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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire” 25.06.

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(21) La Polis dopo il Rinascimento

Siamo nel periodo della fioritura delle arti e delle grandi scoperte, in cui l’uomo si sente più libero e
veramente un «individuo», ovvero artefice del proprio destino. Periodo intonato ad un ambiguo
ottimismo, in cui si dilegua l’ombra di Dio e del suo regno per lasciare il posto ad un «regnum
hominis». Come scrisse Francesco Bacone: «Gli uomini dovrebbero sapere che nel teatro della vita
umana tocca soltanto agli dèi e agli angeli rimanere spettatori». Un clima di cui risente il Diritto.

1 Due le tendenze in gioco: quella dei realisti, teorici della ragion di Stato, e quella degli
idealisti, riformisti sociali
2 Per Machiavelli lo Stato è forza, che deve usare per garantire la propria stessa azione. Su
questo principio si valutano le alleanze
3 La categoria della politica non è solo utilitaristica, ma è diversa sia da quella della morale
che dell’economia
4 Solo se di tempo in tempo lo Stato ritorna ai suoi princìpi può sperare di durare. Più
frequenti i «ritorni» più saldo il suo futuro

REGNUM HOMINIS
Il Rinascimento è un insieme di così tanti fattori, e a tal punto nuovi, che non è facile darne una
definizione, a meno di privilegiare una sola caratteristica tra le tante. Certo, è il periodo della
fioritura delle arti, delle grandi scoperte, l’epoca in cui l’uomo si sente più libero e diventa
veramente individuo: artefice cioè della propria sorte e del proprio destino, secondo quanto scrive
Giovanni Pico della Mirandola nell’Oratio de hominis dignitate.
È un periodo ispirato all’ottimismo, in cui pare dileguarsi l’ombra di Dio e del suo regno a favore di
un "regnum hominis", il regno dell’uomo: «Gli uomini dovrebbero sapere che nel teatro della vita
umana tocca soltanto agli dèi e agli angeli rimanere spettatori» (Francesco Bacone, On the
Proficience and Advancement of learning, 1605 ).
Questo clima effervescente si riverbera almeno in parte anche sul piano del diritto e dello Stato,
definiti dal Burckhardt «opere d’arte», vale a dire «creazioni coscienti, emanate dalla riflessione e
fondate su basi rigorosamente calcolate e visibili» (La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze
1943, pp. 4 e 101).
È nel corso del Rinascimento che si afferma l’autonomia reciproca dello Stato e della
religione, e quindi una concezione dell’indipendenza della vita politica temperata da
espressioni di rispetto nei confronti di quella religiosa.
La politica è una determinazione umana, e nient’altro. Non vi si respira l’ottimismo della creatività
nelle arti e dell’innovazione nelle scienze, trattandosi di un àmbito che si confronta sempre con la
violenza e i soprusi: basterebbe ricordare la calata di Carlo VIII, la caduta di Firenze, o le guerre di
religione. Essa infatti si confronta con le debolezze dell’uomo, quelle che Erasmo da Rotterdam
indica nel suo Encomium moriae, mentre sul punto Michel de Montaigne mostra negli Essais il suo
scetticismo pieno di malinconia.
È questo anche il periodo in cui sorgono le grandi monarchie: indipendenti, unitarie, accentratrici. Il
Medioevo aveva visto proliferare una moltitudine di piccole comunità proprio mentre sognava
l’affermarsi di una monarchia universale e assoluta. Ora invece si costituiscono i grandi regni
storici: con Luigi XI il regno di Francia si rinsalda dopo l’indebolimento della guerra dei Cent’Anni
(1337-1453); in Inghilterra accade lo stesso con la fine della guerra delle Due Rose (1456-1485) e
con il regno di Enrico VII Tudor; in Spagna il matrimonio di Isabella di Castiglia con Alfonso di
Aragona (1469) unifica de facto i due maggiori Stati della penisola iberica.
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Quanto all’Italia, essa è il classico vaso di terracotta tra quelli di ferro, divisa in signorìe
reciprocamente piene di sospetto e gelosie, diventando così il campo di battaglia di mire
egemoniche d’oltre confine.
In questo contesto si cominciano anche a intravedere i problemi delle relazioni tra cittadino e Stato
e tra i diversi Stati.

CORRENTI
Nel 1517 Martin Lutero affigge le sue 95 tesi sulla porta delle cattedrale di Wittenberg, dando così
inizio alla Riforma e facendo irrompere sulla scena il tema della libertà religiosa. Nel 1536
Giovanni Calvino fonda la Chiesa riformata, finendo per dividere l’Europa in comunità religiose in
lotta tra loro. Intanto Enrico VIII con l’Atto di Supremazia (1534) sancisce una netta separazione tra
la Chiesa d’Inghilterra e quella di Roma.
Siamo approdati nel periodo in cui compaiono sulla ribalta della storia le guerre di religione, che
vedono in campo essenzialmente due grandi correnti: gli "assolutisti" e i "monarcomachi".
Proprio mentre prende corpo questa diffusa perdita di equilibrio e si consumano lotte
accanite – senza più una Chiesa e un impero capaci di svolgere una funzione moderatrice,
impegnati anzi direttamente quali parti in causa – nasce il diritto internazionale.
In un clima d’incertezza politica sorgono anche grandi utopie: quella "comunistica" e quella
"anarchica". Ma volendo concentrare la nostra attenzione più specificamente sul pensiero inerente
al diritto e alle funzioni degli Stati, e dunque sui compiti della politica, è utile indicare due
tendenze: quella dei "realisti", preoccupati di risolvere i problemi senza che ciò comporti profondi
cambiamenti (spicca certamente tra costoro la figura di Niccolò Machiavelli), come accade per i
teorici della "ragion di Stato"; e quella degli "idealisti", che vedono la soluzione dei problemi
politici in una profonda riforma della compagine sociale (di tale corrente fanno parte gli esponenti
dei "comunismi rinascimentali" e i difensori del principio della libertà di coscienza).

MACHIAVELLI
È necessario premettere che Machiavelli è convinto che nella storia si debba ricercare l’utile e non il
diletto, e che inoltre esista un sottofondo comune radicato nell’identità della natura umana, in grado
di accomunare non solo genti diverse ma anche periodi storici lontani tra loro: «Il mondo fu sempre
a un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre le medesime passioni» (Del modo di trattare i
popoli della Val di Chiana ribellati, 1503).
Proprio per la costanza della natura umana i riferimenti al passato sono non solamente possibili ma
anche assai utili. La forza del Machiavelli sta nel redigere cronache, e quindi nel badare ai fatti più
che alle teorie politiche e alle interpretazioni degli storici. Si può dire che in questo consista il suo
realismo.
Con un’immagine d’ispirazione aristotelica, egli definisce "materia" il popolo che occupa un dato
territorio, mentre la "forma" è data dagli ordini, ossia dai governi (Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio I, I). Da ciò consegue la necessità di una materia adatta a ricevere una determinata forma,
in modo che possa costituirsi uno Stato ben organizzato (Il Principe VI e XXV).
In ogni società – dice Machiavelli – è possibile individuare all’opera un perpetuo dualismo,
cioè due tendenze contrastanti, «dua umori diversi»: il popolo che non desidera essere
comandato e i grandi che desiderano comandare (Il Principe IX).
È la premessa per sostenere un concetto nuovo: la lotta politica tra le classi. In un passo dei Discorsi
egli afferma: «Uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano
offendere» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio II, XXIII). Gli elementi perché vi sia un
governo sono gli "ordini" (quelli che noi oggi chiameremmo organi dello Stato), le leggi e i
magistrati: «Alcuna provincia non fu mai unita o felice, se non la viene tutta alla ubbedienza d’una
repubblica o d’uno principe» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I, XII).
Oltre a indicare le due forme di governo – repubblica e monarchia –, Machiavelli individua una
realtà che, se non è ancora la nazione dell’Ottocento intesa come unità «di armi, di lingua, di altare,

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di memoria, di sangue, di cor», lascia tuttavia intravedere un sentimento ben preciso di
contrapposizione nei confronti dello straniero.
La nascita dello Stato è una necessità per frenare la natura dell’uomo. Qui Machiavelli usa
un’espressione celebre: «Gli uomini si mangiano l’un l’altro», antesignana del «bellum omnium
contra omnes» [la guerra di tutti contro tutti] di Thomas Hobbes.
Ma un’altra teoria originale di Machiavelli emerge quando egli esamina il problema della "migliore
città" dal punto di vista dell’economia, distaccandosi dalla tesi classica di Platone e di Aristotele
condivisa per tutto il Medioevo: secondo quest’ultima infatti lo Stato ideale dovrebbe essere
relativamente povero, in modo da creare minori ragioni di instabilità.
Machiavelli invece combatte questa posizione, non considerando più il lavoro come una
mansione inferiore (da lasciare cioè agli schiavi) né la ricchezza acquisita con la propria
attività come indegna di un uomo libero.
Risulta così chiaro che il denaro è potenza, che l’uomo la cerca e per questo si industria e si adopera
per trovare luoghi fertili dove produrre di più.
Le due forme di governo riconosciute sono la monarchia e la repubblica, anche se Machiavelli
considera quale forma perfetta la repubblica romana. Essa infatti ha mantenuto intatto il principio
monarchico con i consoli, quello aristocratico con il senato e quello popolare con i tribuni della
plebe. Il vantaggio di questo sistema misto è che ciascun ordine controlla l’altro. Non a caso il
"segretario fiorentino" ritiene che la caduta dell’impero sia da attribuire a una disunione tra plebe e
senato.
I partiti – dice ancora Machiavelli – vanno a vantaggio della collettività a patto che non si
trasformino in fazioni, anche se egli ammette l’importanza delle accuse vicendevoli allo scopo di
mantenere la libertà di una repubblica (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I, VII-VIII).
Viene considerato poi con simpatia l’esempio della Francia, regno moderato dalle leggi e dotato di
un organo che vigila sulla stabilità del Paese: i parlamenti, soprattutto quello di Parigi. Al
parlamento, chiamato «judice terzo tra il popolo e i grandi», è attribuito il compito che ebbero gli
efori a Sparta (cioè i magistrati supremi con poteri civili e talvolta anche politici) e i tribuni a Roma
(Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I, II). Pur essendo possibile che tanto la monarchia
quanto la repubblica si corrompano, è indubbio che Machiavelli sia a favore della seconda: «Sono
migliori governi – scrive – quegli de’ popoli che quegli de’ princìpi» (Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio I, LVIII).
Nel suo pensiero infatti il fine del popolo è sempre più onesto di quello dei grandi (Il Principe
IX): quando sbaglia, il popolo di solito lo fa perché è ingannato da altri (Discorsi sopra la
prima Deca di Tito Livio I, IV).
Ma dal repubblicanesimo dei Discorsi Machiavelli passa alla concezione monarchica del principe.
Non siamo al cospetto di una contraddizione, almeno se la leggiamo alla luce di questa frase: «Se i
popoli sono superiori ai principi nel mantenere le cose ordinate... i principi sono superiori ai popoli
nell’ordinare leggi, formare vite civili, ordinare stati e ordini nuovi» (Disc. L. I, cap IX). Da ciò
Machiavelli giunge alla conclusione che, quando si tratta di fondare uno Stato o di riformarne uno
che già sia corrotto, è indispensabile l’opera di un uomo solo: «È necessario essere solo a volere
ordinare una repubblica di nuovo» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I, IX). Per questo
egli auspica un capo che unisca l’Italia, invocazione che costituisce il tessuto di tutta la costruzione
logica del Principe.
Al termine di una simile presentazione, diventa persino difficile parlare del Machiavelli teorico del
principato assoluto e della sua freddezza nell’ammaestrare il principe per ordinare «una potestà
assoluta» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I, XXV). Intendo dire che si fa arduo
conciliare questo Machiavelli con le eloquenti parole delle Istorie Fiorentine intorno alla «dolcezza
del vivere libero», alla gagliardìa del nome e alla libertà che «forza alcuna non dona, tempo alcuno
non consuma, e merito alcuno non contrappesa» (Istorie fiorentine II, XXXIV). Se non risparmia
proclami contro i tiranni, spingendosi fino a legittimare anche il tirannicidio, in altri passi
Machiavelli svaluta invece la libertà mediante considerazioni apertamente scettiche («gli uomini

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quando sono governati bene non cercano né vogliono la libertà»; Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio III, V; oppure: «Li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del
patrimonio»; Il Principe XVII; v. anche capp. XVI e XIX).
Machiavelli esalta l’eliminazione del despota ma al contempo condanna le congiure «acciocché
dunque i principi imparino a guardarsi da questi pericoli e che i privati più timidamente vi si
mettano, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro
preposto». (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, cap VI)
Trovandosi di fronte a precetti così contrastanti si è creduto di giustificarli parlando
dell’indifferenza morale di Machiavelli, di un suo gusto per il tecnicismo puro, indipendente dal
contenuto etico dei precetti stessi. Questa interpretazione è però insufficiente.
Occorre pensare alla sua convinzione che anche la "materia", il popolo, talora è corrotta, nel
qual caso si impone il controllo esercitato da una forma di governo assoluto. In altri termini,
la tirannide si pone come stato di necessità, vale a dire un male minore.
Nel capitolo VII del Principe Machiavelli espone questo concetto con l’esempio del Valentino nel
suo governo della Romagna: sia pure in modo sciagurato, il duca portò l’unione e il buon governo
in quella regione, vi instaurò una situazione di sicurezza creando giudici civili. Così Machiavelli
mostra come le scelleratezze bene usate «si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può» (Il
Principe VIII).
È difficile parlare di un governo ideale in una data situazione storica, poiché l’uomo è per sua
natura mutevole: l’immobilità è impossibile anche nel bene. Machiavelli adduce due ragioni per
spiegare come dal bene si possa scivolare nel male, senza chiamare in causa la fortuna. In primo
luogo, se la virtù produce quiete, da questa attraverso l’ozio nascono il disordine e poi la rovina.
Inoltre gli uomini, se sono soliti affliggersi nel male, sono anche abituati a «stuccarsi nel bene»
finendo per provare fastidio anche per le cose che si posseggono (Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio I, XXXVII; II, Proemio).
A differenza degli utopisti, appare evidente il senso realistico e persino pragmatico di Machiavelli.
Una volta istituito un governo egli insiste sul fatto che ci si debba preoccupare di mantenerlo: per
farlo «è necessario ritirarlo spesso verso il suo principio» (ibidem, III, cap.I). Qui il Machiavelli,
che si è mostrato sempre parco nel prendere esempio dalla Chiesa, si rifà invece a san Francesco e a
san Domenico che diedero nuovo slancio alla Chiesa impegnandosi per riportarla allo spirito delle
origini: la povertà evangelica. «Solo se di tempo in tempo si saprà ritornare ai princìpi» [o agli
"inizi"] lo Stato potrà durare; anzi, se questi ritorni fossero sufficientemente frequenti la repubblica
«sarebbe perpetua» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio III, XXII).
La spinta a tornare alle radici può prodursi per l’intervento di un fattore esterno, come un’invasione,
o di un elemento intrinseco, per virtù di un uomo, di un ordine o di una legge. A giudizio di
Machiavelli la soluzione più pratica per conseguire questo risultato è quella delle "esecuzioni"
(ostracismi, esìli quando non uccisioni vere e proprie), da compiersi periodicamente. È evidente
come una simile strada risulti altamente criticabile, persino in rapporto allo spirito del tempo. Non
si può tuttavia non riconoscere a Machiavelli il realismo di chi si preoccupa non solo di come
rendere stabile un governo ma anche – e forse soprattutto – di come mantenerlo.
C’è ancora un punto assai interessante nel pensiero del segretario fiorentino: l’idea di progresso
della civiltà.
Egli rifiuta avant-la-lettre sia l’idea vichiana dei cicli chiusi sia la dottrina illuministica del
progresso illimitato, sia infine l’utopia feneloniana e roussoviana di un’età antica più felice a
fronte di una corruzione del mondo presente.
Dopo il proliferare di dottrine sull’evoluzione della civiltà, il pensiero di Machiavelli appare
straordinariamente attuale, pertinente alla modernità, dotato ancora di una sua freschezza: «E
pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre esser stato ad un medesimo
modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo
buono di provincia in provincia» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio II, Proemio). Lo Stato
è forza, una risorsa da usare per garantire la propria stessa azione. È sulla base di questo principio

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che si devono valutare le alleanze con le quali tuttavia, credendo di moltiplicare il proprio vigore,
talora in realtà si tradisce la propria debolezza.
Machiavelli ricorda che vi sono molte cose in cui un uomo solo può più di quanto possano molti,
poiché tra questi è facile che insorga il dissenso (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio III,
XI). Inoltre occorre stare attenti a non allearsi con chi sia troppo potente, o comunque più forte:
«Uno principe debbe avvertire di non fare mai compagnia con uno più potente di sé, per offendere
altri... perché vincendo rimani suo prigione» (Il Principe XXI). Una condanna infine viene espressa
anche nei confronti della neutralità, là dove si afferma che un principe è stimato quando è vero
amico o vero nemico.

AUTONOMIA DELLA POLITICA


Merito indubbio di Machiavelli è l’aver sviluppato l’idea di autonomia della politica, come lui
stesso spiega: «Piantato lo Stato sulle proprie basi, nell’avergli ridato la propria moralità». Nella sua
visione la morale non sempre è metro applicabile alla vita politica, tant’è che egli parla anche di
«crudeltà bene usate», come scrive nel Principe (capitolo VIII). Al capitolo XV della stessa opera si
legge che il principe deve «imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la
necessità».
Ho fatto ricorso a sprazzi del pensiero di Machiavelli per mettere in evidenza la sua idea di
un’indipendenza della politica dalla morale, che si spinge sino ad adombrare la sua amoralità: come
se il problema non esistesse, o tutt’al più andasse confinato in quella parte di cultura nella quale si
avverte l’influsso della Chiesa.
Comunque sia, se la morale ha un senso – e forse personalmente in Machiavelli continua ad
averlo –, la politica ne sarebbe del tutto indipendente. In definitiva è forse lo Stato a possedere
una propria moralità. È così che i mezzi si giustificano nel fine.
Come esempio di mezzi in sé amorali che tuttavia si "moralizzano" nel fine da conseguire vengono
citati i casi di un plotone di esecuzione o di un boia che uccidono non commettendo però con questo
– secondo Machiavelli – un atto immorale. Altro caso è quello della differenza tra l’eroe in guerra e
l’omicida, che non consiste tanto nella modalità differente dell’azione – cioè nel mezzo – quanto nel
diverso animo, dunque nel fine. Forse però l’esempio più calzante è se sia lecito far del male a una
persona per far del bene a una collettività.
Il contributo essenziale di Machiavelli è aver teorizzato come la categoria della politica possa essere
diversa da quella della morale, così come è distinta dalla categoria economica. Lo scopo della
politica è utilitaristico, ma non esclusivamente. Se questa distinzione appare chiara, più difficile –
come abbiamo visto – è trovare nei suoi scritti il rapporto che va creato tra politica e morale.

MONOARCOMACHI
C’è un termine – «monoarcomachi» – col quale viene designato un gruppo di pensatori e scrittori
che hanno in comune l’anti-assolutismo. Fioriti negli ultimi trent’anni del secolo XVI, cioè nel
periodo delle lotte a sfondo religioso, costoro sostengono il diritto di uccidere il tiranno. Il
riferimento è certamente alla Riforma, e in special modo a quella luterana: Lutero viene considerato
come l’avvocato dei «diritti imperscrutabili della coscienza individuale», della libertà e
responsabilità di ogni uomo nel compiere i propri atti.
Fu in Francia che le teorie monoarcomache si presentarono per la prima volta, nel Paese cioè dove
le guerre tra cattolici e ugonotti raggiunsero una violenza inaudita dopo la strage di questi ultimi
ordinata da Carlo IX nella notte di san Bartolomeo (24 agosto 1572), al tempo della Lega cattolica
contro Enrico di Navarra (poi Enrico IV di Francia) e dell’assedio di Parigi, realizzato da lui stesso.
In Spagna invece le teorie monoarcomache presero forma nella lotta contro gli Absburgo.
Al di là dell’interesse per questo movimento, che entra nella storia dei diritti poiché giunge fino a
riconoscere al popolo la possibilità di liberarsi con la forza dal potere assoluto, cogliamo
l’occasione per accennare a un anti-monoarcomaco di notevole spessore per le sue dottrine a

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proposito dello Stato: Jean Bodin (1530-1596). Egli è sovente assimilato a Machiavelli nella
esecrazione per la dottrina della separazione tra politica e morale.
Noto per la sua opera letteraria più importante, «I sei libri della Repubblica» (1576), Bodin
parla della sovranità assoluta come di una caratteristica necessaria per reggere uno Stato. I
suoi caratteri sono l’estremo rigore, la perpetuità e la trasmissibilità per via ereditaria.
Occorre ricordare che Bodin vive in Francia nel periodo del consolidamento monarchico e quindi
dell’affermarsi storico dell’assolutismo, che trova nel suo pensiero un supporto dottrinale. Egli
afferma infatti che verso il sovrano esistono solo doveri e non diritti, certo non quello di ribellarsi:
la libertà va sacrificata all’autorità dello Stato. È evidente dunque il motivo che ha indotto a
catalogare Bodin come il maggior oppositore dei monoarcomachi.
A indicare come anche nel Rinascimento le questioni che abbiamo sin qui esplorato fossero
fortemente radicalizzate nei diversi autori che se ne fecero interpreti è utile ricordare un altro nome
significativo: quello di Giovanni Botero (1543-1617), considerato il massimo rappresentante della
ragion di Stato.
Gli appartenenti alla corrente che si riconosce in questo concetto sono tutti assolutisti. A differenza
di Machiavelli, essi considerano la religione come fondamento dello Stato. Vengono giudicati
conservatori, tanto che Francesco De Sanctis definì il libro di Botero – Della ragion di Stato (1589)
– «il codice dei conservatori». La ragion di Stato è la guida, la scienza dei mezzi per conservare il
potere: una ragione che non è né ordinaria né comune. Essa insegna che per impedire il sorgere di
contese e l’amor di novità nel popolo uno dei mezzi più sicuri sia quello di muovere guerra al di
fuori del proprio Stato, poiché una nazione che è in pace con gli stranieri si troverà la guerra in casa.
Un passo impressionante, e soprattutto famoso, è quello in cui Botero insegna come togliere ai
sudditi cattolici la voglia di ribellarsi: «Avvilirli d’animo, indebolirli di forze e togliere loro il modo
di unirsi insieme».

EPICRISI
Se questo è l’impianto generale del pensiero politico del periodo storico nel quale ci siamo
addentrati, con una tendenza che potremmo definire realistica se non empirica, tuttavia il
Rinascimento non si ferma qui proprio in forza delle utopie e delle correnti idealistiche che vi si
muovono e che servono a mostrare, come vedremo, come anche in quest’epoca vi siano
contrapposizioni talmente forti sul piano dei princìpi da rendere impossibile la ricerca di quei punti
fermi veramente specifici di questo grande periodo della storia.

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