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Antonio Livi

TOMMASO D'AQUINO
Il futuro del pensiero cristiano

MONDAD ORI
Il nostro indirizzo Internet è
http:/www.mondadori.com/libri

© 1997 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano


I edizione Leonardo saggistica novembre 1997

ISBN 8 8-04-43423-6
TOMMASO D'AQUINO
Ringrazio il dottor Paolo Carlani, dell'università Lateranense, per
la attenta revisione delle bozze e ancora di più per i preziosi sugge­
rimenti che mi ha fornito durante la redazione di questo libro.
Prologo

Perché un libro su Tommaso d'Aquino filosofo

Se Tommaso fosse vivo

Marx è morto (non ci si crede più, non lo si discute nemmeno,


non suscita entusiasmi né avversione: non "parla " ) e prima di
lui era morto Hegel assieme a Giovanni Gentile e agli ultimi
crociani. Comunismo e fascismo, in filosofia, non sono più vi­
vi. Kant, invece, è vivo e operante (tutto l'Ottocento e tutto il
Novecento, sia in Europa sia in America, sono un concerto di
variazioni sui temi kantiani) . Heidegger è vivissimo, e grazie a
lui è vivo anche Nietzsche ( quello che proclamò: «Dio è mor­
to! » ) . Sono vivi e "parlano" ancora persino alcuni antichissi­
mi filosofi: Parmenide, Platone� Aristotele. Tommaso d' Aqui­
no, invece, è come se non fosse mai esistito: non che sia morto,
non è proprio mai veramente vissuto nella vita filosofica di og­
gi, almeno in Italia; ma è in buona compagnia: nemmeno il
grande Plotino (che ha riempito di sé la tarda antichità e poi
tutto il Medioevo, e il Rinascimento e il Romanticismo tede­
sco) è ora conosciuto, studiato, compreso se non da pochi, iso­
lati specialisti. l
Tommaso d'Aquino è in Italia, oggi, non una "voce" viva
del dibattito filosofico ma un semplice nome, e per di più un
nome che evoca un "Medioevo teologico" (secondo la fortu­
nata espressione di Alessandro Ghisalberti), che per molti è
come dire una cultura ierocratica e superstiziosa, un'epoca
di fanatismo bellicoso (le Crociate) e di sterili discussioni
metafisiche (la Scolastica) . Tutti sanno certamente che Tom­
maso - un teologo santo, che la Chiesa ha proclamato "dot­
tore comune" , cioè universale- ha anche sviluppato una sua

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originale e coerente filosofia, per cui dovrebbe interessare gli
storici della filosofia e i filosofi di professione, se non altro
perché da Tommaso ha preso l'avvio una scuola filosofica -
il tomismo - che, con alterne vicende, non ha mai cessato di
esistere e che dunque vanta ben sette secoli di vita. I cattoli­
ci, poi, non possono ignorare che da Leone XIII in poi la
Chiesa ha raccomandato lo studio della filosofia «secondo il
metodo e i principi di Tommaso » . Nonostante ciò - o forse
proprio per il carattere tradizionalista e " ufficiale" assunto
dal tomismo tra Ottocento e Novecento - pochi in Italia si
interessano della filosofia tommasiana, e pochissimi hanno
letto qualche pagina delle sue opere. Nella scuola italiana,
nell'elenco dei "classici" da leggere per integrare lo studio
storico della filosofia, Tommaso compare certamente, ma
non è quasi mai scelto dai docenti di storia e filosofia, che si
limitano a far leggere Platone (sempre) , Aristotele (qualche
volta) e magari anche Agostino, ma non Tommaso. È questo
il motivo per cui di Tommaso le persone colte, e anche nu­
merosi filosofi di professione, ripetono stereotipi moltO\su­
perficiali e spesso anche del tutto falsi, come quello per cui
Tommaso avrebbe "battezzato" Aristotele, costruendo così
una filosofia subordinata alla teologia ("philosophia ancilla
theologiae"), priva pertanto di autonomia scientifica e di in­
teresse critico per l'uomo di oggi. Sono esattamente le mede­
sime false nozioni storiografiche contro le quali combatteva
Gilson agli inizi del Novecento: la verità, evidentemente, tar­
da a farsi strada.
Luoghi comuni, stereotipi, ignoranza dei testi e del conte­
sto storico spiegano questa lacuna nella cultura filosofica del
Novecento italiano (dico " italiano" perché altrove alcuni in­
tellettuali laici hanno studiato e fatto conoscere Tommaso
negli ambienti culturali più influenti: così in Francia lo stori­
co della filosofia Étienne Gilson dell' Académie française e il
filosofo della politica Jacques Maritain, autore di Humani­
sme intégral; così in Inghilterra lo scrittore Gilbert K. Che­
sterton e il presidente della British Academy, Sir Anthony
Kelly; così in Germania il filosofo moralista Josef Pieper e ne­
gli Stati Uniti il filosofo sociale Alasdair Maclntyre). Ma, sic­
come è una lacuna che non giova al prestigio della cultura
italiana né favorisce lo sviluppo della ragione critica, è quan-

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to mai necessario riscoprire la figura e il pensiero di Tomma­
so, e per questo ritengo utile ora ricordare con la massima
oggettività gli elementi biografici e dottrinali che sostanziano
la proposta filosofica del grande pensatore medioevale, rin­
tracciandone l'eredità nelle vicende del pensiero occidentale
dal Duecento ai nostri giorni.
Perché Tommaso è davvero, per gli storici della filosofia e
per i cultori della filosofia teoretica, una figura con cui occor­
re assolutamente confrontarsi. Se Heidegger lo avesse cono­
sciuto, se si fosse confrontato con lui, ben diverso sarebbe
stato il suo giudizio sulla storia del pensiero occidentale e ben
diverse sarebbero state le sue proposte teoretiche (come ve­
dremo alla fine, pp. 1 92-95 ) . Se Emanuele Severino lo avesse
compreso (perché, conoscerlo, l'ha conosciuto bene alla
scuola di Gustavo Bontadini nei lunghi anni passati all'uni­
versità Cattolica di Milano), non potrebbe essere così chiuso
nel suo monismo razionalistico che esclude il divenire, la
creazione, Dio.2 Se Edmund Husserl avesse seguito la strada
del collega Franz Brentano ( buon conoscitore di Tommaso) ,
l a scuola fenomenologica non avrebbe avuto l a sola eccezio­
ne di Edith Stein nella via del recupero di un vero realismo
metafisica (si veda, più avanti, pp. 1 62-65). Se i fautori del
"pensiero debole" o "postmetafisico" si confrontassero con
la metafisica non razionalistica di Tommaso, non avrebbero
come unica alternativa il sistema idealistico con la sua inne­
gabile vocazione alla violenza totalitaria.

Come Tommaso faceva filosofia

Non si può separare un sistema di pensiero dalla personalità


del suo autore. Personalità e pensiero si illuminano a vicen­
da. Questo vale per tutti i pensatori (basti citare Platone,
Aristotele, Plotino, Descartes, Spinoza, Kant, Hegel) , ma va­
le ancora di più per i massimi pensatori cristiani, Agostino e
Tommaso. Quest'ultimo, in particolare, ci ha lasciato un pa­
trimonio dottrinale, una mole di scritti che ha del prodigio­
so, ma soprattutto uno spirito, una mentalità, un modo di
vedere e di dire le cose che oltrepassano i limiti del suo tem­
po. L'Aquinate è grande per ciò che ha detto, ma ancora più

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grande per il modo e il motivo per cui l'ha detto. Additare
Tommaso come maestro significa essenzialmente additarne
lo spirito e il metodo, chiave del progresso autentico del sa­
pere filosofico di oggi. Più importante di quanto ha scritto è
il suo atteggiamento spirituale, il "perché", l'intentio pro­
fundior con la quale ha studiato la verità umana e rivelata.
La sua validità è dovuta principalmente alle disposizioni in­
teriori che animano la sua ricerca. Come dice bene Luigi Bo­
gliolo,

lo spirito del tomismo è realismo, vale a dire: non idealismo,


non astrattismo, non apriorismo, non razionalismo, non si­
stematismo, non chiusura mentale, non verità confezionata in
formule umane irreformabili. Realismo significa accettazione
della verità rivelata dalla realtà delle cose e della fede, signifi­
ca ascoltarla con pienezza di disponibilità interiore, nella co­
scienza sempre viva della profondità che essa contiene e della
perenne inadeguatezza dell'espressione umana a esprimerla
tutta, un vivo senso della storicità del vero, frutto di collabo­
razione di tutta l'umanità . . . Realismo significa vivo senso di
una verità sempre in crescita, non in se stessa,- ma nel suo
rapporto con l'uomo: una verità che si sviluppa con la storia
del singolo, non meno che con la storia dell'umanità e della
Chiesa.3

Questo principio della verità umana e cristiana in continuo


sviluppo vitale, Tommaso lo esprime bene con l'immagine del
germe che si espande fino a divenire albero maestoso, quasi
riecheggiando la parabola evangelica del granello di senapa,
delineando insieme il principio dello sviluppo storico della fi­
losofia e del dogma cattolico.
L'atteggiamento spirituale di Tommaso nello studio della
verità ha uno dei suoi aspetti più affascinanti in quell'avverbio
«quodammodo)) continuamente adoperato e che esprime così
bene il suo esprit de finesse, l'assenza di boria intellettuale:4
uno spirito in cui emergeva una piena armonia delle virtù
umane e cristiane, un pieno equilibrio, un assoluto domÌ1J.io
interiore della ragione sulla sensibilità e sul sentimento, un
eroismo in atto dell'uomo e del cristiano nella ricerca del vero.
La scelta della vita religiosa in un ordine mendicante rivela
subito un'indole indipendente, anticonformista, ribelle al be-

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nessere sociale di cui godeva la sua famiglia. In tale disposi­
zione rimarrà sempre, anche quando, ormai celebre, saprà
opporre un netto rifiuto alla proposta di diventare arcivesco­
vo di Napoli.
D'altra parte, la quantità e la qualità dei suoi scritti testi­
moniano una straordinaria forza di volontà, i cui segni alcuni
studiosi credono di poter scorgere persino nell'illeggibile gra­
fia (tormento dei paleografi ) , nella violenta rapidità di una
scrittura che sfuma al massimo le sagome dei segni grafici,
quasi per lasciare libero sfogo all'impeto dell'ispirazione che
urge dentro. Il rigoroso controllo dell'espressione e la serena
compostezza dello stile, allo stesso tempo, rivelano l'ascetico
dominio della sua emotività, l'ansia di non ostacolare il gra­
duale e paziente disvelamento della verità. Ma l'opera di
Tommaso non è solo un miracolo di volontà; è più ancora un
miracolo di carità. Forse pensava proprio a sé quando scrive­
va: <<Come la lucerna non può splendere se non viene prima
accesa con il fuoco, così la l ucerna dello spirito non p uò
splendere se prima non arde e si infiamma del fuoco della ca­
rità . E perciò l'ardore precede l'illuminazione, perché, me­
diante il fuoco della carità, viene comunicata la conoscenza
della verità » .s
Ciò che più meraviglia, peraltro, è il fatto che una persona­
lità tanto forte e dotata sia riuscita a mettersi in ombra deli­
beratamente per servire meglio e sempre la verità. Tommaso
è grande perché ha saputo farsi piccolo; la grandezza del suo
insegnamento è proporzionale alla sua sincerità, alla sua coe­
renza, alla sua umiltà nel servire il vero. Ha rinunziato a sé
per dedicare tutte le sue energie a fare di questo servizio alla
verità il più alto servizio di carità (richiamandosi a lui, nel­
l'Ottocento, Antonio Rosmini additava come ideale cristiano
la «carità intellettuale>> ) . Questa ascesi cristiana nella ricerca
del vero ha fatto di lui un genio universale che abbraccia ogni
tempo e ogni luogo: non nel senso che abbia detto tutto, ma
nel senso che non esclude nulla di vero. La sua apertura al ve­
ro è quella della mente umana che si identifica con lo spirito
universale del cristianesimo.
La verità, infatti, si rivela gradualmente nella storia, ma
trascende la storia; anche se dobbiamo cercarla nel mondo, è
superiore al mondo: supera i limiti dello spazio e del tempo;

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non è solo occidentale, sebbene sia anche in Occidente, non è
solo medioevale sebbene sia anche nel Medioevo. La cattoli­
cità di Tommaso è la sua vera grandezza : ha fatto suo il me­
todo naturaliter cattolico della mente umana, nella ricerca
sincera, perseverante e disinteressata della verità. È impossi­
bile mettere Tommaso in opposizione antagonistica con le al­
tre forme di pensiero perché non si trova mai in opposizione
con alcuna. Le supera o le anticipa almeno virtualmente per­
ché ne accoglie e ne include i valori con la sua disponibilità
che non esclude nemmeno quelli che la pensano diversamente
da lui.

Coerenza della vita, sincerità del pensare

Io ho scoperto Tommaso filosofo attraverso la frequentazione


di É tienne Gilson, grande tomista francese del nostro secolo;
di lui parlerò diffusamente più avanti (si veda pp. 1 53-62), ma
ora voglio sottolineare che Gilson è un pensatore che rispec­
chia assai bene la "sincerità del pensare" di cui è modello
Tommaso. Gilson non adottò il pensiero tommasiano per ne­
cessità di appartenenza istituzionale o ideologica, ma per li­
bera e convinta adesione a un maestro autonomamente sco­
perto, malgrado tutte le prevenzioni e l'ostilità preconcetta
dell'ambiente culturale in cui era cresciuto. 6 Una volta scoper­
to Tommaso, non diminuì in Gilson la stima e l'affetto per i
suoi maestri della Sorbona o del Collège de France, che poi
erano due ebrei: il positivista Lucien Lévy-Bruhl e l'evoluzio­
nista Henri Bergson. Da questi maestri Gilson aveva imparato
molto (sia sul piano umano sia dal punto di vista filosofico) , e
a loro continuerà a riferirsi con rispetto e gratitudine, non sen­
za far tesoro, in tutta la sua vita, della loro lezione. Entrato a
far parte degli "immortali" dell' Académie française, Gilson ri­
mase sempre legato più all'ambiente laico che a quello eccle­
siastico: dai laici di ogni fede gli vennero molti segnali di ap­
prezzamento e di amicizia, mentre dagli ambienti ecclesiastici
(come l'università di Lovanio o la Cattolica di Milano) gli
giunsero numerose critiche e chiari segni di incomprensione e
di insofferenza (fu persino tacciato di "fideismo", fu conside­
rato "reazionario" per le sue critiche a Garaudy e a Teilhard

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de Chardin: poi il tempo gli diede abbondantemente ragione
in queste e in altre questioni ) .
Siccome i n Italia i l massimo esperto del pensiero kierke­
gaardiano è stato proprio un tomista, Cornelio Fabro, e sic­
come Fabro (come anche, dietro a lui, Giuseppe Mario Pizzu­
ti) ha trovato sorprendenti coincidenze di pensiero tra
Kierkegaard e Tommaso d'Aquino, posso interpretare la coe­
renza vitale di Tommaso con la concezione kierkegaardiana
del "reduplicare" : « Reduplicare è essere ciò che si dice. È in­
finitamente più utile agli uomini chi fa quello che dice di chi
parla sempre con enfasi » .? Kierkegaard pensava a Socrate,
che fondò la filosofia in una unità profonda di pensiero e vi­
ta. L'intellettuale alienato nella speculazione pura, così come
l'ideologo preso dai suoi giochetti verbali- mentre la realtà si
muove per proprio conto- guarderanno sempre a questa esi­
genza come a una romantica ingenuità.
Non è in causa la validità del sapere scientifico, ossia l'og­
gettività: è in causa l'arbitraria illazione del pensatore ogget­
tivo, che non mette in discussione se stesso ma si colloca
idealmente in una posizione esterna e neutrale, e crede di pe­
netrare in questo modo la realtà. Per poter « essere quel che si
dice>> occorre invece buttarsi nella mischia di un sapere esi­
stenziale: «Zavorrare la riflessione con il peso del reale» e al
tempo stesso mantenerla in tensione
.. aperta verso la trascen-
denza.
Nel Novecento francese, Emmanuel Mounier legge queste
parole di Kierkegaard: «Il compito del pensatore soggettivo è
di comprendere se stesso nell'esistenza . . . e di trasformare se
stesso» . s E ne deduce che è inutile proporsi in astratto la que­
stione dell'essere uomo se non si cercano, calandosi fino in
fondo nella propria situazione esistenziale, le vie concrete per
vivere da persona, uomo responsabile e libero.9 La « redupli­
cazione» è possibile quando una verità, un v alore - senza
perdere la sua trascendenza - diventa «verità per me» : punto
di addensamento delle risorse individuali e di identificazione
di quell'io che si vuole essere, dunque forza propulsiva del
mto agtre.
Certo, quando si parla di «verità soggettiva » è facile scivo­
lare nell'ambiguità. Mounier però risolve la questione con
molto equilibrio: la verità e i valori, radicati come sono nella

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persona trascendente di Dio, « non sono soggettivi, in quanto
non dipendono dalle particolarità epidermiche di un dato
soggetto» e lo sono in quanto «non esistono che in relazione
ai soggetti» . lO Il valore oggettivo risulta edificante per la per­
sona che fa filosofia in quanto è il riverbero della Persona
fondante: ed è per questa profonda relazione intersoggettiva
fra l'uomo e Dio che la verità e il valore possono risuonare
con forza nell'interiorità umana. Dunque,

non la verità oggettiva, non il valore cristallizzato nell'impera­


tivo etico hanno quella capacità di entusiasmo e di persuasio­
ne tale da spingere alla decisione e da promuovere l'agire mo­
rale; ma il valore vissuto, quale lo si può leggere da un
rapporto interumano profondo, giacché il rapporto con Dio
passa attraverso l'altro uomo, esso sì può avere questa forza
di contagio e questo influsso liberante sulle risorse spirituali
dell'io.tt

Possiamo allora ricondurre senza forzature anacronistiche


la figura di Tommaso d'Aquino alla sensibilità personalistica
di Emmanuel Mounier, per il quale la verità soggettiva si ri­
chiama, più che a un processo di interiorizzazione ( << la verità
che vive in me » ), a una graduale opera di incarnazione: <<So­
no io che vivo in modo più autentico>>. Vedremo, nelle pagine
che seguono, che Tommaso d'Aquino fece della filosofia
un'esigenza di verità personalmente vissuta.
Per continuare a esprimerci in questi termini, essere un
<<pensatore soggettivo» significò per Tommaso semplicemen­
te essere un uomo. Ma l'universalità del compito al quale
ogni uomo è predisposto non ne diminuisce la difficoltà.
Giacché- continua Kierkegaard - <<pensare è una cosa ed esi­
stere in quel che si pensa è un'altra cosa » ,1 2 e più che la coe­
renza bisogna qui invocare la robustezza dello spirito: <<La
trasparenza del pensiero nell'esistenza è precisamente l'inte­
riorità>> .IJ Anche per Mounier un tale compito è responsabi­
lità di ciascuno: << Si parla sempre di impegnarsi, come se que­
sto dipendesse da noi: ma noi siamo già impegnati, siamo
tutti imbarcati>> .14 Tuttavia, la nostra abituale inclinazione è
di respingere questo compito, di giocare con quelle curiosità
o preoccupazioni che Pascal chiamava «divertissement», di

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non vivere la nostra vita con serietà (Kierkegaard) , di evadere
dall'angoscia rifugiandoci nel mondo del «si dice>> abitudina­
rio e conformistico (Heidegger) oppure di adeguarci furba­
mente al mondo dei «farabutti >> (Sartre) .l5

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Il mondo della cultura all'epoca di Tommaso

Il Sacro Romano Impero a contatto con l'Islam

Tommaso d'Aquino è vissuto in pieno secolo XIII, il secolo


delle cattedrali gotiche, dell'arte di Cimabue e di Giotto e
della grande fioritura in tutta Europa della nuova letteratura
romanza ( in lingua provenzale, castigliana, portoghese, sici­
liana, umbra, toscana ecc.) e in Italia anche il secolo dei co­
muni: un secolo che, grazie a tante geniali realizzazioni pro­
dotte dall'Europa cristiana in ogni campo della cultura
(letteratura, narrativa, poesia, architettura, pittura, scultura,
diritto, economia, filosofia, teologia ecc . ) , si è guadagnato
l'appellativo di secolo d'oro. La poesia italiana conosce la li­
rica cortese di Cielo d'Alcamo "e di Jacopo da Lentini, le laudi
religiose di Jacopone da Todi, il Tesoretto di Brunetto Latini.
Quello fu anche il secolo in cui fiorirono le prime grandi uni­
versità (Tommaso frequentò come studente o come maestro
Napoli, Parigi, Colonia, Roma e poi di nuovo Parigi e d i
nuovo Napoli), che i n breve tempo portarono la ricerca filo­
sofica e teologica a livelli fino ad allora sconosciuti. L'esisten­
za di Tommaso si svolge praticamente lungo tutto il Duecen­
to, tanto che il 1 250, che segna la metà secolo, è anche l'anno
centrale della sua vita, ancorché Tommaso avesse allora solo
venticinque anni e stesse ancora alla scuola di Alberto Ma­
gno, nel monastero della Santa Croce a Colonia. Il Duecento
è stato denominato il secolo occidentale per antonomasia. « Il
significato legato a questa denominazione» scrive Josef Pie­
per «non è del tutto chiaro, ma io accetterei ugualmente que­
sta definizione; mi azzarderei perfino ad affermare che tutto

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ciò che è specificatamente occidentale ha avuto la sua confi­
gurazione definitiva proprio in questo secolo, e precisamente
attraverso lo stesso Tommaso d'Aquino » .1
Qualcuno ha pensato che il Duecento sia stata un'epoca di
equilibrio armonico, di ordine stabile e di solida affermazio­
ne politica della cristianità. Ma almeno nel terreno culturale
questo pensiero non riflette la realtà dei fatti. Lo storico bel­
ga della filosofia Fernand Van Steenberghen parla del Due­
cento come di un secolo di «crisi dell'intelligenza cristiana » ;2
e in Gilson (che pure fu in disaccordo con Van Steenberghen
in quasi tutto) si legge: «<l mondo poteva scorgere che stava
per verificarsi una "crisi " >> .3 Ma, in concreto, in che cosa
consisteva questa crisi? In primo luogo, è necessario ricorda­
re che il Sacro Romano Impero, sorto con il re franco-germa­
nico Carlo Magno nel secolo IX, da allora in poi era stato in­
cessantemente assediato dall'Islam e minacciato dalle orde
asiatiche (il 1241 è l'anno della provvidenziale disfatta dei
mongoli a Liegnitz) , e di conseguenza la cristianità del Due­
cento è fortemente condizionata dal fatto di riconoscersi mi­
noranza in mezzo a uno sconfinato mondo non cristiano.
L'Oriente pagano, ricco di cultura e di scienza, preme inces­
santemente alle frontiere, e non soltanto quelle geografiche.
Nel cuore dell'Asia, nel Karakorum, verso il 1 253-54, alla
corte del gran khan si svolge un dibattito celebre tra due frati
francescani e alcuni religiosi maomettani e buddisti. Forse in
questo caso si può parlare, come è stato fatto, di un compito
missionario intrapreso quasi per sbaglio; ma, in ogni caso,
nel Duecento la cristianità si vede sfidata ben oltre le sue
frontiere geografiche. Già da quattro secoli il mondo islami­
co, che aveva invaso l'Europa, si era imposto non soltanto
per il suo potere militare e politico, ma anche per la sua filo­
sofia e la sua scienza che, per mezzo delle traduzioni dalla
lingua araba a quella latina, si erano installate in buona parte
nel cuore della cristianità, per esempio nell'università di Pari­
gi, dove poi troveremo Tommaso d'Aquino. È anche vero che
questa filosofia e questa scienza non erano propriamente di
origine e di carattere islamici; trasmettevano piuttosto l'anti­
ca sapienza greca, soprattutto quella di Aristotele, penetrata
nel mondo intellettuale dell'Europa cristiana attraverso vie
politico-militari; ma in ogni modo rappresentano per l'Occi-

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dente cristiano soprattutto qualche cosa di strano, di nuovo,
di pericoloso, in quanto "pagano" . Nello stesso tempo la cri­
stianità del Duecento subisce in politica un radicale perturba­
mento, entrando definitivamente « in una età in cui cessa di
essere una unità teocratica>>;4 basti ricordare che nel 1 2 1 4
per la prima volta un re di quelle che saranno poi le nazioni
europee vince niente di meno che l'imperatore nella battaglia
di Bouvines. Nello stesso periodo iniziano le guerre di religio­
ne dentro la stessa cristianità, e furono guerre combattute
con inimmaginabile crudeltà; con l'eresia degli albigesi (cata­
ri e valdesi) per alcuni decenni il cattolicesimo romano sem­
brò avere perduto definitivamente il Sud della Francia e il
Nord dell'Italia. L'antico monachesimo, considerato come
baluardo spirituale, sembrava aver perduto anch'esso gran
parte della sua forza come istituzione, considerato cioè nella
sua totalità, malgrado tutti gli eroici tentativi di riforma
( Ciuny, Citeaux ecc. ) . E per ciò che si riferisce ai vescovi, un
rispettabile priore domenicano belga ( forse condiscepolo di
Tommaso durante il tirocinio a Colonia presso Alberto Ma­
gno) poté scrivere il seguente apologo: nel 1 248 a Parigi un
chierico doveva predicare davanti al sinodo dei vescovi, e
mentre stava cercando un argomento appropriato, gli appar­
ve il demonio che gli disse: << D i ' loro solamente questo: i
prìncipi delle tenebre infernali salutano i prìncipi della Chie­
sa . Li ringraziamo sentitamente per averci inviato tanti fedeli
che erano stati loro affidati; infatti, grazie alla loro negligen­
za, quasi tutto il mondo è ora sotto il potere delle tenebre».

Impero e papato

Nel Duecento i papi interrompono la lunga serie di secoli nei


quali il capo del Sacro Romanò Impero esercita un'autorità
politica illimitata, rischiando spesso di sottomettere al potere
imperiale anche la persona e le funzioni pastorali del capo
della Chiesa. Ricordiamo che nel dicembre 1 046 l'imperatore
Enrico III aveva deposto in un solo colpo tre papi: Silvestro
III, Gregorio VI e Benedetto IX; il successore di costoro, il te­
desco papa Damaso II, era stato designato dall'imperatore
stesso, il quale poi mandò a Roma una scorta armata il gior-

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no dell'intronizzazione dell'eletto { 8 luglio 10 48) . Le cose
cambiano con l'elezione di Innocenzo IV {il genovese Sinibal­
do de' Fieschi, che fu eletto papa nel 1 243 ), il quale arrivò a
deporre solennemente il più grande degli imperatori, quel Fe­
deriço II di Svevia che aveva trasferito la sua sede nella fasto­
sa reggia arabo-normanna di Palermo; il fatto clamoroso del­
la sua deposizione da p arte del papa avvenne durante i l
concilio di Lione i l 1 7 luglio 1 245, giusto due secoli dopo l a
deposizione dei tre papi da parte d i Enrico III: segno d i un ra­
dicale mutamento negli equilibri di forza all'interno della cri­
stianità. Il Duecento terminerà infatti con il pontificato di
Bonifacio VIII, il massimo teorico della supremazia del papa
sull'imperatore:s disegno teocratico irrealizzabile e che di fat­
to non si realizzò, ma pur sempre risultato di un'evoluzione,
segnata da aspri conflitti, avvenuta proprio nel Duecento,
non senza l'apporto fondamentale di Tommaso {sua è infatti
la proposta di un'equilibrata terza via o via media tra guelfi e
ghibellini, proposta che sarà poi sviluppata dal domenicano
tomista Jean de Paris nel suo trattato De potestate regia et
papali, pubblicato agli inizi del Trecento per contrastare le
tendenze teocratiche di Bonifacio VIII).

Inizio dell'attività missionaria

Naturalmente la civiltà cristiana del Duecento ha avuto an­


che aspetti positivi. In questo secolo non soltanto vennero
costruite sublimi opere d'arte architettonica come le catte­
drali, ma furono anche aperte le prime università, che fra l'al­
tro iniziarono il recupero dell'antica scienza umana e in gran
parte anche la completarono. Un'altra creativa risposta della
cristianità al secolo XIII si cela sotto il termine di "ordini
mendicanti". I domenicani {ordine dei predicatori) sono rico­
nosciuti dalla Chiesa nel 1 2 1 6; i francescani {ordine dei frati
minori) nel 1226. Queste nuove comunità religiose, che per
praticare la povertà ed esercitare l'apostolato missionario ri­
nunciavano alla vita residenziale dei monasteri e si dissemi­
navano nel territorio, furono peraltro legate in modo vera­
mente decisivo all'istituzione delle università. I maestri più
qualificati del secolo, sia a Parigi che a Oxford, sono senza

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alcuna eccezione frati mendicanti. Nulla viene considerato
" terminato", tutto è in ebollizione. Alberto di Colonia trac­
cia sul futuro questo ardito panorama: << Scientiae demonstra­
tivae non omnes factae sunt, sed plures restant adhuc inve­
niendae», la maggior parte del sapere scientifico è ancora da
scoprire. 6 Anche negli ordini mendicanti nasce l'impulso di
penetrare efficacemente nel mondo d'oltrefrontiera. Mentre
Tommaso scrive la sua Somma contro i Gentili per il dialogo
con << mahumetistae et pagani)) ,l i suoi confratelli domenicani
fondano le prime scuole cristiane in lingua araba. Abbiamo
detto prima che sono frati mendicanti coloro che disputano
nel Karakorum con maomettani e buddisti. Ed è un france­
scano che, verso la fine del secolo, traduce in lingua mongola
il Nuovo Testamento e i Salmi, facendo dono della relativa
traduzione al gran khan; ed è lo stesso frate (il napoletano
Giovanni di Monte Corvino) a edificare proprio a Pechino,
vicino al palazzo reale, una cattedrale, diventandone il primo
arcivescovo. L'esempio di Francesco d'Assisi e di Antonio da
Lisbona (che tentarono entrambi di evangelizzare le popola­
zioni del Nordafrica ) era stato eloquente.s
Proprio per questi diversi fattori, nel considerare il Due­
cento si può dire che la storia del pensiero vi si trova in tutta
la sua polifonia, e che in quel secolo si è conseguito per un
breve spazio di tempo un accordo e una " perfezione classica"
durati per tre o quattro decenni. Gilson parla di una specie di
<< straordinaria serenità)).9 E tale momento, anche se è passato
e in nessun modo può rivivere, nella coscienza storica della
cristianità occidentale può essere il paradigma e il modello
che, sotto mutate condizioni e pertanto in una nuova formu­
lazione, dovrebbe ispirare la ricerca del bene comune attra­
verso le arti, le scienze, la cultura, la tecnica. La Divina Com­
media di Dante è il primo anello della "grande catena" che
tuttora ci lega al Duecento.

La società feudale: imperatore, re, conti,


monasteri e liberi comuni

Da tre secoli la Chiesa aveva preso sulle proprie spalle quello


sforzo grandioso di organizzazione che, dal caos delle inva-

21
sioni barbariche, era sfociato nel feudalesimo. Essa aveva da­
to l'anima a un'economia di potere fondiario in cui il mona­
stero era la replica religiosa del castello del signore feudale e,
ancora di recente, il monastero di Cìteaux (da cui nasce il ra­
mo cistercense dei benedettini), pur rinunciando ai benefici
feudali, aveva rinnovato questa alleanza con la terra . Essa
aveva sacramentalizzato il giuramento che fissava i legami di
tale società, ed esaltava insieme alla fedeltà (virtù tipica del
Medioevo feudale) anche le virtù evangeliche della giustizia e
della carità. Essa benediceva le armi del cavaliere peréhé fos­
sero poste, sotto pena di spergiuro, «al servizio delle vedove,
degli orfani, di tutti i servi di Dio, contro la crudeltà dei bar­
bari » . La cavalleria - geniale invenzione cristiana - diventava
così un'istituzione di pace: gli ordini religiosi cavallereschi (i
templari, i cavalieri del Santo Sepolcro), pur tra luci e ombre,
sono un episodio di eroismo ascetico; la Chanson de Roland
e il Cantar de mio Cid, senza voler presentare eroi cristiani
perfetti, manifestano la penetrazione del senso religioso fin
dentro la brutalità di quell'epoca piena di violenze ( come
pertanto ogni altra epoca anteriore o successiva).
Nel regime della fiscalità feudale la Chiesa aveva creato,
con i beni che le fornivano le decime, un servizio di sicurezza
sociale, cioè una concreta politica della misericordia che in­
terveniva automaticamente nelle frequenti calamità e rime­
diava quasi a livello giuridico al costante squilibrio sociale
della distribuzione dei beni. L'ospitalità, organizzando sotto
forma di costume il consiglio evangelico, estendeva alla vita
quotidiana degli scambi, dei viaggi e di ogni sorta di imprevi­
sti i vantaggi di questo diritto sociale. Le scuole di studi giuri­
dici e teologici, nate all'ombra dei monasteri e delle chiese,
alimentate dal punto di vista intellettuale e finanziario dai
chierici, vivevano spontaneamente sotto la giurisdizione ec­
clesiastica che fissava i programmi e dirigeva l'economia. In
breve, la Chiesa era diventata il supporto e la garanzia di una
società di cui essa stessa era la prima beneficiaria: in fondo è
questa la nozione storica di «cristianità » . Un successo di due
secoli (ossia a partire dall'anno Mille) dava credibilità a que­
sto impegno. In più le gerarchie ecclesiastiche si opponevano
alle aspirazioni che minacciavano l'ordine stabilito, e la soli­
darietà che teneva uniti prelati e signori feudali con i legami

22
di una stessa tradizione e di una stessa agiatezza provocava,
per via di interessi economici, una certa resistenza passiva.
Soddisfatte della carità organizzata di cui tenevano salda­
mente in mano le leve, poco si interessavano delle evoluzioni
in atto nello strato sociale degli artigiani e dei contadini. Ap­
prezzando il valore della fedeltà e la natura religiosa del giu­
ramento, non favorivano certo le <<carte di affrancamento)),
che non si poteva ottenere senza qualche violenza: ritenendo
la servitù una condizione umana rispettabile e permanente,
non riuscivano a vedere in queste promozioni collettive
un'applicazione adeguata dei valori spirituali che pur sapeva­
no essere propri del Vangelo.
Sul piano politico i vescovi non sembrano cogliere in un
primo momento la portata democratica del movimento dei
comuni, anzi molti prelati la considerano come semplice con­
seguenza di malsane turbolenze: <<La grande maggioranza
dell'episcopato è rimasta indifferente e ostile nei riguardi di
una tendenza ispirata dal desiderio di farla finita col dispoti­
smo dei signori, nato dal più pagano egoismo >> . lo Come scri­
ve Chenu,

nel momento stesso in cui [i vescovi] continuano a predicare il


loro Vangelo di giustizia e di carità, i legami sul piano tempo­
rale finiscono per coprire i loro occhi ta.Q.tO da non vedere le
trasformazioni necessarie. Quelli che prendono di mira gli
abusi e i vizi, senza uscire dal sistema, manifestano la dispe­
rante inefficacia di un riformismo puramente moralistico. In­
somma, costoro non hanno il senso dell'uomo nuovo che sta
per nascere.11

In questo passaggio dal sistema esclusivamente feudale alla


novità dei regni nazionali in Inghilterra, Francia e Spagna,
come anche dei comuni e delle repubbliche marinare in Italia,
gli uomini del Duecento avevano progressivamente conqui­
stato l'autonomia dei propri atteggiamenti, il senso delle re­
sponsabilità personali, il gusto dell'iniziativa, e quella certa
agilità mentale che rivela la padronanza di fronte ai problemi
imprevedibili di uri mondo in evoluzione. Le scuole urbane,
popolate di esuberante gioventù, legate nello slancio e persi­
no nell'intemperanza alla vita comunale e alle corporazioni

23
delle arti e dei mestieri, sono evidentemente il centro di tale
presa di coscienza.

L'unità culturale dell'Europa cristiana


e la Scolastica

La filosofia cristiana, nata nel II secolo con Giustino Martire


(autore del Dialogo con Trifone e delle due Apologie per i
cristiani), si sviluppa all'inizio nell'alveo della cultura elleni­
stica, assumendo elementi storici e platonici (la seconda Ac­
cademia ); successivamente si giova anche della speculazione
neoplatonica (Plotino, Porfirio, Proclo), che pure era sorta
per combattere il cristianesimo e ripristinare la civiltà intel­
lettuale pagana: Agostino di lppona e Severino Boezio sono
nel V secolo i maggiori testimoni dello spirito aperto, pronto
al dialogo, che caratterizza la speculazione dei Padri della
Chiesa di lingua latina, anello di congiunzione tra la filosofia
cristiana della tarda Antichità e quella del Medioevo latino.
Platone, Aristotele e il neoplatonismo sono gli autori pagani
sempre presenti, sia pure in diversa misura, nella filosofia cri­
stiana medioevale. Di Platone verrà costantemente ripresa
l'antropologia (soprattutto per quanto riguarda la spiritua­
lità e l'immortalità dell'anima umana) , mentre di Aristotele
verrà adottata la logica, e del neoplatonismo la concezione
gerarchica della realtà, tendente a ritrovarsi nell'Uno di Dio
dalla quale procede.
Il Medioevo viene tradizionalmente suddiviso in tre perio­
di: alto Medioevo, che va dal secolo VI al secolo XI; Rinasci­
mento medioevale, che comprende XII e XIII secolo; e infine
tardo Medioevo, che include il Trecento e i primi decenni del
Quattrocento (ossia, fino alla prima manifestazione dell'U­
manesimo ) . Gli ultimi d ue periodi sono caratterizzati, dal
punto di vista socioculturale, dalla Scolastica (sistema di stu­
dio e di insegnamento che fa capo alle scuole di teologia dei
grandi monasteri benedettini e alle università); la storia della
Scolastica, a sua volta, è articolata in tre periodi: prima Sco­
lastica ( 1 100 - 1 240 ) , media Scolastica ( 1 240- 1 300 ) , tarda
Scolastica ( 1 300 - 1 450 ) . La vita di Tommaso d'Aquino (come
quella di Ruggero Bacone, di Alberto di Colonia, di Bona-

24
ventura da Bagnoregio e di Sigieri di Brabante) si colloca
dunque nel periodo denominato media Scolastica o apogeo
della Scolastica. Al periodo successivo (denominato ingiusta­
mente decadenza della Scolastica) appartengono i due filoso­
fi britannici Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham e
il poeta-filosofo Dante Alighieri.
Il Duecento è il secolo in cui - come abbiamo visto - le
università europee nascono o si sviluppano pienamente. In
Italia esiste già dal 11 9 8 l'università di B ologna, che può
dunque vantare la maggiore antichità e si specializza negli
studi di giurisprudenza; in Francia, l'università di Parigi di­
venta invece il centro degli studi di teologia, soprattutto per
le provvide decisioni del papa Innocenza III (la grande figura
del papato di questo periodo, che si contrappone alla restau­
razione imperiale avviata da Federico II di Svevia) . Nell'uni­
versità di Parigi - dove poi insegnerà Tommaso - confluisco­
no i fermenti culturali già maturati in Francia nella scuola di
Chartres e in quella di San Vittore, che sviluppano la tradi­
zione platonizzante della prima Scolastica e affinano gli stru­
menti della logica, soprattutto a opera di Pietro Abelardo.
L'atto di nascita dell'università di Parigi ( 1 200) coincide con
il decreto del re di Francia, Filippo Augusto, con il quale i
maestri e gli studenti dello studium generale parisiense veni­
vano sottratti alla giurisdizione civile ordinaria e posti sotto
la giurisdizione del vescovo di Partgi, il quale avrebbe gover­
nato l'università attraverso un cancelliere; nel 1 2 1 5 l'univer­
sità istituisce la facoltà delle arti accanto a quella di teologia,
con statuti redatti dal rappresentante del papa e con un siste­
ma didattico che servì poi da modello per l'organizzazione
dell'università di Oxford in Inghilterra, fondata nel 1 2 1 4.

La Scolastica dopo la scoperta


del "nuovo" Aristotele

Tra la fine del XII e l'inizio del secolo XIII, inoltre, nella com­
plessa vicenda storica della filosofia cristiana si registra un av­
venimento di decisiva importanza: la scoperta di un "nuovo"
Aristotele, quello della Metafisica e dei tre trattati di etica (l'E­
tica nicomachea, l'Etica eudemia e la Grande etica). Grazie al-

25
le versioni latine delle opere di Avicenna, Averroè e Maimoni­
de (i filosofi arabi ed ebrei che avevano fatto largo uso di Ari­
stotele) e poi grazie alle traduzioni in latino di alcune opere
importanti ma ancora quasi sconosciute dello stesso Aristote­
le, il pensiero del grande metafisica greco comincia a penetra­
re anche nel mondo latino e a guadagnarsi le simpatie di molti
filosofi cristiani, soprattutto a Oxford e a Parigi, i centri di ela­
borazione filosofica più importanti dell'epoca. La riscoperta
di Aristotele segna una svolta decisiva nel pensiero filosofico e
teologico dei pensatori cristiani, che fino a quel momento nel­
le loro speculazioni avevano attinto quasi esclusivamente alle
opere dei platonici e dei neoplatonici per la filosofia, e agli
scritti di Agostino e dello Pseudo-Dionigi per la teologia, co­
sicché il loro pensiero restava ancorato a una problematica
marcatamente platonica e agostiniana. Con la migliore cono­
scenza della filosofia di Aristotele le cose cambiano: il suo in­
flusso si fa sentire nelle scienze, nella filosofia e nella teologia e
non risparmia nessuno, neppure coloro che nelle dottrine più
importanti di metafisica e di antropologia continueranno a
mantenersi fedeli allo spirito di Platone e di Agostino (come si
vedrà nel prossimo capitolo a proposito di Bonaventura da
Bagnoregio).
Il nuovo Aristotele costringe tutti i teologi scolastici a por­
si il problema della filosofia- della sua natura, del suo valore
intrinseco, della sua autonomia formale - nell'intento di uti­
lizzarla in un contesto teologico coerente. Questo intento de­
terminerà gli sforzi divergenti delle grandi scuole teologiche
dell'età d'oro della Scolastica. Il Duecento, peraltro, è domi­
nato da un conflitto: . non tra aristotelismo e agostinismo, ma
tra il paganesimo dello spirito filosofico e il cristianesimo
dello spirito teologico. Come scriveva Fernand Van Steenber­
ghen, « il merito di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino è
stato di trovare una soluzione armonica a questo terribile
conflitto elaborando una filosofia nel contempo autonoma
nei suoi metodi e pienamente compatibile con la dottrina cri­
stiana » .12

26
Platonismo e aristotelismo nel Duecento

Dal punto di vista strettamente filosofico, il nuovo Aristotele


non soppiantò Platone, anzitutto perché di Platone i medioe­
vali non conoscevano direttamente quasi nulla. Aristotele lo
rivelarono all'Occidente cristiano i commentatori giudei e
arabi, i quali, attraverso l'Africa settentrionale e la Spagna,
lo introdussero nella cristianità. Platone invece continuerà a
restare mal conosciuto, e solo in pochissime opere, nonostan­
te }"'atmosfera" platonica- o neoplatonica - in cui è immer­
'
so tutto il pensiero medioevale. Ma se è falso che il secolo
XIII abbia scelto Aristotele e rigettato Platone, si deve peral­
tro riconoscere che Aristotele si prestava meglio di Platone al
compito che avrebbe dovuto assolvere. Gilson mette in luce
l'idoneità di Aristotele al servizio che il pensiero cristiano gli
avrebbe chiesto: ove fosse stato possibile scegliere, occorreva
scegliere sempre Aristotele. Ma, in realtà,

nella storia del pensiero cristiano Aristotele non ha mai sosti­


tuito Platone. L'uno non poteva sostituire l'altro, precisamen­
te perché il loro tipo di influsso non era paragonabile e, nella
elaborazione del pensiero cristiano, non adempivano le stesse
funzioni . . . L'incontro della fede cristiana col platonismo dei
miti e dei "misteri" fu anzitutto quello di due pensieri religio­
si . . . Mentre l'incontro tra il pensiero cristiano e l'aristoteli­
smo sarà molto più schiettamente l'incontro di una religione
in quanto tale con una filosofia in quanto tale.t3

Ora, una differenza assai netta oppone l'aristotelismo al


pensiero platonico:

Ciò che vi è di comune a tutti i temi dei miti platonici, indi­


pendentemente dal loro senso propriamente filosofico, è che
non definiscono un sapere, ma narrano un racconto. I miti di
Platone . . . dicono delle storie che si sono svolte nel tempo. Al­
lo stesso modo gli scritti platonizzanti (il De consolatione phi­
losophiae di Boezio, per esempio) si preoccupano soprattutto
di raccontare una storia, avente sempre il destino dell'uomo al
suo centro. Se viene narrato da dove viene, è per metterlo si­
curamente sulla sola strada che possa condurlo là dove deve

27
andare: il mondo per l'uomo ha interesse unicamente in quan­
to la struttura dell'uno spiega il destino dell'altro.14

Ma non è questo ciò che si poteva chiedere ad Aristotele:

La sorte degli individui non conta molto nel mondo del Primo
Motore Immobile. Il pensiero che pensa se stesso non può nulla
per loro. Un pensiero che, pensandosi, pensa noi stessi è il solo
che noi possiamo pregare. Tale è il senso limitato, ma preciso,
in cui si potrebbe parlare di una dualità radicale delle funzioni
attribuibili al platonismo e all'aristotelismo nella storia del
pensiero cristiano, l'uno più intimamente legato alla vita cri­
stiana medesima, l'altro necessariamente richiesto per la costi­
tuzione di un sapere oggettivo cristiano. Innumerevoli vite cri­
stiane . . . non hanno sentito nessun bisogno di pensarsi, o
almeno di oggettivarsi esplicitamente in dottrina. Alcune dot­
trine si sono costituite senza filosofia o anche talora contro di
essa: per esempio l'Imitazione di Cristo. L'antitesi tra vita e sa­
pere, tra salvezza e vana curiosità si pone allora allo stato puro,
forma medioevale di un antagonismo endemico nella storia del
pensiero cristiano, che vediamo nuovamente affermarsi, dall'i­
nizio del secolo XIX, tra il soggettivo e l'oggettivo, l'esistenza e
la filosofia . . . Ma si potrebbero trovare anche delle vite spiri­
tuali preoccupate di risalire ai loro principi e di formularli; e si
vedrebbe forse allora èhe la tecnica naturale di queste spiritua­
lità, almeno nella misura in cui si volevano speculative, si è ge­
neralmente ispirata a quella di Platone . . . Da sant'Agostino a
Dionigi, e forse anche a Ruysbroeck, si vedono riapparire così
gli antichi temi platonici della storia dell'anima creata dal Ver­
bo, da lui illuminata e a lui richiamata da questa stessa illumi­
nazione.15

Aristotele a Parigi

Ben poco si sa degli inizi dell'aristotelismo nella università di


Parigi, che comunque, agli inizi del Duecento, ne è già la roc­
caforte. Il primo documento al riguardo è una proibizione
emanata dai vescovi francesi nel 1 2 1 0 dove si stabilisce fra
l'altro: «l libri della filosofia naturale di Aristotele non siano
letti né in privato né in pubblico, sotto pena di scomunica)),
Questa proibizione era stata causata dal cattivo uso che un

28
celebre professore dell'università parigina, David de Dinant,
aveva fatto della Fisica e della Metafisica di Aristotele, soste­
nendo che Dio e la "materia prima " sono la stessa cosa. Il de­
creto era stato sollecitato dalla facoltà di teologia, nonostan­
te le energiche proteste della facoltà delle artes, cioè di
filosofia. Da allora questa facoltà fu in continuo subbuglio,
tanto che nel 1 229 si giunse a proclamare uno sciopero gene­
rale di tutti i docenti. Per ristabilire la pace intervenne il papa
Gregorio IX in persona, il quale promise che la condanna di
Aristotele sarebbe stata revocata appena fossero stati emen­
dati i "libri natura/es" (così venivano chiamate tutte le opere
aristoteliche che non fossero di logica e di etica, ossia i tratta­
ti Sull'anima, Sul cielo e sul mondo, Sulla generazione e cor­
ruzione, e soprattutto la Fisica e la Metafisica). A tal fine il
papa nominò una commissione, di cui faceva parte anche
l'arcivescovo di Parigi Guillaume d'Auvergne, buon filosofo
e grande conoscitore di Aristotele. Accadde però (come spes­
so accade anche oggi in queste cose) che la commissione non
riuscì mai a mettersi seriamente al lavoro. Così l'insegnamen­
to di Aristotele continuava a essere ufficialmente limitato ai
testi di logica e di etica. Di fatto però molti professori com­
mentavano tutto Aristotele liberamente.1 6
Nel 1 245 il francescano Ruggero Bacone (vedi più avanti,
pp. 42-44) introduce nei suoi corsi di filosofia il commento
alla Metafisica. Due anni più tardi fa a1trettanto il domenica­
no Alberto di Colonia, cui va soprattutto il merito di avere
spalancato ad Aristotele la porta della filosofia cristiana. Al­
berto, come vedremo più avanti (pp. 44-49), aveva un'ottima
preparazione scientifica oltre che filosofica e teologica e ave­
va compreso che era ormai inutile, anzi dannoso, continuare
a respingere Aristotele come " pagano" . Sul terreno scientifi­
co la fede non contava nulla, e la superiorità di Aristotele in
campo scientifico era indiscutibile. Qua e là c'erano indub­
biamente gli errori filosofici, ma sarebbe stato più facile com­
battere gli errori che fare a meno di quella ricchezza di osser­
vazioni che in tanti punti della biologia, della botanica, della
zoologia, dell'astronomia toccava vette sconosciute al mondo
culturale latino. Alberto aveva per Aristotele una stima altis­
sima, fino al punto di affermare che « la natura l'aveva posto
a regola della verità e in lui aveva dato mostra della più alta

29
perfezione dell'intelletto umano» . Così si impegnò in un gran
lavoro interpretativo del filosofo greco, per renderlo adatto
al mondo cristiano. Prima di assumere la direzione dello stu­
dio domenicano di Colonia ( 1248 ) il dotto domenicano ini­
ziò una parafrasi completa di tutte le opere di Aristotele.
Così stavano le cose a Parigi nel 1249, l'anno della scom­
parsa di Guillaume d' Auvergne. Con la sua morte cadono de­
finitivamente i divieti aristotelici e con essi cade il muro che
per mezzo secolo aveva impedito ad Aristotele di fare il suo
ingresso ufficiale nella facoltà delle arti e della teologia:

Nel1252 Guillaume d'Auvergne è morto da circa tre anni e so­


no compiuti tre settenni dal1231: i famosi settenni allo scadere
dei quali la Santa Sede rivede la situazione dell'università. Ed
ecco che proprio Aristotele fa la sua entrata ufficiale nell'uni­
versità parigina alla facoltà delle arti col trattato Sull'anima
adottato come testo dalla nazione inglese. Fra il1252 e il1255
è una vera irruzione di opere aristoteliche nel campo universi­
tario degli artisti o filosofi parigini di tutte le nazioni: tanto che
nel1255 si sente il bisogno di fissarne, per così dire, il calenda­
rio scolastico. L'anno 1255 non segna dunque il momento del­
l'introduzione, sebbene quello della regolamentazione.l7

La normativa dell'insegnamento aristotelico viene fissata


solennemente in un documento dell'università di Parigi, pub­
blicato nel giorno delle Palme ( 1 9 marzo) 1 255. Passato un
decennio dalla regolamentazione del 1 255, Aristotele ottenne
cittadinanza, anche nel mondo dei grandi maestri di teologia.
Scrivendo nel 1 2 8 5 al vescovo di Lincoln, John Peckham, ar­
civescovo di Canterbury, si lamenta che da vent'anni le no­
vità (intendeva dire le novità aristoteliche) si erano purtrop­
po introdotte anche nel campo teologico a scapito della
tradizione agostiniana.
Il contatto con l'intero corpus aristotelicum consentì ad
Alberto di Colonia e, specialmente, al suo geniale discepolo
Tommaso d'Aquino - divenuto, nel mondo parigino, il più
valido sostenitore del valore del pensiero di Aristotele - di ri­
pensare tutta l'epistemologia teologica elaborando una teoria
dello statuto epistemologico della teologia secondo cui la ra­
tio (ragione) interviene non più dall'esterno ma dall'interno
nel lavoro dell'approfondimento della fede. Molti sono i me-

30
riti che fanno di Alberto di Colonia uno dei massimi teologi
di ogni tempo; tra essi va in primo luogo segnalato quello di
avere stabilito con grande esattezza la scientificità specifica
della teologia . Ma l'artefice principale dell'acquisizione di
Aristotele alla filosofia cristiana fu Tommaso d'Aquino. Que­
sti, alla scuola di Alberto, prima a Parigi e poi a Colonia, sco­
prì la bellezza e il valore delle dottrine filosofiche dello Stagi­
rita e ne divenne il principale fautore, difendendolo da tutte
le accuse che gli venivano mosse sia dagli agostiniani (tenace­
mente attaccati alla tradizione platonica) che dagli averroisti
(che con la loro interpretazione troppo chiusa e letterale di
Aristotele ne rendevano impossibile l'utilizzo in una filosofia
cristiana ) . L'intervento di Tommaso a favore di Aristotele fu
decisivo. Mediante un'esegesi più aperta e intelligente di tutte
le sue opere principali, egli poté dimostrare come il Filosofols
con i suoi principi metafisici fornisse alla teologia uno stru­
mento ermeneutico preferibile a quello che era stato mutuato
da Platone, e allo stesso tempo per tanti problemi fondamen­
tali dell'antropologia proponeva soluzioni più soddisfacenti
di quelle che erano state raggiunte con i principi platonici.
Ma, come si vedrà, l'opera filosofica di Tommaso non consi­
stette in una mera ripresa di Aristotele ad usum christiano­
rum; servendosi di Aristotele, egli elaborò un nuovo modulo
di filosofia cristiana, talmente originale da essere riconosciu­
to nei secoli più solido e più coerente d! quello platonico e
neoplatonico creato da Agostino e riproposto da Bonaventu­
ra negli stessi anni in cui insegnava Tommaso.

Sigieri di Brabante

Il sorgere di obiezioni e difficoltà contro il tentativo di conci­


liare, pur nel rispetto della reciproca autonomia, la filosofia
aristotelica con la fede cristiana è in parte dovuto al diffon­
dersi, fra il 1 260 e il 1265, di una interpretazione dell'aristo­
telismo per nulla preoccupata di tale conciliazione. Questa
interpretazione va sotto il nome di averroismo latino, in
quanto fa perno su alcune tesi caratteristiche di Averroè, in
particolare quella dell'unità dell'intelletto possibile e agen­
te.J9 Esponente principale di questa corrente di pensiero è il

31
belga Sigieri di Brabante ( 1 240-1 284 circa ), maestro alla fa­
coltà delle arti dell'università di Parigi, ove dal 1 255 tutte le
opere di Aristotele allora conosciute erano incluse nei pro­
grammi di studio. Nel suo insegnamento e nelle sue opere
(una serie di commenti ad Aristotele, fra cui le Quaestiones
in tertium librum Aristotelis de anima, e diversi opuscoli, fra
cui un De anima intellectiva), Sigieri professa un rigido ari­
stotelismo, aderente all'interpretazione di Averroè e incuran­
te delle divergenze che si possano verificare fra le ipotesi di
un filosofo e i dogmi accettati da un credente. All'origine di
tale posizione c'è un certo suo modo di intendere il metodo
filosofico, consistente essenzialmente nell'interpretazione dei
grandi filosofi del passato, soprattutto Aristotele: « Quando
procediamo filosoficamente» dice << noi ricerchiamo più l'in­
tenzione dei filosofi che non la verità >> , volendo dire che nei
filosofi si trova ciò a cui può giungere la ragione umana con
le sue forze, mentre la verità più autentica e completa la si ha
solo tramite la fede. In particolare egli professa, come tesi fi­
losofiche da ammettere necessariamente, l'eternità del mon­
do e l'unicità dell'intelletto (sia possibile che agente), pur di­
chiarandosi eventualmente disposto, per motivi di fede, a
non accettarle come vere. La proclamata antinomia tra ragio­
ne e fede che risultava dalle posizioni di Sigieri ( anche se egli
non giunse a sostenere la teoria della doppia verità, come fu
detto) suscitò forti discussioni e reazioni. Bonaventura - co­
me poi si vedrà - denunciò con vigore gli errori di Sigieri, e
ne prese spunto per condannare l'aristotelismo nella sua glo­
balità, e Tommaso scrisse contro Sigieri il De unitate intellec­
tus contra Averroistas Parisienses ( 1270), contestando la tesi
interpretativa di Averroè e dichiarando quest'ultimo più un
«corruttore >> che un «commentatore >> di Aristotele. Nel 1 270
inoltre, il vescovo di Parigi, Étienne Tempier, dichiarò incom­
patibili con l'ortodossia tredici proposizioni averroiste, di cui
la prima dice: «L'intelletto di tutti gli uomini è uno solo e
identico di numero>> . Le discussioni che seguirono furono
violentissime, e sfociarono nella dichiarazione pronunciata
dallo stesso Tempier nel 1 277 (tre anni dopo la morte di Bo­
naventura e dello stesso Tommaso) contro 2 1 9 proposizioni
riguardanti l'insegnamento di certi maestri della facoltà delle
arti, fra cui appunto Sigieri e poi anche Boezio di Dacia ( di

32
cui si ignorano le date di nascita e di morte), anch'egli rap­
presentante della corrente averroista. Nell'elenco delle posi­
zioni condannate, oltre alle tesi degli averroisti, figuravano
però anche diverse tesi dello stesso Tommaso. Il decreto si­
gnificò quindi una reazione globale contro l'aristotelismo da
parte della corrente teologica tradizionale, di ispirazione ago­
stiniana, che in esso vedeva un pericolo per la fede.
Sembra che Sigieri, in seguito alle critiche di Tommaso e
alla condanna ecclesiastica, abbia poi modificato le sue posi­
zioni fino ad avvicinarsi notevolmente, per quanto riguarda il
problema dell'intelletto, alle posizioni tomiste. Sottoposto a
processo, sarà assolto dall'accusa di eresia e morirà a Orvieto
verso il 1284, pugnalato dal suo segretario, improvvisamente
impazzito. Dante lo porrà in Paradiso, accanto ad altri spiriti
illustri, quale rappresentante della grande filosofia aristoteli­
ca: « Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, l è 'l lume d'u­
no spirto che 'n pensieri l gravi a morir li parve venir tardo: l
essa è la luce etterna di Sigieri, l che leggendo nel Vico delli
strami [università di Parigi], l sillogizzò invidiosi veri " .2o La
teoria della doppia verità, attribuita a Sigieri, verrà poi effet­
tivamente sostenuta nel Trecento da Marsilio di Padova e nel
Quattrocento da Pietro Pomponazzi.

La filosofia francescanà: Bonaventura


da Bagnoregio

Il più grande e il più vicino dei d ottori contemporanei di


Tommaso fu Giovanni Fidanza (chiamato poi Doctor se­
raphicus per la sua ardente pietà), il quale nacque a Civita di
Bagnoregio presso Viterbo il 1 2 1 8 , o, come altri vogliono, il
1 2 1 7. Narra egli stesso come da bambino, caduto vittima di
un morbo mortale, sia stato guarito istantaneamente da
Francesco d'Assisi, il quale con un segno di croce gli avrebbe
augurato ogni bene con le parole latine Bona ventura, sicché
il ragazzo da allora fu chiamato Bonaventura. Entrato nel­
l'ordine del Poverello d'Assisi, compì gli studi a Parigi, ove in
seguito svolse il magistero di teologia, ostacolato dai maestri
secolari, che non ammettevano il pubblico insegnamento da
parte dei frati, ritenendolo incompatibile con i fini ascetici

33
professati da francescani e domenicani. Dopo lunghe lotte la
controversia fu risolta in favore dei religiosi, per l'energica
difesa oltre che di Bonaventura da Bagnoregio anche di un al­
tro giovane frate italiano dell'ordine dei domenicani, Tom­
maso d'Aquino (vedi più avanti, pp. 77-85 ) .
Bonaventura, fedelissimo allo spirito del fondatore France­
sco d'Assisi, visse però una vita intellettuale ed ebbe cariche
ecclesiastiche che il Poverello non aveva -':llai voluto per sé. Fu
eletto generale del suo ordine e poi scelto da papa Gregorio
X come cardinale e vescovo di Ostia e Anzio ( 1 273); parte­
cipò ai lavori del concilio di Lione e lì morì nel 1 274, lo stes­
so anno in cui morì l'amico Tommaso d'Aquino, ma qualche
mese dopo di lui (che, proprio per l'improvvisa e misteriosa
morte, non era potuto giungere a Lione) . Tra le sue opere ri­
cordiamo: i Commentarii in quattuor libros Sententiarum
Petri Lombardi, ove sviluppa il pensiero del suo maestro
Alessandro di Hales; il Breviloquium o piccola somma teolo­
gica; il trattato De reductione artium ad theologiam (sulla
teologia come causa e fine ultimo dell'unità delle scienze), l'1-
tinerarium mentis in Deum e altre opere che sviluppano il
contenuto di quelle citate; il suo orientamento, sulla base di
una visione metafisica-teologica della realtà, è nel Duecento
l'espressione migliore dell 'agostinismo antiaristotelico (nel­
l'ultima opera, le Collationes in Hexaemeron del 1 273, Bo­
naventura critica direttamente le tesi di Aristotele sul mondo
e sull'uomo).

Metafisica e teologia

Il medioevale, in quanto medioevale cristiano, è convinto di


pensare con Agostino; e con Agostino il medioevale incentra
la propria problematica sul binomio Deus et anima.21 Tutta­
via, come abbiamo visto, dagli inizi del Duecento è entrato
nell'Occidente cristiano Aristotele con la sua metafisica ra­
zionale, diventata razionalistica con Averroè; il medioevale sa
di dover fare i conti con Aristotele, che sarebbe appunto " il
Filosofo " , di fronte al "Teologo" (Agostino). Aristotele è il
filosofo di un filosofare precristiano ed extracristiano, ado­
perabile anche come anticristiano; il medioevale è più o me-

34
no perplesso di fronte all'aristotelismo, ma non può non ci­
conoscerne il valore, così come riconosce valore a un platoni­
smo vagamente conosciuto attraverso testi neoplatonici e
agostiniani. Tommaso crederà di potere e di dover assumere
elementi e strutture dal filosofare di Aristotele; invece Bona­
ventura crede di potere e di dovere rimanere nell'universo di
discorso di Agostino, pur valorizzando nella propria teoresi
elementi e suggestioni del filosofare aristotelico o aristoteliz­
zante. Giustamente osservava a questo proposito Giovanni
Di Napoli:

Bonaventura è un pensatore francescano, e lo è non solo e non


tanto per la sua appartenenza all'ordine di frate Francesco, di
cui egli è stato generale per diciassette anni, ma per la peculia­
rità del suo spirito e del suo modo di pensare. Bonaventura
non disdegna l'astratto, ma all'astratto preferisce il concreto;
non ignora e non mortifica il concetto, la precisazione razio­
nale, ma dà la maggiore importanza all'afflato volontaristico,
allo slancio affettivo, alla portata pratico-vitale di ogni posi­
zione ideale; non condanna e non svaluta la ricerca e lo studio
del reale, ma predilige il divenire nella storia e della storia; di
qui la sua poca tenerezza per una pura elaborazione concet­
tuale, in forma di scolasticismo asettico e agnostico; in lui Pa­
rigi non uccide certo Assisi, sibbene, se da una parte Assisi è
integrata da Parigi per essere pip autenticamente e feconda­
mente se stessa, Parigi viene redenta dalla mera accademicità e
dalla astratta razionalità sistemante.22

Tra il Duecento e il Trecento, la scuola francescana prose­


guirà con Giovanni Duns Scoto su questa linea volontaristica
e di predilezione per il concreto.
Bonaventura delinea una metafisica nella quale domina la
distinzione tra l'uno, cioè Dio, e il molteplice, inteso come
complesso di creature individue e distinte ma contingenti e li­
mitate, nelle quali si manifesta la vita, la sapienza, la bontà e
l'amore di Dio, come luce che Dio stesso vi imprime creando­
le (le rationes semina/es di Agostino, che a sua volta aveva
derivato questa nozione dagli stoici, attraverso i neoplatoni­
ci). L'attività di questa luce costituisce la forma della materia,
o meglio l'individuazione cosmica e umana degli enti, ciascu­
no dei quali tende ad attuare la massima perfezione di cui la

35
sua essenza è capace, secondo la triplice attività della stessa
luce divina insita nel creato, e cioè secondo l' actus essendi,
1'actus appetendi, 1'actus efficiendi.

Dio è presente in ogni intelletto

Quindi Dio è l'essere per eccellenza; da buon francescano,


Bonaventura ha un particolare amore per la natura, anche
quella materiale, poiché tutto l'universo è manifestazione evi­
dente dell'esistenza di Dio; ma, oltre a questa evidenza di ca­
rattere estrinseco, Bonaventura, analogamente ad Agostino e
ad Anselmo, insegna che Dio è presente in ciascun essere,
specialmente nell'anima umana, secondo quella luce di cui si
è parlato: << Grazie a questo lume, Dio è vivamente presente
all'anima, e pertanto l 'anima lo conosce attraverso di esso:
l'anima quindi ha in se stessa la conoscenza del suo Dio>> .
Bonaventura da Bagnoregio concorda dunque con Anselmo
nel rilevare la certezza che di Dio si ha mediante il senso co­
mune (con un'inferenza spontanea e necessaria), specialmen­
te quando insegna: << Come i principi si conoscono in quanto i
termini sono noti, essendo la ragione del predicato inclusa
nel soggetto, essi [i principi] devono essere evidenti per se
stessi . E così è a proposito [della esistenza di Dio], in quanto
Dio, somma verità, è l 'essere stesso di cui non si può pensare
nulla di meglio>> .
In un altro passo Bonaventura precisa ancora più in detta­
glio quale carattere abbiano le prove dell'esistenza di Dio: es­
sendo la certezza di Dio intuitiva e universale, patrimonio di
ogni mente, provarne l 'esistenza con argomenti metafisici è
utile ma non indispensabile, ed è comunque solo una esplici­
tazione, una precisazione concettuale e dialettica. Per Bona­
ventura, insomma, questa e le altre certezze del senso comu­
ne possono essere arricchite - ma non fondate - dal rigore
delle dimostrazioni filosofiche: << Questi argomenti >> egli scri­
ve << sono piuttosto esercitazioni dell'intelletto che non ragio­
ni che diano evidenza e manifestino la verità dimostrando­
la >> .23 Così si intende la sua piena concordanza con Anselmo;
ambedue ritengono comune a tutti la nozione di Dio, e pole­
mizzano con coloro che negano la sua esistenza dimostrando

36
loro che tale negazione è l ogicamente impossibile, una volta
ammessa la nozione di D io: << Come dice lo stesso Aristotele>>
argomenta il santo francescano,

nessuna proposizione è più vera di quella che ha come predi­


cato lo stesso soggetto; ora, quando si dice <<Dio è » , l'essere
che si predica di Dio è in realtà identico a Dio stesso, poiché
Dio è il suo stesso essere. Di conseguenza, nessuna proposizio­
ne è più vera ed evidente di quella in cui si afferma che Dio è,
e nessuno può realmente pensare che tale proposizione sia fal­
sa, anzi nemmeno può dubitare che sia vera.24

Possono negare tale asserzione - spiega Bonaventura - so­


lo coloro che, nel discorso (non certo nell'intimo della loro
mente) , partono da una nozione falsa di Dio: per esempio,
definendolo come un ente tra gli altri, sia pure superiore a
tutti, e non come veramente è, ossia l'Essere sussistente.

L'anima

L'uomo per Bonaventura è composto di due sostanze incom­


plete: l'anima e il corpo, l'una spirituale, l'altra materiale; l'a­
nima, oltre a essere la forma del corpo, è dotata di intelletto e
volontà e quindi capace, per sua natura, di sapienza e d'amo­
re: «L'intelletto è per sua natura destinato a comprendere rut­
to» , come la volontà è destinata a protendersi verso qualsiasi
oggetto di desiderio; e così l'anima vive e attua la sua sostan­
ziale autonomia, quale immagine di Dio (Agostino) , quindi
della stessa sostanza divina la cui consapevolezza chiara e
fruizione piena le vengono comunicate dalla grazia, con la
quale viene deificata. Sicché l'anima umana è immortale non
solo per la sua incorruttibilità di natura, ma anche per grazia,
cioè per la redenzione con cui Dio le dona il lumen (idei, che
è il preludio, nella vita terrena, del lumen gloriae di cui si go­
drà nella vita eterna, cioè la << visione beatifica » di Dio.
Bonaventura, a differenza di Tommaso, sviluppa il tema
della conoscenza collegando la gnoseologia empirica di Ari­
stotele all'illuminazione agostiniana; la verità di cui l'uomo va
continuamente in cerca, è presente nell'anima come una luce

37
inestinguibile; essa è la luce della verità di Dio. Perché questa
verità diventi indubitabile possesso dell'intelletto è necessario,
per Bonaventura, tener presente un triplice criterio: 1 ) è verità
indubitabile quella che è impressa in tutte le menti; 2) è verità
indubitabile quella che deve essere ammessa da ogni persona;
3 ) è indubitabile ogni verità certissima ed evidentissima in se
stessa. Tale indubitabilità si deve appunto alla verità divina
presente a ogni retto giudizio umano; conoscere significa ap­
punto divenire certi della presenza della luce divina nella pro­
pria anima e nell'oggetto della conoscenza. Questa conoscen­
za però riguarda solo il campo dello spirito, cioè l'anima e
Dio; e così per la conoscenza degli oggetti materiali Bonaven­
tura ammette il processo conoscitivo aristotelico. La facoltà
intellettiva è una (non si tratta di due intelletti, uno possibile e
uno agente) , ed è passiva quando riceve le immagini degli og­
getti sensibili, mentre è attiva quando vi reagisce, spogliando
dette immagini dalla materialità, e possedendole come nozioni
adeguate alla sua capacità comprensiva.
Bonaventura, insomma, non potendosi sottrarre nemmeno
lui al prestigio dell'Aristotele "riscoperto" , cerca di concilia­
re l'illuminazione agostiniana con una psicologia di stampo
aristotelico, considerando questa come premessa e quella co­
me sviluppo e sublimazione della conoscenza. Per Bonaven­
tura dunque l'intelletto non può conoscere il mondo della
materia se non per mezzo dei sensi, essendo stato creato pri­
vo delle idee del mondo sensibile: « lntellectus humanus
quando creatur est sicut tabula rasa» . Il dato dei .sensi, però,
non resta nel soggetto così come vi giunge; esso viene elabo­
rato dalla potenza intellettiva che ne astrae l'universale, tra­
sforma l'apparenza mutevole nell'immutabilità del vero, pu­
rifica la realtà imperfetta coll'intuizione dell'essere scevro da
ogni imperfezione e applica al reale instabile e cangiante la
stabilità metafisica di una legge inderogabile. Tutto questo
ulteriore lavoro non deriva dai sensi, ma da un potere dell'a­
nima, consustanziale all'anima (ratio creata) o partecipatole
da Dio nell'atto del conoscere (ratio motiva). Il dato dei sensi
è lo stimolo primo, ma la mente prende poi subito soprav­
vento e, librandosi sovrana sulla base strumentale della sensi­
bilità, risplende per virtù del raggio proiettato in lei dalla luce
divina.25

38
Ciò si deve alla diversità di natura che intercorre tra l'intel­
letto e il mondo materiale; l'intelletto dai sensi riceve le im­
pressioni, e da queste astrae le nozioni razionali per mezzo
della: sua funzione attiva. Ma la scienza delle cose sensibili
non è la sapienza; per Bonaventura da Bagnoregio la vera sa­
pienza ha inizio con l'autoconoscenza, cioè con la compren­
sione della propria anima (quale sostanza e natura spirituale)
e di Dio come causa eterna e infinita di essa; ciò si raggiunge
con la luce divina, di cui l'anima è sostanziata.
Per Bonaventura l'idea di Dio - come Essere necessario - è
presente al pensiero umano in ogni giudizio sulla realtà cono­
sciuta; modernamente questa concezione della conoscenza
umana è stata riproposta da Antonio Rosmini (seconda metà
dell'Ottocento) e prende il nome di " ontologismo", ma non è
assolutamente il caso di considerare Bonaventura da Bagnore­
gio un sostenitore della tesi (che nella sua radicalità sarebbe
eterodossa) della conoscenza immediata di Dio come tale.
Molti anni or sono, Luigi Stefanini chiariva così questo punto:

Dio è, dunque, il primum cognitum: tale è il pensiero di Bona­


ventura da Bagnoregio. Da ciò non bisogna dedurre ch'egli sia
stato un precursore dell'ontologismo, nella sua forma esagera­
ta. Per il nostro autore, infatti, l'idea di Dio è implicita in ogni
nostro atto mentale, per quanto elementare, ma non sempre è
esplicita, per cui non sempre si ravvisa l'idea di Dio ch'è alla
base di ogni nostro atto conoscitivo. E per giungere a tale idea
bisogna sempre partire dalla conoscenza sensibile, per astrar­
ne poi il principio universale ch'essa contiene. Quello di Bona­
ventura è, per così dire, un ontologismo finale, non iniziale,
quindi non è affatto visione immediata della Divinità. Lo dice
chiaramente nell' Itinerarium: <<prius est ascendere quam de­
scendere in scala Iacob, primum gradum ascensionis colloce­
mus in imo » . E altrove dichiara la sua adesione alla tesi peri­
patetica: << cognitionem generari in nobis via sensuum,
memoriae et experientiae, ex quibus colligitur universale in
nobis >> . 26

39
La vita pratica come itinerario della mente
verso Dio

Dunque l'uomo, per Bonaventura, raggiunge e possiede con


l'attività teoretica la verità dello spirito (anima e Dio) o co­
noscenza «sapienziale » . Connessa e parallela a questa si ha
l'attività pratica, nella quale consiste l'agire umano; l'uomo
infatti tende, con la sua libera volontà, al possesso e al godi­
mento del bene conosciuto teoricamente. Perciò la vita mora­
le si risolve in un viaggio dell'anima - «itinerarium mentis in
Deum» -, cioè in una graduale ascesa, culminante nella frui­
zione di Dio, massimo e sommo Bene. L'anima attua questo
itinerario attraverso sei gradi, che Bonaventura fa corrispon­
dere a sei facoltà dell'anima, da quella infima a quella più al­
ta, cioè da quella più lontana da Dio a quella che la congiun­
ge a Lui: l ) per mezzo dei sensi esterni l'anima apprende la
bellezza del creato e tende al creatore; 2) con i sensi interni
l'anima apprende il valore del suo intelletto giudicante e si
eleva verso la sua causa; 3) con ia ragione l'anima si intuisce
sostanziata di memoria, intelletto e volontà e quindi immagi­
ne della Trinità divina (come aveva insegnato già Agostino);
4) con la potenza intellettiva l'anima riceve la luce divina del­
la grazia, trascende il mondo della contingenza e vive la pie­
nezza della fede, della speranza e dell'amore di Dio; 5) con
l'intelligenza l'anima contempla l'Essere infinito di Dio; 6) la
sinderesi ( o intuizione dei primi principi della legge morale) è
l' « apice della mente» con cui l'anima trascende se stessa e
s'immerge nella contemplazione di Dio, pur conservando la
sua individualità.

Nella sua coscienza l'uomo scopre Dio


e la legge morale

La trattazione del problema morale in Bonaventura non è di­


versa da quella di Tommaso: in entrambi lo studio della co­
scienza confluisce nella illustrazione delle più ardue verità
della metafisica e della teologia. Nell'azione libera l'uomo ha
coscienza di un'obbligazione, sente cioè di essere subordinato

40
a una legge, che può ma non deve trasgredire. Questa legge
che è in noi (ma anche sopra di noi, perché ci costringe a lot­
tare contro di noi stessi) non si potrebbe spiegare se non si ri­
conoscesse un supremo Legislatore dal quale essa fu impressa
nell'anima nostra. La volontà che delibera, decide e ama ci
porta al sommo Bene:

Nessuno si deciderebbe con sicurezza ad agire secondo una


legge se non fosse sicuro che quella legge è giusta e che egli
non deve affatto decidere sulla legge stessa. Ma la coscienza
decide su se stessa e nello stesso tempo non elabora a proprio
arbitrio la legge secondo la quale decide: quindi la legge è su­
periore alla coscienza nostra . . . e il nostro potere deliberativo,
quando è pienamente conscio di sé, non fa che applicare le
leggi stesse di Dio.27

Nella costante aspirazione dell'uomo alla felicità Bonaven­


tura trova - sulla scia di Agostino - un'altra testimonianza in
favore dell'esistenza di Dio:

La felicità è l'oggetto che più intensamente si ama. E la felicità


non si possiede se non si raggiunge il massimo Bene che è il fi­
ne ultimo. Dunque, l'umano desiderio tende al sommo Bene,
oppure a ciò che è messo in relazione con questo o che è im­
magine di questo. Tanta è la forza d'attrazione del sommo Be­
ne, che nulla amerebbe la creatura se non fosse sospinta da
quel supremo desiderio. L'errore e l'inganno del desiderio poi
sta nel riporre ogni sua compiacenza nell'oggetto, che dovreb­
be essere soltanto immagine del Bene supremo.2B

Rifiuto della nozione aristotelica di Dio


e recupero delle idee platoniche

Secondo Bonaventura, il più grave errore di Aristotele e dei


suoi commentatori arabi (Avicenna e Averroè) è stato di aver
eliminato dalla nozione di Dio creatore la dottrina platonica
delle idee come archetipo della realtà creata, cosicché il Dio
aristotelico risulta inaccettabile per una mente cristiana: sa­
rebbe infatti un Dio che non conosce le cose del mondo e che
le muove solo come causa finale di esse. Ed effettivamente, il

41
primo motore immobile di Aristotele non è un vero creatore
né pensa al mondo, che pur tende a Lui; il Dio aristotelico è
incompatibile con la nozione di Provvidenza che già gli stoici
avevano elaborato e che poi la filosofia cristiana aveva fatto
sua in modo irreversibile. Se si segue Aristotele, osserva giu­
stamente Bonaventura, si è indotti a pensare erroneamente
che «tutto ciò che avviene è meramente casuale oppure del
tutto necessario; ora, siccome è impossibile che tutto sia ca­
suale, gli Arabi si sono visti obbligati a introdurre nel mondo
una necessità fatale, dicendo che tutti gli avvenimenti terreni
dipendono dall'influsso degli astri» ;29 ma - conclude logica­
mente Bonaventura - la filosofia cristiana deve mantenere il
principio della libertà che l'uomo ha per scegliere tra il bene e
il male, e pertanto quel determinismo del pensiero arabo-ari­
stotelico è del tutto inaccettabile, come è inaccettabile la teo­
ria averroista dell'intelletto po�sibile che sarebbe il medesimo
per tutti gli uomini. La dottrina bonaventuriana delle idee
esemplari è appunto un recupero di Platone, attraverso Ago­
stino, per giustificare filosoficamente la Provvidenza di Dio e
.
la libertà dell'uomo.

La visione francescana della scien za:


Ruggero Bacone

Roger Bacon, italianizzato come Ruggero Bacone ( 12 1 5-


1 293 ) , nacque a Ilchester (lnghilterra) e compì gli studi a Pari­
gi ove fu anche professore; tornato in Inghilterra, entrò nel­
l'ordine dei francescani e fu maestro nell'università di Oxford.
Scrisse molte opere intorno alle scienze naturali, matematiche,
astronomiche, filosofiche e teologiche, tra le quali ricordiamo:
l'Opus maius, vasto disegno enciclopedico del sapere; l'Opus
minus, che ne è una sintesi; l'Opus tertium, che è il rifacimento
dei primi due; il Compendium philosophiae, visione critica
della genesi e dello sviluppo del pensiero filosofico; il Com­
pendium theologiae, ove espone la necessità metodologica
della teologia come complemento e culmine della scienza e
della filosofia; infine, il trattato di fisica Communia naturalia.

42
Esaltazione del metodo sperimentale

Contrariamente al suo confratello Bonaventura, Bacone è


nettamente favorevole all'uso della logica, della filosofia na­
turale e della metafisica di Aristotele; oltre alle opere origina­
li che prima abbiamo elencato, egli ha infatti scritto numero­
si commenti ai libri "naturali" di Aristotele e alla Metafisica.
L'opera di Bacone è tutta volta a condannare i metodi dei
suoi contemporanei; egli respinge l'eccessiva importanza che
si attribuisce all'autorità; proclama la libertà incondizionata
degli studi; richiama gli studiosi all'osservanza della metodo­
logia scientifica, esalta la matematica e l'esperienza della na­
tura, che definisce <<porta e chiave del sapere)) . Queste sue ar­
dite innovazioni, specialmente l'esaltazione delle scienze
fisiche e astronomiche e le simpatie per l'astrologia (che già
preludono all'umanesimo rinascimentale italiano), gli procu­
rano sospetti, cui seguono purtroppo ripetute condanne, no­
nostante la protezione che godeva presso il pontefice Cle­
mente IV; morto questo papa, Bacone fu condannato al
carcere a vita.
Con Bacone la Scolastica dilata gli angusti confini nei qua­
li era fino ad allora limitata, e sente l'esigenza di approfondi­
re la conoscenza delle lingue: non solo la latina e la greca, ma
anche l'ebraico e l'arabo. Tale conoscenza è necessaria per
apprendere il pensiero dei grandi filosofi pagani, i quali, per
Bacone, sono simili ai grandi profeti, poiché Dio ha loro ispi­
rato la sua sapienza, il suo Verbo, che essi espressero nelle lo­
ro opere. Secondo Bacone, si avversava Aristotele proprio
perché non lo si conosceva esattamente.
L'ideale baconiano è l'elevazione universale dell'umanità
per mezzo del sapere; l'ignoranza infatti è causa di tutte le ca­
lamità sociali e di tutte le discordie tra gli studiosi. Da qui
Bacone delinea un piano unitario di tutto il sapere che deve
essere fondato, oltre che sulle lingue per raggiungere un lin­
guaggio unico e universale, sullo studio critico della natura
(scienze biologiche, fisiche, matematiche, chimiche e astrono­
miche), della realtà metafisica (scienze filosofiche come sinte­
si della natura ) , e delle Sacre Scritture (scienza teologica ) .
Natura, uomo e Dio costituiscono i l triplice oggetto dello sci­
bile umano, che deve diventare comune, privo di errori, per-

43
ché pronto a fuggire ogni forma di ignoranza; sapere che de­
ve servire di alimento all'umanità intera, perché l'universale
convivenza, fatta di sapienza, sostanziata e illuminata di divi­
nità, cresca «usque ad finem mundi>> .

La visione domenicana della scienza:


Alberto di Colonia

Alberto di Colonia, detto il Grande, o Magno (Albert der


Grosse) per distinguerlo da Alberto di Sassonia, è una mente
enciclopedica che per certi versi ricorda la personalità di Boe­
zio, di cui rinnova e sviluppa l'opera, dando al pensiero sco­
lastico un decisivo orientamento per il quale la filosofia ac­
quista maggiore a utonomia nell'ambito della ragione,
ispirandosi al pensiero aristotelico come al prodotto migliore
dell'umano intelletto. Sicché il genio di Stagira, a l ungo
osteggiato e proibito per le contaminazioni islamiche e giu­
daiche, con Albert von Koln penetra finalmente nella Scola­
stica per poi diventare lo strumento privilegiato del pensiero
filosofico di Tommaso.

Vita e opere

Alberto nacque a Laningen ( Svevia), dalla nobile famiglia dei


conti di Bollstadt, nel 1 1 93 o, secondo altri, n�l 1 20 7; giova­
nissimo studiò all'università di Padova e forse anche in quella
di Bologna. A Padova ebbe come maestro, tra gli altri, Gior­
dano di Sassonia, il quale, entrato nell'ordine dei domenica­
ni, ne era stato eletto superiore, diventando il primo succes­
sore di D omingo de Guzman. Alberto di Colonia seguì
l'esempio del maestro, entrò nell'ordine domenicano e si recò
in vari paesi della Germania, quindi fu nominato professore
all'università di Parigi. Successivamente, fu mandato a Colo­
nia per dirigervi lo studium generale del suo ordine; da Parigi
- come vedremo - portò con sé il suo .allievo prediletto, Tom­
maso d'Aquino. Oltre a insegnare nell'università di Colonia
si occupò del governo dell'ordine nella provincia germanica.
Chiamato a Roma come teologo della curia pontificia, nel

44
1 256 si trovò in Anagni e lì, davanti al tribunale pontificio,
difese il diritto e la li bertà d'insegnamento degli ordini men­
dicanti, osteggiati a Parigi (mentre vi si affermava Tommaso)
dai maestri secolari, come abbiamo già detto narrando la vita
di Bonaventura da Bagnoregio; in tale occasione la Chiesa si
pronunciò per la libertà degli ordini e per la condanna di
Guilla.ume de Saint-Amour, esponente principale della fazio­
ne contraria ai "mendicanti " . Sempre ad Anagni, davanti alla
corte papale, pronunciò una dissertazione filosofica contro
l'averroismo; nel 1 260 venne consacrato vescovo di Ratisbo­
na; fu predicatore delle province germaniche, arbitro nelle
controversie religiose e civili, teologo nel concilio di Lione
( 1 274) insieme a Bonaventura e infine strenuo difensore a
Parigi delle dottrine del suo discepolo Tommaso d'Aquino
( 1 277); morì a Colonia l'anno 1 2 8 0 . Alberto Magno lasciò
circa centoquaranta opere che trattano di tutto lo scibile, tra
le quali ricordiamo la Summa de creaturis, il De unitate intel­
lectus contra Averroen (opera simile, anche nel titolo, a quel­
la di Tommaso che poi analizzerò), la Summa theologiae, la
Philosophia rationalis, la Philosophia realis, la Philosophia
moralis, e i trattati scientifici De animalibus, De anima, De
vegetalibus, De mineralibus e De meteoris, per non citare che
i più noti.
..

Metafisica e teologia

Il pensiero metafisica di Alberto - a differenza di quello del


suo grande discepolo Tommaso d'Aquino - non ha carattere
unitario e sistematico; rispecchia il pensiero aristotelico, ma
non senza eterogenei influssi neoplatonici e islamici. Com­
batte la tesi tipicamente greca dell'eternità della materia con­
trapponendovi il creazionismo cristiano, e dichiara la crea­
zione del mondo razionalmente inspiegabile, così come ne
definisce assurda l'eternità, affermata da Platone e da Aristo­
tele. L'importanza di Alberto, peraltro, non consiste tanto
nella sua genialità creativa, quanto nella divulgazione del
pensierb aristotelico con la parafrasi, il commento e le fre­
quenti descrizioni di tutte le opere di Aristotele e dei prece­
denti commentatori. In tal modo egli rivendica al pensiero la-

45
tino il primato su quello islamico nell'interpretazione e nel­
l' utilizzo teologico della filosofia aristotelica, ampliando e
approfondendo l'opera che Boezio aveva lasciato in eredità
all'Occidente romano.
Circa la questione degli universali, Alberto - come poi farà
Tommaso - sostiene un realismo moderato, secondo cui l'u­
niversale esiste prima della cosa particolare (ante rem ); è nel­
la cosa (in re); è fuori e dopo la cosa (post rem): ossia, esiste
prima del la cosa perché è nella mente divina; è nella cosa co­
me potenza attuabile; esiste fuori e dopo l'individuo come
potenza attuata con l'astrazione dalla mente umana.
Contrariamente all'agostinismo mistico, Alberto rivendica
alla ragione la capacità di conoscere Dio, anche indipenden­
temente dalla Rivelazione; sicché la ragione gode di una sua
autonomia, con la quale può giustificare e difendere tutte le
verità accessibili alla sua natura. Tra queste verità primeggia
appunto quella dell'esistenza di Dio, essere sommo, infinito e
perfettissimo; l ' uomo, dunque, può acquistare la coscienza
dell'esistenza di Dio non tanto per illuminazione divina,
quanto con argomenti induttivi con i quali, dalla constatazio­
ne del molteplice e del particolare, raggiunge la comprensio­
ne logica della causa unica, universale ed eterna.
In campo antropologico Alberto dimostra un particolare
acume critico, con cui si eleva al di sopra di molti pensatori,
sia classici sia cristiani. L'anima è creata da Dio; è sostanza
spirituale, tratta dal nulla; è individuale, semplice, forma del
corpo, sorgente di vita, sia fisica sia spirituale, unica nella
pluralità delle sue facoltà, fonte del conoscere e dell'agire;
per sua natura è immortale e tale immortalità non è solo una
certezza di fede ma anche una certezza del senso comune, che
poi può avvalersi della elaborazione razionale, come è avve­
nuto attraverso il pensiero dei grandi filosofi: Platone, Ari­
stotele e Agostino.

Valore dell'esperienza scientifica


come premessa della conoscenza critica

Conoscere, per Alberto, significa cercare e possedere la verità


delle cose, considerate anzitutto nel loro divenire empirico;

46
nel sapere filosofico perciò è necessario, come base, il sapere
scientifico ottenuto mediante l'indagine sperimentale, con la
quale l'intelletto entra in possesso delle leggi che regolano la
natura cosmica. Così si spiega l'opera intensa, originale e
nuova che Alberto svolge in astronomia, matematica, fisica,
biologia. La scienza della natura, dunque, è premessa neces­
saria della conoscenza filosofica; questa infatti si attua attra­
verso un processo induttivo di tipo aristotelico, che parte dai
sensi e chiama in causa l'intelletto possibile, illuminato e at­
tuato da quello agente. Ne consegue la lotta che Alberto con­
duce contro l'unità dell'intelletto possibile di Averroè e del­
l 'averroismo latino (cfr. più indietro, pp. 3 1 -3 3 ) poiché
l'intelletto possibile è funzione distinta e autonoma di cia­
scun individuo razionale, capace di conoscenza nella misura
e nel grado con cui Dio lo ha creato.
Sulle orme di Aristotele, Alberto delinea una scienza mora­
le i cui principi sono la razionalità (le virtù dianoetiche di
Aristotele) e la prassi equilibrata che da essa deriva, ossia la
virtù dell'agire; questa però, è, prima di tutto, effetto della li­
bertà. Si tratta di una libertà intesa come principio e facoltà
dell'anima, consistente nell'atto della volontà per cui essa
può abbracciare o respingere indifferentemente il bene del­
l'oggetto che la ragione teoretica le offre.

La filosofia come scienza distinta dalla teologia

Per Alberto di Colonia la conoscenza filosofica di Dio si di­


stingue da quella teologica, e da questa distinzione (che ri­
guarda la nozione di Dio, cioè l'argomento più importante
per entrambe le discipline) si ricava una metodologia scienti­
fica diversa per ciascuna di esse. Anzitutto, la filosofia parte
da principi che sono << veritates per se notae» , cioè evidenze
naturali di cui tutti possono prendere coscienza, mentre la
teologia ha come principi i dogmi rivelati da Dio e proposti
dalla Chiesa, e pertanto è una scienza riservata a coloro che
hanno la fede. Inoltre, la filosofia si nutre di esperienza, men­
tre la teologia si nutre di contemplazione mistica. Infine, la fi­
losofia conferma la certezza spontanea circa l'esistenza di
Dio, senza però poter dire alcunché sulla sua essenza; mentre

47
la teologia può parlare di che cosa sia Dio in sé, proprio per­
ché Egli stesso ci si è rivelato. In definitiva, secondo il teologo
tedesco, il metodo teologico si distingue da quello filosofico
proprio per il punto di partenza e il criterio della ricerca. Ri­
chiamandosi ad Agostino, Alberto riconosce il grande valore
della razionalità filosofica (anche quella dei pagani come Ari­
stotele), ma precisando che in filosofia vige la ratio inferior,
mentre la teologia si avvale della ratio superior, quella parte
superiore dell'anima che è illuminata dalla Rivelazione e dà
luogo alla sapientia, superiore alla mera scientia; tale supe­
riorità, comunque, non è conflitto né esclusione, perché la ra­
tio inferior ha un suo insostituibile ruolo nelle conoscenze
umane: « In caso di discordanza di opinioni » dice Alberto
«c'è da preferire quella di Agostino se si tratta di teologia,
mentre sono più autorevoli Galeno e lppocrate in materia di
medicina, e Aristotele nella filosofia della natura » .Jo Tomma­
so, come dirò tra breve, fece un passo avanti, assumendo di
Aristotele il linguaggio e il metodo anche per la metafisica.
Come giustamente osservava Roberto Masi,

la correzione dei testi aristotelici, voluta da Gregorio IX, non


potendo essere fatta d'autorità per circostanze contingenti,
avvenne spontaneamente per opera di filosofi e teologi, sotto
la vigilanza prudente della Chiesa. In questo lavoro appunto
si inserisce l'opera di Alberto Magno e specialmente di Tom­
maso, che portò a compimento la geniale importantissima im­
presa. Alberto a Parigi aveva potuto conoscere lo svolgersi de­
gli avvenimenti. Il decreto del 1 25 5 a veva aperto le porte
all'aristotelismo, che era studiato con ardore nella Facoltà
delle Arti. D'altra parte Alberto vide anche i pericoli di questo
studio; nel 1256 soggiornò per qualche tempo alla corte di
Alessandro IV, ove per desiderio del Papa confutò la teoria
dell'intelletto unico per tutti gli uomini, recentemente scoper­
ta nelle opere di Averroè. In queste circostanze Alberto com­
prese che la corrente aristotelica, ormai fortemente radicata,
poteva orientarsi verso posizioni eterodosse, mentre sarebbe
stato possibile orientarla verso il cristianesimo. Era la prima
volta che nel medio evo un sistema compatto scientifico e filo­
sofico, elaborato indipendentemente dalla rivelazione, veniva
in contatto con la cultura cristiana e la teologia. E mentre altri
teologi reagivano a questa situazione riaffermando l'indirizzo

48
tradizionale platonico ed agostiniano, Alberto considerò l'ari­
stotelismo non come un sistema da conoscere per combattere,
ma come un sapere da correggere per assimilare. Per questa
ragione egli intraprese un grande commentario di Aristotele a
modo di parafrasi, ove ebbe modo di raccogliere tutte le cono­
scenze scientifiche di allora. Questa parafrasi fece una enorme
impressione sui contemporanei , che la lessero con avidità.
Però Alberto ha composto un'opera piuttosto di erudizione,
senza riuscire a costruire una sintesi filosofica completa; la
sintesi era riservata a Tommaso.3 1

E proprio per introdurre Tommaso - per far capire il suo


ruolo decisivo e innovatore - abbiamo fatto cenno dei suoi
contemporanei più importanti . Ora passiamo finalmente a
parlare di lui, della sua biografia e delle sue opere filosofiche.

49
2

Vita e opere di Tommaso d'Aquino

Frate mendicante e professore universitario

Tommaso era un italiano? un napoletano ? un siciliano ? Nes­


suno di questi termini anacronistici è pertinente. Era di fami­
glia germanica, residente però da due secoli nel regno di Sici­
lia, e precisamente nella parte più settentrionale del regno, la
Terra di lavoro, confinante con lo Stato della Chiesa. Regno
di Sicilia e regno di Aragona (o di Castiglia, o di Navarra, o
di Francia, o di Inghilterra) erano sotto l'egida comune del­
l'impero. Tommaso era dunque semplicemente un europeo,
un cittadino dell'Europa cristiana medioevale .
..

Da Roccasecca a Montecassino

Il padre di Tommaso, conte Landolfo, feudatario di Federico


II di Hohenstaufen (il principe svevo incoronato nel 1 220 im­
peratore del Sacro Romano Impero) , era di stirpe longobarda,
mentre la madre, Teodora di Napoli, era di discendenza nor­
manna; la famiglia era ricca e potente: aveva infatti possedi­
menti in diversi luoghi dell'Italia meridionale, di cui il più im­
portante era il contado di Aquino, luogo abituale della sua
residenza.
Federico II nel 1 220 aveva nominato il conte Landolfo "giu­
stiziere" (cioè governatore) della Terra di lavoro, corrispon­
dente all'attuale Campania tra Napoli e Terracina. A Rocca­
secca, nei pressi di Aquino, nacque Tommaso tra il 1 224 e il
1 225 (la data è incerta) . Conosciamo i nomi dei fratelli di

51
Tommaso: Aimone, Rainaldo, Marotta, Teodora (che poi fu
contessa della Marsica) , Maria e Adelasia.
Per la prima formazione intellettuale i genitori inviarono il
piccolo Tommaso alla vicina abbazia di Montecassino dove
era abate un suo zio; il desiderio espresso dalla famiglia era
quello di avviare il figlio cadetto alla vita monastica, ma in
realtà la famiglia nutriva la segreta speranza che Tommaso
potesse arrivare un giorno alla suprema carica di abate e ac­
crescere così la potenza della casata (il territorio dell'abbazia
confinava con la proprietà dei conti di Aquino). Tommaso,
invece, dopo qualche anno tornò in famiglia e proseguì gli
studi all'università di Napoli, fondata proprio da Federico II,
e a Napoli ebbe la prima diretta iniziazione alla filosofia ari­
stotelica sotto Martino di Dacia per la logica e Pietro d'Irlan­
da per la filosofia della natura . 1 All'università di Napoli nac­
que anche la sua vocazione domenicana per opera del
predicatore Giovanni di San Giuliano. Quando però Tomma­
so manifestò la sua decisione ai familiari, incontrò un'ostina­
ta resistenza soprattutto da parte del fratello Rainaldo, cele­
bre poeta di corte,2 il quale giunse a rinchiuderlo in casa.

Tommaso a Napoli

Nella biografia di Tommaso sono riunite quasi tutte le carat­


teristiche del secolo; già nella sua "fuga " da Montecassino a
Napoli se ne possono trovare molte: in primo luogo la lotta
fra l'imperatore e il papa, che avrebbe scosso tutta la cristia­
nità costringendola a darsi una nuova struttura; in secondo
luogo, la decadenza politica del monastero benedettino che,
concepito ancora feudalmente (con le caratteristiche dell'Alto
Medioevo), non conservava più, per i tempi nuovi, la tradi­
zionale potenzialità rappresentativa; in terzo luogo, la pre­
senza delle nuove forme di vita religiosa comunitaria non so­
lo nella città, ma anche nella prima università non pontificia
ma " imperiale " (considerando il significato che l'Occidente
dava a questo termine) , quella appunto di Napoli, appena
fondata da Federico II ( 1 224); in quarto luogo, l'incontro
con Aristotele, che in questa università, proprio perché non
ecclesiastica, non poteva essere assolutamente evitato e che in

52
nessun'altra università sarebbe stato possibile in un modo co­
sì profondo; in quinto luogo, il confronto con il dinamismo
del "movimento di povertà" , ossia con le prime generazioni
degli ordini mendicanti, incontro che poteva aver luogo sol­
tanto in una città. Dei punti citati, soprattutto degli ultimi tre
- le università, Aristotele, il movimento degli ordini mendi­
canti , è necessario tener conto per capire le posizioni d'a­
-

vanguardia assunte nel suo tempo da Tommaso.


All'incirca all'età di diciannove anni, Tommaso entra in
uno dei due nuovi ordini mendicanti, l'ordine dei predicatori,
fondato dallo spagnolo Domingo de Guzman; la sua fu una
decisione improvvisa - anche se poi mantenuta sempre molto
fermamente - della quale con tutta probabilità non aveva fat­
to parola nemmeno con la famiglia. Più tardi Tommaso, in
uno scritto polemico a difesa dello stato religioso, discute l'o­
biezione che la scelta della propria vocazione debba essere
pensata lungamente e debba essere presa dopo aver chiesto
consigli; e risponde con una frase severa: da tale deliberazio­
ne bisogna tenere lontani per primi i famigliari, che a questo
riguardo sono nemici e non amici.3 Proprio nel suo caso per­
sonale, come abbiamo già detto, scoppiano conflitti piuttosto
accesi, e i suoi confratelli di Napoli cercano di allontanare
quanto prima il novizio dalla sfera di influenza della sua fa­
miglia e dell'imperatore (poiché gli ordini mendicanti vengo­
no subito sospettati di appoggiare il papa contro l'imperato­
re) inviandolo a Parigi; a tale scopo Tommaso si mette subito
in viaggio, ma la madre Teodora lo segue fino a Roma, ten­
tando inutilmente di dissuaderlo; qualche giorno dopo; Tom­
maso viene catturato dai fratelli, probabilmente aiutati dal­
l'imperatore, e, come abbiamo già detto, rinchiuso per lungo
tempo, forse un anno, in un castello del padre.
Ecco come l'episodio viene narrato da Tolomeo da Lucca:

Siamo ai primi di maggio del 1244 . . Fra' Giovanni il teuto­


.

nico, superiore dei Predicatori [ossia i domenicani] e uomo al­


tamente stimato nel mondo di allora, accompagnava da Na­
poli, dov'era appena entrato nell'Ordine, fra ' Tommaso
d'Aquino in viaggio alla volta di Parigi. La comitiva giunse in
Toscana, nei pressi di Acquapendente, roccaforte imperiale
ove risiedeva allora l'imperatore Federico. Un fratello di Tom-

53
maso, il signor Rainaldo, uomo di non comune onestà, in
grande favore presso il sovrano (anche se un giorno sarebbe
stato da lui condannato a morte), si trovava precisamente alla
corte dell'Imperatore. Appena seppe del passaggio del suo
giovane fratello, il signor Rainaldo, all'insaputa di Federico
( almeno apparentemente) e con l'aiuto di Pier delle Vigne,
strappò suo fratello a fra' Giovanni; poi lo costrinse a monta­
re a cavallo e lo spedì sotto buona scorta in Campania, in uno
dei castelli della famiglia, chiamato San Giovanni.4

Il giovane filosofo però fu irremovibile, e respinse risoluta­


mente ogni tipo di lusinga materiale con cui si cercava di di­
stoglierlo dal suo proposito spirituale di rinuncia agli agi e al
potere della vita nobiliare per seguire un cammino di povertà
volontaria e di predicazione del Vangelo. Fina lmente, nel
1 245, ormai maggiorenne, fu rilasciato, libero di seguire la
sua vera vocazione. Allora, d'accordo con i superiori dell'or­
dine, si trasferì in Francia per entrare nel convento domeni­
cano di Parigi, dove studiò sotto la guida di Alberto di Colo­
nia. E fu proprio a Colonia che nel 1248 Tommaso seguì il
suo ma�stro, quando questi vi si recò per fondarvi uno studio
generale - cioè un'università - dei domenicani. Qui il nostro
frequentò i corsi di teologia per la preparazione immediata al
sacerdozio. Alla scuola del dottissimo Alberto egli prese con­
tatto non solo con tutto il corpus aristotelicum ma anche con
i commentari arabi e greci fino allora tradotti e specialmente
con il corpus dionysianum,s e poté così affrontare fin da gio­
vane il problema cruciale del suo tempo, ossia come concilia­
re la tradizione patristica (sostanzialmente neoplatonica, pro­
prio per il prestigio dello Pseudo-Dionigi) con l'utilizzo della
metafisica di Aristotele.
Per l'insistenza di Alberto, nel 1 252 Tommaso tornò all'u­
niversità di Parigi, dove poté completare gli studi superiori e
prendere il posto vacante di maestro di teologia nella scuola
domenicana di Saint-Jacques. A Parigi, come ben presto ve­
dremo, iniziò quasi subito la sua lunga e prolifica produzione
letteraria, con alcuni brevi saggi filosofici (De ente et essen­
tia, De principiis naturae) e con il commento alla monumen­
tale opera di Pier Lombardo, i Quattuor libri Sententiarum.
Nel 1 255 fu coinvolto nella lotta fra i docenti del clero dioce-

54
sano parigino e quelli appartenenti agli ordini religiosi per il
possesso delle cattedre di filosofia e di teologia.
All'età di ventisette anni, dunque, Tommaso si trova a esse­
re professore di teologia nell'università dove anni prima aveva
studiato, nonostante la vivace opposizione diretta non contro
la sua persona, ma contro l'influenza sempre crescente degli
ordini mendicanti nell'università. Tommaso è afflitto pesante­
mente da queste dispute. Si renderà necessario l'intervento del
papa stesso per obbligare l'università a sospendere il boicot­
taggio nei suoi confronti . Con quella pressione muta l'atteg­
giamento, oltre che verso di lui, anche verso Bonaventura: en­
trambi - Tommaso e Bonaventura - sono infatti nominati
nello scritto del papa. È notevole il fatto che Tommaso, negli
scritti di questo periodo, non tradisca nemmeno una volta il
suo turbamento. Chiunque legga quegli opuscoli, il De ente et
essentia per esempio, potrebbe benissimo pensare che li abbia
portati a termine nella tranquilla pace di una cella del conven­
to. Questo comportamento aggiunge nuove luci alle caratteri­
stiche umane di Tommaso, che riesce a trasformare la clausura
conventuale in clausura interiore. Edifica interiormente la cel­
la riservata alla contemplazione, difendendola dalla irrequie­
tezza della "vita activa" , ossia l'insegnamento e la discussione
dottrinale.
A difesa del diritto alla docenza universitaria l'Aquinate
scrisse l'opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religio­
nem. Dopo la vittoria degli ordini religiosi, Tommaso fu no­
minato magister regens dell'università parigina ( 1257).
Durante la sua permanenza a Parigi, Tommaso poté segui­
re da vicino gli avvenimenti della facoltà delle arti e meditare
sul significato del decreto del 1 255 riguardo ad Aristotele. Su
invito del maestro generale dei domenicani, Umberto de Ro­
manis, si recò a Valenza in Spagna per discutere insieme con
Alberto di Colonia, Pietro di Tarantasia (Pierre de Tarentai­
se) e altri celebri maestri domenicani un programma di studi
per i frati. La parte più importante di questo programma,
ispirata e propugnata con fermezza da Alberto, fu quella che
indicava la necessità della cultura filosofica. Certamente nel­
la discussione o magari privatamente Alberto e Tommaso
parlarono a lungo del problema della filosofia pagana; certa­
mente ricordarono il lavoro di Alberto per realizzare la sua

55
grande parafrasi di Aristotele. E Tommaso fu d'accordo con
Alberto sul valore del pensiero pagano, che andava corretto
ma non respinto; meglio di ogni altro, Tommaso capì l'im­
portanza che la filosofia ha in tutta la scienza umana, e nella
stessa teologia; così egli si decise a tentare l 'opera titanica di
costruire con il pensiero pagano, specialmente con Aristotele,
una filosofia cristiana completa, alla cui luce ripensare tutto
il sistema dogmatico e il metodo della scienza sacra.
La prima opera filosofica di Tommaso è con tutta probabi­
lità lo Scriptum super libros Sententiarum, opera assai im­
portante perché già in essa appare con forza e con chiarezza
il caposaldo della metafisica tomista, ossia la distinzione tra
essenza ed esse;6 tale dottrina è presente anche nell'opuscolo
De ente et essentia, scritto nel medesimo anno o l'anno suc­
cessivo. L'influsso della filosofia di Avicenna è evidente, a co­
minciare proprio dalle esplicite citazioni che Tommaso fa del
filosofo ara bo,? mentre non è così marcata la presenza dei
concetti aristotelici.

Tommaso, teologo del papa

Nel 1 25 9 Tommaso fu richiamato a Roma per assumere l'in­


carico di teologo della corte papale. Per dieci anni (dal 1259
al 1 269) seguì il papa Urbano IV da Roma a Orvieto e a Vi­
terbo. A questo periodo, il più tranquillo della sua vita, ap­
partengono le sue opere maggiori: la Summa contra genti/es,
alcune Quaestiones disputatae (sulla verità e sulla potenza di
Dio) e la prima parte della Summa theologiae ( iniziata nel
1 267).
Nel 1 259, in realtà, Tommaso lascia la cattedra universita­
ria di Parigi per vivere un'esistenza di continui spostamenti
che, fino alla morte, non gli permetterà di restare per più di
tre anni nello stesso luogo e con il medesimo incarico. Ma
porta sempre con sé la sua identità spirituale, ossia la missio­
ne di predicatore, attraverso l'insegnamento e gli scritti, la
concezione cristiana nella sua totalità. Appena lasciata la cat­
tedra parigina, l'ordine lo richiama in Italia per affidargli un
incarico interno, relativo soprattutto all'organizzazione degli
studi . In seguito, papa Urbano IV lo chiama per tre anni

56
presso la sua corte di Orvieto, dove - proprio quando le ope­
re di Aristotele erano ufficialmente vietate - un domenicano
fiammingo che ha appreso la lingua di Aristotele in Grecia si
dedica anima e corpo alla traduzione del filosofo proibito.
Lo stesso Tommaso incoraggia il suo confratello, che si chia­
ma Wilhelm van Moerbeke, in questo lavoro. Ma il papa ha
bisogno della collaborazione di Tommaso per un compito di
valore universale. Si sta delineando la possibilità che l'Orien­
te cristiano si possa riunire alla cristianità occidentale, ed è
proprio Tommaso l'intellettuale che viene incaricato di pre­
parare il cammino teologico. Tre anni dopo riceve un nuovo
incarico dai domenicani : la direzione della scuola dell'ordine
nel convento Santa Sabina sull'Aventino, a Roma, dove rima­
ne per due anni. Gli restano soltanto dieci anni di vita e non
ha scritto nemmeno uno dei dodici commentari agli scritti di
Aristotele che lo renderanno famoso, e nemmeno una riga
della Summa theologiae. In questi due anni romani darà però
inizio agli uni e all'altra. Inoltre è chiamato a corte dal nuovo
papa, Clemente IV, a Viterbo. Questo papa fu ritenuto re­
sponsa bile della morte dell'ultimo Hohenstaufen, il giovane
Corradino di Svevia, il cui destino si concluse sul patibolo in
quegli anni a Tagliacozzo. Proprio allora Tommaso scrive,
fra le altre cose, il libro sul potere politico, che comprende
quel formidabile capitolo sulla ricompensa spettante al re
..
giusto.s
A Orvieto, come abbiamo detto, Tommaso aveva avuto la
fortuna di incontrare il confratello Wilhelm van Moerbeke,
eccellente grecista, al quale chiese di apprestare una nuova
traduzione latina delle opere di Aristotele, sulla quale egli
avrebbe poi steso i suoi famosi commentari, come di fatto av­
venne per la Fisica, la Metafisica, il trattato Sull'anima, l' Eti­
ca nicomachea, la Politica e quasi tutti gli altri libri dello Sta­
girita. Allo stesso Moerbeke e ad altri confratelli Tommaso
chiese di realizzare la traduzione di alcune importanti opere
dei Padri greci che non erano ancora mai state tradotte in la­
tino, arricchendo così notevolmente le fonti patristiche acces­
sibili ai teologi latini, fonti di cui lo stesso Tommaso fece lar­
go uso nella stesura della sua Summa theologiae.

57
Il secondo periodo parigino

Nel 1 26 9 il grande maestro fu richiamato a Parigi per un se­


condo ciclo di insegnamento. Là ebbe a lottare su due fronti in
difesa di Aristotele (e di se stesso, essendo ormai di Aristotele il
più convinto e fermo sostenitore): da una parte, contro gli sco­
lastici agostiniani che lo accusavano di paganesimo, dall'altra,
contro gli averroisti che davano del suo pensiero una interpre­
tazione incompatibile con la fede cristiana (cfr. più sopra, pp.
3 1 -3 3 ) ; in contràsto con questi ultimi, Tommaso scrisse - come
già aveva fatto il suo maestro Alberto - un trattato di antropo­
logia fortemente polemico (si veda più avanti, pp. 68-72).
In questo momento della vita Tommaso si trova completa­
mente solo. Il fatto straordinario è che questo maestro così
dotato, sia per nascita sia per natura, non ha discepoli alla
sua altezza; e nemmeno dopo la sua morte è possibile trovare
qualcuno capace di custodire e difendere la sua eredità con
adeguato convincimento. Comunque, a Parigi Tommaso,
proprio perché si ritrova solo, si mette a lavorare con rinno­
vato slancio. È difficile convincersi che in questi ultimi anni
parigini - forse soltanto tre - egli sia riuscito a scrivere i suoi
dottissimi e puntigliosi commentari a quasi tutte le opere di
Aristotele e inoltre un commentario al libro di Giobbe, al
Vangelo di san Giovanni e alle lettere di san Paolo, le Quae­
stiones disputatae sul male e sulle virtù e la seconda parte
della Summa theologiae. Ma pur così occupato a scrivere,
Tommaso non si estrania dalla discussione, anzi le sue opere
ne costituiscono un valido apporto, anche se gli scritti del fi­
losofo non si possono considerare propriamente polemici.9
La discussione si fa talmente accesa che la curia generale del­
l'ordine, per smorzare il fuoco delle passioni, decide inopina­
tamente che Tommaso debba lasciare Parigi: siamo nel 1 2 72.
Difatti il domenicano suo successore sulla cattedra parigina
sceglie una linea tradizionale e conservatrice.

Il ritorno a Napoli

Tommaso si ritrovò dunque a Napoli, proprio là dove aveva


iniziato i suoi studi di filosofia ed era entrato nell'ordine di

58
San Domenico, e ricevette dai suoi superiori l' incarico di
riordinare l'insegnamento di teologia nell'università del re­
gno di Sicilia e di tenervi egli stesso alcuni corsi, cosa che fece
fino al gennaio del 1 274. In questo periodo, come quando si
trovava a Viterbo, oltre che allo studio e all'insegnamento si
dedicò con zelo anche alla predicazione al popolo, il quale
andava ad ascoltarlo con grande entusiasmo, apprezzando la
semplicità della sua parola congiunta alla chiarezza e profon­
dità del suo pensiero. Alcuni stenografi presero nota di questi
sermoni di Tommaso in napoletano ma, data l'importanza
dell'autore, essi furono subito tradotti in latino (costituisco­
no i cosiddetti opuscoli di catechesi ) e così purtroppo l'origi­
nale andò perduto. Un giorno del dicembre 1 273, dopo la ce­
lebrazione della messa, Tommaso chiamò il suo fedelissimo
segretario fra Reginaldo da Piperno e gli comunicò la decisio­
ne di non continuare a scrivere, perché quella mattina duran­
te la messa aveva capito che quanto aveva scritto nei suoi li­
bri era « tota palea » , un mucchio di paglia. Così rimasero
interrotte due delle sue opere più importanti: la Summa theo­
logiae, che restò ferma alla questione 90 della terza parte, e il
Compendium theologiae, sospeso al capitolo 10 del secondo
libro . I D La decisione di interrompere la produzione delle ope­
re filosofiche e teologiche mostra quanto fosse sincera la di­
sposizione di Tommaso a servire Dio con la sua intelligenza,
senza secondi fini di ambizione personale ò di vanità.

La morte misteriosa

Nel gennaio del 1 274, su invito del nuovo papa Gregorio X,


Tommaso, poco meno o poco più che cinquantenne, partì al­
la volta di Lione, dove il pontefice aveva convocato un conci­
lio ecumenico. Giunto nei pressi di Fossanova , fu colto da
grave malore e ricoverato sollecitamente nella celebre abba­
zia cistercense di quella città. Tutte le cure risultarono vane, e
dopo qualche settimana (il 7 marzo 1 274) morì, senza che si
fosse saputa comprendere la natura del male che l'aveva col­
pito. Si è parlato persino di una congiura contro di lui e di un
avvelenamento, e questa tesi è stata recentemente riproposta
in modo alquanto sensazionalistico. t t Fu sepolto proprio nel-

59
l'abbazia di Fossanova. Nel 1 325 le sue ossa furono traslate
a Tolosa per ordine del papa.
Nei suoi contemporanei Tommaso lasciò un ricordo inde­
lebile, per la finezza e acutezza della sua intelligenza, per la
grandezza e originalità del suo genio, per la santità della sua
vita. I domenicani presero fin dall'inizio le sue difese contro
le critiche, talora violente, provenienti soprattutto dai france­
scani (come il già citato . Guillaume de la Mare ) . Nel 1 279
l'ordine proibì a tutti i propri membri di criticarlo. Gugliel­
mo di Tocco, il suo primo biografo, sottolinea la straordina­
ria originalità di Tommaso in tutto ciò che faceva:

Fra' Tommaso proponeva nelle sue lezioni problemi nuovi,


scopriva nuovi metodi, impiegava nuove concatenazioni di
prove, e nell'udirlo spiegare, poiché proponeva una nuova:
dottrina con nuovi argomenti, non si poteva dubitare che Dio,
attraverso l'irradiarsi di questa nuova luce e la novità di que­
sta ispirazione, gli avesse fatto dono dell'insegnamento, in pa­
role e scritti, di una nuova dottrina.J 2

Tommaso d'Aquino fu dichiarato santo da Giovanni XXII


il 1 8 luglio 1 323 . Ben presto gli fu dato il titolo di dottore
angelico e recentemente anche quello di Doctor communis
(cioè di maestro di tutta la Chiesa, non solo di una scuola
particolare). Il concilio Vaticano II ( 1 965) Io ha espressamen­
te segnalato due volte come punto di riferimento per la dot­
trina cattolica;B e si noti che mai prima un concilio ecumeni­
co aveva nominato né tanto meno raccomandato un teologo.

Le grandi opere e gli opuscoli

Secondo una consuetudine molto diffusa nell'antichità e nel


Medioevo, per cui al fine di dar maggior credito a certi scritti
li si attribuiva ad autori famosi, anche a Tommaso sono state
ascritte opere che al vaglio della critica moderna sono poi ri­
sultate di dubbia autenticità o addirittura spurie. Ancor oggi
il problema del catalogo delle opere autentiche non è stato
completamente risolto. Mandonnetl4 ha creduto di trovare la
soluzione apodittica del problema nel catalogo di Bartolo-

60
meo da Capua, perché a suo giudizio esso sarebbe un catalo­
go ufficiale e pertanto le opere ivi contenute sarebbero auten­
tiche, mentre le opere che non vi sono comprese sarebbero
apocrife. Ma più tardi Pelster e Grabmann 15 hanno mostrato
l'infondatezza di questa tesi, evidenziando che non esiste nes­
sun catalogo ufficiale e dimostrando che alcune opere sicura­
mente autentiche non sono incluse nel catalogo di Bartolo­
meo da Capua. Si tratta comunque di una questione di
importanza tutto sommato relativa, in quanto tutte le opere
maggiori attribuite a Tommaso sono riconosciute come frut­
to del suo ingegno e pertanto sicuramente autentiche.

Classificazione delle opere

Gli scritti di Tommaso si sogliano dividere in cinque gruppi:


a) opere sistematiche; b) commenti alla Sacra Scrittura; c)
commenti ad Aristotele e ad altri autori antichi e medioevali.
A parte i commenti alla Sacra Scrittura, le opere che più in­
teressano la filosofia sono, per quanto riguarda il primo
gruppo, le Quaestiones disputatae (De veritate, De potentia,
De malo, De spiritualibus creaturis, De anima, De magistro,
De virtutibus) e le Quaestiones quodlibetales; sia le une sia le
altre sono redazioni sintetiche di argomenti svolti nell'inse­
gnamento e nelle dispute; secondo- l'autorevole parere di
Grabmann, le questioni disputate e le quodlibetales « sono,
dal punto di vista scientifico, l'opera più profonda e fonda­
mentale che san Tommaso abbia scritto)) ; I 6 a sua volta Che­
nu ha scritto: << Ci troviamo di fronte al frutto maturo del
pensiero filosofico e teologico della Scolastica, e insieme al­
l'opera più ricca del genio personale di Tommaso>> . l 7
Per quanto riguarda i l terzo gruppo, sono da segnalare il
commento ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo
e i commenti critici a tutte le opere di Aristotele, Boezio,
Pseudo-Dionigi e all'opera anonima chiamata Liber de causis
(che nel Medioevo era attribuita ad Aristotele, mentre si trat­
ta di uno scritto neoplatonico); infine, altre opere di grande
importanza , riguardanti di nuovo il primo gruppo, sono i
due opuscoli De principiis naturae e De ente et essentia, e
inoltre il Liber de veritate catholicae (idei (detto poi Summa

61
contra genti/es) il De aeternitatae mundi, il De unitate intel­
lectus, il De substantiis separatis, il De regimine principum e
il Compendium theologiae.

Il capolavoro: la "Summa theologiae "

Le opere di Tommaso sopra elencate non possono essere clas­


sificate distinguendo rigidamente tra opere filosofiche, teolo­
giche e didattiche, poiché in ognuna di esse si trova la tratta­
zione del sapere sia filosofico sia teologico. L'opera poi che
riassume e approfondisce genialmente tutta la sua produzio­
ne in una sintesi nuova e tuttora insuperata per la sua organi­
cità e completezza è la Summa theologiae, la cattedrale di cri­
stallo, come è stata definita. La " summa " è un genere
letterario assai diffuso ai tempi di Tommaso: si conoscono,
fra le altre, la Summa theologica di Alessandro di Hales, la
Summa aurea di Guillaume d'Auxerre, a parte la notissima
Summa Sententiarum di Pietro Lombardo. Tommaso d'Aqui­
no aggancia saldamente la filosofia alla teologia, in una vi­
sione unitaria che esprime. l'universalità e quindi l'attualità
perenne del pensiero cristiano. Fu scritta <<ad eruditionem in­
cipientium ,, , per l'insegnamento della teologia ai principian­
ti, cioè a scopo eminentemente didattico, come un manuale
scolastico: in realtà l'opera è da allora la fonte principale del­
la ricerca scientifica in campo teologico e anche per molti ar­
gomenti schiettamente filosofici; essa, come abbiamo detto,
fu iniziata in Italia verso il 1 266 e l'autore vi attese a interval­
li, fino alla morte; non poté essere portata a termine, poiché
negli ultimi anni, come vi poneva mano, veniva preso da mi­
stici rapimenti, nei quali soltanto esclamava << Non possum >> ;
finché, come già abbiamo raccontato, non decise di rinuncia­
re definitivamente all'impresa. L'opera consta di 3 8 trattati,
svolti in 63 1 questioni, 3 122 articoli, l 0.000 obiezioni; è di­
visa in tre parti; la prima parte espone la sintesi teoretica dei
tre massimi problemi della filosofia (Dio, mondo e uomo); la
seconda costituisce la sintesi pratica degli stessi problemi ed
è, quindi, sostanziata di filosofia morale; questa parte è sud­
divisa in altre due: <<prima secundae» (1-11) e <<secunda secun­
dae» ( 11-11); nella 1-11 Tommaso espone la scienza etica in ge-

62
nerale, nella 11-11 tratta il valore morale nella sua concretezza
sia umana sia cristiana; nella terza parte si apre la visione
teologica del Cristo, quale centro della società umana, anello
di congiunzione tra l'uomo e Dio.

Tre opuscoli importantissimi

Gli opuscoli dei grandi scrittori vengono di solito considerati


come una produzione minore rispetto alle opere che li hanno
resi celebri nella storia della civiltà: una tale qualifica riguar­
da più la mole che non la qualità degli scritti stessi. Non di
rado infatti gli scritti minori affiancano quelli maggiori, ne
colgono i momenti essenziali, approfondiscono quelli più
controversi e rivelano la medesima impronta del genio, alle
volte con chiarezza maggiore nella disposizione ed esposizio­
ne della materia. E mentre in Tommaso le grandi opere - co­
me il giovanile Commento alle Sentenze e la matura Summa
theologiae assieme alle Quaestiones disputatae e quodlibeta­
les sono destinate ai corsi ufficiali, gli opuscoli sono invece
-

provocati da cause occasionali e hanno i destinatari più di­


sparati, che possono essere nobili blasonati e altri dignitari -
lo stesso papa Urbano IV, l'arcivescovo di Palermo, il re di
Cipro, la duchessa di Brabante, il maestro generale dell'ordi­
ne - come anche umili ammiratori e perfino un soldato, ma
primo fra tutti Reginaldo da Piperno, il suo affezionato se­
gretario, titolare per ben tre volte di tre opuscoli della piena
maturità. Tommaso può essere riconosciuto il classico della
letteratura opuscolare, praticata già da Aristotele e da Boe­
zio, che l'Aquinate aveva ben presenti per averli commentati.
Ma la caratteristica degli opuscoli tomistici è quella che si
potrebbe chiamare la gentilezza del dono, quale si rivela per
esempio nelle dediche a fra Reginaldo (si badi: lo chiama
<< mio compagno carissimo» e non « segretario » ) associandolo
con fraterna generosità alla sua grandezza.
Tommaso, come frate predicatore, aveva scelto il servizio
della Parola di Dio, che anche come filosofo servì in modo
esemplare durante la sua vita. Trattò sempre e anzitutto il
problema e il mistero di Dio. Proprio per rispondere alle esi­
genze dell'ufficio di teologo egli praticò la filosofia. La consi-

63
derazione della realtà creata per via di ragione era per lui uno
dei modi di scoprire Dio, poiché il disprezzo delle creature
implica la svalutazione di Dio e l'errore sulle creature ridon­
da in ogni genere di errore su Dio. La ragione umana ha biso­
gno della verità, perché l'uomo è nato per la verità. Tommaso
ebbe amore sincero per la verità, e per questo nutrì sempre
una grande passione per la filosofia. Le considerazioni filoso­
fiche sono una costante del suo lavoro di teologo e di uomo
alla ricerca di Dio. Tre dei suoi opuscoli sono di argomento
filosofico e furono tutti e tre scritti con lo stesso proposito di
svolgere un servizio alla teologia. Il primo, De ente et essen­
tia, fu scritto per i confratelli e compagni di studio; il secon­
do, De unitate intellectus, per confutare con la ragione un
grave errore antropologico incompatibile con la fede cristia­
na; il terzo, De spiritualibus creaturis, per chiarire con le ri­
flessioni dell' umana ragione le verità che la fede cristiana
propone sugli angeli.
Tommaso ha fatto filosofia cristiana, ma per far ciò anzi­
tutto ha fatto vera filosofia. Non soltanto ha accolto la gran­
de tradizione filosofica pagana, soprattutto quella aristoteli­
ca, ma si è mostrato aperto a ogni verità scoperta dagli
uomini. Questa sua capacità di assimilazione è stata coronata
dal successo, tanto che ne è risultata una filosofia originale,
oltretutto l'unica filosofia organica e integrale sorta dal pen­
siero cristiano. In questi opuscoli, dunque, è contenuto il nu­
cleo filosofico del sistema tommasiano.

Il trattato giovanile sull'ente e l'essenza

Primo fra tutti (certamente per fama nella storia del tomi­
smo, e forse anche nella cronologia) è il De ente et essentia,
che continua a essere edito, tradotto e studiato anche ai no­
stri giorni; storicamente va ricordato, per l'influsso sullo svi­
luppo della metafisica nella scuola tomistica, il commento del
celebre cardinale Tommaso di Via (detto il Gaetano) che ha
contribuito in modo decisivo alla celebrità dell'opuscolo stes­
so fino ai nostri giorni. Comunque, per essere opera di un
giovane (i codici dicono che era << nondum magister» ) l'opu­
scolo rivela un dominio sorprendente dei problemi metafisici,

64
un'ampia conoscenza non solo del testo di Aristotele ma an­
che di Boezio, dei commentatori arabi (Avicenna, Averroè,
Avicebron), del misterioso Liber de causis per il quale Tom­
maso distingue il testo delle proposizioni dal successivo com­
mento. Sorprende invece l'assenza di Agostino e dello Pseu­
do-Dionigi, due specialisti nell'analisi dell'anima e delle sue
operazioni, che l'Aquinate collocava in primo piano fin dal
principio della sua attività.
L'opuscolo va considerato come una specie di compendio di
metafisica, destinato ai giovani confratelli come guida nelle
questioni fondamentali circa la struttura della realtà. Ciò che
subito colpisce, oltre alla chiarezza del testo e alla profondità
del dettato, è la padronanza dell'argomento, che fa di questo
breve testo un gioiello della letteratura filosofica . Il titolo De
ente et essentia non è presente in tutti i codici, ma sembra che
risalga allo stesso Tommaso. La trattazione poi non riguarda
tanto la problematica dell'ente, appena nominato nel capitolo
primo all'inizio, quanto quella dell'essenza, come l'autore stes­
so riconosce nella conclusione, in completa fedeltà alla linea
aristotelica. «<l De ente et essentia >> scrive Chenu,

è il più famoso degli opuscoli e senza dubbio l'unico effettiva­


mente studiato. In realtà, esso offre una specie di breviario
della metafisica dell'essere; e sia per la piena intelligenza del
pensiero di Tommaso, sia per la sua elaoorazione di problemi
continuamente ripresi nel corso della storia sopra il grande te­
ma dell'esistenza, quelle pagine sommarie e concise fornisco­
no aiuti preziosi.lS

L'opuscolo è diventato la porta d'ingresso al castello tomi­


sta. Ai nostri giorni, dopo sette secoli, conserva ancora la sua
freschezza giovanile. Certamente non sarebbe giusto prender­
lo come la più completa sintesi della filosofia tommasiana,
ma in ogni caso segna il primo passo, già sicuro, nel geniale
itinerario speculativo di Tommaso. Il trattato è accessibile al
lettore sinceramente interessato alla metafisica: Tommaso ha
la virtù di essere chiaro nelle idee e felice nelle espressioni. La
difficoltà che egli trova nel seguire il suo passo sta piuttosto
nella densità del discorso, giacché il tema dell'ente è «il più
antico, il più attuale, il più difficile e il più cercato da tutti>> ,

65
come diceva Aristotele. Sembra accertato che Tommaso ab­
bia scritto questo trattato di sintesi filosofica all'inizio del
suo insegnamento nell'università di Parigi. Tolomeo di Lucca
dice che Tommaso lo compose <<ad ratres et socios nondum
existens magister>> , per i confratelli e i compagni di scuola,
prima di essere maestro. Bernardo Guido colloca l'opuscolo
tra quelli che Tommaso scriveva «ad instantiam diversarum
personarum» , come risposta alle richieste che gli giungevano
da diverse persone. Tutto ciò sta a indicare che non fu scritto
come lavoro di scuola, come lezione universitaria, ma come
servizio agli universitari per lo studio personale.
Lo scopo più immediato di Tommaso è presentare una sin­
tesi della discussione sull'ente e l'essenza. Questi sono i primi
elementi del pensiero umano, quelli che sorreggono tutti gli
altri. L'opuscolo cerca una fondazione metafisica e una visio­
ne globale della realtà, visione che sembra necessaria a Tom­
maso come preparazione per una più profonda comprensio­
ne delle verità proposte dalla rivelazione cristiana. Il testo
riflette anche le scelte filosofiche che Tommaso ha operato al­
l'inizio del suo ufficio di teologo: chi deve parlare di Dio ha
bisogno di parlare anche dell'ente e dell'essenza.
Il trattato costituisce una novità non soltanto perché è una
delle prime opere di Tommaso, ma anche perché è una delle
prime sintesi di filosofia cristiana. Le circostanze storiche
hanno favorito la nascita del trattato. La data di composizio­
ne ci risulta ancora imprecisa. Avendo avviato l'insegnamen­
to di filosofia come maestro sentenziario nel 1 252 presso la
cattedra retta dal domenicano Elia Brunet de Bergerac, Tom­
maso tiene le sue lezioni sul testo di Pietro Lombardo e ne
scrive il commento: Scriptum super Sententiis. Dal 1 252 al
1 256 svolge questo ruolo di commentatore con totale dedi­
zione. Alla fine di questo periodo è nominato, dopo grandi
lotte di potere all'interno dell'università, reggente della catte­
dra di teologi a . Il trattato è scritto prima di questa data,
conformemente alla testimonianza esplicita di Tolomeo da
Lucca.
Tommaso fa un discorso filosofico sul fondamento del no­
stro sapere, ossia sui principi dai quali la ragione umana deve
procedere. I principi sono decisivi nel processo verso la verità
per la quale è data all'uomo l'intelligenza. La conoscenza del-

66
la verità sull 'ente è il necessario punto di partenza della filo­
sofia . Tutto il sapere umano dipende da ciò che si sa intorno
all'ente. Di ogni ente conosciuto la mente individua l'essenza,
significata nel linguaggio con i concetti. Nell'ente finito (cioè,
limitato) i modi di essere sono due, la sostanza e l'accidente.
La maggior parte del trattato studia l'essenza dell'ente visto
nella sua d imensione sostanziale. Pa rtendo dalle sostanze
composte di materia e forma, quelle a noi più note, Tommaso
giunge alle sostanze semplici, quali sono l'anima umana, gli
angeli o sostanze separate, e Dio. L'ascesa intellettuale verso
la realtà trascendente di Dio partendo dai dati dell'esperienza
costituisce il nucleo del trattato. Da questo vertice raggiunto
con la sola ragione Tommaso discende attraverso i vari gradi
dell'essere, fondando la molteplicità degli enti sostanziali. Il
concetto di ente si risolve nel concetto di atto. Soltanto l'esse­
re assoluto (Dio) è atto puro, mentre gli enti partecipano del­
l'atto e hanno una certa composizione con la potenza, e alcu­
ni anche con la m ateria, che è una specie determinata di
potenza . L' uomo viene visto da Tommaso come l'ente che sta
al centro di questo grande orizzonte dell'essere, tra il vertice
dell'essere puro che è Dio, e la base della materia prima, che
è pura potenza. L'uomo partecipa dello spirito per l 'anima, e
della materia per il corpo.
Tommaso cita i testi della tradizione filosofica, comincian­
do da Platone e da Aristotele, ma interviene anche con le sue
intuizioni metafisiche. Il pensiero di Aristotele è come la base
della tradizione, ma il discorso si snoda in un riferimento co­
stante ai filosofi arabi, tra i q uali soprattutto Avicenna e Aver­
roè. Le fonti neoplatoniche sono rappresentate dal Liber de
causis, come vedremo meglio più avanti (pp. 1 35-37).
L'opuscolo giovanile prende già posizione nelle questioni
radicali della filosofia. Nel corso della sua vita Tommaso svi­
lupperà in modo più preciso queste prime intuizioni, restan­
do però fedele ai punti di partenza: composizione di materia
e forma nell'ente cosmico e quindi nell'uomo, unicità della
forma sostanziale nel composto, composizione di atto e po­
tenza in tutte le creature, semplicità entitativa in Dio come
Essere assoluto e puro atto, partecipazione graduale di que­
sto principio nella scala ordinata degli enti, analogia dell'en­
te, linguaggio umano come segno dell'ente nella misura in cui

67
lo si conosce. E mentre presenta questo sviluppo della verità,
Tommaso si preoccupa di denunciare gli errori che la defor­
mano: la concezione averroista dell'intelletto separato e uni­
co e l'ilemorfismoi9 universale insegnato da Avicebron.

La polemica contro l'aristotelismo spurio

Oggi sembra accertato che Tommaso abbia scritto l'opuscolo


De unitate intellectus a Parigi nell'anno 1 270, prima del 1 0
dicembre, data della condanna di tredici proposizioni d a par­
te del vescovo Étienne Tempier, le cui prime due sono materia
di questo testo. Che Tommaso non faccia menzione di un ta­
le documento è prova della sua anteriorità. Egli si trovava
per la terza volta a Parigi dove aveva fatto ritorno nel 1 269.
In precedenza aveva insegnato nell'università di Parigi fino al
1 259. Aveva conosciuto le lotte universitarie contro i frati e
preso parte attiva nella difesa contro gli attacchi da parte dei
maestri secolari. La sua promozione alla cattedra era stata
lenta e difficile proprio per quella accanita opposizione. Dal
1 259 era stato di nuovo in Italia svolgendovi una costante at­
tività dottrinale al servizio dell'ordine e della Chiesa. L'obbe­
dienza lo portava di nuovo a Parigi per l'insegnamento della
teologia, appunto in quell'anno 1 269. Al suo arrivo, l'univer­
sità si trova in una crisi profonda. La crisi procede dalla fa­
coltà delle arti. Questa facoltà si è sviluppata in modo sor­
prendente a partire dal 1 250. La crescita è qualitativa. Il
fattore decisivo è stato l'introduzione dei testi di Aristotele
come base dell'insegnamento. La condanna che pesava su
questi libri dal lontano 1 2 1 5, anche se in parte rinnovata da
Urbano IV nel 1 263 con la proibizione di insegnare la dottri­
na dei libri natura/es, non aveva sortito alcun effetto pratico.
Sui libri di Aristotele si era formata una nuova generazione di
giovani maestri. Dal 1 265 comincia a spiccare tra questi Si­
gieri di Brabante, polemista instancabile. Ci sono attorno a
lui altri maestri, come Boezio di D'a cia e Berniero di Nevilles.
Mentre la facoltà di filosofia cresce, si sente diminuire il ruo­
lo della facoltà di teologia. Bonaventura da Bagnoregio ha la­
sciato l'insegnamento nel 1 257 (cfr. pp. 33-34). Restano sulla
cattedra Gerard de Abbeville, Robert de la Sorbonne, Pierre

68
de Tarentaise, successore di Tommaso fino al 1 264, ed Étien­
ne Tempier, vescovo di Parigi dal 1 26 8 , che diventerà celebre
per le condanne dottrinali del 1 270 e del 1 277. La prima è
pronunciata quando Tommaso si trova a Parigi. Al suo arri­
vo lo sviluppo della facoltà delle arti attira l'attenzione di tut­
ti. La crisi è arrivata alle soglie della facoltà di teologia, per­
ché si diffondono dottrine che a volte sono in contrasto con
la fede. Questo avviene in modo palese intorno ai temi di an­
tropologia. I giovani professori seguono i filosofi, anzitutto
Aristotele e il suo commentatore Averroè. La documentazio­
ne storica in proposito è ancora scarsa, e il documento di
maggior rilievo è proprio l 'opuscolo di Tommaso, che fra
l'altro è il primo a parlare degli aristotelici parigini designan­
doli come averroisti. Nel prologo egli accenna a questa situa­
zione critica degli studi a Parigi e afferma che da un certo
tempo si sono moltiplicati coloro che accettano l'interpreta­
zione di Averroè sulla dottrina di Aristotele riguardo all'intel­
letto umano. Fra i maestri della facoltà delle arti non c'era
ancora l'abitudine di pubblicare le lezioni, ma si usavano le
reportationes, ossia le note prese dagli studenti. Nelle mani
di Tommaso è capitato uno di questi scritti provenienti dai
professori. Forse non si tratta di lezioni, ma di incontri in cir­
coli più ristretti. Questo è deducibile da ciò che Tommaso di­
ce alla fine dell'opuscolo, quando fa l'analisi critica di alcuni
pensieri dello scritto e muove '"a ll'autore l 'accusa di parlare
« in angulis et coram pueris» , ossia quasi in segreto, negli an­
goli, davanti agli inesperti.
La questione presentava due versanti: quello della fede e
quello della ragione. Sostenere che esiste un solo intelletto
come unico soggetto spirituale di tutta l'umanità implicava
negare la spiritualità (e quindi la libertà e l'immortalità) del­
l'anima dei soggetti singoli, per i quali tutto finirebbe con la
morte del corpo, il che comporta l'abolizione dell'intero ordi­
ne morale, come osserva espressamente l'Aquinate nel proe­
mio richiamandosi ai suoi scritti precedenti sullo stesso argo­
mento. Si tratta di un errore << davvero indecente» contro il
quale intende riprendere in mano la penna per tacitarne una
buona volta i sostenitori, mostrando che essi oltretutto devia­
no apertamente dalla posizione di Aristotele che pur preten­
dono d'interpretare: si sbagliano perché leggono i testi del Fi-

69
losofo con gli occhiali di Averroè, e Averroè « non fu un vero
aristotelico ma piuttosto un corruttore della filosofia di Ari­
stotele» . 20
Una seconda tesi averroistica, connessa alla precedente
(anzi posta a suo fondamento per scansare le censure eccle­
siastiche), era la teoria della doppia verità, ossia che qualche
cosa può esser vero in filosofia e condannato invece dalla fe­
de e dalla teologia: una teoria che dilagò nella cristianità me­
dioevale (Marsilio da Padova), giunse fino al Rinascimento
(Pietro Pomponazzi) e fu espressamente condannata dal con­
cilio ecumenico Lateranense V sotto Leone X, nel 1 5 1 3 .
Tommaso nei primi tre capitoli contesta l'interpretazione
soprattutto dei libri secondo e terzo del trattato aristotelico
Sultanima. Il primo passo è l'integrazione della prima defini­
zione dell'anima ( << atto primo del corpo organico » ) con la se­
conda ( <<principio con il quale vegetiamo, sentiamo, intendia­
mo e ci muoviamo localmente » ) , per poi concludere che
anche l'intendere (e il volere, di conseguenza) è per Aristotele
operazione dell'unica identica anima dell'uomo. Ma, a diffe­
renza dei sensi, che operano mediante l'organo, l'intelletto ­
come si legge all'inizio del terzo libro - non ha organo: Ari­
stotele lo dice «separato >> (ossia indipendente) dalla materia e
non sostanza al di fuori del corpo, come pretendevano gli
averroisti. E questo vale tanto per l'intelletto agente quanto
per quello possibile; anzi per questo a maggior ragione per­
ché la sua operazione (l'intendere) appartiene propriamente
alla natura dell'uomo. Di conseguenza, pur essendo forma
sostanziale del corpo, l'anima intellettiva non proviene dal
corpo ma << dal di fuori >> , ossia è creata. Sul piano strettamen­
te filosofico dei testi e dei contesti si può certamente conveni­
re con questa esegesi di Aristotele da parte di Tommaso (sal­
vo la conclusione creazionistica, che non è di Aristotele ma
della filosofia cristiana).
Ma la dimostrazione sul piano metafisica ed esistenziale si
trova nel terzo capitolo, dedicato all'intelletto possibile, che
Averroè vede protagonista solitario dell'intendere e che fun­
zionerebbe mediante i dati sensibili propri di ciascuno. Ma a
questo modo il soggetto del pensare svanisce, ed evidente­
mente un soggetto impersonale è una contraddizione, è la ne­
gazione della stessa coscienza umana, e l'Aquinate ha buon

70
gioco ricordando ad Averroè e ai suoi seguaci che è il singolo
- per usare il termine kierkegaardiano - che pensa. L'istanza
è sviluppata sul principio che la forma sostanziale, essendo
principio dell'essere, lo è anche dell'agire, e così l'anima deve
essere principio anche dell'intendere, che è l'operazione pro­
pria dell'uomo. Avviandosi alla conclusione, l'Aquinate ag­
giunge che la posizione averroistica coinvolge l'intero ordine
morale poiché all'intelletto unico separato seguirebbe anche
una volontà unica separata sicché l'uomo singolo non sareb­
be più responsabile dei propri atti e svanirebbe ogni distin­
zione fra il bene e il male. Il q uarto capitolo ritorna, ap­
profondendole, sulle implicazioni personalistiche e morali
dell'esperienza indubitabile (il senso comune) per la quale
siamo certi che chi pensa è il singolo uomo, e conclude che la
posizione averroistica è in << in contrasto con i fatti osservabi­
li, distrugge tutta la coscienza morale e quanto appartiene al
consorzio civile, che per gli uomini è naturale, come dice Ari­
stotele» .21 È lo sfacelo più completo della vira umana, priva­
ta e pubblica.
Tommaso è chiaramente mosso dalla passione per la verità
che deve orientare l'agire. La questione tocca direttamente il
modo di intendere la personalità umana e la sua vita intelletti­
va. Il rapporto dell'individuo con l'intelletto è dunque il nu­
cleo di questa polemica. Aristotele aveva iniziato la ricerca di
questo rapporto, ma tra i suoi seg �aci erano sorte interpreta­
zioni contrastanti. La più radicale di tutte era appunto quella
proposta da Averroè, le cui dottrine circolavano a Parigi dal
1 220. Tommaso si è trovato fra le mani uno di questi scritti
degli averroisti, scritti forse anonimi, di scarso valore dottri­
nale ma di grande significato nel momento storico. Ha letto
questo scritto, segno di una confusa situazione dottrinale. La
dottrina ivi sostenuta lo ha turbato, poiché compromette la
causa per la quale, insieme al suo grande maestro Alberto, egli
lotta dall'inizio del suo insegnamento a Parigi: l'appropriazio­
ne cristiana dell'aristotelismo.22 L'interpretazione averroistica
dell'intelletto, chiaramente incompatibile con la fede cattoli­
ca, è una grave minaccia contro le posizioni di un teologo che
ha scelto anche la via aristotelica. La reazione di Tommaso è
adeguata alla profondità delle sue scelte dottrinali.
Tre caratteristiche distinguono q uesto trattato: l'esegesi

71
della dottrina aristotelica sull'intelletto, il ricorso all'argo­
mento d'autorità in filosofia, l'atteggiamento personale. L'e­
segesi che qui Tommaso fa di Aristotele, nella ricerca del rap­
p orto fra anima e intelletto, è così accurata, esauriente e
penetrante che non se ne trovano di uguali in tutti gli altri
suoi scritti. Non è meno singolare e significativo il ricorso al­
la tradizione filosofica, ossia all'argomento di autorità in fi­
losofia, soprattutto per conoscere lo sviluppo storico di un
punto dottrinale. Tommaso scopre nei filosofi greci e arabi il
peso della tradizione aristotelica e le diverse manifestazioni
di una verità sull'uomo. Fra l'altro, è di grande interesse sto­
rico trovare nell'opera di Tommaso, di solito .così parco nel
parlare di se stesso, le espressioni del suo carattere, il corag­
gio e persino qualche eccesso (la vis polemica di Tommaso at­
tinge in questo trattato la cima più alta) . Si tratta della con­
clusione finale, nella quale l'Aquinate, dopo aver insistito
sulle conseguenze eterodosse dell'averroismo, lancia all'av­
versario - episodio assai raro nei suoi scritti - la sfida diretta
di ribattere contro questo suo scritto se ne ha il coraggio (si
audet), smettendo di insegnare di nascosto (in angulis) o da­
vanti agli incompetenti (coram pueris). Questa uscita in pri­
ma persona rivela l'importanza eccezionale che il nostro at­
tribuiva alla questione, sapendo che non si trattava di una
esercitazione puramente accademica ma d'importanza vitale
sia per l'uomo comune sia per il credente.

Platone, Aristotele e Avicebron


nella critica di Tommaso

Il terzo opuscolo continua, in un certo senso, il discorso me­


tafisica svolto nell'opuscolo precedente con la riflessione sul­
la natura delle « sostanze separate>> , ossia degli angeli della
teologia cristiana, come afferma esplicitamente l'opuscolo fin
dal titolo: De substantiis separatis seu de Angelorum natura.
L'opuscolo, lasciato purtroppo incompleto, si interrompe al
capitolo 20 nell'edizione leonina; esso si divide in due parti.
La prima inizia passando in rassegna le opinioni degli «anti­
chi filosofi » , a cominciare da Talete, sulla natura degli spiriti
puri. Il posto d'onore appartiene a Platone e Aristotele, di cui

72
si espongono i punti in cui convengono (cap. 3 ) e quelli in cui
differiscono (cap. 4), ma il protagonista dell'opuscolo è il fi­
losofo arabo-ebreo Avicebron, caposcuola dei fautori dell'ile­
morfismo universale nell'opera Fons vitae, allora largamente
diffusa nell'ambiente dei teologi di Parigi (capp. 5-8), seguito
da Avicenna (cap. 1 0), dai platonici (cap. 1 1 ) e da Origene
(cap. 1 2 ) . La seconda parte tratta anzitutto della creazione
divina tanto nelle sostanze materiali quanto in quelle spiri­
tuali (cap. 1 8 ), della loro natura, cioè assoluta spiritualità
(cap. 1 9) ; segue la loro distinzione in << buoni e cattivi» secon­
do la Sacra Scrittura (cap. 20); qui Tommaso confuta l'opi­
nione di quei platonici come Apuleio (citata da Agostino), se­
guito anche da alcuni Padri (come lo stesso Agostino e lo
Pseudo-Dionigi), che inclinano ad attribuire loro un corpo e
di conseguenza anche passioni sensibili: ma tutti concordano
nell'attribuirne la caduta alla malizia. Purtroppo l'opuscolo
finisce qui e la questione rimane sospesa.
Il discorso s'interrompe proprio all'inizio della trattazione
teologica, che l'Aquinate del resto sviluppa altrove. La sua
importanza è invece eccezionale per la filosofia, specialmente
su due punti di originale profondità : la struttura dell'ente fi­
nito e la fondazione della spiritualità assoluta delle intelligen­
ze create. Nel primo egli mette a confronto i due massimi
rappresentanti del pensiero antico: Platone e Aristotele. Nelle
scuole medioevali la loro opposizione era una tesi pacifica da
cui partivano le rispettive differenze fra platonici e aristoteli­
ci. E così aveva fatto in precedenza lo stesso Tommaso, op­
tando per Aristotele contro Platone e riprendendo fedelmente
nelle prime opere l'aspra critica del Filosofo alla teoria plato­
nica delle idee. Ma un po' alla volta la critica si attenua : sot­
to l'influsso di Alessandro di Afrodisia (sec. I) e soprattutto
di Simplicio (sec. VI), che egli poté conoscere grazie alla tra­
duzione del confratello Wilhelm van Moerbeke, Tommaso
distingue nelle critiche aristoteliche la «forma letterale » e la
«sostanza » delle critiche stesse. Aristotele critica in Platone le
«formule>> poco felici, ma accetta la dialettica platonica della
partecipazione, pur integrandola con le nozioni aristoteliche
di atto e di potenza. Già i neoplatonici greci e arabi avevano
parlato di un accordo (symphonia) di Platone e Aristotele, ed
è ciò che espressamente fa anche l'Aquinate nella prima parte

73
del trattato, lì dove troviamo il sorprendente titolo: De con­
venientia positionum Aristotelis et Platonis, mai prima ap­
parso nelle sue opere. E si tratta di punti capitali. I due massi­
mi pensatori dell'antichità vanno anzitutto d'accordo là dove
si tratta « del modo di esistere » delle sostanze spirituali, in
quanto tutte, essendo enti per partecipazione, derivano dal
primo Ente per essenza, o «altissimo Iddio>> secondo Platone,
come anche afferma Aristotele nella Metafisica. Convengono
anche nella «condizione propria della loro natura >> , cioè di
spiriti puri i quali però sono composti come enti di atto e po­
tenza. Infine ambedue ammettono la Provvidenza divina uni­
versale, poiché non solo Platone ma anche Aristotele pone il
«Bene sommo come il solo Signore e sovrano>> . Si può osser­
·vare subito che in questa tesi è Platone a dominare, mentre
Aristotele viene citato dopo con un etiam. Nel capitolo 4 in­
vece sono elencati i punti di divergenza, ma si tratta di aspet­
ti secondari dei due sistemi: una conclusione questa che Tom­
maso giustifica come il risultato di varie letture; per Fabro si
tratta di « un'evoluzione che è forse un evento unico nella sto­
riografia medioevale, al quale finora poco si è badato » .23
Nei capitoli seguenti l'Aquinate rivendica il secondo capo­
saldo della sua metafisica, ossia la « spiritualità assoluta >> de­
gli enti spirituali, con una polemica serrata agli argomenti del
Fons vitae di Avicebron, già indicato come il vero responsabi­
le dell'ilemorfismo universale, teoria che i suoi fautori vole­
vano attribuire ad Agostino, cosa che l'Aquinate nega risolu­
tamente.
In tempi recenti gli studiosi di Tommaso rivolgono la loro
attenzione con preferenza a questo trattato che non è più ope­
ra di un principiante in filosofia che ha bisogno di citare altri,
o si limita a una sola questione, benché fondamentale, ma ap­
partiene al pensatore maturo, in pieno possesso del metodo e
del proprio pensiero. Oggi il trattato suscita interesse come
uno dei documenti di maggior valore, non soltanto per la solu­
zione del problema che propone, ma anche per la visione d'in­
sieme del pensiero filosofico e per l'ermeneutica storica fatta
da Tommaso. In realtà, come sostiene Abelardo Lobato, «è
uno dei capolavori del pensiero dell'Aquinate » .24
A giudicare dal titolo potrebbe sembrare che si affrontino
soltanto questioni teologiche di scarso interesse filosofico. In

74
realtà, le sostanze separate sono di grande importanza per la
conoscenza del nostro universo. A coloro che dicevano che
l'uomo, essendo mortale, non deve avere cura se non delle
cose dei mortali, Aristotele rispondeva che dobbiamo trovare
il tempo di occuparci di ciò che di divino e immortale, per
quanto piccolo e nascosto, è presente in noi per il fatto di es­
sere uomini e di avere intelletto, poiché sapere un poco delle
cose profonde e superiori vale più che sapere molto delle cose
banali. Per Tommaso è valido questo stesso criterio di verità.
La verità si identifica con l'essere. Perciò la conoscenza delle
sostanze separate, per quanto limitata, può risultare vera­
mente utile per l'uomo. Sostanza separata è anche Dio e la
conoscenza di Dio è decisiva per l'umana esistenza .
In questo terzo opuscol o filosofico, dunque, Tommaso
parla anche di Dio, ma il suo oggetto non è espressamente
Dio. La ricerca è incentrata sugli enti spirituali che sono tra
l'uomo e Dio. In nessun'altra opera come in questo trattato
della maturità Tommaso ha fatto un discorso filosofico di ca­
rattere storico, con l'analisi delle fonti.
Il giudizio degli studiosi sul testo è altamente positivo. Pos­
siamo raccoglierne alcune testimonianze. Étienne Gilson - il
più grande storico della filosofia medioevale - lo ritiene
•• un'opera di ricchezza storica incomparabile » , 2s sia per l'ar­
gomento sia per l'uso delle fonti della tradizione. Per Esch­
mann •• è uno dei più importanti �critti di metafisica dell'A­
quinate » . 26 Henle, lo studioso del pensiero neoplatonico
nell'opera di Tommaso, pensa che il trattato è •< la più bella
sintesi della dottrina platonica che si trovi in tutto il corpus
tomistico >> Y Cornelio Fabro mette in risalto l'importanza
della partecipazione e della causalità nelle formulazioni pre­
cise e dense del testo. Per Dondaine, Tommaso va molto al di
là delle circostanze che hanno dato origine storica al volume.
Infine Lescoe, che ne ha fatto un'edizione critica, una versio­
ne in inglese e alcuni studi di rilievo, afferma che tra le opere
minori di Tommaso << questo trattato è una delle più impor­
tanti » .
Il trattato, come dicevo prima, corrisponde dal punto d i vi­
sta storico agli ultimi anni vissuti da Tommaso nell'ambiente
universitario di Parigi. Tuttavia egli non lo ha scritto per la
scuola, né come lezione del suo corso né come disputa scola-

75
stica . Le parole confidenziali del proemio e la dedica a fra
Reginaldo sono indizi sufficienti per poter affermare che il
trattato risponde anzitutto a motivazioni interne del pensiero
di Tommaso. È un frutto maturo della riflessione personale
dell'Aquinate intorno a un problema che ha richiamato forte­
mente la sua attenzione e sul quale egli in precedenza aveva
già scritto molto. Col trattato, Tommaso porta a termine lo
sviluppo del suo pensiero sull'argomento, stimolato dagli ul­
timi libri di filosofia tradotti in latino, e risponde alle que­
stioni della vita universitaria, scossa dalla condanna dottri­
nale del 1 0 dicem bre 1 270. Motivi personali e circostanze
dottrinali gli offrono dunque un'occasione propizia per un
approfondimento storico-critico.

76
3

La rivoluzione culturale di T ommaso

I rapporti tra ragione e fede

La filosofia di Tommaso d'Aquino è oggi più che mai da va­


lorizzare come esempio di un pensiero straordinariamente
critico e al tempo stesso sistematico, che riesce ad armonizza­
re lo spirito problematico con il sistema aperto, creando così
l'edificio più armonico e completo della storia del pensiero
umano. Nell'opera di Tommaso d'Aquino, infatti, conflui­
scono i sistemi metafisici sia classici sia cristiani, le conquiste
realizzate attraverso le civiltà anteriori: greca, romana, ales­
sandrina, patristica, ebraica, musulmana e scolastica. Ta le
confluenza non costituisce urp sorta di eclettismo e meno an­
cora di sincretismo, ma un nuovo sistema dotato della più ri­
gorosa coerenza speculativa, coerenza che Tommaso esprime
con l'equilibrio del suo genio, sistematizzatore e nello stesso
tempo decisamente innovatore.
Pertanto, l'opera dell'Aquinate non è solo una sintesi ge­
niale della tradizione filosofica: a chi esamina con obiettività
la sua dottrina non è difficile riconoscere in essa molte im­
portanti premesse del progresso che in campo metafisica, lo­
gico, antropologico, etico, politico, pedagogico ed estetico è
stato realizzato nelle epoche successive. La rivendicazione di
v alori umani che emerge dal travaglio umanistico-rinasci­
mentale italiano, l'esaltazione della ragione con il rigore del
metodo cartesiano, lo stesso criticismo kantiano, il sistema
dell'idealismo tedesco, lo spiritualismo italiano di derivazio­
ne neoidea listica, la concretezza vitale dell'esistenzialismo
contemporaneo sono tutti motivi derivanti, talvolta inconsa-

77
pevolmente, dall'opera di Tommaso, e sviluppati soggettiva­
mente secondo le esigenze storiche e psicologiche dei pensa­
tori che le espressero. Ciò fu possibile perché Tommaso non
intese costruire un sistema chiuso, un complesso di dottrine e
di principi condizionati a determinati schemi o legati a parti­
colari esigenze storiche. È per questo che la sua opera non
può essere considerata l'ingenua e forzata «cristianizzazione»
di Aristotele, sulla scia del suo maestro Alberto di Colonia,
come spesso si afferma. Tommaso non intende affatto cristia­
nizzare Aristotele, né tanto meno provare le verità della Rive­
lazione con l'autorità delle dottrine aristoteliche; un genio
delle distinzioni come lui non poteva non rilevare che in tal
caso l'effetto sarebbe sproporzionato alla causa, o meglio che
il mezzo non sarebbe atto al fine, in quanto il soprannaturale
non può essere ricavato dalla natura. Ma allora perché Tom­
maso tributa il culto massimo allo Stagirita, esaltandolo co­
me l'autorità più grande nel campo del pensiero ? Inoltre, per­
ché si serve tanto spesso degli argomenti aristotelici per
difendere le verità della dottrina cattolica ? Rispondere con la
maggior esattezza possibile a questi interrogativi significa av­
vicinarsi allo spirito del grande pensatore, nella sua chiarezza
e semplicità. Tommaso infatti è nemico di ogni confusione,
superficialità, unilateralismo, soggettivismo e sentimentali­
smo: le sue caratteristiche sono il rigore logico, l'obiettività
critico-costruttiva, la chiarezza argomentativa e l'evidenza
delle conclusioni in cui la mente riposa, per ricondurre tutto
alla verità suprema di Dio.
Per l'Aquinate, infatti, «il fine ultimo di tutta la ricerca fi­
losofica rientra nel fine della scienza teologica e ad esso è or­
dinato >> ; ! il che si comprende pienamente se si considera, con
lo stesso Tommaso (ma è ciò che pensavano anche Platone,
Aristotele e Platino), che « quasi tutta la ricerca filosofica si
orienta alla conoscenza di Dio » . 2 Su questa base teocentrica
della filosofia nella sua dinamica sapienziale si spiega la
grande apertura mentale di Tommaso nei confronti della filo­
sofia di tutti i tempi: da quella dei pagani a quella degli ebrei,
dei musulmani e degli stessi cristiani di altre scuole. Come
scriveva Toccafondi, Tommaso ha sempre presente che, es­
sendo la conoscenza intellettiva umana essenzialmente di­
scorsiva,

78
sarebbe ingenuo pretendere l'uniformità di pensare filosofica­
mente con un unico sistema e seguendo un'unica via. Ma sem­
pre respinge l'eclettismo, mira decisamente alla sintesi del sa­
pere, sempre raggiungibile tesoreggiando la verità, che nei
suoi molteplici aspetti non manca di rilucere negli innumere­
voli e a volte anche più disparati modi umani di concepire. Il
che richiede appunto la necessità di passare al vaglio con criti­
ca costruttiva le varie asserzioni. E questo vaglio è dato dai
primi principi della ragione, ai quali l'uomo tanto istinriva­
mente (spinto dalla natura), quanto filosoficamenre (convinto
dalla loro perspicua ed irresisti bile evidenza ) , immobiliter
adhaeret. E in tal modo l'Aquinate invariabilmenre si compor­
ta in tutte le questioni che tratta, dove non si contenra di ne­
gare semplicemente ciò che altri affermano o viceversa, ma dà
sempre le ragioni più profonde così delle proprie come delle
altrui affermazioni o negazioni, e quando è in tema di vere
opinioni, discutendole e rilevandone il pro e il contro con in­
vidiabile liberalità e rara equanimità .3

All'analisi che l'Aquinate conduce intorno alla logica e alla


storia del pensiero appare fondamentale una distinzione di
carattere sia teoretico sia pratico: la distinzione fra recta ra­
tio e fides. E perché tale distinzione sia storicamente inequi­
vocabile, Tommaso distingue la produzione filosofica precri­
stiana da quella che segue l'avvento del cristianesimo, in
quanto la prima è frutto della sol à. ragione, mentre la secon­
da è opera della ragione illuminata dalla Rivelazione e so­
praelevata dalla grazia. Con questa distinzione Tommaso si
inoltra nell'esplorazione del pensiero precristiano sintetizzan­
do le tappe più importanti che la ragione ha raggiunto con i
pensatori classici. Attraverso l'esame dei luminari del pensie­
ro antico, vede nell'opera di Aristotele lo sforzo massimo e il
risultato più alto che la ragione abbia mai raggiunto; il siste­
ma aristotelico gli si presenta come il più omogeneo e il più
perfetto, in quanto la filosofia successiva (ellenismo, neopla­
tonismo, pensiero romano e pensiero islamico), pur avendo
avuto grandi pensatori, non ha espresso verità tali da supe­
rarlo. È comprensibile dunque che Tommaso, impegnato a
individuare criticamente la natura, il valore e la funzione del­
la ragione, consideri Aristotele la fonte più autorevole, l'ar­
gomento più probante del valore della ragione umana.

79
La creatività di Tommaso

Dal primo momento del suo arrivo alla cattedra, Tommaso


ha lasciato trasparire le doti del suo genio. Il suo insegna­
mento era originale, creativo, da maestro. La creatività di
Tommaso era palese. Parlando di lui, Guglielmo di Tocco in
un solo paragrafo (come a bbiamo visto a p. 6 0 ) ha messo
ben otto volte l'aggettivo "nuovo" . La novità era caratteristi­
ca del professore Tommaso. Il suo successo scolastico suscita­
va non solo l'ammirazione dei discepoli, ma anche la curio­
sità e una certa emulazione dei colleghi fin da quando si
trovava nella comunità di San Giacomo di Parigi.
In questa metà del Duecento, quando Tommaso sale alla
cattedra parigina, si possono cogliere i frutti di un lento lavo­
ro di penetrazione della filosofia pagana nelle scuole. Aristo­
tele è entrato dappertutto, nonostante alcuni divieti ecclesia­
stici, mitigati al tempo da Gregorio IX. Il pensiero filosofico
come tale (anche non direttamente funzionale alla teologia)
ha suscitato interesse. Sono proprio i teologi i primi a occu­
parsi delle opinioni filosofiche, a studiare i nuovi libri che
vengono tradotti dall'arabo in latino nei grandi centri di To­
Iedo e Palermo. Aristotele acquista la più grande autorità in
filosofia, è il Filosofo. Accanto a lui suscita interesse il pen­
siero dei commentatori arabi, Avicenna e Averroè, e di alcuni
ebrei come Avicebron. La facoltà delle arti di Parigi riceve un
grande incremento dalle opere dei filosofi, che diventano te­
sto per la scuola. L'insegnamento sui libri di Aristotele ha rin­
novato la filosofia a Parigi. Nelle lezioni di teologia, quando
Tommaso commenta le Sentenze, non può non chiamare in
causa, ogni volta che Io richieda la questione, il pensiero dei
filosofi. E Io stesso fanno altri maestri, come Bonaventura, in
quanto eredi di una tradizione che si è incrementata con il
tempo.
Peraltro, nello stesso ordine dei frati predicatori la filosofia,
quando Tommaso inizia il suo insegnamento, aveva già acqui­
stato il suo diritto di cittadinanza. Nelle costituzioni del 1 22 8
era ancora vietato ai frati l'uso dei libri dei filosofi; poi però
l 'influsso di Alberto di Colonia, forse il primo che comprese a
fondo la situazione culturale dell'Occidente, fu decisivo. Al­
berto concepì un piano di riforma degli studi, perché anche i

80
cristiani di Occidente dovevano conoscere il Filosofo. Il suo
programma mirò a introdurre Aristotele nelle scuole: << Facere
Aristotelem intelligibilem latinis» . La scuola di Alberto svi­
luppò quanto Tommaso aveva appreso da Martino e Pietro
d'Irlanda a Napoli. Abbiamo già detto, infatti, che era stato
avviato allo studio di Aristotele mentre era giovane universita­
rio a Napoli, dove seguiva i corsi di logica, filosofia ed etica.
Lo studio della filosofia non cristiana era dunque abituale
per Tommaso, che oltre a l le opere di Aristotel e leggeva i
commenti dei filosofi arabi Avicenna e Algazel. L'esempio di
Alberto influì in lui nel portare avanti il grande piano cultu­
rale di assimilazione cristiana del pensiero greco. Il maestro
dell'ordine domenicano, Umberto de Romans, verso la metà
degli anni quaranta del Duecento, si domanda in modo espli­
cito se il domenicano possa studiare filosofia ( << Utrum possi­
mus studere in philosophicis>> ) ; la risposta è affermativa: non
solo può, ma deve studiare la filosofia, poiché con l'ausilio
della filosofia combatte gli errori, difende la fede, comunica
la verità . Il maestro aggiunge che questo studio ridonda in
onore dell'ordine. Al posto dei divieti degli anni precedenti,
vengono i consigli che indirizzano i domenicani a non igno­
rare la filosofia e i suoi problemi. L'ordine, infatti, era stato
costituito fin dall'inizio per la predicazione e lo studio. Nel­
l'anno 1 259, nel capitolo generale celebrato a Valenciennes
in Francia, si prescrisse che ogni studio provinciale doveva
provvedere all'insegnamento della filosofia ai frati. A questo
capitolo parteciparono, insieme ad Alberto di Colonia, anche
Tommaso d'Aquino e Pietro da Tarantasia. L'opuscolo De
ente et essentia, come abbiamo visto, fu scritto proprio allo
scopo di aiutare i frati nello studio della filosofia.
Occorre anche tener conto dell 'urgente necessità, profon­
damente sentita da Tommaso e dai suoi confratelli e colleghi,
di rinnovare la teologia con l'assimilazione del sapere umano
del loro tempo per metterlo a servizio della fede, cercando
una più adeguata soluzione al problema del rapporto tra ra­
gione e fede, tra sapere rivelato e verità di ragione, tra teolo­
gia e scienze umane. I divieti degli anni precedenti lasciano il
posto al programma di assimilazione delle dottrine che non
sono di per sé in opposizione con la dottrina cristiana . Ago­
stino aveva espresso tale naturale desiderio dell'anima cri-

81
stiana in formule precise. Per Tommaso, questo assimilare
ogni verità per poi conciliarla con la fede è uno dei grandi
scopi della sua vita, e infatti lo dice espressamente all'inizio
del Liber de veritate catholicae (idei, denominato poi Summa
contra genti/es.
Mentre si interessa della tradizione filosofica di origine sia
aristotelica sia neoplatonica, Tommaso mira al suo supera­
mento, sapendo che solo così si apre al pensiero cristiano una
possibilità di arricchimento e di risposta attuale ai problemi.
La filosofia si pone al servizio della teologia e della fede, co­
me sapere inferiore, ma allo stesso tempo come autentico sa­
pere metafisica.

(ome Tommaso concepj�ce la teologia

All'eQgca dL Tgmmaso continuava a imperare la visione ago­


stiniana della teologia, cheiiOrlsofameni:e ne sottolineava la
differenza rispetto a qualsiasi altra scienza, .�ceva la
r<!gione a una funziQQ�r.amente passiva. L'unico lumen
che doveva alimentare il lavoro del teologo doveva-essere il
lumen (idei, e l'attività del teologo doveva essere essenzial­
mente un'attività contemplativa. Tale epistemologia teologi­
ca era perfettamente conforme a quella cultura platonizzante
che vigeva nel mondo latino dei secoli XI e XII, la quale la­
sciava ben poco spazio alla natura umana, alla ragione: cau­
sa di tutto, anche nell'ambito della conoscenza, è direttamen­
te Dio; la verità, ogni verità, giunge all'intelligenza umana
attraverso la divina illuminazione. Bernardo di Chiaravalle
era stato l'esponente più autorevole di questo misticismo, e
Bonaventura, ai tempi di Tommaso, ne riprendeva l'orienta­
mento (cfr. pp. 33-42).
Tommaso ha però una visione antropologica profonda­
mente diversa da quelle degli altri magistri del Duecento. Egli
considera l'uomo nella ricchezza della sua struttura metafisi­
ca, nella nobiltà della sua vocazione trascendente, nell'auto­
nomia della sua attività (libertà) , e interpreta i suoi rapporti
con Dio alla luce di quel principio che egli non si stanca mai
di ripetere: « Gratia non destruit sed perficit naturam » . In
questa prospettivà sdiìettamente umamsttcà Tommaso defi-

82
nisce lo statuto epistemologico della teologia, che diventa ne­
cessariamente un habitus acquisitus, poiché si tratta di sa ­
pientia umana, sia pure massima tra le sapienze umane. Però
si tratta di un habitus nuovo, non previsto dalla classificazio­
ne aristotelica delle «virtù dianoetiche » , che includeva solo la
fisica, la matematica e la metafisica . Tommaso mostra che la
teologia ha elementi in comune sia con la scienza sia con la
sapienza: con la scienza in quanto è discorsiva (argumentati­
va) , e con la sapienza perché ha come oggetto la causa ulti­
ma, Dio: in quanto scienza discorsiva essa ha il carattere di
scientia subalterna perché è da Dio, mediante la fede, che es­
sa riceva i suoi principi primi, ossia le verità rivelate.
L'idea di scienze "subalternanti " e "subalterne " risale ad
Aristotele,4 ma Tommaso è il primo ad applicarla alla teolo­
gia. Insegnando che la teologia è scienza subalterna alla « co­
noscenza che ha Dio stesso, e che i beati hanno con lui » ,
Tommaso riesce a salvaguardare allo stesso tempo i l primato
assoluto della fede e l'appartenenza effettiva, intrinseca, non
accidentale di tale scienza alla ragione. La dottrina della su­
balternazione comporta due cose: anzitutto, la dipendenza
essenziale della scienza inferiore (in questo caso della teolo­
gia ) rispetto alla scienza superiore; in secondo luogo, la par­
tecipazione alla scienza superiore da parte della scienza infe­
riore (la teologia) . Questa teoria non rappresenta quindi una
svalutazione della ragione, ma l'innal � amento della ragione
mediante la fede, la quale fa sì che l'uomo possa condividere
la conoscenza che Dio ha di se stesso e di ogni altra cosa . Se­
condo Tommaso nel lavoro teologico l'interiorizzare della ra­
gione non comporta una sua strumentalizzazione da parte
della fede ma una partecipazione alla scienza divina con
l'aiuto della fede. Infatti, il soggetto che pensa alla verità ri­
velata è il soggetto umano il quale ha come capacità di pen­
sare l'intelletto, che si chiama ratio quando pensa argomen­
tando, ragionando. Senonché l'intelligenza umana non può
giungere di per sé a cogliere le verità soprannaturali. Tale po­
tere le viene conferito dalla fede, dono dello Spirito Santo.
Con l'aiuto della fede, lungi dall'essere squalificata per quan­
to attiene il suo esercizio, la ragione viene messa in condizio­
ni di penetrare nel mondo ineffabile delle verità divine; ma lo
fa << discurrendo, non intuendo » , argomentando e non con-

83
templando: la contemplazione non appartiene a questa vita
bensì alla vita eterna. Il gradino più vicino alla contemplazio­
ne nella vita presente è la teologia speculativa .
Come scienza subalterna che affonda le sue radici nella sa­
pienza divina, la teologia opera sulle verità che le vengono
proposte ed esposte dalla luce della fede in modo tale da rica­
varne tutta la ricchezza, tutta la bellezza. Per fare questo essa
mette a frutto la sua strumentazione logica e soprattutto la
tecnica dell'argomentazione, che quando assume la forma sil­
logistica è composta di due premesse e una conclusione. Nel­
l'argomentazione teologica la premessa maggiore è un asser­
to di fede (cioè una verità rivelata) , mentre la premessa
minore è una evidenza di ragione. La seconda premessa è
quindi il momento in cui la ragione fa uso delle proprie cono­
scenze per riuscire a comprendere meglio la verità rivelata.
Lo statuto epistemologico che Tommaso conferisce alla teo­
logia non sminuisce il carattere sapienziale di questa scienza,
anzi è il modo migliore di avvicinarla alla sapienza. La teolo­
gia deve divenire scienza superiore, ma lo diviene nella misura
in cui fa meglio comprendere la fede, e ciò si ottiene raggiun­
gendo nuove conclusioni nell'ordine di quelle verità che in sta­
tu viae rimangono oscure e inesauribili. Lo schema della strut­
tura della scienza teologica, osserva Chenu,

è il quadro proposto per analizzare lo sviluppo della fede in


intellectus (idei: questo ampliamento speculativo, apparente­
mente divergente rispetto alla semplicità contemplativa del
puro credente, è, in realtà, se ben condotto, una rimonta della
fede verso la scienza di Dio e la prima tappa sulla via della vi­
sione beatifica, scientia Dei et beatorum.s

La nuova epistem ologia di Tommaso fa della teologia


un'opera divina nei principi ma umana nelle conclusioni,
quindi certissima sul versante divino ma fallibile sul versante
umano. Il suo obiettivo peraltro non è abbassare la verità a
misura d'uomo ma, al contrario, innalzare l ' uomo alla condi­
zione divina, come vuole il progetto dell'Incarnazi one. La
teologia diviene così partecipazione alla vita divina dell'uo­
mo nella sua dimensione intellettiva durante la vita presente,

84
ed è senz'altro, afferma Tommaso, sapienza in senso eminen­
te: «maxime sapientia inter omnes sapientias humanas» .

La scelta della metafisica di Aristotele

Possiamo ora domandarci di nuovo perché Tommaso in teo­


logia ricorra agli argomenti aristotelici; Aristotele, per quan­
to appaia il pensatore più razionalmente convincente, nulla
può aver congetturato della Rivelazione cristiana , e il suo
pensiero, anche se particolarmente valido nel campo della ra­
gione, non si vede come possa servire a giustificare verità che
superano le possibilità di conoscenza (diretta o indiretta ) del­
la natura, in quanto patrimonio della fede rivelata, proposta
dalla Chiesa nei suoi dogmi. In realtà, la verità della fede, su­
per-razionale per sua natura, è stata rivelata all'uomo razio­
nale, quindi a quella stessa ragione di cui si è sempre valso
l'uomo per fare filosofia: e i genii dell'antichità e lo stesso
Aristotele, che da Tommaso è considerato il più grande, fan­
no parte di quella specie, di quella identica natura. Insomma,
si deve tener presente che super-razionalità è qualcosa di ben
distinto e diverso da irrazionalità; la sopra-natura non esclu­
de la natura, ma la presuppone come elemento essenziale, co­
me condizione necessaria all'efficacia della ..sua azione.
Perciò, se la Rivelazione presuppone necessariamente la
conoscenza razionale, tale presupposto dovrà essere il valore
fondamentale da cui ha inizio l'elevazione umana dalla razio­
nalità alla super-razionalità. Ne consegue che tale elevazione
non può attuarsi irrazionalmente, facendosi cioè guidare da
rapimenti di plotiniana memoria, spesso vagheggiati, anche
se in modo diverso, dai mistici della Scolastica. Per l'Aquina­
te l'elevazione deve procedere coscientemente, cioè razional­
mente e liberamente. Tale processo richiede uno sforzo da
parte della ragione, con cui l'uomo giudica, con le proprie ca­
pacità intellettive, la Rivelazione in rapporto alla sua natura,
e da questo apprezzamento può derivare l'adesione alla fede
con la libera volontà. La ragione del credente, d unque, sente
tutta l'esigenza di giudicare la sua natura non solo secondo le
proprie capacità, che sono limitate, ma anche con l'ausilio di
quei genii del pensiero i quali, trascorrendo l'esistenza nella

85
ricerca del vero e del bene naturale, raggiunsero fecondissimi
risultati. Tommaso non si serve dunque dell'aristotelismo per
"provare" il dogma rivelato, ma invoca l'autorità di Aristote­
le per dimostrare che la Rivelazione non si oppone alla ragio­
ne, non contrasta cioè le esigenze critiche del pensiero .. Un
procedimento analogo è seguito da Dante: Virgilio infatti è la
pietra di paragone, la condizione necessaria perché il poeta
possa dirigersi verso Beatrice e ricevere da lei la luce della mi­
stica visione. Senza la ragione è impossibile l'accesso ai mi­
steri soprannaturali. Virgilio per Dante impersona la natura
razionale, così come per Tommaso l'opera aristotelica rap­
presenta il frutto migliore della ragione umana. Non per pro­
vare il valore della Rivelazione Tommaso utilizza Aristotele,
ma per rendere comprensibile logicamente e mostrare la pos­
sibilità razionale della libera accettazione di una verità so­
prannaturale che, per quanto indimostrabile razionalmente,
non contrasta con le leggi della ragione, anzi ne è conferma e
potenziamento, come la stessa storia della filosofia dimostra
con gli sviluppi speculativi determinati dalla Rivelazione.6
Per comprendere i motivi intrinsecamente razionali della
adozione di Aristotele da parte di Tommaso è utile riportare
qui il brano centrale di un celebre saggio di Étienne Gilson, il
quale ha saputo mettere in evidenza come l'aristotelismo di
Tommaso d'Aquino sia una necessità teoretica, derivante dal­
l'intuizione metafisica dell'intelligibilità intrinseca del reale,
non sufficientemente garantita dal platonismo; Tommaso
non esita per questo ad allontanarsi da Agostino; egli aveva
ben visto - scrive Gilson - che ci sono solo due opzioni meta­
fisiche fondamentali:

Da una parte c'è Platone che porta alle estreme conseguenze


logiche il materialismo e lo scetticismo dei filosofi, i quali di­
cevano che non esistono altro che corpi e altra conoscenza che
la sensazione; i corpi però sono soggetti a incessante muta­
mento e i sensi si contraddicono continuamente, e quindi così
noi non possiamo attingere la verità; è per questo che Socrate
rinuncia alla filosofia della natura e si dedica alla filosofia
morale, mentre il suo discepolo Platone trasporta nel mondo
intelligibile delle idee tutta la realtà e tutta l'intelligibilità delle
cose; e da allora in poi tutti i platonici considereranno questo
mondo di forme pure come la sorgente di ogni efficacia e di

86
ogni verità. Dalla parte opposta c'è Aristotele che respinge lo
scetticismo implicito nell'opzione platonica e porta alle estre­
me conseguenze questo rifiuto, pensando che ci sia un elemen­
to di stabilità negli enti sensibili e che i sensi non si ingannano
quando giudicano in condizioni normali del loro proprio og­
getto; di conseguenza, le cose sono necessariamente intelligibi­
li in sé stesse . . . Optare a favore della dottrina di Aristotele
contro quella di Platone significava per Tommaso ricostruire
la filosofia cristiana su basi diverse da quelle di Agostino.?

Il realismo empirico-metafisica

Chiarito il metodo della teologia e il posto che in essa occupa


la filosofia, vediamo ora come Tommaso concepisce il meto­
do della filosofia.

Il metodo della filosofia

Del problema del metodo della filosofia Tommaso si occupa


espressamente commentando le opere di logica di Boezio, e
dice che tale metodo si articola in due momenti principali: ri­
solutivo e compositivo. Il primo pratica la via ascendente: ri­
sale dagli enti particolari alle cause ·universali, o dalle cause
meno universali a quelle più universali; risale dalle determi­
nazioni concrete all'essere stesso, oppure dal contenuto di
una cosa ai suoi presupposti necessari. Il secondo procede in
senso inverso, cioè discendente: dalle cause universali, dal­
l'essere in quanto tale, discende agli enti e alle cause partico­
lari, sviluppando le implicazioni contenute nella realtà supre­
ma. Ecco come si esprime Tommaso al riguardo:

Il processo raziocinativo può assumere due orientamenti:


compositivo, quando procede dalle forme più universali a
quelle meno universali (particolari); risolutivo, quando proce­
de nel senso inverso. Infatti ciò che è più universale è più sem­
plice. Ora è universalissimo ciò che appartiene a ogni ente. E
perciò il termine ultimo del processo risolutivo in questa vita è
lo studio dell'ente e di tutto ciò che gli appartiene in quanto
ente. E queste sono le cose di cui si occupa la scienza divina (o

87
metafisica) ossia le sostanze separate e tutto quanto è comune
a tutti gli enti. Dal che risulta che l'indagine metafisica è mas­
simamente speculativa (intellectualis ).B

Come ha fatto osservare Mathieu riguardo al metodo di


Platino, che comprende inizialmente un momento fenomeno­
logico, a ltrettanto va rilevato circa il metodo tommasiano:
anch'esso comprende all'inizio un importante momento fe­
nomenologico. Tommaso non lo esplicita perché gli manca
ancora la terminologia (il metodo fenomenologico sarà intro­
dotto nel Novecento da Edmund Husserl), tuttavia nella sua
indagine metafisica egli muove sempre da un'ésperienza a
largo respiro del mondo che lo circonda, sfruttando al massi­
mo le certezze del senso comune e poi i risultati acquisiti tan­
to dalla conoscenza ordinaria quanto da quella più specializ­
zata della scienza . Q uesto è il momento fenomenologico.
Quando l'analisi dell'esperienza gli ha fornito sufficienti
informazioni circa alcune qualità degli enti che gli stanno da­
vanti, egli procede alla scoperta delle radici profonde, delle
ragioni ultime di tali qualità: ecco il momento risolutivo, che
si conclude con la scoperta di Dio come causa prima trascen­
dente, e quindi come esse ipsum subsistens ( l'essere stesso
sussistente) . A questo punto può iniziare la discesa: la mente
può ripercorrere il cammino in senso inverso per scrutare più
da vicino i plessi che collegano le radici del reale con gli enti
particolari e vedere in che modo le radici si addentrano nelle
vane cose.
Qualche volta Tommaso mette a confronto il metodo della
filosofia con quello della teologia e osserva che, mentre nella
metafisica prevale il metodo induttivo (risolutivo), nella teo­
logia prevale quello deduttivo (compositivo). La ragione è
che la teologia può a volte dispensarsi dal momento indutti­
vo perché i principi primari da cui essa procede sono i miste­
ri, cioè verità che le sono fornite dalla Rivelazione e sono ac­
cettate per fede. Non così la filosofia, che è un procedimento
esclusivamente razionale e perciò deve scoprire da sé e giusti­
ficare con i propri mezzi i principi di cui si avvale.9 In conclu­
sione, la filosofia dispone di un proprio metodo: quello riso­
lutivo-compositivo. Con ciò comunque non si esclude che
possa servirsi anche di altri procedimenti, quali la definizio-

88
ne, la divisione, la distinzione, la separazione, l'analogia, il
paragone, la metafora e l'argomento di convenienza. In effet­
ti di tali procedimenti Tommaso si serve con grande abilità.

La filosofia a confronto con le scienze naturali


e con la matematica

Per puntualizzare meglio i confini della ricerca filosofica ,


Tommaso l a mette poi a confronto con gli altri ambiti princi­
pali del sapere razionale, che ai suoi tempi erano la fisica ( os­
sia le scienze naturali) e la matematica, e ottiene una chiara
demarcazione dei vari ambiti conoscitivi assumendo come
criterio l'astrazione. Richiamandosi ad Aristotele egli ne di­
stingue tre livelli o gradi: astrazione dalla materia individuale
ma non dal concetto di materia; astrazione dalla materia sen­
sibile ma non dalla materia intelligibile; e infine astrazione da
qualsiasi genere di materia, sia sensibile sia intelligibile. Il
primo grado determina l'ambito della fisica, il secondo quel­
lo della matematica e il terzo quello della metafisica. J o La
metafisica ha per oggetto realtà che non solo sono concepite
come immateriali, ma che sono effettivamente senza materia
(come Dio e l'anima) o possono esserlo (come ente, vero, be­
ne ecc . ) .

Per definire i rispettivi ambiti della fisica, della matematica
e della filosofia Tommaso non si accontenta dell'astrazione,
ma ricorre al giudizio, la seconda operazione della mente,
poiché essa riguarda l'esistenza stessa della realtà. L'astrazio­
ne definisce gli ambiti della fisica e della matematica, in
quanto attinge realtà che appartengono all'ordine materiale,
oggetti quindi suscettibili di astrazione e di chiara definizio­
ne. Tale osservazione e chiarezza di definizione riescono inve­
ce impossibili per le realtà immateriali, realtà separate dalla
materia. A esse non si arriva mediante la sperimentazione,
ossia con una serie di giudizi concatenati. La distinzione fra
astrazione (opera della prima operazione dell'intelletto) e se­
parazione (opera della seconda operazione) è di grande valo­
re per chi voglia penetrare nella concezione tommasiana della
filosofia. Infatti, se ci si attiene semplicemente ai tre gradi
dell'astrazione si rischia di cadere in una concezione essenzia-

89
listica della metafisica, dove questa si accontenta di prendere
in considerazione un più elevato grado di essenze, quelle che
sono separate o separabili dalla materia. Invece Tommaso,
collocandosi nella prospettiva dell'essere, non può più consi­
derare la metafisica come studio di un determinato genere di
essenze o di forme: la sua ricerca punta direttamente all'esse­
re degli enti, il suo è un accostamento esistenziale alle cose. E
tale accostamento avviene non mediante l'idea astratta ma
mediante il giudizio: è nel giudizio infatti che l'intelletto si
pronuncia sull'essere delle cose; non si tratta più di astrazio­
ne, ma di separazione; si separa l'essere dal non essere, ma si
separa anche l'essere infinito, perfetto, impartecipato, assolu­
to, dall'eme finito, imperfetto, contingente, caduco; ed è la
seconda separazione ciò che specifica la metafisica di Tom­
maso.
Sulla scia di Aristotele, Tommaso caratterizza la metafisica
come sapienza, come filosofia prima e come teologia. Nel lin­
guaggio aristotelico (ma anche p latonico) sapienza designa
un modo di sapere superiore a quello della scienza. Infatti,
«scientia est conclusionis ex causis inferioribus. Sapientia ve­
ro considerat causas primas>> , l l Ora, la metafisica tratta pre­
cisamente delle cause prime dell'ente.1 2 Essa merita pertanto
il titolo di sapienza. Ma la metafisica merita anche il nome di
filosofia prima . Per intendere il significato di questo titolo
occorre tenere presente che per i Greci e per i medioevali la
filosofia abbracciava soprattutto le scienze naturali ossia la
fisica. Ora - nota Aristotele e con lui Tommaso - se tutto lo
studio della realtà fosse esaurito dalla fisica, allora la fisica
sarebbe coestensiva alla filosofia e non ci sarebbe più posto
per una scienza ulteriore, la metafisica. Senonché la fisica
studia solo il mondo materiale, non le sostanze separate, im­
materiali. A quella parte della filosofia che si occupa dell'im­
materiale spetta quindi giustamente il titolo di filosofia pri­
ma. Poiché la metafisica comprende fra le cause ultime del
suo oggetto - l'ente - l'esse ipsum, essa merita anche l'appel­
lativo di scienza divina o teologia. Come è stato osservato, la
metafisica non tratta di Dio immediatamente, come oggetto
proprio, poiché il suo oggetto è l'esse commune. Ma Dio fa
parte della metafisica perché lo studio esaustivo dell'essere
dell'ente porta necessariamente a Dio.

90
La metafisica in rapporto all'etica

A partire da Kant l'orientamento comune è stato di scavare


u n solco profondo tra etica e metafisica. Per Kant la separa­
zione delle due discipline era inevitabile, data la totale inca­
pacità della metafisica di raggiungere verità certe intorno alla
realtà (la cosa in sé, il noumeno) e l'esigenza nello stesso tem­
po di fornire criteri sicuri dell'agire umano. Così Kant poté
elaborare una Critica della ragion pratica interamente svin­
colata dalla Critica della ragion pura. Più recentemente Em­
manuel Lévinas, dopo aver respinto le pretese totalizzanti
della metafisica, ha conferito all'etica stessa compiti metafisi­
ci: « La morale ha una portata indipendente e preliminare. La
filosofia prima è un'etica » . L'etica non è impiantata nella me­
tafisica, ma è essa stessa la metafisica. In effetti, a parere di
Lévinas, soltanto l'etica può fornire la spiegazione esaustiva e
conclusiva della realtà umana, non l'antropologia, la sociolo­
gia, la psicologia, la cosmologia, la metafisica . Molto più
drastiche e pesanti erano state le critiche di Nietzsche: per far
nascere il superuomo è necessario spezzare tutte le catene con
cui la cultura ellenico-cristiana ha imprigionato l'uomo, in
particolare le catene della metafisica (platonica) e della mora­
le (cristiana) .
Ciò che s i può concedere alle molteplici critiche mosse dal­
la filosofia moderna e contemporanea all'a metafisica classica
è la sua inettitudine a procurare un adeguato fondamento al­
la morale a causa di una concezione troppo essenzialistica
dell'essere che ignora il primato assoluto della persona non
solo nell'ordine assiologico ma anche ontologico. Solo una
robusta metafisica della persona può fornire un proporziona­
to fondamento all'agire della persona e pertanto all'ordine
morale. Per questo, assicurare una fondazione metafisica alla
morale vuoi dire mettere alla base della morale non una me­
tafisica della sostanza (Aristotele), dell'uno (Plotino), della
monade (Leibniz), ma una metafisica dell'uomo considerato
come persona.
L'opera in cui Tommaso chiarisce meglio i rapporti tra eti­
ca e metafisica è il commento all'Etica nicomachea, dove ap­
profondisce il pensiero di Aristotele che su questo punto era
stato di un'estrema chiarezza. Nella sua opera il filosofo gre-

91
co aveva affrontato la questione dei rapporti tra ragion prati­
ca e ragion speculativa a più riprese e la soluzione che aveva
proposto era sempre la stessa: relativa autonomia della disci­
plina morale, la quale dispone di un oggetto e di principi pro­
pri, e, allo stesso tempo, sostanziale subordinazione del pen­
siero morale al sapere speculativo. Questa è anche la tesi che
Tommaso fa sua, arricchendola di ulteriori considerazioni,
nel suo splendido commento.
La questione dei rapporti tra le diverse forme di sapere si
presenta subito nel primo capitolo, dove Aristotele afferma
che tutto l'agire umano è ordinato a qualche fine e che tra i
vari fini esiste un certo ordine a seconda della loro importan­
za. Lo stesso ordine si rispecchia anche nelle operazioni e nel­
le scienze, perché «i fini delle scienze architettoniche sono più
importanti dei fini di quelle subordinate. Infatti solo in fun­
zione di quelli si seguono anche questi» . Commentando que­
sto capitolo Tommaso dice che compito della ragione è «co­
noscere l ' ordine delle cose » . E qui egli distingue subito
quattro tipi di ordine e quindi quattro modi di rapportarsi
della ragione all'ordine. I quattro ordini sono l'antologico, il
logico, il morale e l'artistico. Rispetto all'ordine antologico,
« la ragione si limita a constatare, poiché [la realtà] non è
frutto della sua opera >> . 13 Rispetto all'ordine logico, la ragio­
ne «lo realizza nell'atto suo proprio: per esempio quando or­
dina tra loro i suoi concetti e i segni dei concetti, perché si
tratta di voci significative >> . 14 Anche nell'ordine morale è pro­
tagonista la ragione; è infatti <d'ordine che la ragione, riflet­
tendo, effettua nelle azioni volontarie>> _ 1 5 Della stessa padro­
nanza gode la ragione rispetto all'ordine artistico: è infatti
<d'ordine che la ragione realizza negli esseri esterni di cui essa
è la causa >> . 1 6
Subito dopo Tommaso precisa che a ciascun ordine corri­
sponde un genere di sapere e di scienza; infatti, « le diverse
scienze derivano dai diversi ordini che sono oggetto di una
specifica considerazione della ragione >> . 1 7 La filosofia natu­
rale «ha come oggetto proprio l'ordine degli esseri su cui la
ragione umana riflette senza esserne la causa, e nell'ambito
della filosofia naturale facciamo rientrare anche la metafisi­
ca » . 18 La logica o filosofia razionale realizza l'ordine della
ragione stessa, «considerando l'ordine delle parti del discor-

92
so tra di loro, e l'ordine dei principi tra di loro e in relazione
alle conclusioni » . 1 9 La filosofia morale « riflette sull'ordine
delle azioni della volontà » . 2o Nelle arti meccaniche « la ra­
gione concretizza l'ordine delle cose esteriori come elabora­
zione del pensiero umano» . 2 1
I tre ordini - logico, etico e artistico - nei quali la ragione è
protagonista sono subordinati all'ordine antologico, di cui la
ragione è solo umile testimone. Infatti la logica ordina la ra­
gione speculativa alla conoscenza dell'essere e del vero. La
morale ordina la ragione pratica alla conoscenza e alla realiz­
zazione del bene. L'arte ordina la ragione alla conoscenza e
all'attuazione del bello e dell'utile. Ma l'essere, il vero, il be­
ne, e il bello cadono tutti sotto la considerazione della meta­
fisica, la quale quindi svolge un ruolo architettonico rispetto
a tutte le altre scienze e modi del sapere. Così, dalla riparti­
zione dei vari ordini a cui si trova relazionata la ragione
umana già si evince la subordinazione della morale alla meta­
fisica . Ma su questo punto il pensiero di Tommaso è molto
più preciso e articolato e ne parla diffusamente soprattutto
nei libri sesto e decimo del Commento all'Etica nicomachea.
Gli argomenti principali con cui egli giustifica la subordina­
zione della morale alla metafisica sono tre: il primo si basa
sulla subordinazione della prudenza (regina delle virtù mora­
li) alla sapienza; il secondo sulla subordinazione del bene al­
l'essere; il terzo sul primato della C(')ntemplazione della divi­
nità nel conseguimento della felicità.
Nella concezione tommasiana la subordinazione del bene
all'essere e quindi della morale alla metafisica è ancora più
accentuata che in Platone, in Aristotele e nei neoplatonici. E
non si tratta semplicemente di una subordinazione logica ma
anche antologica, reale. C'è anzitutto una subordinazione lo­
gica in quanto il concetto di esse nella sua vastità estensiva e
nella sua ricchezza intensiva abbraccia ogni altro concetto. 22
Ma c'è anche una rigorosa e profonda subordinazione onta­
logica, perché il bene che presiede all'ordine dell'agire umano
non è altro che una facciata dell'essere, è l'essere stesso visto
in quanto appetibile. Per precisare in che modo il bene ag­
giunge qualche cosa all'essere Tommaso distingue tre generi
di aggiunte: a) l 'aggiunta dell'accidente riguardo alla sostan­
za di qualche cosa che non appartiene alla sua essenza o defi-

93
nizione; b) l'aggiunta di una specie al genere, contraendolo e
determinandolo in tal modo che il genere diviene parte della
sua definizione; c) l 'aggiunta che si ottiene mediante la priva­
zione, la quale aumenta la nostra conoscenza di una cosa
senza tuttavia aggiungere un nonché di reale alla cosa stessa.
Per esempio, quando aggiungiamo il termine "cieco" al ter­
mine " uomo" noi richiamiamo la nostra attenzione a una
mancanza e non a una aggiunta nell'ordine reale: l'aggiunta
avviene soltanto sul piano concettuale e non sul piano del­
l'essere. In base a questa divisione, ci si aspetterebbe che
Tommaso collocasse l 'aggiunta del bene all'essere nel secon­
do tipo, e invece egli non lo fa, anzi lo esclude esplicitamente;
infatti, come il bene non è un accidente così non è neppure
una specie particolare di essere. Il genere di aggiunta a cui
appartiene il bene riguarda l'ordine concettuale, logico, non
quello reale:

È necessario che il bene, per il fatto che non contrae l'ente, ag­
giunga all'ente qualche cosa che sia soltanto di ragione. Ora,
ciò che è soltanto di ragione non può essere che duplice, cioè
o una negazione o qualche relazione. Infatti, ogni positività
assoluta significa qualcosa di esistente nella realtà. Così dun­
que all'ente, che è la prima nozione dell'intelletto, l'uno ag­
giunge soltanto di ragione una negazione: si dice infatti uno
nel senso di ente indiviso; invece il vero e il bene si dicono po­
sitivamente, per cui non possono aggiungere se non una rela­
zione di ragione . . È necessario dunque che il vero e il bene
.

aggiungano al concetto di ente la relazione di ciò che è perfet­


tivo (rispetto all'intelletto oppure rispetto alla volontà) .23

Il primato dell'essere è un primato che sottende anche l'or­


dine dell'agire. In effetti il bene (o valore), che è ciò che muo­
ve all'agire, non esula dall'ordine dell'essere ma lo presuppo­
ne e trova proprio in esso il suo coronamento. L'agire, come
precisa Tommaso, tende sempre all'essere, è anelito di essere,
come poi dirà nell'Action Maurice Blondel (si veda più avan­
ti, pp. 1 74-75 ) .
I l modo con cui Tommaso stabilisce la tesi della subordi­
nazione della morale alla metafisica può anche lasciare per­
plessi, perché non è chiaro come uno studio delle cause ulti­
me e delle realtà divine possa diventare un utile strumento di

94
guida per l'agire umano nella contingenza storica. Per orien­
tare l'uomo nella sua condotta morale non basta infatti una
metafisica delle realtà separate (Dio e gli angeli) ma occorre
una metafisica dell'uomo stesso, una metafisica della persona
umana. In effetti si possono fissare solide basi per l 'agire
umano soltanto se si chiarisce il mistero della persona: ossia
se si fa vedere che l'uomo non è una realtà esclusivamente
materiale, bensì una realtà primariamente spirituale, vale a
dire un ente sussistente nell'ordine dello spirito, una persona.
Non si può prescrivere all'uomo - come pretende il formali­
smo kantiano - di obbedire all'imperativo categorico; non si
può imporre alcun precetto alla coscienza se non c'è consape­
volezza critica, in colui che sottostà a tali precetti, sulle ragio­
ni per cui è tenuto a osservarli. La questione antologica pre­
cede necessariamente la questione etica. La metafisica della
persona precede l'etica della persona. Ciò manca - come or­
dine logico - alla nuova filosofia morale del Novecento, e in
particolare all'etica antintellettualistica e antimetafisica della
filosofia ebraica (Martin Buber, Vladimir Jankélévitch, Em­
manuel Lévinas), che pure è ricchissima di intuizioni valide.
Compito della metafisica è assicurare un solido fondamen­
to alle realtà finite e pertanto contingenti riconducendole ai
loro supremi principi. La metafisica dell'essere radica e salva
gli enti collegandoli all'esse ipsum subsistens. La metafisica
dell'uomo fonda e salva il suo essere saldandolo strettamente
alla dimensione dello spirito (dimostrando la spiritualità del­
l'anima e dotandola di un proprio actus essendi) ed elevan­
dolo in tal modo al grado di persona, che è sempre un sussi­
stente nell'ordine dello spirito: è un subsistens rationale vel
intellectuale, secondo la definizione di Tommaso. La metafi­
sica fonda la morale proprio perché chiarisce che lo spirito
dell'uomo è uno spirito incompiuto e imperfetto, il quale è
chiamato alla piena realizzazione di se stesso facendo il bene
ed evitando il male.
L'agire morale, insomma, presuppone - sia pure al livello
inespresso del senso comune - precise certezze metafisiche.
La prima certezza è che l'uomo sia una persona e non una co­
sa. La seconda è che il mondo umano in quanto mondo dello
spirito sia un mondo sensato: che sia un regno dei fini e non
della necessità o del caso; un regno dove si afferma l 'essere

95
piuttosto che il non essere, il significato piuttosto che la per­
dita di senso. La terza è che l'uomo sia un essere incompiuto,
un progetto anziché un'opera finita, e che proprio mediante
l'agire morale - agire per il bene e secondo il bene - egli pos­
sa autodeterminarsi verso il proprio compimento. In breve: la
metafisica chiarisce all'uomo che nel profondo del suo essere
egli appartiene all'ordine dello spirito; la morale è la ragione
che guida l'uomo nell'ardua fatica della piena realizzazione
di sé come spirito finito proteso verso l'infinito.

La metafisica come sistema aperto

Quanto ho detto finora sul sistema tommasiano potrebbe


magari indurre a considerarlo come un sistema razionalisti­
co, dove tutto è chiaro e distinto e tutto è perfettamente spie­
gato. In realtà, il sistema di Tommaso è di per sé - per i suoi
principi - aperto e dinamico.

Originalità della metafisica dell'essere

Il carattere " aperto" della filosofia tommasiana fa sì che essa


si distingua nettamente dal razionalismo moderno (Descartes,
Spinoza, Hegel) , e allo stesso tempo anche dai grandi sistemi
classici precristiani. Come si vedrà alle pp. 1 3 1 -40, la metafisi­
ca tommasiana è del tutto nuova e irriducibile alle fonti gre­
che, arabe e giudaiche cui Tommaso fece ricorso. Solo Tom­
maso, infatti, concepisce l'essere come «perfectio omnium
perfectionum )) ,24 come <<actualitas omnium actuum )) ,2s talché
senza l'essere tutto precipita nel nulla:

Né si deve pensare che all'essere si possa aggiungere q ualche


cosa di formale, poiché l'essere di cui stiamo parlando è essen­
zialmente diverso dall'essere cui si possono fare delle aggiunte
(cioè l'esse commune). Infatti nulla può venire aggiunto all'es­
sere che gli sia estraneo, poiché all'essere nulla è estraneo se
non il non essere, che non è né forma né materia.26

Infatti

96
l'essere è più nobile di qualsiasi altro elemento che l'accompa­
gni. Perciò, in sede assoluta l'essere è più nobile anche del co­
noscere, supposto che si possa pensare di conoscere facendo
astrazione dall' essere.27

Tommaso ribalta l'ordine gerarchico dei neoplatonici, i


quali ponevano al supremo vertice del reale l'Uno, cui face�
vano seguire il Pensiero e quindi l'Essere. E si tratta di un ro­
vesciamento non solo ontologico e logico, ma anche assiolo­
gico: l ' essere infatti è il plesso di ogni perfezione ed è la
corona di ogni nobiltà . Mentre tutti gli altri filosofi (platoni­
ci, scolastici, idealisti) hanno dell'essere un concetto debole,
cioè il concetto che vede nell'essere la sola linea di demarca­
zione tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra l'esistente e il
nulla, Tommaso ha dell'essere un concetto fortissimo: l'essere
tutto racchiude e dall'essere tutto promana, gli enti sono par­
tecipazioni dell'essere, le perfezioni sia trascendentali sia pre­
dicamentali sono modalità dell'essere.
Con questo nuovo concetto intensivo dell'essere Tommaso
ha ricostruito tutta la metafisica: la metafisica su Dio (sulla
sua esistenza, la sua natura, i suoi attributi, le sue operazioni:
tutto viene rivisto e riletto alla luce dell'esse inteso intensiva­
mente); la metafisica sull'uomo (l'anima è dotata di un pro­
prio actus essendi che comunica anche al corpo quando la
persona viene ridefinita come subsisÙns rationale ve! intel­
lectuale); la metafisica sugli angeli (la cui finitezza viene spie­
gata mediante la distinzione tra l'actus essendi e l'essentia,
escludendo dalla natura angelica qualsiasi componente mate­
riale).
Stando ai più recenti studiosi, la distinzione tra esse e id
quod est, intesa come distinzione tra essere e l'ente particola­
re concreto, si troverebbe già nella famosa proposizione boe­
ziana : << Diversum est esse et id quod est» . Ma in Severino
Boezio mancano l'idea della distinzione reale e la consapevo­
lezza della fecondità che tale distinzione contiene in ordine
alla soluzione di tutti i problemi più difficili e impegnativi
della metafisica. In Boezio la distinzione pare avere più un
valore logico che reale; infatti nel commento al De Hebdo­
madibus Tommaso afferma categoricamente che un ente
composto non può essere il suo atto di essere, ma lo deve ri-

97
cevere. 2 s Da quanto siamo andati dicendo risulta evidente
l'originalità di Tommaso rispetto a Boezio. Non si può certo
attribuire a Boezio il merito di aver creato la metafisica del­
l'essere. Del resto, la modestia della sua statura filosofica e
teologica è universalmente ammessa. La sua grandissima im­
portanza storica va ricercata nel suo ruolo di traduttore e
commentatore di Platone, di Aristotele, di Porfirio e di Tolo­
meo, come già gli riconosceva l'amico Cassiodoro: «Nelle tue
versioni gli italiani possono leggere ora la musica di Pitagora,
l'astronomia di Tolomeo, l'aritmetica di Nicomaco, la geo­
metria di Euclide; possono discutere in latino la teologia di
Platone e la logica di Aristotele; con tutte le tue traduzioni
hai restituito Archimede ai siciliani >> . Quanto a Tommaso, la
sua costruzione metafisica presenta novità notevoli rispetto
ad Aristotele, il quale non ha concepito l'essere intensiva­
mente, come una realtà a sé stante, bensì come un atto che
accompagna una realtà determinata e in particolar modo la
sostanza. L'essere (ente), per Aristotele, ha come analogato
principale la sostanza e non l'actus essendi sic et simpliciter o
l'esse ipsum subsistens. Ma Tommaso è originale anche ri­
spetto a Platone e ai platonici: infatti, pur facendo proprio il
concetto di partecipazione e l'iter speculativo dell'exodus e
del reditus, egli non li applica all'Uno, alla Verità, alla Bontà
e alla Bellezza come avevano fatto i neoplatonici, bensì all'es­
sere (esse).
Come Battista Mondin ha mostrato a più riprese, anche
sulla scorta degli studi storico-critici di Cornelio Fabro e di
Étienne Gilson, la sintesi metafisica di Tommaso è una sintesi
geniale: è una nuova grande e possente cattedrale - come le
meravigliose cattedrali gotiche del Medioevo - in cui si trova
molto materiale platonico e aristotelico, dove persino il dise­
gno è in parte mutuato dai neoplatonici. Ma ciò che funge da
cemento e che tiene saldamente insieme l'intero edificio è
frutto della genialità di Tommaso: è il concetto intensivo del­
l'esse come actualitas omnium actuum e perfectio omnium
perfectionum, principio primo e fondamento ultimo di ogni
cosa.
La metafisica tommasiana dell'essere, insomma, si può di­
re sia platonica sia aristotelica, e comunque è soprattutto
tommasiana; "sostanzialmente" è tommasiana, e "formai-

98
mente" è sia platonica sia aristotelica. Il tomismo non è né
una specie di aristotelismo né una specie di platonismo, ma è
un nuovo, coerente sistema che può essere detto di impianto
aristotelico-platonico oppure platonico-aristotelico.

Il punto di partenza della metafisica

Tutto il sistema metafisica è strutturato da Tommaso a parti­


re dalla nozione di esperienza del mondo, che la ragione pos­
siede come prima conquista di ciò che la circonda. Se tutta la
scienza metafisica per Tommaso è fondata sulla nozione di
ente, ne consegue la necessità di una coscienza; egli non con­
sidera l'oggetto come qualcosa di assolutamente indipenden­
te dal soggetto, ma lo vede in relazione al soggetto, cioè in
rapporto alla coscienza con cui è appreso e giudicato; il pri­
mo principio della metafisica tomista è sintesi di soggetto e
oggetto, quale prima autorivelazione della ragione che si ap­
prende come coscienza dell'essere in quanto verum, cioè in­
telligibile; la verità, infatti, è per Tommaso percezione intel­
lettuale dell'adeguamento del soggetto conoscente all'oggetto
conosciuto.29 Perciò errano coloro che giudicano il pensiero
dell'Aqui nate alla luce di un arido oggettivismo, che offu­
scherebbe la ricchezza e la fecondità del soggetto, quali il ge­
nio di Agostino aveva rivelato.
Per Tommaso la realtà è l'essere degli enti; non solo l'opa­
ca e insignificante presenza del mondo quale mi appare nelle
sue manifestazioni fenomeniche, percepite dai sensi (quella
presenza senza senso che provoca la nausea nel celebre ro­
manzo di Sartre) , ma l'essere pieno di senso, cioè la realtà ap­
presa e intesa razionalmente in un quid che esiste. Dalla co­
scienza antologica perciò abbiamo l 'essere come primo
valore metafisica. La coscienza antologica, dunque, è la valo­
rizzazione dell'essenza di Aristotele (usia) mediante l'actus
essendi che ne è la base, il fondamento: l'atto di essere, infat­
ti, è l'essere stesso come atto; nei suoi confronti, la potenza
che lo limita negli enti finiti è appunto l'essenza; di qui la ne­
cessità logica di sta bi lire tra l 'essere e l' essenza di un ente
concreto una specifica distinzione. Tale distinzione è necessa­
ria per comprendere la diversità di valore che intercorre tra

99
l'essenza (astratta ) di un ente e la sua concreta esistenza; in­
fatti non tutti gli enti, per il fatto che si apprendono come
possibili in base a un'essenza astratta conosciuta, hanno di
fatto l'esistenza, in quanto questa è una determinazione at­
tuale percepita dalla coscienza an tologica tramite i sensi;
quindi è un aspetto particolare dell'ente che connette l'ogget­
to al soggetto che l'ha appreso come ente, cioè come essenza
che si dà nella realtà, in base alla nozione di essere, nozione
universalissima e trascendente che sostanzia la coscienza sog­
gettiva. L'esistere, dunque, non è l'essere, ma ne è una deter­
minazione, una particolare attuazione che la ragione coglie e
giudica attraverso i sensi che lo avvertono.
Come abbiamo visto, l'essenza per Tommaso è quello che
era per Aristotele, ossia "ciò che una cosa è " , mentre l'esi­
stenza è attività di ciò che è, atto di essere; così la sostanza si
può dire sinonimo di ente, in quanto è considerata "ente in sé
esistente " , mentre l'accidente è ciò che non ha in sé la ragio­
ne di essere. La causa è l'origine dell'ente mentre l'effetto ne è
il prodotto; il fine è il motivo fondamentale di tutti gli atteg­
giamenti esistenziali dell'essere, nelle sue determinazioni sia
generiche sia specifiche; tali determinazioni, per Tommaso,
sono appunto le categorie.
L'essere delle cose è dunque la prima notitia metafisica del­
la realtà, sia soggettiva che oggettiva, intesa come nozione
originaria della mente che crea la coscienza antologica. Non
si tratta di una concezione dell'essere statica, alla maniera di
Parmenide, ma di una visione metafisica realistica, con fon­
damento logico nella prima evidenza del senso comune, quel­
la del mondo come insieme di enti diversi; la nozione tomma­
siana dell' essere non esclude insomma la molteplicità del
reale. L'essere infatti è l'atto fondamentale e originario che
cogliamo come elemento comune di un insieme innumerevole
di enti, tra i quali ci siamo noi stessi e le cose che apprendia­
mo per mezzo della sensazione. In tal modo torn ano a ri­
splendere di nuova luce il concetto socratico, l'idea di Plato­
ne, l'essenza aristotelica e la verità agostiniana, in una sintesi
metafisica che costituisce l'apporto essenziale con cui Tom­
maso contribuisce alla storia del pensiero.
Sicché il mondo della nostra esperienza è costituito da una
molteplicità di enti; ciascuno di essi risulta composto di ma-

1 00
teria e di forma: di materia, intesa come capacità o potenzia­
lità a divenire; di forma, come attuazione di detta capacità o
possibilità.

Dal mondo a Dio

Ogni ente, nella sua individualità e perfettibilità, è ordinato


alla realizzazione di sé in rapporto con gli altri enti. Si tratta
di una molteplicità di enti di cui la ragione non solo constata
l'ordine e l'armonia, ma cerca l'origine, cioè la causa, per
possederne il valore. Ora il molteplice, essendo per sua natu­
ra contingente, deve postulare l'Uno necessario; vi deve esse­
re cioè un principio trascendente e assoluto il quale, oltre a
costituire la dinamica e il fine di tutti gli esseri, come aveva
insegnato Aristotele, deve esserne, per Tommaso, causa libe­
ra, assoluta ed eterna, che lo produce dal nulla e lo governa
con quella sapienza e armonia con cui si manifesta .
Gli enti molteplici di cui è costituito l'universo sono distinti
l'uno dall'altro per la loro individualità, caratterizzata dalla
composizione di materia e forma ; cosicché il principio dell'in­
dividuazione dell'essere è, per Tommaso, la determinazione
quantitativa che la materia riceve dalla forma (materia quanti­
tate signata) . Ciò riguarda la metafisica del molteplice cosmi­
co, cioè la cosmologia; il mondo però è c;onsiderato da Tom­
maso come un organismo in cui ciascuna parte, pur avendo
individualità per se stessa, contribuisce efficacemente all'ar­
monia e perfezione dell'insieme.
Queste sostanze, al pari degli esseri cosmici, postulano me­
tafisicamente una causa da cui hanno avuto il loro essere. Ta­
le causa non può essere un cieco impulso, inteso come anima­
zione della materia: se così fosse non ne potrebbe risultare
ordine e perfezione; né può essere una natura materiale, giac­
ché si confonderebbe con il molteplice e non potrebbe essere
causa delle sostanze immateriali; non può essere neppure una
potenza misteriosa, immanente negli esseri, inaccessibile alle
capacità razionali, poiché è proprio la ragione a rendersi con­
to dell'impronta razionale e trascendente di cui è sostanziato
l'intero universo. Ne consegue che il molteplice, sia materiale
sia spirituale, è opera di un Essere incausato e causante, tra-

101
scendente e personale, la cui natura contiene in sé in modo
eminente, infinito ed eterno, tutto il valore antologico e per­
fettivo che la ragione riscontra nell'insieme degli enti dell'e­
sperienza. Siamo giunti così al culmine del problema, alla ri­
cerca cioè dell'Essere-causa , dell'Uno-principio, donde ha
origine il molteplice degli enti e anche il fine del loro dinami­
smo. Tale indagine ci trasferisce dal problema metafisica a
quello teologico, rimanendo, s'intende, sempre nel campo
della ragione naturale.
Dio è l'Essere come Soggetto e Persona,Jo colui che libera­
mente crea e governa l'universo: è causa assoluta a cui cia­
scuna creatura deve la sua esistenza e tutte le sue perfezioni,
sia attuali sia possibili. La sua natura è infinita e onnipotente,
la sua essenza è perfezione in atto, perciò nel suo essere non
si può dare alcuna distinzione tra essenza ed esistenza. Tale
distinzione, infatti, è necessaria per spiegare la costituzione
antologica degli enti molteplici e finiti, nei quali l'essenza in­
dica la potenza e l'esistenza esprime l'attuazione di tale po­
tenza; ma in Dio non può aver luogo alcuna potenza, in
quanto la sua essenza è atto purissimo, cioè perfezione totale
e inesauribile eternamente in atto.
Ma - si domanda giustamente Tommaso - come si spiega
la creazione ? Se Dio è purissimo atto, semplicità assoluta, co­
me può derivare da Lui l'essere di enti materiali, limitati, di­
versi tra loro e, si direbbe, contrastanti con la natura del
Creatore ? La sapienza classica in genere, specialmente con
Platone e Aristotele, aveva affermato l'eternità del mondo,
ma rimaneva la difficoltà metafisica secondo la quale non si
può ammettere l'eternità di enti per loro natura contingenti,
mutabili e corruttibili, poiché l'eternità è immutabilità, incor­
ruttibilità, necessità e perfezione. Né d'altra parte il mondo
può essersi dato da sé l'esistenza, giacché il contingente non
può essere causa di se stesso; rimane da vedere come ha fatto
Dio a crearlo.
La creazione è per la filosofia cristiana attività libera, pro­
pria della natura divina, con la quale si hanno dal nulla le
creature. Dio non genera il mondo, non produce gli esseri de­
rivandoli (come immaginava Plotino) dalla sua essenza spiri­
tuale, ma li trae dal nulla con l'atto eterno del suo pensiero
onnipotente; perciò si spiega come la natura materiale, pur

1 02
essendo diversa da quella umana, sia anch'essa effetto della
creazione, della perfezione e della provvidenza di Dio. Sicché
la creazione di cui parla la Rivelazione, esaminata alla luce
della ragione, costitui sce per Tommaso un valore positivo
della ragione, una conquista irrinunciabile del pensiero. Ciò
non significa che l'Aquinate voglia razionalizzare la fede, sot­
toponendola al vaglio della comprensibilità meramente ra­
zionale: si tratta di una elevazione delle facoltà umane con la
quale la ragione acquista sempre più coscienza del suo valore
in relazione intima con le verità eterne che Dio ha rivelato al­
l'uomo.

Le cinque vie per arrivare alla certezza metafisica


che esiste una prima causa

Alla stessa maniera Tommaso procede per provare l'esistenza


di Dio; a tale proposito osserva che l'argomento di Anselmo
di Aosta non costituisce una prova vera e propria dell'esi­
stenza di Dio, poiché in esso non viene distinto metafisica­
mente l'essere logico (o possibile) da quello reale (o sussisten­
te ) . Non a priori d unque ma a posteriori si può provare
l'esistenza di Dio, precisamente att(averso cinque argomenti,
le celebri cinque vie, che si richiamano in parte al processo
dimostrativo aristotelico e che sono elencate nella Summa
theologiae, I, q. 2, a. 3 come cinque diversi argomenti (nella
Summa contra genti/es Tommaso adopera invece solo l'argo­
mento del divenire, della causalità, dei gradi di perfezione e
dell'ordine: manca la terza via ) .
1 ) L a prima via riguarda il moto, ossia il movimento3 1 a
cui tutte le cose sono soggette e che implica un "motore", os­
sia una causa motrice:

Se dunque l'ente da cui una cosa è mossa è a sua volta mosso


[cioè, è soggetto al movimento], è necessario che sia mosso da
altro e questo da altro ancora: ma non si può così procedere
all'infinito, perché allora non vi sarebbe un primo motore e
per conseguenza non vi sarebbe nessun motore, in quanto i
motori secondi non muovono se non sono mossi dal primo . . .

103
perciò è necessario giungere a un primo motore non mosso da
altro: in esso tutti riconoscono Dio.

2) La seconda via ha per oggetto la causa effici ente e consi­


ste in u no sviluppo dell'argomento del motore immobile; rut­
to il creato infatti è ordinato da una connessione di cause ef­
ficienti, le quali, a loro volta, essendo effetti di altre cause,
l'una connessa all'altra, richiedono necessariamente un prin­
cipio efficiente che non sia effetto di altri e sia causa prima di
tutte: <<Dunque è necessario» insegna Tommaso <<porre una
prima causa efficiente che tutti chiamano Dio>> ,
3 ) La terza via è connessa alle prime due e riassume l'esi­
genza metafisica secondo la quale ogni essere contingente im­
plica l'essere necessario, e ogni necessario relativo richiede un
necessario assoluto: << Perché >> afferma Tommaso << bisogna
porre qualcosa che sia necessario per sé e non abbia in altro
la causa della propria necessità, ma sia causa della necessità ·

degli altri>> .
4 ) La quarta via si occupa dei <<gradi dell'essere >> , e così
dalle perfezioni limitate si giunge a quella infinita; ogni essere
infatti contiene un grado di perfezione rispondente alla sua
natura : <<Esiste dunque qualcosa» insegna Tommaso <<che è
causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione di tutti
gli esseri che noi chiamiamo Dio » .
5 ) La quinta via h a per oggetto l'ordine sapiente che tutti
gli enti, sia razionali sia irrazionali, esprimono, essendo per
natura diretti sempre a un fine che indica bene e perfezione:
« Ora » conclude Tommaso «<e cose prive di conoscenza non
tendono al fine se non sono dirette da un essere, conoscente e
intelligente, come la freccia dell'arciere. Vi è dunque un esse­
re intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate a un
fine, e questo essere noi lo chiamiamo Dio>> .
Come si vede, i l processo dimostrativo tomistico è caratte­
rizzato da una base oggettiva ed empirica che lo differenzia
da quello dell'agostinismo (Agostino, Anselmo, Bonaventu­
ra, Descartes) . Tommaso infatti non accetta la possibilità d i
una conoscenza di Di o per immediata e mistica intuizione,
ma procede secondo una indagine schiettamente razionale
nella quale i dati fondamentali dell'esperienza sono gli stru­
menti di cui la ragione si serve per acquistare la coscienza cri-

1 04
tica dell'esistenza di Dio. Con ciò non si può affermare che
l'Aquinate non abbia fiducia nella contemplazione mistica;
questa per Tommaso sarà efficace come coronamento ed ele­
vazione, allorché la ragione dal suo livello naturale si trasfe­
risce coscientemente e liberamente nel livello divino, non più
attraverso l'esperienza, ma per mezzo della Rivelazione e del­
la fede; e a questo proposito mi piace ricordare che Tommaso
è uno dei più grandi mistici della storia.
Lo schema logico delle cinque vie conferma che si tratta di
un'argomentazione a base fortemente empirica, ossia capace
di ottenere il consenso di chiunque comprenda l'universalità
e l'evidenza degli aspetti che Tommaso prende in considera­
zione per cercarne filosoficamente il fondamento. Ecco come
Battista Mondin presenta tale schema logico, basato su quat­
tro momenti:

1 ) Si attira l'attenzione su un determinato fenomeno (il diveni­


re, la causalità secondaria, la possibilità, i gradi di perfezione,
il finalismo); 2) si evidenzia il suo carattere relativo, dipenden­
te, causato, vale a dire la sua contingenza: ciò che è mosso da
altri; le cause seconde sono a loro volta causate; il possibile ri­
ceve l'essere da altri; i gradi di perfezione ricevono la perfezio­
ne da un massimo; il finalismo richiede sempre intelligenza,
mentre le cose naturali in sé stesse ne sono prive; 3) si mostra
che la realtà effettiva, attuale di un fenomeno contingente non
si può spiegare facendo intervenire' una serie infinita di feno­
meni contingenti; 4) si conclude dicendo che l'unica spiegazio­
ne valida del contingente è Dio: Lui è il motore immobile, la
causa incausata, l'essere necessario, il sommamente perfetto,
l'intelligenza ordinatrice suprema.32

Da questo schema logico deriva che ciascuna via e tutte le


vie nel loro insieme, pur essendo una rigorosa e geniale dimo­
strazione metafisica, confermano ed esaltano la certezza che
di Dio hanno tutti g l i uomini per via del senso comune; tale
certezza è intuitiva e universale (sia pure non espressa o male
espressa), ma pur sempre basata su una inferenza, non sull'e­
videnza immediata di Dio. Infatti Tommaso, prima di esporre
le prove dell'esistenza di Dio, ha cura di ribadire che noi non
possiamo avere una conoscenza di Dio immediata, ma dob­
biamo partire da ciò che è immediato - il mondo, le cose del-

1 05
f;�sperienza conosciute attraverso i sensi - per arrivare con il
�;'ìgioriamento all'evidenza (mediata, appunto) di una prima
causa trascendente, che è l'Essere sussistente. Tommaso rifiu­
ta dunque ogni ipotesi di ontologismo; ma, se si comprende
bene la differenza tra " evidenza immediata " e "evidenza me­
diata da una inferenza " , si comprenderà anche che quest'ulti­
ma può essere non solo scientifica (cioè consapevole, rigoro­
sa e capace di dialettica per convincere gli altri ) ma anche
spontanea, intuitiva, popolare, comune a tutti (come è ap­
punto la certezza del senso comune) , e la prima non fa che
confermare la seconda. Su questo punto, insomma, non c'è
sostanziale disaccordo tra Tomrnaso e Bonaventura (cfr. più
sopra, pp. 6 8-72).

Dio è conosciuto, sia pure imperfettamente,


grazie all'analogia dell'essere

Dio dunque esiste: noi lo conosciamo certissimamente come


l'Essere-causa che crea dal nulla l 'universo e lo governa con
ordine e amore infinito. Ma che cosa si può sapere intorno
alla divina essenza? Come la ragione umana può comprende­
re la natura di Dio? Tale pretesa non contiene forse l'errore
dell'antropomorfismo? E come può l'uomo ragionare di Dio
senza evitare il pericolo di tale errore? Sarà forse costretto a
concludere con l' agnosticismo, rifugiandosi poi nel mistici­
smo irrazionalistico? Tommaso non ha queste preoccupazio­
ni, e dimostra con semplicità e chiarezza come il pericolo del­
l'antropomorfismo e lo scoglio dell'agnosticismo teologico
possono essere nettamente eliminati con la dottrina dell'ana­
logia.
Per cogliere bene il senso di tale dottrina è necessario anzi­
tutto tener presente la triplice distinzione di termini che ca­
ratterizza le relazioni tra gli esseri, il loro genere e la loro spe­
cie, ovverosia il triplice concetto di equivocità, univocità e
analogia:
a) si dice equivoco il termine che si applica a più esseri con
significato del tutto diverso, come per esempio il termine
"gallo" attribuito all'abitante della Gallia e il termine "cane"
riferito alla costellazione;

1 06
b ) il termine univoco è quello che conviene a molti esseri in
modo identico, come per esempio il termine " bestia" convie­
ne a ogni semplice animale e il termine " uomo" a ciascun in­
dividuo razionale;
c) il termine analogico è quello che si applica a molti esseri
con un modo di significare in parte equivoco e in parte uni­
voco; si tratta di « termini medi >> aveva insegnato Alberto di
Colonia « tra quelli univoci e quelli equivoci, e sono attribuiti
agli oggetti secondo la sostanza, rispetto a uno a cui sono
proporzionati » .
Ciò premesso, Tommaso esclude che si possa parlare di
Dio in senso equivoco (contro l'agnosticismo) o in senso uni­
voco (contro l 'antropomorfismo); rimane perciò il senso ana­
logico, con cui si giunge alla coscienza della essenza divina
indirettamente, secondo l'analogia che si può stabilire critica­
mente per via di affermazione, di rimozione e di eminenza.
Tali modi di concepire analogicamente Dio - che Tommaso
riprende dallo Pseudo-Dionigi - consistono concretamente in
questo:
a) affermazione significa considerare che ogni creatura
contiene un complesso di perfezioni, come l'essere, l'esistere,
la vita, l 'intelligenza, la libera volontà, la bontà, la bellezza
ecc . ; queste perfezioni sono valori positivi che la creatura
non si può dare da sé, ma li riceve�dall'autore che dal nulla
l'ha creata. Ora, siccome nessuno può dare ciò che non ha,
ne consegue che Dio deve avere in sé almeno quelle perfezio­
ni di cui sono fornite le creature;
b) rimozione significa che, negli enti, oltre alle perfezioni si
notano le imperfezioni, caratterizzate dal limite metafisica al
quale sono soggetti, come la finitezza, la potenzialità, la gra­
dazione (da quelli meno perfetti a quelli antologicamente più
perfetti). Queste imperfezioni sono dovute al fatto che tutte
le creature per natura sono soggette alla causa che le ha trat­
te dal nulla, cioè a Dio. Sicché tali imperfezioni devono esse­
re rimosse dalla nozione della natura divina, in quanto Dio è
atto purissimo, Essere metafisicamente per sé sussistente;
c) eminenza vuol dire che, se le perfezioni degli esseri crea­
ti sono proporzionate al loro limite e al loro grado di essere,
nella natura divina si devono trovare in grado eminente, cioè
illimitate e infinite, secondo l 'infinità e l'eternità di Dio stes-

107
so. Da ciò si deduce che Dio va concepito come « Colui che
è » , cioè pienezza di essere, di vita, d'intelligenza , di libera vo­
lontà; è tutto l'amore, tutta la giustizia, tutta la potenza, tut­
ta la sapienza, la verità assoluta.
Su queste basi critiche della teologia razionale, considerate
come necessari praeambula (idei, l'Aquinate costruisce l'edi­
ficio della teologia soprannaturale alla luce della Rivelazione
nonché di tutta la tradizione cristiana, con tale coerenza e
profondità da divenire nei secoli, fino a oggi, la guida ricono­
sciuta dei teologi.
Tommaso distingue una duplice forma di analogia: di attri­
buzione e di proporzionalità. L'analogia di attribuzione inter­
corre tra realtà che possono essere designate con uno stesso
termine, ma in ciascuna delle quali la nozione significata dal
termine si trova in modo del tutto diverso, in quanto in una di
tali realtà la nozione stessa si trova intrinsecamente e formal­
mente, mentre in tutte le altre realtà si trova in modo estrinse­
co e solo in dipendenza da quella unica cosa e in ordine a essa;
quest'ultima si chiama analogato principale mentre le altre
realtà si chiamano analogati inferiori. L'esempio classico è
quello della salute, nozione analoga che viene attribuita in ma­
niera propria all'essere vivente (analogato principale) e in mo­
do subordinato e derivato ai cibi, all'aria, agli esercizi fisici
ecc. (analogati inferiori). È chiaro che il rapporto fra l'ente
analogato principale e gli enti analogati inferiori è un rappor­
to di causalità estrinseca (efficiente e finale): nell'esempio che
a bbiamo fatto, certi cibi e certi esercizi fisici vengono detti sa­
ni in quanto causano (contribuiscono a causare o mantenere)
la sanità dell'uomo.JJ L'analogia di proporzionalità si dà inve­
ce fra termini che hanno come referente enti che posseggono
tutti intrinsecamente la nozione indicata nel termine stesso, sia
pure non in modo identico ma solo somigliante; l'analogia di
proporzionalità, a sua volta, si suddivide in propria e metafo­
rica (quest'ultima è usatissima in poesia, ma anche nel lin­
guaggio comune, come quando l'aggettivo "ridente" si appli­
ca a una cittadina) . Il caso più importante in cui il linguaggio
umano fa uso dell'analogia di proporzionalità propria è quan­
do si dice che il mondo e Dio " sono" : le cose create e il Creato­
re hanno in comune l'essere, anche se "sono" in modo diverso;
li unisce una somiglianza proporzionale propria, avendo con

1 08
l'essere un intrinseco rapporto di possesso, quantunque in gra­
di e in modi del tutto diversi.34 Come osserva Raimondo
Spiazzi,

la dipendenza causale è il fondamento antologico che rende


possibile l'analogia di attribuzione nell'ordine gnoseologico;
la trascendenza delle proprietà analoghe - che si infrangono
nei diversi termini proporzionali costituendoli in reciproche
somiglianze - è il fondamento dell'analogia di proporzionalità
nell'ordine gnoseologico. Se noi possiamo stabilire dei rappor­
ti o proporzioni o analogie tra la creazione e Dio è perché nel­
la realtà stessa esistono dipendenze e somiglianze: fondamenti
di analogia.35

Gli studiosi contemporanei hanno riscoperto nel principio


di analogia un fecondo indirizzo metodologico, ossia

un modo di argomentare rigoroso che, in forza di quell'intel­


lettua lismo possibile grazie all'analogia e che si colloca agli
antipodi del razionalismo, non elimina il mistero (come giu­
stamente pretende la sensi bilità contemporanea) ma non ri­
nuncia neppure a usare discretamente della ragione anche a
quei livelli superiori che si rivelano decisivi per dare significa­
to alla vita umana . . . In altri termini, l'atteggiamento filosofi­
co tommasiano, adeguatamente esseozializzato, sembra in
grado di contribuire a gettare un ponte tra i due filoni fonda­
mentali del pensiero contemporaneo tra i quali c'è scarsa co­
municazione: da un lato il filone empiristico e dell'analisi iin­
guistica, con la sua esigenza di chiarezza, di rigore e di
rapporto con le scienze; dall'altro il filone del pensiero esisten­
ziale ed ermeneutico, con la sua domanda di profondità.36

Tom maso al riguardo si esprime invero in modo assai


esplicito, e distingue ciò che del mistero ci è permesso d i co­
noscere in virtù dell'analogia e ciò che invece rimane incono­
scibile:

A partire dagli effetti noi sappiamo che Dio esiste e che Egli,
in quanto causa di tutti gli enti, è del tutto trascendente rispet­
to a essi e del tutto diverso. Questo è l'estremo e più perfetto
esito della nostra conoscenza nella vita presente, e per questo
dice giustamente Dionigi nella Teo logia m istica che noi ci

1 09
uniamo a Dio senza poterlo conoscere; infatti, di Lui sappia­
mo bene che cosa non è, ma non possiamo capire affatto che
cosa sia in positivo. Per q uesto stato nostro di ignoranza ri­
guardo alla conoscenza più sublime [sublimissimae cognitio­
nis ignorantia], la Scrittura dice che Mosè si avvicinò alla nu­
be impenetrabile nella quale era Dio » Y

L'antropologia

L'uomo per Tommaso è la creatura che riassume e supera tut­


te le perfezioni del creato; l'essere umano è un composto uni­
tario di materia e forma: la materia è il complesso degli ele­
menti corporei, la forma è l'anima. L'anima è sostanza
spirituale, creata direttamente da Dio, al momento della co­
stituzione antologica dell'umano individuo. Si tratta di un'a­
zione diretta di Dio con la quale l'uomo è tale in virtù di un
principio trascendente che è forma e vita del suo essere. Tale
principio è sostanza semplice, cioè inestesa; è pura forma, la
cui natura è essere spirituale, quindi analoga a quella divina;
perciò intende, vuole ed è libera. Da qui Tommaso prende
occasione per rivendicare l'autonomia dell'anima individuale
contro l'averroismo, secondo il quale (come già abbiamo det­
to) vi sarebbe un intelletto unico e universale. che attuerebbe
la conoscenza nei singoli esseri razionali. Se ciò fosse vero
non potrebbe esistere la persona singola, con la sua autono­
mia conoscitiva e con la sua libertà, ma vi sarebbe una cono­
scenza unica, un'anima sola, che attuando la conoscenza in
tutti gli individui in modo uniforme non sarebbe di nessuno,
e l'anima umana perirebbe col corpo; il che ripugna alla ra­
gione, cioè all'esperienza e al senso comune.
Come ogni composto fisico, anche il composto umano ri­
sulta da una materia attualizzata dalla rispettiva forma so­
stanziale, che è l'anima intellettiva. Su questo punto Tommaso
accetta in pieno l'antropologia di Aristotele, aggiungendovi
però la sua specifica e originale dottrina dell'atto di essere; in­
fatti, per l'Aquinate l'anima è la forma del corpo, ma l'atto di
essere dell'individuo è l 'atto dell'anima stessa . Di conseguen­
za, Tommaso arriva a concepire filosoficamente la sussistenza
dell'anima separata dal corpo dopo la morte; infatti, in tale si-

1 10
tuazione l'anima umana è sempre un composto: l'essenza at­
tualizzata dall'atto di essere. Dunque, l'immortalità dell'ani­
ma umana - che per la filosofia cristiana è un presupposto teo­
logico irrinunciabile - è una verità filosofica derivante dalla
concezione metafisica dell'anima come forma sussistente di
essenza ed esse, e pertanto capace di conservarsi nell'essere an­
che quando non entra più in composizione con la materia. Co­
me scrive Gilson,

la riflessione di Tommaso d'Aquino dipende totalmente - qui


come altrove - dal fatto che egli sottomette la ricerca filosofi­
ca all'evidenza empirica, anche quando questa sembra impli­
care una certa contraddizione. L'evidenza empirica è che l'uo­
mo è un essere materiale, giacché ha un corpo, ma allo stesso
tempo è capace di pensare, ossia ha una facoltà che è propria
degli enti spirituali; deve dunque avere per natura qualcosa in
comune con gli animali (corpi che non pensano) e qualcos'al­
tro in comune con gli angeli (enti che pensano ma non hanno
corpo). Tommaso, volendo rispettare la natura dei fatti, non
ha accolto la tesi di Empedocle o di Galliano, per i quali l'ani­
ma sarebbe una mera qualità fisica del corpo; e nemmeno ha
accolto la tesi di Platone che concepisce l'anima come una so­
stanza immortale che non ha bisogno del corpo. Tommaso
conserva sia l'unione sostanziale dell'anima con il corpo che
la possi bilità di una autonoma sussistenza dell'anima stessa, e
questa conciliazione gli è possibile proprio in virtù della sua
specifica antologia dell'essere.38

Per Tommaso la natura dell'uomo, pur essendo composta


come quella di tutti gli altri enti creati, è in ciascuna persona
concretamente esistente qualcosa di assolutamente unitario.
Ciò che modernamente chiamiamo l'io (e la conoscenza dell'io
costituisce una delle evidenze del senso comune) è appunto
l'unità sostanziale dell'uomo, della persona umana nella sua
concreta e individuale esistenza. Non c'è un vero e proprio
dualismo nell'antropologia tomista, perché l'uomo è un solo
ente, una sola sostanza; scrive infatti l'Aquinate: « L'anima co­
munica alla materia corporale l'atto di essere di cui essa stessa
sussiste; da tale materia corporale e dall'anima intellettiva ri­
sulta un unico soggetto, dato che l'essere del composto è il me-

111
desimo essere dell'anima>> .39 Come giustamente scrive Miche­
le Federico Sciacca,

l'uomo, per la sua corporeità, è radicato nel mondo materiale,


ma per la sua anima intellettiva trascende la natura ed è ri­
spetto a essa autonomo e indipendente. Questa tesi consente
all'Aquinate di correggere con Aristotele il platonismo disin­
carnato del suo tempo, e di respingere con Platone e il platoni­
smo il naturalismo dell'Aristotele averroista. In altri termini,
all'interno della formula aristotelica - «L'anima è la forma so­
stanziale del corpo» - egli introduce una concezione spirituale
di essa che ne salva la trascendenza.40

Anche in questo specifico argomento la sintesi filosofica di


Tommaso garantisce uno straordinario equilibrio, tanto che
nei secoli successivi ci si richiamerà proprio all'antropologia
di Tommaso quando si vorranno evitare gli opposti rischi del
materialismo naturalistico e dello spiritualismo disincarnato;
come giustamente sottolinea ancora Sciacca, l'antropologia
tommasiana si può compendiare nel considerare

l'uomo nel mondo e non per il mondo: questa l'antropologia


di Tommaso, non spiritualistica né materialistica, ma dell'uo­
mo integrale; cosmologica e teologica insieme, ma nel senso
che il suo essere nel mondo a cui è intrinseca una finalità su­
permondana rende impossibile il cosmologismo che è sempre
naturalismo; e il suo "essere-per-Di o " attraverso il mondo
evita il teologismo, che è sempre un comodo pretesto per eva­
derne ed eluderne l 'impegno per cui l'uomo è stato creato
creatura intelligente incarnata, "cittadino" del mondo e non
in esso due volte prigioniero: della "prigione" del corpo e di
quella della terra.41

L'anima dunque è sostanza autonoma; contiene un com­


plesso di facoltà distinte e inseparabili di cui si serve per la
sua complessa attività, sia nella sfera del mondo corporeo sia
in quella dello spirito: « L'anima umana » insegna l'Aquinate
«ha bisogno di molteplici attività e potenzialità . . . poiché es­
sa si trova sul limitare dei due mondi, quello delle creature
spirituali e quello delle corporee, e perciò in essa si incontra­
no le potenze della sua natura e delle altre » . Come si vede,

112
l'uomo non solo è principe dell'universo, essendone la crea­
tura più perfetta, ma è anche la creatura unica che, oltre a vi­
vere coscientemente nello spazio e nel tempo, partecipa della
divina eternità. Le potenze dell'anima sono ordinate gerar­
chicamente secondo i generi, come quello vegetativo, sensiti­
vo e intellettivo. Sicché << tutta la natura corporea >> dice Tom­
maso << è sottoposta all'anima e compie rispetto a essa una
funzione in quanto non si esercita per mezzo di un organo
corporale: questa è l'attività dell'anima razionale» .42
Della potenza vegetativa è propria la nutrizione e la ripro­
duzione; a quella sensitiva appartiene la sensazione, sia ester­
na (i cinque sensi) che interna (sensorio comune, immagina­
zione, memoria ecc . ) ; la potenza intellettiva è l'intelletto,
distinto in speculativo (teoretico) e pratico. L'intelletto specu­
lativo è potenza conoscitiva, distinta in: a ) intelletto possibi­
le, come potenza spirituale del conoscere in universale; h) in­
telletto agente che ne è principio di attuazione; c) ragione,
intesa come attività logico-discorsiva. L'intelletto pratico è: a )
coscienza, consapevolezza dell'atto d a compiersi, nella situa­
zione concreta, come <<verum » ; b) base della libera volontà,
cioè della potenza appetitiva dell'anima per il possesso del­
l'ente come « bonum>> ; c) una capacità di afferrare i principi
primi dell'ordine morale, ossia la sinderesi, abito speciale del­
l'anima con cui la ragione intuisce le norme del retto e del
giusto da attuare.
Spesso si afferma che Tommaso, esaltando il valore dell'in­
telletto, ha sacrificato l'affettività; quindi il suo sistema altro
non sarebbe se non esagerato intellettualismo. Ma ciò non
pare esatto se si esamina brevemente la sua dottrina a tal
proposito. L'intelletto, in ordine logico, in sé e per sé, per
Tommaso << è assolutamente superiore e più nobile della vo­
lontà» . E ciò non perché l'Aquinate disconosca il valore della
volontà, ma perché << l'oggetto dell'intelletto è più semplice e
assoluto dell'oggetto della volontà >> dice; e poi prosegue:

l'oggetto dell'intelletto è la stessa essenza del bene desiderabile,


mentre il bene desiderabile, l'essenza del quale è nell'intelletto,
è oggetto della volontà . . . Ma da un punto di vista relativo in
rapporto ad altro, si può constatare che la volontà è talora su­
periore all'intelletto, cioè quando l'oggetto della volontà è po-

113
sto in una cosa più pregevole dell'oggetto dell'intelletto, come
se dicessi che l 'udito [paragonato alla volontà] è relativamente
più nobile della vista [paragonata all'intelletto] in quanto la co­
sa che suona è più pregevole di un'altra, che è colorata; per
quanto in sé e per sé la vista sia superiore al suono . . . L'atto del­
l'intelletto dunque consiste nell'intendere l'essenza della cosa
conosciuta presente nel soggetto intelligente; l'atto della vo­
lontà, invece, si compie in quanto la volontà si protende la cosa
stessa come è in sé nella sua realtà oggettiva.43

Ciò significa, più brevemente, che << nihil volitum quin


praecognitum >> , in quanto la volontà si esprime positivamen­
te solo appetendo e raggiungendo il bene che l'intelletto le
presenta come vero; in tal modo l'intelletto <<secundum se et
sempliciter altior et nobilior est voluntate» , proprio per quel­
la visione critico-realistica con cui l'Aquinate analizza la na­
tura umana sostanziata di razionalità che coscientemente e li­
beramente si attua.
Per Tommaso Dio è presente come creatore in ogni realtà
in atto (è la dottrina della "conservazione" che rappresenta
l'attualità perenne della creazione); pertanto, anche le azioni
umane - comprese le azioni libere studiate dalla morale - so­
no rese possibili dall'intervento di Dio che dà loro l'essere,
senza il quale non sarebbero possibili: « Dio ha dato l'essere a
tutte le cose nel loro inizio, e continua a dare loro l'essere fin­
ché esistono; di conseguenza, Dio non solo fornisce alle crea­
ture determinate capacità operative nel momento in cui ven­
gono all'esistenza, ma per tutta la loro durata. Se l'influsso
divino cessasse, ogni azione risulterebbe impossibile >> .44 Que­
sto infl usso metafisico di Dio creatore nelle azioni della crea­
tura viene chiamato concorso (concursus) e significa che il
rapporto tra Dio (come prima causa ) e la creatura non si per­
de mai, nemmeno quando la creatura è a sua volta una causa
(causa secunda); ma il concorso divino, proprio perché tra­
scendente, non altera bensì rende possibile la natura delle
operazioni specifiche di ogni ca usa seconda; se si tratta di
una causa seconda libera, come nel caso dell'uomo, il con­
corso divino non elimina tale libertà ma è proprio ciò che la
rende possibile e la attua.

1 14
La gnoseologia

La conoscenza per Tommaso non è semplice contatto mate­


riale dei sensi con gli oggetti esterni (Democrito, Epicuro) , né
ricordo di una lontana visione (Platone) ; non è neppure il ri­
sultato di una intuizione dell'azione di Dio nel mondo a ope­
ra di una illuminazione divina ( Agostino e Bonaventura) ; è
frutto di un processo astrattivo, già insegnato da Socrate e
approfondito da Aristotele. Infatti a Socrate viene attribuita
da Platone la scoperta dell'astrazione intellettiva dalla quale
ha origine il concetto o conoscenza universale, cioè la verità
metafisica delle cose sensibili; Aristotele poi aveva insegnato
che l'intelletto agente costituisce il principio attivo di ogni
soggetto conoscente. I pensatori i slamici finirono per cor­
rompere questa dottrina separando l'intelletto dal soggetto e
identificandolo con una potenza unica, come si è visto, che
esisterebbe al di fuori e al di sopra del mondo e che attuereb­
be la conoscenza nei singoli soggetti. Tommaso, insomma,
sviluppa e approfondisce il processo astrattivo analizzato da
Aristotele, poiché si rende conto della necessità dell'astrazio­
ne da parte dell'intelletto individuale per la conoscenza delle
cose.
Gli enti del mondo della nostra esperienza, infatti, essendo
di natura materiale, differiscono dalle potenze intellettive, le
quali sono di natura spirituale; perciò è impossibile la cono­
scenza intuitiva, intesa come contatto immediato fra l'intel­
letto e le cose. D'altra parte l'intelletto, pur essendo spiritua­
le, non può cono scere intuitivamente neppure l'oggetto
spirituale (l'anima, gli angeli, Dio), poiché la sua natura, co­
stituendo la forma del corpo, implica un legame metafisica
con la materia che non le permette alcuna conoscenza se non
per mezzo di analogie e astrazioni che trovano il loro princi­
pio o punto di partenza nell'esperienza sensibile. Quindi l'in­
telletto, facoltà spirituale, è privo di idee che non derivino
dall'esperienza; senza l'esperienza è «tamquam tabula rasa in
qua nihil scriptum est» , una tavoletta bianca su cui nulla v'è
di quanto è in noi e attorno a noi.
Perciò nel processo conoscitivo è necessario distinguere
due momenti importanti, la sensazione e l'intellezione.
In Tommaso si riscontra dunque, come in Aristotele, un

1 15
giusto empirismo che però non impedisce di concepire l'espe­
rienza come dotata anche di nozioni intellettuali: egli scrive:
<< Omnis nostra cognitio incipit a sensu » ; non si può parlare
di conoscenza, dunque, se non attraverso la sensazione: ciò
non significa che il processo conoscitivo si identifichi con la
sensazione, come vorrebbe il sensismo (Hume) , che limita la
conoscenza alla sfera del particolare. La conoscenza non può
essere identificata con la sensazione, ma essa trova nell'espe­
rienza sensibile il presupposto fondamentale di cui l'intelletto
si serve per la genesi delle idee, che costituiscono appunto
l'apprensione dell' universale, la piena conoscenza. Nella sen­
sazione è necessario considerare due aspetti: l'impressione
esterna e la percezione interna; i sensi esterni - potenze passi­
ve rispetto agli oggetti - vengono impressionati dal mondo
materiale; questa impressione è la << specie sensibile impres­
sa » , cioè il complesso di qualità che i sensi ricevono dall'og­
getto; in ciò consiste l'impressione esterna ed è il fondamento
iniziale di tutto il processo. I sensi esterni reagiscono alle im­
p ressioni comunicandole ai sensi interni; a b biamo così la
<<specie sensibile espressa )) ; si tratta di <<phantasmata)) o im­
magini di quegli oggetti particolari che hanno impressionato
i sensi esterni.
L'intellezione è la conoscenza dell'ente nel suo actus essendi
e nella sua essenza universale, che per Tommaso si coglie con
l'astrazione; astrarre in generale significa considerare soltanto
alcune dimensioni di un oggetto tralasciandone altre; nel pro­
cesso gnoseologico vuoi dire generalizzare, andare al di là de­
gli aspetti particolari, universalizzare, trascendere cioè le note
individuali e contingenti (tempo, luogo, figura ecc . ) dell'og­
getto percepito dai sensi. L'a strazione così intesa è attività
esclusivamente spirituale; quindi non può essere che intelletti­
va. Ma, per Tommaso, anche l'intelletto è potenza passiva,
<<intellectus possibilis», intelligenza in potenza. È necessario
perciò distinguere, come nella sensazione, due aspetti della in­
tellezione, caratterizzati uno dalla <<species intellegibilis im­
pressa)) ' o astrazione dell'universale per mezzo dell'intelletto
agente, e l'altro dalla <<species intellegibilis expressa )) ' o intel­
lezione completa, per mezzo dell'intelletto possibile diventato
attivo.
Il fantasma infatti, cioè l'immagine sensibile, diventa og-

116
getto di u na l uce connaturata a ll'anima: è la luce dell'intellet­
to agente; questo di per sé non è una facoltà conoscitiva, ma
è attività astrattiva, cioè selettiva, in q uanto spoglia il fanta­
sma delle qualità particolari e vi coglie le note universali.
L'intelletto agente fa ciò inconsciamente, poiché la vera fa­
coltà conoscitiva è l'intelletto possi bile che è intelligenza in
potenza; l'intelletto agente però, a differenza di quello possi­
bile, è attività; quindi costituisce il principio attivo dell'intel­
letto possibile. Tale attività è luce spirituale, come s'è visto,
che spirirualizza il fantasma degli oggetti percepiti dai sensi;
si tratta di una facoltà spirituale che, pertanto, può assimila­
re il fantasma solo generalizzandolo, cioè facendolo simile al­
la sua natura, semplice e universale, quindi universalizzando­
lo. L' universalizzazione costituisce l ' oggetto che l'intelletto
agente imprime all'intelletto possibile; perciò viene chiamata
«species intellegibilis impressa » e in ciò appunto consiste l'a­
strazione.
A questo punto l'intelletto possibile entra in possesso della
specie intelligibile impressa , cioè della nozione impressagli
dall'intelletto agente, e l'apprende come un quid universale,
come un essere ideale, che esso poi mette in relazione con
l'oggetto esterno da cui i sensi avevano ricavato il fantasma;
da tale relazione l'intelletto esprime la conoscenza. In ciò
consiste la «species intellegibilis e�ressa» , cioè il << verbum
mentis», o parola interiore, ossia concetto; il concetto perciò
è intellezione in atto, termine della cognizione. Si tratta della
visione mentale, la quale altro non è se non la riproduzione
spirituale dell'oggetto, formata dall'intelletto possibile al mo­
mento in cui viene attuato dall'intelletto agente. Siamo così
alla <<simplex apprehensio » ; l'intelletto cioè è entrato in pos­
sesso della prima nozione di ente, cioè della presenza dell'og­
getto nel soggetto, che equivale alla coscienza ontologica .
Dalla semplice apprensione, dalla coscienza ontologica cioè,
nasce il giudizio; questo consiste nell'attività consapevole con
cui l'intelletto coglie le relazioni ontologiche e logiche tra l'ente
intelligente e l'ente oggetto, cioè tra il conoscente e il conosciu­
to. Da tali relazioni si ha la visione della verità: la verità, per
Tommaso, è dunque la visione intellettiva della corrisponden­
za che intercorre tra l'oggetto percepito dai sensi e il concetto
che l'intelletto se ne fa, possedendone la forma, che ha acqui-

117
stato con la sua intelligibilità astrattiva; in altre parole la verità
è l' <<adaequatio intellectus et rei» . I..;intelligere (o intellegere) è
sempre interpretato da Tommaso come actus intellectus, cioè
come esercizio della facoltà conoscitiva che si esplica prima
nella simplex apprehensio (che direttamente coglie l'essenza
della cosa ma attinge indirettamente l'essere della cosa) , poi nel
iudicium (che invece attinge direttamente l'essere come atto ra­
dicale e fondante la cosa ) e infine nel ratiocinari (che consiste
nell'indagare intorno alla cosa conosciuta, con lo scopo di
scomporne le varie parti, proprietà, relazioni ecc . ) . Secondo
quanto suggerisce la stessa etimologia, l'intelligere dell'uomo è
un « leggere dentro » la cosa appresa dai sensi nella sua esterio­
rità fenomenica.45
Il conoscere così d elineato non consiste in un processo
meccanici stico d ove tutto avviene secondo un succedersi
schematico di fenomeni fisico-sensibili e di norme logiche e
tecniche, ma è sforzo ascensivo che l'anima compie incessan­
temente per possedere se stessa, giacché l'uomo, come sap­
piamo, è essenzialmente ente razionale. Quindi, l'astrazione
gli è necessaria, poiché gli oggetti che lo circondano e il suo
stesso essere fisico sono individuali e particolari; mentre l'in­
telletto, essendo una natura spirituale, e vivendo implicato
nella materia, come forma di questa, può conoscere solo in
universale. Ma l'intelletto dove attinge l'universale ? Ci tro­
viamo di nuovo di fronte alla questione degli universali, che
Tommaso risolve con una sintesi equilibrata delle soluzioni
precedenti. Per l'Aquinate l'universale va considerato sotto
un triplice aspetto: ante rem o universale teologico, in re o
universale metafisica, e post rem o universale logico.
a) A nte rem è l'universale considerato prima delle cose,
cioè prima degli oggetti, ed è l'universale-causa, Dio, in cui si
identificano essenza ed esistenza, intelligibile e intelletto.
b) In re è l'universale negli esseri particolari; ciò è evidente,
poiché se Dio ha creato tutte le cose, nelle creature vi deve es­
sere l'impronta trascendente e universale del loro creatore,
anche se le cose si manifestano nella loro individualità, parti­
colarità e contingenza.
c ) Post rem: quello stesso universale che è nella mente
creatrice di Dio, e che è nelle cose create, costituisce anche
l'oggetto della conoscenza, che l'umano intelletto raggiunge

118
per mezzo dell'astrazione, secondo i limiti della sua natura.46
Tommaso in numerosi passi non teme di indicare i limiti del­
la conoscenza umana quando indaga le realtà sensibili: « [Vi
sono] deficienze che riscontriamo ogni giorno nella nostra
conoscenza. Ignoriamo infatti molte proprietà delle cose sen­
sibili, e anche di quelle apprese dai sensi non siamo in grado
di scoprire perfettamente il perché dei molteplici aspetti» .47
Si potrebbe osservare che questa consapevolezza del limite
preannuncia l'affermazione della finitezza dell'uomo ( unita
alla sua storicità) operata da Heidegger. Certo, rispetto al ra­
zionalismo moderno (in particolare nel suo esempio più pa­
radigmatico quale è l' idealismo hegeliano) si può accettare
una convergenza fra tomismo e pensiero heideggeriano. Ma
si è ben lontani da una identificazione di prospettive. Soprat­
tutto perché i concetti tomistici di actus essendi e di intellec­
tus si sottraggono a ogni relativismo storicista, sia antologico
sia gnoseologico.
Citando di nuovo Eugenio Toccafondi, possiamo conclu­
dere dicendo che

Tommaso anche a questo proposito non solo non è superato,


ma vale invece a proiettare la sua luce discriminatrice del vero
dal falso. A lui non sfuggì la difficoltà che i segni linguistici
rinserrano se si riferiscono alle intenzioni dei singoli che ne
usano, ma l'errore o il vero che contengono possono sempre
esser paragonati con la verità oggettiva e quindi anche, rispet­
tivamente, confutati o approvati dalla ragione. Parimenti, con
l'atto del giudizio che afferma l'essere delle cose esistenti, ed è
perciò coscienza di adeguazione alle cose e quindi possesso in­
timo della verità, la conoscenza, secondo l'Aquinate, coglie
quell'ente o esistente realistico che nella "riduzione fenome­
nologica " husserliana sfugge alla coscienza, perché appunto
"messo tra parentesi", e quindi non ricostituibile nella sua
unità e totalità; e nell'esistenzialismo preoccupato solo dell'e­
sistenza del singolo nella sua concretezza, temporalità, contin­
genza e delle sue possibilità soggettive, è ridotto a esaurirsi in
analisi di esperienze esistenziali, privo di essenza e di verità