlo difficile trasformare questi possessori in funzionari delegati
dal sovrano che operavano sulla base di principi giuridici concreti. Carlo decise di dividere
l'impero in:
- comitati: circoscrizioni affidate ai conti, ufficiali di nomina regia che si occupavano di
esercitare prerogative pubbliche (amministrare la giustizia, riscuotere le tasse).
- marche: circoscrizioni territoriali delle aree marginali dell'impero, più estese dei comitati,
e affidate ai marchesi.
- ducati: circoscrizioni che comprendevano territori connotati da una forte identità
nazionale, assoggettati da poco e in maniera non completamente stabile (es. Bretagna).
L'impero così diviso poteva veder vacillare l'autorità pubblica centrale, ma per ovviare a ciò Carlo,
non solo si legò a questi funzionari attraverso un rapporto vassallatico-beneficiario, ma istituì
anche i missi dominici, funzionari che si spostavano controllando l’operato dei conti. Ogni vescovo
divenne missus nella propria diocesi: la centralità di tale ruolo impose al re di garantirsi la
presenza di uomini fedeli nelle diverse sedi episcopali, cosa che comportò una fortissima
ingerenza regia nella nomina dei vescovi. L'imperatore stesso si spostava di continuo indicendo
riunioni (placiti) e pubblicando nuove leggi attraverso speciali raccolte chiamate capitolari.
Fondamentali funzionari dell’impero erano il conte palatino, un laico che esercitava l'alta giustizia
e il coordinamento di altri funzionari, e l'arcicappellano, un ecclesiastico responsabile degli affari
religiosi e della cancelleria regia. Con la dissoluzione della parte occidentale dell’Impero Romano,
era tramontata anche l'unità della valuta: i re visigoti e longobardi erano riusciti a mantenere la
monetazione sotto il controllo reale, ma nel regno merovingio vi era stata una proliferazione di
soggetti che si arrogano il diritto di battere moneta. Pipino III pose fine a questa situazione
riportando il conio sotto il controllo regio. La sola moneta d'oro circolante era il solito bizantino,
nonostante i re romano-barbarici avessero provato a coniare talora monete d'oro ma più per
motivi di prestigio. Carlo, prendendo atto della rarefatta circolazione monetaria e della drastica
diminuzione della circolazione aurea, impose un conio in argento che prende il nome di denarius,
avente un valore stabilito in modo uniforme e con validità costante nel territorio del Regno.

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La rinascita carolingia
Il regno di Carlomagno coincise con un generale risveglio della cultura in tutto l'occidente. Infatti,
precedentemente, fatta eccezione per i pochi monasteri non vi era traccia di produzione letteraria
e persino in latino dei capitolari era disastroso. Si rese necessaria una riforma della lingua che era
il latino, utilizzato dal papato dal clero. Vennero aumentate le biblioteche monastiche, si favorì la
copiatura degli antichi codici e la redazione di nuove opere, vennero organizzate sempre più
scuole gestite dal clero, venne riorganizzata la biblioteca del palazzo. Attorno al sovrano si riuniva
ad Aquisgrana la scuola palatina, un circolo di dotti coordinato da un monaco benedettino,
Alcuino di York. Tra i partecipanti si ricorda Paolo Diacono. Venne adottata una nuova grafia,
detta minuscola carolingia, che sostituì quella utilizzata precedentemente ricca di ghirigori e
arabeschi. La nuova scrittura era molto più pratica e si diffuse velocemente; comparve in questo
periodo anche l'utilizzo del punto interrogativo.

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CAPITOLO 9
La dissoluzione dell’impero carolingio
Carlo Magno non riteneva possibile che il suo grande
impero potesse restare unito. Egli aveva proceduto
nell'806 a un progetto di divisione fra i suoi tre figli,
che però non ebbe luogo perché due di essi gli
premorirono. Restava solo Ludovico, conosciuto con
l'epiteto Pio, che non ereditava una situazione facile a
causa delle lotte interne all'aristocrazia. Egli propose
come soluzione il rinnovamento spirituale e la
distinzione del potere temporale da quello spirituale.
Questa cosa era impossibile visto che il clero franco
usciva dalle file dell'aristocrazia. Addirittura, laici ed
ecclesiastici detenevano, in proprietà private, luoghi
di culto che venivano gestiti da loro liberamente,
nominandone addirittura il clero. Vista questa
situazione il suo esperimento non poté che
naufragare. Ludovico aveva tre figli, pur non volendo
dividere l'impero ma conscio del fatto che ciascuno di
loro si aspettava una parte di esso, con l’ordinatio
imperii (817) dichiarò che il figlio primogenito
Lotario avrebbe ereditato la corona imperiale e
avrebbe governato sulle regioni centrali, agli altri due
sarebbe andato il governo delle province occidentali
e orientali, subordinate all'autorità del fratello. La
situazione si complicò quando Ludovico ebbe un
quarto figlio, Carlo, noto poi come il calvo.
L’imperatrice, spinto nell'ombra il marito, puntava ad
assicurare a suo figlio un posto nella successione imperiale. Così Ludovico gli assegnò alcuni
territori tolti direttamente a Lotario. Non scoppiò una guerra civile solo per la pigrizia
dell'aristocrazia, non certa della parte da appoggiare. Il potere rimase perciò nelle mani di
Ludovico fino alla sua morte (839). Lotario cercò di ereditare l'impero secondo l’ ordinatio, ma i
fratelli si allearono per combattere contro di lui (battaglia di Fontenoy, 841) e obbligarlo a cedere
una parte del suo potere. Ne derivò il trattato di Verdun (843) secondo il quale egli manteneva la
dignità imperiale e conservava la diretta sovranità su un'area compresa tra il Mare del Nord e
l'Italia centro settentrionale, con le città più prestigiose dell'impero, Roma e Aquisgrana. Carlo il
calvo si aggiudicava la Francia occidentale (odierna Francia) e Ludovico il germanico la Francia
orientale (nucleo storico della futura Germania). A Lotario successe il figlio Ludovico e alla sua
morte Carlo il calvo. Mentre l'impero si andava dissolvendo, si affermava l'importanza della
Borgogna che vide nel IX secolo la nascita di due regni al suo interno: il Regno di Provenza e il
Regno dell'alta Borgogna (attuale Svizzera). In questa situazione caotica andarono di mezzo
anche i pontefici, sempre più in difficoltà a causa dell’aristocrazia romana e adesso privi del
supporto carolingio. Venne quindi incoronato Carlo il grosso, l'ultimo degli imperatori carolingi,
che però non riuscì a difendere il pontefice che finì assassinato. Carlo, infatti, era impegnato in
Francia dove non solo i Normanni avevano assediato, ma l’aristocrazia si rifiutava di obbedirgli.
In questo contesto, privato anche della possibilità di designare un successore, egli fu costretto ad
abdicare (888).

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La vita monastica sotto il Pio
A partire dal IX secolo in tutti i territori che erano stati annessi dai carolingi il monachesimo
conobbe una crescita importante e i monasteri divennero custodi della cultura. Il merito di questo
rilancio del movimento monastico è attribuito soprattutto alla figura di Ludovico il Pio. Con il
Concilio di Aquisgrana dell'816 si affermò l'idea di un monachesimo imperiale e la regola
benedettina riformata divenne il fattore unificante della vita monastica europea. Tuttavia, i
monasteri nel X secolo, essendo luoghi nei quali si concentravano varie forme di ricchezza,
divennero preda facile per le scorrerie di ungari, normanni e saraceni. Addirittura, i saraceni
giunsero a profanare il sepolcro di San Pietro a Roma. Per il papato diventava sempre più difficile
affermare la propria volontà, soprattutto al di fuori dei confini italici: le comunità monastiche ed
episcopali manifestarono la tendenza a intrecciare piuttosto rapporti con le realtà istituzionali
laiche dell'area in cui si trovavano. Si affermò la consuetudine per l'aristocrazia locale di assumere
direttamente l'onere di incrementare le ricchezze di monasteri e vescovati con donazioni e lasciti
di terre o privilegi, magari finalizzati alle preghiere di suffragio per i defunti. I monasteri, oltre
che protagonisti della vita spirituale, divennero protagonisti anche dalla vita economica.

Le incursioni del IX e X secolo


Tra il V e l'VIII secolo l'Europa era stata meta di numerose migrazioni di popoli di stirpe urali
altaica. Tra il XI e il X secolo protagonisti di nuove migrazioni furono i normanni da nord e i
saraceni da sud. Il miglioramento delle condizioni climatiche aveva in parte favorito lo
scioglimento di alcuni ghiacciai e reso più agevole la navigazione nei mari settentrionali, dando la
possibilità a danesi, svedesi e norvegesi di approdare nell’Europa centrale. Le fonti altomedievali
europee li conoscono collettivamente come normanni, cioè semplicemente uomini del nord. Oggi
sono più noti con il termine vichinghi, parola usata per indicare nella loro lingua soltanto coloro
che si davano alla pirateria. I danesi approdarono tra il IX e il X secolo sulle coste dell'Inghilterra
e del Mare del Nord, mentre gli svedesi si concentrarono sul commercio attraverso la rete dei
fiumi russi. I norvegesi si dettero alle esplorazioni dell'oceano glaciale artico, raggiungendo in
questi secoli l'Islanda e forse le coste del Labrador in America. L'occidente venne minacciato
soprattutto dalle incursioni dei danesi. Poco alla volta queste popolazioni passarono dalla razzia
all'insediamento, come testimoniato dalla nomina a duca del normanno Rollone (910) che portò
alla nascita del ducato di Normandia (Nord della Francia). In Inghilterra i danesi riuscirono a
imporre la loro egemonia e ad assicurarsi il pagamento di un tributo da parte dei re delle piccole
monarchie di origine anglo e sassoni nelle quali l'isola era divisa. Le coste dell'Europa
mediterranea furono, invece, minacciate principalmente dai saraceni.

La nascita dei castelli


I continui pericoli e la costante necessità di difesa caratteristici del IX e X secolo dettero luogo alla
nascita di centri di potere aristocratico sostenuti dalla forza delle armi e legittimati dal fatto che
si erano assunti, in mancanza di altri in grado di farlo, l'impegno di difendere gli abitanti di una
città o regione. Spesso questo ruolo toccava ai vescovi, tendenzialmente aiutati da un consiglio
costituito dai cittadini più ricchi. I signori ecclesiastici e laici, fortemente radicati nei possessi
fondiari che costituivano la base del loro potere economico e attenti al controllo e alla difesa del
territorio, si impegnarono a ristabilire le basi di una convivenza civile. Migliorò gradualmente il
tono di vita degli insediamenti urbani e in quelli rurali, si cominciò a ristrutturare le strade e a
riparare i vecchi ponti o ad edificarne nuovi, si costruirono ospizi per i viandanti, ripreso di
commerci, si fondarono nuovi mercati (di solito prossimi ai santuari che celebravano

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periodicamente le fiere dei loro santi protettori). Si registrò un incremento demografico,
conseguenza del miglioramento climatico. Il sistema politico istituzionale nato dalle emergenze,
che consentì la rinascita dell’Europa occidentale, venne chiamato feudale. L'Europa andò
riempiendosi così di castelli, vale a dire insediamenti fortificati all'interno della cui cinta muraria
si trovavano la dimora del signore locale, i magazzini delle riserve di cibo e armi e le più modeste
abitazioni del personale. Attorno al castello si insediarono le sedi di coloro che,
indipendentemente dal rango, erano legati al signore del luogo da un preciso rapporto di
dipendenza. L’incastellamento fu la fondamentale caratteristica di organizzazione del territorio
tra il IX e l' IX secolo.

Il sistema vassallatico-beneficiario
Il termine feudo deriva da una parola germanica indicante in origine gli animali d'allevamento,
ma finì con il qualificare genericamente il concetto di “possesso”. Con il passaggio dal nomadismo
alla sedentarietà, i vari signori pagavano i loro seguaci, dai quali si aspettavano innanzitutto
servizio di guerrieri, con aree più o meno estese di terreno. Di tale terreno il beneficiario diveniva
possessore, non proprietario: il signore gliene accordava il possesso e lo sfruttamento, non però
la proprietà assoluta. Si poteva diventare vassalli tanto di un sovrano quanto di un membro della
piccola nobiltà. Il rapporto di vassallaggio si instaurava a livello privato tra due persone e si
formalizzava mediante una cerimonia detta omaggio. In cambio della fedeltà del vassus, il signore
(dominus) gli offriva la sua protezione e, in certi casi, lo forniva di un feudo. Il vassallaggio
risponde al bisogno diffuso di protezione da parte dei privati in un tempo di carenza dei pubblici
poteri e non era, originariamente, necessariamente connesso all'acquisizione di un feudo.
L'elemento giuridico del sistema feudale era costituito dall'immunità, ovvero i detentori di una
signoria feudale erano esenti all'interno dei confini di essa dei controlli di qualunque autorità
pubblica. Oltre a ciò, coloro che possedevano appezzamenti maggiori ricevevano anche il diritto
di amministrare la giustizia pubblica e di godere dei proventi economici (giurisdizione). Il feudo
era inalienabile e non trasmissibile agli eredi, ma questa sua prerogativa verrà a cadere in seguito.
I grandi feudatari, già dalla seconda metà del IX secolo, cioè dalla crisi dell'impero carolingio, si
mossero per appropriarsi di fatto dei feudi loro assegnati e anche delle relative giurisdizioni.
Questo cambiamento è testimoniato, anche se velatamente, nel capitolare di Quierzy, dove Carlo
il calvo si dichiarava favorevole alla consuetudine di tramandare i feudi per ereditarietà.
Ovviamente, un po’ dappertutto, continuava a sopravvivere la proprietà privata legata al libero
esercizio della coltivazione e all'obbligo di armarsi per difendere il proprio territorio. Tale parte
di beni libera dagli obblighi feudali era l’allodio. Tuttavia, il libero proprietario poteva, per vari
motivi, essere a sua volta indotto a fuggire dal suo stato di libertà che comportava pur sempre
dei rischi. Spesso gli allodi venivano offerti in dono a grandi signori laici o ecclesiastici. La signoria
feudale ha svolto un ruolo fondamentale anche per l'economia, differenziandosi dal sistema
curtense, dove la produzione era mirata a soddisfare i personali bisogni. Inoltre, in assenza dei
poteri centrali, non bastava più amministrare pigramente le proprie terre, occorreva occuparsi
anche di politica ed economia, rispondendo ad una serie di problemi relativi alla gestione della
signoria, alla sua difesa e alla sua vita quotidiana. Il signore aveva, perciò, bisogno di collaboratori
fedeli, che vennero trovati nel vecchio ceto servile: alcuni membri vennero affrancati e fecero
carriera, diventando ministeriales. A partire dall'XI secolo, con l'affermarsi nella nuova economia
monetaria, crebbe anche il bisogno di denaro liquido.

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CAPITOLO 10
L’economia dell’Europa dopo i Carolingi
La scomparsa degli ultimi eredi diretti di Carlo Magno, le difficoltà di tenere in piedi in Occidente
una compagine imperiale e le continue invasioni barbariche causarono la polverizzazione dei
poteri centrali. L'insicurezza delle vie di comunicazione e la regressione sul piano economico
produssero, d'altro canto, un generale ristagno dell'attività mercantile. Siccome le esigenze della
sopravvivenza erano primarie, era abbastanza normale che le città si chiudessero entro la loro
cinta fortificata, producendo quanto serviva all'immediato consumo e stringendosi attorno ai loro
maggiorenti. Prevalse nelle campagne il volere di un'aristocrazia di possessori di terre, anche i
capi di uomini armati, in grado di far fronte ai pericoli che venivano da fuori.

La Francia orientalis
Sin dal V secolo l'area privilegiata di insediamento dei franchi era grosso modo compresa tra il
Reno e i Pirenei. Carlomagno aveva allargato il suo territorio spingendosi molto a est del Reno e
conquistando territori abitati da popolazioni anch'esse germaniche, ma non ancora o non del
tutto cristianizzate e molto meno permeate di cultura latina. Quando nell’843, con il trattato di
Verdun, l'eredità carolingia fu definitivamente spartita, rimasero assegnati a un regno
denominato Francia orientalis in quanto retto da un sovrano franco ma la cui popolazione era
nella massima parte tutt'altro che franca. L'aristocrazia franca che governava il territorio sotto il
profilo formale era costretta a fare i conti con i capi delle quattro etnie principali (bavari, franconi,
svevo-alamanni e sassoni) che erano guidate da altrettanti duchi, i cui poteri derivavano da
antiche tradizioni giuridiche e, in parte, mitico-religiose di origine pagana, nonostante il
cristianesimo si fosse ormai profondamente radicato. La presenza di più principati territoriali
sarà poi alla base del particolare carattere federale che appartiene tuttora alla Germania. La
corona del regno di Germania era contesa tra i quattro duchi e veniva assegnata per elezione.

La dinastia sassone
All’inizio del X secolo la crescente polverizzazione del potere pubblico e le frequenti incursioni
degli ungari avevano aggravato la situazione. Al trono tedesco venne allora eletto il duca di
Sassonia, Enrico I, che riorganizzò l'assetto amministrativo e militare del regno, facendo costruire
una vasta rete di fortezze che erano al tempo stesso centri di difesa, di gestione politica e di
organizzazione economica. Egli vinse nel 935 gli ungari e assoggettò i popoli slavi. Dato il successo
del regno di Enrico, i duchi tedeschi elessero dopo di lui il figlio Ottone I che continuò l'opera del
padre, battendo nel 955 definitivamente gli ungari e gli slavi. Poiché il Regno di Germania era
diviso, secondo la tradizione carolingia, in contee, Ottone prese ad assegnarne numerose ai
vescovi, imponendo però che a capo delle diocesi vi fossero costantemente chiamati uomini a lui
fedeli, al fine di eliminare possibili spinte a privatizzare i possedimenti. Inoltre, i vescovi, non
disponendo di eredi legittimi, non potevano tramandare ereditariamente gli uffici pubblici e i
beneficia, andando così ad incrementare la coesione del Regno. Fondamentale nella politica
ottoniana fu il tentativo di mantenere la pace nel Regno di Germania, incoraggiando una soluzione
dinastica al problema della corona che avrebbe dovuto restare all'interno della famiglia di
Sassonia.

Ottone I in Italia1

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Nella volontà di confrontarsi con l'impero bizantino ed entrare in rapporto diretto con il Papa,
Ottone non poté che guardare all'Italia. Sia il Regno d'Italia, così definito per volontà di Carlo
Magno (si intende ovviamente l'ex Regno longobardo, conquistato dai franchi) che il pontefice
erano allora in condizioni politiche precarie. Il Regno era in preda all'anarchia feudale e, tra i
deboli sovrani che si susseguirono, è fondamentale ricordare Berengario II. Egli inflisse gravi
persecuzioni alla vedova di Lotario II, Adelaide, che si rivolse al sovrano Sassone additando
Berengario come usurpatore. Ottone I arrivò nella penisola, piegò Berengario, entrò a Pavia
(antica capitale del regno) sposò Adelaide e venne incoronato re d'Italia nel 951, collegando
istituzionalmente l’Italia alla Germania. Avrebbe, forse, voluto proseguire per Roma ma le
condizioni del suo Regno dove la minaccia ungara non era stata ancora stata definitivamente
eliminata lo costrinsero a rientrare in Germania. Prima di fare ritorno in Germania, Ottone diede
in beneficio il regno d’Italia allo sconfitto Berengario, che si dimostrò ostinato ad ampliare i propri
possedimenti a scapito del patrimonium petri. Per quanto riguarda la difficile elezione del
pontificato nel X secolo, è bene far presente che nell’arco di 65 anni si erano succeduti venti
pontefici, molti dei quali periti di morte violenta. Il papato era nelle mani delle varie famiglie
aristocratiche locali, che se lo disputavano ferocemente e che insediavano sul soglio di Pietro i
propri rampolli, senza curarsi del loro livello spirituale, morale o culturale. A questa turbolenta
età si fa risalire la leggenda della papessa Giovanna. Tra la fine del IX secolo i primi del X la città
venne dominata dalla famiglia dei Tuscolo. Tra di loro spicca Giovanni XII che, nel tentativo di
consolidare la sua posizione e temendo l’espansionismo di Berengario, invitò Ottone I a scendere
in Italia e nel 962 lo incoronò imperatore (sacro Impero Romano-germanico). Dal Papa il nuovo
imperatore pretese fedeltà e pensò di fare altrettanto anche con i suoi successori stabilendo,
attraverso il Privilegium Othonis, che ogni nuova elezione pontificia necessitasse da allora in poi
della conferma imperiale. Il primo a fare le spese di questo provvedimento fu lo stesso Giovanni
XII, accusato di condotta licenziosa e dissoluta, che venne rimpiazzato da un altro pontefice.

L’importanza della corona


È fondamentale la distinzione tra auctoritas, cioè diritto all'esercizio del potere, e potestas,
esercizio del potere in sé e per sé. In Occidente l’idea che un'autorità sovrana fosse necessaria
per legittimare un potere che di per sé si poteva ben esercitare nella pratica mediante il semplice
uso della forza non venne mai meno. I feudatari governavano, almeno sul piano formale, in quanto
investiti di pubblici poteri; tuttavia, essi e le loro famiglie si erano semmai appropriati
ereditariamente, in mancanza di istituzioni statali in grado di esercitare un controllo
sull'evoluzione concreta di queste forme di potere, dei pubblici uffici, usandoli come una
proprietà privata. Durante il IX e il X secolo, all'indomani della disgregazione dell'impero di Carlo
Magno, l'alta aristocrazia di origine carolingia si contendeva quelle corone che in sé per sé non
fornivano nessun potere se non venivano cinte da chi fosse, con le proprie forze, in grado di
esercitarlo. Tuttavia, il titolo di re conferiva una dignità a un'autorità incontestate in linea di
principio, anche se trascurate nei fatti. Durante il X secolo i Papi attribuirono persino la corona
imperiale a una serie di aristocratici del Regno d'Italia tutt'altro che potenti e degni. Ciò avvenne
perché ai pontefici premeva salvaguardare un principio che nell'impero bizantino (per il quale il
Papa era soltanto il vescovo di Roma e il patriarca di una delle sedi storicamente fondate dagli
apostoli) nessuno gli riconosceva ma che in Occidente, dopo Carlo Magno, non era stato
contestato: al Papa spettava incoronare gli imperatori e, pertanto, in un certo senso era il Papa il
detentore e il dispensatore di diritto del dignità imperiale.

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Ottone II e Ottone III
Ottone I si trovò a dover legittimare in qualche modo il suo romano impero, in quanto un erede
diretto nell'impero di Roma nel mondo medievale c'era già ed era l'impero bizantino. In
Occidente tale continuità si era interrotta nel 476 con la deposizione di Romolo Augusto ed era
stata forzosamente e ambiguamente ripresa nell'800 con l'incoronazione di Carlo Magno, anche
se Bisanzio negava, a ragione, legami tra il Sacro Romano Impero e l’Impero romano. Gli
imperatori romano-germanici tentarono in vario modo di farsi accettare da quelli bizantini come
loro pari, ma i sovrani di Costantinopoli continuarono a chiamarli soltanto “re dei tedeschi”.
Ottone I pensò quindi di poter ricorrere alla diplomazia, facendo sposare il figlio, Ottone II, con la
principessa bizantina Teofane. Questo non servì a far sì che l'orgoglioso imperatore bizantino
riconoscesse il re tedesco come suo pari né che l'Italia passasse sotto il controllo germanico. In
Germania la lontananza del sovrano finì col nuocere gravemente al suo potere, mentre in Italia i
più scontenti erano i principi laici che vedevano con disappunto l'alleanza tra imperatore e
gerarchia ecclesiastica. Ottone I morì nel 973 e gli succedette il figlio che faticò non poco a placare
una ribellione divampata nel Regno di Germania e a mantenere sotto controllo la città di Roma
agitata dall’aristocrazia sediziosa. Egli fu sempre interessato al meridione d’Italia, in mano a
Bisanzio, ma non riuscì ad impossessarsene. In quest’ottica si impegnò in una spedizione contro
i musulmani in Sicilia, fu da questi duramente sconfitto nel 982 (Battaglia di Colonna, tra Crotone
e Punta Stilo) e morì l'anno successivo lasciando a Roma il figlio, Ottone III, di appena tre anni
sotto la reggenza della madre. La battaglia contro i saraceni fu di ispirazione per molte opere, tra
le quali si ricorda il Chronicon e i Monumenta Germaniae Historica (MGH). Ottone III, cresciuto
dalla madre e dalla nonna Adelaide, fu affascinato dagli ideali ascetici impersonati da un eremita
che incarnava la spiritualità orientale San Nilo di Rossano. Ottone III nel 996 scese in Italia per
farsi incoronare imperatore, ma a differenza dei suoi predecessori che cercavano di continuare il
programma di Carlo Magno, per lui, ammiratore di Costantino e profondamente permeato di
cultura romana e greca, Roma era il centro del mondo dal quale l'imperatore avrebbe dovuto
regnare (renovatio imperii). Egli pensò, inoltre, di poter assoggettare la Chiesa estremizzando al
massimo la politica di Ottone I, orientata verso un marcato cesaropapismo di matrice orientale.
La sua politica non piacque né ai nobili tedeschi, intenzionati a mantenere la Germania al centro
dell’impero, né all’aristocrazia di Roma, mal disposta a sottomettersi ai vincoli imperiali e ad
abbandonare la presa sul pontificato, motivo per il quale fu espulso dai nobili suoi nemici da Roma
nel 1001, morendo nel 1002 nel tentativo di rientrare nella città

Silvestro II
Tra il X e lo XI secolo la situazione della Chiesa occidentale era particolarmente complessa e
problematica:
- l'elezione dei vescovi di ciascuna diocesi era un ottimo pretesto per le aristocrazie di
imporsi;
- la fondazione di chiese private da parte di grandi signori feudali;
- la diffusione di pratiche quali la simonia, ovvero la vendita delle cariche, termine derivato
da Simon Mago e il nicolaismo, la trasmissione delle cariche ai parenti prossimi. La stessa
carica papale ben lungi dall'essere veramente elettiva ed era di fatto appannaggio delle
fazioni aristocratiche detentrici del potere a Roma.
Sotto l'impero di Ottone III il rapporto con il papato si era rafforzato e venne eletto pontefice uno
degli uomini più colti del suo tempo che scelse, secondo la volontà di legittimare il programma
dell’imperatore, di farsi chiamare Silvestro II. Egli era nato in Aquitania verso la metà del X secolo
e vissuto come monaco in Catalogna. La sua predilezione per la matematica e l'astronomia aveva

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fatto nascere leggende che lo dipingevano come un mago o in combutta col diavolo per
apprendere le vie che conducevano ai tesori sepolti sotto Roma. Promosse l'evangelizzazione
delle genti slave e sostenne l'istituzione delle loro chiese nazionali. Fu costretto a lasciare Roma
insieme al suo imperatore ma vi fece ritorno alla sua morte, raggiungendolo l'anno successivo.

Il tramonto della dinastia sassone


Alla morte di Ottone III venne eletto re di Germania suo cugino Enrico II di Baviera, il quale
dovette innanzitutto consolidare la propria autorità nei territori tedeschi, dove molti vassalli già
insofferenti ad Ottone III faticavano a sottomettersi al nuovo sovrano. In seguito, scese in Italia,
appoggiato dalla Chiesa, contro le nobili famiglie desiderose di affrancarsi dalla tutela germanica.
Enrico fu incoronato re d'Italia nel 1004 e così le regioni settentrionali e centrali della penisola
rimasero ancora legate all'impero. Nel 1014 a Roma fu incoronato imperatore dal papa Benedetto
VIII, evento che non placò le tensioni con I ‘aristocrazia italiana. Enrico II morì nel 1024, senza
lasciare eredi, e con Iuli si estinse la dinastia di Sassonia, fondatrice del nuovo Sacro Romano
Impero Germanico.

La dinastia di Franconia (o salica) (1024-1137)


La dinastia di Sassonia fu sostituita dalla casata dl Franconia con Corrado II il Salico, nato intorno
al 990. Alla morte di Enrico II riuscì a ottenere la corona di Germania, grazie all'appoggio dei
vescovi tedeschi, Da essi tuttavia Corrado II mirò subito a emanciparsi. Vinta una ribellione dei
feudatari e pacificata la Germania nel 1026 scese in Italia. L'anno successivo, il 26 marzo 1027, fu
incoronato imperatore a Roma da Giovanni XIX. II 28 maggio 1037 emanò la famosa Constitutio
de feudis, con la quale Corrado riconosceva l’ereditarietà di tutti i feudi, compresi quelli minori,
andando ad affiancare l’atto precedentemente emanato da Carlo il Calvo. Alla morte di Corrado
(1039) salì al trono Enrico Ill (1039-56), il quale, giunto in Italia, in un concilio da lui convocato,
a Sutri (1046), depose tre papi accusati di simonia, designando al soglio pontificio un prelato
tedesco a lui vicino, Clemente II (1046- 47), cui fa succedere altri tre pontefici sempre tedeschi.

1.L’impero di Ottone
I

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I Normanni
Normanni (propriamente “uomini del Nord”) erano una popolazione originaria della penisola
scandinava (Svedesi, Norvegesi, Danesi). Nel 911 ottennero il ducato di Normandia, in Francia. Si
convertirono al cristianesimo e accolsero le istituzioni feudali, ma non abbandonarono mai
l’innato spirito di avventura e di conquista. Nel 1066 Guglielmo il Conquistatore a seguito della
Battaglia di Hastings riuscì a occupare l’Inghilterra e la sua conquista fu decisiva per la storia
inglese dei secoli posteriori Nella prima metà dell’XI secolo i Normanni scesero nel Mezzogiorno
d’Italia, caratterizzato da un quadro politico incerto e dalla debole presenza bizantina, dove
cominciarono a insediarsi stabilmente. L'espansionismo normanno prese avvio da Melfi, fino alla
conquista dell'Italia meridionale, Sicilia compresa.

La famiglia degli Altavilla


La nobile famiglia normanna degli Altavilla (italianizzazione di Hauteville, il feudo d’origine, in
Normandia) legò il suo nome alle vicende dell’Italia meridionale dei sec. XI-XII. Nel 1042 eressero
la contea di Melfi. Il primo personaggio noto della casata è un certo Tancredi, vissuto tra i secoli
X-XI. Cinque dei suoi figli (Guglielmo, Drogone, Umfredo, Roberto e Ruggero) lasciarono la
Normandia nella prima metà del sec. XI alla ricerca di nuove terre e di avventure lontane, pratica
comune tra i cadetti della nobiltà feudale, che non avevano diritti sull’eredità paterna. Con
Roberto il Guiscardo (1057-1085), ebbe inizio la penetrazione dei Normanni in Calabria. Questo
suscitò l’ostilità del papato ma nel 1059 il pontefice Niccolò II (1058-1061) fu costretto a
riconoscere lo stato di fatto, concedendo a Roberto il titolo di duca di Puglia e Calabria, legittimò
la conquista dell’Italia meridionale da parte dei Normanni, che si completò poi a spese dei residui
domini longobardi e bizantini. Dopo l’unificazione politica della regione (1060), Roberto il
Guiscardo liberò il Mezzogiorno dai Bizantini per sostituirsi a essi, ma anche per sostituire la
Chiesa greca, d’obbedienza costantinopolitana, con la Chiesa latina, d’obbedienza pontificia e
romana, quindi il monachesimo greco con il monachesimo latino e benedettino. Con l’arrivo dei
nuovi conquistatori, i distretti episcopali e le diocesi calabresi furono riorganizzati radicalmente,
in sintonia con il processo di ri-latinizzazione della Chiesa greco-bizantina perseguito all’unisono
dagli Altavilla e dalla Santa Sede, sulla spinta di due obiettivi convergenti: l’uno di carattere
politico e l’altro d’impronta ecclesiastica. Per realizzare il vasto programma di ri-latinizzazione
gli Altavilla, d’accordo con la Santa Sede, affidarono il riordino dei distretti episcopali meridionali
e calabresi agli abati dei monasteri benedettini della Normandia, i quali inviarono i loro monaci a
fondare nuove badie lungo quegli antichi itinerari, terrestri e marittimi, che segnavano le tappe
verso la Terra Santa. Di particolare significato si rivelò la fondazione, nella seconda metà del sec.
XI, di imponenti abbazie quali S. Maria della Matina, S. Maria in Santa Eufemia e della Santissima
Trinità di Mileto, le quali si imposero non solo come centri di potere politico, ma anche sul piano
culturale ed artistico, oltre che su quello ecclesiastico. Più difficoltosa fu l’impresa siciliana che,
protrattasi dal 1061 al 1091, impegnò suo fratello Ruggero d’Altavilla, il quale, dopo il completo
successo sui musulmani, si fregiò del titolo di conte di Sicilia. Ruggero II d’Altavilla, figlio del
conquistatore della Sicilia, riunificò i due domini normanni nel Sud Italia e assunse, nel 1130, la
Corona del Regno di Sicilia, ponendo la sua corte a Palermo. Tutta l’Italia meridionale divenne
signoria dei Normanni. Con Ruggero II, incoronato nel 1130 Re di Sicilia, si ebbe nel 1139
l’unificazione in un potente regno di tutte le conquiste normanne nell’Italia meridionale. Suo figlio
Guglielmo, divenuto re nel 1166, morì senza lasciare eredi. Si accese quasi una violenta lotta per
la successione tra Tancredi, conte di Lecce, e Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggiero, secondo e
moglie di Enrico VI di Svevia nel 1194. Quest'ultimo ottenne il Regno di Sicilia.
Conquiste e incursioni (IX-XI secolo)

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39
CAPITOLO 11
Oratores, bellatores, laboratores
La società europea intorno all'anno 1000 era tripartita in oratores, bellatores, laboratores. Ai
primi spettava a pregare per la stabilità e la sicurezza del mondo cristiano, ai secondi combattere
perché il mondo potesse godere della sicurezza, ai terzi mantenere i due precedenti ordini con la
propria opera, principalmente agricola. Poiché all'ordine degli oratores è affidato il compito di
mantenere vive, e dunque per iscritto, le memorie dei popoli, la funzione della preghiera appare
essere quella più importante. Gli oratores, per il loro ruolo prioritario, fungevano da intermediari
per gli altri ordini, uno schema questo che sottintendere ebbe un'antica rivalità tra funzione
sacerdotale e funzione guerriera, visibile nella lotta tra sacerdotium e imperium. Questa
tripartizione iniziò, con il tempo, a non essere più così netta (es. ordini religioso-militari / nascita
di mansioni non legate all’agricoltura).

Chierici e laici
All'interno della società cristiana vi era un'altra divisione: chierici (che non erano soggetti alla
giustizia dei laici e potevano appartenere sia al clero secolare che a quello regolare) e laici.
Nonostante la base della vita religiosa monastica restasse la regola di Benedetto da Norcia, tra il
X e l’XI secolo le mutate esigenze religiose, sociali ed economiche avevano determinato la nascita
di nuovi ordini che affiancarono alla benedettina nuove regole; si ebbe così la nascita di
cluniacensi, camaldolesi, certosini, cistercensi. Il laicato conosceva al suo interno una
diversificazione basata sulla condizione giuridica e sull'ordine di appartenenza. Pensare ad un
alto medioevo costituito da masse di servi della gleba è fuorviante in quanto per servitù si
intendeva generalmente l'obbligo di prestazioni lavorative gratuite (corvées) dovute a un signore
da coloro che vivevano e lavoravano sulle terre che gli appartenevano. Tutti gli uomini liberi
potevano essere potenziali guerrieri, ma le mutate condizioni belliche resero necessari l'uso del
cavallo e di equipaggiamenti più costosi, provocando da un lato una sorta di disarmo di massa,
dall’altro la nascita di un gruppo di specialisti, i milites. Nacquero a partire dall’ XI secolo anche i
nuovi ceti di mercanti, banchieri, artigiani, notai, medici. La cronistica iniziò ad essere utilizzata
per scrivere le memorie cittadine. Non si può ancora parlare di borghesia in quanto nel latino del
tempo burgerenses indicava semplicemente coloro che abitavano all'interno di un borgo.

La società feudale e i milites


Originariamente l'investitura feudale non dava diritto ad una proprietà a pieno titolo, ma al
semplice possesso, inoltre il feudo era inalienabile e non trasmissibile agli eredi fino al X secolo. I
rapporti feudali erano assai complessi, questo perché spesso si poteva essere vassi di più seniores
(ovvero aver ricevuto feudi la signori diversi) e trovarsi in difficoltà qualora questi fossero entrati
in conflitto. Solo successivamente entrò l'usanza del giuramento ligio, il riconoscimento da parte
di un vassallo di un legame primario con un preciso signore. Quando un feudatario aveva diritto
alla giurisdizione i suoi sudditi lo definivano dominus (signore e giudice), mentre i suoi vassalli
senior. Vi erano, inoltre, diverse tipologie di vassi a seconda del servizio offerto e rispettivo
compenso ricevuto. A partire dal X secolo appare, per esprimere la dipendenza feudale, il termine
miles. Non era necessariamente un personaggio di alto rango, viveva dell'arte della guerra e di
solito riceveva da un senior quanto gli era necessario per procurarsi il suo armamento sempre
più costoso. Il cavalier si faceva aiutare dagli scudieri. Con la coscienza dell'appartenenza ad
un'élite, la cavalleria, si sviluppò anche una coscienza ed una cultura personale, che portò alla
nascita dei romanzi cavallereschi. Col tempo anche la cavalleria inizierà ad essere regolata da
norme comprendenti le varie forme di iniziazione, come il rito dell'addobbamento, ovvero la

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concessione delle armi e una leggera ferita rituale. Altro gesto simbolo era lo schiaffo che si dava
al soldato, che nel rito cristiano della cresima (che rende soldati di Cristo) si è trasformato in una
carezza.

L'attesa per l'anno Mille


L'attesa della fine dei tempi ha poco a che vedere con l'anno Mille. La visione, che dobbiamo
attribuire soprattutto alla storiografia romantica, secondo la quale l'ultimo giorno del primo
millennio d.C. la gente si sarebbe raccolta tremante attorno alle chiese e ai monasteri, attendendo
la tromba del giudizio e all'alba del nuovo millennio, visto che nulla era accaduto, sarebbe tornata
alla sua alle sue mansioni con nuova energia, è ovviamente falsa. E’ opportuno precisare
l'impossibilità perfino a determinare in modo uniforme quando dovesse scattare il fatidico anno
Mille e la mancanza di un primo giorno dell’anno univoco in quanto la datazione variava da luogo
a luogo.

Economia e vie di comunicazione tra i due millenni


Nel corso dei secoli altomedievali, nonostante la recessione, il ceto mercantile non era del tutto
scomparso, anzi nel tempo un numero sempre maggiore di cristiani si avvicinò a questa attività.
A partire dall'VIII secolo l'economia cominciò a registrare una tendenza positiva fino alla crisi dei
primi del Trecento, probabilmente frutto di un miglioramento nel settore agricolo. I benefici
provennero in questo senso dalla rotazione triennale, dal mulino d'acqua, dell'aratro pesante, da
campagne di bonifica e disboscamento e dal miglioramento climatico. Le esigenze dei milites e
stili di vita di alto livello incrementarono la domanda di beni preziosi (es. stoffe pregiate e spezie),
provenienti principalmente da Alessandria e Costantinopoli, dove non si pagava con la moneta
ma con l’oro, divenuto sempre più raro. Nacque così la necessità, a partire dal IX secolo, di istituire
fiere sul territorio così da diffondere l'uso di monete in altri materiali. L’ingrandirsi e il
moltiplicarsi delle città nell’Europa occidentale e la diffusione delle fiere comportò il
miglioramento delle vie di comunicazione esistenti e l'apertura di vie di comunicazioni nuove. Le
strade costruite in epoca romana erano in gran parte abbandonate, deviate o ridotte a cave di
pietra. A differenza della strada romana, quella medievale almeno fino al Duecento era sterrata e
tortuosa, in modo da assecondare la conformità del terreno. La manutenzione delle strade e dei
ponti era affidata e i vari signori del luogo, con conseguente abbandono o imposizione di dazi. La
rinascita commerciale di questo periodo è quindi essenzialmente legata ai traffici via acqua.

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CAPITOLO 12
Il califfato degli abbasidi
Il califfato omayyade di Damasco (Siria) si era ormai trasformato in una sorta di impero
ereditario, cosa che provocò non pochi dissidi, soprattutto con gli sciiti. Era inoltre nato un forte
contrasto tra questa dinastia e la famiglia degli abbasidi, che aveva il centro del proprio potere
nel Khorasan (nord-est Iran). Gli abbasidi avevano attirato le simpatie degli sciiti conducendo una
campagna di propaganda in nome dei discendenti della famiglia del profeta. Quando nel 749 il
califfato di Damasco fu rovesciato, venne eletto califfo un membro della famiglia degli abbasidi,
discendente da uno zio di Maometto. Gli abbasidi spostarono il califfato a Baghdad (Iraq), sul
fiume Tigri. Il luogo da essi scelto indicava che ormai il baricentro della nuova dinastia non
sarebbe stato più nell'area mediterranea e prossima a Costantinopoli, bensì nell'area
mesopotamico-persiana; era così sottinteso un programma di asiatizzazione del califfato.

La dinastia idriside in Marocco


Un discendente della famiglia di Ali, sfuggito alla repressione omayyade sul finire dell’VIII secolo,
trovò rifugio nelle regioni dell'attuale Marocco e cominciò un'opera di unificazione delle tribù
berbere. Nacque così la dinastia idriside. La logica della dinastia da lui creata era la stessa che
aveva favorito gli abbasidi, ovvero la volontà delle popolazioni islamizzate di sottrarsi alla
leadership araba e di attivare governi locali. Venne fondata da Idris la città di Fez, che sarebbe
diventata capitale dell'emirato. I tentativi della dinastia di espandersi vennero tuttavia fermati. Il
controllo della dinastia idriside In Marocco si protrasse fino al 922.

La dinastia aghlabita in Maghreb


Nel Maghreb (area a ovest del Nordafrica, che si affaccia sul mar Mediterraneo e sull'oceano
Atlantico) centrale invece si diffuse il kharigismo, nella sua forma moderata. La più potente delle
dinastie che si affermarono in questo territorio è quella aghlabita, che in teoria governavano per
conto degli abbasidi, ma di fatto erano autonomi e coprivano un territorio comprendente Tunisia
e Algeria orientale dai primi del IX secolo. La dinastia favorì l'espansione nel Mediterraneo e il
mare e riuscì a far tornare l'agricoltura i fasti che aveva conosciuto sotto Roma, con impianti di
irrigazione e piantagioni di ulivi e alberi da frutta. Alti vertici vennero raggiunti anche dallo
sfruttamento minerario del rame, del piombo e del ferro La costruzione e il mantenimento di
questi impianti rendeva necessaria una politica fiscale assai rigida. Questa, unita alle tensioni tra
le diverse componenti della società, rendevano il potere fragile, fragilità di cui approfittarono agli
inizi del X secolo i fatimidi.

La conquista della Sicilia da parte degli aghlabiti


La tradizione vuole che dalla Siria partì nel 652 la prima spedizione (di saraceni) verso le coste
della Sicilia, allora sotto il dominio bizantino. Le scorrerie perpetrate a partire dall’VII secolo
fruttavano soprattutto metalli preziosi e schiavi. L'interesse musulmano verso il Mediterraneo
non era tanto mosso dalla jihad, quanto dalla ricerca di basi strategiche e commerciali. Piuttosto
tardi il governo bizantino reagì, costruendo alcune torri di guardia costiera e istituendo un
servizio di squadre navali che intercettavano i vascelli corsari. Ma l'arma prediletta fu la
diplomazia: spesso vennero stretti patti di amicizia con gli emiri arabi, i quali solitamente erano
in competizione tra di loro. La conquista della Sicilia fu tra le principali imprese della dinastia
aghlabita. La grande invasione dell'isola partì nell'827 dalla Tunisia, ma solo ai primi del secolo
successivo i musulmani riuscirono a conquistarla. Dalla Sicilia le incursioni si propagarono in
numerose parti dell’Italia. Di solito l'obiettivo degli incursori era la razzia rapida e il prelievo di

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persone con cui alimentare il commercio degli schiavi, altre volte l'impianto di una sede che
fungeva da colonia commerciale e militare. Capitò, tuttavia, che queste incursioni dessero vita a
veri e propri insediamenti, come nel caso della Sicilia. Le lotte dinastiche che portarono all’ascesa
dei fatimidi in Maghreb ed Egitto ebbero ripercussioni anche sull’isola. In quel periodo la Sicilia
fu anche terra di immigrazione per molti musulmani sunniti. Il tentativo fatimide di appropriarsi
dell'isola fu contrastato i primi decenni del X secolo, con lo scoppio di scontri tra sunnismo
siciliano e sciismo africano. Il conflitto si risolse a favore dei fatimidi nel 917 con la capitolazione
di Palermo. La ribellione contro i fatimidi provocò una serie di carestie che indebolirono l'isola e
soltanto nel 948 un nuovo emiro, facente parte della dinastia kalbita, riuscì a sedare dissensi. La
fedeltà della dinastia kalbita ai fatimidi determinò una maggiore autonomia del governatorato
della Sicilia.

Incursioni in Italia degli arabi


Spesso i saraceni si inserivano in contese locali parteggiando quando per uno, quando per un altro
dei contendenti, né era raro il caso che fossero proprio questi a chiamarli, favorendo il loro
ingresso in Italia. Ad esempio, i saraceni che stavano conquistando la Sicilia furono esortati da
Andrea console di Napoli a venire in aiuto della sua città contro il principe longobardo di
Benevento, che tormentava di continuo il territorio campano. Comprensibilmente grati per
l'aiuto, i napoletani soccorsero a loro volta i musulmani durante l'assedio di Messina nell'843 e
rimasero neutrali durante l'occupazione di Ischia. Erano sempre stati i napoletani, al fine di
mettere in difficoltà il principe longobardo di Benevento, a indurre i saraceni nell'838 ad assalire
Brindisi. Troppo tardi le città campane, che avevano creduto di potersi servire degli arabi
impunemente, si accorsero dell'errore commesso. I saraceni, che già nell’829 avevano assalito il
porto di Roma e saccheggiato le mura delle basiliche suburbane di San Paolo e San Pietro,
tornarono nel Lazio nell’846 e nell’849. Fu in occasione dell’ultimo assalto che Papa Leone IV fece
circondare di mura (città leonina) l’area del santuario vaticano di San Pietro. Stanco di queste
continue incursioni, Ludovico, figlio dell'imperatore Lotario, scese nella penisola con un esercito
composto da franchi, i duchi di Spoleto e Napoli e il doge di Venezia. Intanto il principe di
Benevento, obbligò i baresi che gli erano rimasti fedeli ad accettare la protezione dei saraceni,
divenendo i nuovi padroni. Nasceva così nell’848 l’emirato di Bari. Ludovico tentò più volte di
riprendersi Bari, fino a quando non la liberò nell’871 con l’aiuto di Bisanzio. Il basileus Basilio,
non avendo alcuna intenzione di cedere il meridione a Ludovico, riuscì a sollecitare una rivolta
dei Longobardi di Benevento che imprigionarono l'imperatore carolingio per quasi due mesi
mentre gli alleati di Basilio dalla Tunisia inviavano uomini. Ludovico riuscì tuttavia a contrastare
i nemici. Morto Ludovico, i baresi non avevano più motivo di intrattenere legami con l'impero
germanico e si rivolsero alle autorità bizantine che riuscirono a riprendersi anche Taranto. Nel
frattempo gli arabi stavano completando l'occupazione della Sicilia, dalla quale poterono darsi
nel corso del X secolo all'attacco sistematico delle coste dell'Italia meridionale. L'imperatore
sassone Ottone II lanciò un'energica campagna a somiglianza di quella di Ludovico, che si infranse
nel 982 presso Capo Colonna. L'offensiva saracena rimase viva fino al 1036, anno della morte
dell'emiro Al-Akhal, cui seguì un irreversibile polverizzazione politica dell'islam siculo. Anche
nello scacchiere Mediterraneo del nord-ovest, la guerra corsara saracene imperversava partendo
dalle basi iberiche tormentando le coste fino a Marsiglia, a Tolone e a Nizza, giungendo addirittura
in Piemonte.

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Il califfato (imamato) sciita dei fatimidi in Egitto
Lo spostamento del califfato a Baghdad aveva lasciato una sostanziale autonomia di scelta nei
territori occidentali di cui ne approfittarono il Maghreb e l'Egitto. In quest’ultimo territorio, dopo
anni turbolenti, si impose la dinastia dei fatimidi, che si proclamavano discendenti di Fatima, figlia
del profeta Maometto. Sebbene l'Egitto fosse sunnita, era percorso da predicatori sciiti. Al-
Muizzin e le sue truppe entrarono trionfanti nel 969 e di lì a breve vi fondarono la nuova capitale,
Il Cairo, proclamando un califfato sciita che durò fino al 1171. Il califfato sunnita di Baghdad. dal
quale dipendevano almeno formalmente le dinastie precedenti, non riuscì neppure a tentare una
controffensiva, tale era la era la forza dell'avanzata fatimide. Sotto la nuova dinastia i centri urbani
egiziani ebbero un forte slancio economico, dovuto alla posizione tra l'oceano indiano e
Mediterraneo e il Cairo agli inizi dell'anno Mille fu il centro commerciale musulmano più grande
dell'epoca. Le vicende fatimidi interessarono anche la Sicilia, la quale era rimasta fedele alla
dinastia da poco estinta. Essendosi i fatimidi spostati in Egitto, il governo della Tunisia venne
affidato agli ziriti. Inizialmente la politica degli ziriti si mantenne fedele alla dinastia fatimida, ma
col tempo si palesò un'istanza politica più autonoma che condurrà aa a frequenti tensioni con il
Cairo. Da una costola zirita nacque una nuova dinastia berbera e sciita destinata ad avere un ruolo
importante: gli hammadidi. Gli hammadi fecero ritorno alla sunna, bruciando le insegne sciite,
anche se più che religiosa si trattò di una mossa politica. Solo l'Egitto fatimida rimaneva sciita.

Il califfato omayyade di Cordoba


Nel corso del X secolo l'emiro che aveva guidato la dinastia omayyade di Cordoba si era arrogato
la dignità di califfo ed era riuscito a estendere il suo potere anche su una parte del Maghreb
occidentale. Cordoba si era affermata quale polo principale nella penisola iberica. La dinastia
omayyade portava avanti una precisa politica di espansione verso nord nella penisola iberica e
verso il nord dell'Africa, con le campagne in Marocco e in Algeria, sottraendola ai fatimidi d'Egitto.
Almeria divenne punto di convergenza di interessi politici, militari ed economici. Della prosperità
del califfato ne abbiamo notizia dall'opera Descrizioni del mondo di un viaggiatore arabo:
circolavano monete d'oro e d'argento battute nelle zecche locali ed erano presenti in abbondanza
prodotti di lusso. Fino al primo decennio del X secolo il palazzo del califfo sorgeva a Cordoba, a
metà del secolo una nuova sontuosa città palazzo, Madinat al-zahra, letteralmente città di fiori,
venne edificata a poca distanza dalla capitale e qui vi si trasferì il califfo. Nonostante lo splendore
raggiunto nel X secolo, i problemi non mancavano nel califfato omayyade. Arabi e berberi non si
erano mai propriamente fusi tra di loro. Si succedettero una serie di califfi e alla morte di al-
Mansour erano scoppiate nella famiglia califfale contese dinastiche tali da frazionare l'intera
Spagna musulmana in una dozzina e più di emirati in lotta tra di loro. Le genti basco-navarresi
erano riuscite a mantenere dal canto loro l'indipendenza. Essi organizzarono così il principato di
Navarra, che sarebbe divenuto regno un secolo più tardi e da questi luoghi avrebbe preso avvio il
movimento della riconquista cristiana.

L'Africa subsahariana
L’Africa bagnata dal Mediterraneo e quella subsahariana hanno conosciuto storie differenti,
almeno a partire dal quarto millennio a.C., cioè da quando l'inaridimento del Sahara rese più
difficili i collegamenti. La quasi totale mancanza di testimonianze scritte ha reso difficile una
ricostruzione della storia dell'Africa subsahariana.

L'islam in Asia

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Il potere musulmano era soggetto a una continua frammentazione a lotte dinastiche continue.
Quella samanide può essere considerata l'età dell'oro per l'islam dell'Asia centrale, sviluppatasi
principalmente in Persia. Sotto il controllo della dinastia i commerci si estendevano dalla Cina
fino alla Svezia, come testimoniato dalla presenza di monete rinvenute in queste regioni. Anche
lo sfruttamento minerario e l'agricoltura conobbero grandi progressi. L'avanzata di una nuova
etnia islamizzata, quella turca, pose fine a questa esperienza. Il declino L’Asia rivestì sempre un
ruolo di rilievo nei commerci: l'organizzazione mercantile prevedeva che singoli convogli
facessero soltanto percorsi brevi di oasi in oasi, per poi affidare ai carichi ad altri convogli dello
stesso, mentre le merci pesanti e poco costose tendenzialmente si trasportavano via mare. Sulla
via della seta, oltre alla seta stessa, transitavano altre merci di pregio, come ad esempio l'oro e
l'argento, il bambù, l'incenso, rubini e zaffiri, spezie (pepe, noce moscata, chiodi di garofano, ecc.).

Mappa orientativa dell’espansione musulmana tra VIII e X secolo

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CAPITOLO 13
L’impero bizantino tra il VII e l’XI secolo
Fallita nella seconda metà del VI secolo l'unificazione del territorio dell’Impero Romano tentata
da Giustiniano, l'impero d'oriente aveva sempre più sviluppato la sua influenza sia sull'Asia sud
occidentale, dove però era stato duramente contrastato dall'islam, sia sulle sull'Europa orientale,
dove la chiesa greca aveva condotto una lunga opera di cristianizzazione. Nonostante qualche
eccezione, le relazioni con l'Europa occidentale, nella quale si era intanto imposta l'egemonia del
patriarca di Roma, erano sempre più scarse, escluse Italia meridionale, Sicilia e Sardegna
controllate da Bisanzio. L'impero pur conservando leggi e istituzioni romane, si era orientalizzato
nella struttura geopolitica e cosmopolita. La sua armata era in gran parte costituita da mercenari
barbari, il suo ceto dirigente da grandi famiglie aristocratiche con possedimenti in Asia, la sua
lingua era il greco. La pressione dell'islam aveva provocato una forte militarizzazione dell'impero
e l’abbandono della balcanica, ormai divenuta indifendibile. Tra il 674 e il 678 gli arabi giunsero
ad attaccare la stessa Costantinopoli. Nel VII secolo la potenza arabo-musulmana strappò
all'impero nel giro di pochi mesi Siria, Palestina ed Egitto. Intanto tutte le conquiste giustiniane
nel bacino occidentale del Mediterraneo venivano gradualmente abbandonate.

La crisi iconoclasta
La fine della dinastia eracliana era stata causa di oltre un ventennio di instabilità e di guerre civili
che avevano visto avvicendarsi sul trono ben sei basileis, fino alla nomina nel 717 di Leone III, che
è ristabilì l'ordine e liberò la capitale dall'assedio arabo. Anche conosciuto come Isaurico in
quanto fondatore di una nuova dinastia imperiale i cui membri provenivano da una regione al
confine tra l'Anatolia e la Siria. Fu lui a proibire in tutto l'impero il culto delle immagini sacre che
per decreto imperiale furono soggette a distruzione (iconoclastia). Questo provvedimento fu
all'origine di una lunga crisi che si trascinò lungo tutto l’VIII e a partire dal IX secolo. L'imperatore
fu considerato soprattutto in Occidente un eretico a causa della lotta iconoclasta da lui promossa.
La Bibbia contiene diverse proibizioni riguardo alla fabbricazione e al culto delle immagini. La
prima chiesa cristiana aveva condotto un dibattito tra quanti volevano attenersi a quei divieti e
coloro che consideravano importanti le immagini a fini didattici. Non sono del tutto chiare le
ragioni che portarono a questa scelta, la quale andava a colpire soprattutto la capitale dove
prosperavano sia i monaci che traevano ricchezze dal culto delle immagini, sia un ampio numero
di artisti. In Occidente esso inferse un altro colpo ai già compromessi rapporti tra la chiesa greca
e la chiesa latina, che andarono ulteriormente distanziandosi. L'atto formale con cui si avviò la
campagna iconoclasta fu la deposizione e la distruzione dell'icona di Cristo affissa sopra la porta
di bronzo che serviva da ingresso principale al palazzo imperiale di Costantinopoli nel 727.

Uralo-altaici e slavi nei Balcani


La penisola balcano-danubiana, area attraverso la quale passava dalla fine del IV secolo d.C. il
confine tra le due parti dell'impero, fu tra il VI e il IX secolo interessata da ondate di popoli nomadi
provenienti dalle steppe dell'Asia. Sono dette uralo-altaiche perché provenienti dalla vasta area
compresa tra le catene montuose degli urali e degli alta e parlavano lingue rientranti nel gruppo
degli idiomi un ugro-finnici. Il primo popolo ad insediarsi in modo consistente in un'area balcano-
danubiana fu quello degli avari, originario della Mongolia. Nel 626, alleatisi con i persiani, avevano
partecipato all'assedio della stessa Costantinopoli. Altro popolo di origine uralo-altaica furono i
bulgari, il cui tentativo di farne dei confederati posti a presidio del confine orientale aveva
consentito il loro insediamento nell'attuale Romania. L'atteggiamento aggressivo mostrato nei
confronti dello stesso imperatore li trasformò rapidamente in una minaccia. Degli slavi sappiamo

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essere originari di zone al confine tra le attuali Bielorussia e Ucraina e i loro idiomi appartenevano
a un ramo del gruppo linguistico indoeuropeo. Essi si distinguevano per affinità linguistiche ed
etniche in tre gruppi: slavi orientali (es. ucraini), slavi occidentali (es. polacchi) e slavi meridionali
(es. sloveni).

La chiesa greca e l'evangelizzazione degli slavi


I basileis della dinastia amoriana, succeduti alla linea dinastia isaurica, si impegnarono
nell'evangelizzazione delle genti slave. Cirillo e Metodio, due fratelli originari della Tessalonica,
tradussero la Bibbia in un dialetto parlato dagli slavi di Macedonia ed elaborarono, sulla base
dell'alfabeto greco, uno speciale nuovo alfabeto detto cirillico. Nell'865 il capo Boris di Bulgaria
accettò il battesimo, in seguito a ciò venne fondata una chiesa bulgara che pur riconoscendo
l'autorità del patriarca di Costantinopoli tese a sviluppare le sue caratteristiche nazionali. Boris
accettò di entrare a far parte dell'ordine imperiale e assunse il titolo di imperatore subordinato,
ovvero Caesar, che nella tradizione slava si perpetuò nella forma fonetica czar da cui zar. Nel
frattempo, la chiesa latina, emulando quella greca, si impegnava a diffondere il credo e sempre in
un'ottica di concorrenza tra i due patriarchi, il Papa promosse l'incoronazione imperiale del re
franco Carlo.

Lo scisma di Fozio
Nell'867 il patriarca Fozio avviò un vero e proprio scisma nei confronti della Chiesa romana,
accusandola di aver manipolato le conclusioni del Concilio di Nicea del 325, aggiungendo al
documento conclusivo di esso, ovvero il Credo (symbolon) una formula secondo la quale lo Spirito
Santo procedeva non solo dal padre ma anche dal figlio (questione del filioque). Scomunicato dal
patriarca di Roma, Fozio poté riprendere a distanza di anni il suo ruolo ma venne nuovamente
scomunicato, fino alla definitiva deposizione. Ulteriore momento di crisi si ebbe nella seconda
metà del X secolo, quando l'opera del re di Germania Ottone I determinò un rinnovamento della
funzione imperiale in Occidente, sgradito a Bisanzio. Per il momento si rimedio voi con un
matrimonio tra l'erede al trono germanico è la principessa bizantina; tuttavia, questa lunga serie
di contrasti avrebbe portato allo scoppio dello scisma d'oriente (XI secolo).

La nascita della “Rus”


La Chiesa di Bisanzio si fece promotrice dell'evangelizzazione del vasto territorio che coincide
grossomodo con l'attuale Russia Esso era controllato da un gruppo di principati, governati da
principi-guerrieri. La loro origine si doveva all'arrivo dalla Svezia di alcuni gruppi di marinai-
mercanti normanni chiamati “variaghi”. I variaghi nell'860 avevano tentato un attacco a
Costantinopoli, che venne respinto ma da allora i basileus presero l'abitudine di reclutare fra loro
i candidati alla guardia di palazzo. Nel 944 il principe di Kiev Igor, dopo un nuovo e fallito attacco
a Costantinopoli, concluse con l'impero bizantino un accordo e avviò il processo di conversione. I
successori di Igor ampliarono i confini del principato e, dopo un periodo di frazionamento, grazie
a san Vladimiro il principato tornò a unificarsi e Kiev divenne una grande capitale. I successori di
Vladimiro si impegnarono nella creazione di un corpus di leggi noto come “codice russo”, frutto
della fusione tra leggi bizantine e norme e consuetudini del diritto slavo. Venendo meno
personaggi carismatici, la compagine russa si frazionò in una serie di principati, con conseguente
declino di Kiev. Intanto però una nuova città, Mosca, fondata nel 1147, stava diventando la
capitale di un principato che avrebbe gradualmente imposto la sua egemonia.

La dinastia macedone

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Dopo la dinastia amoriana, la sovranità su Bisanzio passò a una famiglia proveniente dal nord
dell'impero, detta macedone. Tra il X e il XIII secolo il Mediterraneo si presentava diviso tra
l’egemonia bizantina e i vari califfati musulmani, a cui vanno aggiunte a partire dall’XI secolo le
città marinare italiche. Ovviamente, va sottolineato che Bisanzio era una compagine statale
organica, le dinastie musulmane pur unite nella lingua, nella cultura e nell'economia avevano
perso il centro politico e religioso dopo la fine del califfato omayyade di Damasco. Basilio I, detto
“il macedone”, santo per la chiesa greca, inaugurò un'era caratterizzata da forte centralismo, dopo
un lungo periodo di lotte nell’impero. Tanto Basilio I, quanto il successore Leone VI, misero mano
a una riforma del diritto giustinianeo, mediante alcune nuove raccolte di leggi, e dovettero
affrontare i problemi ecclesiastici sollevati da Fozio. Essi agirono con energia per il recupero del
controllo dell'Italia meridionale, ma persero totalmente quello della Sicilia. Nella capitale
risiedevano, onde evitare spinte autonomiste, i reggenti dei 32 distretti in cui era diviso l’impero
(tomi). La capitale diveniva così una metropoli costosa ed improduttiva. Nel clima di perenne
sospeso tra intrighi di corte e rischio di una sommossa popolare, il potere imperiale dovette
incentrare tutta la sua politica sul favore all'esercito.

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CAPITOLO 14
La nascita dei comuni in Italia
L'Europa mediterranea nel corso del X secolo usciva da una lunga crisi climatica, demografica e
sociale. Le incursioni vichinghe, ungare e saracene furono uno dei fattori di rinascita dei centri
urbani: le esigenze relative all'organizzazione e alla sicurezza condussero a ripopolare e a
fortificare centri urbani, alcuni dei quali a lungo abbandonati. Protagonisti di questa rinascita si
fecero i vescovi, che nelle città avevano il centro della loro diocesi, attorno ai quali crebbe il potere
di una aristocrazia abile militarmente (milites) e di una proto-borghesia, composta da
cambiavalute, mercanti, artigiani, medici, notai (boni homines). Le oligarchie cittadine dettero
luogo al sorgere di magistrature collegiali, variamente riconosciute e legittimate dall'autorità
episcopale del luogo, i cui membri presero il nome di consules. Essi venivano eletti numero e per
un periodo variabile da città a città e provenivano dalle famiglie più ricche e potenti. Si può, in
linea generale, dire che il comune medievale si iniziò a diffondere nell’Europa occidentale e
centrale fra l’XI e il XIV secolo e raggiunse un alto livello di sviluppo soprattutto nell'Italia centro
settentrionale (Veneto e Toscana), quella porzione di territorio che dal X ai primi del XIX secolo
sarebbe rimasta istituzionalmente e, almeno formalmente, collegata al regno di Germania e al
Sacro Romano impero. Accanto al comune, già a partire dal Duecento in alcune aree come la
Romagna si affermarono le signorie. Alquanto problematica è la questione dei comuni italo-
meridionali, in parte soffocati dal centralismo regio normanno-svevo-angioino.

L'organizzazione consolare
La primitiva organizzazione consolare era composta da un governo ristretto. Termini come
“Comune” e “cittadinanza” non coincidevano: i membri del Comune dominavano la cittadinanza,
mentre la cittadinanza partecipava alla vita del Comune in modo passivo. Il regime consolare era
espressione di un assetto cittadino aristocratico ed elitario, dove i ceti subalterni non avevano
voce. I potenti controllavano anche la chiesa cittadina, in quanto da loro derivavano i membri del
clero che avrebbero contribuito all'elezione del vescovo. Un momento fondamentale nella vita di
tutti i comuni urbani fu l'espansione dell'autorità cittadina nei singoli contadi circostanti, che
condusse in un primo tempo una serie di conflitti. Questo stato di cose dette luogo nella metà del
XII secolo alla convocazione da parte di Federico Barbarossa di due diete: quella di Roncaglia del
1154 è del 1158. Durante queste l'imperatore aveva avocato a sé i diritti pubblici, tra cui una
quantità di dazi e di dogane, mentre dopo trent'anni di contese giuridiche e di lotte armate nel
1183 con la pace di Costanza dovette riconoscere i comuni, inserendoli tuttavia nell'ordine
feudale. Da allora in poi l'impero trattò le autorità comunali nel loro complesso come feudatari, i
consoli dovevano così giurare fedeltà al sovrano. Nel patrimonium petri la massima autorità era,
invece, il pontefice. I comuni dovettero sempre tener conto dell'autorità superiore dalla quale
formalmente traevano legittimità, pur avendo nel tempo ricorso a diplomi e atti di concessione
pagati profumatamente. Per porre rimedio alle ostilità tra le famiglie più ricche nella gestione
della città, a partire dalla seconda metà del XII secolo si diffuse la prassi di affidare il governo a
un solo funzionario, di solito forestiero, detto podestà. Tale governo, tuttavia, non risolse i
problemi delle città, le quali nel frattempo si erano date a guerreggiare tra loro. Nacquero le
rivalità che avrebbero caratterizzato la storia comunale: tra Firenze e Pisa, tra Firenze e Siena, tra
Bologna e Modena, tra Genova e Pisa, tra Venezia e Genova.

Ceti mercantili e aristocrazie nella città d'oltralpe

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La città medievale si propose come centro di produttori, teso a instaurare con il territorio
circostante un rapporto di integrazione ed egemonia. Secondo la diversa situazione delle varie
aree del mondo europeo, la storia della città medievale assume contorni volta per volta differenti.
L'elemento che distingue la civiltà comunale italiana da quella d'oltralpe fu la differenza tra
consules e burgenses, che in Francia, in Fiandra e in Germania ottennero in genere l'autonomia,
concessa dai principi o dai prelati cui spettava il legittimo governo. L'aristocrazia feudale franco-
settentrionale o tedesca diffidava in genere dai centri urbani, le città in quelle aree infatti si
affermarono come fenomeno essenzialmente legato ai ceti imprenditoriali e mercantili,
permettendo alle corporazioni commerciali (gilde) di accentrare il potere, ricorrendo ai diplomi
di autonomia. In Fiandra la città acquistò autonomia politica sulla base di patti fra le compagnie
di mercanti e l'autorità signorile alla quale ufficialmente sarebbe spettato il governo della città. I
comuni nella Francia del nord invece erano guidati da scabini, esperti di diritto, spesso
provenienti dall'entourage dei signori. Nel sud della Francia, invece, le cosiddette “villes de
consulat” vissero una prima fase simile a quella italiana. L città tedesche giunsero a uno stato
intermedio tra le città vescovili e quelle comunali

Città di frontiera
Mentre il Mediterraneo era divenuto un lago musulmano e bizantino e la Spagna rimase ai
musulmani, il mondo cristiano si andava espandendo in verso l'Europa settentrionale e orientale.
Nacquero così nuove città, in genere città organizzate attorno a due castelli, uno signorile dove
sorgeva anche la cattedrale e un'area mercantile. La ripresa demografica e la messa a coltura di
sempre nuovi spazi determinò il nascere di centri urbani nuovi, tra i quali si ricordano Amburgo
e Brema in Germania. In questi anni si concretizzò anche la cristianizzazione della Scandinavia e
della Svezia, non senza reazioni pagane. Anche sul Baltico furono fondate colonie mercantili
importanti, come Haithabu, Vineta (la cui esistenza è leggendaria) e Birka. Non è chiaro perché
molte di queste attive e popolose colonie siano declinate a partire dall’XI secolo. Gli Ottoni
avevano creato una rete di città lungo la frontiera cristiana orientale, la più importante fra tutte
Magdeburgo, attiva sin dagli inizi del IX, secolo come centro commerciale. Da qui partirono gruppi
di missionari cristiani volti alla colonizzazione degli slavi

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CAPITOLO 15
Il monachesimo cluniacense
La chiesa tra il X e l'XI secolo si era profondamente rinnovata anche grazie all’intervento degli
imperatori germanici. In una parte del mondo ecclesiastico cresceva la preoccupazione per il
problema della Libertas ecclesiae che era contemporaneamente sia liberazione delle istituzioni
ecclesiali dai condizionamenti dei ceti laici, sia liberazione dei prelati stessi dalle preoccupazioni
e dalle abitudini mondane. Proprio contro la chiesa mondana si erano già levate voci di protesta
che si erano incanalate nella fondazione di nuovi ordini, come quello eremitico dei camaldolesi
promosso da San Romualdo e quello dei cluniacensi. Il monastero di Cluny era stato fondato nel
910 da Guglielmo duca d’Aquitania a affidato all'abate Bernone il quale, pur rifacendosi alla regola
benedettina, dava maggiore rilievo alla preghiera e allo studio. L’abbazia intendeva essere
indipendente dai poteri temporali, per questo non solo il duca rinunciò al patronato su di essa,
ma la affidò alla sede pontificia. Sul suo modello sorsero in tutta Europa monasteri che rifiutarono
qualsiasi forma di patronato che non derivasse da quello pontificio. L'imperatore Enrico II, pur
essendosi impegnato per la moralizzazione della Chiesa, era diffidente nei confronti di Cluny.
Saranno i cluniacensi a promuovere il pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela in
Spagna e a istituire la pax Dei, che segnalava i giorni e i luoghi nei quali la guerra e contro quali
categorie di persone non si potessero compiere violenze, pena la scomunica.

Lo scisma d’Oriente (1054)


L'imperatore Enrico III, succeduto a Corrado II di Franconia, si impegnò a proseguire la linea
stabilita dai suoi predecessori. L'imperatore cominciò a scegliere i vescovi non più dei ranghi della
nobiltà, ma dai monasteri e dai ceti emergenti cittadini. Il progetto imperiale di riforma proseguì
anche nei confronti del papato: nel 1046 Enrico III scese in Italia, formalmente per cingere in
Roma la corona imperiale, ma anche in veste di patricius romanorum e come tale con il compito
di vegliare sulle elezioni del vescovo di Roma. Dei tre candidati al soglio, durante il sinodo di Sutri
vennero deposti tutti e l’imperatore impose le elezione del suo candidato, il vescovo di Bamberga,
che assunse il nome di Clemente II. A tre anni di distanza venne nominato pontefice
dall’imperatore Leone IX, che si fece promotore di una riforma radicale della Chiesa. Desideroso
di nuovi alleati, si rivolse al governo bizantino di Puglia in un'ottica di avvicinamento fra papa e
basileus e forte del suo aiuto si scagliò contro i Normanni insediati nelle aree vicine al patrimonio
di San Pietro. Il tutto si concluse con una sonora sconfitta da parte di Bisanzio nel 1053 nella
battaglia di Civita, dove lo stesso Papa venne fatto prigioniero. Tuttavia, i Normanni si resero
conto che, se avessero voluto conquistare l'Italia meridionale, sarebbe stata necessaria
un'autorità superiore che legittimasse il loro potere, autorità che poteva essere proprio la Chiesa
latina. Leone IX doveva quindi rompere con i greci e sfruttò come pretesto l'atteggiamento del
patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, profondamente avverso i latini. Alle già lontane
posizioni si aggiunse la dottrina del “primato di Pietro”, cioè del vescovo di Roma sulle altre sedi
patriarcali, che portò nel 1054 ad una reciproca scomunica. L’atto passa alla storia come “scisma
d'Oriente”. Queste scomuniche vennero annullate soltanto nel 1964 in occasione dell'incontro tra
il papa Paolo VI e il patriarca Atenagora I.

La riforma di Niccolò II
Morto Enrico III nel 1056, lasciando per erede un bambino, si creò un vuoto di potere, di cui
approfittarono i riformatori per scegliere i pontefici. Tra di loro spicca Niccolò II, il quale durante
un sinodo nel 1059 impose che da allora in poi il Papa, in quanto vescovo di Roma, sarebbe stato
scelto da un collegio di preti e diaconi della città di Roma e cardinali. Nessun ecclesiastico avrebbe

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più potuto accettare cariche da un laico, imperatore compreso. Il celibato ecclesiastico sarebbe
divenuto obbligatorio. Il secondo punto non solo danneggiava l'imperatore, ma applicato
retrospettivamente condannava l'intera Chiesa, andando a rendere nulli (secondo alcuni) i
sacramenti concessi dai simoniaci. Il tutto provocò l’opposizione dei vescovi tradizionalisti.

Gregorio VII e il primo imperatore scomunicato


Altro pontefice di grande carisma dopo Niccolò II fu Gregorio VII, il quale vietò a tutti i laici di
investire un qualunque ecclesiastico, pena la scomunica. Nel 1078 promulgò il Dictatus papae, un
documento all'interno del quale il pontefice riteneva di avere in terra potere assoluto tale da
deporre gli stessi sovrani laici. Mentre il pontefice stava formulando l’opera, la reazione di Enrico
IV non tardò ad arrivare, tanto da riunire un sinodo a Worms nel 1076 che scomunicò e depose il
pontefice. Questi. a sua volta, scomunicò e depose lo stesso imperatore, il che comportava lo
scioglimento dei suoi sudditi dal dovere di fedeltà. Si tratta della prima scomunica ad un
imperatore. Gregorio VII difese le sue scelte ribadendo l'inferiorità del potere temporale rispetto
a quello spirituale. Inoltre, egli era consapevole della difficile situazione in Germania e del
possibile scoppio di una guerra tra alta nobiltà feudale e piccola feudalità. Enrico IV capì quindi
che l'unica scelta era quella di accordarsi con il pontefice, cosa che fece recandosi a Canossa nel
1077 e chiedendo scusa al pontefice in ginocchio sulla neve. Ristabilita la situazione, Enrico tornò
a rivendicare le sue posizioni precedenti alla scomunica e Gregorio lo scomunicò di nuovo nel
1080. L'imperatore rispose facendo eleggere un antipapa, Clemente III e nel 1084 giunse a Roma,
sia per consacrare il pontefice, sia per ricevere dalle sue mani la corona imperiale. Gregorio VII,
aiutato dai normanni di Roberto il guiscardo fuggì a Salerno.

Il concordato di Worms (1122)


Continuarono le lotte tra riformatori e tradizionalisti, anche se si faceva strada la necessità di
trovare un accordo. Uno dei punti sui quali era più difficile intervenire era quello delle investiture.
Ora che i vescovi non venivano più eletti dai laici, ci si chiedeva se fosse lecito che esercitassero
comunque le prerogative feudali e, d'altro canto, anche qualora avessero continuato ad
esercitarle, il sovrano avrebbe accettato come suoi funzionari persone sulle quali non aveva
influenza? Dopo decenni di lotte, si arrivò con Callisto II ed Enrico V nel 1122 al concordato di
Worms. Ai vescovi veniva riconosciuta una duplice funzione: spirituale e temporale. La loro
elezione sarebbe avvenuta in ogni diocesi sotto il controllo del clero e del popolo.
- In Germania l'imperatore vi avrebbe comunque, direttamente o indirettamente;
presenziato, avendo il diritto di dare il suo assenso al neoeletto, e avrebbe concesso al
nuovo vescovo l’investitura di benefici temporali prima che questi venisse consacrato.
- In Italia le elezioni si sarebbero tenute senza la sua presenza e i benefici temporali
sarebbero stati accordati soltanto dopo la consacrazione (quindi se non gli fosse piaciuto
non gli avrebbe dato alcuna investitura).
Nel 1123 si tenne a Roma il Concilio Laterano I, il primo concilio ecumenico della Chiesa
occidentale, durante il quale furono ribadite le linee guida della Chiesa di Roma e il primato
petrino.

I cistercensi

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Durante gli anni della lotta contro l'impero erano nati nuovi ordini monastici, come i camaldolesi
e i certosini, che avevano fatto riscoprire agli occidentali quell’eremitismo che fino ad allora era
proprio dell'oriente. Ispirandosi alla regola di Benedetto da Norcia, ma radicalizzando il
messaggio, nacque l'ordine cistercense. Era prevista sia l'assidua preghiera, sia il lavoro manuale
durissimo (disboscamento e edificazione di chiese). Contro i ricchi cluniacensi, i cistercensi
indossavano cappe di tessuto grezzo e lavoravano duramente; edificavano in luoghi isolati grandi
abbazie prive di abbellimenti. Principale esponente del monachesimo Sisters fense fu Bernardo
di Clairvaux, che lottò duramente contro l'eresia e la mondanità del clero. Il suo ideale era una
società cristiana che disprezzasse il mondo per puntare al cielo guidata da una chiesa pura e
povera. Verso la fine del secolo alcuni elementi del discorso di Bernardo furono ripresi dal
monaco calabrese Gioacchino da Fiore, fondatore di una comunità sulla Sila è autore di varie
opere a carattere mistico apocalittico.

La cura animarum
Molto presto gli stessi vertici ecclesiastici individuarono la necessità di porre un freno al rilievo
assunto dagli ordini monastici. Una mossa in questa direzione venne compiuta in relazione al
tema della predazione pubblica nel corso del Concilio Lateranense I, nel quale venne negata ai
monaci la possibilità di celebrare pubblicamente le cerimonie liturgiche, compresa l'attività
omiletica. Tuttavia era necessario uno sforzo nei confronti della predicazione pubblica,
soprattutto nelle campagne dove era presente una sorta di cristianesimo popolare, ricco di
tradizioni pagane. Altrettanto necessaria fu una riforma morale e culturale dei preti, che stavano
a diretto contatto con i fedeli.

Il movimento patarino
Nel corso del tempo il clero si era addossato una parte nel governo temporale, da un lato diretta
conseguenza dell'indebolimento dei poteri pubblici cui le gerarchie ecclesiastiche furono spesso
chiamate a supplire, dall’altro perché spesso i vescovi erano espressione delle medesime famiglie
aristocratiche alle quali i poteri pubblici erano affidati. Nei primi decenni dell'XI secolo i
riformatori più intransigenti ricorsero spesso all'ausilio dei laici istigati contro il clero contrario
alla riforma o contro quanti venivano accusati di simonia e concubinato. Tali movimenti erano
particolarmente diffusi nelle città più popolose della Toscana e a Milano, dove sorsero i patarini
(lett. straccioni). Non mancarono da parte dei patarini episodi di profanazione dei sacramenti
giacché essi rifiutavano di considerare valida la consacrazione eucaristica fatta da un prete
simoniaco. Quando questi si resero conto che la chiesa che desideravano, depurata e fatta di
poveri, non era realizzabile, alcuni si adattarono, altri si allontanarono definitivamente. Nacque
così il passaggio dalla pataria all'eresia verificatosi durante il XII secolo.

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CAPITOLO 16
La Francia e la nascita dei capetingi
Durante i secoli XI e XII in vari paesi dell’Europa occidentale si avviò un processo di
riorganizzazione dei poteri della corona che, tuttavia, non cancellò la rete dei feudi, portando alla
nascita di monarchie dette feudali. Erano così chiamate poiché inserivano il sistema feudale nella
loro logica istituzionale di governo. In Francia, durante il X secolo, la corona fu contesa tra i
discendenti di Carlo Magno e quelli di Eude, conte di Parigi, finché nel 987 Ugo Capeto,
discendente da Eude, riuscì ad impossessarsi del potere, fondando la dinastia dei capetingi. Sin
dai primi anni dell'XI secolo i capetingi erano stati in grado di regnare effettivamente solo sui
diretti possessi della corona; quindi, su una porzione ristretta della Francia (ile de France),
mentre il resto del regno era diviso in ducati (es. Normandia, Bretagna) o contee (es. Fiandra). La
Normandia, nata dall'insediamento di alcuni normanni, divenne sempre più francesizzata
culturalmente e linguisticamente, avanzando mire espansionistiche che portarono, nel 1066 il
duca Guglielmo a diventare re d’Inghilterra. Con ciò si era creata una situazione paradossale: egli
era feudalmente soggetto al re di Francia nei territori francesi e suo pari in Inghilterra.

Luigi VII ed Eleonora d'Aquitania


Uno dei membri più significativi della dinastia capetingia fu Luigi VII, vissuto nel XII secolo,
rimasto orfano a soli diciassette anni. Il ragazzo decise di sposare Eleonora, che avendo perso
prematuramente il padre e il fratello, era divenuta erede a tredici anni dei territori d’Aquitania
(Francia centro-occidentale). Il matrimonio, celebrato nel 1137, avrebbe consentito ai capetingi
di mettere le mani sui territori più ricchi del regno. La corte di Aquitania era l'apice della cultura
dell'Europa del tempo e sede di costumi certamente più liberi rispetto all’ambiente capetingio,
motivo per il quale Eleonora trovò difficile adattarsi. Luigi, macchiatosi di una strage che lo rese
inviso alla Chiesa, decise di prendere parte, con la moglie, alla II crociata insieme all’imperatore
germanico Corrado III. La spedizione si dimostrò un disastro: Luigi era rimasto lontano per due
anni dal suo regno, spendendo cifre ingenti per una campagna militare che lo aveva visto umiliato,
e il suo matrimonio, a causa di dicerie sul conto della moglie e di diverse idee belliche, era ormai
compromesso. Addirittura il pontefice li minacciò di scomunica in caso di divorzio, ma i coniugi
non resistettero a lungo nel 1152 fecero dichiarare da alcuni vescovi nullo il matrimonio e come
causa addussero la mancanza di un erede maschio. Dopo due mesi di divorzio Eleonora convolò
a nozze con Enrico II d’Angiò, detto il plantageneto. Lo scacco per il re di Francia fu grande perché
il matrimonio portava in dote al potente feudatario i vasti possedimenti di Eleonora.

L'Inghilterra
Dalla fine del IX secolo grazie ad Alfredo il grande, re del Wessex, la tradizionale divisione
dell'isola in vari regni cominciò a cedere il passo ad una monarchia unitaria. Può essere questo
considerato l'atto di nascita dell’Inghilterra in senso moderno. Innamorato del sapere romano e
della cultura antica, gli si attribuiscono una serie di traduzioni e sembra sia da lui partita la
redazione della Cronaca anglosassone, prima originale sintesi storiografica di quel mondo. Alla
sua morte, i sovrani inglesi che gli succedettero non furono in grado di arginare l'avanzata danese
a tal punto dover fuggire dall'altra parte della manica. Tra i sovrani danesi che governarono in
Inghilterra, non si può non menzionare Canuto (XI secolo), che favorì la fusione dell’elemento
danese con quello anglosassone, rimanendo in buoni rapporti con la chiesa inglese. Alla morte di
Canuto, tra i figli si aprirono lotte per la successione, dando una possibilità a Edoardo il
confessore, discendente di Alfredo il grande. Egli, però, incontrò la resistenza di danesi e
normanni, fino alla cattura da parte di Godwin, conte di Wessex, il cui figlio, Aroldo, divenne re di

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Inghilterra. Nel frattempo, il duca di Normandia Guglielmo, sicuro per un precedente accordo del
suo diritto di succedere a Edoardo, mosse contro Aroldo, che venne sconfitto nella battaglia di
Hastings del 1066. Guglielmo, sottomessa la vecchia aristocrazia anglosassone, ebbe cura che
feudi restassero piccoli e, quindi, più facilmente controllabili. Egli divide il suo territorio in
circoscrizioni locali, dirette da funzionari regi, grazie alle quali nel 1086 gli fu possibile ordinare
un catasto, il Doomsday book. L'equilibrio raggiunto da Guglielmo, poi detto il conquistatore,
venne meno con i suoi successori. Scoppiò una guerra civile alla quale pose fine Enrico d'Angiò,
che aveva da poco sposato Eleonora.

I plantageneti al potere: Enrico II d’Angiò


Nel 1153 Enrico d'Angiò riuscì ad impossessarsi della corona d'Inghilterra e, in quanto marito di
Eleonora e duca di Normandia, era in possesso anche di importanti territori sul suolo francese.
Enrico, con una politica estera di grande rilievo, seppe legarsi con rapporti diplomatici e politici
alle monarchie castigliana, siculo-normanna e germanica, in modo da godere di una vasta rete di
solidarietà nella sua lotta contro il re di Francia. Tuttavia, Enrico II aveva nel suo regno due fieri
avversari: i baroni, scontenti delle sue tendenze accentratrici, e il clero, insoddisfatto dalla
tendenza del sovrano di avocare a sé la giurisdizione ecclesiastica. Fiero avversario del sovrano
fu Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, la cui morte sospetta andò ad incrinare i rapporti
con la Chiesa.

Enrico II d’Angiò ed Eleonora d'Aquitania


Eleonora alla corte inglese sembra poter realizzare molto più pienamente che in Francia la sua
attitudine al mecenatismo culturale. Tuttavia, verso la fine degli anni Sessanta del XII secolo, i
rapporti tra i due sposi iniziarono a mutare, anche a causa dell’innamoramento di Enrico per una
giovane concubina. Una tradizione tarda e infondata attribuirà a Eleonora la morte della ragazza.
Nel 1173 i possedimenti francesi si ribellarono al re, capeggiati dai figli di Enrico e appoggiati da
Eleonora, che con il secondogenito Riccardo (detto “cuor di leone”), tirava le fila dell’Aquitania.
Verso la fine dell'anno il re ebbe la meglio ed Eleonora fu catturata mentre tentava di fuggire
presso il primo marito. Solo dopo la morte di Enrico, Eleonora fu liberata. Nel frattempo, Riccardo
era impegnato con la crociata per riconquistare Gerusalemme e suo fratello, Giovanni “senza
terra”, tramava contro di lui. Alla morte di Riccardo, Eleonora dovette appoggiare il figlio Luigi, la
cui successione era contestata.

I Normanni e l'unificazione del Mezzogiorno d'Italia


Secondo la leggenda i Normanni arrivarono nel Sud Italia nel 1016, in una Salerno assediata dai
saraceni, reduci da un pellegrinaggio in Terra Santa e rimasero affascinati dall'ospitalità dei
cittadini e dalle prospettive di combattimento contro gli infedeli. In pochi decenni i Normanni,
guidati dalla famiglia degli Altavilla e dal suo leader Roberto il Guiscardo, si imposero nella
regione. Durante la prima metà dell'XI secolo i Normanni si erano diretti in gran numero verso
l'Italia meridionale, in cerca di ingaggi come mercenari e di nuove terre da conquistare. In breve
tempo la famiglia degli Altavilla divenne padrone di Puglia e di Calabria, grazie anche all’appoggio
del pontefice. In quegli anni si stava consumando lo scisma d’Oriente ed il pontefice si sentiva
legittimato a concedere agli Altavilla come feudo l’Italia meridionale, che formalmente
apparteneva a Bisanzio, ma che, tuttavia, non aveva la forza di mantenerla sotto il proprio
governo. Tale atto costò l'inimicizia di Bisanzio nei confronti dei Normanni. La conquista di
Guglielmo in Inghilterra, che stava avvenendo in quegli anni, servì da modello a Ruggero, fratello
di Roberto, per la conquista della Sicilia saracena. I territori meridionali vennero uniti in un regno

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unitario a partire dal 1130 sotto Ruggero II, nipote di Roberto. La conquista della Sicilia fu resa
possibile dalla fragilità dell'emiro di Palermo, che cadde nel gennaio del 1072. L'ingresso dei
vincitori avvenne senza strage la moschea fu trasformata in un tempio dedicato alla Vergine.
All'atto della conquista l'isola era abitata totalmente da arabo-berberi, pochissime erano le
comunità greco cristiane, motivo per il quale Ruggero assicurò a tutti la libertà di culto e mise
molti musulmani nel suo esercito, ma al tempo stesso lavoro a un ripopolamento di cristiani latini
nell'isola.

Bisanzio la dinastia dei comneni


Tra il X e l’XI secolo fu introdotto anche a Bisanzio un sistema che ricordava quello vassallatico-
beneficiario, articolato in pronoia, una donazione a tempo determinato di terre con diritto a
godere in ogni loro provento in cambi di servizi soprattutto di tipo militare all'autorità imperiale,
e caristicaria, concessione a titolo di beneficio di beni ecclesiastici e monastici ad amministratori
laici. Intanto in Occidente il pontefice stava avanzando sempre più autorità sulle chiese cristiane,
così il basileus Costantino IX e la basilissa Zoe appoggiano l'azione del patriarca di Costantinopoli,
Michele Cerulario, fino alla definitiva rottura del 1054. Alla dinastia dei macedoni succedette
quella dei Comneni, ascesa al trono alla fine dell'XI secolo, che riprese l’opera di rafforzamento
dell’impero avviata dai macedoni. Nonostante ciò, i domini di Bisanzio erano sempre più
minacciati, sia dalle incursioni in oriente dei cristiani sotto forma di crociate, sia dall’avanzata
normanna nel meridione d’Italia. L’arrivo di Barbarossa non poté che complicare la situazione, a
tal punto da indurre il basileus Manuele Comneno a stipulare alleanze con il papa, il re normanno
di Sicilia, Venezia e i comuni italiani in chiave anti-federiciana, anche se alcuni vi vedono una sorta
di politica neo-giustinianea. Per portare avanti una politica di questo tipo egli avrebbe dovuto
instaurare anche buoni rapporti con i vicini orientali, ma proprio in questi falli. La dinastia che
succedette ai Comneni, quella degli Angeli, fu da subito in balia degli eventi che riguardavano il
regno franco di Gerusalemme e le potenze europee.

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CAPITOLO 17
I turchi selgiuchidi
I territori invasi dai musulmani tra l’XI e il XII secolo erano numerosi: la penisola iberica,
un'enorme area del continente africano, l’Asia occidentale. Non vi era, però, alcuna unità politica,
frutto non solo della divisione in diversi potentati, ma anche di quella più profonda tra sunniti
(più numerosi) e sciiti. In questo mondo già complesso, a partire dall'XI secolo si introdussero i
turchi. Appartenevano a un ceppo uralo-altaico, affine al mongolo, e parlavano una lingua
appartenente alla famiglia ugro-finnica, originari dell'Asia nordorientale. Nel corso dell'XII secolo
una tribù turca, che dal nome del loro signore chiamiamo “selgiuchide”, si convertì all’islam e
diede man forte al califfo di Baghdad, soprattutto militarmente. Il loro capo aveva assunto il titolo
di sultano e risiedeva a Baghdad, affiancando in una sorta di diarchia al califfo. I turchi erano
divenuti famosi anche in Europa in seguito al 1071 quando avevano battuto l'esercito bizantino
la battaglia di Manzikert.

L'offensiva contro le basi saracene nel Mediterraneo


Nel Mediterraneo, intanto, un grave colpo all'attività corsale dei saraceni era venuto dall'elezione
di Papa Giovanni X nel 913. Uno sforzo congiunto di franco-italici, longobardi e città del meridione
(più o meno formalmente soggette a Bisanzio) riuscì nell'autunno del 916 ad avere la meglio sui
saraceni. A ciò, sono da aggiungere contrasti in Sicilia fra i fatimidi del Maghreb e l'emiro sunnita
di Palermo. La situazione precaria non portò alla fine delle scorrerie nel meridione, anzi i fatimidi
iniziarono a guardare con interesse anche all'Italia settentrionale. Così, tra il 934 il 935 Genova fu
assalita e saccheggiata per due volte di seguito. Anche Ottone II intervenne in questo scenario,
probabilmente spronato dalla moglie bizantina. Egli occupò nel 981 Salerno, fino ad arrivare a
Taranto, probabilmente in un'ottica di espansione ai danni di Bisanzio. Ciò allarmò il governo di
Costantinopoli che chiese aiuto agli stessi saraceni, i quali sconfissero Ottone II nella battaglia di
capo colonna nel 982. Il potere bizantino ebbe dunque modo di radicarsi di nuovo in Puglia e in
Calabria, mentre anche le incursioni saracene ripresero (saccheggio di Gerace, Cosenza),
raggiungendo persino Pisa.

L’inizio della reconquista


Nel corso del X secolo nella penisola iberica settentrionale il regno di Navarra diede prova di saper
organizzare contrattacchi che avrebbero dato vita, dopo oltre due secoli di conquista arabo-
berbera, alla reconquista. Al movimento di pellegrinaggio verso Santiago partecipavano parecchi
aristocratici che si proponevano con le armi di scortare e difendere i viandanti inermi. Questo
accadeva perché in gran parte d'Europa per i figli cadetti della nobiltà non si prevedevano
assegnazioni ereditarie, per cui essi potevano solo optare per carriera ecclesiastica o avventura
guerriera. Questo aiuta a spiegare l'afflusso di cavalieri venuti da ogni parte della cristianità
occidentale, soprattutto dalla Francia, che parteciparono a quelle battaglie contro i musulmani
nella penisola iberica che, nel loro complesso, prendono il nome di reconquista. La conquista della
piazzaforte di Barbastro è considerata precedente della prima crociata. La scomparsa di Federico
I di Castiglia, che tanto aveva fatto per strappare i possedimenti ai musulmani, provocò una
battuta d'arresto, fino quando il potere non passò nelle mani di Alfonso VI, il quale si avvalse
anche della collaborazione di Rodrigo, detto Cid, figura divenuta poi leggendaria. Sia chiaro, gli
scontri non erano sempre e solo cristiani e musulmani, molto frequenti erano le alleanze
incrociate. Ad esempio, Alfonso VI sto riuscì a prendere Toledo nel 1085 grazie a un'alleanza con
i mori di Badajoz contro quelli di Toledo.
Almoravidi e almohadi

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Le vittorie di Alfonso VI, che puntava all’Andalusia, preoccuparono il ceto dirigente musulmano
della regione, a tal punto da rivolgersi al capo della confraternita degli almoravidi. Gli almoravidi
sbarcarono in Spagna e, dopo aver sconfitto i castigliani nel 1086 (una delle più grandi sconfitte
della storia cristiana), imposero la loro autorità. Gli anni del loro governo furono prosperi e
sereni, in questo periodo la Spagna musulmana e l’Africa nord-occidentale furono parti di un
unico immenso dominio che portò allo sviluppo di centri quali Marrakech e Fez. Le monete d'oro
coniate nelle zecche delle città almoravidi erano dappertutto apprezzate e ricercate. Tuttavia, il
potere almoravide andò a deteriorarsi sia a causa della riscossa militare dei regni cristiani di
Spagna, sia a causa della diffusione di una nuova corrente teologica, sviluppatasi nel Maghreb a
partire dalla metà del XII secolo, quella degli almohadi. Nel 1147 gli almohadi conquistarono
Marrakech e, nel frattempo, i castigliani si impadronirono di Almeria. Almohadi e castigliani si
scontrarono: i primi ebbero la meglio. Il potere almohade fu più duro e restrittivo, portando
all'esilio di Averroè.

Circolazione commerciale e cultura nel mondo islamico


A partire dall'VIII secolo l'islam era riuscito a costruire un tessuto culturale continuo, sia pur non
omogeneo, dall'Africa all'India. L’arabo era diventato la principale lingua di commercio e di
cultura di tutto il mondo. Molto apprezzata era anche la letteratura filosofico-scientifica araba:
trattati di storia, di geografia, di astronomia, di medicina, di architettura. La diffusione della carta
(X sec.) che gli arabi mutarono dalla Cina diede grande impulso alla cultura scritta. La ricerca di
spazi per le attività produttive artigianali e commerciali, stimolata dalla crescita di domanda,
portò allo sviluppò di città come Baghdad e Alessandria, dove si assistette alla formazione di una
vera e propria borghesia mercantile, l'unica dell'epoca lanciata in un commercio marittimo di così
vasta portata internazionale. L'importanza assunta dal commercio arabo nel Mediterraneo si
riscontra in primo luogo dalla diffusione delle monete musulmane. Attraverso il mondo
musulmano giungevano in Europa merci preziose provenienti dall'Africa e, soprattutto,
attraverso la via della spezia la via della seta dall'Asia. Grazie alla diffusione musulmana l'Europa
è potuta entrare in contatto con il patrimonio filosofico e scientifico ellenistico, persiano, indiano,
cinese. La personalità di maggior rilievo nel mondo culturale musulmano del X secolo fu Avicenna,
filosofo e medico. Il corpus dei suoi scritti è immenso e in gran parte perduto. Secondo una
leggenda, una notte il saggio Aristotele apparve in sogno ad un califfo di Bagdad, il quale in seguito
a ciò fece tradurre in arabo tutte le opere del filosofo e fondò nella sua capitale un'università (la
casa del sapere), antesignana delle università che sarebbero sorte in Europa quattro secoli più
tardi.

1. (pagine dopo) re dei romani è il titolo conferito all’imperatore romano-germanico prima


dell’incoronazione imperiale da parte del pontefice

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CAPITOLO 18
Santuari e pellegrinaggi
La rinnovata mobilità del continente europeo a partire dalla fine del X secolo non riguardava solo
i commerci, ma anche i viaggi per ragioni religiose. Anche in età alto medievale ci si muoveva per
ragioni religiose, due erano le tipologie di pellegrinaggio: il pellegrinaggio devozionale, diffuso
sin dagli esordi del cristianesimo, frutto della volontà di cambiare vita e di liberarsi dalle
tentazioni del mondo; il pellegrinaggio penitenziale, di origini più tarde. I sovrani carolingi
avevano più volte emanato direttiva per scoraggiare il pellegrinaggio, adducendo ragioni d'ordine
pubblico. Il tema del pellegrinaggio era dibattuto all'interno della Chiesa stessa. Essendo Roma,
insieme a Gerusalemme e Santiago, una delle principali città di riferimento, sempre più spesso
peccatori e comuni pellegrini si confondevano tra di loro e, con il tempo, le due forme di
pellegrinaggio si sovrapposero. D'altro canto, i pellegrini si affiancano a girovaghi, mercanti,
ambulanti, contadini in cerca di nuove terre. Accanto ai santuari cominciarono a svilupparsi dei
mercati aperti in occasione soprattutto delle feste dei patroni locali, mentre associazioni
volontarie mantenevano aperti lungo la strada degli ospizi dove i pellegrini venivano accolti. Ai
pellegrinaggi partecipavano anche numerosi cavalieri, tendenzialmente appartenenti ai rami
cadetti della nobiltà, con il compito di difendere i viandanti e con la volontà di fare carriera.

Urbano II e l'appello di Clermont


La rinnovata mobilità sociale, lo slancio demografico dell'XI secolo e le campagne militari contro
i saraceni portarono verso la fine del secolo all'avvio di un movimento, quello delle crociate, che
non venne dai contemporanei fin da subito compreso. In realtà sembra che il movimento crociato
sia nato quasi per caso e solo più tardi la Chiesa abbia pensato di disciplinarlo e teorizzarlo in
qualche modo. La crociata non è una guerra santa; il cristianesimo, pur ritenendo in qualche caso
(es. la difesa) legittime e quindi giustificate le guerre, non accorda nessuna di esse un carattere
santo. Essa rappresenta una fusione di guerra e di pellegrinaggio, nata sul modello delle
spedizioni antimusulmane, durante le quali si era andata profilando una specie di sacralizzazione
della guerra contro l'infedele. Il precedente della prima crociata fu l'impresa di Barbastro nel X
secolo. Papa Urbano II, facendo leva su questi sentimenti, convocò un concilio tenuto a Clermont
nel 1095, dove sollecitò la nobiltà francese a correre in aiuto dell'impero di Costantinopoli
minacciato dai turchi selgiuchidi. L'appello di Clermont va letto come la volontà del pontefice di
allontanare dall'Europa la scomoda presenza della nobiltà riottosa. Il pontefice non indicava però
come fine ultimo dell'impresa la riconquista di Gerusalemme, pur essendo già in passato la
cristianità preoccupata delle sorti della Terra Santa. Effettivamente da Costantinopoli era partito
un appello, anche se l’imperatore non aveva chiesto aiuto ai latini, ma aveva solamente
l'intenzione di reclutare tra i guerrieri franchi mercenari. Urbano giocò sui termini dell’offerta e
il suo appello fu accolto da una serie di grandi feudatari.

Le crociate dei poveri


La spedizione in Oriente si presentava come una sorta di ritorno alla Casa del Padre, si crearono
così spontaneamente schiere di poveri pellegrini sommariamente armati e per niente disciplinati
che partirono per l'oriente. Lungo la strada questi si macchiarono di delitti e stragi, soprattutto
contro le comunità ebraiche. Le crociate dei poveri si risolsero dunque in un in un fallimento. Solo
qualche gruppo di sopravvissuti si ricongiunse agli eserciti dei grandi feudatari.

La prima crociata (1095-1099)

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Il capo spirituale della spedizione era il legato pontificio Ademaro di Monteil. L'idea di arrivare in
Terra Santa e conquistare Gerusalemme dovette maturare pian piano. Le truppe vinsero
ripetutamente i turchi che avevano senza dubbio sottovalutato la loro potenza e nel 1098 i franchi
(come li chiamavano i bizantini e i musulmani) riuscirono a impadronirsi di Antiochia. Un
elemento di successo dei franchi, che ignoravano la geografia e il clima del vicino Oriente, fu la
rivalità fra i capi turchi e arabi, fra sunniti e sciiti. Altro fattore di successo fu la confusione
strategica dei crociati, la loro mancanza di un obiettivo chiaro. Questo ordine di guerrieri armati
e di pellegrini si abbatté su Gerusalemme nel 1099 e la città fu espugnata nel luglio di quell'anno.
I franchi massacrarono quasi tutti gli abitanti musulmani ed ebrei.

Il regno franco di Gerusalemme


Negli anni successivi i crociati riuscirono a conquistare anche l'area circostante alla città. La
regione finì con l'organizzarsi istituzionalmente, secondo i principi del sistema feudale, in
principati indipendenti tra di loro (es. contea di Edessa, principato di Antiochia) sul piano formale
obbedienti a un sovrano, la cui sede era a Gerusalemme. Formalmente Gerusalemme apparteneva
ai territori dell'impero d'oriente e andava restituita, ma i suoi rapporti con la chiesa Latina non
erano dei migliori. Si sarebbe potuta offrire la signoria della città al Papa, ma egli non poteva
accettare per non peggiorare ulteriormente le relazioni con il basileus. Si risolse allora di affidarla
temporaneamente a Goffredo di Buglione, fervente sostenitore dell'imperatore Enrico IV.
Contrariamente a quanto la tradizione posteriore rammenta, egli appare ai cronisti del tempo
come un uomo ripiegato su sé stesso, non deciso e ammalato: è forse per questo che venne scelto.
Egli non accettò la corona regale, ma il titolo di advocatus, ovvero difensore del Santo Sepolcro.
Goffredo morì nel 1100. Gli succedette il fratello Baldovino, che si fece incoronare re di
Gerusalemme. Le forze che sostenevano il nuovo regno erano costituite dalla aristocrazia
crociata, dalle città marinare italiche e dagli ordini religioso militari fondati per proteggere i
pellegrini. Si tratta di ordini religiosi composti da pochi sacerdoti e un gruppo di fratres laici. Due
confraternite riuscirono ad ottenere il consenso del pontefice e diventare veri e propri ordini
religiosi: i Templari e gli Ospitalieri (o cavalieri di San Giovanni). Più tardi si aggiunsero i
Teutonici, esclusivamente germanici. L'idea di ordini religiosi all'interno dei quali vi fossero dei
combattenti suscitò nella Chiesa stessa molte perplessità. I confini del regno erano soggetti a
scontri con i musulmani, motivo per il quale si rese necessario chiedere in Europa aiuto, che arrivò
principalmente dalle città marinare (Genova, Pisa e Venezia), permettendo anche l’espansione.
Verso i primi anni del XIII secolo l'intera regione dal Tauro al Sinai e dalle coste del Mediterraneo
fino al Giordano era presidiata dai franchi. Le città erano abitate da una popolazione composita,
tanto occidentale quanto orientale. Sotto il profilo della vita religiosa. la chiesa latina aveva
affiancato quella bizantina, così che le due compagini si mantenessero separate. Le nuove
istituzioni religioso-militari attrassero ben presto molti cavalieri ed erano solite conservare
ingenti somme di denaro, il quale, depositato in una sede, poteva essere prelevato in un qualsiasi
altro luogo vi fosse insediato l’ordine, attraverso l’uso di una lettera autenticata. I mercanti
potevano così spostarsi senza portare il contante fisicamente. Di questa novità qualcuno accusò
la magia.

Il declino del regno di Gerusalemme e la seconda crociata (1147-1150)


Nel frattempo, il mondo musulmano si stava riorganizzando. La riscossa partita da Aleppo,
governata nel nome del califfo di Bagdad e del suo consigliere turco-selgiuchide Zenqi. Nel 1146
Edessa cadde nelle mani turche. Zenki sembrava ambire ad unificare sotto il suo potere tutti gli
emirati della zona, cosa che provocò paure e sospetti in tutto il mondo islamico del vicino Oriente.

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Il sultano di Baghdad, il califfo del Cairo e gli emiri arabi in Siria, il più forte dei quali era Damasco,
andavano costituendo un ampio fronte ostile a Zenqi. Sarebbe stato sufficiente per i cristiani
allearsi con i musulmani; tuttavia, la cosa non avvenne poiché in Europa la propaganda aveva
diffuso idee come la difesa della cristianità e la diffusione del Vangelo, a cui si aggiunsero le mire
espansionistiche delle città marinare che si arricchivano con guerre e commerci. Per papa
Eugenio III si rese necessario l’invio di altri uomini, una seconda crociata. Il pontefice coinvolse
Corrado III, re dei romani1, e il re di Francia Luigi VII. La grande spedizione fallì principalmente a
causa di Luigi VII, il quale non solo non riuscì a trovare un accordo con gli altri partecipanti e con
il basileus Manuele Comneno, ma, abbagliato dal miraggio della conquista della ricca capitale della
Siria, assediò Damasco. Ciò portò la città ad avvicinarsi verso quelli che avrebbero dovuto essere
i suoi naturali nemici a causa dell’espansionismo di Aleppo.

Il Saladino
Al servizio dei turchi selgiuchidi di Aleppo militava un uomo di origine curda, noto in Occidente
come Saladino. Egli nel 1168 era stato inviato nell’Egitto dei fatimidi, dove era scoppiata una
grave. Il califfo egiziano fatimida nominò Saladino suo visir, ma questi lo depose assumendo il
titolo di sultano e avviando la dinastia degli ayyubidi. Saladino non solo sottomise Damasco, ma
maturò l'idea di espellere i franchi da Gerusalemme. Intanto il regno di Gerusalemme stava
precipitando a causa di dissidi per la successione al trono, mentre ordini-militari e città marinare
si combattevano tra di loro per interessi. A quel punto tra i franchi si erano andati determinando
due partiti: l'uno, guidato dalle famiglie di vecchio radicamento in Terrasanta, tendeva al
mantenimento dello status quo, l'altro, formato da principi giunti di recente e desiderosi di nuove
conquiste, sosteneva che era il caso di sfidare Saladino e di provocare una nuova mobilitazione
della Chiesa occidentale. Prevalse il secondo schieramento e nell'estate del 1187 Saladino invase
dalla Siria il territorio del regno e l'esercito franco mosse da Gerusalemme per fermarlo, con
scarso successo (battaglia di Hattin). Gli occidentali evacuarono Gerusalemme senza subire
perdite grazie ad un accordo stretto con Saladino ed egli vi entrò trionfante il 2 ottobre.

La terza crociata (1189-1192)


Quando la notizia della sconfitta giunse in Occidente, papa Gregorio VIII promulgò una bolla
(Audita tremendi) con la quale invitava a organizzare una nuova spedizione. Ancora una volta i
principali monarchi erano coinvolti nell'impresa: l'imperatore Federico Barbarossa, che morì
durante il viaggio, il re di Francia Filippo II Augusto, il re d’Inghilterra Riccardo I cuor di Leone.
Quest'ultimo ottenne l'unico risultato utile: la riconquista della città di Acri, che diveniva nuova
capitale del regno. la corona passò di famiglia in famiglia, dagli Hohenstaufen con Federico II e
Corradino, per poi essere rivendicata dagli angioini, trasformandosi alla fine del XII secolo in un
puro titolo

La quarta crociata (1202-1204) e la conquista di Costantinopoli


Visti gli insuccessi delle due ultime spedizioni, il nuovo pontefice Innocenzo III, maturò la
decisione di affermare il diritto dei papi nella gestione del movimento crociato. Per ogni
spedizione il pontefice stabiliva i privilegi spirituali e temporali dei quali crociati avrebbero
goduto. Nasceva così un'organizzazione giuridica della crociata, il cui nome veniva assunto dalla
croce cucita sugli abiti che venivano indossati da chi aveva formulato il voto di partire per il Santo
Sepolcro. A partire dal 1198 una rete di predicatori ebbe l'ordine di promuovere l’impresa in
Europa, ma il reclutamento non fu rapido. Il piano prevedeva la partenza da Venezia e un'azione
militare contro l'Egitto, che avrebbe dovuto condurre al blocco commerciale dei suoi due porti, in

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modo da poter negoziare, in cambio del ristabilimento del commercio, la liberazione di
Gerusalemme. Nel marzo 1202 i crociati si ritrovarono a Venezia per la partenza, ma molti di
meno rispetto al previsto. La richiesta dei veneziani per i costi dell'allestimento delle navi non
venne soddisfatta dai crociati, i quali si trovarono ridotti sul lastrico. Si giunse ad un accordo il
doge Enrico Dandolo, il quale chiese ai crociati, durante l'attraversamento dell’Adriatico, di
intimorire le città della costa sottomesse a Venezia ma riottose e di riprendere Zara, che si era
pochi anni prima ribellata e alleata con l’Ungheria. Tuttavia, il re d'Ungheria aveva preso la croce
e un attacco contro le sue terre significava infrangere i voti presi dai crociati, pena la scomunica.
La maggior parte dei crociati parteciparono comunque all’impresa e Zara venne assediata. In un
primo momento, Innocenzo III scomunicò tutti coloro che avevano partecipato, ma poco dopo
tolse la scomunica lasciandola solo ai veneziani. A capo della crociata vi era Bonifacio I di
Monferrato, il quale, mentre Zara cadeva, si era recato alla corte Sveva dal fratello di Federico
Barbarossa, nonché suo cugino, dove aveva incontrato Alessio IV Angelo, in fuga da
Costantinopoli, dove suo zio Alessio III lo aveva imprigionato. Il principe prometteva il pagamento
del debito ai veneziani e molti altri compensi in cambio dell'aiuto a tornare sul trono. Venne
quindi stipulato un accordo e nel giugno del 1203 la flotta si presentò dinanzi al porto di
Costantinopoli. Dopo diversi attacchi, Alessio III abbandonò la città e Alessio IV poté prendere il
trono, ma la ricompensa per i latini era al di là delle sue possibilità economiche. Ordinò, quindi,
che fossero prelevati i materiali preziosi che si potevano trovare in città, inclusi oggetti religiosi,
per essere fusi suscitando il malcontento del popolo. Privo di appoggi, Alessio IV fu ucciso e il suo
potere passò ad un nobile Alexios Doukas, il quale si rifiutò di pagare i debiti dell'ex sovrano. Per
tutta risposta, i latini dettero l'assalto definitivo a Costantinopoli nell'aprile del 1204. Il clero
latino non fece nulla per fermarli e lo stesso Innocenzo, che formalmente aveva condannato il
saccheggio, accettò parte del bottino. Sul trono si insediò Baldovino, conte di Fiandra, mentre i
veneziani beneficiarono di numerose concessioni territoriali, specialmente degli scali navali più
importanti. Nasceva così l'impero latino di Costantinopoli. In realtà i crociati non furono mai in
grado di organizzare un vero e proprio stato e dopo qualche decennio l'impero entrò in crisi. Si
succedettero diversi sovrani e diverse dinastie, fino alla caduta di Costantinopoli del 1453 e la
conquista da parte degli ottomani.

Le ultime crociate e la caduta di Acri (1291)


Ormai si andavano abbandonando le speranze di strappare di nuovo con le armi Gerusalemme ai
musulmani, ma la conquista musulmana non aveva in fondo né impedito, né rallentato il flusso dei
pellegrinaggi cristiani. La crociata del 1217-1221 (V) aveva portato all'invasione e all'occupazione di uno
dei porti dell'Egitto, con lo scopo di indurre il sultano a riscattarlo con la consegna di Gerusalemme. Il
sultano era sul punto di accettare, tuttavia il cardinale Pelagio, vedendo nell’offerta un segno di debolezza
e convinto di poter far cadere il sultano e di conseguenza impossessarsi di Gerusalemme, insistette affinché
l’assedio continuasse. Tuttavia, l'inesperienza dei crociati e del cardinale causarono il suo fallimento. Anche
la crociata del 1248-1254 (VII), non aveva portato a risultati concreti, solo la crociata pacifica di Federico
II tra 1228 e 1229 (VI) aveva portato ad una pace con il sultano d'Egitto. Nel 1274 papa Gregorio X chiese
durante il II Concilio di Lione che gli venissero indirizzati circostanziati memoriali sulla possibilità concreta
di organizzare una nuova crociata. Ne nacque una ricca e interessante letteratura (De recuperatione Terrae
Sanctae) caratterizzata da una quantità di informazioni e proposte come l'assedio porti nilotici e l'embargo
commerciale all’Egitto, l'alleanza con i mongoli in funzione anti-musulmana. Tutto ciò non impedì che il sultano
del Cairo liquidasse in pochi anni le residue piazzeforti costiere di Terra Santa ancora in mano ai franchi. L'ultima, Acri,
cade nel 1291.

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CAPITOLO 19
I catari (o albigesi)
Il XII secolo fu quello del trionfo delle cattedrali e delle università, della Chiesa di Roma come asse
dell’Europa cristiana, ben lontana da quella che nel secolo precedente aveva promosso una
riforma morale e spirituale, che avrebbe dovuto condurre a una più stretta adesione con lo spirito
cristiano. È per questo molti fedeli delusi e amareggiati se ne allontanarono. Nel corso del secolo
dai Pirenei fino alla pianura padana e alla Toscana vi fu l’invasione di un nuovo modo di intendere
il cristianesimo, che si presentava come semplice e puro e prende il nome di catarismo,
discendente dal dualismo manicheo, praticato nella zona della penisola balcanica. I catari
concepivano il mondo come dominato dalla lotta tra due principi: quello dello spirito è quello
della materia. Poiché il demiurgo aveva imprigionato nella materia delle creature frammenti di
spirito, era necessario liberare l'involucro materiale che li avvolgeva. Il buon credente doveva
quindi astenersi da qualunque contatto sessuale, rifiutare qualunque tipo di cibo che fosse frutto
d'accoppiamento carnale (carne, uova, latte e derivati) e poi quando fosse stato pronto lasciarsi
morire attraverso un digiuno totale. I catari non credevano nel libero arbitrio. Molti fra i credenti
catari conducevano una vita normale, frequentando anche le chiese e aderendo al credo ufficiale,
ma servivano da supporto ai perfetti, i quali conducevano una vita austera. Nel corso del XII secolo
le gerarchie della Chiesa si resero conto che le dottrine dei catari avevano guadagnato molti fedeli,
soprattutto nel sud della Francia (Albi) e ciò portò alla loro scomunica nel 1119, durante il
Concilio di Tolosa. A partire dal 1179, durante il III concilio lateranense, si decretò la confisca dei
beni degli eretici e la loro riduzione in schiavitù.

Il papato di Innocenzo III


Nel 1198 alla morte di Celestino III, si volle scegliere un pontefice giovane (appena
trentasettenne) ma già noto. La scelta ricadde su Lotario, appartenente ad una nobile famiglia
laziale, esperto in diritto canonico e dotato di spirito profondamente mistico. Egli assunse il nome
di Innocenzo III. in lui il misticismo si traduceva non in tendenza a ritirarsi dal mondo, bensì a
dominarlo, persuaso dall'idea che lo spirito dovesse signoreggiare sulla carne e che il papato
rappresentasse sulla terra il potere spirituale che aveva il compito di controllare tutti gli altri
poteri. Tra i primi problemi che gli si presentarono vi era la riorganizzazione dei territori della
Chiesa, che furono presto posti di nuovo sotto l'autorità pontificia. Per i comuni del nord e del
centro Innocenzo incoraggiò la formazione di leghe che assicurassero un’eventuale resistenza a
nuovi progetti imperiali. Turbato dallo scisma con la chiesa d’oriente, scrisse ripetutamente
all'imperatore di Bisanzio proponendo la riconciliazione tra latini e greci, ma lo scoglio in questa
direzione era costituito dal fatto che il pontefice non aveva alcuna intenzione di rinunciare al
primato della Chiesa di Roma. L'esito della quarta crociata (conquista di Costantinopoli) non fece
che peggiorare la situazione. Anche sul fronte ereticale la situazione era tragica, a tal punto che il
pontefice si trovò costretto a bandire una crociata (fino ad allora usata solo contro i musulmani)
contro gli albigesi. L'esecuzione militare fu affidata ai feudatari del nord della Francia, ben lieti di
saccheggiare il sud, molto più ricco. La crociata durò 35 anni, molto più del previsto. Pur avendo
quasi totalmente estirpato il catarismo, la chiesa si era assunta una responsabilità di massacri e
atti di ferocia innominabili compiuti dai crociati, favorendo il risentimento di intere popolazioni.
Il pontefice era preoccupato dal fatto che la chiesa uscita dalla riforma dell’XI secolo non fosse
riuscita a conquistare il cuore dei cristiani, specie dei più poveri che affollavano le città. Era del
resto logico: si trattava di una chiesa di nobili, di colti e di potenti. Erano stati organizzati tribunali
speciali per controllare l'ortodossia dei cristiani, il nucleo dell'inquisizione, ma con scarso
successo. Il pontefice capì che bisognava seguire altre strade e pensò di favorire alcuni movimenti

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che si stavano creando a livello popolare, accettandoli nel tessuto ecclesiale per facilitare il loro
controllo. Durante il IV concilio la lateranense svoltosi nel 1215 (uno dei più importanti della
Chiesa di Roma), Innocenzo III dichiarò definitivamente la chiesa superiore a qualsiasi altro
potere, unica mediatrice tra Dio e gli uomini. Si introduceva l'inquisizione come strumento di
controllo e ci si preoccupava dell'istruzione dei fedeli, legittimando l'esistenza degli ordini
mendicanti. Era un programma ai limiti del paradosso: da un lato si voleva elevare la chiesa,
dall'altro si intendeva parlare in mezzo ai cristiani farla vivere tra di loro. Il pontefice morì l'anno
dopo.

I poveri di Lione (o valdesi)


La Chiesa non aveva mai favorito la lettura diretta delle sacre scritture da parte dei fedeli, cosa
del resto ardua in un tempo di diffuso analfabetismo; tuttavia, gli stessi preti che avrebbero
dovuto spiegare ai fedeli la parola di Dio (nelle poche occasioni disponibili come l'omelia) erano
spesso ignoranti. Gli ordini monastici poi non si trovavano in genere nelle città a contatto con la
gente. D'altra parte, i molti buoni cristiani che volevano vivere secondo lo spirito del Vangelo
cominciavano nelle città a sperimentare in gruppi spontanei la formula di vita suggerita dal
Vangelo: un'esistenza condotta in comune, in comunione dei beni e in assenza di gerarchia. Fu
così che sul finire del XII secolo Pietro Valdo fondò la comunità dei “poveri di Lione”, ma la chiesa
lo condannò quale eretico. Il suo esempio venne seguito in Lombardia con i “poveri lombardi” e
gli “umiliati”.

Francesco d'Assisi e l’ordine dei frati minori (ordine mendicante)


Papa Innocenzo III guardava con molto diffidenza a questi movimenti, in quanto la loro autonomia
rispetto alla gerarchia ecclesiastica li rendeva esposti ad eresia; tuttavia, nel 1210 decise di
approvare l'iniziativa di un giovane, Francesco, proveniente da Assisi. Egli, figlio di un ricco
mercante, aveva trascorso la giovinezza dividendosi tra le liete brigate degli aristocratici e la cura
degli affari paterni, guerreggiò anche contro la vicina Perugia. Si sa poco delle circostanze della
sua conversione, forse frutto della compassione verso i deboli. Compassione che venne scambiata
in un primo momento per eccessiva generosità o addirittura, da parte del padre, per squilibrio
mentale a tal punto da farlo segregare e diseredarlo. A ciò Francesco rispose appellandosi al
vescovo di Assisi, davanti al quale si spogliò di ogni veste, restituendo il padre, e proclamandosi
figlio di Dio. Egli decise di vivere in piena povertà e, per non essere scambiato per un perfetto
cataro, mangiava sempre tutto quello che gli veniva posto dinanzi e, in risposta alla convinzione
catara che il mondo fosse un inganno del dio delle tenebre e della materia, scrisse Il cantico delle
creature. Egli non voleva certo fondare un ordine e dal canto suo Innocenzo era diffidente nei
confronti delle fondazioni nuove, approvò quindi a voce la formula di vita del gruppo di Assisi,
fece concedere a Francesco il taglio tipico del clero e lo autorizzo a predicare. Il nuovo ordine fu
confermato da papa Onorio III. Francesco volle che a frati venisse aggiunto l'appellativo di minori,
ovvero i più piccoli di tutti. L’uomo aveva ispirato anche alcune donne penitenti, guidate da
Chiara, una giovane della nobiltà di Assisi, che avrebbero dato vita all’Ordine delle clarisse.
Durante gli ultimi anni della sua vita, andò in Egitto e incontrò il sultano del Cairo, probabilmente
durante la V crociata. L'ordine da lui fondato trionfava, eppure non gli apparteneva più: i
francescani stavano diventando sempre più colti, accettando doni e ricchezze (anche se
formalmente queste non appartenevano all'ordine), motivo per il quale egli si ritirò sempre più
in silenzio. Secondo la tradizione poco prima di morire ricevette le stimmate.

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Domenico e l'ordine dei predicatori (ordine mendicante)
I seguaci di Domenico, un chierico aragonese, assunsero il nome di frati predicatori in quanto egli
aveva scelto di contrastare gli eretici non solo con la povertà di vita, ma anche con la parola. I
domenicani avevano quindi bisogno di prepararsi culturalmente molto bene. Egli ottenne che la
confraternita diventasse ordine nel 1215 Francescani e domenicani furono detti ordini
mendicanti, in quanto la loro povertà non era solo personale, ma investiva anche gli ordini come
tali. Essi si chiamavano semplicemente fratelli, da cui frati. Essi non abitavano in monasteri ai
quali erano legati sempre come i monaci, ma in semplici conventi eretti nelle città, che erano solo
punti d'appoggio temporanei. Il loro scopo era quello di dimostrare che, a differenza di quanto
sostenevano gli eretici, si poteva vivere in povertà e restare nella perfetta ortodossia. Il successo
riscosso da francescani e domenicani indusse la formazione di numerosi nuovi ordini nel
Duecento e, per controllare il fenomeno, durante il concilio di Lione del 1274 venne stabilito il
riconoscimento solo di carmelitani e agostiniani.

La persecuzione degli eretici e il tribunale dell’Inquisizione


Nel 1231, quando era già in atto da tempo la repressione dei catari, Gregorio IX inasprì
ulteriormente le sanzioni antiereticali. È in questo momento che il termine inquisitor, che fino ad
allora designava semplicemente l'incaricato di un'inchiesta, assunse il valore di inquisizione.
Tuttavia, l'inquisizione vescovile affidata alle autorità ecclesiastiche locali si era rivelata
inadeguata, motivo per il quale il pontefice conferì ai frati predicatori l'incarico di occuparsi della
repressione degli eretici. Dopo poco anche francescani furono associati al compito. L’attività di
ricerca degli eretici andava di pari passo con una sistematica predicazione. Il pontefice, sapendo
di non potersi spesso appoggiare ai vescovi, preoccupati dal canto loro per l'eccessiva
egemonizzazione da parte della sede di Roma, si appoggiò alle autorità laiche che consideravano
gli eretici un pericolo anche civile e non disprezzavano di arricchirsi attraverso le confische. Dalle
bolle è possibile tracciare un quadro schematico della procedura inquisitoriale. Inizialmente gli
inquisitori visitavano i luoghi oggetto della loro inchiesta su segnalazione. Venivano poi invitati
tutti coloro che avevano avuto contatti con gruppi ereticali a presentarsi facendo ammenda e
ricevendo una penitenza nell'arco di un mese solitamente. Trascorso quel periodo si avviava
l'inchiesta relativa ai sospetti che non si erano spontaneamente presentati. Gli imputati sospettati
di particolare pericolosità o dichiarati inclini alla fuga venivano fatti arrestare. Nonostante si
potesse condannare un imputato anche sulla base delle prove, la Chiesa preferiva la confessione
che, tuttavia, poteva essere indotta con la veglia forzata, il digiuno o la tortura. Se la confessione
fosse avvenuta sotto tortura, avrebbe dovuto essere in seguito confermata. Ecco perché sui
verbali appariva come spontanea e solo raramente si facesse menzione alla tortura. La pena
andava dalla confisca dei beni alla morte.

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CAPITOLO 20
L'ascesa di Federico I Barbarossa
Alla morte di Enrico V di Franconia, che aveva sottoscritto il concordato di Worms con Papa
Callisto II, la nobiltà tedesca si divise in una fazione favorevole ai duchi di Baviera, detta guelfa, e
una favorevole ai duchi di Svevia, detta ghibellina. Il titolo di re venne assegnato a Lotario di
Supplimburgo, che regnò circa una decina d'anni ma non soddisfece la nobiltà tedesca perché
troppo arrendevole nei confronti del pontefice. Nel 1137 i nobili tedeschi preferirono scegliere il
successore nella persona del suo avversario Corrado di Svevia, ma anche questi deluse le loro
aspettative, soprattutto a causa dell'esito della seconda crociata. Corrado individuò un
collaboratore di grande qualità in suo nipote Federico di Hohenstaufen, detto Barbarossa. Anche
Federico aveva partecipato alla seconda crociata, evento durante il quale si era sviluppata una
forte inimicizia tra il contingente francese e quello tedesco, portando il re di Germania ad
avvicinarsi all'imperatore di Costantinopoli e il re di Francia a quello normanno di Sicilia.
All'indomani del ritorno del re Corrado III, la tensione tra le due fazioni era ricominciata e quando
questi, nel 1152, inaspettatamente morì, affidò le insegne regali e la tutela del piccolo figlio a suo
nipote Federico. I principi tedeschi accettarono la scelta del loro sovrano, che non aveva fatto in
tempo ad essere incoronato imperatore, ed elessero re dei romani Federico. Egli, consapevole
degli scontri presenti all'interno della nobiltà tedesca, si rese conto di avere bisogno dell'appoggio
di un principe potente, suo cugino Enrico il Leone, duca di Sassonia e capo della casata Welf, che
era da parecchi mesi in rivolta poiché desiderava rientrare in possesso della Baviera. Non
consegnare il territorio significava perpetuare la guerra civile e inimicarsi una buona parte
dell’elettorato, fedele ad Enrico. La sola ragionevole soluzione consisteva nel negoziare il suo
appoggio in cambio dei ducati di Sassonia e di Baviera, pur consapevole che questo avrebbe dato
vita ad una sorta di diarchia. L'incoronazione di Federico si tenne nel marzo del 1152. Il pontefice
appoggiò l'elezione di Federico, consapevole di aver bisogno di un alleato nella lotta contro
Arnaldo da Brescia, che stava fomentando una riforma del clero caratterizzata da un rigoroso
moralismo. Riorganizzata la situazione interna, il re scese in Italia (1054).

La prima discesa in Italia (1154)


Il 5 di gennaio si tenne a Roncaglia la prima dieta del Regno d'Italia, dove si discusse dell'egemonia
di alcune città lombarde come Milano, la cui intenzione era estendere la propria egemonia.
Federico decise di dare una dura lezione a Milano e ai suoi alleati attaccando i castelli prossimi a
Milano ma non la città direttamente, troppo potente perché Federico potesse rischiare,
soprattutto alla vigilia dell'incoronazione a re d'Italia e a imperatore. Nell'antica capitale
longobarda, Pavia, ad aprile egli cinse la corona di re d'Italia. Passando da Bologna visitò lo
Studium, nel quale si andava elaborando il diritto romano partendo dal corpus iuris di
Giustiniano, il cui testo era da poco giunto dalla Grecia in Italia. Il re, cogliendo l'importanza di
quei nuovi scudi, pose l'università di Bologna sotto la sua protezione. Il pontefice Adriano IV
temendo da un lato la minaccia normanna che premeva da meridione, dall'altro Federico
l'ingresso di Federico a Roma, si mosse alla sua volta e incontro il re a Sutri. L'esercito imperiale
giunse poi a Roma e consegnò Arnaldo da Brescia al pontefice. Il 18 giugno Federico cinse la
corona imperiale a San Pietro. Il risultato della campagna di Federico in Italia non era stato del
tutto felice, senz'altro aveva cinto due corone, ma d'altro canto le dimostrazioni di forza non solo
gli avevano creato molti nemici, ma avevano allarmato un po’ tutti, provocando un avvicinamento
tra il Papa, il re di Sicilia e l'imperatore bizantino, che cominciò ad abbandonare quella alleanza
con la casa di Svevia fatta al termine della seconda crociata.
La seconda (1158) e la terza (1163) discesa in Italia

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Federico si sposò in seconde nozze con Beatrice, ereditiera della contea di Borgogna, cosa che gli
consentiva di aggregarsi il territorio. L'unione fra Federico e Beatrice segnò una svolta in quel
territorio compreso fra il Reno ed il Po sul quale l'imperatore intendeva costruire il nucleo di un
potere familiare. Si rese quindi necessario pianificare una seconda discesa in Italia, dove nuove
difficoltà si affacciavano nei rapporti con il pontefice sul tema della supremazia del papato
rispetto all'impero e con le città lombarde, specie Milano. Alla fine del giugno 1158 Federico
intraprese la sua seconda discesa in Italia. Federico, per punire Milano, assediò Brescia, sua
alleata, ottenendo nel frattempo il giuramento di fedeltà da parte di alcune città quali Verona,
Mantova, Cremona e Pavia. All'inizio di settembre anche Milano capitolò. L'accordo prevedeva
che i milanesi avrebbero dovuto giurare fedeltà al sovrano; rinunciare ai diritti giuridici e fiscali
che spettavano al sovrano; innalzare per lui un palazzo; pagare una forte indennità in denaro;
liberare tutti i prigionieri delle città lombarde; fornire all'imperatore dei cittadini in ostaggio. I
milanesi avrebbero potuto continuare ad eleggere i loro consoli, ma questi avrebbero dovuto
giurare fedeltà all'imperatore. Dopo Milano, Federico inaugurò ancora una volta a Roncaglia una
nuova dieta del Regno d'Italia, durante la quale vennero ridefiniti i rapporti fra il potere regio e
le realtà politiche italiche. I legati imperiali si recarono a Milano per imporre il pieno rispetto
dell'accordo e delle decisioni di Roncaglia, ma sembra che un tumulto popolare li costrinse alla
fuga. Federico proclamò Milano ribelle all'impero e a luglio iniziò l'offensiva con l’assedio di
Cremona (1159), fedele alleata di Milano. Frattanto Papa Adriano era morto ed erano stati eletti
due pontefici dalle diverse fazioni: Alessandro III e Vittore IV. Federico convocò dunque un
Concilio a Pavia nel 1160, al quale si presentò solo Vittore che venne confermato pontefice
dall’imperatore. Alessandro non perse tempo e qualche giorno più tardi scomunicò Vittore.
Federico e i vescovi che avevano partecipato al concilio. I re di Francia e d'Inghilterra avevano
finito per schierarsi con Alessandro, mentre i signori tedeschi e gli alleati italici di Federico per
Vittore. Intanto Federico era impegnato nella pianura lombarda, dove ricevette una sconfitta dai
milanesi. Egli chiese allora aiuto in Germania e solo nella primavera del 1161 i rinforzi tedeschi
arrivarono, portando alla resa di Milano. A negoziati quasi conclusi scoppiò un nuovo tumulto.
Nel marzo 1162 i consoli milanesi comparivano a Lodi con le spade appese al collo in segno di
umiliazione e si gettavano come rei di tradimento ai piedi del sovrano implorando clemenza. Pur
potendo punirli con la condanna a morte, Federico decise di farli semplicemente imprigionare. A
distanza di qualche giorno Milano venne evacuata e iniziarono i lavori di demolizione, eseguiti dai
nemici di Milano con tale foga che neppure le chiese furono risparmiate e lo stesso Federico
dovette intervenire per impedire la profanazione di alcune reliquie. Intanto Federico volgeva lo
sguardo alla Sicilia, ma per piegare il Regno di Guglielmo aveva bisogno dell'aiuto di Genova e di
Pisa, allora in lotta tra loro. Federico non intendeva pacificarle, gli bastava che entrambe si
adattassero ai suoi programmi. Concedeva dunque privilegi e faceva a entrambe promesse di
future conquiste nel regno meridionale. Inoltre, il progressivo affermarsi di Alessandro III contro
Vittore e il la sua vicinanza con la Francia e l'Inghilterra preoccupava l'imperatore. Alessandro III
convocò a Tours nel 1163 un concilio, la cui partecipazione fu numerosa, prova che la chiesa
alessandrina si andava imponendo.

La quarta discesa in Italia (1166)


Nella primavera del 1164 Federico aveva fissato la sua dimora italica a Pavia, dove lo raggiunse
la notizia che Vittore era morto, cosa che avrebbe dovuto appianare lo sciismo. Ciò non avvenne
poiché venne nominato come antipapa Pasquale III. Intanto, si andavano formando coalizioni tra
le città settentrionali, come la lega veronese. A giugno l'imperatore entrò in armi nel territorio
veronese ma disponeva di scarse truppe e non riuscì a domare la ribellione, decise quindi di

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tornare a Pavia e poi in Germania, a causa di gravi problemi interni. Federico vedeva Roma e la
Sicilia sfuggirgli, Papa Alessandro III trionfare su Pasquale, i comuni avversari rialzare la testa e
quelli fedeli cedere. Il re di Sicilia, il pontefice ed il basileus erano sempre più vicini, a tal punto
che quest’ultimo propose l'occupazione militare bizantina di Ancona. Si dette quindi a preparare
una nuova discesa in Italia nel 1166. L'imperatore divise in tre parti il suo esercito: un contingente
al suo diretto comando avrebbe puntato su Ancona, altri due avrebbero dovuto puntare su Roma,
cacciare Alessandro e insediarvi Pasquale. L'assedio di Ancona durò tre settimane si concluse con
la resa della città. Federico puntava alla Puglia, ma non appena ebbe abbandonato l'Italia
settentrionale, scoppiò una nuova rivolta, persino Cremona (lega cremonese), che con Lodi e
Pavia era la prediletta di Federico, ora insorgeva contro di lui. Pur gioendo il pontefice per la
reazione delle città settentrionali, egli temeva l'ingresso dell'esercito imperiale e gli appelli inviati
al re di Sicilia restavano vani. A luglio Barbarossa giungeva sotto le mura di Roma: la città leonina
fu espugnata e Alessandro si salvò per un pelo, venendo accolto a Benevento da Guglielmo II.
Federico, il cui esercito era stato colpito da un’epidemia, si apprestava a rientrare a Pavia, dove
fu informato della ribellione delle città lombarde. Federico riunì l'esercito e andò in direzione
Milano, con lo scopo di saccheggiare il milanese, ma i milanesi lo costrinsero a chiudersi a Pavia e
lo assediarono. Nel dicembre 1167 i rappresentanti di 16 città, tra cui quelle della lega veronese
e della lega cremonese, si incontrarono e stabilirono di convergere in una sola organizzazione: la
Lega lombarda. Federico decise di abbandonare Pavia, ormai divenuta essa stessa infida, e si
diresse nelle terre di Monferrato. Alla fine dell'inverno, Pasquale III era stato insediato a Roma e
l'Italia centrale e la Toscana sembravano essere ancora leali a Federico, ma a Benevento
Alessandro tramava con i comuni lombardi, il re di Sicilia e il basileus Manuele contro il
Barbarossa. Il sovrano decise di rientrare in Germania per riorganizzarsi e qui vi rimase fino al
1174.

La quinta discesa in Italia (1174)


Federico scese nuovamente in Italia nell’autunno del 1174, trovando una Milano a capo di tutta
l'Italia settentrionale di una Lega lombarda sempre più ampia. Alessandro III, nel frattempo,
aveva raccolto numerosi consensi e i rapporti con i comuni, con il Regno di Sicilia e con
l’imperatore di Costantinopoli si erano rafforzati. Federico nella sua discesa distrusse Susa e Asti
si arrese, mentre da lui tornavano i tradizionali alleati, come il marchese di Monferrato; il panico
invase la Lega. Federico pose l'assedio ad Alessandria (città strategica della lega), non tanto
perché lo ritenesse un importante obiettivo militare, ma perché simbolo della resistenza contro
di lui. L'assedio inaspettatamente andando per le lunghe e alla fine desistette dopo l'inverno. Lo
scontro tra i due eserciti nemici non avvenne, ma si giunse ad una pace momentanea (pace di
Montebello). La Lega chiedeva che lo scisma avesse termine, che ciascuna città potesse eleggere
liberamente i suoi consoli e che la Lega stessa fosse riconosciuta. L'imperatore era disposto a
cedere su molti punti, ma non mollava sulla questione ecclesiastica e su tutto quello che poteva
recare pregiudizio al prestigio dell'impero. A maggio arrivarono alcuni rinforzi tedeschi da parte
del cugino, che tuttavia non aveva voluto partecipare attivamente alla campagna. Il 26 maggio del
1176 nei pressi di Legnano i due eserciti si incontrarono e quello imperiale venne sconfitto.
L'unica possibilità che rimaneva l'imperatore era giungere ad una pace con il pontefice, che venne
siglata a Venezia. L'imperatore stipulò una tregua di quindici anni con Guglielmo che riconosceva
re di Sicilia e una di sei con i comuni Lombardi. Federico accettava di riconoscere Alessandro
come vero papà e veniva in cambio assolto dalla scomunica. Il pontefice convocò a gennaio del
1179 un concilio in Laterano (II concilio lateranense), atto finale del ritorno all'unità della Chiesa.

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La pace di Costanza
Federico era rientrato in Germania nell'autunno del 1178. A novembre indisse a Spira una dieta,
durante la quale venivano presentate le querele contro Enrico, che si era servito dello scisma per
appropriarsi di vasti domini ecclesiastici. I fatti emersi durante la dieta dettero a Federico il
pretesto per togliere di mezzo una volta per tutte il potere che aveva trasformato il Regno tedesco
in una sorta di diarchia. Sistemate le questioni in Germania, Federico si rivolse all’Italia, dove la
tregua stipulata con la Lega lombarda stava per scadere. La Lega si era sviluppata grazie
all'appoggio di Papa Alessandro, che era morto, del re di Sicilia e del basileus Manuele, anche lui
morto. Il nuovo pontefice, invece, si mostrava molto conciliante con l'impero. In queste condizioni
la cosa più saggia era trasformare la tregua in una vera e propria pace, che venne siglata a
Costanza nel 1183. Il sovrano concedeva ai comuni certe libertà e certa regalia, riservandosene
naturalmente altri; accettava di investire dei pubblici poteri i rettori della città (membri della
lega) e questi avrebbero dovuto prestargli fedeltà. A fronte di questo ampio riconoscimento
dell'autorità imperiale, le città si vedevano riconosciuto il diritto di avere fortificazioni e di
mantenersi strette in una Lega. Si è notato che l'intento di Federico fosse quello, come aveva fatto
in Germania, di costruire in Italia una sorta di monarchia feudale.

Gli ultimi anni


Vinto ed esiliato Enrico, pacificata l'Italia ed il rapporto col pontefice, Federico poteva raccogliere
i frutti del suo lungo lavoro. In primo luogo, un'alleanza con i Normanni di Sicilia attraverso il
fidanzamento del figlio Enrico di Svevia con la principessa Costanza d'Altavilla, zia del sovrano
Guglielmo II, il successivo matrimonio che si sarebbe celebrato a Milano. È da escludersi che tale
unione fosse intesa come la premessa di una possibile successione Sveva al trono degli Altavilla:
Guglielmo, allora trentenne, aveva una moglie diciottenne e nulla consentiva di pensare che la
loro unione sarebbe stata sterile. Federico rimase entro i confini del Regno d'Italia fino al 1186,
favorendo molte casate feudali (es. Estensi). La caduta di Gerusalemme nelle mani del Saladino
aveva provocato in Europa grande commozione. Guglielmo II aveva formulato il voto di impiegare
tutte le sue risorse per la riconquista del Santo Sepolcro, insieme a Enrico II d'Inghilterra e di
Federico. L'esercito crociato partì nel 1189 (III), ma prima di partire Federico aveva inviato
messaggi amichevoli ai signori dei territori che avrebbe attraversato. Per evitare inutili pesi e
disordini, l'imperatore aveva prescritto che solo chi poteva equipaggiarsi e mantenersi per due
anni a proprie spese avrebbe potuto prendere parte alla spedizione. Arrivato nei pressi del fiume
Goksu, il 10 giugno del 1190 morì annegato. Il panico invase crociati, anche se il figlio
dell'imperatore, Federico, prese il comando della spedizione. Per evitare che si rovinasse a causa
del calore estivo, il corpo del sovrano venne bollito e la carne sotterrata nella cattedrale di San
Pietro ad Antiochia. Le ossa, nonostante la volontà di seppellirle nella basilica del Santo sepolcro
a Gerusalemme, vennero sepolte probabilmente ad Acri, dove lo stesso Federico sarebbe morto.

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CAPITOLO 21
Una dinastia normanno-sveva
Negli ultimi anni di vita, Federico Barbarossa aveva promosso un'alleanza con i Normanni di
Sicilia attraverso il fidanzamento del figlio Enrico con la principessa Costanza e il successivo
matrimonio. L'unione mirava all'alleanza non alla successione, ma quando Guglielmo II si trovò
senza eredi, ne approfittò Enrico VI che divenne re di Sicilia e imperatore alla morte del padre. La
sua elezione imperiale non era stata contrastata, soprattutto grazie al prestigio di Barbarossa,
aumentato dalla morte avvenuta durante la crociata. Diversa la situazione siciliana, dove il trono
gli veniva conteso da un nobile, Tancredi di Lecce, appoggiato dalle forze locali. La morte
improvvisa di quest'ultimo gli consentirono nel 1194 di prendere la corona in via definitiva.
L'incoronazione ebbe luogo a Palermo nel Natale del 1194 e il giorno successivo divenne padre
di Federico Ruggero. Enrico morì appena trentenne in circostanze non chiare, lasciando il figlio
di soli tre anni. Innocenzo III appoggiò immediatamente Federico come re di Sicilia (1198),
ricordandogli che in quanto tale egli era vassallo del papato, ma diversa fu la scelta per il Regno
di Germania, dove si stava riproducendo il vecchio scontro tra guelfi e ghibellini. Venne nominato
Ottone IV che, per evitare che il Papa appoggiasse il rivale, rassicurò il pontefice sulla libertà della
Chiesa nei territori imperiali. Quando nel 1208 il suo rivale fu assassinato, sentendosi libero,
cominciò a venir meno ai suoi impegni con il pontefice e si avvicinò al re d'Inghilterra; il pontefice,
d'altro canto, si avvicinava al re di Francia. Egli decise di appoggiare i nobili tedeschi che avevano
in odio Ottone e auspicare a un nuovo re che venne visto nella persona di Federico II. Egli venne
eletto re dei romani nel 1212 e l'anno successivo garantì a sua volta al Papa che mai si sarebbe
intromesso nelle questioni ecclesiastiche tedesche, né avrebbe mai promosso un'unione tra il
Regno di Sicilia e l'impero, sebbene le due corone gravassero sulla sua fronte. L'esercito di
Federico e dei suoi sostenitori riportò un’importante vittoria a Bouvines nel luglio del 1214
contro gli eserciti di Ottone.

Lo scontro con il papato e la sesta crociata


Nonostante la vittoria di Bouvines, Federico non ricevette l'incoronazione imperiale da parte di
Innocenzo, anzi gli venne spesso rimproverata la sua politica di acquiescenza nei confronti del
pontefice, al punto che egli era noto presto i suoi oppositori come “re dei preti”. Ma con l’Onorio
III egli rivelò la sua vera indole e nel 1220 si fece incoronare imperatore mentre la corona di
Germania passava al figlio Enrico, a lui subordinato. Egli, che si sentiva più italo-normanno che
tedesco, tornò in Sicilia e si dette a un'azione di consolidamento delle istituzioni del Regno:
introdusse il diritto romano, fondò nel 1224 l’università di Napoli per disporre di un ceto di
funzionari fedeli e istruiti all'interno dei confini, favorì lo studio della medicina a Salerno.
Riorganizzato il Regno di Sicilia, Federico passò quello d'Italia, dove si impegnò a ridurre
all'obbedienza i comuni, che per tutta risposta si riunirono all'interno della Lega lombarda. Solo
l'intervento di un Onorio III impedì che si giungesse a un nuovo scontro. Successore di Onorio fu
Gregorio IX, il quale dette segno di non tollerare oltre la politica dell'imperatore. Innanzitutto, egli
non aveva mantenuto separate le due corone, inoltre egli aveva promesso al clero dei suoi domini
libertà, che nella pratica era stato ben lontano dal concedere, non esitando a intromettersi
regolarmente nelle elezioni episcopali. A ciò si aggiungeva la questione della crociata: Tra il 1217
e il 1221 (V) era stata effettuata un'altra spedizione con l'intento di assediare un porto egiziano
nella speranza che il blocco commerciale avrebbe portato ad un accordo per la consegna di
Gerusalemme. Il sultano non aveva tuttavia ceduto e l'impresa era fallita. Pare che in quel
frangente Federico, che non aveva nessun interesse a inimicarsi il sultano d'Egitto i cui territori
erano così vicini all'Italia meridionale, se ne fosse ben guardato dall'intervenire. Gregorio pretese

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che Federico partisse immediatamente e, poiché la spedizione pronta per l'autunno del 1227 non
poté avere inizio a causa di un'epidemia scoppiata tra le truppe, lo scomunicò. La scomunica
scioglieva i sudditi di un sovrano da qualunque obbligo di fedeltà nei suoi confronti e ciò costrinse
Federico a partire nel 1228 (VI). Egli aveva sposato qualche anno prima l'ereditiera della corona
di Gerusalemme, Isabella, quindi si presentava in Palestina come legittimo pretendente al trono.
Nei confronti dell'imperatore il sultano d’Egitto si mostrò sempre incline alla moderazione, a tal
punto che i due stipularono trattato in base al quale Gerusalemme veniva ceduta, priva di mura,
ma con l'esclusione dell'area della moschea di Umar. A Gerusalemme, nella basilica della
resurrezione, Federico cinse solennemente la corona di quel regno (1229). Qui vi rimase per
qualche mese, cercando di mettere ordine nella situazione del Regno, senza riuscirci. Il pontefice
non poteva che essere adirato dall'esito della crociata: Gerusalemme era passata di nuovo ai
cristiani ma non era stata conquistata, inoltre uno scomunicato aveva osato cingere nella Città
Santa la corona. Il Papa rispose bandendo una crociata contro lo stesso Federico, i cui partecipanti
presero il nome di clavigeri, dalle chiavi di Pietro come segno distintivo. Invasero il regno
costringendo l'imperatore a rientrarvi in fretta. Federico riuscì ad arrestare l'offensiva nemica,
ma dovette scendere a patti con il pontefice. Fu quindi siglato il trattato di Ceprano nell'estate del
1230, secondo il quale Federico forniva ampie garanzie sulla libertà del clero e il Papa lo liberava
o dalla scomunica.

La riorganizzazione dei domini


Approfittando del periodo di pace, Federico si occupò di sistemare le questioni relative ai suoi
domini. Nel 1231 emanò un insieme legislativo, le costituzioni di Melfi o Liber augustalis, che
miravano a costruire uno stato centralizzato e burocratico. In Germania, invece, con la constitutio
in favore principium del 1232 egli affidava il regno tedesco a vari principi dell'impero,
sancendone quel carattere federale che sarebbe stato tipico di tutta la successiva storia della
Germania. Egli sapeva di poter governare in Sicilia e in Italia, come sapeva di non essere in grado
di controllare la Germania, dove il tuo stesso figlio non tardò a porsi alla testa dei ribelli. Questi
venne catturato e imprigionato, mentre la corona tedesca passava ad un altro figlio di Federico,
Corrado, ma nemmeno questi riuscì a governare tranquillamente. In Italia la situazione andava di
nuovo verso la destabilizzazione: Federico rispose incoraggiando contro i comuni alcune signorie
in mano a feudatari ghibellini. Al costituirsi di una nuova lega antimperiale, l'imperatore rispose
con le armi riportando nel 1237 una grande vittoria a Cortenuova (Brescia). Il Carroccio, simbolo
della Lega lombarda, rimasto nelle mani del vincitore venne fatto spostare a Roma.

Gli ultimi anni


Dopo il successo di Cortenuova, la politica dell’imperatore divenne ancora più aggressiva, al punto
da fornire a Gregorio IX un pretesto per scomunicarlo nuovamente nel 1239 e metterlo al bando
dalla cristianità in un Concilio a Lione. Una tempestiva azione dell'imperatore, di cui gli alleati
pisani presero prigionieri alcuni prelati che si recavano via mare al concilio, e la scomparsa di
Gregorio IX nel 1241 ritardarono la riunione ecclesiastica che avrebbe dovuto decretare la
condanna di Federico. Il nuovo Papa Innocenzo IV riprese il programma del suo predecessore. Il
Concilio che l'imperatore aveva tentato di ostacolare si tenne e Federico ne uscì riconfermato
nella scomunica e deposto. Si trattò di un colpo gravissimo per il prestigio dell'imperatore che a
partire dal 1245 vide aggravarsi la situazione sia in Germania che in Italia e subì addirittura il
tradimento (o credette di subirlo) del suo più fidato consigliere Pier della Vigna. Gli ultimi anni di
Federico furono tristi: la cattiva salute, le ombre dei rovesci politici e militari, alcune pesanti
sconfitte contro i comuni e l'ossessione del tradimento ne incrinarono la figura. Si spense nel 1250

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a Fiorentino in Puglia. La propaganda guelfa diffuse la notizia calunniosa che egli fosse stato
ucciso dal suo stesso figlio Manfredi, che gli era succeduto sul trono di Sicilia.

Federico e l'Islam
Le notizie di ambiente musulmano che riguardano Federico testimoniano che a Palermo era stato
allevato dai capi della comunità musulmana, mentre le fonti occidentali assicurano che oltre al
latino parlava greco e arabo. I cronisti arabi riferiscono che durante la sua visita alla città Santa
non perse occasione per esprimere ammirazione e simpatia per l'islam, mentre manifestò astio e
disprezzo nei confronti del mondo ecclesiastico latino, fino a chiedere di ascoltare l'appello alla
preghiera lanciato dal muezzin nella notte.

Il sacro romano impero di Corrado IV


Alla scomparsa di Federico II, i principi elettori tedeschi consegnarono la corona di Germania a
suo figlio Corrado IV, che era già stato eletto re dei romani da anni, e come tale destinato a cingere
la corona imperiale. Ad essa aggiunse la corona di Gerusalemme e della Sicilia, che gli spettava in
quanto figlio di Federico, ma impossibilitato a raggiungere l'isola ne affidò la reggenza al fratello
Manfredi. La situazione tedesca era in preda al caos: molte città si erano unite contro l'imperatore
nella lega renana. Tentò quindi di assicurarsi almeno il Regno d'Italia ma nel 1254 morì, senza
essere riuscito neppure in questo intento, dopo aver affidato suo figlio di due anni, Corradino, alla
tutela di Innocenzo IV.

La Sicilia di Manfredi
Il potere di Manfredi sulla Sicilia e sull'Italia meridionale fu saldo, nonostante ben presto fu
scomunicato da Papa Alessandro IV, che gli rimproverava di proseguire nella linea di Federico
per quel che riguardava l'atteggiamento nei confronti del papato. Egli era disinteressato alla
corona imperiale, ma voleva imporsi in tutta l’Italia. Intervenne quindi con forza nelle questioni
dell'Italia comunale, collegandosi ad alcune città di tradizioni di ghibellina. Alleatosi anche con
principati greci sopravvissuti alla conquista Latina di Costantinopoli, contribuì in modo
determinante con Genova, sua alleata, alla caduta dell'impero Latino di Costantinopoli (creazione
veneziana). Nel frattempo, cercò alleanze anche con il re di Aragona. Nel 1260, con il suo
appoggio, i senesi e i ghibellini fiorentini batterono a Montaperti in Toscana l'esercito di Firenze
espressione di un governo di banchieri e di imprenditori appoggiati dal Papa. Sconfitta la rivale,
Siena rimaneva il primo centro finanziario dell'Italia comunale, i cui capitali finanziavano la
politica di Manfredi. Egli riuscì a penetrare fino a Rima, facendosi eleggere dall'aristocrazia
romana senatore del Comune. A questo punto il pontefice Urbano IV, avvalendosi del diritto per
il quale il re di Sicilia era vassallo della Santa Sede, lo depose e affidò il trono al fratello di Luigi IX
re di Francia, Carlo I d'Angiò. Con la morte di Manfredi nella battaglia di Benevento del 1266 e
l'esecuzione a Napoli di Corradino di due anni più tardi si chiudeva l'avventura Sveva in Italia in
Sicilia.

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CAPITOLO 22
Conflitti e mutamenti istituzionali nel Regno d'Italia
La lotta fra papato e impero che infuriò sia il tempo di Federico II che sotto suo nipote Federico
II, sembrò dividere l'Italia in guelfi (favorevoli al Papa) e ghibellini (favorevoli all'imperatore). In
realtà queste fazioni non erano schieramenti coerentemente contrapposti, né si entrava a far
parte dell’uno o dell’altro per etica, ma seconda che i propri avversari appartenessero a questa o
a quella parte. Le alleanze tra guelfi/ghibellini tra città vicine aumentarono il numero di scontri.
Fu questa elevata conflittualità che condurrà alla crisi del sistema consolare e all'affermarsi di
quello podestarile. Nel corso di queste lotte, nuovi ceti si erano andati costituendo e già alla fine
del XII secolo i rappresentanti maggiori di essi, tenuti fuori dal Comune in quanto non
appartenenti alle aristocrazie cittadine, chiedevano di poter entrare in politica. Spesso si trattava
di ceti medi rurali inurbati, ecco quindi che al movimento di conquista del contado da parte della
città, corrispondeva un movimento inverso. In tutti i centri il sempre più vorticoso bisogno di
moneta liquida favoriva l'attività dei prestatori di denaro, che ben presto si trasformarono in
imprenditori e banchieri. Inoltre, la richiesta di beni di produzione sui mercati europei
incoraggiava l'attività manifatturiera, in particolar modo quella tessile, che aveva bisogno di
manodopera specializzata. La città era così in grado di offrire molto lavoro. In tutta Italia centro-
settentrionale si era costituito un ceto articolato, composto da banchieri, imprenditori, mercanti,
artigiani, medici, riuniti in corporazioni (Artes). Questi cittadini erano originariamente detti
semplicemente populares, privi della possibilità di entrare nel Comune. Tuttavia, a partire dai
primi del XIII secolo vediamo nascere una propria organizzazione, il popolo, parallela al comune.

Il primato economico e la crisi delle istituzioni comunali


Gli anni a cavallo tra XIII e XIV secolo furono quelli nei quali si fondò il primato delle città italiane
nella manifattura e soprattutto nel commercio. Le corporazioni servivano a disciplinare le varie
attività produttive, a regolare prezzi e salari, a impedire lo sviluppo di un'economia basata sulla
concorrenza. Il crescere di importanza del commercio aveva determinato una serie di progressi
sul piano della vita e della sicurezza. Vennero migliorate le vie di comunicazione, nacquero nuovi
tipi di imbarcazione, i comuni si dettero a contrastare il brigantaggio. Cambiò anche il ruolo del
mercante che, fin tutto il XII secolo, era stato un venditore ambulante che girava per le fiere alla
ricerca di merci da vendere o da comprare. Nel secolo successivo questa figura iniziò la sua scalata
sociale, che gli impedì di assentarsi per lungo tempo dalla propria città. Ciò aveva portato alla
nascita di compagnie le cui basi erano irradiate nelle principali città europee, che permisero di
trasferire capitali senza bisogno di trasportare fisicamente il denaro grazie all'utilizzo della
lettera di cambio. Al fianco di questa straordinaria prosperità economica, le città comunali
registravano una grave instabilità politica. Gli imprenditori, raggruppati nelle arti, avevano
faticato per tutto il XIII secolo ad affermare i loro diritti politici. Una volta riusciti, avevano iniziato
a estromettere la nobiltà (i magnati) ricorrendo alle leggi anti-magnati. Tuttavia, tale legislazione
si era rivelata fin da subito inadeguata, anche perché difficoltosa risultava la definizione di coloro
che erano magnati (solo nobili? solo ricchi? ricchi e nobili?). Si fece così strada nel corso del XIV
secolo un nuovo ceto dirigente, costituito da magnati e popolani grassi (=ricchi), al quale si
opponeva il ceto medio degli artigiani (popolo magro), mentre dal basso premevano i lavoratori
dipendenti sottoposti (popolo minuto). In situazioni di crisi si finì con appoggiarsi al “signore”,
un personaggio, almeno formalmente estraneo alle parti, al quale affidare per un breve periodo il
potere. Spesso capitava, però, che a loro volta i signori riuscissero a consolidare il loro potere e a
trasformarlo in dinastico. Questo fenomeno si affermò soprattutto sul finire del XIII secolo in
Lombardia (Visconti a Milano), nella pianura padana (Gonzaga a Mantova, d'Este a Ferrara), in

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Veneto (Scaligeri a Verona), in area umbro-marchigiana (Montefeltro a Urbino). Molto di meno
ciò avvenne nelle città marinare e in Toscana, dove gli imprenditori erano più forti e attivi.

Le repubbliche marinare
In un contesto in cui si andava affermando il commercio, ad avere la meglio furono i centri
affacciati sul mare che godevano di autonomia politica. Vediamo quindi svilupparsi alcune città
marinare nelle quali l'attività economica e l’autonomia politica si datavano già all'alto medioevo
(Venezia e Amalfi); altre meno fortunate e in parte soffocate da un forte potere centrale (Bari,
Messina, Napoli); altre ancora che si avvantaggiarono della crisi dei poteri centrali (Genova e Pisa,
formalmente soggette al Regno d'Italia). Si vide l’affermarsi del sistema delle compagnie, che
permetteva di mettere in comune capitali allo scopo di realizzare precisi guadagni. Poiché i grandi
commerci si svolgevano per vie marittime, le città marittime si riempiono di cantieri per la
costruzione di navi. L'accresciuta mobilità marittima non condusse sul momento a sostanziali
modifiche nei tipi nautici. Tra le città marinare spesso sorsero scontri ed inimicizie, emblematica
quella tra Genova e Pisa. Anche molte importanti scelte di politica internazionale erano dettate
dalle esigenze della navigazione. I veneziani, ad esempio, erano contrari alla prima crociata in
quanto non vedevano di buon occhio le navi genovesi e pisane che fino ad allora non usavano
navigare nel bacino orientale del Mediterraneo imporsi sempre di più in quella parte di mare. O
ancora, nonostante la tradizionale amicizia nei confronti dell'imperatore bizantino, i veneziani si
opposero alla sua politica di appoggio ad Ancona contro Barbarossa, temendo che Ancona potesse
divenire una rivale tanto potente da contrastare l'egemonia adriatica. Allo stesso modo le
conquiste della IV crociata si inquadravano bene in quella lotta per il predominio delle rotte. Nel
1137 Pisa pose fine alla vita marittima di Amalfi, che con le celebri tavole amalfitane aveva dato
al mondo il primo grande codice del diritto marittimo.

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CAPITOLO 23
La domenica di Bouvines
Nel corso dei decenni centrali del XII secolo il re di Francia Luigi VII aveva lavorato al
consolidamento del potere della monarchia; la sua opera fu portata avanti dal figlio Filippo
Augusto. Era per quest'ultimo prioritario risolvere il problema costituito dal fatto che re
d'Inghilterra era signore di gran parte del territorio francese. In Inghilterra, nel frattempo, il
regno di Enrico II aveva posto fine a un periodo di lotte, che ripresero con i figli Riccardo cuor di
Leone e Giovanni Senzaterra. I due si erano ripetutamente ribellati al padre durante il suo regno,
ma erano anche in vivissima discordia tra di loro. Entrambi erano privi dell’abilità strategica del
padre. Filippo Augusto colse l'occasione e nel 1202 dichiarò il sovrano Giovanni Senzaterra
colpevole di fellonia (delitto del quale si macchiava il vassallo infedele) e lo privò formalmente di
tutti i suoi feudi francesi, Aquitania esclusa. Giovanni sembrò accettare per il momento, ma
durante la battaglia di Bouvines (1214) i due sovrani si scontrarono: il re di Francia appoggiava
Federico II di Svevia, il re d’Inghilterra Ottone IV. La vittoria diede modo a Filippo Augusto di
avviare una politica di unificazione dei possedimenti francesi.

La riscossa dei baroni inglesi


La politica di Giovanni Senzaterra aveva finito con lo scontentare un po’ tutti: gli ecclesiastici a
causa delle confische, i feudatari a causa della sua politica oppressiva, le città delle quali non aveva
compreso la crescente importanza. La sconfitta di Bouvines fu per la nobiltà il segnale della
rivolta. Giovanni fu obbligato a giurare rispetto delle antiche consuetudini nei confronti dei
baroni, il che implicava il doverli consultare prima di imporre loro nuove tasse. A ciò si aggiunse
la tutela dei diritti della Chiesa che veniva regolata per iscritto. Tale il senso della Magna Charta,
sottoscritta nel 1215, documento che regolava gli accordi tra la corona e l'aristocrazia inglese.
Veniva anche istituito un magnum consilium di nobili, che avrebbero dovuto assistere il sovrano
nelle funzioni di governo. Nel 1242 questo organismo avrebbe assunto il nome di “parlamento”.
Il figlio e successore, Enrico III, esercitò una dura politica fiscale, caratterizzata da favoritismi, che
indussero i nobili inglesi a nuova rivolta. Questa portò all’emanazione delle provvisioni di Oxford
(1259), che obbligavano il re a rispettare il parere di una commissione di baroni in materia di
amministrazione, ma le turbolenze continuarono. La politica dei successori di Enrico III ebbe, tra
gli obiettivi, l’espansione in Scozia.

La monarchia francese
Mentre Filippo Augusto trionfava sulla corona inglese, aveva anche appoggiato la crociata contro
gli albigesi lanciata da Innocenzo III, che investì principalmente il sud della Francia. L’obiettivo
del re era l’eliminazione della volontà autonomistica dei feudatari meridionali. Alla morte di
Filippo Augusto gli succedette il figlio Luigi VIII ma, vista l’età, la reggenza venne assunta dalla
madre Bianca che condusse un'energica politica di alleanze (es. conte di Tolosa). Il suo
successore, Luigi IX, tentò di evitare che le tendenze centrifughe della nobiltà francese andassero
incontro al re d'Inghilterra, per questo cercò di sottomettere i grandi feudatari, portando allo
scoppio di una serie di battaglie. Dopo tali episodi si andò affermando una lunga tregua nel paese.
Ristabilita la situazione in Francia, il re poté mettersi a capo della crociata del 1248 (VII). Tuttavia,
questa non ebbe fortuna e lo stesso Luigi fu preso prigioniero dei saraceni. Rientrato in Europa,
non si intromise nel conflitto tra l'imperatore Federico II e il papato, nonostante il Regno di Sicilia,
strappato a Manfredi, fosse stato assegnato a suo fratello Carlo d'Angiò. Desideroso di riprendere
la lotta contro i musulmani, venne prima persuaso dal fratello ad assediate Tunisi, dove morì. Gli
succedette Filippo III l'ardito, morto nella rivolta dei Vespri, alla quale aveva partecipato per

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difendere gli angioini dagli aragonesi. A lui succedette il figlio Filippo IV il bello, la cui politica
portò al decollo dei comuni e all’incamerazione dei beni dell’ordine templare. La sua
spregiudicata politica di allargamento portò a uno scontro con le città manifatturiere delle
Fiandre: il re intendeva divenire signore di quelle città per regolare i loro rapporti con
l'Inghilterra; sovrano inglese individuava nell'appoggio alle città fiamminghe un modo per
intromettersi negli affari francesi. Ne derivò una guerra iniziata nel 1298 che culminò con la
sconfitta francese. Il re francese riconosceva un feudo inglese, ma il re inglese si impegnava ad
abbandonare la politica di appoggio ai fiamminghi. Questi, lasciati a sé stessi, dovettero
sottomettersi al re di Francia.

Il meridione d'Italia fra angioini e aragonesi


Carlo d’Angiò aveva importanti feudi in Francia e in Piemonte, cosa che lo predisponeva a
occuparsi della politica italiana. Chiamato nel regno meridionale da Papa Urbano IV, sconfisse
Manfredi nella battaglia di Benevento nel 1266 e due anni più tardi eliminerà Corradino. Carlo
scelse come sua capitale Napoli, preferendola a Palermo, legata agli Svevi. Egli trovò un meridione
caratterizzato da tendenze centrifughe della nobiltà, difficoltà per i ceti medi di affermarsi,
impoverimento dei contadini e prepotenza dei feudatari nelle campagne. Lo spostamento
dell'asse del potere da Palermo a Napoli fu causa dell'inizio della decadenza della Sicilia. Così
come Manfredi, aspirava al controllo dell'intera Italia e all'egemonia sul Mediterraneo, che pensò
di ottenere deviando il fratello Luigi nell’assedio di Tunisi. In seguito al fallimento, decise di fare
leva sulla costruzione di una solida rete di alleanze politiche: il Papa, i guelfi di Firenze (composti
principalmente da banchieri che gli accordavano ingenti somme) e Venezia, con la quale si
accordò per spartirsi il dominio dell'Adriatico e dei Balcani. Per quanto il sovrano angioino si
proclammasse fedele alla Chiesa, lo stesso papato finì con il preoccuparsi per la sua politica
sempre più oppressiva e pericolosa. La situazione mutò quando il soglio fu occupato da Papa
Martino IV, favorevole a Carlo. Questi non esitò a predisporre la riconquista di Costantinopoli, che
tuttavia venne impedita da una rivolta iniziato a Palermo nel marzo del 1282, la sera dei vespri
pasquali. I siciliani fecero appello al genero di Manfredi, Pietro III d'Aragona, il quale ebbe la
meglio. Papa Martino IV reagì scomunicando Pietro e imbandendo contro di lui una crociata. La
casuale morte nel 1285 di Martino, Carlo I e Pietro III fece sì che la guerra continuasse ma senza
vigore, fino alla firma del trattato di Anagni (1295), stipulato con il favore della Santa sede tra i
nuovi re Giacomo II d'Aragona e Carlo II d’Angiò. Il trattato prevedeva che la Sicilia tornasse agli
Angiò, ma i siciliani si ribellarono e si rivolsero al fratello di Giacomo, Federico III d’Aragona. Si
giunse così al trattato di Caltabellotta (1302): Federico III fu riconosciuto re di Trinacria e Carlo
II re di Sicilia, nonostante il suo regno iniziasse comunemente a venire denominato “di Napoli”.
Una clausola del trattato stabiliva che alla morte di Federico l'isola sarebbe dovuta tornare agli
angioini, cosa che non avvenne.

La penisola iberica
Erano passati otto anni dalla sconfitta di Hattin e dalla presa musulmana di Gerusalemme e
Innocenzo III era ben deciso ad ottenere sotto controllo almeno la situazione della penisola
iberica. Gli aquitani, che avevano fatto voto di partire per una crociata in Terra Santa, furono
autorizzati a commutare il voto in una spedizione iberica. Alla campagna parteciparono i re di
Castiglia e d'Aragona. Nel luglio del 1212 la spedizione si concluse con la grande vittoria di Las
navas de Tolosa (vicino l’Andalusia). La vittoria apriva ai cristiani le porte del sud della regione
dell'Andalusia, portando alla caduta di Cordoba, capitale del califfato. La reconquista poteva dirsi
grossomodo compiuta, rimaneva in mano ai musulmani solo l'emirato di Granada (fino al 1492).

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La riconquista cristiana non segnò l'avvio di una stagione positiva: i musulmani nei circa cinque
secoli del loro dominio in terra iberica avevano stabilito un clima di pace e armonia tra tutte le
comunità, perfino quelle cristiane e quelle ebraiche, oltre che di crescita economica. I sovrani di
Castiglia, invece, non incoraggiarono né l'agricoltura, né l'artigianato, né il commercio, che anzi
contribuirono ad ostacolare perseguitando musulmani ed ebrei che ne erano il nerbo. Il ceto
nobiliare castigliano era caratterizzato da una religiosità sentita innanzitutto come lotta contro
gli infedeli. Ben diverso il destino del regno di Aragona, dal 1137 unito con la contea di Catalogna,
la quale continuava comunque a formare un'entità distinta dal mondo ispano-cristiano.
Barcellona era uno dei più fiorenti porti mediterranei e l’economia catalana poneva le sue basi
sul mare e nei commerci. I mercanti catalani si insediarono stabilmente nei porti della Sicilia,
all'indomani della rivolta dei vespri appoggiata dal loro re, e confermarono il loro ruolo nell'isola
dopo il trattato di Caltabellotta. Gli aragonesi riuscirono a conquistare anche la Sardegna. Le
Baleari e ricevettero in feudo il ducato di Atene, conquistato nei primi anni del XIV secolo da alcuni
mercenari catalani. Il Mediterraneo veniva egemonizzato dalla monarchia aragonese,
direttamente o indirettamente, ai danni delle altre città marinare.

La Germania
La Germania intanto non trovava pace: si aprì un lungo periodo di interregno (1256-1272), nel
quale guelfi e ghibellini affidavano la corona a principi non tedeschi nella speranza che questi
fossero interessati al prestigio e al fascino della corona imperiale, la quale ormai aveva perso tutto
il suo potere. Durante questo periodo si andò affermando il crescente potere di un casato feudale
del Sud, quello dei conti di Asburgo e nel 1273 la corona venne cinta da Rodolfo d'Asburgo, il quale
qualche anno dopo si insediò in Austria, facendone il centro della potenza ereditaria familiare. I
nuovi re tedeschi erano comunque fortemente limitati sia dell'aristocrazia feudale, sia dalle città
mercantili e non provarono neppure ad intromettersi nella politica italiana. Si occuparono
principalmente di un'espansione a nord-est (es. conquista della Prussia) e della fondazione
dell'Hansa, o lega anseatica, una federazione commerciale e militare tra alcune città mercantili
del Mare del Nord e del Baltico che riuscì a monopolizzare il commercio tra Russia, penisola
scandinava ed Europa.
Le monarchie centro orientali e settentrionali

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A partire dal IX e XI secolo nelle regioni centro orientali e settentrionali di Europa si erano formati
regni che avevano conosciuto una progressiva cristianizzazione e un avvicinamento alle vicende
delle monarchie di più antica fondazione.

- Bulgaria: regione originariamente popolata di slavi ma occupata nel VII secolo da popolazioni
mongole, aveva formato un regno indipendente negli anni successivi con la fusione dei due
elementi etnici ormai cristianizzati. Ai primi del X secolo erano stati sottomessi dai bizantini, per
poi riacquistare l'autonomia nel XII secolo.

- Serbia: sottoposta al governo di bulgari e dei bizantini, nei primi anni del XIII secolo si rese
indipendente e inglobò la Macedonia e l’Albania. Nel corso del XIV secolo tanto la Bulgaria quanto
la Serbia vennero inglobata dall'avanzata turca.

- Ungheria: a cavallo tra XI e XII secolo riuscì ad inglobare Dalmazia e Bosnia dopo una lunga lotta
con Bisanzio. Tuttavia, nel XIII secolo sarebbe stata travolta dall'avanzata mongola e il potere
regio ristabilito solo molti decenni più tardi sotto la casata degli Angiò.

- Boemia: a partire dal X secolo si era dichiarata vassalla del sacro romano impero e grazie
all'ordine teutonico il sovrano di Boemia era riuscito ad annettere una serie di regioni, tra cui
l'Austria. Tale era il potere raggiunto da farlo ambire anche alla corona imperiale.

- Polonia: a partire dal X secolo era in stretto contatto con la Germania. Il regno condusse una
politica di espansione verso nord-est a danno delle tribù slave ancora pagane. Il XIII secolo fu
caratterizzato dall'invasione mongola e dall'avanzata tedesca sul Baltico. I lettoni furono i primi
ad accettare la conversione, più tenace fu l'opposizione dei prussiani; più tardi balti vennero
costretti a stipulare un trattato in cui accettavano di abbandonare i costumi tradizionali. Solo i
lituani riuscirono a mantenere un po’ più a lungo la propria indipendenza.

- da Kiev a Mosca: Tra il IX e l’XI secolo l'elemento slavo aveva dato vita a un grande principato, il
cui centro era Kiev. Tuttavia, verso la metà del XII secolo, alla decadenza del grande principato si
accompagnò la crescita di Mosca grazie anche alla figura di Ivan I, che riuscì a rendere
indipendente il principato di Mosca, procedendo alla riunificazione delle terre russe.

- regni scandinavi: già nel corso del X secolo vi si erano distinti i tre regni di Danimarca, Norvegia
e Svezia, cristianizzati sommariamente nel corso del secolo successivo. Nel corso del XIII secolo i
marinai norvegesi furono protagonisti di esplorazioni e colonizzazioni di nuove terre come
l’Islanda e la Groenlandia.

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CAPITOLO 24
Il continente asiatico
Nel corso del XIII secolo il mondo europeo occidentale entrò in contatto con l'Asia profonda, fino
ad allora ignorata nonostante dal suo interno provenissero molte merci. Alla fine del 1000 a.C. la
Cina era stata unificata dalla dinastia Chin. Ovviamente lotte ed invasioni avevano portato alla
successione delle dinastie regnanti e a divisioni interne. Così come l'Europa, anche la Cina aveva
conosciuto un incremento economico all'alba del secondo millennio (1000d.C.): espansione
dell'agricoltura (specie del riso), del commercio, incremento demografico (100 milioni), della
produzione tessile, dell'artigianato, delle attività minerarie. La vasta rete commerciale consentì
che questi prodotti circolassero tutto l'impero e oltre.

Il risveglio dei mongoli


Nel corso del XII secolo si assistette al risveglio dei mongoli, pastori nomadi che abitavano
l'odierna Mongolia (tra Cina e Russia). Gli arabi li chiamavano tatar, termine da cui latini
derivarono tartari, che ricordava l'inferno pagano. Della nascita del più grande condottiero
mongolo si sa ben poco, la si colloca nella seconda metà del XII secolo. Con lui i mongoli trovarono
una sorta di unità nazionale, motivo per il quale egli ricevette il nome di Genghiz Khan (signor
universale). Egli, partendo dalle necessità del suo popolo nomade, diede al suo impero il carattere
dell'organizzazione politico-militare mobile, imprimendogli una forma sempre più gerarchizzata.
Le tribù restavano indipendenti fra loro, tuttavia a capo di esse c'era la famiglia imperiale. Fu
molto interessato alla religione cosmica cinese, il taoismo, infatti secondo una leggenda egli
intendeva strappare ai saggi taoisti una formula segreta di immortalità, della quale erano ritenuti
detentori. Egli fu estremamente tollerante nelle questioni religiose, in quanto credeva che le forze
dei vari culti avrebbero volta per volta potuto favorirlo. Ma il vero genio di Genghiz Khan fu quello
militare e diplomatico: i suoi nemici sapevano che sottomettersi a lui significava trovare un
signore magnanimo, mentre resistergli equivaleva allo sterminio. Nel 1211, dopo aver unificato
le genti mongole, avviò la campagna per la conquista della Cina, mentre in quasi contemporanea
veniva abbattuto il regno della grande Bulgaria. Alla sua morte, avvenuta nel 1227, gli succedette
il figlio e, mentre questi completava l'assoggettamento della Cina, il cugino si gettava sull'Europa,
come testimonia la caduta di Kiev nel 1240. Un sordo terrore si impadronì della cristianità che
vedeva nei mongoli una punizione di Dio per i peccati dell'umanità. I mongoli si riversarono sulla
Polonia, sulla Boemia sull'Ungheria e la migliore cavalleria cristiana venne sconfitta, persino i
cavalieri teutonici. Federico II si appellò ai principi della cristianità invitandoli a unirsi con lui in
una crociata contro di loro, la quale tuttavia non si tenne perché i mongoli dovettero ritirarsi dalla
porzione di Europa conquistata. Ciò fu causato in parte dalle perdite umane nonostante le vittorie,
in parte a causa della morte del sovrano. Con il successore mongoli puntarono solo sulla Cina,
dove nel 1279 per la prima volta dopo millenni saliva sul trono un non cinese che diede inizio alla
dinastia degli Yuan. I mongoli nel 1258 arrivarono ad invadere e distruggere Bagdad, eliminando
l'istituzione califfale. Tale evento segnò per l'Asia e per l'islam la fine di un'era e l'inizio di
un'epoca nuova.

Economia e mercati nella Cina mongola


Nella seconda metà del Duecento i mercanti stranieri erano ormai ben accetti presso l'elite
mongole, come testimonia la nascita degli ortoq, associazioni di mercanti (in prevalenza turchi,
persiani e siriani) dotati di grandi privilegi. Fu in questo periodo che iniziò ad essere adottata il
cartamoneta. Si andò articolando una rigida suddivisione sociale, che non dipendeva dal censo,
bensì dall'etnia: al primo posto vi erano i mongoli, seguiti dagli stranieri di varia origine e, infine,

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i cinesi. Il Codice penale mostra profondamente i tratti di questa discriminazione. Le vie di mare
rimasero intatte rispetto al passato e, lungo quelle di terra, i commerci incrementarono grazie
anche alla continuità territoriale consentita dal dominio mongolo ( pax mongolica). Questi
rapporti tra mongoli e mercanti europei non erano destinati a durare molto a lungo già nel
territorio persiano alla fine del XIII secolo vennero quasi completamente aboliti, lo stesso
avvenne nel XIV secolo in Cina.

Missionari e mercanti alla scoperta dell'Asia


Secondo una lettura leggendaria l'avanzata verso Europa dei mongoli era da intendere come la
rivendicazione delle spoglie dei re Magi, che i mongoli avrebbero considerato antenati del loro
popolo. Lo stesso pontefice Innocenzo IV, pur accennando più volte alla crociata contro i tartari,
era nei loro confronti orientato piuttosto verso i rapporti diplomatici. La Chiesa non capì, o si
rifiutò di capire, che la tolleranza religiosa di Genghiz Khan era frutto di superstizione e
opportunismo politico, e non poteva essere strumentalizzata per trasformare i mongoli in alleati
contro i musulmani. Tuttavia, dall’Europa partirono spedizioni, tanto diplomatiche quanto
missionarie, condotte da frati domenicani e francescani. Oltre al Papa, anche il re di Francia Luigi
IX e i Veneziani erano molto interessati ai mongoli. Nel 1262 due mercanti veneziani, Matteo e
Niccolò Polo, partirono da Costantinopoli verso la Cina e qualche anno più tardi vi tornarono con
il figlio di Niccolò, Marco, che rimase alla corte del Gran Khan narrando le sue esperienze in un
libro intitolato Il Milione. La caduta degli imperatori mongoli nel XIV secolo portò la Cina a
chiudersi in sé stessa e nei confronti degli occidentali, malvisti in quanto stranieri favoriti dagli
odiati Yuan.

Tamerlano
Altro grande condottiero mongolo ma vissuto nel XIV secolo fu Tamerlano, il quale scelse di
assumere il titolo di emiro, con l'intenzione di sottolineare la sua pietas musulmana. Egli scelse
come capitale del suo impero Samarcanda, città nota poiché vi aveva soggiornato Alessandro
Magno e per un importante emporio. Tamerlano, richiamando la travolgente ondata mongola di
un secolo e mezzo prima, riaccendeva nei cristiani le speranze di un'alleanza, questa volta contro
la potenza ottomana, unica a fargli concorrenza nell'egemonia sul mondo urlalo-altaico.
All'alleanza si unirono il basileus di Costantinopoli, il re di Francia. e Genova. Nel luglio del 1402,
presso Ankara, mongoli e ottomani si scontrarono, la vittoria arrise ai primi. Da qui Tamerlano
decise di partire alla conquista dell'impero cinese, ma morì inaspettatamente e il suo immenso
impero si frammentò in tanti potentati ostili tra loro. L'avanzata ottomana contro Bisanzio e
l'Europa poteva riprendere.

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CAPITOLO 25
La nascita della logica e della scolastica
Gli scambi con il ricco Oriente e lo slancio della vita cittadina imposero un rinnovamento della
cultura. Allo studio delle Sacre Scritture si affiancò quello della natura e della scienza, fino ad
allora considerate profane e secondarie. Era viva la convinzione che la scienza dei moderni
potesse superare quella degli antichi, non perché migliore, ma poiché suscettibile ad ampliarsi e
approfondirsi. Una nuova scienza stava assurgendo al rango di chiave del sapere: la logica Alla
base di questo rinnovamento c'era l'opera di Pietro Abelardo, un prete che insegnò a Parigi e che
tra le sue opere redasse Sic et Non, un manuale di logica nel quale dimostrava come la ragione
umana potesse pervenire a risultati importanti senza necessariamente l’appoggio della Sacra
Scrittura e elaborava i fondamentali principi di identità e di non contraddizione, contribuendo
così alla nascita della filosofia scolastica nel corso del Duecento, di cui ricordiamo come esponente
Tommaso d'Aquino. La novità e l'arditezza dei metodi e delle idee di Abelardo ne fecero una
specie di simbolo e del suo fascino si giovò per sedurre una giovane intelligente fanciulla Eloisa,
da cui ebbe un figlio. La situazione, tuttavia, non poteva essere tollerata dallo zio di Eloisa che si
vendicò facendo evirare Abelardo e obbligando la nipote a chiudersi in un monastero Non fu
tuttavia per la relazione con Eloisa, quanto per le sue idee e la sua attività di maestro che Abelardo
fu duramente perseguitato dalla Chiesa.

Dalle scuole cattedrali all'università


A partire dall'XI secolo le scuole cattedrali avevano svolto un ruolo importante nelle città europee;
già nel 1175 il III concilio lateranense aveva istituito una cattedra per ogni chiesa episcopale,
affinché un maestro impartisse insegnamenti gratuiti tanto ai chierici quanto ai laici. Queste
scuole si organizzavano secondo il sistema di insegnamento romano che prevedeva un corso di
studi secondo il quadrivium (le quattro discipline matematiche) il trivium (le tre discipline
filosofico-letterarie). Il passo successivo fu la fondazione delle università, che presentavano per
la prima volta programmi di studio definiti, esami di laurea e una divisione in facoltà. Nel latino
medievale universitas significava corporazione, nelle città si potevano incontrare universitatis di
mercanti e in tale ottica va compresa la nascita delle universitas studiorum che, al pari di altri
gruppi corporativi, avevano lo scopo di rappresentare gli interessi di coloro che volevano studiare
e di coloro che volevano insegnare. I primi centri furono Salerno, Bologna e Parigi, ognuno dei
quali specializzato rispettivamente in medicina, diritto e teologia. Un prototipo di università sorse
precocemente a Salerno nel X secolo, anche se non si tratta ancora di una vera e propria
università, ma farne un'università avrebbe provveduto Federico II nel XIII secolo. Se si prescinde
dal dubbio caso di Salerno, la prima università sorse a Bologna nel X secolo e successivamente
beneficiò del riconoscimento dell'imperatore Federico Barbarossa. Nel XIII secolo sorsero
università a Padova, a Napoli, a Cambridge ed Oxford. L'università richiedeva che gli studenti
avessero dinanzi a sé nel corso delle lezioni i testi che dovevano servire al dibattito, di qui la
necessità di disporre di numerose copie che rendeva improbabile l'uso dei codici tradizionali. Si
elaborò il sistema della pecia: i testi venivano passati al libraio convenzionato che li vendeva agli
studenti in fascicoli di carta (più economica della pergamena) a prezzi convenienti. Rispetto agli
esordi estremamente liberali delle prime universitates studiorum, gli sviluppi più maturi del
fenomeno comportarono un maggiore controllo da parte del pontefice e dell'imperatore.

La rinascita scientifica e il mondo cittadino

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I rinnovati contatti con il mondo bizantino e con la cultura arabo-islamica riversarono
all'occidente una quantità di testi e di conoscenze, la maggior parte dei quali appartenevano
all'antichità greco-romana ma, mentre Bisanzio e il mondo musulmano avevano conservato
questo patrimonio, in Occidente era caduto nell'oblio. Esso tornava in Europa arricchito anche
dalle cognizioni provenienti dalla Persia e dall'India, mediate dall'islam, molto importanti
soprattutto nel campo medico, astronomico e matematico. La matematica araba fu introdotta in
Occidente da Leonardo Fibonacci tra il XII e il XIII secolo. Egli pubblicò il liber abaci , una specie di
enciclopedia di algebra dove venivano introdotte le cifre arabe. Il mondo comunale era
profondamente laico, senza che naturalmente ciò costituisse causa di allontanamento dalla fede.
I ceti dirigenti amavano sfoggiare un genere di vita nobile, ciò li conduceva ad apprezzare la
cultura cortese fatta di poemi epici, composizioni poetiche a carattere erotico e romanzi
cavallereschi. Fu così che, specie nelle città toscane, si andarono creando cenacoli poetici e
letterari, alcuni dei quali diedero vita a vere e proprie nuove forme espressive. Nel Duecento si
fece sempre più largo uso del volgare, già adottato da Francesco d'Assisi, usato anche per tradurre
trattati scientifici (altrimenti in latino) e renderli alla portata di banchieri e mercanti. Infine, il
comune necessitava di una sua memoria storica, che venne realizzata con il ricorso alla cronistica
in volgare. Nonostante l'importanza della cultura nel mondo cittadino, i Comuni non misero mai
a punto un sistema vero e proprio di istruzione pubblica. Nel Duecento vi erano messi privati che
tenevano una specie di scuola, in genere nelle loro stesse abitazioni, dove si insegnavano i primi
rudimenti del leggere e dello scrivere e la lingua latina. Tali messi erano spesso sovvenzionati dal
Comune.

La rivoluzione commerciale e i centri di produzione


Se l'età precedente aveva conosciuto una circolazione sostenuta soltanto dalle merci preziose,
con il Duecento aumentò la circolazione degli articoli meno costosi, fenomeno correlato
all'aumento della popolazione e della produzione. Il mercato italiano medievale distingueva le
merci in “grosse” (il legname, il sale, il vino, il grano e le fibre tessili). e “sottili” (merci preziose).
Una delle cause e, al tempo stesso, degli effetti di questo straordinario sviluppo portò alla nascita
di nuovi e più flessibili tipi di contratti commerciale. Con la societas, ad esempio, i soci mettevano
in comune i capitali e il lavoro, dividendo tanto i proventi quanto le eventuali perdite. Nacquero
anche le prime forme di assicurazione e le prime banche basate sull'investimento dei capitali. I
primi passi delle istituzioni bancarie furono difficili perché la chiesa negava qualunque tipo di
prestito a interesse, condannandolo come usura. Tra XII e XIII secolo molte città, con o senza il
consenso dell'imperatore, avevano realizzato le loro zecche, tornando a battere moneta in oro,
fino ad allora appannaggio nel bacino del Mediterraneo solo di bizantini e musulmani. Le monete
più utilizzate furono il fiorino di Firenze ed il ducato o lo zecchino di Venezia. Siccome trasportare
quantità importanti di monete d'oro era pericoloso, si elaborarono anche strumenti creditizi che
consentivano di trasferire capitali senza farli viaggiare (lettera di cambio). Venne, inoltre,
incrementata l'industria della terracotta, del vetro, la lavorazione dei tessuti, del cuoio e dei
metalli. Introduzioni importanti in ambito tessile furono il filatoio a mano e il telaio orizzontale.

Le cattedrali e il rinnovamento artistico


Nel XII secolo si diffuse a partire dal sud della Francia l'architettura romanica, soprattutto in
ambito ecclesiastico, che prevedeva la sostituzione delle coperture lignee sino ad allora utilizzate.
Le iniziali forme spoglie lasciano man mano posto a rilievi scultorei sulle facciate. Le città si
dotano di nuove cattedrali, simbolo della crescita economica. Al di là delle Alpi però già nella
seconda metà del XII secolo si andava affermando il gotico. I cistercensi saranno tra i maggiori

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diffusori di questo stile in Europa. Solo l'Italia, inizialmente scettica sulle forme gotiche, si
avvicinerà a questo stile nel XIII secolo. Non bisogna dimenticare soprattutto a partire dal XIII
secolo i vasti programmi di edilizia pubblica avviati nelle città. Il progetto più importante fu quello
pensato per la città di Firenze.

Persecuzioni contro gli ebrei


La condizione degli ebrei nel mondo cristiano, sia bizantino sia occidentale, era condizionata da
forti forme di inferiorità, a differenza di quanto avveniva invece sotto l'islam. Emblematici furono
i massacri che ebbero luogo nel corso delle crociate. La diffidenza dei cristiani nei confronti degli
ebrei fu probabilmente la motivazione che indusse questi ultimi a combattere a fianco dei
musulmani nella difesa della città di Gerusalemme. Nel clima di tensione e sospetto che
caratterizzò il XIV secolo ci si cominciò a porre il problema della questione ebraica. Gli ebrei non
potevano essere soggetti al tribunale dell'inquisizione, che si occupava di eretici (l'eresia, in
quanto errata interpretazione della fede, era cosa interna al cristianesimo). Tuttavia, gli
inquisitori cominciarono a preoccuparsi degli iscritti in cui gli ebrei attaccavano la fede cristiana
ed il problema degli ebrei convertiti al cristianesimo, che spesso si rivelavano ancora legati alla
loro comunità. Saranno questi ultimi spesso a finire sul rogo. Era sempre più frequente che in
occasione di carestie o di epidemie, l'opinione pubblica alla ricerca di un capro espiatorio finisse
con accusare gli ebrei, magari al servizio dei musulmani. Molte inimicizie gli ebrei raccoglievano
inoltre per il fatto che tra di loro vi erano prestatori di denaro (nonostante praticassero tassi di
interesse spesso più bassi dei cristiani). A partire dalla Francia e dall'Inghilterra cominciarono
tra Duecento e Trecento a diffondersi leggende secondo le quali i membri della comunità ebraica
si davano ad assassini rituali di bambini cristiani. Per questo motivo, espulsi dalla Francia e
dall'Inghilterra, ripararono in Spagna, dalla quale si allontanarono a causa del massacro di Siviglia
(1391), fomentato da un prete fanatico. Decisero quindi di emigrare in Italia.

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CAPITOLO 26
Bonifacio VIII
Nel XIII secolo le pretese universalistiche dell'impero erano state messe in crisi dallo scontro con
il papato e dalle realtà locali emergenti, ma nel secolo successivo anche le mire espansionistiche
del papato un furo ridimensionamento a causa della Francia. Dopo il trionfo di Carlo d'Angiò nel
Regno di Napoli e la scomparsa di Luigi IX, i rapporti fra chiesa e angioini si erano fatti difficili.
Carlo I d'Angiò si era assunto il ruolo di difendere l'autorità pontificia dal pericolo ghibellino,
arrivando con il tempo a ricattarla quasi. L'impero, nel frattempo, era preda di un lungo
interregno L’alternarsi nella seconda metà del 1200 sul soglio pontificio di Papi filoangioini e
antiangioini mostrò con chiarezza quanto fosse profondo il disorientamento. Quando nel 1292 si
spense il pontefice, per due anni non si riuscì a nominare un successore, fino a quando l'eremita
Pietro da Morrone non profetizzò gravi sciagure sulla Chiesa qualora la crisi non si fosse risolta.
Tanta l'autorità morale dell'eremita che il conclave rispose eleggendolo Papa nel 1294 con il
nome di Celestino V. Il nuovo Papa, tuttavia, non aveva alcuna competenza né teologica, né
politica, né giuridica, tant’è che per la pressione decide di abdicare dopo qualche mese. Gli
succedette Bonifacio VIII, il quale si prodigò per difendere l'autorità papale. A Roma e
nell'entroterra romano i suoi avversari erano i Colonna, che propugnavano l'invalidità
dell'elezione papale di Bonifacio, ai quali rispose bandendo una vera e propria crociata contro di
loro. Nel frattempo, la Sicilia rimaneva contesa tra angioini e aragonesi, tra i quali egli intervenne
con il trattato Anagni (1295), il quale provocò lo scoppio di violente rivolte in Sicilia. Ciò rese
necessario per il Papa collegarsi più strettamente alla dinastia angioina e al Regno di Francia e
chiedere il soccorso economico dei banchieri fiorentini appartenenti alla fazione guelfa. Questi
ultimi erano divisi in neri, intransigenti, e bianchi, sostenitori di una politica di cautela nei
confronti del papato. Al fine di spezzare la resistenza dei bianchi, Bonifacio si appellò a Carlo di
Valois, fratello del re di Francia Filippo IV, affidandogli il ruolo di paciere. Tuttavia, egli si macchiò
di violenze nei confronti dei bianchi (es. esilio Dante, 1302).

Bonifacio VIII e lo scontro con Filippo IV il bello


Gli eventi e le scelte di Bonifacio avevano legato la causa del papato a quella angioina e, attraverso
gli angioini, alla corona di Francia detenuta da Filippo IV il bello. Le cose si aggravarono nel 1301
quando il re di Francia, ben deciso a combattere la presenza politica ed economica della Chiesa
nel suo Regno, aveva elaborato una serie di tesi politiche regalistiche. Su queste basi il sovrano
ottenne dagli Stati generali che anche il clero venisse tassato. Bonifacio rispose con due bolle, la
seconda chiama Unam sanctam, che fondava una vera e propria teoria generale del diritto dei
pontefici a porre il loro primato su qualunque potere della terra. Si affermava che la chiesa è il
corpo mistico del Cristo; il Cristo stesso ne è a capo e al pontefice romano, come suo vicario in
terra, spettano le due spade: quella spirituale che gli usa direttamente e quella temporale che egli
manovra delegandola ai sovrani del mondo. Nonostante il suo carisma, Bonifacio era isolato: da
un lato si era messo in urto proprio con la tradizionale alleata del papato, dall’altro era inviso da
quanti attendevano il ritorno della Chiesa alla purezza. Egli provò, dunque, a imbastire
un'alleanza con il re di Germania (Asburgo), che tuttavia mhm era impegnato sul fronte interno,
e forse con gli Aragonesi. Il re di Francia nel giugno del 1303 riunì un'assemblea di avversari del
Papa nella quale Bonifacio fu dichiarato scismatico, eretico e simoniaco, riprendendo le dicerie
relative all'irregolarità della sua elezione pontificia. Il consigliere del re fu inviato a Roma con
l'incarico di catturare il falso Papa forte dell'appoggio dei Colonna. Il Papa, nel frattempo
rifugiatosi ad Anagni, riuscì a fuggire e a tornare a Roma grazie all’aiuto dei cittadini e degli Orsini.
Devastato dall'accaduto morì qualche mese dopo.

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La cattività avignonese (1309-1377)
La rovina di Bonifacio si era potuta verificare perché molti erano coloro che propendevano per
un rafforzamento dei legami tra papato e Regno di Francia, che in quel momento significava un
asservimento del Papa al re. A ciò si aggiunse che i territori di Roma erano insicuri e preda della
confusione. A distanza di qualche anno, venne scelto Clemente V il quale, condizionato dalla
volontà del re francese, non si pose neppure il problema del rientro a Roma e scelse come nuova
sede la cittadina di Avignone. Durante questo arco temporale i pontefici furono tutti francesi, ma
solo nei primi anni realmente assoggettati al re. Di lì a poco sarebbe iniziata la Guerra dei
cent’anni, che avrebbe impedito ai sovrani francesi di esercitare sui Papi una vera influenza.
Nonostante lo spostamento della sede, i pontefici si prodigarono per la gestione dello Stato
pontificio. Nonostante l’avversione della storiografia, Avignone divenne un centro economico e
culturale di grande importanza, tuttavia si concretizzò una perdita di contenuti ecumenici in tutta
la società del tempo. Fino al Trecento la cristianità, pur fra crisi profonde, non aveva mai dubitato
del suo essere una entità unitaria guidata da due autorità universali: il pontefice e l’imperatore.
Ma, la crisi dell'impero dopo la morte di Federico II e quella del papato dopo Bonifacio VIII
avevano dimostrato che le cose stavano mutando. Le monarchie feudali, che si stavano evolvendo
in regni nazionali assoluti, avevano imposto la loro presenza, così che i rispettivi sudditi
guardassero prima di ogni cosa ai loro sovrani, i quali cercavano in ogni modo di controllare
sempre di più l'autorità ecclesiastica. Per esempio, i tribunali inquisitori che avrebbero dovuto
dipendere direttamente dal Papa subivano spesso l'influenza dei poteri laici.

Il grande scisma d'occidente (1378-1417)


Il ritorno della curia a Roma, nonostante la situazione non fosse delle migliori, era però un
obiettivo per molti, esclusi cardinali francesi e membri di famiglie nobiliari che avevano oltralpe
i loro interessi. Un primo ritorno venne tentato da Urbano V, durato solo tre anni, seguì quello di
Gregorio XI, che tuttavia morì poco dopo. Il popolo romano, che aveva capito che la presenza del
Papa nella città era l'unica stabile garanzia di governo e di prosperità, era deciso a impedire una
nuova partenza. Scoppiò, quindi, un tumulto e i cardinali furono obbligati a scegliere un nuovo
Papa che fosse italiano, Urbano VI. I cardinali francesi, che non tolleravano l'autorità del nuovo
pontefice, dichiararono nulla alla sua elezione e scelsero Clemente VII. Il tentativo, fallito, di
Clemente di invadere Roma fu l'inizio di un vero e proprio scisma, in quanto i suoi sostenitori si
ritirarono di nuovo in Avignone e riaprirono la vecchia curia Pontificia. I due pontefici si
fronteggiarono scomunicandosi a vicenda. Gli alleati del Papa di Roma furono: tedeschi, inglesi e
italiani centro-nord; gli alleati del Papa di Avignone tutti coloro che erano legati al re di Francia,
come l'Austria, il regno di Napoli, l'Aragona, la Castiglia. Lo scisma determinò un crescente
disagio, al punto che nel 1409 un numero di prelati si riunì a Pisa e venne eletto un terzo Papa,
Alessandro V. I prelati speravano che i Papi avignonese e romano abdicassero e si sottomettessero
al nuovo pontefice, ma nessuno dei due accettò. Da allora, fino al 1417, vi furono addirittura tre
pontefici. La maggior parte dei vescovi e dei governi europei si schierò allora a favore del nuovo
Papa, forte dell'appoggio dei banchieri fiorentini e soprattutto dei Medici. Per non perdere gli
alleati rimasti, ciascuno dei tre pontefici moltiplicò i favori ai suoi rispettivi sostenitori, che
poterono estendere ancora di più la loro influenza, avviando a volte un disegno di chiesa
nazionale.

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Il conciliarismo e il piccolo scisma (1439-1449)
Questo articolarsi della compagine ecclesiale portò alla nascita di una nuova tendenza: il
conciliarismo. Si trattava dell'affermarsi di una tesi secondo la quale la Chiesa avrebbe dovuto
essere amministrata dall'assemblea dei vescovi periodicamente riunita e chiamata a decidere
sulle questioni teologiche più importanti. L'ultimo grande concilio si era riunito a Vienne
(Provenza), nel 1312, da allora le grandi decisioni erano state prese dal Papa. Facendo leva su
queste tesi e sfruttando la scarsa autorevolezza dei tre pontefici nel 1414 il re di Germania indisse
a Costanza un concilio, durante il quale si sarebbe dovuto dibattere: la composizione dello scisma;
la riforma delle istituzioni gerarchiche e dei costumi della Chiesa; l'organizzazione di una nuova
crociata per fermare l'avanzata dei turchi. All'autorità di questo concilio, appoggiato un po’ 'da
tutti i grandi governi europei, si sottomisero i tre Papi e al loro posto fu eletto Martino V. Un
decreto impose il principio della superiorità del Concilio sul Papa e del controllo di esso all'intera
Chiesa, mentre un altro decreto stabilì che il Concilio avrebbe dovuto essere convocato ogni 5
anni. Tanto parte della Chiesa, quanto Martino non erano favorevoli a queste tesi, ma il pontefice
era ben conscio delle gravi difficoltà relative al funzionamento del sistema conciliaristico. Ad
esempio, era arduo riunire un alto numero di prelati con periodicità tanto ravvicinata, inoltre i
lavori conciliari andavano sempre per le lunghe. Tra i concili riunitisi si ricorda quello di Firenze
del 1439, dove accorsero anche molti prelati delle chiese cristiane d'oriente preoccupati per
l'avanzata dei turchi. Il pontefice rispose promettendo una nuova crociata, a patto che gli orientali
accettassero di ricomporre lo scisma e di riconoscere la superiorità la suprema autorità del Papa.
I delegati sul momento accettarono, ma ciò provocò indignazione a Bisanzio. Nel frattempo, si
stava profilando un nuovo scisma, causato da alcuni vescovi riunitisi qualche anno prima a Basilea
e restii ad abbandonarla (piccolo scisma d’Occidente). A causa del piccolo scisma d'occidente, le
teorie conciliari persero credibilità, private anche dall'appoggio dei sovrani europei. Si arrivò
dunque al concordato tra i loro paesi e la Santa Sede, che permetteva ai sovrani di negoziare con
il Papa una certa libertà nella gestione delle Chiese nazionali (es. proporre la nomina dei vescovi).
Nascevano in questo modo la chiesa gallica (Francia) e anglicana (Inghilterra), istituzionalmente
semplici sezioni della Chiesa Latina, non chiese separate.

Lollari e hussiti
Atteggiamenti di critica alla mondanizzazione della Chiesa si erano andati addensando nel corso
del Trecento, Molti chiedevano di ritornare ad una Chiesa di umili, lontana dal potere terreno e
culturalmente più vicina al popolo (es. adozione di idiomi volgari, lettura diretta delle Scritture).
L'esempio dato dalla Chiesa durante il grande scisma d'occidente aveva allontanano
ulteriormente i fedeli. Il sacerdote inglese Wyclif sosteneva che le scritture fossero sufficienti a
ciascun fedele per intendere la volontà di Dio e che sacramenti (tranne eucaristia), indulgenze e
culto dei santi fossero inutili dal momento che Dio aveva già predestinato chi si sarebbe salvato.
Ne derivava che la Chiesa non aveva alcun diritto a svolgere una funzione di mediatrice tra Dio e
fedeli. Wyclif ebbe in Inghilterra molti seguaci, detti lollari. Le sue idee si diffusero soprattutto in
Boemia, dove il professor Hus elaborò una dottrina basata sulla lettura delle Scritture da parte di
ciascun e sulla necessità che la Chiesa tornasse povera. Egli diede vita al movimento hussita. La
sua condanna come eretico portò allo scoppio di proteste e radicalizzazioni del suo pensiero. Si
giunse quindi ad un’alleanza che consentì agli hussiti di organizzare una chiesa nazionale boema,
dotata di proprie consuetudini ma ligia al Papa. La diffusione di queste idee avrebbe posto le basi
per la riforma luterana del secolo successivo.

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CAPITOLO 27
Filippo IV e l’ordine templare
Come già visto, nel corso del tempo numerosi erano stati principi europei che si erano rivolti
all'ordine templare per donargli terre o affidargli in custodia denaro. Questi avevano quindi
sviluppato un grande potere e in Europa era sorto un tessuto strettissimo di loro monasteri,
particolarmente in Francia. Filippo IV, la cui politica era estremamente dispendiosa, pensò bene
di incamerarne i beni utilizzando la stessa tecnica adottata contro Bonifacio: prima si misero in
circolazione gravi dicerie sui templari, già invisi per la loro ricchezza, poi si ottenne dal Papa
avignonese Clemente V il permesso di aprire contro di loro un vero processo. Dopo 7 anni di
processo, nel 1312, Clemente emanò una bolla che scioglie l'ordine, senza tuttavia esprimere nei
suoi confronti una condanna formale, consapevole che si trattava di bugie orchestrate dal
sovrano.

Regalismo e universalismo
Il re di Francia era affiancato da abili consiglieri, come Pietro Dubois e Guglielmo di Nogaret, che
posero le basi del regalismo, rompendo definitivamente con la tradizione cristiana, che voleva la
cristianità riunita in un solo corpo sociopolitico. Il regalismo affermava che i re non riconoscono
alcun superiore al di sopra di loro, neppure l'imperatore, ne consegue che i poteri imperiali
appartengono al re all'interno del territorio del suo Regno. Ci si stava avvicinando alla concezione
moderna di stato assoluto. Le teorie dei giuristi poterono trovare terreno fertile in quanto Filippo,
diffidente da quella nobiltà feudale che aveva sempre limitato le prerogative della corona, aveva
preferito circondarsi di una nuova nobiltà che traeva dal ceto dei giuristi e dei funzionari di corte
(nobiltà di toga). Questi nuovi nobili non avevano alle spalle illustri lignaggi e dovevano la loro
fortuna al sovrano, per questo gli erano fedeli. Per contro si affermarono tesi che riprendevano la
bolla Unam sanctam. Ad esempio, Egidio Colonna affermava che l'autorità temporale doveva
essere sempre e comunque in posizione subordinata a quella spirituale e che le autorità temporali
erano chiamate a obbedire alla Chiesa, non solo nelle questioni spirituali, anche in quelle
temporali. Diversamente, Dante Alighieri nel De Monarchia tentava un'estrema conciliazione tra
papato e impero, senza tener conto del fatto che si trattasse di due poteri che stavano cambiando.
Dante le riconosceva la dignità dei poteri imperiali e la loro autonomia da quelli spirituali, sempre
nel quadro di una comune dipendenza dalla volontà di Dio, la fonte leggittimatrice di qualunque
potere.

Le sorti dell'impero
Alla morte del re di Germania nel 1308, Filippo IV aveva avanzato la candidatura di suo fratello
Carlo di Valois, ma i principi tedeschi, timorosi di una egemonia francese, avevano scelto come re
Enrico VII, conte di Lussemburgo. considerato debole e favorito anche da Clemente V, al quale
aveva promesso una nuova crociata. Egli, pur presentandosi in Italia come pacificatore, non
disponendo di sufficienti forze militari, dovette appoggiarsi ai ghibellini, che se ne servirono per
i loro fini. Contro di lui si creò immediatamente un fronte guelfo i cui capisaldi erano Firenze e il
Regno di Napoli. Dopo l'incoronazione (1313), la prima dopo Federico II, l'imperatore risalì la
penisola ma Firenze gli si oppose. Enrico si precipitò nella fedelissima Pisa, da dove ordì la discesa
a Napoli ma, una volta partito, morì improvvisamente a causa di un attacco di malaria. Alla sua
morte la Germania ricadde in una guerra civile. Prevalse Ludovico IV il Bavaro, candidato poco
gradito al pontefice Giovanni XXII, che si fece incoronare re di Germania senza chiedere alcuna
ratifica pontificia e discese in Italia in appoggio ai Visconti di Milano. Il Papa lo scomunicò, ma
questi rispose accusandolo di abuso di potere, in quanto usurpava funzioni temporali che non gli

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competevano, di eresia e di magia. Nel gennaio del 1327 Ludovico si fece incoronare a Roma dal
senatore della città, Sciarra Colonna, fu poi riunito un Concilio che depose Giovanni XXII. Al pari
di Filippo IV, le tesi di Ludovico il Bavaro erano maturate grazie al contributo di grandi pensatori
a lui vicini: Marsilio da Padova e Guglielmo d’Ockham. Secondo quest'ultimo fra autorità religiosa
e autorità civile la distinzione doveva essere netta, in quanto diversi sono i fini di ciascuna. Allo
stesso modo era necessario distinguere fede e ragione: da una parte nessuna verità rivelata
poteva essere oggetto di dimostrazione scientifica, dall'altra la filosofia era fondata sull'uso della
ragione e sulla dimostrazione empirica che non poteva venire influenzata dalla fede.

La Bolla d'Oro e l’avvento degli Asburgo


La Germania era divisa nel Trecento in una quantità di stati feudali retti da principi laici o
ecclesiastici e in un gran numero di città mercantili che tendevano a federarsi tra loro. L'impero
era una sorta di simbolo e di garante di unità, più culturale che non politica. Esso era elettivo
anche se non erano mancati tentativi di renderlo ereditario. Dal Trecento fino a metà
Quattrocento si andò delineando la tendenza a scegliere l'imperatore all'interno di due sole
dinastie: gli Asburgo, con sede in Austria, e i Lussemburgo, imparentati con la Boemia. Nel 1346,
alla morte di Ludovico il bavaro, divenne re di Germania Carlo IV di Lussemburgo e dieci anni
dopo imperatore. Egli si rese conto che per avere potere, l’imperatore doveva innanzitutto
svolgere il suo ruolo di re tedesco, il cui potere sarebbe cresciuto in relazione alla base di potere
territoriale direttamente amministrato. Carlo sapeva che, una delle ragioni di debolezza della
corona tedesca, era data dall'incertezza di chi possedesse il diritto di eleggere il re. Tale diritto
era in genere gestito dai nobili della Germania ma senza nessun ordine preciso. Egli promulgò
quindi nel 1356 la Bolla d'Oro, nella quale si precisava che i principi elettori dell'impero
avrebbero dovuto da allora in poi essere quattro laici e tre ecclesiastici. L'elezione sarebbe dovuta
avvenire a Francoforte, l'incoronazione a re di Germania in Aquisgrana. Il documento proibiva le
leghe cittadine, anche se queste continuarono ad esistere, come quella anseatica. Alla morte di
Carlo, la casata di Boemia non si dimostrò alla sua altezza. La situazione sembrò ristabilirsi
quando la corona passò a Sigismondo re d'Ungheria, artefice del concilio di Costanza. Egli
compresa che una delle cause di debolezza della corona imperiale consisteva nella sua elettività:
non si poteva modificare l'assetto elettorale, ma poteva essere corretto grazie ad accordi
interfamiliari. Sigismondo si accordò quindi con Asburgo. A partire dalla sua morte (1437) fino
al 1806 la corona imperiale sarebbe rimasta, nonostante la permanente finzione giuridica delle
elezioni, all'interno della casata d'Asburgo. Questa avrebbe continuato a regnare col più modesto
titolo imperiale d'Austria fino al 1918. Gli Asburgo non fecero mai una politica propriamente
tedesca, che andò a vantaggio dei principi tedeschi e delle leghe.

La nascita delle cause della guerra dei Cent’anni


Il passaggio dalle monarchie feudali (nelle quali il re era un primus inter pares tra i suoi grandi
aristocratici) a un modello più moderno di Stato che iniziava a configurarsi nella Francia di Filippo
e nella Germania di Ludovico non avvenne senza scosse. Esso significò una ridefinizione dei non
sempre chiari rapporti di dipendenza territoriale, cosa che provocò conflitti. Tra i problemi di
dipendenza territoriale delicatissimo era quello delle Fiandre, contea dipendente dal re di Francia
ma con ampie libertà. Questa si era arricchita nel corso del Duecento grazie alla produzione di
panni di lana, acquistata dall’Inghilterra. Alle vicende fiamminghe, si intrecciavano quelle del
ducato di Guienna nel sud-ovest della Francia, feudo dei plantageneti, dinastia regnante da ormai
da due secoli in Inghilterra. Nel 1293 una rissa tra marinai era degenerata in una battaglia che
opponeva i bretoni ai baschi, i quali si erano appellati al re di Francia Filippo il bello. Intanto, per

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vendetta una flotta inglese aveva attaccato una normanna. Filippo a quel punto aveva convocato
Edoardo I, re d’Inghilterra, in qualità di suo vassallo: il Parlamento di Parigi lo aveva dichiarato in
difetto e l'aveva condannato all’esproprio dei suoi diritti feudali sul territorio di Francia. Nel 1294
l'esercito inglese sbarcò in Guienna. Nonostante l’iniziale successo inglese, i due eserciti non
riuscivano a sconfiggersi definitivamente. Nel frattempo il re di Francia firmava un'alleanza con
il re di Scozia, che sfruttò l'occasione per tradire il re d’Inghilterra. Mentre la situazione scozzese
si evolveva verso la fondazione di un regno autonomo rispetto all’Inghilterra, il Parlamento
inglese (che da lì a poco sarebbe stato organizzato in Camera dei Lord e Camera dei comuni)
approfittava delle debolezze del sovrano per strappargli sempre più concessioni. Di fronte alle
dispute interne tra Inghilterra e Scozia e a una guerra costosa verso la quale i baroni inglesi
avevano poco interesse, Edoardo decise di accettare un accordo (1297) con la Francia, ritirando
il suo sostegno alle Fiandre. La scelta venne accolta con piacere anche da Filippo, il quale si
trovava in difficoltà con i fiamminghi. I negoziati, protrattasi comunque per sei anni, avevano
previsto anche alcune unioni matrimoniali, che sarebbero state la causa dello scoppio della guerra
dei Cent’anni.

La guerra dei Cent’anni (1339-1453)


Alla morte di Filippo IV, si succedettero alcuni sovrani ma per pochissimi anni, fino a quando il
trono non passò nelle mani di suo figlio, Carlo IV. Questi morì nel 1328 senza eredi maschi: si
estingueva con lui la discendenza maschile della casa reale dei capetingi. I diritti di successione
sarebbero dovuti passare a sua sorella Isabella, moglie di Edoardo II re d’Inghilterra. Ciò
significava che le corone di Francia ed Inghilterra sarebbero dovute andare entrambe a Edoardo
III, loro figlio. Un'assemblea di baroni francesi, ben decisa a impedire l’unione dei due regni, si
appellò alla legge salica (cioè alla consuetudine che escludeva le donne dalla successione regia) e
assegnò la corona di Francia a Filippo VI, figlio di Carlo di Valois. Edoardo III, nonostante i
problemi interni, aveva ripreso a favorire la mai del tutto repressa rivolta delle Fiandre. A questo
punto Filippo VI lo accusò di infedeltà in quanto suo vassallo e gli confiscò i feudi in territorio
francese. Edoardo contestò i diritti di Filippo alla corona di Francia e dichiarò la sua intenzione di
rivendicare quelli che gli venivano dalla madre. Scoppiò così la guerra dei Cent’anni. In un primo
momento fu evidente la superiorità militare inglese, tale da imprigionare il nuovo re di Francia,
Giovanni II il buono. Si giunse alla pace di Brétigny (1360): Edoardo rinunciò alla corona francese,
in cambio gli veniva riconosciuta la sovranità feudale su un’ampia zona della Francia meridionale,
tra Loira e Pirenei. La guerra riprese tuttavia nove anni dopo e continuò a fasi alterne, che
ridussero la Francia alla disperazione e alla miseria. Nel 1377 moriva Edoardo III d'Inghilterra,
tre anni dopo Carlo V di Francia. La morte dei due re portò nei rispettivi regni allo scontro tra i
potenti signori feudali che volevano impossessarsi del potere. Gli inglesi si allontanarono quindi
dalla causa francese, impegnati dal 1377 al 1413 in lotte civili, che porteranno alla nomina di
Enrico V. In Francia era intanto salito al trono Carlo VI, che aveva dato gravi segni di follia. La
pazzia del re aveva permesso l’affermarsi del duca di Borgogna, Giovanni senza paura. Questi si
oppose al duca di Orleans che cercava di imporre nuove tasse per sostenere gli eserciti. Ne derivò
un conflitto, che si concluse solo nel 1407 con la morte del duca d'Orleans. Il figlio di quest'ultimo
si rivolse al conte d'Armagnac nella speranza di vendicare il padre. Nel 1410 tra armagnacchi e
borgognoni iniziò una guerra civile che si intrecciò con le mire inglesi sulla corona di Francia. Pare
che con l'intento di fermare l'avanzata inglese, nel 1419 Giovanni e Carlo il Delfino stipularono un
accordo che avrebbe dovuto essere ratificato nel settembre. Non si sa se un litigio degenerato o
un vero e proprio attentato portò alla morte del duca di Borgogna. Nel 1420 si giunse al trattato
di Troyes, stipulato da Enrico V e, in nome di Carlo VI di Francia, dal nuovo duca di Borgogna

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Filippo il buono. Enrico proponeva di sposare Caterina, figlia di Carlo VI, alla morte del quale
avrebbe regolarmente ereditato anche il trono di Francia. Questo trattato aveva però trascurato i
diritti di Carlo Delfino di Francia, cioè principe ereditario in quanto figlio di Carlo VI. Nel 1422
scomparvero sia Carlo VI di Francia che Enrico V d'Inghilterra, le due corone passarono quindi
ad Enrico VI, ma gli avversari proclamarono il delfino re, che assunse il nome di Carlo VII. Tutto
sembrava propendere a favore di Enrico, che aveva dalla sua prestigiosi duchi, ma la guerra prese
una piega inaspettata, in parte dovuta alla misteriosa figura di Giovanna d'Arco. Durante la
giovinezza questa cominciò a sentire delle voci (da lei identificate con quella dell'arcangelo
Michele) che la incitavano a mettersi al servizio di Carlo VII per liberare la Francia degli inglesi.
La donna riuscì a convincere il seguito del sovrano e le vennero affidati degli uomini con i quali
essa riuscì a liberare Orléans, assediata da Enrico VI. La guerra riprese allora con un nuovo vigore
e si giunse all'incoronazione nel luglio del 1429 di Carlo VII di Valois. Dopo questi eventi, Carlo
cominciò a intravedere la possibilità di guadagnarsi l'intero paese con le trattative e Giovanna,
che incarnava l’idea di un patriottismo mistico, era ormai diventata un personaggio scomodo.
Ostacolata in ogni modo, tentò una iniziativa personale che tuttavia portò alla sua cattura. Venne
venduta agli inglesi che montarono contro di lei un processo inquisitoriale per eresia e
stregoneria. Venne bruciata come eretica nel maggio del 1431. A distanza di qualche anno venne
aperta l'inchiesta relativa a Giovanna, che culminò con un processo di riabilitazione e nel 1920
divenne Santa. Morta Giovanna, Carlo si accordò con il trattato di Arras (1435) con Filippo il
buono, duca di Borgogna, e nel 1444 giunse a siglare a Tours una tregua con il re d’Inghilterra. Le
ostilità ripresero qualche anno dopo a causa della presenza inglese in Normandia e Guienna e si
protrassero fino al 1453, anno in cui agli inglesi era rimasta in Francia soltanto Calais. La Guerra
dei cent’anni si andò spegnendo dopo il 1453 senza un vero e proprio trattato di pace.

La Francia dopo la guerra


Per riorganizzare il regno, il re di Francia doveva abbattere la presenza dei feudatari, soprattutto
il duca di Borgogna e quello di Bretagna, che impedivano una gestione unitaria. Il figlio di Carlo
VII, Luigi XI si batté in questo senso, ma fin da subito la grande nobiltà cercò di resistergli
fondando la Lega del pubblico bene. Il sovrano riuscì, con dei trattati, ad assorbire una serie di
territori appartenuti agli Angiò e alla potenza borgognona; restava quindi solo il ducato di
Bretagna. Tale questione fu
sistemata nel 1491 attraverso il
matrimonio tra il nuovo re Carlo
VIII e la duchessa Anna. Era ormai
nata la Francia moderna. Le
questioni ecclesiastiche erano
regolate dalla “prammatica
sanzione di Bourges” del 1438 che
stabiliva i presupposti per una
chiesa gallicana rispettosa
dell'autorità spirituale del Papa
ma controllata dal re sotto il
profilo politico Si procedette
dunque a una burocratizzazione
del Regno. Espressione di questo
processo fu la crescita della
nobiltà di toga.

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L’Inghilterra dopo la guerra
In Inghilterra l'andamento sfavorevole dell'ultimo periodo della Guerra dei cent’anni avevi
indebolito la corona. La moglie di Enrico VI, Margherita d’Angiò, aveva cercato allora di
mantenere il potere alleandosi con il casato di Lancaster e con quello di Beaufort, sollevando le
reazioni di Riccardo, duca di York, il quale aveva finito col mettere in discussione il titolo dei
Lancaster al trono. Ne seguì una lunga guerra, detta delle due rose (1455-1485). La guerra si
concluse con la sconfitta dei Lancaster e la nomina a re di Edoardo IV, figlio di Riccardo di York.
Ad aggravare la crisi inglese si aggiungevano intanto le intromissioni di Luigi XI di Francia in
appoggio ai Lancaster e di Carlo duca di Borgogna in appoggio agli York. Gli inglesi, ormai stanchi
della guerra, cercavano un sovrano che potesse porre fine alle discordie; venne individuato in
Enrico Tudor, discendente dei Lancaster e sposato con una York. Forte dell'appoggio francese,
Enrico batté l'avversario nella battaglia di Bosworth (1485) e poté ascendere al trono
d'Inghilterra col nome Enrico VII. Anche Enrico si rese conto che se la corona avesse voluta essere
forte avrebbe dovuto eliminare le resistenze feudali. Egli governò, quindi, con l'aiuto di due
consigli il cui compito era quello di fornire appoggi giuridici e amministrativi atti a ridurre al
minimo i poteri dei ceti feudali. Si occupò inoltre di aumentare l'estensione delle terre
direttamente soggette alla corona e incoraggiare lo sviluppo di una gentry, cioè di una nuova
piccola nobiltà di origine borghese che forniva al re i funzionari.

Il ducato di Borgogna
Filippo il buono, duca di Borgogna, era riuscito a creare
quello che molti storici definiscono uno “stato
borgognone". Alla sua morte, gli succedette Carlo il
temerario, che tentò di reprimere le interruzioni delle
Fiandre e rafforzò le difese dei suoi domini, con il chiaro
intento di trasformarli in un regno, inimicandosi Luigi XI.
Durante alcune rivolte il temerario giunse addirittura a
rinchiuse il sovrano nelle mura cittadine, facendolo di
fatto prigioniero; temendo per la sua vita il re firmò un
trattato alle condizioni richieste. Nel 1468 anche diverse
città della zona renana vennero cedute a Carlo dagli
Asburgo, bisognosi di rimpinguare le finanze. Nel
frattempo, continue erano rivolte a causa della sua
politica finanziaria. Nel 1471 Carlo si dichiarò affrancato
dalla sovranità regia, rendendo evidente che lo stato
borgognone era sulla via di non essere più un vassallo, ma
sovrano a pieno titolo. Questa mossa pose Carlo in una
situazione pericolosa anche nei rapporti con l'impero, del
quale era per alcuni territori vassallo. Anche gli ultimi anni del suo regno furono costellati da
rivolte, proprio durante una di queste egli trovò la morte (1477). Morto senza eredi maschi, il re
di Francia si impossessò di larga parte dei territori del ducato di Borgogna, mentre il matrimonio
della figlia di Carlo, Maria, con il figlio dell'imperatore, Massimiliano, portò all'impero il
Lussemburgo ed alcune province fiamminghe. Nelle aree meridionali la Confederazione elvetica,
forte delle vittorie militari, poté invece dare inizio alla sua tradizione di indipendenza La
Federazione borgognona si frantumò definitivamente con il trattato di Arras del 1483.

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La Svizzera
Dalla crisi dell’Impero Romano-germanico, era nata nel corso del Trecento una nuova
organizzazione federale, la Svizzera; termine originariamente indicante l'area contadina di
Schwyz. Questa dipendeva direttamente dall'impero, ma si sentiva minacciata dal potere degli
Asburgo, pertanto ne nacque una lega, costituita da popolazioni di altre aree limitrofe (cantoni).
La lega elvetica dovette prima scontrarsi con gli Asburgo, poi, nel corsdel Quattrocento,
fronteggiare le mire espansionistiche dei duchi di Borgogna. Nel 1499 la pace di Basilea avrebbe
sancito definitivamente l'indipendenza della Confederazione.

La penisola iberica
Uscita da un periodo di guerre civili, la Spagna era
divisa in tre regni: quello di Castiglia, occupato
innanzitutto nell'opera di reconquista, quello di
Aragona e l'emirato di Granada. L’espansione
castigliana non aveva troppo giovato né alla cultura, né
all'economia iberica: nelle città musulmani ed ebrei
erano obbligati dalle autorità a vivere in quartieri
speciali (ghetti) e vessati in ogni modo; le campagne,
che i contadini arabo-africani avevano trasformato in
giardini, erano state convertite per l'allevamento di
ovini dai cristiani, riportando pascoli magri e desolati.
Il compito di cristianizzare i territori liberati era demandato a una severa inquisizione guidata dai
domenicani. Anche nel Regno di Castiglia l'autorità iniziava a comprendere che per dare forza alla
corona era necessario ridurre il potere della nobiltà, che aveva voce nelle cortes, una specie di
Parlamento. Per far ciò il re si appoggiò alle città, offrendo loro poteri giurisdizionali e favorendo
la creazione di federazione cittadine (hermandades). Ben diverso era il clima dell’Aragona,
soprattutto a Sud, che si allineava tra le potenze commerciali e marittime del tempo. Nel 1469 i
due eredi ai troni di Castiglia e d'Aragona, rispettivamente Isabella e Ferdinando, si sposarono. I
due non fusero Castiglia e Aragona in un unico stato, ma lo governarono mantenendo ciascuno i
rispettivi costumi e tradizioni. La reconquista venne ultimata nel 1492 con la presa di Granada.
Oltre ai regni dei re cattolici, nella penisola iberica restava il Regno del Portogallo, interessato alle
vie marittime verso l'Africa e l'oriente.

Gli stati centro orientali e settentrionali


- Nel secolo precedente si era avviata la colonizzazione dei territori slavi orientali da parte
dei monaci-cavalieri dell'ordine teutonico, che avevano fondato un vero e proprio stato
esteso tra la Prussia e la Lituania. Nella prima metà del XIV secolo essi dovettero però
misurarsi con la Polonia, la quale era stata riunificata. Per un breve periodo Ungheria e
Polonia furono unite, ma alla dissoluzione l'Ungheria si unì alla Boemia mentre la Polonia
alla Lituania.

- Ascendeva nel frattempo il principato di Mosca, nato attorno la metà del XII secolo e
cristianizzato secondo la confessione ortodossa. I principi di Mosca, che nel 1439
rifiutarono di riconoscere la, peraltro, breve unione della chiesa cattolica con quale
ortodossa, si posero a capo di una chiesa nazionale russo-ortodossa. Alla caduta
dell'impero bizantino, del quale erano vassalli, presero ad atteggiarsi a suoi eredi,

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proclamando la loro capitale Mosca la terza Roma. Nel 1462 Ivan III, sposata la
principessa bizantina Zoe, si autoproclamò imperatore (czar) di tutte le russie.

- Nel corso del Trecento, l'Hansa aveva cresciuto il suo potere commerciale tra Baltico e
mare del Nord, monopolio che andava a danno delle città scandinave. Per resistere a ciò
nel 1389 i regni di Svezia, Norvegia e Danimarca dettero vita all'unione di Kalmar, che si
dissolse nel 1523.

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CAPITOLO 28
Agricoltura in crisi
Dall’XI al XIII secolo la popolazione europea conobbe un incremento sostanziale, la mortalità ebbe un
regresso, furono fondate nuove città e i traffici conobbero uno straordinario sviluppo. Oggi si tende a
considerare che in questo processo un ruolo importante sia stato rivestito dal clima. Il fatto che la crisi
demografica del Trecento si sia manifestata attraverso la fame assai prima che attraverso la peste ha
indotto la maggioranza degli studiosi a ritenere che la sua causa sia da rintracciare innanzitutto in un
rapporto sfavorevole tra l'aumento della popolazione e la mancanza di prodotti. In assenza di una vera
e propria rivoluzione nei metodi agricoli, infatti, per rispondere alla crescente domanda erano state
estese le superfici coltivabili, che tuttavia verso la fine del Duecento terminarono. La precarietà di
questo equilibrio si rivelò drammatica quando nei primi decenni del Trecento il continente europeo
dovette affrontare una fase di raffreddamento e peggioramento climatico, che favorirono la fame e la
proliferazione di malattie. Il primo sintomo di difficoltà è rappresentato dalla grande carestia del 1315-
1317 che colpì la maggior parte dell'Europa. I prezzi dei cereali aumentarono vertiginosamente,
provocando la morte di persone e bestiame. A ciò è da aggiungere uno stallo della moneta in oro con
conseguente fallimento delle banche, spesso favorito dalla mancata restituzione dei prestiti da parte dei
sovrani europei.

La peste e le guerre
Il tracollo del continente europeo raggiunse l’apice con l’epidemia di peste del 1347-1350. Si pensa sia
stata portata in Europa dalla Cina da navi genovesi, per poi diffondersi da Messina a tutto il
Mediterraneo. La quasi unanimità degli studiosi identifica la peste nera come un'infezione sostenuta da
Yersinia pestis, batterio che si trasmette generalmente dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci. Ciò
spiegherebbe la sua rapida diffusione nella primavera del 1348. Delle epidemie apparse nel corso della
storia, solo la peste di Giustiniano del 542 è confrontabile con l'epidemia del Trecento. La sua diffusione
fu favorita dall'indebolimento della popolazione, causa denutrizione, e dalla mancanza di igiene nei
centri urbani, spesso sovrappopolati. Si registrano aree, come in Italia, dove i decessi colpirono il 30-
35% della popolazione. L'epidemia scomparve nel corso del 1350, pur continuando a serpeggiare per il
continente in successive ondate durante il XV-XVI sedicesimo secolo, fino alla successiva epidemia
del 1630. Sarebbe stato necessario attendere fino al Settecento perché i vuoti causati dal tracollo
trecentesco si riempissero. Questa grave situazione non deve essere imputata soltanto alla peste, ma
anche agli scontri che devastarono l’Europa nel corso del Quattrocento. Più che gli scontri in campo
aperto, queste guerre erano fatte di razzie, di incendi ai danni di campi coltivati, di interruzioni delle vie
commerciali.

La riconversione delle campagne


La crisi demografica aveva determinato il crollo dei prezzi dei cereali mentre, a causa della diminuzione
dei contadini, il costo della manodopera cresceva. Si optò quindi per una riconversione delle terre, un
tempo riservate ai cereali, ora adibite alla coltivazione di piante a usi industriali (canapa, lino, piante
coloranti) o pascolo. La crisi portò i piccoli proprietari terrieri a vendere le loro proprietà, cosa che
comportò il concentrarsi della terra e della ricchezza fondiaria in un più limitato numero di mani. I
signori prediligevano una conduzione indiretta dei loro beni di fondiari, cedendo in affitto oppure, come
accadeva in Toscana, dietro uno speciale contratto detto mezzadria, che prevedeva la spartizione dei
raccolti tra proprietario e lavoratore del fondo.

Le rivolte
Molti contadini privi di sostentamento cercavano rifugio nelle città, dove alcune istituzioni caritatevoli
assicuravano loro un minimo di sopravvivenza giornaliera. Questo afflusso di sventurati all'interno delle

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mura urbane minacciava i ceti subalterni di cittadini, in quanto provocava un sovrappiù di manodopera.
Da qui il dilagare di rivolte nelle città, spesso ai danni degli emarginati. Le rivolte erano
prevalentemente motivate da disagio nei confronti della classe dirigente, come testimoniato dalla rivolta
detta jacquerie (lavoratori della terra), o quella dei ciompi (1378), insorta tra Perugia, Siena e Firenze.
I ciompi erano coloro che producevano i panni di lana, tenuti in bassissima considerazione sociale, che
insorsero per ottenere potere decisionale e che l'Arte della lana non avesse più giurisdizione su di loro.
Nonostante l’istituzione di tre nuovi Arti, definite del popolo di Dio, queste durarono solo quattro anni.

Le compagnie di ventura
Il susseguirsi di guerre locali rendevano obsolete le vecchie milizie cittadine, occorrevano milizie ben
addestrate che facessero della guerra un'occupazione permanente, senza sottrarre forza lavoro. Nacque
così la compagnia di ventura, una specie di società commerciale i cui componenti erano armati ed esperti
in guerra. Essi si ponevano al seguito di un capo e venivano assoldati, come mercenari, dai governi
secondo un contratto detto condotta (condottiero). I soldati (assoldare) non avevano alcun interesse né
a condurre guerre sanguinose, né nei confronti delle cause che erano chiamati a servire, ecco perché
spesso accusati di tradimento. Inoltre, essi cercarono in ogni modo di impedire una pace duratura
dandosi al saccheggio se disoccupati. La loro assunzione nasceva spesso dalla necessità di impedirne
gli eccessi.

La fine del mondo


Era difficile spiegarsi il perché del susseguirsi di annate cattive, epidemie, guerre, dell'avanzata dei
turchi, si trovò quindi una risposta nell’operato del diavolo e delle forze del male, tese a infliggere ai
fedeli prove più dure con l'avvicinarsi della fine del mondo. Si era alla ricerca dei complici del demonio,
trovati nelle streghe e negli ebrei. Questa sensibilità religiosa, imbevuta di paura, era in parte favorita
dai predicatori popolari che se ne servivano per incrementare le donazioni alle chiese e l'acquisto di
indulgenze.

Fra crisi e sviluppi: un problema aperto


Dopo i grandi fallimenti a catena degli anni Quaranta, le case bancarie imparano a dotarsi di una
struttura più flessibile in modo che il fallimento di una qualche filiale non comportasse il cedimento
dell'intero complesso. Si facevano, intanto, largo anche attività industriali dislocate non più in città, ma
in campagna, dove la manodopera era più docile e a miglior mercato. I terreni vennero convertiti ad uso
industriale. Pare che dopo la metà del Trecento la popolazione europea, pur diminuita e impoverita,
consumasse globalmente di più, ciò comportò l'uso di nuovi tipi di navi. A fronte di questi progressi,
nel campo del commercio si perfezionarono sistemi già esistenti come la lettera di cambio. Resta aperto
il problema della valutazione complessiva dell'età a cavallo tra Trecento e Quattrocento: alcuni
interpretano questo periodo come un lungo momento di depressione dell'economia e della società, altri
sostengono invece che il brusco calo demografico portò un complessivo miglioramento del rapporto tra
popolazione e risorse, divenuto insostenibile nel primo Trecento.

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CAPITOLO 29
Il paradosso italiano
La crisi del Trecento, culminata nella peste, colpì principalmente l'Italia settentrionale, sede di
istituzioni comunali floride. A ciò si aggiunse un crescente malessere causato dalla contrapposizione
tra sfruttati e privilegiato, che portò a numerose rivolte. Intanto scomparivano molti stati comunali
minori conquistati o aggregati agli stati maggiori. Tale processo finì col determinare l'ascesa di forti
personalità, detentrici della forza militare, che si imposero ora nel nome di una parte guelfa o ghibellina
che fosse, ora presentandosi come pacieri. Questi signori per governare si appoggiavano a titoli di
legittimazione che venivano loro assegnati dal popolo, divenendo podestà o capitani del popolo. Per
rafforzare il loro ruolo necessitavano di una legittimazione superiore, tale da trasformarli in vicari
imperiali (o pontifici). Fu questo il passaggio dalla Signoria al Principato. Vi furono città che tuttavia
riuscirono a rimanere repubbliche, come Firenze e Venezia. Questo processo di passaggio dallo stato
cittadino allo stato regionale si compiva in sincronismo con il processo delle grandi monarchie
nazionali. Nonostante l'Italia facesse parte dell'impero, l'idea di una regalità italica era molto sentita già
alla fine del Duecento e nel corso del secolo successivo non mancarono signori che ambirono a diventare
anche re d'Italia. Contrariamente a quanto si pensava in età risorgimentale, in questo periodo non è
possibile rintracciare un antenato dell'unità italiana, ma un sistema che, se si fosse affermato, avrebbe
portato l’Italia ad avere una organizzazione federale.

I primi tentativi di espansione


In Italia, nel XIV secolo, molte furono le signorie che tentarono di imporsi in una città o in un'area
comprendente vari centri urbani, ma soltanto alcuni di esse ebbero successo. Il primo progetto di ampio
respiro venne condotto dal figlio dell'imperatore Enrico VII, Giovanni di Lussemburgo, che divenuto
padrone di Brescia nel 1330 cercò di espandere il suo potere sull'Italia centro-settentrionale. Per tutta
risposta gli si oppose una Lega, composta tanto di guelfi quanto di ghibellini, di cui facevano parte
Ludovico il bavaro, i Visconti di Milano, gli scaligeri di Verona, i Gonzaga di Mantova, gli estensi di
Ferrara, la Repubblica di Firenze. Sarebbero stati in seguito i Visconti di Milano a tentare ancora una
volta la via dell'unificazione del centro-nord, ma a tali progetti si sarebbero opposte Firenze e Venezia.
L’Italia si presentava quindi frammentata (e lo sarebbe stata fino all’Ottocento) in: signoria dei Visconti
a Milano, repubbliche di Venezia e di Firenze, stato della Chiesa, regno angioino di Napoli e aragonese
di Trinacria. Accanto a questi stati principali continuavano ad esistere vari stati minori (contea di
Savoia, repubblica di Genova, marchesato degli Estensi).

Milano
In Lombardia l'egemonia milanese era maturata sin dai primi del XVI secolo grazie alle sue manifatture
metallurgiche e tessili. L’egemonia sulla città era contesa tra i Della Torre (guelfi) e i Visconti
(ghibellini). Prevalsero i secondi, grazie ad Enrico VII che insignì Matteo Visconti del titolo di vicario
imperiale. Il suo progetto fu continuato dall'arcivescovo Giovanni, che divenne temporaneamente
padrone di Genova e di Bologna. La volontà di creare un una Signoria nord-occidentale venne dissipata
dai nipoti, che si spartirono lo stato. Le fortune della casa Visconti vennero rialzate da Gian Galeazzo,
che intraprese una decisa politica espansionistica verso la pianura padana, la Toscana e la stessa Italia
centrale. Era evidente che ambisse a formare un grande stato delle Alpi fino alle porte di Roma. Nel
1395 l'imperatore romano-germanico concesse a Gian Galeazzo la corona ducale di Milano, in questo
modo egli poté mutare la Signoria in Principato. Naturalmente il Ducato lombardo non venne costituito
in stato unitario; le singole città mantennero in genere le loro tradizioni e i loro usi, salva l'obbedienza
e la fedeltà al duca. Alla morte di Gian Galeazzo il dominio da lui costituito parve infrangersi. La
situazione si rialzò quando il potere passò nelle mani di Filippo Maria Visconti, il quale si era
imparentato anche con i Savoia in modo da assicurarsi buoni rapporti con i vicini. L’atteggiamento

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espansionistico del Visconti provocò le preoccupazioni di Firenze e di Venezia, anch'esse impegnate in
una politica di acquisizioni territoriali. Seguì una lunga guerra terminata nel 1433 con la pace di Ferrara.
Il conflitto riprese subito dopo quando il Visconti volle inserirsi nella lotta angioino-aragonese per il
Regno di Napoli, appoggiando prima gli angioini, poi gli aragonesi. Questo voltafaccia causò
l'immediata discesa in campo contro di lui di Ferrara di Firenze, tradizionalmente filoangioina. Alla
morte di Filippo Maria si tentò di instaurare un regime comunale aristocratico detto “aurea Repubblica
ambrosiana". L'esperimento repubblicano durò tre anni. La vicina Repubblica di Venezia intendeva
approfittare della crisi milanese per ingrandire i suoi domini e i Lombardi commisero l'ingenuità di
affidarsi per la difesa del loro stato al condottiero Francesco Sforza, genero di Filippo Maria. Francesco
rivendicò l'eredità viscontea e si fece incoronare duca. Lo Sforza di era nel frattempo alleato con i
Medici di Firenze, provocando un cambiamento dell’asse delle alleanze.

Venezia
La riforma del governo cittadino in senso oligarchico, detta “serrata del maggior consiglio” (1297)
aveva conferito alla città un assetto più stabile, sancendo che da allora in poi la l'accesso al supremo
organo di governo della Repubblica sarebbe stato riservato a un ristretto numero di famiglie. I ceti
subalterni tentarono in seguito di recuperare in tutto o in parte le loro posizioni appoggiandosi al potere
del doge. Questi tentativi furono trattati alla stregua delle ribellioni, facendo sì che il governo
oligarchico instaurasse appositi organi. La crisi del Trecento aveva messo in ginocchio numerose
famiglie veneziane, che cercarono di risollevarsi investendo nella gestione di beni fondiari. Ciò provocò
il contrasto all'interno del ceto di governo fra due tendenze: quella che stimava più importante riprendere
e mantenere il dominio dei mari orientali e, quindi, condurre lo scontro con Genova; quella che riteneva
più importante consolidare il dominio nell'entroterra. La prima direzione espansionistica dei veneziani
riguardò l'arco alpino e le pianure fra Adige e Po. Intanto, continuava lo scontro con Genova per
l'egemonia sui traffici dell'Egeo e del Mar Nero (guerra di Chioggia). Ai primi del Quattrocento, con la
scomparsa di Gian Galeazzo Visconti, i veneziani credettero giunto il momento di espandersi sulla
terraferma. Per frenare la potenza milanese, Venezia creò una lega anti-viscontea che condusse ad una
guerra terminata con la pace di Ferrara (1433), che portò nuovi territori a Venezia. Furono proprio i
successi conseguiti dall'energia politica veneziana a consigliare i fiorentini a trasferire il loro appoggio
allo Sforza.

Firenze
Nel primo Trecento fiorentini erano governati da una oligarchia di grandi imprenditori che si
riconoscevano nella fazione guelfa nera, espressione delle Arti Calimala (importatori di lana o di
tessuti), Lana (produttori di panni di lana) e Cambio (banchieri). La stabilità della Repubblica era
sorvegliata da un'organizzazione in mano ad alcune famiglie del popolo grasso che includeva tuttavia
alcuni esponenti della vecchia aristocrazia, i magnati. Nella prima metà del secolo i fiorentini subirono
dure sconfitte da parte dei signori ghibellini di Pisa, Lucca e Pistoia e furono pertanto costretti ad
affidare il governo a Roberto d’Angiò re di Napoli e a suo figlio Carlo di Calabria, che inaugurò un
primo tentativo di Signoria cittadina. Successivamente un tentativo di Signoria fu portato avanti da
Gualtieri VI di duca d'Atene, ma durò pochi mesi. Dopo il crac finanziario causato dalla peste, banchieri
e mercanti ripresero il controllo della situazione e ressero da allora in poi il governo, pur contendendosi
il potere, giacché erano divisi in due fazioni: Albizzi, sostenuti dalla Lana e dagli aristocratici; Ricci,
poi sostituiti dai Medici, sostenuti dai ceti medi e popolari. Intanto Firenze acquisiva progressivamente
il dominio delle città toscane, attuando il passaggio da stato cittadino a stato regionale. La guerra contro
Filippo Maria Visconti esasperò l'opinione pubblica soffocata dalle spese. Ne derivò un inasprirsi delle
lotte cittadine che, in un primo momento, condussero alla vittoria degli Albizzi e all'esilio di Cosimo
de Medici (1433)., ma già l’anno dopo venne richiamato in patria. Cominciò allora per Firenze un

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nuovo esperimento definito criptosignorile. A Firenze si era abituati a contrapporre tirannia e repubblica
e Cosimo, ben conscio di ciò, si guardò dall’atteggiarsi a conquistatore, limitandosi a recitare la parte
del saggio e moderato consigliere privato del governo comunale, che rimase inalterato nelle sue
tradizionali forme repubblicane. Raramente assunse cariche pubbliche e quando lo fece curò sempre
che fossero secondarie. L'unica prerogativa che Cosimo aveva lasciato per sé era la revisione delle liste
elettorali, ciò significava che tra il 1434 e il 1464 (morte) non vi fu governo cittadino che non fosse
espressione più o meno in diretta della sua volontà. Cosimo fu anche uno dei più decisi protagonisti del
rovesciamento delle alleanze, preoccupato dalla politica espansionistica del doge e del suo
l'avvicinamento in funzione anti-milanese al sovrano aragonese di Napoli.

Lo “Stato della Chiesa”


I domini temporali della Chiesa, un vasto ma non omogeneo territorio che dall’Emilia e dalla Romagna
giungeva fino al Lazio, comprendevano arie aree di varia provenienza. Anche lo sviluppo di questa
vasta area era ineguale: vi erano floride città e territori caratterizzati da un'economia pastorale. Roma
stessa era una città relativamente piccola, ma a partire dal Giubileo voluto nel 1300 da Papa Bonifacio
VIII, che aveva richiamato nella città folle di pellegrini, il denaro aveva preso circolare e aveva
cominciato a emergere un ceto medio di artigiani, barcaioli, osti. La vita politica cittadina, formalmente
accentrata in un Senato, era in realtà dominata dalla lotta politica tra le grandi famiglie dei Colonna e
degli Orsini. Tra le città che formalmente riconoscevano il dominio temporale della Chiesa, solo
Bologna e Perugia avevano saputo sviluppare una vita comunale, le altre città avevano visto sviluppare
fenomeni signorili. L'abbandono di Roma nel periodo della cattività avignonese aveva impoverito
ulteriormente questo territorio, anche se durante quegli anni i pontefici avevano più volte inviato uomini
di legge e di guerra per cercare di riaffermare i loro diritti e riorganizzare in qualche modo il loro stato.
A Roma un primo tentativo di riorganizzare la vita cittadina era stato fatto da Cola di Rienzo, un plebeo
innamorato della cultura latina, che aveva inaugurato un governo dispotico e demagogico. Egli presentò
ad Avignone nel 1343 a Papa Clemente VI come ambasciatore della corporazione degli artigiani. Cola
rientro a Roma proclamandosi tribuno e successore dei tribuni della plebe antichi, guidò una sommossa
popolare, si impadronì del Campidoglio e sgominò i nobili che cercavano di opporsi. Poté così
instaurare un regime di terrore popolare, caratterizzato da una quantità di feste cavalleresche e di corte.
Cacciato da Roma, Cola cominciò con pochi seguaci a vagare per l'Italia, venendo influenzato dalle
profezie dell'eremita calabrese Gioacchino da Fiore. Unì così alla componente laica del suo
repubblicanesimo un afflato mistico. Ormai convinto di essere un ambasciatore angelico, Cola si recò
dall'imperatore Carlo nella speranza di ricevere aiuto, questi invece lo arrestò e lo inviò ad Avignone,
dove venne processato dall'inquisizione. Nuovamente aiutato da quanti alla curia avignonese speravano
in una conversione spiritualistica del papato, riuscì a guadagnarsi la fiducia del nuovo Papa Innocenzo
VI e rientro a Roma in veste di senatore. I romani, stanchi dell'oppressione nobiliare, si erano ancora
una volta ricreduti sul conto di Cola e lo accolsero trionfalmente. Egli tuttavia si abbandonò a ogni sorta
di violenze finché nell'ottobre 1354 cadde vittima di una nuova rivolta. Altro tentativo avviato dai
pontefici fece leva su Ladislao I d’Angiò, re di Napoli, che divenne il vero moderatore della politica
romana. Dopo Ladislao la città fu contesa a lungo tra condottieri, fino al ritorno di Papa Martino V
(1420), che inaugurò un regime accentrato riducendo a pura forma le istituzioni comunali della città.
Egli avviò anche un pratica di governo caratterizzata dall'assegnazione di cariche a parenti (nepotismo),
che ridusse i disordini.

L'affermazione degli Aragonesi nel meridione d'Italia


Il processo di formazione di un ceto medio urbano di mercanti e produttori, avviato con i Normanni,
ebbe con Angioini e gli Aragonesi una battuta di arresto. Figura di spicco in questo contesto fu Roberto
d'Angiò, uomo di cultura, considerato uno dei monarchi più saggi della cristianità, capo riconosciuto

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dalla parte guelfa della penisola. Egli favorì i banchieri fiorentini dei quali permise l'installazione a
Napoli e in tutto il suo Regno. Oltre che governare l'Italia meridionale peninsulare, egli aveva il potere
sulla Provenza (antico feudo della sua casa) e su parte del Piemonte, inoltre si fregiava del titolo, sia
pur solo nominale, di re di Gerusalemme. Tanta potenza era però più apparente che reale: i suoi domini
provenzali e piemontesi erano minacciate, il regno meridionale era preda di forze feudali,
l'assoggettamento dell'economia napoletana al potere finanziario dei banchieri fiorentini impedì lo
sviluppo di una forte borghesia meridionale. Le cose peggiorarono con la scomparsa di Roberto,
provocando lotte per la successione. La corona andò alla figlia di Carlo, duca di Calabria, la regina
Giovanna che tuttavia commise l'errore di lasciarsi coinvolgere una serie di scandali, venendo
scomunicata. Il Regno tornò ad essere conteso tra diversi familiari, ne derivò una guerra civile fino a
quando non salì al trono Ladislao. Egli, sfruttando il grande scisma e appoggiandosi al Papa di Roma,
poteva attuare un programma espansionistico che giunse ai confini della stessa Repubblica di Firenze.
Alla sua morte continuarono le lotte tra angioini e aragonesi, fino alla vittoria di Alfonso V di Aragona,
anche grazie ai Visconti. Il suo trionfo apriva la prospettiva di un autentico impero aragonese nel
Mediterraneo, il che preoccupava sia Venezia sia Genova, minacciate nella loro politica marina, ma
anche Firenze tradizionalmente filo-angioina. Nacque una risistemazione dell'asse europeo e italiano
delle alleanze: da un lato Aragonesi e Visconti, dall’altro Genova e Venezia. Alla morte di Filippo
Maria Visconti, Alfonso tentò di impadronirsi del Ducato di Milano, ciò spinse Firenze ad appoggiare
la candidatura dello Sforza. Si delineò così un nuovo asse di alleanze: i genovesi si riavvicinarono a
Milano e a Firenze, mentre i veneziani preferirono appoggiare gli aragonesi.

Dalla pace di Lodi alla fine della politica dell'equilibrio


Ai primi anni del XV secolo era dunque chiaro che nessuno degli stati italiani maggiori avrebbe mai
potuto prevalere sull'altro. La Francia inoltre stava uscendo dalla guerra dei cent'anni e iniziava ad
avanzare pretese di successione su Milano e Napoli, uno stato di discordia quindi non giovava né a
Francesco Sforza né ad Alfonso. A ciò si aggiunse che nel 1453 Costantinopoli era caduta in mano ai
turchi, i quali minacciavano gli interessi commerciali di Firenze, Venezia e Genova, le quali
necessitavano di una pausa dalla politica italica. Si giunse perciò alla pace di Lodi (1454), con la quale
si fissava il confine tra Milano e Venezia all'Adda e si stabiliva una specie di implicita intesa sulla quale
sulla base della quale i cinque grandi stati territoriali italiani si impegnavano a mantenere lo status quo
nel reciproco interesse. Il quarantennio 1454-1494 fu caratterizzato da una pace generale, nonostante
qualche colpo di mano che veniva risolto quanto prima. Si ricordano i conflitti per la successione a
Firenze. L'eredità medicea era passata nelle mani di Lorenzo detto il magnifico. Il papa Sisto IV credette
giunto il momento di ampliare i suoi domini familiari accordandosi con l'aristocrazia fiorentina che
detestava casa Medici. Il piano elaborato dalla famiglia dei Pazzi consisteva nell'uccidere Lorenzo e il
fratello Giuliano e restaurare la repubblica. I pazzi erano convinti che il mutamento di regime non
avrebbe provocato grandi disordini, mentre il pontefice sperava che la situazione Fiorentina si rivelasse
ingovernabile a Firenze e avesse avuto bisogno di un signore, da lui fornito. Si giunse quindi alla
congiura dei pazzi (1478). Pur morendo Giuliano, Lorenzo riuscì a fuggire e il piano fallì. Il popolo
insorse contro i Pazzi e i loro alleati che furono linciati. Poiché tra di loro vi era anche un cardinale il
Papa rispose dando l'interdetto alla città; ne conseguì una guerra tra il Papa, appoggiato dal re di Napoli,
e Firenze, appoggiata da Milano e Venezia. A pochi anni di distanza moriva anche Maometto II (1481),
il che permetteva a Venezia di riprendere il suo progetto espansionistico. Anche ciò portò ad un
conflitto. Il contributo di Lorenzo de 'Medici nelle questioni politiche italiane fu tale che egli iniziò ad
essere visto come l'ago della bilancia. Lorenzo era scomparso da due anni quando nel 1494 si verificò
l'episodio che scompaginò definitivamente la politica dell'equilibrio. La crisi cominciò con la morte di
Ferdinando II di Napoli. Alcuni baroni napoletani, rifugiatisi in Francia dopo lo sventamento della
congiura del 1485 ordita ai danni di Ferdinando, e Ludovico Maria Sforza, il Moro, convinsero il re

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Carlo VIII a scendere in Italia, approfittando della precaria situazione del regno meridionale, per
rivendicare l'eredità angioina. Il Moro reggeva il Ducato di Milano per conto del nipote ancora
minorenne; avrebbe voluto a questi sostituirsi ma ne era impedito dal fatto che il nipote aveva sposato
la nipote di Ferdinando I di Napoli e ne aveva avuto un figlio. L’unica possibilità per il Moro consisteva
nell'eliminazione dell'ipoteca napoletana. Con la discesa di Carlo VIII in Italia si chiusa la fase
dell'equilibrio e si inaugurò un duro periodo di contese.

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CAPITOLO 30
L’ascesa degli ottomani
Mentre la maggior parte delle monarchie occidentali erano avviate al consolidamento, si facevano strada
in Anatolia (Turchia) i nuovi protagonisti della storia islamica nel Mediterraneo, prendendo il posto del
sultanato d'Egitto. La dinastia ayyubide non seppe mantenere l'unità del suo immenso sultanato; i
successori del Saladino si divisero l'eredità in due sultanati, con rispettiva capitale Damasco e Il Cairo.
Il primo di essi si frammentò nel corso della prima metà del XIII secolo, il secondo venne travolto nel
1250 da un colpo di stato organizzato dalle sue guardie del corpo, i mamelucchi. Questi si sostituirono
sul trono fino al 1518, allora che l'Egitto sarebbe entrato a far parte dell'impero degli ottomani. Si
trattava di una tribù turca che nel terzo decennio del XIII secolo, spinta dall'Asia centrale verso ovest
dall'espansione mongola, si era posta al servizio di alcuni sultani, che le avevano assegnato un piccolo
territorio non lontano da Costantinopoli. A partire dalla fine del Duecento, sfruttando le crisi che
colpirono le zone circostanti, riuscirono ad ingrandire i loro possedimenti. Troppo tardi Bisanzio si era
accorta che questa nuova potenza stava circondando e quasi strangolando la capitale. I turchi riuscirono
a penetrare nei Balcani impossessandosi di Adrianopoli (Turchia), che divenne la nuova capitale.
Attorno alla corte nacque un centro di cultura dove venivano coltivati l'arabo, il persiano ed il turco.
Dal punto di vista militare si affidarono alla leva forzata di ragazzi cristiani educati alla fede islamica.
Questi erano acquartierati in appositi monasteri-caserme, obbligati al celibato e allevati in una ferrea
disciplina: nacquero così i giannizzeri.

Espansione degli ottomani


Stretto tra una Tracia è una Bitinia ottomane, l'impero bizantino era ridotto a poco più della capitale.
Intanto, i turchi rendevano la vita difficile alle navi genovesi e veneziane, tanto da allarmare l’Europa.
Una conferenza indetta da Avignone da Papa Innocenzo VI si risolse in un fiasco solenne. Nel 1361 gli
ottomani arrivarono sotto le mura di Costantinopoli, preoccupando non poco i mercanti e i coloni
veneziani e genovesi, ormai padroni dell'economia della città. Salpò dall’Europa nel 1366 una
spedizione militare indetta da Amedeo VI di Savoia, che riuscì a strappare ai turchi Gallipoli,
riconquistata quasi subito però. Gli ottomani si stavano espandendo nei Balcani ed Emanuele, il
basileus, a corto di denaro, aveva messo in vendita l'isola di Lemno ai veneziani nella speranza di essere
aiutato. Tuttavia, Venezia non aveva alcuna intenzione di cercare attriti col sultano. L'offensiva turca
nei Balcani cominciava a preoccupare anche il re di Ungheria che faceva pressioni sui due Papi allora
in carica (l’avignonese Benedetto XIII e il romano Bonifacio IX), ottenendo un nuovo bando di crociata
alla quale controvoglia aderì la stessa Venezia. Anche Francia e Inghilterra, impegnate nella guerra dei
Cent’anni, stipularono una pace provvisoria per permettere la spedizione. L'impresa crociata trovò un
patrono autorevole nel duca di Borgogna, Filippo II l'ardito. La crociata salpò nel 1396 ma si risolse in
una carneficina per gli europei. Una battuta d’arresto per gli ottomani venne provocata nel 1402, presso
Ankara, dalla vittoria mongola. Il sultanato ottomano così ridimensionato tornava a essere un alleato
interessante per i veneziani, mentre francesi e genovesi preferirono allearsi con il basileus. Ne
nacquero, nel primo decennio del Quattrocento, nuove crociate risoltesi in scontri tra Venezia e Genova.
Nel frattempo gli ottomani erano stati riorganizzati da Maometto I; alla sua morte gli successe Murad,
che aveva avuto la meglio sul concorrente Mustafa. Nel 1422 Murad, accampando il formale pretesto
che il basileus aveva parteggiato per Mustafa, assalì Costantinopoli. L'assedio venne tolto dopo tre
mesi senza immediate conseguenze, ma ormai era chiaro che non ci si poteva più fare illusioni.

La reazione europea
Il basileus si rendeva conto che si stava ormai approssimando per il suo impero la stretta definitiva. Nel
1437 egli intraprese un viaggio in Europa per chiedere soccorso ai capi della Chiesa Latina riuniti in un
nuovo Concilio a Basilea (Svizzera). Sapeva, tuttavia, che l'aiuto latino sarebbe costato la sottomissione

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della Chiesa greca e la fine dello scisma. Sapeva altresì che molti preferivano la dominazione ottomana,
che avrebbe lasciato in pace i cristiani greci, alla sottomissione latina. L'unione tra le due chiese fu
comunque solennemente annunciata nel luglio del 1439 a Firenze. Nel frattempo, i turchi conquistavano
la Transilvania e la Serbia. Ai primi del 1443 un’enclitica generale di Papa Eugenio IV invitava tutti i
prelati a pagare una decima sui loro proventi per la guerra contro i turchi. Tutte le premesse sembravano
positive ma in Occidente l'appello crociato cadde come al solito nel vuoto: In Francia la Guerra dei
cent’anni non era finita, in Italia si era chiuso da poco il conflitto tra angioini e aragonesi per il possesso
di Napoli, Genova Venezia e Firenze non avevano granché voglia di compromettere i loro buoni
rapporti col sultano, il nuovo re di Germania Federico III d’Asburgo non intendeva imbarcarsi in questa
impresa. I pochi crociati salparono comunque ma vennero sconfitti. L'anno successivo dalla Polonia e
dall'Ungheria partì un esercito con lo scopo di cacciare i turchi dall’Europa, anche questo sconfitto. A
distanza di quattro anni le truppe ungheresi tentarono una nuova azione militare che si risolse in un
insuccesso.

La caduta di Costantinopoli
Nel 1451, morto Murad, gli successe il figlio Maometto II. La crisi provocata dalla morte del grande
sultano provocò nel mondo cristiano una ventata di euforia. Il basileus continuava con gli appelli
all'occidente e qualche concreto piano di intervento era stato proposto da Alfonso il magnanimo, re di
Napoli, il quale desiderava impossessarsi dell'Albania, che gli avrebbe consentito il pieno controllo del
canale d’Otranto, e cingere la corona imperiale di Costantinopoli. Ma egli non si sentiva troppo sicuro
sulle questioni italiche e non possedeva una flotta. Nel frattempo, il sultano cominciava a rafforzare gli
stretti, che permettevano il controllo dei commerci, ma genovesi e veneziani si trovarono impossibilitati
a reagire in modo unitario perché in conflitto tra loro e perché nessuna delle due intendeva rischiare di
guastare del tutto i rapporti con i contendenti. Il pontefice, pur volendo intervenire, si mostrava rigoroso
sull'unione delle due chiese che avrebbe dovuto precedere la crociata. Stavolta il ricatto romano doveva
essere accettato e il 12 dicembre del 1452 la fine dello scisma veniva solennemente celebrata in Santa
Sofia, anche se la cosa provocò accese rivolte. Fu in questo clima che alla fine del maggio 1453 il
sultano entrò in Costantinopoli. Due principali fattori avevano provocato la caduta di Costantinopoli: il
debolissimo aiuto dell'occidente e la cattiva disposizione dell'opinione pubblica greca, che ai latini
preferiva gli ottomani.

La difesa dell’Europa orientale


L'occidente parve scuotersi di un tratto da un lungo torpore: fu in occasione della caduta di
Costantinopoli che l'idea della crociata si collegò strettamente con quella della difesa d’Europa. Il re di
Boemia giunse a proporre una sorta di unione politica tra gli Stati europei, che sarebbe servita come
base istituzionale permanente per l'organizzazione della lotta contro i turchi. Tuttavia, il re era vicino
agli hussiti, cosa che indusse il papa poco dopo a imbandire contro di lui una crociata. Il continente fu
invaso da un fiume di appelli e di progetti di crociata. Il papa Niccolò V pregò le potenze italiche in
guerra tra di loro di cessare le ostilità e creare fronte comune. La preoccupazione era comune e l’appello
colse nel segno, le reazioni tuttavia non furono quelle auspicate: Genova non era affatto scontenta che
i turchi creassero dei problemi agli aragonesi; Venezia cercò un'intesa col sultano; Francesco Sforza
sulle prime si era quasi rallegrato dalla caduta di Costantinopoli che comportava tanti guai per la rivale
Venezia. Il Papa era da parte sua ormai ben deciso a dar corpo effettivo alla crociata, ma i principi
cristiani diffidavano l'uno dell'altro e non avevano alcuna intenzione di gettarsi in un'impresa crociata
che avrebbe potuto favorire alcuni tra loro spese degli altri. Il sultano, nel frattempo, aveva ampliato le
sue conquiste giungendo ad occupare Atene. Per l'organizzazione della crociata il pontefice aveva
convocato a Mantova i capi della cristianità occidentale, ma quando arrivò nella città si rese conto che
nessuno degli invitati aveva ancora raggiunto la sede prevista. Gli ambasciatori arrivarono soltanto mesi

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più tardi e i lavori non condussero affatto ai risultati sperati, mentre anche la Serbia cadeva nelle mani
turche e qualche anno più tardi la Bosnia. Nel giugno del 1464 Papa Pio in persona si recò al porto di
Ancona, da dove sarebbe salpata la flotta cristiana, ma una violenta epidemia decimò la popolazione
locale e i già pochi aspiranti crociati. Il doge di Venezia salpò solo nei primi di agosto, giungendo al
porto di Ancona appena in tempo per incontrare il Papa che morì pochi giorni più tardi. La presa da
parte dei turchi di Negroponte (isola di Eubea) suscitò uno sgomento per certi versi superiore a quello
provocato dalla caduta di Costantinopoli. Papa Sisto IV, Venezia e Napoli misero insieme una flotta
che riuscì a portare a qualche risultato, ma estremamente modesto se paragonato a quelli turchi, ormai
padroni dei Balcani meridionali. Nel 1479 arrivarono sia in Friuli, sia ad Otranto, che venne presa
d'assalto, massacrando una parte della popolazione dopo averla messa al bivio tra la conversione
all'islam e la morte. Veneziani e fiorentini, in guerra in quegli anni con il re di Napoli, furono sospettati
(non senza fondamento) di aver incoraggiato l'attacco turco. La morte di Maometto II nel 1481 e le
contese per la successione allentarono per un istante la pressione turca. Otranto poté essere liberata e
Venezia restituì al re Ferdinando di Napoli i centri pugliesi nel frattempo occupati. Il Quattrocento si
chiudeva con un paradosso: il sultano turco padrone del sud-est balcanico e del Mediterraneo orientale
e la Spagna completamente ripulita dalla presenza araba (1492, caduta Granada).

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CAPITOLO 31
Umanesimo e Rinascimento
Il XV secolo è considerato una cerniera nella quale termina il medioevo e inizia l'età moderna. Il termine
rinascimento venne coniato nell'Ottocento e faceva riferimento alla rinascita di civiltà, culture e arti
dopo la parentesi medievale. Si è abituati a definire “umanistica” la cultura italiana del Quattrocento,
caratterizzata da una volontà di distacco rispetto alle tradizioni medievali e da un rapporto privilegiato
con la civiltà classica greco-romana, intesa come un modello al quale ispirarsi. Col V secolo in effetti
non era finito nulla: l’Impero Romano continuava con un successore a Costantinopoli, dappertutto si
seguiva la chiesa cristiana nata nell'impero di Costantino e si studiava usando il latin. La sensazione che
in realtà l'età antica fosse terminata si fece strada nei ceti colti durante il XIV secolo: Roma era stata
abbandonata dai papi, l’Impero romano-germanico si avviava a diventare un regno tedesco, quello
bizantino era ormai divenuto un piccolo regno greco minacciato dai turchi, problematici erano i rapporti
anche con il latino.

- La letteratura: l'intreccio tra volontà estetica e istante politiche che presiede i tempi nuovi si
coglie in alcuni rappresentanti del cosiddetto “preumanesimo”: Francesco Petrarca, Giovanni
Boccaccio Cola di Rienzo. Intanto si cominciava a frugare nelle biblioteche alla ricerca di
antichi codici che venivano trascritti, commentati e analizzati: nasce così la filologia. Fu alla
luce della filologia che l'umanista Lorenzo Valla riuscì a stabilire che la donazione di
Costantino, con la quale si diceva che l'imperatore Costantino avesse donato ritirandosi a
Costantinopoli Roma e l'Italia al Papa erano un falso dell'VIII secolo. Si tende a parlare anche
di “umanesimo civile” poiché la cultura antica non serviva in senso puramente estetico, bensì
a creare cittadini più responsabili.

- La filosofia: l'aristotelismo sul quale si incardinata la filosofia di San Tommaso entrò in crisi.
Ora l'uomo era al centro del mondo e doveva osare se voleva cogliere i frutti del suo coraggio
e della sua intelligenza. La filosofia adatta a questo modo di pensare era il neoplatonismo del
II-III d.C. Essa insegnava che l'universo è il macrocosmo, l'uomo è il microcosmo, l'universo
concentrato. Ecco perché gli umanisti privilegiarono le conoscenze magiche e astrologiche,
convinti che con la conoscenza delle norme secondo le quali il cosmo era governato avrebbe
permesso di dominarle.

- L'arte e la scienza: indagine artistica e indagine scientifica sono strettamente connesse, come
si vede negli studi sulla prospettiva condotti alla luce delle ricerche matematiche, oppure sui
lavori architettonici dell'Alberti e di Brunelleschi, o ancora nella figura di Leonardo da Vinci.
Al di fuori dell'Italia fu specialmente la Borgogna, con la pittura fiamminga, ad offrire esempi
eccelsi di arte con Van Eyck.

- La società: gli umanisti pongono le loro conoscenze anche al servizio della fede; la loro stessa
investigazione scientifica non giunge mai, almeno esplicitamente, a intaccare il dogma
religioso. L'amore per l'antichità romana e greca non portò alla volontà di restaurare gli antichi
dèi. In genere il continuo riferimento alla mitologia antica si accorda con il cristianesimo
attraverso una lettura allegorica dei simboli e dei miti che rinvia a valori cristiani. Il lavoro degli
umanisti non è né gratuito né disinteressato, al contrario sono spesso persone di umile origine
che, necessitando di mezzi, si rivolgono a mecenati e protettori che trovano nei grandi principi
del tempo. Dal poeta e dall'architetto che egli protegge e finanzia, il principe si aspetta celebrità
e gloria. Raramente lo studioso è puro intellettuale da tavolino, più sovente è anche artigiano
nel cui lavoro inventiva e tecnologie si incontrano. Questo legame fra cultura ed esercizio del

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potere spiega come nel corso del Quattrocento sia stata perfezionata l’arma da fuoco con
polvere da sparo e la stampa, con l’invenzione dei caratteri mobili.

Imbarcazioni, strumenti e tecniche di navigazione


La grande protagonista della navigazione mediterranea medievale era la galea, che aveva preso il posto
della trireme romana. La galea era per nulla adatta alla navigazione atlantica, in quanto incapace di
tenere il mare in tempesta, era stata quindi in quegli ambienti sostituita dalla cocca. Più o meno negli
stessi decenni erano entrati in uso la bussola e il sestante. Secondo le idee diffuse sino alla fine del
Duecento la terra era un globo sul quale le terre emerse, divise nei tre continenti Asia, Africa e Europa,
formavano un tutto unico con al centro il Mediterraneo. Si trattava di una specie di disco di terra
circondato dall'oceano che tuttavia non era navigabile, per quanto molte leggende parlassero di terre
addirittura abitate al di là di esso. In teoria si pensava che uscendo dalle colonne di Ercole sarebbe stato
possibile raggiungere la Cina e il Giappone; tuttavia, si credeva che nella pratica tale navigazione
sarebbe stata tanto pericolosa da risultare impossibile.

Le esplorazioni geografiche
Sul piano pratico le navigazioni
esplorative presero inizialmente la
strada dall'Africa, in vista di una sua
possibile circumnavigazione. Nel 1487
il portoghese Bartolomeo Diaz
varcava il capo di buona speranza,
aprendo così la via verso l’oceano
Indiano. A dieci anni di distanza
salpava da Lisbona Vasco da Gama
che sarebbe giunto alle coste dell'India.
Il grande organizzatore delle prime
straordinarie imprese marittime era il principe portoghese Enrico il navigatore, che oltre che marinaio,
era anche politico e religioso e cullava da anni il sogno di una crociata che avrebbe debellato l'islam e
riconquistato la Terra Santa. Ciò lo avvicino alle leggende che parlavano di un misterioso re cristiano
delle profondità dell'Asia, il prete Gianni, disposto ad aiutare i cristiani d'occidente contro i musulmani.
L'impresa più importante e rivoluzionaria del secolo fu però la scoperta dell’America. Cristoforo
Colombo, figlio di un mercante genovese, si stabilì in Portogallo e ben presto cominciò a inseguire
l'idea di un viaggio che attraversasse l'oceano per raggiungere la Cina. Egli aveva elaborato un sistema
cosmografico coerente, ma caratterizzato da numerosi errori, poiché riteneva la terra molto più piccola
della realtà, cosa che lo portò a pensare di poter raggiungere il Giappone con un viaggio di appena 5000
km, mentre l'effettiva distanza è di 20000 km. Non vedendosi finanziato dal re Giovanni di Portogallo,
si trasferì in Spagna. Le sue pretese irritarono i consiglieri di Ferdinando d'Aragona, preoccupati per gli
altri costi e per la difficoltà della sua impresa. Una commissione di dotti riunita in Salamanca esaminò
le due tesi e le confutò una per una. Il fatto è che sia quelli che questo ignoravano la presenza di un
continente intermedio posto tra Europa ed Asia, che si collocavano non lontano dal punto nel quale
Colombo sosteneva ci fossero le coste della Cina. Finché visse Colombo non ammise mai di aver
sbagliato i calcoli e che le terre che aveva scoperto non fossero una parte del continente asiatico. Forse
per l’intercessione della regina Isabella, il 3 agosto del 1492 riuscì a salpare dal porto di Palos con tre
navi. Il 12 ottobre Colombo giungeva in vista di un'isola a cui impose il nome di San Salvador.

L'America precolombiana

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I territori americani erano stati popolati in età remote attraverso lo stretto di Bering, ma questa situazione
sarebbe mutata all'indomani dell'ultima glaciazione verso l'8000 a.C. L'assenza di scrittura, lo scarso
popolamento e la vita prevalentemente nomade rende pressoché impossibile dettagliare
cronologicamente la loro storia precedente all'arrivo degli europei, che ne provocherà il quasi totale
genocidio. Diverso il discorso per i popoli dell’America che oggi chiamiamo latina. La più antica
popolazione è quella dei Maya, sorta tra il IV e il VII secolo. I Maya erano costruttori di grandi templi
in pietra e conoscevano una scrittura ideografica, oggi in larga parte decifrata. Il loro culto astrale li
aveva condotti a sviluppare profonde cognizioni matematiche e astronomiche. La loro ultima città cadde
per mano europea nel XVII secolo. Il popolo con cui vennero immediatamente in contatto i
conquistadores di Hernan Cortez agli inizi del Cinquecento furono gli Aztechi, una civiltà di forte
impronta guerriera, la cui capitale era Tenochtitlan (Città del Messico). Si ricordano anche gli Incas, la
cui capitale era Cuzco, che promossero la costruzione di una fitta rete di collegamenti stradali. Erano
privi di scritture e tenevano la contabilità attraverso un sistema di cordicelle colorate di nodi.

Il Nuovo Mondo
Colombo compirà tra il 1492 il 1504 quattro successivi viaggi tra la Spagna e quello che veniva ormai
chiamato il Nuovo mondo. La sua attività come governatore non fu felice: non seppe mantenere la
disciplina tra i coloni spagnoli e commise crudeltà contro gli indigeni. Siccome sin dai primi anni
successivi alla grande scoperta di Colombo era stato chiaro che le terre toccate non erano quelle
dell'Asia, si scatenò tra le potenze cristiane la corsa alla loro appropriazione. Entrarono in gara
soprattutto Spagna e Portogallo, che prima con una bolla papale, poi con il trattato di Tordesillas del
1494, stabilivano la raya (confine) delle rispettive conquiste: a est i territori portoghesi, a ovest quelli
spagnoli. Intanto il veneziano Giovanni Caboto, al servizio dell’Inghilterra, era giunto in vista delle
coste di Terranova: aveva inizio così anche il capitolo delle esplorazioni dell'America settentrionale.
Quanto al nome America esso risale al fiorentino Amerigo Vespucci che nel 1502 esplorando le coste
sudamericane per conto del re di Portogallo rafforzò la certezza che non si potesse trattare dell'Asia.

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