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Risorgimento e massoneria

di Angela Pellicciari

L'opera della massoneria nel Risorgimento italiano. Iniziata con Napoleone e terminata con la
distruzione dello Stato pontificio. Sempre condannata dal magistero.

In un articolo comparse su La Stampa nel dicembre 2000, Norberto Bobbio accusa "gruppi di
cattolici militanti" che pretendono di "riscrivere" il Risorgimento dandone "una interpretazione che
non esiterei a chiamare di destra, secondo cui il Risorgimento è stato un movimento guidato da
élites anticlericali, per non dire addirittura massoniche, il cui scopo ultimo era l'abbattimento del
potere temporale dei Papi".

"Per non dire addirittura massoniche" - scrive Bobbio - e la cosa suscita più di un sorriso. Che lo
scopo ultimo della massoneria dell'Ottocento fosse proprio l'abbattimento del potere temporale dei
papi e che per raggiungere questo obiettivo i "fratelli" di tutto il mondo si siano affidati ai Savoia
che hanno realizzato un'unificazione italiana ad immagine e somiglianza dei desiderata del pensiero
massonico, sta scritto nero su bianco in centinaia di documenti sia di parte massonica che cattolica.

Tanto per esemplificare. Il Risorgimento è iniziato dal massone Napoleone che invade l'Italia e la
saccheggia impunemente in nome della "libertà". Prima dì entrare a Milano, il futuro imperatore ha
l'ardire di rivolgere alla popolazione il seguente bando: " Noi siamo amici di tutti i popoli, ed in
particolare dei discendenti dei Bruti e degli Scipioni. Ristabilire il Campidoglio, collocandovi
onorevolmente le statue degli eroi che lo resero celebre: e risvegliare il Popolo Romano assopito da
molti secoli di schiavitù, tale sarà il frutto delle nostre vittorie, che formeranno epoca nella
posterità". Napoleone attribuisce a se stesso il ruolo di liberatore. Vuole che gli italiani non siano
più schiavi. Ma da chi e da cosa gli italiani, carichi di storia e di primati, avrebbero dovuto essere
liberati? Lo si capisce con immediatezza considerando lo stemma del Regno d'Italia che vede la
luce nel 1805, frutto della fervida fantasia del generale-imperatore. Come distintivo del nuovo tipo
di regalità, spicca, tra gli altri, un simbolo molto impegnativo: un Pentalfa massonico (una stella a
cinque punte) con due punte rivolte verso l'alto e una sola verso il basso. Un'insegna satanica. Ciò
significa che Napoleone non si vergogna di mostrare in bella vista cosa intende per l'Ordine Nuovo
che viene imporre al mondo: un ordine fondato sulla potenza di Satana. Un ordine anticristiano.

Per capire come il binomio massoneria-satanismo sia in qualche modo costitutivo, bisogna tener
presente che la visione del mondo massonica è interamente costruita intorno a due presupposti. lì
primo è il rifiuto della Rivelazione: i massoni ritengono spetti all'uomo in totale autonomia e col
solo aiuto della ragione stabilire quali siano le leggi della morale e del vivere civile. Questo è anzi il
compito che i massoni ritengono loro proprio ed esclusivo: non a caso il 10 febbraio 1996 una
pagina intera di pubblicità sul Corriere della Sera ricorda che i massoni "hanno la responsabilità
morale e materiale di essere guida di altri uomini". Il secondo presupposto è che la natura dell'uomo
(della specie umana, non del singolo) è costantemente perfettibile: si tratta del mito del Progresso
che induce a ritenere possibile il raggiungimento su questa terra della felicità (il diritto alla felicità
tanto solennemente iscritto nella Costituzione americana) conseguito attraverso il pieno sviluppo di
tutte le potenzialità umane. La massoneria ritiene dunque possibile raggiungere la tangenza uomo-
dio con le sole forze della ragione, e cioè per natura: gli aspetti di satanismo che colorano tante
posizioni massoniche derivano da questa convinzione. Nel libro della Genesi quando Satana si
rivolge ad Eva lo fa proprio per insinuarle il desiderio di diventare Dio come se ciò fosse possibile
in forza di un semplice atto di volontà: "Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri
occhi e diventereste come Dio" (Gn 3, 5). Tanto per restare in Italia, è in questo contesto teorico che
Giosuè Carducci compone l'inno a Satana ("Salute, o Satana,\ O ribellione,\ O forza vindice\ De la

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ragione!").

Tenendo presenti questi assunti diventa chiaro in che senso Napoleone (ed i liberali dopo si lui)
spaccino se stessi per i liberatori del popolo italiano: si propongono di "liberare" gli italiani dal
cattolicesimo che, a loro modo di vedere, ha trasformato gli 'eredi degli Scipioni" in un popolo di
schiavi.

Più in generale la massoneria ritiene che gravi sulle sue spalle il compito ciclopico di liberare
l'uomo dalla superstizione, da ogni superstizione. Ecco cosa scrive nel 1853 il luminare della
massoneria francese J.M. Ragon: l'ordine apre i suoi templi agli uomini "per liberarli dai pregiudizi
dei loro paesi o dagli errori delle religioni dei loro padri". Ancora: la massoneria "non riceve la
legge ma la stabilisce dal momento che la sua morale, una ed immutabile, è più estesa e più
universale di quelle delle religioni native, sempre esclusive".

La massoneria italiana è perfettamente allineata su questa posizione. La Costituente che si riunisce


nel maggio del 1863 dopo aver stabilito che l'ordine "Non prescrive nessuna professione particolare
di fede religiosa, e non esclude se non le credenze che imponessero l'intolleranza delle credenze
altrui", precisa (art.3) che i principi massonici debbono gradualmente divenire "legge effettiva e
suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile" e specifica (art.8) che il fine
ultimo dell'istituzione è "raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e
debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l'autorità teocratica, a tutti
i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell'Umanità".

"Legge suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile", prescrive la Costituente.
Detto fatto. Tutti gli ordini religiosi cattolici all'indomani dell'unità d'Italia vengono aboliti ed i loro
beni svenduti all'1% della popolazione di fede liberale. Tutte le opere pie costruite nel corso dei
secoli soppresse. Le processioni cattoliche vietate, permesse quelle massoniche. Le scuole
cattoliche chiuse, imposte quelle di Stato a guida "illuminata". E via continuando.

Stando così le cose, è ovvio che fra Chiesa cattolica e massoneria ci sia incompatibilità radicale. Fra
Cristo e Belial - ricordano Pio IX e Leone XII - non ci può essere compromesso.

Eppure è stato reiteratamente sostenuto il contrario. Per convincere le masse cattoliche della bontà
della proprie intenzioni, l'élite massonica ha avuto a disposizione, in primo luogo, la menzogna. I
fratelli hanno spesso gridato ai quattro venti di essere cattolici più cattolici del Papa. Così hanno
fatto i fautori del nostro Risorgimento. A questa propaganda calunniosa i papi hanno risposto come
potevano, ripetendo all'infinito la serie delle scomuniche contro la massoneria: ogni volta c'era
qualcuno che sosteneva che le censure ecclesiastiche, per lui e per i suoi, non valevano. E ogni volta
i papi dovevano ricominciare. Durante il Risorgimento la guerra contro la Chiesa cattolica condotta
dalla massoneria nazionale ed internazionale è stata particolarmente cruenta e distruttiva.

Essendo la popolazione italiana tutta cattolica, per far trionfare il proprio punto di vista
assolutamente minoritario i liberal-massoni hanno fatto ricorso ad una strategia che si potrebbe
definire coperta: hanno provato in ogni modo ad infiltrarsi all'interno della Chiesa per condizionarla
dal di dentro, hanno colto ogni possibile occasione per definirsi cattolici perfettamente ortodossi,
hanno fatto scattare sul piano interno ed internazionale una campagna di denigrazione e
falsificazione sistematica delle condizioni di tutti gli Stati italiani ad eccezione dei Piemonte.

Contro lo Stato della Chiesa era già in corso una pluricentenaria campagna d'odio e di calunnia
orchestrata dalle potenze protestanti. La massoneria organizza un'intensificazione di questa
propaganda e lo Stato pontificio viene descritto come il più sanguinano, retrogrado e mai

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amministrato di tutta la terra. Contro ogni ragionevolezza e contro ogni verità storica, l'ordine cerca
di convincere i cattolici che la semplice esistenza di uno Stato pontificio sia contraria
all'insegnamento di Cristo, vissuto povero e morto in croce, e assicura che rinunciando alla sua
visibilità (dal momento che non siamo puri spiriti ciò equivale alla rinuncia all'esistenza) la Chiesa
avrebbe guadagnato in spiritualità e purezza. Pio IX ha combattuto come un leone in difesa della
verità. In decine di encicliche ha descritto a cosa corrispondevano nei fatti le belle e suadenti parole
della propaganda liberale. Per evitare che il suo gregge rimanesse abbagliato dalla menzogna
trionfante, a cominciare dal 1849 (costretto all'esilio all'epoca della Repubblica romana> ha preso
carta e penna per raccontare ai cattolici cosa succedeva durante il supposto "risorgimento" della
nazione. i massoni, ricorda il Papa, proclamano ai quattro venti di agire nell'interesse della Chiesa e
della sua libertà. Si professano cristiani e pretendono dì rifarsi alla più pura volontà di Cristo. Le
cose non stanno così: "noi desidereremmo prestar loro fede, se i dolorosissimi fatti, che sono
quotidianamente sotto gli occhi di tutti, non provassero il contrario". È in corso una vera e propria
guerra, ammonisce il Papa: "da una parte ci sono alcuni che difendono i principi di quella che
chiamano moderna civiltà, dall'altra ci sono altri che sostengono i diritti della giustizia e della nostra
santissima religione". L'obiettivo che i massoni perseguono è "non solo la sottrazione a questa Santa
Sede ed ai Romano Pontefice dei suo legittimo potere temporale", ma anche "se mai fosse possibile,
la completa eliminazione dei potere di salvezza della religione cattolica". Dalla dura guerra di
religione scatenata durante il Risorgimento ad oggi le cose sono cambiate? Sotto tanti aspetti sì.
Però c'è un inquietante particolare che indurrebbe a non esserne così sicuri: l'attitudine dei mezzi di
comunicazione di massa a sostenere che l'atteggiamento della Chiesa nei confronti della massoneria
è radicalmente mutato. Così nel 1995 la più diffusa enciclopedia su dischetto - la Grolier
Multimedia Enciclopedia scrive: "il divieto ai cattolici di far parte di logge massoniche è stato
cancellato nel 1983". Così, ed è caso molto serio, il Corriere della Sera nel luglio dello scorso anno
in un'inchiesta pubblicata su Sette dal titolo Il risveglio della Massoneria. Lindner, firmatario
dell'articolo, sostiene: "L'istituzione ha dovuto fare sempre i conti con gli ostacoli frapposti dai
Vaticano che solo nel 1983 ha tolto la scomunica".

È vero l'esatto contrario: nel 1983 la Chiesa non ha cancellato nessuna delle centinaia di
scomuniche commi nate nel tempo contro la massoneria. La Chiesa ha fatto di più: nella
Dichiarazione sulla Massoneria dei 26 novembre 1983 ha ribadito ad opera del card. Ratzinger,
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che nulla è cambiato dall'epoca della prima
censura contenuta nella bolla In eminenti redatta il 28 aprile 1738 da Clemente XII. Nulla di nuovo
sotto il sole.

Dichiarazione sulla massoneria della Congregazione per la Dottrina della Fede (1983)

È stato chiesto se sia mutato il giudizio della Chiesa nei confronti della massoneria per il fatto che
nel nuovo Codice di Diritto Canonico essa non viene espressamente menzionata come nel Codice
anteriore. Questa Congregazione è in grado di rispondere che tale circostanza è dovuta a un criterio
redazionale seguito anche per altre associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in
categorie più ampie. Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle
associazioni massoniche, poiché i loro prindpi sono stati sempre considerati inconciliabili con la
dottrina della Chiesa e perciò l'iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle
associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa
Comunione. Non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle
associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito, e ciò in linea
con la Dichiarazione di questa 5. Congregazione del 17 febbraio 1981 (cf AAS 7311981, pp. 240-
241). lì Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso del l'Udienza concessa al sottoscritto
Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Dichiarazione, decisa nella riunione ordinaria di questa
S. Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione. Roma, dalla Sede della S. Congregazione per

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la Dottrina della Fede, il 26 novembre 1983.
Joseph Card. Ratzinger, Prefetto
Fr. Jérome Hamer, O. R, Arcivescovo tit. di Lorìum, Segretario

Bibliografia:

Angola Pellicciari, L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, Casale
Mon.to (AL) 2000.

Roberto de Mattei, Le società segrete nella rivoluzione italiana, in Massimo vigllone, La


rivoluzione italiana Storia critica del Risorgimento, Il Minotauro, Roma 2001, pp. 125-151.

Claudio Croscimanno - Marco Fosco, Risorgimento: chi ha paura della verità?, Lux Veritatis,
Isernia 2002.

Florido Giantulli S.J.., L'essenza della massoneria italiana, Pucci Cipriani Editore, Firenze 1973.

Massimo introvigne (a cura di), Massoneria e religioni, L :C:, Leumann (TO) 1994.

© Il Timone - n. 24 Marzo/Aprile 2003

Il Risorgimento anti-italiano

di Angela Pellicciari

Un intervento sulle polemiche sorte dopo la beatificazione di Pio IX

È convinzione comune che l'unificazione nazionale abbia avuto nei Savoia i propri alfieri perché
moralmente (e quindi civilmente) migliori degli altri sovrani della penisola. Libertà e costituzione:
detto in due parole sono queste le caratteristiche che avrebbero permesso ai reali di Sardegna di
vincere; i Savoia sarebbero stati gli unici a garantire il progresso e la civiltà in un desolato
panorama di arretratezza e di assolutismo oscurantista e superstizioso. Ebbene, se andiamo ad
analizzare il concreto comportamento dei governi liberali, e di casa Savoia, ci accorgiamo che la
costituzione (lo Statuto albertino) è sistematicamente fatta a pezzi proprio da coloro che si
definiscono scupolosi seguaci del dettato costituzionale.
A partire dal 1848 i vari parlamenti subalpini si esercitano in animate discussioni sulla necessità di
mettere fuori legge gli ordini religiosi della Chiesa cattolica: ma la "religione cattolica apostolica e
romana è l'unica religione di Stato", come solennemente dichiara il primo articolo dello Statuto. È
in corso la prima guerra di indipendenza contro l'impero austriaco ma i deputati sembrano non
preoccuparsi tanto delle disastrose sorti della campagna militare quanto della presenza all'interno
dello Stato di un nemico subdolo e potente: la Compagnia di Gesù definita "lue" e "peste". E così i
"liberali" sardi decidono la soppressione (e l'incameramento dei rispettivi beni) dei gesuiti e
stabiliscono che i padri debbano essere sottoposti a domicilio coatto non perché rei di qualche
specifico misfatto, ma perché gesuiti. La sorte della Compagnia di Gesù è seguita da quella di altre
prestigiose istituzioni cattoliche ritenute contagiate dall'ordine incriminato; dal momento che i
gesuiti sono appestati è chiaro che infettano quelli che frequentano: i membri di altri ordini religiosi
per l'appunto. L'intento di sopprimere tutti gli ordini religiosi della Chiesa di Stato (compiutamente

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realizzato nel 1873 con l'estenzione a Roma delle leggi eversive) è evidente dal 1848.
La guerra anticattolica riprende in Piemonte negli anni 1854-55 quando il governo Cavour-Rattazzi
presenta un progetto di legge contro gli ordini mendicanti (francescani e domenicani in primo
luogo) e contemplativi (monache di clausura) accusati, questa volta, di essere "inutili quindi
dannosi". Proprio questa è l'incredibile imputazione addottata contro monaci e frati da Urbano
Rattazzi, titolare dei dicasteri della giustizia e del culto. L'arbitrio (quale categoria, quale gruppo
sociale, può essere certo di non incappare un giorno o l'altro nella definizione governativa di
"inutilità"?) e il totalitarismo del "costituzionale" e "liberale" governo subalpino sono evidenti. Non
è tutto. Il guardasigilli ritiene che, oltre a quella dell'inutilità, un'altra urgenza imponga la
soppressione degli ordini religiosi: la necessità di fare giustizia all'interno della Chiesa attuando
"una più equa" ripartizione dei suoi beni. Queste le testuali parole del ministro: è "impossibile
negare la necessità d'una più equa ripartizione dei beni ecclesiastici [...] mentre si veggono benefizi
con una rendita di oltre 100.000 lire [... esistono] altri benefizi la cui rendita non arriva nemmeno
alle 500 lire. È forse giusto, è forse consentaneo ai principii della religione che esista questa
disparità fra i membri del clero? No certamente [...] il progetto intende a introdurre la più equa
ripartizione dei beni ecclesiastici". Togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno: si potrebbe
sostenere che, almeno in teoria, avesse più ragione Lenin col pretendere l'applicazione di questo
principio a cominciare (insieme a quelli della Chiesa) dai beni dei borghesi.
Sono molti, oltre al primo, gli articoli dello Statuto che diventano carta straccia: tanto per fare
qualche esempio sono calpestate l'inviolabilità della proprietà privata "senza alcuna eccezione",
l'asserita uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (i membri degli ordini religiosi della Chiesa di
Stato non sono garantiti), la tutelata libertà di associazione.
Il Regno di Sardegna, che non è certamete uno Stato costituzionale, non è nemmeno uno Stato
"liberale" se per liberale si intende quanto il linguaggio comune definisce tale. Per rendersene conto
basta analizzare cosa Cavour abbia in mente quando parla di libertà. Secondo il conte di libertà in
senso proprio si può parlare solo per l'1,7% della popolazione che ha diritto di voto. Punto e basta.
Tutti gli altri, per definizione, non contano né possono contare nulla. Proprio così sostiene nel 1855,
al Senato, rispondendo all'autorevole maresciallo Vittorio Della Torre che osa mettere in dubbio
l'asserita popolarità del provvedimento contro i conventi, chiamando a testimoni le migliaia di
fedeli che affollano le chiese per scongiurare l'approvazione della legge. Ecco cosa afferma Cavour:
"L'onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in
verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall'onorevole maresciallo l'opinione di persone, di
masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate".
Stando così le cose è evidente che anche la tanto sbandierata libertà di stampa sarà tale per la sola
stampa liberale. Nel pieno della campagna antigesuitica, il 25 gennaio 1848, il provinciale
Francesco Pellico (fratello del più noto Silvio) si rivolge a Carlo Alberto con queste sconsolate
parole: "Era sapientemente dichiarato da V. M. nella nuova legge sulla stampa che dovesse rimaner
inviolato l'onore delle persone e dei ministri della Chiesa. Ma pare che nell'avvilire e calunniare i
Gesuiti non si tema di trasgredire la legge [...] esposti per la sola qualità di Gesuiti al pubblico odio
o alla diffidenza e al dispregio. Intanto però i giornali e i libelli che ci fanno la guerra, approvati in
ciò dalla censura, hanno diritto di rifiutare le nostre smentite; né tuttavia abbiam noi un altro organo
imparziale da stamparle con uguale pubblicità, se pure non ci venga concesso di farlo per via della
gazzetta del Governo". A colmare la misura penserà Cavour che non permetterà nemmeno la
pubblicazione delle encicliche del Papa.
Sul piano della teorizzazione politica l'aspetto di maggior rilievo è forse quello relativo all'asserita
necessità di garantire la libertà della Chiesa, nel rispetto di quella dello Stato: "libera Chiesa in
libero Stato" come dirà Cavour. Si tratta del fondamentale principio del separatismo, illustrato in
parlamento da Carlo Cadorna relatore della proposta di legge contro i conventi. In un lunghissimo
quanto applaudito intervento l'onorevole Cadorna per definire la giusta separazione dei poteri fa
ricorso alla volontà di Dio. Dio affiderebbe al potere spirituale la parte più intima e più preziosa
dell'uomo, vale a dire la sua anima; la Chiesa si troverebbe così ad avere autorità sui "pensieri, le

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aspirazioni, le credenze". Secondo quest'ottica la Chiesa sarebbe "spirituale nel suo scopo, e noi non
sapremmo invero comprendere troppo agevolmente quale nesso possa esistere [...] tra l'oggetto
spirituale, cioè l'anima umana sulla quale la Chiesa può unicamente agire e gli oggetti materiali i
quali hanno inabilità naturale di esercitare sull'anima un'azione di qualsivoglia natura". Al potere
temporale, al contrario, Dio affiderebbe "la potestà... sopra i beni temporali e materiali". Stabilendo
una più che dubbia identificazione fra ambito materiale e ambito temporale e confinando la Chiesa
nel fantasioso regno delle coscienze (che, come noto, non sono visibili), anche sotto questo aspetto
Cadorna (e la maggioranza di governo con lui) teorizza un totalitarismo assoluto che attribuisce allo
Stato un potere smisurato. E così, dal momento che i visibili beni della Chiesa non diventano
spirituali per il solo fatto di appartenere a un'istituzione spirituale (come esplicitamente afferma
Cadorna), a maggior ragione la Chiesa non può rivendicare il possesso di un intero Stato. Cadorna
non lo dice, ma è evidente che questo è uno dei principali obiettivi che la legge contro i conventi si
ripromette di conseguire: la delegittimazione dell'esistenza dello Stato pontificio, che, vale la pena
di ricordarlo, è il più antico Stato dell'Occidente.
Il Regno di Sardegna scatena in Italia la prima seria persecuzione anticattolica dall'epoca di
Costantino seguendo pedissequamente le orme dei riformatori protestanti: non a caso i migliori,
anzi gli unici alleati di Vittorio Emanuele, sono proprio i governi liberali e massonici, nemici
dichiarati della Chiesa di Roma. Con questo non vorremmo sminuire l'indubbia novità dei
provvedimenti antireligiosi di casa Savoia: quello italiano è infatti l'unico caso in cui una guerra di
religione contro la Chiesa è scatenata in nome della stessa Chiesa. Nessuno, in Europa, era arrivato
a tanto. Pio IX non si stancherà di ripeterlo in decine di encicliche e il 9 ottobre 1861, tanto per fare
un esempio, dopo aver elencato le gesta dei liberali ("Inorridisce il cuore al ricordo dei molti centri
del napoletano incendiati e rasi al suolo, ai moltissimi religiosi e cattolici di ogni età, sesso e
condizione, gettati in prigione senza processo o crudelmente uccisi") esplicitamente afferma:
"Misfatti simili si commettono da coloro che non arrossiscono di proclamare di voler dare libertà
alla Chiesa, e restituire all'Italia il senso morale". Per la contraddizion che nol consente Vittorio
Emanuele, rivendicando il diritto a governare l'Italia in nome della Costituzione e della libertà, non
può denunciare apertamente la lotta scatenata contro la fede della stragrande maggioranza dei
cittadini (garantita per di più dal primo articolo dello Statuto) e deve anzi risolutamente negarla.
È ingenuo domandarsi il perché di un uso così sistematico e spregiudicato della menzogna? Forse
non sarà inutile ricordare che 57.492 sono i membri degli ordini religiosi soppressi, derubati di ogni
avere (case, arredi sacri, biblioteche e archivi, oggetti di culto, terreni): centinaia di edifici
splendidamente conservati, opere d'arte di inestimabile valore, più di 2 milioni e mezzo di ettari di
terra, vanno ad arricchire, acquistati per due lire, l'1% della popolazione di fede liberale. Come
conseguenza di questo massiccio spostamento di ricchezza nel giro di venti anni la percentuale dei
proprietari terrieri crolla del 38% (si passa dai 191 ogni mille abitanti del 1861, ai 118 del 1881) e
alle classi sociali marginali, private del sostegno capillare loro offerto dalle opere caritative della
Chiesa e dalle decine di migliaia di opere pie (anch'esse soppresse), non resta che l'emigrazione.
Il vantaggio materiale, pur cospicuo, non basta però da solo a spiegare il totalitarismo liberale. Il
fatto è che la maggioranza dei liberali ritiene in buona fede di costituire l'unica speranza di salvezza
della povera Italia, abbrutita e schiavizzata da più di un millennio di fede cattolica. Non sarà
difficile capire questa convinzione dei liberali dell'Ottocento visto che ancora oggi molti autorevoli
commentatori imputano tutte le "arretratezze" nazionali alla mancata Riforma. Succede così che, in
nome della libertà, l'1% della popolazione ciecamente convinta della verità del proprio credo,
disprezzando la cultura e la tradizione del restante 99, smantella con violenza tutto il tessuto
politico, economico e sociale della penisola. Dominati da un cieco spirito di onnipotenza, i liberali
danno vita a uno Stato totalitario che si fregia del nome di "libero" e che realizza per la prima volta
dopo più di due millenni l'asservimento culturale, economico e politico dell'Italia ad altre nazioni
acriticamente definite "civili".
Il disprezzo dei liberali per l'identità nazionale, cattolica, e la loro volontà demiurgica di creare
un'umanità di tipo nuovo (l'Italia è fatta, si tratta di fare gli italiani, si dirà autorevolmente) cozza

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con un dato di fatto di straordinaria evidenza. A stare ai dati dell'Unesco l'Italia possiede, da sola,
più della metà dei beni artistici dell'intero pianeta. Il primato della bellezza è la prova più manifesta
dell'errore liberale. Il Bel Paese, nonostante il degrado, sta ancora lì a dimostrare la grandezza della
tradizione e della cultura dell'Italia cattolica. A partire da questa verità, da questo dato di fatto, si
può forse cominciare a valutare con maggiore equanimità il nostro passato ingiustamente
incriminato. Chissà che la verità storica sulla natura "antitaliana" del Risorgimento non riesca a
sanare le ferite generate da un processo tanto violento quanto ingiusto contro la nostra identità
nazionale. Chissà che non si finisca per constatare che la Chiesa di Roma è stata (ed è tuttora) per
l'Italia occasione di primato mondiale.

Liberal - Febbraio/Marzo 2001

Carlo Alberto, nemico della lega federale

Il Savoia osteggiò la proposta fatta da Ferdinando II di Borbone e appoggiata da Pio IX

di Angela Pellicciari

Chi per primo lancia l'idea di una Lega federale fra i vari stati che compongono la penisola italiana?
Strano a dirsi, ma il famigerato Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie.

Nel novembre del 1833, tramite il proprio ambasciatore a Roma conte Ludorf, Ferdinando II invita
Gregorio XVI a farsi promotore di una Lega difensiva e offensiva fra i vari governi italiani per
tutelare la religione, i troni e l'ordinamento sociale minacciati dal liberalismo, vale a dire dalla
rivoluzione.

Visti gli immediati precedenti storici -Napoleone e Murat-, si tratta anche di agire di comune
accordo "verso quelle potenze straniere che sconsigliatamente volessero cooperare a favorire in un
caso estremo gli sforzi dei medesimi settarî".

La risposta del papa arriva per mano del cardinal Bernetti, segretario di stato, il 6 dicembre dello
stesso anno.

Gregorio XVI apprezza la proposta e le intenzioni di re, ma non può far propria l'iniziativa perché
"il carattere sacro di padre comune" impedisce al papa, "supremo gerarca di nostra santa religione",
di "suonare la tromba di guerra od eccitare alle armi".

Le difficoltà cui accenna Gregorio XVI sono comprensibili, eppure l'idea della Lega si fa strada
all'interno della Chiesa e nel cuore di Pio IX, successore di Gregorio XVI.

Mastai Ferretti appoggia la costituzione di una Lega doganale, punto di partenza per un'unione
federale e, dietro al papa, è praticamente tutta la Chiesa a promuovere e a sostenere l'unificazione
italiana attraverso un processo federale. Ecco con quale slancio, nel 1848, l'influente gesuita
Giuseppe Romano parla della Lega in La causa di gesuiti in Sicilia: "La Lega! Il sospiro di tanti
anni, il voto unanime de' popoli italiani. La Lega federativa è diretta a tutelare a ciascuno dei popoli
federati i suoi diritti, gl'istituti, le proprietà, le franchigie. La Lega ritenendo tutti i vantaggi che dà
ad ogni stato la sua autonomia, aggiunge al loro aggregato tutta la forza che mancherebbe a
ciascuno di essi per costituirsi in nazione grande, ricca, commerciante, prosperevole e temuta".

La Lega, a parole da tutti auspicata, non si realizza perché sulla sua strada si frappone un ostacolo
insormontabile: Carlo Alberto di Savoia. Il Re di Sardegna ha l'ambizioso progetto di "fare da sé".

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Incurante delle più elementari norme di diritto internazionale, vuole diventare re d'Italia lui solo. Il
2 giugno 1846 il ministro degli esteri dello stato sardo, Clemente Solaro della Margarita, indirizza a
Carlo Alberto un Memorandum per mettere in guardia Sua Maestà dai pericoli che la politica
liberale può comportare per il suo governo: "La corona d'Italia sarà una corona mal acquistata che
presto o tardi sfuggirà dalle mani di chi se ne sarà impadronito con un progetto politico opposto a
quello voluto da Dio". Solaro ricorda a Carlo Alberto di essere il primo ad augurarsi l'accrescimento
del "potere" e dei "domini" di Casa Savoia, purché questo avvenga "senza lesione di giustizia".

Il benservito a Solaro della Margarita, dopo undici anni di fedele servizio, è il più chiaro segno che
Carlo Alberto ha rotto gli indugi: Casa Savoia fa proprio il progetto massonico dell'unità nazionale
sotto la bandiera liberale. Buon profeta Ferdinando II di Borbone.

Quanto da lui paventato diventa realtà: una casa regnante italiana si fa paladina, oltre che delle
proprie, delle esigenze di potere di Francia ed Inghilterra, massime potenze liberali dei tempi.

La Padania - 4 agosto 2001

Torino capitale, covo di massoni

La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa

di Angela Pellicciari

Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno
a Torino, nuova e impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe
dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni.
Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in
Parlamento.

Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle
della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa Gerusalemme.
Il Paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: "Torino saliva allora al colmo del suo splendore.
Era stata forte e diventava grande - bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui
preparano le nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme".

A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti
i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Maçon, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono
nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai "fratelli" italiani
un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più
prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il
siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino,
racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla "carissima amica" Ernesta Fumagalli
Torti, spedita il 2 giugno 1848. "Arrivati appena a Torino - scrive - stavamo spogliandoci,
quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre dinestre, e farci una
dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille
prove ed espressioni d’affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa;
e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore
insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re".

L’accoglienza "regale" offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un
importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre

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garanzie ai liberali - protestanti e massoni di tutto il mondo - che sono intenzionati a fare sul serio.
Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione
cui quello stato appartiene.

I Savoia per amore di regno e quindi per furto - come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi - diventano
fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura
e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della
cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia
godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia
sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la
radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola.

L’anima massonica del regno sardo, e in particolare del Parlamento subalpino, viene mai
apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluri-scomunicata e perché il primo articolo
dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di stato. L’11
novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la "fraternità"
quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la
campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose.
Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico
insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità.

Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi - osserva il deputato - sono nati in
Italia dove esistono da "più di dodici secoli". Bisogna dedurne che "necessariamente corrispondono
ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per
conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero
abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere
fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza
frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)".

La Padania - 18 agosto 2001

Le mani di Cavour sugli Ordini

Monache e francescani furono giudicati "inutili, quindi dannosi" da Rattazzi

di Angela Pellicciari

Nel 1854 il governo del connubio Cavour-Rattazzi presenta in Parlamento un progetto di legge per
la soppressione degli ordini religiosi contemplativi e mendicanti: il provvedimento riguarda 3.733
uomini e 1.756 donne, complessivamente 5.489 persone.

Il govreno Cavour decide di farla finita con alcuni degli ordini religiosi più rappresentativi della
Chiesa cattolica: francescani, domenicani e monache di clausura. Perché? Perché - questa la
strabiliante ragione addotta dal Guardasigilli e ministro del Culto, Urbano Rattazzi - "sono inutili e
quindi dannosi". Deputati e senatori cattolici insorgono: con simili argomentazioni chi potrà più
stare tranquillo? Chi ci assicura che, continuando per la stessa strada, non vengano considerate
inutili e quindi "dannose" altre normali occupazioni civili? Se passa una legge simile - obiettano -
chi potrà più arginare il totalitarismo di marca liberale?

All’opposizione cattolica risponde il presidente del Consiglio, onorevole Cavour. Nei suoi
interventi in Parlamento il conte si propone di "dimostrare" che gli ordini religiosi non sono solo

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inutili - come sostiene Rattazzi - ma sono anche dannosi: la loro soppressione è quindi
perfettamente legittima, per non dire doverosa. A cosa sono dannosi gli ordini religiosi? Al
progresso. Proprio così, afferma Cavour. Bisogna ammettere che l’asserita "scientificità"
dell’argomentazione del presidente non è meno fantasiosa dell’allegra noncuranza del Guardasigilli
Rattazzi. Seguiamo il ragionamento di Cavour: "La società attuale ha per base economica il lavoro,
laddove la società, in mezzo alla quale sorsero quegli ordini, riposava sulla base delle conquiste,
della forza, della guerra. Nei tempi, nelle condizioni presenti nessuna società civile può prosperare,
può mantenersi nello Stato, se non dà opera a favorire lo sviluppo del lavoro, a renderlo più
efficace, a renderlo stimato e rispettato. Ora, o signori, gli ordini puramente contemplativi, come gli
ordini mendicanti, si trovano in opposizione diretta contro questo principio sopra il quale riposa la
società moderna".

Monaci e frati rifiutano di mettere la ricchezza al primo posto? Si sottraggono ostinatamente al


lavoro che non produce ricchezza? E noi li sopprimiamo. La logica di Cavour non fa una grinza.
Dopo aver matematicamente dimostrato - così ritiene - che gli ordini religiosi della "Chiesa di stato"
sono dannosi al progresso economico, sociale e culturale, il conte si cimenta in un compito davvero
improbo: pretende di dimostrare che francescani e domenicani sono nocivi allo stesso progresso
religioso. Che monache e frati sono nocivi alla Chiesa cattolica cui appartengono. Ecco le
incredibili parole del presidente del Consiglio: "Forse taluno mi dirà che se queste istituzioni non
sono utili alla società civile, e quand’anche fossero per alcun che alla medisima dannose, riescono
però utili e necessarie alla società religiosa". Falso, afferma, e "stimo di poterlo dimostrare".

Ecco la dimostrazione: "Un gran fatto si è compiuto in Europa in questi ultimi anni, fatto che viene
ricordato con giusta soddisfazione da tutti coloro che hanno a cuore gl’interessi della religione. Si è
manifestato in molte parti d’Europa sopra una grande scala una reazione religiosa, un ritorno
all’idea verso i principii e le dottrine religiose". Ebbene, si domanda il conte, "dove si è manifestato
con maggiore intensità? Dove questo ritorno degli spiriti e delle classi illuminate verso i principii e
le idee religiose si è verificato? Forse in paesi in cui abbondino gli ordini religiosi, figli del medio
evo? No certamente". Un gran ritorno, un rifiorire della religione non si è manifestato né in Spagna,
né nello stato della Chiesa: si è manifestato invece in Germania, nel "Belgio liberale", nella
"Francia illuminata" e nella "libera Inghilterra, là dove le antiche corporazioni religiose, figlie del
medio evo, sono quasi interamente scomparse". La carta geografica dei territori in cui Cavour stima
che la "idea" religiosa sia tenuta in maggiore considerazione coincide con quella dei paesi retti da
governi protestanti, liberali e massonici.

Con le sue affermazioni Cavour "dimostra" di che natura siano le proprie convinzioni civili e
religiose: secondo lui le cose vanno molto meglio nei paesi protestanti e massonici che in quelli
cattolici. Davvero non c’è male per un presidente del Consiglio di uno stato ufficialmente
costituzionale in cui la religione di tutta la popolazione, il cattolicesimo, è addirittura definita "unica
religione di stato".

La Padania - 25 agosto 2001

Uniti per scristianizzare l’Italia

Il Regno di Sardegna dichiarò il cattolicesimo religione di Stato ma era retto da nemici della Chiesa

di Angela Pellicciari

Importante è che l’arcano non sia svelato. Perché il progetto del Risorgimento vada in porto è
fondamentale che i liberal-massoni che reggono le sorti del Regno di Sardegna non vengano

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riconosciuti per quello che sono. Altrimenti la pretesa di costruire uno stato liberale e costituzionale
-essendo tutta la popolazione cattolica- va a farsi benedire. Il primo articolo dello Statuto dichiara la
religione cattolica ‘unica religione di stato’? I liberali sono costretti a sbandierare ai quattro venti la
propria incrollabile fede cattolica. La propaganda liberale definisce il regno di Sardegna l’unico
moralmente degno di unificare l’Italia perché costituzionale? Il disprezzo per la quasi totalità della
popolazione e le sue tradizioni va accuratamente celato.

Come reagisce la Chiesa, e per lei il papa, a questo lucido disegno di scristianizzare l’Italia? La
maggiore preoccupazione di Pio IX è che i cattolici conoscano la verità e non cadano nell’insidiosa
e martellante propaganda liberale. Per mettere in guardia i fedeli contro le menzogne del governo
subalpino, il 22 gennaio 1855 Mastai Ferretti rende pubblici i documenti che mostrano l’effettivo
stato delle relazioni diplomatiche fra Santa Sede e Regno di Sardegna a partire dal 1847. Il governo
di Vittorio Emanuele sostiene di operare nella ricerca di un sincero accordo col papa: non è vero,
scrive Pio IX. Come risulta in modo inoppugnabile dai documenti, la diplomazia sabauda si muove
all’insegna della più radicale doppiezza; la falsificazione sistematica della posizione del pontefice è
la sua arma preferita; il governo di Vittorio Emanuele manifesta solo un’esplicita e reiterata volontà
di rottura. In chiusura del suo intervento il papa ricorda che la scomunica è l’inevitabile
conseguenza della soppressione degli ordini religiosi che il regno sardo si accinge a sanzionare.

Il governo subalpino, che pur si definisce liberale, reagisce alla pubblicazione dei documenti
gridando allo scandalo ed accusando il papa di confusione mentale. E’ quanto fa Carlo Cadorna, il
difensore del principio del separatismo. Il papa, afferma Cadorna, fa ‘confusione’ e si espone ad
‘assurde conseguenze’. A parere del deputato ‘una prova evidente e recentissima delle assurde
conseguenze del sistema della confusione dei poteri noi l’avevamo nei documenti che furono
pubblicati per cura della Corte di Roma’: Cadorna ritiene di giudicare i fatti con più lucidità ed
equanimità del papa, e pensa che quando Pio IX minaccia la scomunica sia in errore.

Il deputato è convinto di valutare l’appartenenza alla Chiesa cattolica meglio di Pio IX: ‘Dovetti
quindi interrogare su di ciò la mia sola ragione. Ed essendo appunto venuto a confermarmi nella già
antica mia convinzione, che gli oggetti di questa legge sono assolutamente estranei ad ogni
ingerenza del potere ecclesiastico, ne ho dovuto necessariamente inferire che i fulmini della Chiesa
non potevano farmi cessare d’essere né credente né cattolico’.

Il guardasigilli e ministro del culto Urbano Rattazzi condivide il parere del collega: ‘Se le censure-
sostiene - avessero per fine la tutela dei beni spirituali, della giurisdizione spirituale della Chiesa, io
non esiterei dall’invitarvi a dichiararvi affatto incompetenti ed a sottomettervi. Ma, siccome queste
censure non hanno per iscopo che di mantenere certe temporalità, di assicurare alla Chiesa certi beni
che la Corte di Roma stessa ed i nostri pastori dichiarano temporali, sui quali la potestà civile, ad
esclusione di ogni altra, ha competenza [...] vi propongo di procedere oltre risolutamente e di votare
il progetto di legge’.

Le motivazioni addotte da Cadorna e Rattazzi in parlamento sono alla lettera le stesse utilizzate
dalla massoneria per negare alla Santa Sede il diritto di scomunicarla. Nell’opuscolo La
Frammassoneria in dieci domande e risposte, pubblicato a Genova nel 1867, si legge: ‘I cattolici-
romani non sono tenuti ad obbedire agli ordini del Pontefice, come Capo della Chiesa, se non nelle
materie puramente ecclesiastiche, o di giurisdizione spirituale. Ora, l’Associazione Massonica non
essendo ecclesiastica, né occupandosi menomamente di Religione, egli è evidente che nell’emanare
un ordine a suo riguardo, i Papi oltrepassarono i limiti della loro giurisdizione’.

Dopo l’approvazione della legge contro i conventi, il 26 luglio 1855, tutti coloro che insieme col re
l’hanno proposta, sostenuta e sanzionata, sono colpiti dalla scomunica maggiore. Il papa non può

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far altro che rendere pubblico lo stato dei fatti: il Regno di Sardegna, che dichiara il cattolicesimo
religione di Stato, è retto da nemici della Chiesa. Per tutta risposta il governo Cavour impedisce la
pubblicazione delle encicliche pontificie. Nonostante l’articolo 28 dello Statuto tuteli la libertà di
stampa. In parlamento e fuori del parlamento i liberali scomunicati continuano a fare pubblica
professione di fede cattolica: cosa il papa pensa dei liberali che si definiscono cattolici non si deve
sapere.

La Padania - 6 settembre 2001

Piemonte liberale? No, brutale

Il regno sardo eseguì molte più condanne a morte di qualsiasi altro Stato

di Angela Pellicciari

"Vi prego di presentare al Congresso la seguente proposta in favore degli sfortunati concittadini che
gemono nelle prigioni e nelle galere dei principi italiani": così scrive Cavour al "caro amico" lord
Clarendon, potente plenipotenziario ingelese al Congresso che si apre a Parigi nel 1856. Cavour
invoca per bocca di Clarendon "misure di clemenza" per i condannati dei reati politici commessi nel
biennio 1848-49.

Propaganda: ancora e sempre propaganda. Il Risorgimento si impone all’Italia e all’estero come


risultato di un’abilissima e spregiudicata propaganda il cui costo ricade, a cose fatte, sulle
popolazioni dei vari Stati italiani; in primo luogo sui cittadini dell’Italia meridionale. Il Congresso
di Parigi offre al Piemonte ed ai suoi amici inglesi e francesi l’occasione propizia di fare da cassa di
risonanza alle menzogne liberali sulla situazione dell’Italia non sabauda. La realtà, come al solito, è
esattamente opposta a quella che il conte di Cavour ed i suoi alleati fingono che sia. Se c’è qualcuno
che "geme" nell’Italia degli anni Cinquanta dell’Ottocento, questi sono i numerosissimi detenuti del
regno sardo. Veniamo ai fatti e alle cifre.

Lo storico romano Paolo Mencacci documenta che dopo la rivoluzione del 1848, fatto unico in
Europa, nel Regno delle Due Sicilie non vengono effettuate condanne a morte. Se 42 sono le pene
capitali per delitti politici decretate dalle Corti di giustizia negli anni che vanno dal 1851 al 1854, il
re Ferdinando II ne tramuta 19 in condanne all’ergastolo, 11 in 30 anni ai ferri e 12 in pene minori.
Negli stessi anni la clemenza del sovrano grazia 2713 condannati per reati politici e 7181 per reati
comuni. A ciò si aggiunga che la statistica criminale del Napoletano, a partire dal 1848, è in
costante diminuzione. A giudicare con i criteri odierni che ritengono la pena di morte una barbarie,
il Regno delle Due Sicilie nel decennio che precede l’unificazione è senzìombra di dubbio uno stato
modello.

Per lo Stato pontificio valgono considerazioni simili. Secondo il Rayneval, ambasciatore di Francia
a Roma, mai una restaurazione è stata realizzata con maggiore clemenza: "Il papa si è limitato ad
impedire [che i rivoluzionari] facciano ancora del male bandendoli dal paese. Nessun
imprigionamento, nessun processo, se non eccezionalmente per l’ostinazione di taluni ad essere
giudicati". La giustizia pontificia è ben amministrata, scrive Reyneval, "sono scrupolosamente
osservate tutte le precauzioni per la verifica dei fatti, tutte le garanzie per la libera difesa
dell’accusato, compresa la pubblicazione dei dibattiti".

La situazione della giustizia, viceversa, è drammatica proprio nel Regno di Sardegna dipinto come
Stato modello. Assumendo la pena di morte come indice della violenza di un regime, il regno sardo
è uno stato brutale: da quando sono andati al potere i liberali le esecuzioni capitali sono aumentate

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in modo esponenziale. A sollevare il caso in Parlamento è Angelo Brofferio, deputato romanziere
schierato a sinistra. Il ministro De Foresta, costretto dalle polemiche, rende pubblico un raffronto tra
le esecuzioni eseguite in un quinquennio di governo liberale (anni 1851-1855) e quelle avvenuto in
un quinquennio di governo assoluto (1840-1844). Il confronto è istruttivo: sotto il governo assoluto
39 condanne, sotto il regime della libertà 113. L’Armonia - il giornale di don Margotti - commenta:
"I nostri gazzettieri che gridano tanto contro gli assassini e gli omicidi dello Stato Pontificio e di
Napoli, tirandone la conseguenza contro la mala amministrazione di que’ governi, non fanno
altrettanto cogli omicidi e cogli assassini del Piemonte".

Regno violento, indebitato fino al collo per sostenere i costi altissimi della rivoluzione italiana, il
regno sardo denigra gli altri Stati della Penisola proiettando su di loro la propria disastrosa
condizione, mentre mitizza le caratteristiche degli Stati stranieri suoi alleati. Tipico esempio di
calunnia quotidiana è una notizia che compare il 19 marzo 1857 sul Corriere Mercantile di Genova
riguardante un mostruoso strumento di tortura denominato "cuffia del silenzio". La notizia, subito
ripresa da giornali liberali italiani ed europei, racconta di un oggetto costruito per impedire ai
carcerati siciliani di parlare. Ebbene, mentre di questa diabolica cuffia non ci sono tracce nelle
prigioni borboniche, il suo utilizzo è documentato in quelle inglesi. Così racconta Christophe
Moreau, incaricato dal governo francese di fare un sopralluogo nelle carceri dell’isola: "L’ordigno
più curioso e significante - scrive Moreau - è uno strumento di silenzio composto di varie bende di
ferro circolari che serrano la testa del colpevole dalla nuca alla fronte, riunite fra loro da un’altra
banda di ferro, che si parte in due per dar passaggio al naso, ed è terminata al di sotto da una lingua
di ferro che entra nella bocca fino al palato".

"E noi faremo come la Russia" cantavano felici all’inizio del secolo i comunisti italiani. Una
sprovveduta e ridicola esteromania: questo è il duraturo lascito del Risorgimento.

La Padania - 23 settembre 2001

Elezioni? Valide se a favore di chi è al governo

Il voto del 1857 mise in agitazione Cavour perché il partito cattolico raddoppiò i consensi

di Angela Pellicciari

Il 2,4% della popolazione sarda è chiamato alle urne sul finire del 1857. Si tratta delle prime
elezioni dopo i provvedimenti eversivi del governo Cavour e l’ansia del conte per il risultato
elettorale è comprensibile.

I risultati delle elezioni vanno molto al di là delle più fosche previsioni di Cavour. Il partito
cattolico raddoppia i suoi consensi passando dal 20,4% al 40,2 e Cavour, pronto a fronteggiare
un’opposizione di non più di 30 deputati, se ne trova davanti 60. Questo il quadro della situazione
tratteggiato da Cavour in una lettera al principe Napoleone: "Il partito clericale agendo nell’ombra,
ma con una forza d’insieme poderosa, sotto l’impulso e la direzione di Roma e del Comitato
centrale di Parigi, grazie all’impiego di mezzi odiosi e indegni, si è procurato una serie di trionfi
parziali che gli hanno regalato una temibile minoranza nella futura Camera. Ci preparano una lotta
disperata".

Per realizzare l’unità d’Italia di tutto ha bisogno Cavour fuorché di un’opposizione degna di questo
nome. Molti dei deputati eletti nelle file cattoliche sono preti stimati e conosciuti da tutti; uomini
brillanti, sanno benissimo cosa sta succedendo. Conoscono i piani della Massoneria, conoscono il
pericolo che la religione cattolica corre e sono pronti a dare battaglia seria in Parlamento, ben

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diversa da quella stanca e fiacca della Camera precedente.

Perché la cospirazione italiana vada a buon fine, il presidente del Consiglio ha assoluto bisogno di
avere le mani completamente libere, senza nessuno che sia in grado di ostacolarne e controllarne le
mosse. Cavour non può permettersi il lusso di un contraddittorio parlamentare; per sbarazzarsi della
temibile opposizione non resta che un’arma: invalidare le elezioni. È la strada che Cavour, come al
solito privo di qualsiasi scrupolo, si accinge a percorrere. Il 30 dicembre 1857 spiega in Parlamento
perché l’elezione di 22 persone non sia valida e vada annullata. Abuso di armi spirituali, questa la
motivazione: "Si denunzia l’uso dei mezzi spirituali nella lotta elettorale; io desidero che di queste
accuse il clero intero sia purgato".

Cosa intende Cavour per uso improprio di armi spirituali? L’aperta denuncia che alcuni sacerdoti
fanno dei propositi anticristiani e massonici del governo liberale: la cospirazione anticattolica (e
quindi antitaliana) che pure è in pieno svolgimento, non è dicibile. Cavour è del parere che il clero,
denunciando lo stato dei fatti, abusi del suo potere e combatta "per riacquistare gli antichi privilegi,
per far tornare indietro la società, per impedire il regolare e normale sviluppo della civiltà
moderna".

Mentre invalida l’elezione dei suoi più temibili avversari prendendo a pretesto il progresso ed il
"normale sviluppo della società moderna", il presidente del Consiglio completa l’opera indirizzando
una circolare agli Intendenti generali e provinciali (l’equivalente dei prefetti) perché appoggino con
decisione i candidati governativi.

In chiusura del proprio intervento alla Camera Cavour evidenzia le delicate implicazioni che
l’abuso di armi spirituali potrebbe comportare: "ove si lasciasse in questo terreno pigliar piede e
assolidarsi l’uso di queste armi spirituali, la società correrebbe i più gravi pericoli; la lotta da legale
correrebbe il rischio di trasformarsi in lotta materiale. Quando il clero potesse impunemente
denunciare nei comizi elettorali i suoi avversari politici a cominciare da coloro che reggono lo Stato
fino all’ultimo fautore delle idee liberali, come nemico acerrimo della Chiesa, come uomo colpito
dai fulmini divini, esso potrebbe facilmente ottenere da quella gente di opporsi e al Governo".
Cavour ha ragione: la persecuzione anticattolica è violentissima e se la popolazione capisce come
stanno le cose si corre il rischio di una rivolta. Al clero non può essere consentito di parlare chiaro.

La Chiesa di Pio IX, se non invita alla rivolta, non copre nemmeno col proprio silenzio la
messinscena liberale del governo parlamentare. La politica né eletti né elettori suggerita da don
Margotti di lì a qualche anno si trasformerà nel "Non expedit" di Pio IX. Il papa prenderà atto che,
nel regime costituzionale, per la Chiesa e per i cattolici non c’è alcuno spazio.

La Padania - 25 settembre 2001

Il Risorgimento visto da un nobile irlandese: le ombre del governo sabaudo

Unità d’Italia: processo ai piemontesi

di Maurizio Blondet

Patrick Keyes O’Clery, irlandese, aveva 18 anni quando nel 1867 si arruolò tra gli Zuavi per
difendere il Papa: partecipò alla battaglia di Mentana dall’altra parte, ossia contro i garibaldini. A
21 anni, nel 1870, è nel selvaggio West americano a caccia di bisonti. Ma, appreso che l’esercito
italiano si prepara a invadere lo Stato Pontificio, torna a precipizio: il 17 settembre ‘70 è a Roma di
nuovo. E’ filtrato tra le linee italiane con due compagni, un nobile inglese e un certo Tracy, futuro

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deputato del Congresso Usa. In tempo per partecipare, contro i Bersaglieri, ai fatti di Porta Pia.

Tornato in Inghilterra ed eletto parlamentare, si batterà per l’autonomia dell’lrlanda. Nel 1880
abbandona la politica per dedicarsi all’avvocatura. Morirà nel 1913, avendo lasciato due volumi
sulla storia dell’unificazione italiana. L’opera, che le edizioni Ares di Milano manderanno in
libreria alla fine di agosto (Patrick K. O’Clery, La Rivoluzione Italiana. Come fu fatta l’unità della
nazione, 780 pagine, 48 mila lire), sarà presentata al prossimo Meeting di Rimini giovedì 24 agosto.
Opera stupefacente degna del suo avventuroso autore, dovrebbe essere letta nelle scuole italiane: e
non solo come esempio di revisionismo storico precoce e antidoto alla mitologia del Risorgimento.
Vedere l’Italia con l’occhio di uno straniero di cultura anglosassone - allora il centro culturale e
politico del mondo - risulterà salutare.

Esempio. A proposito del brigantaggio del Sud, stroncato In anni spietati dal Regno d’Italia,
O’Clery riporta voci di dibattiti parlamentari a Torino. Il deputato Ferrari, liberale, che nel
novembre 1862 grida in aula: "Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera
nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni
sul trono di Napoli. E’ possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da
due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5
mila abitanti completamente distrutta e non dai briganti" (Ferrari allude a Pontelandolfo, paese raso
al suolo dal regio esercito il 13 agosto 1861). O’Clery riferisce i dubbi di Massimo D’Azeglio (non
certo un reazionario) che nel 1861 si domanda come mai "al sud del Tronto" sono necessari
"sessanta battaglioni e sembra non bastino": "Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare
atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che,
rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle archibugiate".
Persino Nino Bixio, autore dell’eccidio di Bronte, nel ‘63 proclamò in Parlamento: "Un sistema di
sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là, signori, e se volete che l’Italia si compia,
bisogna farla con la giustizia, e non con l’effusione di sangue". O’Clery non manca di registrare
giudizi internazionali sulla repressione. Disraeli, alla Camera dei Comuni, nel 1863: "Desidero
sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso
discutere su quelle dei Meridione italiano. E’ vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati briganti
e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcun’altra differenza tra i due
movimenti".

O’Clery fornisce alcune cifre. Tra il maggio 1861 e il febbraio 1863, l’esercito italiano ha catturato
"con le armi" e perciò fucilato 1038 rivoltosi; ne ha uccisi in combattimento 2.413; presi prigionieri
2.768. Inoltre; "Secondo Bonham, console inglese a Napoli, sistematicamente favorevole ai
piemontesi, c’erano almeno 20 mila prigionieri politici nelle carceri napoletane", ma secondo altre
stime 80 mila. I più - indovinate - in attesa di giudizio, o addirittura del primo interrogatorio, "senza
sapere di cosa fossero accusati", in celle sovraffollate: testimonianza di Lord Henry Lennox, un
turista di rango che nel 1863 visitò appunto le prigioni di Napoli.

Altro esempio: la politica finanziaria del neonato Regno d’Italia. Non vi stupirà sapere che l’Italia
anche allora covava un deficit mostruoso. O’Clery fornisce dati precisi di bilancio. Ma basterà un
suo dato: il deficit del Regno nel 1866 fu di 800 milioni di lire, "Cifra pari alla metà delle entrate
della Gran Bretagna e lrlanda", ossia del Paese allora più ricco d’Europa. Deficit coperto da "prestiti
e ipoteche sui beni nazionali, vendita di beni demaniali e istituzione di monopoli", ovviamente
coperti da stranieri, prodromo e causa della durevole dipendenza italiana da interessi finanziari
estranei. "Altra grande risorsa fu la rapina ai danni della Chiesa", la confisca dei beni e degli ordini
religiosi, "che nel solo 1867 fruttò 600 milioni". La condizione della Chiesa nel Regno viene così
riassunta dal nostro irlandese: "Esilio e arresto di vescovi; proibizione di pubblicare le encicliche
papali; detenzione di preti e sorveglianza della loro predicazione; soppressione di capitoli e benefici

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e incameramento dei beni; chiusura di seminari; leva obbligatoria per i seminaristi; rimozione delle
immagini religiose sulle vie e divieto di processioni".

Se il lettore d’oggi troverà in questo riassunto qualche tratto anacronisticamente sovietico, non è
tutto. Leggendo O’Clery, finirà per chiedersi se i cronici mali italiani che siamo abituati a
considerare "retaggi borbonici" (ottusità amministrativa, inefficienza e improvvisazione,
centralismo autoritario) o persino "fascisti" (tracotanza guerrafondaia) non sarebbero invece da
ribattezzare savoiardi o piemontesi. L’enorme deficit del regno, scrive O’Clery, è dovuto alle spese
per mantenere "il più grande esercito d’Europa" e formare "una marina imponente per numero e
qualità", nel tentativo di "recitare il ruolo di grande potenza". Quel costoso esercito fu come noto
sconfitto dagli austriaci a Custoza, per l’insipienza dell’"eroe" Lamarmora (ma anche Garibaldi, che
proclamò di prendere Monaco "in quindici giorni", fu bloccato in Trentino da pochi jaeger).
L’enorme flotta corazzata subì a Lissa la nota umiliante sconfitta, contro navi di legno.

Poteva mancare il ricorso all’iniqua pressione fiscale? Non mancò. "Nel Regno delle Due Sicilie la
tassazione era, nel 1859, di 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il nuovo regime, le tasse erano salite
fino a 28 franchi a testa, il doppio di quanto pagava l"’oppresso" popolo napoletano prima che
Garibaldi venisse a liberarlo".

La tassa sul macinato, bersaglio polemico dei patrioti mazziniani quando l’applicava il governo
pontificio, "fu più che raddoppiata ed estesa a tutte le granaglie, perfino alle castagne". Causa la
fiscalità, vi stupirà sapere che fu necessario organizzare "la lotta all’evasione"? Fu organizzata, e
manu militari. I contribuenti in arretrato subivano "perquisizioni domiciliari" e durante queste
"visite", che evidentemente duravano giorni e notti, avevano l’obbligo di cedere ai soldati "i letti
migliori" nelle loro case. Ciò non impedì che il Regno restasse sempre in pericolo d’insolvenza.
Tanto che i titoli del debito pubblico italiano "si vendono a 33 punti sotto il loro valore nominale",
al contrario del debito napoletano; che "fino al 1866 era così solido, che i suoi titoli si ponevano al
disopra del nominale". Si dirà il prezzo fu alto, ma almeno il Sud fu raggiunto dalla modernità, i
piemontesi portarono un’amministrazione più razionale; saranno stati ottusi, ma erano incorruttibili
No. "La contabilità pubblica si trovava in condizione spaventosa, ordini di pagamento non
autorizzati apparivano continuamente nei registri della Corte dei Conti", e il caos favoriva
"malversazioni di ogni genere".

O’Clery cita: "Nel 1865 il ricevitore generale delle imposte a Palermo fuggi con 70 mila franchi; a
Torino fu scoperta una stamperia di tagliandi del debito pubblico e un impiegato delle Finanze,
processato per ciò fu assolto ...L’anno 1866 portò alla luce le frodi degli impiegati incaricati della
vendita dei beni ecclesiastici; a Napoli un alto ufficiale di polizia fu arrestato per essersi appropriato
di fondi destinati ai pubblici servizi. Casi simili se ne possono citare all’infinito", conclude O’Clery:
e chissà perché, noi spettatori di Tangentopoli 1992, siamo inclini a credergli sulla parola. Ma
almeno, uno stato militaresco, mise ordine nel disordine pubblico del Meridione? Stroncò la mafia?
Serafico, O’Clery dà la parola alla Guida della Sicilia una guida turistica per inglesi, scritta da un
certo Murray, che metteva in guardia: "Le strade siciliane non sono più sicure come al tempo del
governo borbonico, il quale. Pur con tutti i suoi errori ebbe il merito di rendere le sue strade sicure
come quelle del Nord Europa". Piacerebbe non crederci. Attribuire questi racconti all’animo
papalino e "reazionario dello storico. Purtroppo, qualcosa lo impedisce. L’Italia vista dagli occhi di
O’_Clery ci appare sinistramente familiare. Per noi lettori del Duemila, l’effetto è un déjà vu.

Avvenire - 6 agosto 2000

Porta Pia

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di Vittorio Messori

Converrà continuare il discorso iniziato nel precedente frammento: riflettere su Roma e il suo
destino nell'epoca moderna non è certamente un esercizio provinciale e neppure soltanto italiano,
visto il mistero di universalità che - dagli inizi della sua storia - è legato all'insediamento sul Tevere.
L'Italia "laica" ha avuto un atteggiamento ambivalente davanti alla Città Eterna: da un lato il mito di
Roma, nutrito di ricordi, conditi con non poca retorica, dell'antichità classica. Dall'altro,
l'avversione per ciò che quel luogo era divenuto con i papi e per ciò che, dunque, significava per un
cattolicesimo identificato come il nemico principale da battere perché colonna dell'oscurantismo,
nocciolo duro delta reazione. trincea della resistenza ai "Lumi" della Scienza e del Progresso.
Questa avversione per la città-simbolo della vicenda cristiana si estendeva (e si estende), un po'
razzisticamente, verso i romani. Giordano Bruno Guerrì, nell'incredibile articolo da cui siamo partiti
qui sopra, sentenzia: "lì papa si è ben guardato dal dire che lo sfascio di una città non può dipendere
solo da chi l'amministra e che occorre la complicità di chi ci abita: il peggior male di Roma è la
romanità dei romani, ovvero quell'accidia arrogante e spocchiosa che non è certo genetica, ma che
si è formata in secoli di dominio papale". La Chiesa, dunque, come corruttrice di anime e di
caratteri. Ancora Guerri: "Ci vuole la faccia tosta di Wojtyla per prendersela con una città i cui
mali, tutt'altro che recenti, sono stati metodicamente preparati dai suoi predecessori nel corso dei
secoli. Roma era certamente più fetida di oggi quando le miserabili catapecchie del popolino si
addossavano alle mille chiese fastose, quando i papa-re angariavano la città per arricchirsi.
impotentirsi, michelangiolarsi: impiccando, arrostendo sui roghi. immiserendo".

Siamo, come si vede, a una sorta di revival anticlericale. davvero sconcertante nella sua ingenua
ripetitività ottocentesca che ignora la realtà effettiva, ben diversa, mostrata dagli studi storici. Certo,
sorprende in modo particolare, in un intellettuale contemporaneo, considerare una colpa storica
della Chiesa il "michelangiolarsi". L'avere cioè, con il costante amore per le arti, permesso agli
artisti di esprimersi non lesinando loro i mezzi e a Roma, ridotta a rovine coperte di ortiche, di
assumere una bellezza che neppure la "nuova" Italia, dopo il 1870, malgrado ce la mettesse tutta,
riuscì a distruggere del tutto. Bellezza che, richiamando da tutto il mondo chi è sensibile alle arti, si
è rivelata poi per la città anche il migliore e il più duraturo degli investimenti economici. I Guerri
pensano forse che un solo turista si muoverebbe per visitare ciò che dopo il 1870 l'Italia - per oltre
mezzo secolo polemicamente anticlericale - ha edificato sui Sette Colli? Quanto alle "miserabili
catapecchie del popolino" nella città prima della breccia di Porta Pia, è ben noto (come ci hanno
detto Marx, Engels e tutto il movimento socialista e umanitario), che, nello stesso periodo, il
"popolino" dei Paesi protestanti - dunque acerrimi nemici del "papismo" toccati dalla rivoluzione
industriale, godeva il suo comfort sereno nelle villette con giardino e pianoforte dei sobborghi
operai di Manchester, di Londra, di Parigi, di Berlino... Quel "popolino" - che là, tra quelle brume,
chiamavano "proletariato" - non si addensava attorno a "chiese fastose" ma a quelle nude, terribili,
disumane cattedrali che erano opifici e fabbriche; templi innalzati dalla nuova casta sacerdotale, la
borghesia, ai soli dei che ormai riconoscesse: il Denaro, il Profitto, la Produzione.

In realtà, in una certa cultura continua ad agire, magari inconsciamente, il rancore verso i romani
per non avere fatto nulla per accelerare l'arrivo della "Ragione e del Progresso" all'interno delle
Mura Aureliane. Cerchiamo di ripassare un poco quella storia che oggi sembrano ignorare anche
tanti "storici". Nel marzo del l86~, aprendosi il primo parlamento del Regno non più di Sardegna
ma d'Italia, la Roma ancora papale è acclamata, simbolicamente, capitale d'Italia. Cavour (che mai
volle visitare Roma) è troppo realista per cedere alle declamazioni dei retori sulla mitologia
dell'Urbe e sui suoi ricordi imperiali: a lui, quella votazione serve per bloccare sul nascere l'antico
municipalismo (già molte città, da Milano a Napoli, avanzavano candidature) e per lasciare a tempo
indefinito la capitale nella sua Torino, pur così decentrata e malamata dai sudditi del nuovo Regno.
Cavour sa che quella proclamazione è platonica e che lo resterà: la Francia di Napoleone III presidia

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in armi la Città Eterna e minaccia guerra in caso di occupazione; anche le altre potenze europee, a
cominciare dall'Austria cattolica e dalla stessa Prussia protestante, si oppongono alle pretese
Italiane. Con la Convenzione con la Francia nel settembre 1864, il Regno, impegnandosi a trasferire
la capitale a Firenze, sembra prendere atto definitivamente della impossibilità di installarsi sul
Tevere. Due anni dopo, nel 1866, onorando quella Convenzione, la Francia ritira le sue truppe da
Roma, lasciando solo un presidio internazionale (composto, tra l'altro, da giovani volontari delle
famiglie cattoliche di tutta l'Europa e addirittura delle Americhe:.non solo il Risorgimento ma anche
"l'altra parte" ebbe l'equivalente delle "camicie rosse" garibaldine). Nel 1870, schiacciato a Sedan
dai prussiani il secondo impero napoleonico (e irritata l'Austria dalla proclamazione, fatta dal
Vaticano I, dell'infallibilità papale), l'Italia ha mano libera per occupare Roma da dove i francesi si
sono ritirati e per trasferirvi, l'anno seguente, la capitale. Ebbene: poco si riflette sulla grave
sconfitta morale, sulla insanabile delusione del nazionalismo borghese, dovute al fatto che il 20
settembre i cannoni di Raffaele Cadorna dovettero sparare quattro ore per aprire una breccia nelle
mura e fare irruzione in una città che aspettava muta, inerte, come rassegnata.

I dieci anni dal 1860 al 1870 erano stati, infatti, un testardo quanto inutile sforzo per ottenere
l'insurrezione dei romani contro il papa, dando così al governo italiano un pretesto per intervenire.
Fino al 1866 i patrioti si consolarono dicendo che la causa della mancata rivolta era la presenza dei
francesi. Partiti questi, Garibaldi pensò che il momento fosse giunto ma, penetrato nell'autunno del
1867 in quel che restava dello Stato Pontificio, trovò una popolazione niente affatto festante, bensì
largamente ostile (come egli stesso ammise). Riuscì a Spingersi sin quasi sotto le mura di Roma,
fidando nella insurrezione che gli era stata promessa e per la quale il governo italiano non aveva
lesinato aiuti in denaro e in armi. "Ci basterebbero solo dieci schioppettate dei romani!", gemeva, a
Firenze, il capo del Governo, Giovanni Lanza. Ma quelle schioppettate non ci furono; anzi, non
mancarono i popolani laziali che si arruolarono volontari per contrastare l'invasione garibaldina. I
'congiurati", pagati dal governo dì Firenze e da Garibaldi, spiegarono poi che la promessa
rivoluzione contro il papa non era stata fatta perché, la sera convenuta, si era messo a piovere...
Così, a Mentana, i pontifici e i francesi mettono in fuga i garibaldini e l'esercito italiano non può
intervenire (come era stato programmato) prendendo a pretesto morale la rivolta degli abitanti del
Lazio e di Roma che non ci fu. Lo stesso accade nel 1870, quando la Francia sconfitta e poi in preda
al marasma della Comune richiama il suo presidio. Anche stavolta si cerca di suscitare un
insurrezione; ma anche stavolta denari, sforzi, agenti provocatori si rivelano inutili. Tanto che
ancora il 10 settembre, quando già le truppe di Cadorna convergono sulla città, Pio IX,
acclamatissimo dal popolo, si reca a inaugurare una fontana sulla piazza di Termini. E, irrompendo
dieci giorni dopo da Porta Pia su quella che sarà, appunto, la via XX Settembre, i bersaglieri
trovano strade deserte, imposte chiuse, una città che sembra considerarsi più invasa che "liberata".
E che sempre distinguerà tra essa e gli "italiani", chiamati buzzurri, cioè forestieri rozzi e non
invitati.

Un bello smacco per la retorica nazionalista e laicista: questa delusione è tra i motivi di una tenace
avversione contro i romani, colpevoli di non avere voluto muovere un dito per togliersi di dosso
quella che (stando allo schema) sarebbe stata "l'intollerabile oppressione papalina". Un disprezzo
"laico" che si aggraverà ancora perché, nel 1943, fuggito dal Quirinale il nipote del re giunto nel
1870, e dissoltosi non solo il governo ma persino lo Stato entrato a cannonate, i romani si strinsero
di nuovo attorno al papa, ridandogli spontaneamente l'antica autorità; e, partiti i tedeschi, si
riversarono in massa a piazza San Pietro per acclamarlo come "difensore della città" che, unico tra i
potenti, non aveva abbandonato. Fu, questo, un finale coerente con gli inizi, con quel lontano 1793
in cui in Francia regnava il Terrore dei giacobini, i quali inviarono nella Roma papale - con funzioni
di propagandista e di provocatore coperto dalla immunità diplomatica - Hugon de Bassville, tanto
mediocre cantore della Rivoluzione quanto fazioso e virulento miscredente. Bassville, come
sintetizza uno storico contemporaneo, "in occasione delle principali cerimonie religiose,

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accompagnato da servitori e guardie del corpo, era solito mescolarsi ai fedeli e, nei momenti di
maggior devozione, si faceva beffe a gran voce dei sacramenti, dei celebranti e dei luoghi e oggetti
di culto e invitava, bestemmiando, a devastare le chiese e a consegnargli i sacerdoti affinché,
tradotti a Parigi, venissero decapitati". A fronte della eccessiva tolleranza del papa, che si limitava a
proteste cui dalla Francia si rispondeva con sarcasmo, intervenne il popolo, quello vero (e non "la
plebaglia" come ancora si legge in enciclopedie e testi scolastici), il popolo credente che, ferito nel
suo sentimento religioso, un bel giorno perse la pazienza e alle bestemmie ripetute per l'ennesima
volta proruppe in tumulti che culminarono con il linciaggio di Bassville. Ne seguì la dichiarazione
di guerra della Francia giacobina allo Stato pontificio: dichiarazione, per il momento, platonica,
visto che a Parigi c'era ben altro da fare in quei mesi che muovere a battaglia contro il papa. Ma
Napoleone non dimenticò e anche per questo, quando giunse in Italia, calcò particolarmente la
mano contro Roma. Ma questa, con l'uccisione del giacobino blasfemo Bassville, si assicurò un
primato: era stata la prima città italiana a dimostrare, e violentemente, contro la Rivoluzione. Deve
esserci anche questo nel subconscio degli "illuminati" che disprezzano il popolo romano. I Guerri,
dunque, non hanno torto: come non detestare gente che massacrò Bassville, che non volle scacciare
Pio IX e che ritrovò in Pio XII un "papa-re" cui essere grata?

© Pensare la storia, San Paolo, Milano 1992, p.243.

La Questione romana

di Giuseppe Bonvegna

Il 20 settembre 1870, intorno alle dieci del mattino, i cannoni dell’artiglieria italiana cessano di
tuonare contro le mura di Roma e i bersaglieri del nuovo Regno d’Italia si lanciano all’assalto di
Porta Pia, contrastati ancora dal fuoco di fucileria degli ultimi difensori del Papa.

Il conflitto tra la Chiesa cattolica e la Rivoluzione italiana viene così "risolto", da parte del governo
sabaudo, con una breccia che calpesta i diritti della Santa Sede: inizia la Questione Romana, la
storia cioè dei tentativi messi in atto dal governo italiano per ricucire una ferita che, da un punto di
vista istituzionale, si rimarginerà con i Patti Lateranensi del 1929.

In realtà, anche se soltanto dopo Porta Pia si comincia a parlare di Questione Romana in senso
proprio, il 1870 è il punto di arrivo di un decennio, nel corso del quale la classe dirigente italiana
aveva cercato di ostacolare la missione della Chiesa, erodendone a poco a poco la base territoriale.

Il libro di Renato Cirelli, La Questione Romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso


l’Italia, analizza questa prima fase della Questione Romana che inizia il 26 marzo 1860, quando Pio
IX, con il breve Cum Catholica Ecclesia, scomunica i governanti italiani responsabili
dell’annessione delle Legazioni Pontificie.

La consapevolezza del Pontefice di avere a che fare con "(...) un progetto filosofico, etico, religioso
e solo successivamente politico radicalmente nemico del cattolicesimo" - sottolinea Cirelli - viene
suffragata dal fatto che la classe dirigente del nuovo Regno d’Italia, "(...) è anche formata da uomini
che aderiscono alle correnti del razionalismo, spesso massoni, non di rado con radici gianseniste".

Tuttavia, il potere liberale, consapevole della difficoltà di governare un Paese cattolico, si vede
costretto a considerare aperture verso la Chiesa, che si concretizzano, tra la fine del 1860 e il
settembre del 1868, in cinque tentativi di mediazione portati avanti da illustri personaggi del mondo
politico e intellettuale italiano.

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Ma la scarsa convinzione di concludere da parte del governo italiano e le pressioni degli ambienti
anti-clericali, determinano il fallimento degli approcci di conciliazione. Anche la Convenzione di
Parigi del 15 settembre 1864, tra il governo italiano e l’Impero francese, che prevede l’abbandono
di Roma da parte delle truppe francesi, la formazione di un esercito di volontari al servizio de Papa,
e l’impegno italiano nella protezione dello Stato della Chiesa, non soddisfa nessuno: "L’Italia
sottoscrive con riserva mentale poiché nessun esponente politico italiano si pone il problema di
rinunciare a Roma (...). Napoleone III accetta la Convenzione con spirito machiavellico, nell’intento
di sottrarsi a una situazione imbarazzante (...)"; Pio IX, "tenuto all’oscuro delle trattative, viene
messo davanti al fatto compiuto e rifiuta di prenderlo in considerazione sentendosi tradito e
abbandonato".

Le truppe francesi lasciano Roma nell’agosto del 1870, in seguito allo scoppio della guerra franco-
prussiana: l’esercito pontificio, che il 13 novembre del 1867 aveva sconfitto a Mentana i volontari
garibaldini fuggiti davanti a ventimila francesi sbarcati a Civitavecchia, si prepara adesso da solo a
difendere per l’ultima volta la città del Papa.

I diciotto brevi capitoli di Renato Cirelli - introdotti da Marco Invernizzi, preceduti da un quadro
cronologico degli avvenimenti, completati da tre appendici che riportano i principali documenti
relativi alla vicenda e da un’utilissima bibliografia - vogliono essere una semplice guida introduttiva
a un problema complesso, la cui conoscenza è però indispensabile per chiunque desideri capire i
nodi fondamentali della storia d’Italia e darne un giudizio sereno, al di là di certe interpretazioni
ideologiche ormai di maniera.

Giuseppe Bonvegna

Recensione uscita sul n. 2 di Percorsi del gennaio 1998

Don Bosco e la persecuzione risorgimentale

di Gianpaolo Barra

Pubblichiamo il testo della conversazione che Gianpaolo Barra, direttore de "Il Timone", ha tenuto
a Radio Maria giovedì 23 novembre 1999, durante la "Serata Sacerdotale", condotta da don Tino
Rolfi. Conserviamo lo stile colloquiale e la divisione in paragrafi numerati, utilizzata per i suoi
appunti dall' autore.

l. Continuiamo le nostre conversazioni sul tema delle persecuzioni che i cristiani hanno subito nel
corso della ormai bimillenaria storia della Chiesa. Il nostro è un tentativo di leggere la storia, di
conoscere quanto è accaduto m passato, nel passato lontano e in quello vicino, per trarne
insegnamenti utili in primo luogo alla nostra vita di fede e poi per capire il significato dei fatti
accaduti.
2. Questo compito è importante, perchè viviamo in tempi caratterizzati dal regno quasi incontrastato
della menzogna, dove si offende la Chiesa e si denigra la sua storia, e che vedono i cattolici incapaci
di reagire adeguatamente.
3. Anzi, tanto più cresce la calunnia contro la storia della Chiesa, tanto più viene chiesto al Papa,
che è il Pastore della Chiesa universale, di scusarsi, di domandare perdono, perchè la Chiesa
sarebbe colpevole di tutte, o quasi tutte le malefatte del passato.
4 Questo è il clima che si respira oggi. Noi non ci lasciamo certo impressionare da questa
calunniosa campagna propagandistica. Anzi, crediamo che verrà il tempo in cui qualcuno
domanderà perdono alla Chiesa e ai cattolici per i torti, le umiliazioni e le persecuzioni che hanno
subito nella loro storia.

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5. Vedete bene che il nostro è un intento anche un po' polemico - non lo si deve nascondere -, ma la
polemica, quando è seria, e parte fondamentale dell'apologetica. E le nostre - lo sanno bene gli
amici radioascoltatori - sono conversazioni di carattere apologetico.
6. Questa sera parleremo di una persecuzione avvenuta in casa nostra, nella nostra Italia,
persecuzione della quale poco si parla e ancor più poco si conosce. E` la persecuzione scatenata
contro la Chiesa cattolica dai governi liberali e massonici che, nel secolo scorso, hanno fatto il
Risorgimento.
7. Studiamo il Risorgimento fin dalle scuole elementari. A scuola ci viene insegnato che, nel secolo
scorso, i popoli italiani, divisi in tanti Stati, diedero vita ad un processo, sotto la guida del Regno
piemontese, per liberarsi dall'occupazione straniera o dai sovrani reazionari e per conquistare l'unità
della Penisola. Le famose "Guerre di indipendenza", ci viene detto, furono volute proprio per
liberare l'Italia e per unificarla politicamente e geograficamente.
8. Per verificare l'attendibilità di questa storia, ci faremo guidare da un libro documentatissimo della
studiosa Angela Pellicciari, intitolato significativamente "Risorgimenlo da riscrivere", edito da Ares
e da un altro bel libro del giornalista Antonio Socci, intitolato "La società dell'allegria" edito da
Sugarco, dove si parla di don Bosco, personaggio straordinariamente importante per la storia del
secolo scorso e del quale parleremo anche nel corso di questa conversazione.
9. Sapete bene che la nostra Italia è l'unico Paese d'Europa che ha conquistato l'unità nazionale
attraverso un duro contrasto con la propria Chiesa. Naturalmente, nel caso dell'Italia, si sta parlando
della Chiesa cattolica.
10. Perchè lo Stato sabaudo, il Regno sardo-piemontese che si dice costituzionale e liberale, che si è
messo alla guida del processo che ha portato all'unità d'Italia, che ha combattuto contro lo straniero
per la libertà, ha perseguitato duramente la Chiesa? Perchè, nel secolo scorso, ha voluto colpire il
potere temporale del Romano Pontefice?
11. Si può rispondere, seguendo il ragionamento della Pellicciari, che la persecuzione dei cattolici
nell'Italia dell'Ottocento ha origini lontane. Parte dalla Roma descritta dall'eretico Martin Lutero,
che ha dato inizio nel XVI secolo alla cosiddetta Riforma Protestante.
12. Lutero definiva Roma, la città del Papa, come la "prostituta Babilonia". Da allora, tutta la
stampa moderna di impronta protestante, illuminista e liberal-massonica, ripete in modo ossessivo
una serie di ritornelli, una serie di leggende contro Roma che a furia di essere raccontate finiscono
per convincere i più sprovveduti.
13 Nasce cosi la leggenda della Roma cattolica, della città capitale della superstizione religiosa,
della Roma papalina, dello Stato Pontificio dove, nel secolo scorso, regnava la barbarie e il potere
del Papa veniva esercitato con la forza, per reprimere quel popolo che voleva liberarsi da un
sovrano metà politico e meta religioso.
14. Per unificare l'Italia sotto il Piemonte, bisognava mettere fine allo Stato della Chiesa, allo Stato
Pontificio. Ma non era un'impresa facile - ricorda Angela Pellicciari - perchè lo Stato Pontificio
esisteva da più di mille anni, era l'unico Stato al mondo nato grazie a donazioni e quindi non
costituito con la forza, era il baluardo dei cristiani di tutto il mondo, e soprattutto era lo strumento
che consentiva al Papa di essere libero di fronte al potere politico (ricordiamo che tutte le "chiese"
protestanti, che hanno abbandonato Roma, anche in nome di una presunta ricerca di libertà, hanno
finito miseramente per essere controllate dai poteri politici locali).
15. A partire dal l848, il Parlamento piemontese dà il via ad una formidabile campagna di
denigrazione della Chiesa cattolica, getta fango sui religiosi e sullo Stato Pontificio, accusato di
essere male amministrato, sanguinario, retrogrado e nemico dell'unità d'Italia.
16. Ora, che lo Stato Pontificio fosse, nel secolo scorso, il più arretrato degli Stati preunitari,
insieme al Regno delle due Sicilie, dei Borboni, questo lo abbiamo sentito dire fin da quando
frequentavamo le classi elementari.
17. Qui sarebbe opportuno mettere mano ai documenti e studiare bene i dati. E qualche dubbio è più
che lecito, visto che i documenti narrano, per fare un solo esempio, che lo Stato Pontificio, tanto
denigrato, raggiunse il pareggio di bilancio nel l859.

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18. Non abbiamo tempo per approfondire, ma le stesse cose potrebbero dirsi per il Regno delle due
Sicilie. Antonio Socci ci ricorda che in quel Regno c'erano in proporzione meno poveri che a Parigi
e a Londra. E ancora: erano in vigore le tasse più lievi di tutta l'Europa, la prima flotta italiana, una
popolazione cresciuta di un terzo dal 1800 al 1860, un debito pubblico che era un quarto di quello
dello Stato piemontese.
19. Continua Antonio Socci: "E` sorprendente verificare che nei primi tre censimenti generali si ha
nel Sud una percentuale di addetti nel settore industriale addirittura superiore a quella delle zone più
avanzate del Nord (con un 17,4% contro un l4,8% della Lombardia" (p. l59).
20. Tutti dati che ci fanno capire come la favola di un Sud che nel secolo scorso era rozzo e
arretrato rispetto al Nord progressista e avanzato, la favola di un Sud borbonico che ha ricevuto dal
Nord piemontese liberal-massonico il progresso e la civiltà sia sostanzialmente - appunto - solo una
favola.
21. Torniamo alla campagna di denigrazione nei confronti della Chiesa cattolica. Non è un caso se il
primo Parlamento elettivo dello Stato piemontese, nel 1848, inizia i suoi lavori con una furibonda
battaglia parlamentare contro gli Ordini religiosi, e specialmente contro i Gesuiti. La dura
persecuzione contro la Chiesa dal Piemonte si estenderà man mano a tutti gli Stati italiani, quando
questi cadranno uno dopo l'altro sotto il dominio della dinastia sabauda.
22. I liberali, e naturalmente la Massoneria, identificano gli Ordini religiosi, che sono attivissimi in
tutta Italia sia nella missione, sia nell'aiuto ai poveri e soprattutto nell'istruzione e nell'educazione,
come i nemici del nuovo Stato. Liberali e massoni vogliono creare una nuova morale e una nuova
Religione, vicina al Protestantesimo, a scapito della religione cattolica, professata da tutto il popolo.

23. Per realizzare il compito di eliminare gradualmente il Cattolicesimo dalla testa e dal cuore del
popolo italiano, obbiettivo primario della Massoneria, lo Stato piemontese trova aiuta nelle altre
potenze internazionali, specialmente nell'Inghilterra protestante.
24. E non è un caso che Garibaldi decise con i suoi Mille di sbarcare a Marsala, che allora era una
sorta di feudo britannico. Sì, perchè dobbiamo sapere che fu il governo inglese, decisamente
avverso alla Chiesa cattolica, a finanziare con una somma che oggi può essere stimata in molti
milioni di dollari, la spedizione garibaldina (cfr. Vittorio Messori, Pensare la storia, pag. 260). E
l'Inghilterra aveva come scopo colpire il papato nel suo centro temporale, cioè l'Italia, per dare vita
ad uno Stato protestante e laico.
25. E non è un caso che il 20 settembre l870, giorno che vede i bersaglieri entrare da Porta Pia e che
segna la fine dello Stato Pontificio preunitario, si vede anche un pastore protestante entrare a Roma
con un carro carico di Bibbie protestanti, stampate dalla Società Biblica britannica. Il progetto di
"de-cattolicizzare" l'Italia e di "protestantizzarla" muoveva passi molto concreti.
26. Ora, noi non abbiamo il tempo di soffermarci sugli innumerevoli episodi di questa persecuzione.
Molti fatti, molti dati, li potete trovare nei testi di Antonio Socci e di Angela Pellicciari che ho
citato. Ma qui non possiamo dimenticare alcuni tra i primi provvedimenti presi contro la Chiesa.
27. Dopo l'approvazione, nel l850, delle leggi Siccardi (Siccardi era un ministro) con le quali si
aboliva il foro ecclesiastico, veniva diminuito il numero delle feste religiose, si stabiliva l'obbligo
agli ecclesiastici di chiedere l'autorizzazione per ricevere eredità e donazioni (questa norma andava
a colpire un antichissimo costume dei credenti, grazie al quale la Chiesa aveva avuto i mezzi
necessari per svolgere la sua missione senza farsi ricattare dal potere politico), con l'approvazione
delle leggi Siccardi - dicevo - legge approvata l'8 aprile l850 e sanzionata dal Re il giorno dopo, si
scatena una feroce persecuzione.
28. L'arcivescovo di Torino, monsignor Fransoni, viene arrestato, gli vengono sequestrati tutti i
beni, poi viene esiliato e morirà lontano dalla sua città. Anche l'arcivescovo di Cagliari, monsignor
Marangiu-Nurra viene arrestato e deportato. Il direttore del giornale cattolico L'Armonia viene
arrestato e incarcerato per avere criticato le leggi Siccardi.
29. Dunque, vedete bene che lo Stato liberal-massonico si vantava di combattere per la "liberta",
arrestando vescovi, sacerdoti e laici che difendevano la Chiesa. Sarà opportuno ricordare tutte

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queste cose, specialmente quando gli eredi politici di quei signori ci vengono a dare lezioni di
democrazia.
30. Proseguiamo nelle nostre considerazioni. Teniamo ben presente che quando sui libri di testo
scolastici si parla di Parlamento piemontese non si deve intendere una assemblea eletta dal popolo,
espressione di una sovranità popolare, come avviene nelle democrazie moderne. Tutt'altro. Infatti,
quando si vota il 27 aprile del 1848 per eleggere il primo Parlamento, su un totale di 4.904.059
abitanti, il diritto di voto viene dato solo a 83.369 elettori, pari all'1,70% della popolazione.
31. Se poi teniamo presente che vanno a votare solo 53.924 cittadini, cioè poco più della meta degli
aventi diritto, capite bene che le misure repressive contro la Chiesa cattolica vengono prese in un
Parlamento che è tutto tranne che democratico, è tutto tranne che espressione della volontà
popolare.
32. La persecuzione contro la Chiesa viene dunque decisa, non dai popoli oppressi, ma da poche
èlites liberal-massoniche. E queste èlites stabiliscono, tra le altre cose, anche la soppressione della
Compagnia di Gesù, cioè dei Gesuiti, l'esproprio di tutti i suoi beni (compresi libri, arredi sacri e
quadri) e decretano il domicilio coatto dei Padri, per evitare che abbiano contatti (allora si usava
dire "per evitare che appestassero") con la popolazione.
33. Contemporaneamente a Roma, il triumvirato capitanato da Mazzini decreta la fine del potere
temporale dei papi nell'anno 1849. Il Papa Pio IX, costretto a fuggire a Gaeta, denuncia questa
aggressione ricordando come sia impedita al Pontefice ogni comunicazione con il clero, con i
vescovi e con i fedeli. Roma si riempie di personaggi strani: apostati, socialisti, eretici, pieni di odio
verso la Chiesa. La grande borghesia liberale si impossessa dei beni, dei redditi e delle terre della
Chiesa. Gli edifici ecclesiastici sono spogliati dei loro ornamenti e vengono adibiti ad altri usi. I
preti e i religiosi vengono aggrediti, imprigionati e uccisi.
34. Tutto questo, si badi bene, in nome della "libertà" dalla tirannia del Papa.
35. L'anno l855 vede un'altra tappa della persecuzione anticattolica. Il Re firma il decreto del
Parlamento che sopprime gli Ordini contemplativi e gli Ordini mendicanti, cioè Francescani e
Domenicani, con la motivazioni che questi Ordini religiosi sono ormai inutili, i loro membri non
lavorano, non producono. Lo Stato risorgimentale può benissimo fare a meno di loro.
36. Sono le stesse motivazioni che abbiamo sentito in questo secolo in molti paesi comunisti,
motivazioni accampate per eliminare fisicamente la presenza dei cattolici.
37. Torniamo alla persecuzione. Nel 1861 si possono contare ben 70 vescovi rimossi dalla loro sede
o addirittura incarcerati, centinaia di preti in prigione, 12.000 religiosi e suore che vivevano nel Sud
appena annesso al Piemonte sbattuti fuori dai conventi. Antonio Socci riferisce anche di 64
sacerdoti e 22 frati fucilati, perlopiù in Meridione. Dopo la presa di Roma, si registrano ben 89 sedi
vescovili vacanti in tutta Italia. I vescovi nominati dal Papa non possono prendere possesso delle
loro chiese perchè lo Stato unitario lo impedisce.
38. A questo punto, per una lettura cattolica di quanto sopra descritto, mi pare opportuno ricordare
la figura di un grande santo che ha vissuto di persona quella persecuzione: don Giovanni Bosco.
39. Nel dicembre del 1854, mentre in Parlamento era in discussione la legge per la soppressione
degli Ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni, il nostro Don Bosco fa un sogno destinato a
scatenare un vero terremoto nella famiglia reale. Un sogno così importante che don Bosco sente la
necessità di informare immediatamente il Re.
40. Invia una lettera al Re con la quale lo informa di aver sognato un bambino che gli affidava un
messaggio. Il messaggio diceva: "Una grande notizia! Annuncia: gran funerale a corte".
41. Un messaggio inquietante, capite bene, ma evidentemente urgente e grave, secondo il santo
torinese.
42. Alcuni giorni dopo, don Bosco invia un'altra lettera, visto l'atteggiamento non certo
incoraggiante del Re dopo il primo avvertimento. Un altro sogno e di nuovo quel bambino che
diceva: "Annunzia: non gran funerale a corte, ma grandi funerali a corte". E don Bosco invitava
espressamente il Re a schivare i castighi di Dio, cosa possibile solo impedendo a qualunque costo
l'approvazione di quella legge.

23
43. Il Re, per la verità mal consigliato, non presta ascolto. E quanto aveva previsto don Bosco
comincia inesorabilmente ad avverarsi.
44. Il 5 gennaio l855, mentre il disegno di legge è presentato ad uno dei rami del Parlamento, si
diffonde la notizia di una improvvisa malattia che ha colpito Maria Teresa, la madre del Re Vittorio
Emanuele IL E sette giorni dopo, a soli 54 anni di età, dunque ancor giovane, la Regina madre
muore.
45. I funerali sono previsti per il giorno 16 gennaio. Mentre sta tornando dal funerale, la moglie di
Vittorio Emanuele II, Maria Adelaide, che ha partorito da appena otto giorni, subisce un improvviso
e gravissimo attacco di metro-gastroenterite.
46. Proprio quel giorno il Re riceve un'altra lettera di don Bosco, una lettera chiara. Ecco ciò che vi
era scritto: "Persona illuminata ab alto [cioè dall'alto] ha detto: Apri l'occhio: è già morto uno. Se la
legge passa, accadranno gravi disgrazie nella tua famiglia. Questo non è che il preludio dei mali.
Erunt mala super mala in domo tua [saranno mali su mali in casa tua]. Se non recedi, aprirai un
abisso che non potrai scandagliare".
47. Ora, queste cose possono anche turbare qualcuno. E turbano anche quei cattolici che non sono
più capaci di leggere la storia come la leggevano don Bosco e i cattolici dell'Ottocento. E quella
lettura della storia dice che Dio è Re e Signore della storia e che l'uomo non può sfidarlo
impunemente.
48. Sarebbe opportuno ed estremamente utile riflettere e meditare su questo punto.
49. Quattro giorni dopo quest'ultima lettera, la giovane moglie del Re, la regina Maria Adelaide, a
soli 33 anni, muore. Era il 20 gennaio l855.
50 Non è finita. Quella stessa sera del 20 gennaio, il fratello del Re, Ferdinando, duca di Genova,
riceve il sacramento dei morenti e muore l'11 febbraio. Aveva anche lui, come la Regina, solo 33
anni.
51. Nonostante questi avvertimenti, nonostante l'avverarsi di tutte le previsioni di don Bosco, il Re
non si muove. La legge viene approvata il 2 marzo, con 117 voti a favore contro 36. In maggio la
legge passa al Senato per la definitiva approvazione. Ma il giorno 17, a un passo dall'approvazione,
si verifica una nuova sconcertante morte nella famiglia reale: muore il piccolo Vittorio Emanuele
Leopoldo, il figlio più giovane del Re.
52. Il Re firmò e con quella legge ben 334 case religiose venivano soppresse per un totale di 5456
religiosi (cfr. Renato Cirelli, La Questione romana, Mimep-Docete, p. 31). Era il 29 maggio del
1855. Da Roma arrivo la "scomunica maggiore" (che può essere annullata solo dal Papa) per tutti
"gli autori, i fautori, gli esecutori della legge". La scomunica andava a colpire un Re che si diceva
cattolico.
53. Pio IX, nonostante le offese, le umiliazioni e le persecuzioni subite personalmente e dalla
Chiesa di cui Lui era pastore, nel 1859, su richiesta di Vittorio Emanuele, accorderà il perdono
pieno e senza condizioni al Re. Fatto, questo, che ci fa comprendere la grandezza di un Pontefice
che la storiografia ha purtroppo denigrato.
54. Sempre intorno a questa legge, Messori ci ricorda, nel suo bel libro "Pensare la storia" un altro
fatto straordinario, che riguarda ancora don Bosco.
55. Nel 1855, in piena lotta della Chiesa contro la legge Rattazzi, don Bosco pubblica un opuscolo.
Dapprima, il governo liberale piemontese ne decide il sequestro, che poi non viene eseguito per
paura di fare pubblicità al prete di Valdocco.
56. In quell'opuscolo don Bosco ammoniva Vittorio Emanuele II, rifacendosi a qualcuno dei suoi
sogni e alle sue abituali e straordinarie intuizioni, perchè non firmasse quella legge. Scriveva
testualmente don Bosco: "la famiglia di chi ruba a Dio è tribolata e non giunge alla quarta
generazione".
57 Un avvertimento grave e inquietante, ma pur sempre una profezia che oggi è facilmente
verificabile, solo facendo un po' di conti.
58. Vittorio Emanuele II muore a soli 58 anni, a quanto pare di malaria, cioè di quella febbre presa
proprio a Roma dove i suoi bersaglieri erano entrati otto anni prima.

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59. Il suo primo successore, Umberto I muore 56enne a Monza, sotto i colpi di pistola
dell'anarchico Bresci.
60. II secondo successore, Vittorio Emanuele III, scappa di notte, di nascosto, dal Quirinale, l'8
settembre del 1943 e tre anni dopo sarà costretto ad abdicare.
61. Come non ricordare - a questo punto - l'enorme smacco per quel mondo laicista che aveva
soppresso lo Stato Pontificio. Infatti, in quel tragico 8 settembre del 1943, il popolo romano, visto
che il governo si era dissolto e dissolto era anche quello Stato che si era costituito con le cannonate
di Porta Pia, si stringe di nuovo intorno al Papa Pio XII, ridandogli spontaneamente l'antica autorità.
E quando i tedeschi lasciano la città, la popolazione di Roma si riversa in Piazza San Pietro per
acclamare Pio Xll con il titolo di "difensore della città".
62. Come non ricordare a chi si esercita nella denigrazione del Papa e della Chiesa che Pio XII era
l'unico dei potenti che non aveva abbandonato Roma nel momento del pericolo. tutti gli altri erano
scappati.
63. Torniamo alla profezia di don Bosco. Il terzo successore, Umberto II, fu un re "provvisorio", per
meno di un mese e, perduto il referendum popolare, deve accettare un esilio senza ritorno.
64. Come si vede facilmente, alla quarta successione, alla "quarta generazione" come scriveva don
Bosco, i Savoia non sono giunti.
65. Che lezione possiamo trarre da questi fatti, lezione che risulti utile - come dicevo in apertura di
conversazione - alla nostra fede?
66. Propongo una riflessione. Possiamo ricordare che i cattolici alla don Bosco, che tutti i cattolici
del secolo scorso, come i cattolici di sempre, leggevano la storia sub specie aeternitatis, cioè con gli
occhi rivolti a Dio, con uno sguardo alla vita eterna.
67. Per loro Dio era veramente il Signore della storia, della storia dei singoli e delle nazioni, il
Signore dei sudditi ma anche dei Re. Per loro la Chiesa era veramente la Chiesa di Gesù Cristo e
attaccare la Chiesa, perseguitarla, umiliarla, opprimerla, era lo stesso che perseguitare Gesù Cristo.
68. E per quanto possa sembrare un po' duro, soprattutto in tempi di buonismo imperante, la storia
insegna che offendere Dio non è un gesto che resta impunito, se ovviamente non ci si pente.
69. Allora l'invito che emerge da questa conversazione è duplice. Da un lato: preghiamo per quelli
che ancora oggi perseguitano la Chiesa, perché Dio usi loro misericordia; ma rallegriamoci per il
dono della fede e per l'appartenenza alla Chiesa cattolica. Ce ne rallegriamo e non ci vergogniamo.
70. Naturalmente, operiamo anche perché queste persecuzioni non si abbiano a ripetere.
71. Questo è tutto. Ci risentiamo, a Dio piacendo, fra quindici giorni.

Bibliografia

Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, Ares, Milano
l998
Antonio Socci, La società dell'allegria. Il partito piemontese contro la Chiesa di don Bosco,
Sugarco, Milano l989
Vittorio Messori, Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, Paoline, CiniseIlo B.mo (MI)
1990
Renato Cirelli, La Questione Romana. Il compimento dell'unificazione che ha diviso l'Italia,
Mimep-Docete, Pessano (MI) l997

Il Timone - n. 5 Gennaio/Febbraio 2000

Il Brigantaggio (1860-1870)

di Francesco Pappalardo

1. Dai vandeani agli insorgenti italiani

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Il termine "brigante", che comunemente designa chi vive fuori legge o comunque un nemico
dell'ordine pubblico, ha acquistato nel tempo anche un significato ideologico e indica, in senso
spregiativo, chi si è opposto con le armi al nuovo ordine inaugurato dalla Rivoluzione francese.
Adoperato in Francia per designare i combattenti realisti e cattolici della Vandea, è impiegato negli
anni seguenti anche in Italia per indicare gli "insorgenti", cioè i componenti delle bande popolari
che si sollevavano in armi contro gli invasori francesi e i giacobini locali, loro alleati. Il fenomeno
assume rilievo particolare nelle province napoletane, dove, sia nel 1799 sia nel 1806, le bande -
guidate da popolani, da borghesi e anche da sacerdoti, e che raccolgono impiegati, soldati sbandati,
contadini e pastori - difendono la loro patria e la loro religione. Tale comportamento valoroso, però,
è definito sbrigativamente "brigantaggio" dai rivoluzionari e il temine è tramandato tuttora da una
storiografia mendace.

2. Gli oppositori dell'Unità nel Regno delle Due Sicilie

Anche l'unificazione forzata della penisola italiana, nel decennio dal 1859 al 1870, suscita ovunque
resistenze e reazioni, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, dove la lotta armata contro
l'invasore assume proporzioni straordinarie. Pure in questo caso gli insorti, che combattevano
contro l'imposizione di una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose, sono
stati bollati come briganti.

La resistenza nel Mezzogiorno ha inizio nell'agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente
delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia. La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono
di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con
i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni
sommarie e con arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano masse, migliaia di
uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un'altra bandiera,
pastori, braccianti e montanari.

Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno e il controllo del territorio da parte
degli unitari diventa precario. In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale del
Regio Esercito del neo proclamato Regno d'Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituisce un
fronte unito contro la "reazione", arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e
perseguitando il clero e i nobili lealisti, i quali sono costretti a emigrare, lasciando la resistenza
priva di una valida guida politica. Il governo adotta la linea dura e il generale Cialdini ordina eccidi
e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei
centri ribelli. In questo modo viene impedita l'insurrezione generale, e viene scritta una pagina
tragica e fosca nella storia dello Stato unitario.

3. Dalla repressione all'emigrazione

Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione
di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la
persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire "nel mucchio", per disgregare con il terrore
una resistenza che riannodava continuamente le fila. Viene introdotto per la prima volta nel diritto
pubblico italiano l'istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua
arbitrarietà. La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'"industria" della delazione, che è
un'ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà
moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Attenzione
particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e
soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna

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"informazione deformante".

In questo modo viene distrutto il cosiddetto "manutengolismo", cioè quel vasto movimento di
sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresenta un fenomeno così ampio e articolato
socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se
eccezionale. Infine, la proclamazione dello stato d'assedio, le uccisioni indiscriminate, il terrore, il
tradimento prezzolato stroncano la volontà di resistenza della popolazione. Quando le bellicose
energie sono esaurite, l'estraneità al nuovo ordine si manifesta più pacificamente, ma non meno
drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione "napoletana", che
coinvolge alcuni milioni di persone.

4. Oltre la censura storiografica: le ragioni ideali e politiche

Questo periodo doloroso della storia della nazione italiana è censurato e deformato da oltre un
secolo. La storiografia di ispirazione liberale, da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) a Giustino
Fortunato (1777-1862) e a Benedetto Croce (1866-1952), interpreta la resistenza popolare come
manifestazione di criminalità comune e come esito della sobillazione "reazionaria", abile a sfruttare
mali endemici e secolari del Mezzogiorno. Su un altro versante, ugualmente deformante, si pongono
quanti partono dalle considerazioni di Antonio Gramsci (1891-1937) sulla "questione meridionale"
per proporre una lettura del Brigantaggio come manifestazione della lotta di classe, identificando
nella guerra per bande una forma di lotta armata condotta in prima persona dalle masse contadine
contro le classi dominanti.

In realtà, un'interpretazione esauriente del complesso fenomeno del Brigantaggio deve partire dalla
considerazione che l'opposizione armata fu soltanto uno degli aspetti della resistenza antiunitaria
delle popolazioni meridionali, che presentò contorni più vasti e profondi di quelli che avevano
caratterizzato le insorgenze dell'età napoleonica. Infatti, negli anni successivi al 1860, la resistenza
si presenta con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l'opposizione condotta a livello
parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni,
la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il
malcontento della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della
coscrizione obbligatoria, l'emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica
condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo (1814-1867), che
difendono con gli scritti i calpestati diritti di una monarchia da sempre riconosciuta nel consesso
delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale.

La resistenza armata è però il fenomeno più evidente, che coinvolge non soltanto il mondo
contadino, ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano.

Nei primi anni il motivo legittimistico è dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire
aristocratici e popolo, sono tali da richiamare alla mente l'epopea vandeana. Questa continuità
contro-rivoluzionaria non è affatto simbolica, ove si consideri che, a capeggiare gli insorgenti, "il
fior fiore della nobiltà lealistica europea discese dalle brume dei propri castelli nel fuoco di una lotta
senza quartiere "per il trono e l'altare", "per la fede e la gloria"", come era scritto su uno dei pannelli
della mostra su Brigantaggio, lealismo e repressione, organizzata a Napoli nel 1984. Il conte Henri
de Cathelineau (1813-1891) - discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea
-, il barone prussiano Teodoro Klitsche de La Grange (1799-1868), il conte sassone Edwin di
Kalckreuth, fucilato nel 1862, il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour, fucilato nel 1861
all'età di trent'anni, il conte Émile-Théodule de Christen (1835-1870), i catalani José Borges (1813-
1861), definito "l'anti-Garibaldi", e Rafael Tristany (1814-1899), sono artefici di memorabili
imprese e fanno a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia.

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5. Le ragioni socio-economiche e le motivazioni religiose

Con queste considerazioni non si intende sottovalutare il carattere anche sociale delle insurrezioni.
L'eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della Chiesa durante l'età napoleonica, che
avevano trasformato l'assetto della società e dato origine alla questione demaniale, hanno una parte
rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata, ma questo aspetto non
basta da solo a spiegare l'intensità, l'estensione sociale, l'ampiezza territoriale e la durata del
Brigantaggio. L'attribuzione di un prevalente carattere sociale alla resistenza antiunitaria è causata
sia da pregiudizi ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o a negare la componente
politica del fenomeno, sia dalla diffusione e dalla persistenza del mito dell'oggettiva potenzialità
rivoluzionaria delle sommosse contadine.

Questa impostazione è caratterizzata da una generale incomprensione e negazione della cultura


delle popolazioni italiane, e ciò vale in particolare per la componente religiosa, che ne
rappresentava l'anima. L'elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d'epoca,
così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti in gran numero
nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi -
benché spesso scacciati dalle loro sedi - sostengono efficacemente l'insurrezione, pubblicando
pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede.
L'autorevole La Civiltà Cattolica esprime ripetutamente il suo appoggio a quello che era ritenuto
uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato
liberale.

Il Brigantaggio, dunque, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due
mentalità, fra due differenti impostazioni culturali, ma soprattutto ha rappresentato l'espressione più
macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e
della religione perseguitata e, dunque, costituisce l'ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con
la difesa di Roma a opera degli zuavi, per combattere la Rivoluzione con le armi.

Se la resistenza antiunitaria non riesce a ripetere il successo della Santa Fede nel 1799, ciò è dovuto
non soltanto alla situazione internazionale sfavorevole e allo scontro con lo Stato unitario, di cui
non si conoscevano i meccanismi e che può concentrare per alcuni anni imponenti forze nel
Mezzogiorno, ma anche all'assenza di una classe dirigente valida e ben determinata, che sapesse
animare e coordinare la reazione popolare, spontanea e generale, ma non autonoma.

Per approfondire: vedi una significativa testimonianza, in Giacinto de' Sivo, I Napolitani al cospetto
delle nazioni civili, del 1861, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; lo studio più
documentato sull'argomento, che risente però dell'impostazione marxista secondo cui il
Brigantaggio è un episodio della lotta di classe, in Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo
l'Unità, Feltrinelli, Milano 1979; quindi Carlo Alianello (1901-1981), La conquista del Sud. Il
Risorgimento nell'Italia meridionale, Rusconi, Milano 1994; Aldo Albonico, La mobilitazione
legittimista contro il Regno d'Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Giuffrè,
Milano 1979; Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, Gaetano
Macchiaroli, Napoli 1984; e Francesco Mario Agnoli, La conquista del Sud e il generale spagnolo
José Borges, Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1993; vedi una sintesi nel mio Il
brigantaggio, in Cristianità, anno XXI, n. 223, novembre 1993, pp. 15-22.

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28
G. Cantoni (a cura di), Voci per un «Dizionario del pensiero forte», Cristianità, Piacenza 1997, pp.
65-70.

La Questione del Mezzogiorno

di Francesco Pappalardo

1. Per una definizione

La Questione del Mezzogiorno o Questione Meridionale nasce dall’annessione forzata del Regno
delle Due Sicilie al Regno d’Italia, nel 1861, e la sua storia è la storia dei tentativi compiuti dallo
Stato italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all’incontro-scontro fra realtà
disomogenee. Questo contrasto fra il "Nord" e il "Sud" — indicazioni geografiche che nascondono
realtà sociali complesse e differenziate — è ricondotto dal politologo Ernesto Galli della Loggia a
"[...] una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della
problematica identità nazionale italiana" e dall’antropologo Carlo Tullio Altan a "uno scontro di
civiltà", cioè a un urto fra differenti modelli culturali e forme diverse di organizzazione sociale, che
dopo l’Unità sarà affrontato soprattutto come un problema di sviluppo ineguale.

2. Le origini

La rappresentazione del "Mezzogiorno", cioè delle province continentali e insulari dell’ex Regno
delle Due Sicilie, come un blocco unitario d’arretratezza economica e sociale non trova fondamento
sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologica. I primi a diffondere giudizi falsi sugl’inferiori
coefficienti di civiltà di quell’area sono gli esuli meridionali che, nel decennio 1850-1860, con la
loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della
dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud, riproponendo
secolari stereotipi sul "paradiso abitato da diavoli", presto ripresi dai titolari d’inchieste pubbliche o
private. Dopo il 1860, l’intreccio di brigantaggio e di legittimismo borbonico spinge la classe
politica unitaria a individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia
interna di eversione e ad assegnarsi la missione d’inserire nella nuova compagine statale l’ex regno
napoletano, anche a costo di cancellarne l’identità storica. "La differenza tra il Mezzogiorno e il
resto del paese — scrive lo storico siciliano Giuseppe Giarrizzo — si configura come polarità
simbolica di barbarie e civiltà, di borbonismo e liberalismo, di "feudalesimo" nel Sud e vita
borghese nel Nord — una polarità esasperata dal contrasto mitico tra la difficile natura del Centro-
nord e la naturale disposizione del suolo e del clima meridionale alla fertilità e agli agi".

I temi del meridionalismo saranno enfatizzati, a partire dai primi decenni del secolo XX, dal nuovo
ceto politico locale allo scopo di rivendicare ingenti provvidenze pubbliche e di porsi come
mediatore nella loro distribuzione. Dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945), la Questione del
Mezzogiorno viene affrontata con una politica d’interventismo statale, caratterizzata da una mole
crescente di trasferimenti di risorse verso il Sud, che sono destinate prevalentemente a fini non
produttivi e che in parte alimentano il circuito perverso politica-affari-criminalità.

3. Le interpretazioni economiche

Da Pasquale Villari (1826-1917) ad Antonio Gramsci (1891-1937) il Mezzogiorno viene letto


soprattutto nei termini di un grande problema sociale e, pur nella diversità delle interpretazioni,
l’analisi prende le mosse abitualmente dalla sua condizione materiale. Per il primo meridionalismo,
definito "classico", la Questione del Mezzogiorno consiste nella mancata integrazione
dell’economia del Sud nel processo di sviluppo capitalistico, mentre per le correnti d’ispirazione

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marxista — e anche per Rosario Romeo (1924-1987), che "aggiorna" il meridionalismo liberal-
democratico — questa integrazione è avvenuta, ma nei modi peculiari con i quali il capitalismo
avanzato subordina a sé l’economia dei paesi arretrati, rendendola funzionale al suo sviluppo. In
entrambi i casi la lettura del Sud in termini di arretratezza — vista talvolta come divario d’origine
rispetto alle regioni settentrionali del paese, altre volte come frutto del processo di unificazione
gestito dallo Stato unitario — ha come riferimenti il modello economico liberale, nato dalla
rivoluzione industriale che determinò anche una profonda trasformazione dei rapporti sociali, e
un’impostazione culturale idealistica, che giudica la storia del Mezzogiorno secondo il parametro
della crescita della coscienza civile, che sarebbe giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento.
Il Meridione d’Italia viene valutato, dunque, in ragione della sua devianza da quei modelli e viene
descritto in termini d’individualismo e di carente spirito civico, di arretratezza tecnologica e di
resistenza alla modernizzazione, di corruzione e di clientelismo, utilizzando le dicotomie
sviluppo/sottosviluppo e progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una
scala ideale da percorrere.

In realtà, nel 1860 la società "napoletana" viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale
erano presenti i germi di uno sviluppo di tipo capitalistico e di una trasformazione della monarchia
amministrativa in un regime liberale — cioè i germi di un "altro" modello di sviluppo —, e ciò
determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d’Italia,
anche a causa della "sistematica e non graduata demolizione di un’immensità di istituzioni, di
interessi, di amministrazioni" — denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888)
—, che aveva prodotto "una lesione troppo estesa e profonda".

4. Le interpretazioni sociali e culturali

Nel secondo dopoguerra la fioritura degli studi sociologici sul Mezzogiorno si concretizza nella
elaborazione di alcune opinabili categorie interpretative — come quelle di "paganesimo perenne" e
di "cultura subalterna", riferite al mondo contadino dallo scrittore Carlo Levi (1902-1975) e
dall’antropologo Alfonso Maria Di Nola (1926-1997) —, oppure nella lettura della specificità
meridionale nei termini di una sua vocazione quasi antropologica a una religiosità elementare e
superstiziosa, come per l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965), o del Sud come sacca arretrata
e deposito di mentalità pre-moderne, come per il sociologo statunitense Ernest C. Banfield, teorico
del "familismo amorale", a suo avviso causa determinante di una disgregazione permanente della
società. La categoria dell’arretratezza ricompare così come nodo ineliminabile della storia del
Mezzogiorno, in relazione alla sua subordinazione economica o alla sua struttura sociale e culturale,
entrambe legate a presunti, secolari condizionamenti. In realtà, i preconcetti di certi studiosi, alcuni
dei quali stranieri, servono ad alimentare una letteratura d’impostazione discutibile, diffusa
soprattutto nel mondo protestante, secondo cui "[...] la vita religiosa del Sud — come nota lo stesso
De Martino — sta in fondo come pretesto fin troppo scoperto per condurre la polemica
anticattolica".

Gli studi degli storici Gabriele De Rosa e Giuseppe Galasso hanno consentito, però, di superare il
luogo comune di una cristianizzazione superficiale delle regioni meridionali e d’individuare in
alcune sopravviventi pratiche magiche — ritenute comunemente parte integrante della religiosità
delle popolazioni rurali — solo il relitto di arcaiche strutture psicologiche e religiose. Anche il
grande rilievo assunto dalla famiglia nella società meridionale — e nelle altre regioni d’Italia, dove
la socialità, secondo lo storico Marco Meriggi, "si sgrana quasi naturalmente in un ventaglio di
famiglie, molto più che in una miscela di individui" — non è più ritenuto un sintomo di arretratezza,
anzi proprio questa tenace caratteristica sociale ha rappresentato un limite quasi invalicabile
all’espansione soffocante dello Stato unitario e il più sicuro antidoto nei confronti
dell’individualismo politico ed economico. L’unione forzata in un "grande Stato", nel 1861, ha

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determinato, prima ancora della spoliazione economica, la dispersione d’una parte rilevante delle
inestimabili ricchezze culturali del Mezzogiorno, ma l’insieme dei caratteri e degli aspetti che
contraddistinguono gli abitanti di queste contrade, soprattutto a livello del costume e della vita di
relazione, s’è mostrato per lungo tempo resistente e impermeabile alla modernità, intesa come
insieme di valori globalmente alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale.

Il Sud, dunque, non è un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto una
società dotata d’una forte personalità storica e d’una inconfondibile fisionomia, in cui si sono
riconosciute per lunghissimo tempo tutte le sue componenti sociali, una "nazione" che ha le sue
radici remote nella vigorosa sintesi, realizzata dopo il secolo VI, fra tradizioni autoctone, cultura
greco-romana e apporti germanici. Il Sud non è neppure una periferia d’Europa, caratterizzata da
una lunga separazione dal mondo civile o da note di subalternità o d’arcaicità, né è il luogo di
coltura della "napoletanità", intesa come un isolato universo antropologico e culturale. Al contrario,
la civiltà del Mezzogiorno è stata una delle molteplici versioni della civiltà cristiana occidentale ed
è vissuta per secoli in uno stretto rapporto con l’"altra Europa" — presente ovunque nel continente
durante l’età moderna e collocata idealmente "sotto i Pirenei" dal giurista e storico spagnolo
Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978) —, che per molto tempo ha rappresentato la
sopravvivenza di un’area di Cristianità e ha costituito un limite all’espansione della modernità.

5. Conclusioni

Negli ultimi centocinquant’anni il popolo italiano ha subìto un processo di alienazione della propria
identità e della propria tradizione, romana e cattolica — che avevano vivificato e modellato nel
corso dei secoli i costumi, la mentalità e il comportamento degli abitanti della penisola —, da parte
di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama "[…] partito anti-italiano. Per
questo partito "fatta l’Italia" non si trattava soltanto di "fare gli italiani"; si trattava piuttosto di fare
l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo".

Il Mezzogiorno, in particolare, è stato aggredito contemporaneamente, e da più parti, da fermenti


incalzanti di trasformazione, ma ha costituito un luogo di resistenza alla modernizzazione forzata.
Dunque, non il particolare modo d’essere del popolo "napoletano", ma il tentativo diffuso
d’annientarne la personalità e di dissolverne l’eredità ha innescato un processo di alienazione
culturale, mentre il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali ha aperto
la strada allo sviluppo della criminalità organizzata, la cui forza non è il radicamento nel
Mezzogiorno — dove tutt’al più ha riattivato i circuiti classici della delinquenza locale,
ampliandone le cerchie — ma l’incontro con fenomeni nuovi e poco "meridionali", come il
commercio internazionale di droga e d’armi e la lotta per il controllo di enormi risorse finanziarie.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni 1950 — con una nuova frana emigratoria, che ha
prodotto la disarticolazione definitiva dell’antica organizzazione sociale e territoriale, e con
l’assimilazione dei comportamenti proposti dal modello consumistico, ritenuto superiore a quello
tradizionale — l’identità del Mezzogiorno si sta dissolvendo nel crogiolo dell’omologazione,
favorita dalla scuola, dai partiti politici e dai grandi mezzi d’informazione.

Pertanto, quanti si accostano alla Questione del Mezzogiorno non possono ignorare che la sua
soluzione passa attraverso una rinascita religiosa e civile, che può essere perseguita soltanto con il
ricupero di quanto sopravvive delle radici storiche e nazionali del Mezzogiorno stesso, da tempo
conculcate e disprezzate, purtroppo non solamente da parte di estranei.

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Per approfondire: vedi Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi,
Donzelli, Roma 1997; Giuseppe Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del
Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Argo, Lecce 1997; Giuliano Minichiello,
Meridionalismo, Editrice Bibliografica, Milano 1997; e Marta Petrusewicz, Come il Meridione
divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria
Mannelli (Catanzaro) 1998.

Galli della Loggia: leggete cosa diceva Gramsci

Intervista di Maurizio Blondet con Ernesto Galli della Loggia

Difensore del diritto alla parola per gli storici cattolici che hanno criticato il Risorgimento, Ernesto
Galli della Loggia s'è visto dare del "neoguelfo" dagli storici dell'asse laicista-piemontese che
scrivono su Repubblica. "Un mio bisavolo comandò i cavalleggeri di Novara", replica lui: "E per il
volume Miti e storia dell'Italia Unita (il Mulino) ho scritto due voci, "brigantaggio" e "conquista
regia", che brillano per ortodossia risorgimentale. E tuttavia...".
Tuttavia?
"Tuttavia mi interessa conoscere gli argomenti di chi non la pensa come me, o non giunge alle mie
conclusioni. Penso che si può essere italiani e ritenere che il Risorgimento ebbe pagine oscurissime:
come pensavano don Sturzo e Gramsci, due italiani ottimi. E soprattutto sul Risorgimento voglio
sentire le altre voci, perché mai come in quella fase la storia è stata scritta dai vincitori. Qui, il
divieto di fare ricerche, l'intimazione a tacere è inammissibile".
Lei s'è chiesto come mai gli storici cattolici con cattedra non partecipano al dibattito, perché non
dicono la loro.
"Già. Non voglio giudicarli però. Perché c'è in giro un fortissimo livello di intimidazione di tipo
ideologico, che mira a mettere fuori dalla legalità costituzionale chi eccepisce sul modo in cui fu
fatta l'Italia. "Questo" tipo d'intimidazione, ideologica appunto, non critica gli argomenti o i
documenti dei nuovi storici, ma le loro intenzioni; e da questo metodo è difficile difendersi. Quando
si viene accusati, per una ricerca storica, di voler restaurare il potere temporale, o di voler riabilitare
il fascismo, si è subito sul banco degli imputati".
Lei ci è finito per aver scritto che l'8 settembre fu la morte della nazione. Gian Enrico Rusconi,
della linea storico-torinese, ha scritto il contrario: la nazione italiana nasce con la Resistenza. Com'è
possibile che due italiani abbiano idee così opposte della storia d'Italia? Che ogni gruppo e partito
abbia la "sua" storia?
"La nostra storia nazionale è divisa ab origine: la nazione nasce da due nazioni che si son
combattute con le armi e messe fuori legge. Il grave è che la storiografia sia stata lo specchio fedele
di questa frattura della storia, anziché provarsi a comporla, a comprenderla".
Comincia a farlo la sua generazione, che è la generazione dei Mieli, dei Ferrara, "giovani" nati di
sinistra ed oggi su posizioni di ascolto delle voci cattoliche. Con gran dispetto dei sacerdoti della
storiografia azionista-piemontese.
"Forse perché la mia generazione è la prima che non abbia dovuto affrontare con le armi la frattura
italiana. Non ha dovuto combattere la guerra civile, come quelli che lei chiama i sacerdoti del
laicismo. Io quelli li capisco: hanno visto il sangue. Noi abbiamo avuto una caricatura studentesca
della guerra civile: forse per questo ne abbiamo colto il carattere ridicolo".
Ma non vi impegnate a difendere i "sacri valori": è questo che vi rimprovera la generazione dei
Calamandrei, dei Galante Garrone. Che poi loro siano di sinistra, e conservatori dei "sacri valori",
non le pare buffo?
"Gramsci disse nel 1926 quel che dicono oggi i nuovi storici revisionisti cattolici, che "nel Sud lo

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Stato italiano si comportò come in una colonia". Oggi, gli eredi di Gramsci intimano il silenzio a chi
"parla male della patria"... E gli intellettuali di sinistra agiscono da retroguardia conservatrice".
E perché gli intellettuali?
"Da una parte perché dovrebbero confessare: non abbiamo capito nulla. E ciò è duro, per degli
intellettuali. Dall'altra, perché nella sinistra resiste l'impulso a considerare ciò che è "nuovo", ossia
non pensato a sinistra, non solo come un errore, ma come una malvagità morale. Da smascherare e
da denunciare. Manca loro l'idea che esista lo spazio delle cose opinabili, su cui possono esserci più
opinioni legittime".

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