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APPUNTI E DOMANDE D'ESAME AGGIORNATI E IMMEDIATI
2. L'epoca statutaria
Nel 1848, all'indomani della concessione dello statuto albertino, la Camera dei
deputati e il Senato regio procedettero all'adozione di un regolamento
provvisorio non elaborato autonomamente, ma preparato dal Governo presieduto
da Cesare Balbo, su modello di quello francese. Si trattò di un lavoro non originale,
frutto di una delibera assunta senza discussione. Lo statuto albertino, rivolgeva
ampia attenzione alla disciplina strutturale e funzionale del Parlamento e
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dedicava 32 articoli alle due Camere. Per quanto riguardava la Camera dei
deputati, veniva sancito il carattere elettivo e la durata quinquennale, per il
Senato del regno c'era l'indicazione analitica delle categorie entro le quali Re
poteva nominare i senatori, infine per le disposizioni comuni alle due Camere,
emblematica era la previsione sulla obbligatorietà dello scrutinio segreto nella
votazione finale delle leggi. Il Senato si diede il suo regolamento definitivo nel 1850,
la Camera nel 1863, ma quello definitivo nel 1868. Nell'organizzazione del
procedimento legislativo il regolamento della Camera statutaria adottò il
"sistema degli uffici" per l'esame delle proposte di legge, a scapito dei modelli
alternativi: quello delle 3 letture, nel quale cioè l'Assemblea procede a 3 tipi di
esame di ciascun progetto di legge; e quello delle commissioni permanenti
specializzate per materia. Con il regolamento del 1868, si registrò un tentativo di
introduzione del metodo delle 3 letture ma il tentativo fallì. Nel 1886 fu poi creata
alla Camera, come organo permanente, la commissione (poi giunta) per il
regolamento, i cui membri, anziché essere estratti a sorte, erano nominati dal
Presidente dell'Assemblea. La commissione per il regolamento si fece promotrice,
nei due anni successivi, di una serie di modifiche puntuali, note nel loro complesso
come riforme "Bonghi". Da qui si assistette a un periodo di < crisi di fine secolo>
con un governo di destra che propose una serie di misure di restrittive e si scatenò
l'ostruzionismo delle sinistre. Allo scopo di superare queste difficoltà si adottarono
misure regolamentari intese a superare il problema del merito e poi del metodo.
Tutto ciò portò allo scioglimento anticipato e a nuove elezioni. La nuova Camera
ebbe buon gioco nell'azzerare le riforme parlamentari, Villa (presidente) costituì una
commissione incaricata di predisporre un nuovo regolamento. Questo stabilì che
la commissione per il regolamento sarebbe stata presieduta stabilmente dallo
stesso presidente dell'Assemblea e che i membri dell'ufficio di presidenza sarebbero
stati eletti con voto limitato, in modo da assicurare la rappresentanza delle
minoranze. A soluzioni analoghe giunse anche il Senato. In questo modo, si posero
le precondizioni per una fase di relativa stabilità parlamentare e
regolamentare, in coincidenza con l'età giolittiana. Nel corso di questa fase va
segnalata, nel 1912, l'introduzione dell'indennità parlamentare: questa fu prevista a
titolo di rimborso delle spese di corrispondenza, in modo tale da evitare un
contrasto con l'art. 50 dello statuto ai sensi del quale le funzioni di senatore e di
deputato non potevano dare luogo ad alcuna retribuzione o indennità.
Un vero e proprio momento di svolta si ebbe nel primo dopoguerra, subito dopo
l'adozione di una legge elettorale di tipo proporzionale , con cui il sistema
politico-istituzionale provò a rispondere all'ingresso delle masse nella vita pubblica
e allo sviluppo dei partiti politici: si ritenne infatti che all'adozione di un nuovo
sistema elettorale proporzionale, e al nuovo ruolo spettante ai partiti, dovesse
corrispondere un'organizzazione parlamentare per gruppi e commissioni
permanenti, in modo da superare i limiti di un regime parlamentare fondato
sull'individualismo e sul legame territoriale e da assicurare un rapporto più stretto
con l'esecutivo. La camera approvò nel 1920 dieci nuovi articoli, non inseriti nel
corpus del regolamento allora vigente, relativi ai gruppi parlamentari e alle
commissioni permanenti. Ciascun deputato era tenuto, sulla base della proprio
affiliazione politica, ad iscriversi ad un gruppo, in caso contrario finiva
automaticamente in gruppo detto "misto". Ai gruppi era poi affidata la designazione
dei propri rappresentanti nelle commissioni permanenti, articolate per materia. Si
ritenne di aumentare il numero delle commissioni permanenti e l'obbligo per ogni
deputato di far parte di una commissione permanente. Si delineò così il modello
organizzativo del "Parlamento dei partiti" che ebbe durata assai breve per effetto
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dell'avvento del fascismo. Nell'aprile 1924 fu votata una mozione a prima firma di
Dino Grandi, con la quale si dispose l'abrogazione delle modifiche parlamentari del
1920-1922 e il ritorno conseguente al sistema degli uffici. Si manifestò così il
disprezzo del fascismo verso la rappresentanza proporzionale e i partiti politici.
Questo disprezzo si manifestò poi con la riduzione di quasi tutti i diritti riservati alle
minoranze. Si aprì così un periodo di modifiche che segnò pesanti divieti, come il
divieto di mettere all'ordine del giorno un argomento che non fosse stato deciso dal
capo di governo, l'obbligo per i cittadini di eleggere candidati che si trovavano in
un'unica lista composta dal Gran consiglio del fascismo ed infine la sostituzione
della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni. Furono
create 12 commissioni legislative specializzate per materia e dotate di poteri
deliberanti. Ovviamente tutti i membri del nuovo modello istituzionale (camera dei
fasci) non venivano eletti ma scelti dal capo di governo. Il Senato invece restò in
piedi durante il periodo fascista, sia perché era un organo assai vicino alla
monarchia, sia perché il suo carattere non elettivo faceva si che fosse più agevole
mantenerne il controllo, anche attraverso la tecnica delle "infornate" di senatori. Fu
tolta ai senatori ogni autonomia legislativa e qualsiasi libertà di discussione e di
critica.
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b) La seconda novità attiene alla forma dello Stato: con l’allargamento del
suffragio ai cittadini maggiorenni di ambedue i sessi la sovranità appartiene al
popolo, e l’Italia diviene a pieno titolo uno Stato democratico. Dunque il Parlamento
non è più sovrano, ma costituisce una delle forme attraverso cui, in una democrazia
essenzialmente rappresentativa, si esercita la sovranità popolare.
Entrambe le novità sono state sottovalutate dalle prime Camere repubblicane che
hanno preferito privilegiare l’aspetto della continuità con il Parlamento statutario.
Tuttavia solo attraverso tali novità si può comprendere il mutamento del ruolo delle
Assemblee parlamentari che, per un verso, si trovano ad essere anch’esse
sottoposte, come gli altri organi costituzionali, alla Costituzione (benché siano esse
stesse titolari, pressoché esclusive, del potere di revisione costituzionale) e, per
altro verso, a vedersi affiancate forme più dirette di espressione della sovranità
popolare (anzitutto attraverso il referendum abrogativo e mediante l’attività dei
partiti politici e dei sindacati; e altresì, de iure condendo, alle reiteratamente
prospettate elezioni dirette del capo dello Stato e del capo dell’esecutivo).
Dunque, la Costituzione è la prima fonte del diritto parlamentare, in quanto
disciplina la struttura delle Camere, è fonte delle sue attribuzioni e contiene una
disciplina diretta, benché parziale, dei principali procedimenti parlamentari.
Interessa qui evidenziare come il costituente si sia limitato a richiamare una serie di
organi e istituti, con ciò evidentemente presupponendo uno sviluppo ad opera di
altre fonti (e anzitutto dei regolamenti parlamentari).
Peraltro, in taluni casi la costituzione si fa carico del problema di individuare la fonte
competente a sviluppare le sue previsioni (ad es. art. 72 che esplicitamente e
ripetutamente rinvia ai regolamenti parlamentari quanto alla disciplina del
procedimento legislativo). In altri casi ciò non accade, aprendo una serie di
problemi.
Accanto alla Costituzione, tra le fonti del diritto parlamentare vanno annoverate le
leggi costituzionali (anche quelle che non rivedono il testo della Carta
fondamentale); si pensi ad es. alle due leggi costituzionali che hanno previsto
commissioni bicamerali incaricate di procedere alle riforme istituzionali e
costituzionali, disciplinando altresì un procedimento di revisione costituzionale
derogatorio, rispetto a quello delineato dall’art. 138 Cost.
Va poi considerato il più recendte art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001 (i cui primi
articoli hanno profondamente modificato il titolo V della seconda parte della
Costituzione), nel quale il legislatore costituzionale assegna un nuovo compito ai
regolamenti di Camera e Senato: prevedere la partecipazione di rappresentanti
delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla commissione
parlamentare per le questioni regionali, in attesa che siano riviste le norme del
titolo I della parte seconda della Costituzione. Peraltro, se si va a rintracciare la
fonte istitutiva di tale commissione (art. 126 Cost.), essa prevede che la
commissione sia consultata sul decreto di scioglimento e che essa sia istituita nei
modi stabiliti con legge della Repubblica. Ecco dunque un primo caso in cui vengono
chiamati in causa, con riferimento allo stesso organo, sia i regolamenti delle due
Camere, sia la legge ordinaria, a riprova della sovrapposizione e dell’intarsio tra le
diverse fonti del diritto parlamentare. Dunque tra le fonti del diritto parlamentare si
riscontra spesso una fungibilità e quasi una permeabilità, anziché una gerarchia e
una competenza statiche.
E’ appena il caso di segnalare che tale previsione è rimasta lettera morta,
coerentemente del resto con la stagione di assai scarso riformismo regolamentare
che ha caratterizzato le Camere della XIV e XV Legislatura repubblicana.
2. I regolamenti di Camera e Senato
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legge dei quali è dichiarata l’urgenza e alle forme di pubblicità dei lavori delle
commissioni; in termini apparentemente facoltativi con riferimento all’approvazione
dei disegni di legge direttamente in commissione. Piuttosto curiosamente i
regolamenti parlamentari hanno sviluppato assai più quest’ultima competenza.
benché formulata in termini facoltativi rispetto alle altre due.
Sulla base di questi dati costituzionali, si è visto come la dottrina non abbia
comunque esitato ad individuare una riserva costituzionale di competenza a favore
dei regolamenti delle due Camere. Anzi, il caso dei regolamenti parlamenti è stato
ed è tuttora considerato come paradigmatica applicazione, nell’ordinamento
italiano, del criterio di competenza, qui inteso come fonte destinataria di una riserva
costituzionalmente esclusiva.
L’area di competenza del regolamento parlamentare, oltre che il procedimento
legislativo, riguarda anche una serie di altri settori materiali, che sono stati
identificati come segue:
1) organi interno delle Camere (Presidente, ufficio di presidenza, commissioni,
giunte ecc.)
2) componenti delle Camere (diritti e doveri dei singoli parlamentari; loro
organizzazione in gruppo)
3) procedimenti relativi alle diverse funzioni parlamentari
4) strutture di servizio e rapporto con i dipendenti delle Camere
5) rapporti che occasionalmente possono instaurarsi tra le Camere e i terzi
estranei
Rimane comunque un limite all’intervento dei regolamenti parlamentari, nel senso
che questi potrebbero muoversi fintanto che rimangano nell’ambito dell’attuazione
e dello sviluppo delle funzioni che la Costituzione attribuisce al Parlamento. Si tratta
di un ambito funzionale da intendersi evidentemente in modo ampio, in coerenza al
rango primario attribuito a tale fonte e con la natura di principio, propria di molte
disposizioni costituzionali relative al Parlamento. La giurisprudenza costituzionale,
pur richiamandosi espressamente alla “riserva di regolamento”, non ha fornito
chiarimenti quanto all’ambito materiale in cui tale riserva è destinata ad operare.
2.4. Il procedimento di formazione
Al procedimento di formazione dei regolamenti parlamentari l’art. 64 dedica invece
specifica attenzione, richiedendo che essi siano approvati da ciascuna Camera, a
maggioranza assoluta dei componenti. A partire dal 1993 questa previsione è stata
spesso criticata, in quanto tale quorum non sarebbe sufficiente ad assicurare
un’effettiva garanzia alle minoranze o all’opposizione in un Parlamento eletto con
meccanismi maggioritari.
Nel procedimento di revisione dei regolamenti parlamentari un ruolo assai incisivo
viene a giocare la giunta per il regolamento: tale organo, oltre a coadiuvare il
Presidente nell’interpretazione del regolamento, detiene infatti anche una sorta di
monopolio dell’iniziativa di revisione regolamentare. Al Senato tale monopolio è più
attenuato, limitandosi a stabilire l’obbligo di un previo esame in giunta tanto delle
proposte di modifica del regolamento, quanto degli emendamenti a esse riferiti.
Più diffusa e più innovativa è la disciplina dedicata alla questione del regolamento
della Camera, che ha in parte codificato e in parte corretto un lodo Iotti (intervenuto
nel 1981, in occasione dell’approvazione delle prime riforme regolamentari dirette a
limitare il manifestarsi dell’ostruzionismo posto in essere dal partito radicale). L’art.
16 r.C. ha deferito alla giunta lo studio delle proposte di revisione regolamentare e
soprattutto ha riservato ad essa quasi il “monopolio della penna” con cui tali norme
sono scritte. In sostanza, rispetto al testo proposto dalla giunta all’Assemblea, i
singoli deputati non possono presentare veri e propri emendamenti, bensì
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di verifica dei poteri. Discussa è la questione di quale spazio possa essere lasciato a
fonti secondarie, relativamente alle procedure elettorali, in presenza di una riserva
di legge. Ma anche al di là delle riserve di legge previste in Costituzione, la legge
ordinaria tende ad essere ampiamente utilizzata tutte quelle volte in cui si intende
dettare norme che richiedono la costruzione di procedimenti parlamentari nei quali
occorre delineare le posizioni giuridiche soggettive di soggetti esterni alle Camere.
Si tratta di ipotesi sempre più frequenti, posto che il Parlamento, da organo solitario
quale era nell’architettura dello Stato liberale ottocentesco, si è trasformato in
organo sempre più spesso chiamato a convivere e dialogare con altri soggetti,
istituzionali e non.
Il primo esempio di questo “intarsio” tra la legge e il regolamento parlamentare è
costituito dalla legge n. 14 del 1978, che introdusse il parere obbligatorio, ma non
vincolante delle commissioni parlamentari sulle nomine dei vertici degli enti
pubblici. E’ proprio durante l’iter parlamentare di tale legge che ci si pose il
problema dei limiti in cui una legge possa intervenire a disciplinare le procedure
parlamentari: la legge può attribuire una competenza ulteriore alle commissioni
parlamentari, non è però abilitata a individuare le modalità attraverso cui essa vada
esercitata, né a determinare i tempi per l’espressione del parere.
Ulteriori intarsi tra legge e regolamenti parlamentari si sono registrati negli anni
successivi, anzitutto riguardo alle procedure finanziarie. Un intarsio tra legge e
regolamento parlamentare si è verificato anche con riferimento alle procedure
comunitarie. Con l’individuazione, da parte della legge ordinaria, della legge
comunitaria annuale come strumento cardine per l’adeguamento dell’ordinamento
italiano alle direttive comunitarie, i regolamenti di Camera e Senato sono
successivamente intervenuti per delineare un iter per l’esame parlamentare di tale
disegno legislativo
Certo tutto ciò non deve far dimenticare le rilevanti differenze tra la legge ordinaria
e il regolamento parlamentare:
- procedimento formativo: la legge è bicamerale a maggioranza semplice, il
regolamento è monocamerale a maggioranza assoluta
- regime giuridico: la legge è soggetta al vaglio del Presidente della Repubblica e al
sindacato di legittimità costituzionale; inoltre, essa può essere abrogata totalmente
o parzialmente attraverso il referendum abrogativo.
Il panorama appena delineato fa sì, dunque, che l’ambito materiale riservato
integralmente e in via esclusiva al regolamento parlamentare risulti, in definitiva,
piuttosto limitato e che, invece, non manchino aree sulle quali si sovrappongono
norme legislative e dei regolamenti parlamentari. Ciò comporta che, riguardo a tali
aree, occorra individuare un criterio per la risoluzione delle possibili antinomie tra
legge e regolamento parlamentare. In proposito, una parte della dottrina ha
sostenuto il criterio cronologico. Altra parte della dottrina nega invece che sussista
un problema di tal fatta, ritenendo che tra i due atti-fonte si realizzi una sofisticata
divisione dei compiti, in nome del principio di cooperazione, idonea
tendenzialmente ad impedire ogni forma di antinomia tra legge e regolamento
parlamentare.
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4. Gli statuti dei gruppi, dei partiti e delle coalizioni: fonti di diritto
parlamentare?
Fonte del diritto parlamentare è ritenuta da alcuni altresì la normazione interna ai
singoli gruppi parlamentari: dunque, i regolamenti dei gruppi parlamentari (ove
esistenti); e, più a monte, anche gli statuti dei partiti cui essi in genere
corrispondono, o persino delle coalizioni (ovviamente, nella misura in cui tali atti
dettino norme relative all’attività parlamentare dei propri membri).
Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto in Inghilterra, va ricordato che in Italia
sono nati prima i partiti politici e poi le loro proiezioni parlamentari: ciò ha fatto sì
che la dimensione parlammentare del partito sia risultata spesso sacrificata
rispetto a quella extraparlamentare.È evidente che le qualificazioni di tali atti come
fonti del diritto parlamentare appare tutt’altro che pacifica, dipendendo
strettamente dalla scelta di campo operata dai diversi autori circa la natura
giuridica dei gruppi parlamentari: se si propende per la lettura dei gruppi come
associazione tra privati o come organi dei partiti politici, è ben difficile qualificare
come fonti del diritto i relativi regolamenti; se invece si opta per i gruppi come
organi delle Camere, è arduo sostenere che le regole che essi si danno siano
giuridicamente del tutto irrilevanti, almeno nell’ambito dell’ordinamento delle due
camere. In ogni caso, relativamente a tali atti sussiste un grave problema di
pubblicità, in quanto gli statuti dei gruppi parlamentari risultano assai poco
conoscibili. D’altronde, la scelta della mancata pubblicità degli statuti dei gruppi
parlamentari appare coerente con quella della mancata giuridicizzazione del diritto
interno ai partiti politici.
Una rilevanza nell’ordinamento parlamentare degli statuti dei gruppi è stata ora
sancita dall’art. 53 c. 7, r.S., introdotto nel 1988, il quale richiede che i “regolamenti
interni dei gruppi stabiliscano procedure e forme di partecipazione che consentano
ai singoli senatori di esprimere i loro orientamenti e di presentare proposte” sulle
materie in discussione. Nel momento in cui si accentuano ulteriormente, anche al
Senato, i poteri attribuiti ai capigruppo e all’indomani della generalizzazione del
contingentamento dei tempi e del voto segreto, ci si è preoccupati di assicurare una
qualche minima tutela delle minoranze interne ai gruppi. Molto si discute intorno al
valore di tale prescrizione: secondo alcuni si tratterebbe di una norma inutile o
comunque di carattere meramente esortativo, in quanto caratterizzata dall’assenza
di sanzioni; altri, al contrario, tendono a valorizzarla, rilevando come essa abbia
posto fine al tradizionale atteggiamento di indifferenza tenuto dai regolamenti
parlamentari rispetto agli interna corporis dei gruppi, delineando uno schema di
statuto con forti limiti all’autonomia della disciplina del gruppo.
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5. Le fonti-fatto
5.1. Le consuetudini costituzionali
Come è noto, le sole vere e proprie fonti-fatto sono costituite, nel nostro
ordinamento, dalle consuetudini: vale a dire, da comportamenti ripetuti nel tempo e
tenuti in quanto reputati giuridicamente obbligatori. Esse trovano ampio spazio nel
diritto parlamentare, caratterizzato, da un tasso particolarmente alto di politicità, e
perciò da un intenso bisogno di flessibilità. Esempi di consuetudini rilevanti per il
diritto parlamentare sono la questione di fiducia, consuetudine formatasi sulla base
di decisioni presidenziali, successivamente codificata prima nel regolamento della
Camera, poi in quello del Senato, ma la sua natura consuetudinaria rimane perché
le previsioni del rdC sono state superate dalle successive pronunce presidenziali e la
disciplina del rdS appare assai parziale, limitandosi a sancire il divieto di porre la
questione di fiducia su determinati oggetti; l’immunità di sede, che solo di recente è
stata codificata nel rdC al fine di poter essere più agevolmente opponibile nei
confronti dei soggetti terzi; e la non partecipazione del Presidente di Assemblea alle
votazioni che in quell’Assemblea si svolgono, che in genere è fatta risalire alla
decisione di Francesco Crispi (allora presidente della Camera statutaria) di
escludere il proprio nome dalla chiama dei deputati nel 1877.
Vi è poi una consuetudine di tipo orizzontale, in quanto interessa, almeno
potenzialmente, tutte le regole dettate dai regolamenti parlamentari: si tratta della
già ricordata consuetudine nemine contradicente, che consente di derogare a
singole disposizioni del regolamento in caso di assenso unanime sull’opportunità di
tale deroga.
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codificate dai regolamenti o da altri atti scritti, sia alcune regole di notevole rilievo
istituzionale, che talvolta sono suscettibili di essere qualificate come convenzioni o
persino come consuetudini parlamentari. Tra queste ultime si possono ricordare ad
esempio quelle attuative del principio costituzionale del bicameralismo paritario
perfetto, che richiedono l’alternanza delle due Camere nella presentazione del
programma di governo o nella trasmissione, in prima lettura, dei disegni di legge
finanziaria e di bilancio. O anche lo svolgimento in sedi alterne delle sedute di
indagini conoscitive avviate da commissioni congiunte della Camera e del Senato.
O, ancora, in caso di commissioni permanenti riunite, la regola per cui la presidenza
spetta al Presidente più anziano. Come di correttezza costituzionale potrebbero
essere qualificate le regole che limitano l’attività che le Camere possono svolgere in
momenti particolari del sistema politico-istituzionale (crisi di governo, dopo
l’adozione di un decreto di scioglimento, in pendenza di voto fiduciario, ecc.)
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Oltre che quando sia la Camera stessa ad accertare la mancanza dei requisiti per
l’elezione di un parlamentare, la cessazione della carica di parlamentare avviene
per la fine della legislatura o per dimissioni. Le dimissioni di un parlamentare
devono essere annunciate all’Assemblea. Se esse sono dovute alla circostanza che
il dimissionario riveste incarichi incompatibili col mandato parlamentare, delle
dimissioni si prende semplicemente atto, senza dibattito e senza voto. Se invece
sono motivate da ragioni diverse dall’incompatibilità esse devono essere accettate
dall’Assemblea con un voto esplicito.
2. Le immunità parlamentari
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accesa curiosità, a volte ai limiti del morboso da parte dei mass media e
dell’opinione pubblica. Sin dall’entrata in vigore del nuovo art. 68, si osservò che le
intercettazioni (ma lo stesso dovrebbe dirsi per le perquisizioni domiciliari, che
proprio nella sorpresa trovano una condizione essenziale per la loro riuscita) non
avrebbero potuto più essere efficacemente utilizzate dai magistrati inquirenti, i quali
quindi avrebbero dovuto rinunciare a una serie di strumenti per istruire l’accusa nei
confronti dei parlamentari.
Tuttavia, proprio la delicatezza di questo strumento investigativo giustifica la scelta
del legislatore costituzionale del 1993 a garanzia della funzione parlamentare, volta
a impedire che “l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa
essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo,
divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività”
parlamentare (intercettazioni indirette). Certo queste “intercettazioni indirette”
possono essere meramente “casuali”, ma potrebbero essere invece frutto di una
strategia investigativa volta a controllare tutte le utenze dei soggetti che
circondano il parlamentare, aggirando così la ratio dell’art. 68 comma 3.
La legge 140/2003 ha espressamente previsto che l’obbligo di richiedere
l’autorizzazione sussiste anche:
a) per l’acquisizione di tabulati di comunicazioni che si riferiscano a utenze
intestate al parlamentare
b) per l’utilizzo delle cosiddette “intercettazioni indirette” (riguardanti cioè le
comunicazioni del parlamentare, ma effettuate su utenze diverse da quelle a lui
intestate)
In questo secondo caso spetta al giudice per le indagini preliminari decidere della
rilevanza o meno dei verbali e delle registrazioni alle quali hanno preso parte
membri del Parlamento: disponendone la distruzione, over ritenuti irrilevanti; o, in
caso contrario, richiedendo, entro i 10 giorni successivi, “l’autorizzazione della
Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento
in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate”.
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55% dei seggi) e di consistenza variabile (idonea a portare cioè la lista o coalizione
a raggiungere tale quota), assegnato alla Camera su base nazionale e al Senato su
base regionale.
Più in dettaglio, tutti i seggi, sia alla Camera che al Senato, sono assegnati con un
sistema proporzionale (applicando il metodo del quoziente naturale e dei più alti
resti). Ma vi è una fondamentale correzione, nella distribuzione dei seggi,
determinata dal premio di maggioranza.
Alla Camera, il premio va alla coalizione di liste o alla lista che abbia ottenuto a
livello nazionale il maggior numero di voti: esso assicura allo schieramento vincente
almeno 340 seggi (seggi che sono sottratti alle altre liste o coalizioni perdenti, tra le
quali vengono divisi proporzionalmente 277 seggi). Il premio di maggioranza scatta
solo se la coalizione vincente non è riuscita ad ottenere in modo naturale almeno
340 seggi. Per avere maggiori chances di ottenere il premio i partiti sono così
“costretti” ad aggregarsi in coalizioni preelettorali.
Alla Camera, stabilito quale coalizione ha vinto, si procede, in un secondo momento,
alla ripartizione proporzionale dei seggi tra le liste all’interno delle coalizioni. Non
hanno diritto a seggi le coalizioni che non abbiano ottenuto almeno il 10% dei voti e
le liste singole con meno del 4% dei voti. I seggi assegnati a ciascuna coalizione
sono ripartiti tra le liste che ne fanno parte, salvo quelle che non abbiano ottenuto il
2% dei voti.
Gli eletti sono individuati sulla base dell’ordine in cui sono collocati nelle rispettive
liste: si parla perciò di liste bloccate.
Il sistema del Senato differisce da quello della Camera perché la ripartizione dei
seggi avviene tutta a livello regionale: non vi è perciò un premio di maggioranza
nazionale, ma tanti premi regionali, in tutte le regioni tranne Molise, Trentino –Alto
Adige e Valle d’Aosta. Le sogli di sbarramento sono più alte: il 20% per le coalizioni
e l’8% per le liste che si siano presentate singolarmente, al di fuori delle coalizioni.
Alla coalizione o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti nella
regione, viene attribuito, se non lo ha già raggiunto naturalmente, il 55% dei seggi
in palio in quella regione.
La combinazione di 17 premi regionali rende un’eventualità non improbabile la
formazione al Senato di una maggioranza diversa da quella della Camera.
Sulla formazione della maggioranza che dovrà dare la fiducia al Governo può
divenire quindi essenziale il ruolo dei sei senatori eletti nella circoscrizione Estero e
dei senatori a vita.
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I regolamenti, nel rispetto dello spirito dell’art. 67, assicurano tuttavia spazi ai
dissenzienti. Viene così tutelata la libertà del mandato del singolo parlamentare,
che, al di là dell’organizzazione partitica e politica di cui i gruppi sono espressione, è
la garanzia ultima dell’apertura del Parlamento al pluralismo culturale e sociale,
della sua piena capacità di rappresentanza.
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Per l’elezione del Presidente è necessaria, alla camera, nel primo scrutinio, una
maggioranza “costituzionale” di 2/3 dei voti dei componenti (al Senato basta invece
la maggioranza assoluta); al secondo scrutinio sono richiesti, sempre alla Camera,
2/3 dei presenti (al Senato è sufficiente, al terzo scrutinio, la maggioranza assoluta
dei presenti). Dopo il terzo scrutinio basta la maggioranza assoluta dei presenti alla
Camera (mentre al Senato si procede al ballottaggio tra i due precedentemente più
votati prevalendo, nel caso di parità, il più anziano).
Il Presidente viene ritenuto “uomo della Costituzione”, o garante, comunque
collocato in una posizione neutrale e super partes, assimilabile a quella del Capo
dello Stato. A consolidare questa raffigurazione ha contribuito la pratica, sino al
1994, di eleggere Presidente della Camera un esponente del maggior partito di
opposizione.
Dalla XII Legislatura l’elezione dei Presidenti è stato invece il primo atto di una
divisione netta tra maggioranza e opposizione.
Tutta la vita di ciascuna camera passa attraverso le mani del suo Presidente, che
esercita funzioni di mediazione e arbitrali innanzitutto nella programmazione dei
lavori parlamentari. È proprio il ruolo non notarile, ma profondamente discrezionale
nell’elaborazione della proposta di programma e di calendario dei lavori che sembra
fare oggi del presidente non un semplice arbitro, ma piuttosto il garante
dell’attuazione del programma legislativo della maggioranza.
Il Presidente regola lo svolgimento di ogni seduta, cui partecipa senza però votare. Il
presidente dà la parola, dirige e modera la discussione, mantiene l’ordine, pone le
questioni, stabilisce l’ordine delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne
annunzia il risultato.
In questa attività il Presidente interpreta e applica il regolamento, consultando nei
casi più complessi la giunta per il regolamento. Si tratta di decisioni inappellabili, si
pensi alle delicate decisioni sull’ammissibilità degli emendamenti.
Il Presidente tutela l’ordine dei lavori e, a tal, fine, dispone di poteri disciplinari nei
confronti dei parlamentari, irrogando, nei casi più gravi, sanzioni come la censura o
l’esclusione dall’aula per una o più sedute.
Più in generale, il Presidente coordina l’attività di tutti i soggetti e organi che
operano all’interno di ciascuna camera.
Ma le funzioni del Presidente non si esauriscono all’interno di ciascuna Camera. I
due Presidenti sono titolari di funzioni che incidono su alcuni snodi fondamentali
della nostra forma di governo.
La Costituzione affida al Presidente del Senato funzioni di supplenza del capo dello
Stato nel caso di un suo impedimento e parallelamente, per mantenere un equilibrio
tra le due figure e i due rami del Parlamento, al Presidente della Camera quella di
Presidente del parlamento in seduta comune, essa prevede inoltre che entrambi
debbano essere consultati dal presidente della Repubblica in caso di scioglimento
delle Camere.
I Presidenti hanno sviluppato nel tempo un più generale ruolo di “primi consiglieri”
del Capo dello Stato, consultati nei momenti più significativi della vita istituzionale.
Il legislatore, tra gli anni ’80 e ’90, ha affidato ai due Presidenti una serie di altre
funzioni, anche al di fuori degli ordinamenti delle due Camere: dalle delicatissime
attribuzioni in materia di controllo sulla regolarità del finanziamento dei partiti
politici, alla nomina o designazione dei componenti o presidenti di una serie di
organi, parlamentari e non. I Presidenti nominano, infatti, con atto congiunto, i
presidenti di alcune commissioni di inchiesta parlamentare e, soprattutto, i
componenti di vari organi esterni al parlamento. Si tratta essenzialmente degli
organi di “autogoverno” di alcune magistrature e di autorità indipendenti.
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Si può poi distinguere tra votazioni sommarie, per determinare il risultato delle quali
basta una valutazione a occhio da parte del Presidente; e qualificate, con le quali
invece viene analiticamente registrato nome e numero dei votanti.
Sia alla Camera che al Senato il metodo di votazione ordinario (palese e sommario),
e anche il più semplice, è quello per alzata di mano.
Su richiesta di 20 deputati o 15 senatori, si può procedere invece per votazione
nominale, che ormai da decenni si effettua con il sistema elettronico. Sia alla
Camera sia al Senato la votazione nominale con scrutinio elettronico è diventato
sempre più il modo ordinario di voto.
La regola generale è che le votazioni parlamentari si svolgono a scrutinio palese:
entrambi i regolamenti prevedono, però, la possibilità per trenta deputati o venti
senatori di chiedere, in relazione a determinate materie, lo scrutinio segreto. Vi
sono, poi, alcune votazioni da svolgersi necessariamente a scrutinio segreto ed altre
da effettuarsi per forza a scrutinio palese.
La regola oggi è quella dello scrutinio palese, si può richiedere lo scrutinio segreto
solo in relazione a determinate materie (cfr. quadro).
Sia alla Camera sia al Senato, sono necessariamente sottoposte a scrutinio segreto
– oltre, ovviamente, alle elezioni, cui si procede mediante schede – le votazioni
relative alle persone.
All’opposto, lo scrutinio segreto è vietato nelle votazioni concernenti le leggi
finanziarie e di bilancio e, più in generale, su disposizioni ed emendamenti che
comportino aumenti di spese o diminuzione di entrate.
Obbligatoriamente a scrutinio palese si svolgono le votazioni in commissione, con la
sola eccezione delle votazioni concernenti persone.
Il Governo può comunque, quale che sia la materia, fare prevalere il vincolo di
maggioranza mediante la posizione della questione di fiducia, precludendo così ogni
possibilità di chiedere la votazione segreta.
QUADRO 7.2. – LE MATERIE SU CUI SI PUÒ CHIEDERE IL VOTO SEGRETO
Le materie su cui è possibile chiedere il voto segreto sono quelle, delicatissime, dei
diritti e delle libertà previsti nella prima parte della Costituzione. Qui il possibile
ricorso al voto segreto è a piena tutela del libero mandato parlamentare,
agevolando la costruzione di maggioranze trasversali, che sfuggano al vincolo della
disciplina di gruppo.
Può esservi, inoltre, richiesta di voto segreto sulle modificazioni al regolamento di
ciascuna Camera.
QUADRO 7.3. – IL DIVERSO COMPUTO DEGLI ASTENUTI ALLA CAMERA E AL
SENATO
L’art. 48 r.C., dopo aver letteralmente ripetuto la regola costituzionale (le
deliberazioni dell’Assemblea e delle commissioni sono adottate a maggioranza dei
presenti), precisa però che sono considerati presenti a questo fine, solo coloro che
esprimono voto favorevole o contrario, delle astensioni i segretari si limitano a
prendere nota ai fini del numero legale (al raggiungimento del quale essi
concorrono).
Più vicino alla lettera della disposizione costituzionale, l’art. 107 r.S. stabilisce che le
deliberazioni sono prese a maggioranza dei senatori che partecipano al voto, ivi
compresi gli astenuti.
Al Senato, quindi, il numero degli astenuti è sommato a quello dei favorevoli e dei
contrari, per determinare il numero dei presenti che, diviso per due e aumentato di
uno, dà la maggioranza necessaria. Il voto di astensione rende perciò più difficile
raggiungere la maggioranza.
4.6. Lo scrutinio e il calcolo delle maggioranze (e degli astenuti)
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Una volta cominciata la votazione, questa non può essere interrotta e non è più
concessa la parola fino alla proclamazione del voto.
Per descrivere il momento dell’accertamento del risultato si parla di scrutinio. Non
rileva, da quel momento, l’effettiva volontà del votante.
L’eventuale errore non incide sul risultato. È quest’ultimo ad essere “accertato” dai
segretari, per essere poi proclamato dal Presidente: ai primi, dunque, la funzione di
contare e svolgere operazioni materiali di numerazione dei voti; al Presidente quella
di controllare queste operazioni e proclamare il risultato, con le formule, nelle
votazioni deliberative, approva o non approva. È sempre del Presidente, in ogni caso
di irregolarità, apprezzate le circostanze, il potere di annullare la votazione e di
disporne una seconda.
Alla proclamazione del risultato non si arriva qualora, come si è visto, manchi il
numero legale. Se tale numero c’è, quel che va accertato è se la somma dei voti
favorevoli alla proposta sottoposta al voto ottenga la maggioranza. Sul punto la
Costituzione fissa una regola: le deliberazioni non sono valide se non sono adottate
a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza
speciale (art. 64 comma 3).
Oltre alla maggioranza semplice, possono essere previste, purché con norma
costituzionale, maggioranze più elevate (altrimenti dette qualificate).
Si dice maggioranza “assoluta” la metà più uno dei componenti del collegio.
La maggioranza, sia essa dei componenti o dei votanti, è il numero minimo dei voti
favorevoli alla proposta in votazione perché essa possa ritenersi approvata.
Per le votazioni elettive il mancato raggiungimento del numero minimo previsto non
dà un esito di rigetto: non chiude quindi il procedimento, che continua con una
nuova votazione.
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integralmente alla decisione dei gruppi l’effettivo esercizio del diritto di parola del
singolo parlamentare.
Dunque, con il contingentamento dei tempi si stabilisce di dedicare un certo numero
di ore all’esame di un progetto di legge o di un argomento, nel momento in cui
questo è iscritto nel calendario dei lavori, eventualmente anche fissando il
momento in cui tale esame si concluderà, il più delle volte, con il voto finale.
Ribadito il principio generale per cui il tempo assegnato ad ogni argomento deve
essere rapportato alla sua complessità, si stabilisce che:
a) Dal tempo assegnato totale vengano sottratti i tempi per gli interventi dei
relatori, dei rappresentanti di Governo, dei deputati del gruppo misto (che a sua
volta è ripartito tra le componenti politiche, in base alla loro consistenza numerica),
per i richiami al regolamento, e, infine, per le operazioni di voto
b) Del tempo residuo dopo questa sottrazione, 1/5 sia riservato per gli interventi
a titolo personale
c) I restanti 4/5 siano invece distribuiti tra i gruppi: una parte in misura uguale e
un’altra parte in misura proporzionale alla consistenza degli stessi; a ciò si aggiunge
la regola per cui, per l’esame dei disegni di legge governativi, va riservato ai gruppi
di opposizione un tempo complessivamente maggiore di quello attribuito ai gruppi
di maggioranza
Il potere di determinare il contingentamento dei tempi spetta, in linea generale, a
chi decide il calendario dei lavori: perciò, alla conferenza dei capigruppo, nel caso in
cui si raggiunga la maggioranza richiesta; oppure, ove tale maggioranza non si
ottenga, al Presidente di Assemblea. Se è stato applicato senza problemi al Senato,
molto sofferta è stata l’introduzione del contingentamento alla Camera, che ha
disposto delle cautele, soprattutto nella seconda fase del procedimento legislativo
(esame articoli e votazione finale).
Il contingentamento poi va deliberato all’unanimità della conferenza dei capigruppo
quando si tratti di progetti di legge:
a) Costituzionale
b) Vertenti prevalentemente su una materia su cui è possibile richiedere lo
scrutinio segreto, vale a dire relativa a diritti e libertà previsti nella prima parte della
Costituzione
c) Riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale o economica
riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione, su richiesta di un
gruppo parlamentare.
In ogni caso, una volta scaduti i tempi (contingentati) a disposizione dei gruppi
parlamentari, si procede solo alle votazioni, che si succedono una dietro l’altra, in
un clima un po’ surreale, e anche se il tempo preventivato per la loro effettuazione
fosse stato consumato tutto. A meno che il Presidente d’Assemblea non decida di
assegnare un tempo ulteriore a ciascun gruppo, o anche solo ai gruppi che hanno
esaurito il tempo a loro disposizione.
1.4. I rapporti per la programmazione in Assemblea e in commissione
Anche nelle commissioni trova applicazione la programmazione dei lavori, che è
affidata, oltre che ai loro presidenti, agli uffici di presidenza, integrati dai
rappresentanti dei gruppi: una sorta di mini conferenza dei capigruppo in
commissione.
Nella prassi tende ad essere prevalente una programmazione a cadenza
settimanale: in concomitanza, cioè, con l’invio delle convocazioni settimanali delle
commissioni, i cui lavori si devono incastrare negli spazi lasciati liberi
dall’Assemblea.
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Il potere di indirizzo politico consiste nella determinazione dei grandi obiettivi della
politica nazionale e nell’approntamento dei mezzi principali per conseguirli.
Rispetto alla funzione di indirizzo politico il Parlamento gioca indubbiamente un
ruolo attivo ed importante, in un circuito, che lo vede concorrere anzitutto con il
Governo e con il corpo elettorale, oltre che con il Presidente della repubblica e la
Corte Costituzionale (ai quali spettano essenzialmente poteri di garanzia).
Il contributo delle camere alla funzione di indirizzo politico si esplica attraverso tutti
i procedimenti parlamentari. In altri termini, un intervento delle Camere nel circuito
di indirizzo politico si verifica, a volte, anche mediante atti che si collocano in
procedimenti non prettamente di indirizzo: per es., interrogazioni, interpellanze,
audizioni, indagini conoscitive, quando non nell’esame di proposte di legge o nelle
inchieste parlamentari.
I procedimenti di indirizzo politico sono quelli con cui le Camere esplicitamente
assumono decisioni volte ad indirizzare l’attività di Governo. Tali procedimenti
riguardano la presentazione e l’esame di mozioni, risoluzioni e ordini del giorno.
3.2. L’origine storica e l’efficacia degli atti di indirizzo
3.3. La mozione
La mozione è un atto ad iniziativa non individuale diretto a provocare un dibattito e
una deliberazione dell’aula.
È uno strumento polivalente, che mette in moto un procedimento autonomo, che si
conclude con un voto dell’Assemblea. Un voto che solitamente definisce indirizzi
(ossia direttive parlamentari al Governo); ma può anche sanzionare comportamenti
(nel caso delle mozioni conclusive dell’esame di relazioni di commissioni
d’inchiesta); e persino esaurire i suoi effetti all’interno delle mura delle Camere. È
questa autonomia che fa della mozione il più incisivo tra gli atti di indirizzo.
Il testo della mozione si articola in genere in una premessa, che reca la motivazione
dell’atto, e in un dispositivo che, a seconda dei casi, recita: “impegna il Governo”,
se è un atto di indirizzo, ovvero “delibera”, se è una decisione che produce i suoi
effetti all’interno della Camera.
La mozione è innanzitutto oggetto di una discussione di carattere generale, chiusa
dalle dichiarazioni del Governo e dalle repliche. Se sono state presentate più
mozioni relative a fatti o argomenti connessi, sono discusse insieme e sono poste ai
voti secondo un ordine che eviti preclusioni.
Al Senato, dal 1988 sono disciplinate le mozioni a procedimento abbreviato: devono
essere discusse entro 30 giorni dalla loro presentazione.
Il valore degli indirizzi contenuti nelle mozioni è tutto lasciato al modo in cui si
sviluppano i rapporti tra le forze politiche e tra Governo e Camera e Senato, che, se
vogliono, possono chiamare a riferire sull’attuazione data a mozioni.
3.4. La risoluzione, in Assemblea e in commissione
La risoluzione è invece uno strumento ad iniziativa individuale, che in genere chiude
il dibattito, spesso iniziatosi con altri fini. Si parla di strumento prevalentemente
accessorio. Tale caratteristica rende poliedrico questo strumento. Risoluzioni
possono chiudere dibattiti originati nel modo più vario.
Non essendo prevista una specifica disciplina quanto all’ordine delle votazioni
talvolta si è proceduto a votare su più atti di indirizzo, tra loro in parte contraddittori
e in parte ridondanti. Alla fine è il Governo, che è il destinatario di questa attività, a
tirare le fila e a interpretare gli indirizzi parlamentari.
Risoluzioni sono anche gli atti che concludono procedimenti parlamentari tipizzati,
al termine di un’istruttoria svoltasi nelle commissioni permanenti.
La risoluzione, genericamente intesa, è anche lo strumento con cui le commissioni
parlamentari possono esprimere indirizzi. Il regolamento della Camera configura
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mani del Presidente della Repubblica – che il Governo è tenuto a presentarsi alle
due Camere per ottenere la fiducia.
Il discorso programmatico del Presidente del consiglio è oggetto di dibattito
parlamentare, in successione nelle due camere. Nel corso del dibattito, alla Camera
come al Senato, viene presentata, ad opera dei capigruppo di quella che sarà la
maggioranza, la mozione di fiducia: ossia quella specifica mozione,
necessariamente motivata e da votarsi per appello nominale, che, ai sensi dell’art.
94 comma 2 Cost., è lo strumento la cui approvazione, a maggioranza semplice è
richiesta perché le camere accordino la fiducia al Governo.
La motivazione delle mozioni di fiducia è consistita unicamente in un riferimento
esplicito ma generico ai contenuti delle dichiarazioni programmatiche rese dal
Presidente del Consiglio. Una motivazione, dunque, ob relationem.
L’art. 94 prevede per la mozione di fiducia (come per tutte le votazioni fiduciarie), la
necessità di un voto per appello nominale: ossia il ricorso ad una forma di votazione
palese e in qualche misura “solenne” e inequivocabile, dal momento che richiede a
ciascun parlamentare di passare davanti al banco della presidenza e di rispondere
individualmente, ad alta voce, alla “chiama” dicendo “si”, o “no”, o “mi astengo”.
D’altronde, è per effetto della votazione della mozione di fiducia che si
costituiscono, in Parlamento, qualificandosi giuridicamente, la maggioranza e
l’opposizione.
Per l’approvazione della mozione di fiducia, è sufficiente la maggioranza semplice.
Nel disciplinare il procedimento di approvazione della mozione di fiducia, i
regolamenti parlamentari si sono limitati a riprodurre esattamente il dettato
costituzionale.
4.3. La mozione di sfiducia
Vi è una regola generale per cui l’obbligo di dimissioni del Governo non discende da
ogni votazione parlamentare nella quale il Governo “vada sotto” (nella quale, cioè,
venga respinta una proposta del governo o vi sia stato il parere favorevole del
Governo; o, viceversa, venga approvata una proposta su cui il Governo abbia
espresso parere contrario), così superandosi, mediante il disposto dell’art. 94,
comma 4 Cost. (“il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta
del Governo non importa obbligo di dimissioni”). E, allo stesso tempo, si delinea uno
strumento tipizzato, la mozione di sfiducia, dalla cui approvazione deriva, per il
Governo, l’obbligo giuridico di presentare le proprie dimissioni.
In questa logica, l’art. 94 comma 2 estende alla mozione di sfiducia i due requisiti
richiesti per la mozione di fiducia: la votazione per appello nominale e la
motivazione (cioè concordando anche un indirizzo alternativo o esporre degli
elementi comuni di critica nei confronti del suo operato).
Ai due suddetti requisiti altrettanti ne aggiunge l’art. 94 comma 5, questi
specificamente rivolti alla sola mozione di sfiducia: la necessità che essa sia
sottoscritta da almeno un decimo dei componenti della Camera o del Senato; la
previsione di un intervallo minimo di 3 giorni tra la sua presentazione e la sua
votazione.
La fissazione di un quorum per la presentazione della mozione di fiducia scoraggia
l’uso banalizzante o ostruzionistico dello strumento della mozione di sfiducia. Ma
non è un quorum particolarmente difficile da raggiungere, la disincentivazione sta
nel fatto che le continue presentazioni di mozioni di sfiducia dall’opposizione sono
respinte se l’opposizione non riesce a portare con sé almeno una parte dei
parlamentari di maggioranza.
L’intervallo di almeno 3 giorni tra presentazione e votazione della mozione di
sfiducia è invece diretto ad impedire “assalti alla diligenza”, ad evitare cioè colpi di
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Non è un diritto privo di limiti, innanzitutto nei tempi del suo esercizio: i regolamenti
dettano termini e modalità per la presentazione degli emendamenti. Sfuggono
tendenzialmente ai vincoli temporali il Governo e la commissione.
Non tutti gli emendamenti presentati sono però esaminati. Ai Presidenti è
riconosciuto un rilevante potere circa la loro ammissibilità o proponibilità. Non sono
ammissibili emendamenti relativi ad argomenti estranei all’oggetto del testo in
esame.
Al Senato sono espressamente ritenuti inammissibili gli emendamenti “privi di ogni
reale portata modificativa”.
Sugli emendamenti presentati in Assemblea vanno poi acquisiti i pareri delle
commissioni bilancio, per i profili di copertura finanziaria.
Solo al Senato il parere contrario della commissione bilancio rende non votabile
l’emendamenti. Alla Camera come al Senato, nessun vincolo nella procedura
d’Assemblea è indotto dal parere contrario della commissione affari costituzionali.
Gli emendamenti sono illustrati non autonomamente, ma nell’ambito della
discussione relativa a ciascun articolo, nella quale ogni parlamentare, anche se
presentatore di più emendamenti, può intervenire una sola volta.
Sugli emendamenti vengono acquisiti i pareri del Governo e del relatore.
Arriva quindi il momento più delicato: quello delle votazioni sugli emendamenti e
poi su ogni articolo, come prescritto dalla Costituzione. Gli emendamenti sono messi
in ordine e posti in votazione, ove si riferiscano alla stessa porzione di testo, a
partire da quelli che più si allontanano dal testo base. Dunque, prima gli
emendamenti interamente soppressivi; poi quelli parzialmente soppressivi; quindi
quelli modificativi; e, infine, quelli aggiuntivi. I subemendamenti sono invece votati
subito prima degli emendamenti cui si riferiscono.
Sempre per garantire un risultato coerente delle votazioni, il Presidente non mette
in votazione gli emendamenti che dichiara “preclusi”, perché oggettivamente
incompatibili con precedenti votazioni, o “assorbiti” dall’approvazione precedente di
un testo.
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avanti e indietro (la navette): anche più di una volta, fino a che non via sia una
deliberazione conforme, sul medesimo testo, di Camera e Senato.
I regolamenti prevedono comunque che la Camera che ha approvato per prima il
testo debba limitare il suo esame – nel caso non infrequente che l’altra Camera
glielo rimandi modificato – alle sole parti modificate. Ne discende l’inammissibilità
degli emendamenti che non si trovino in diretta correlazione con le modifiche
apportate dall’altro ramo del parlamento.
5.4. I procedimenti in sede legislativa (o deliberante) e in sede redigente
L’art. 72 comma 3 Cost. ha aperto la strada all’approvazione delle leggi
direttamente in commissione, senza bisogno di passare per l’Assemblea. Tale
articolo affida infatti ai regolamenti parlamentari il compito di stabilire in quali casi e
forme l’esame e l’approvazione die progetti di legge sono deferiti alle commissioni,
sempreché queste siano composte in modo da rispecchiare la proporzione dei
gruppi parlamentari. La commissione viene denominata “in sede legislativa” alla
Camera, e “in sede deliberante” al Senato. Vi è un procedimento che può
considerarsi intermedio tra quello in sede referente e legislativa (o deliberante): in
sede redigente (alla commissione la redazione del testo; all’Assemblea la sua
approvazione finale, senza modifiche).
Tali procedure sono circondate in Costituzione da una serie di cautele. Per effetto
della c.d. “riserva d’Assemblea” i procedimenti in sede legislativa non possono
essere seguiti per i progetti di legge in materia costituzionale, elettorale, di delega
legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, di approvazione di
bilanci e dei conti consuntivi; a questo elenco i regolamenti parlamentari
aggiungono anche i disegni di legge di conversione dei decreti-legge, i disegni di
legge finanziaria e le leggi rinviate al Presidente della repubblica.
Per espressa prescrizione costituzionale, poi, il Governo, ma anche le minoranze
parlamentari, possono ottenere, in qualsiasi fase del procedimento, il passaggio alla
procedura normale (rimessione in Assemblea).
Il regolamento della Camera afferma che l’assegnazione in sede legislativa può
essere proposta dal presidente quando un progetto di legge “riguardi questioni che
non hanno speciale rilevanza di ordine generale”; ma subito dopo dice che possono
essere assegnati in sede legislativa anche i progetti di legge rilevanti, “qualora
rivestano particolare urgenza”.
La decisione iniziale spetta al Presidente d’assemblea, al momento
dell’assegnazione in commissione. Per il trasferimento di sede, invece, occorre oltre
all’assenso esplicito del Governo, una richiesta unanime della commissione al
Senato; una richiesta di tutti i rappresentanti dei gruppi in commissione o di più dei
4/5 dei componenti della commissione, alla Camera.
Si tratta di quorum esattamente speculari rispetto a quelli che la Costituzione
richiede per la rimessione in Assemblea.
I regolamenti configurano in modo notevolmente diverso la sede redigente.
Al Senato essa costituisce un vero e proprio tertium genus, ossia un procedimento
intermedio tra sede referente e deliberante, che sin dall’inizio viene scelto dal
Presidente e che affida all’aula la sola votazione finale.
Alla Camera, invece, al sede redigente è disegnata come una sorta di
subprocedimento all’interno della sede referente. È l’Assemblea, chiusa la
discussione generale, a decidere di affidare alla commissione la definizione degli
articoli, riservandosi il voto sugli stessi articoli e il voto finale.
Quanto alle modalità di svolgimento dei lavori della commissione, nel caso delle
sedi deliberante (o legislativa) e redigente, si applicano, in quanto compatibili, le
medesime regole previste per l’esame in Assemblea.
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Con la legge di conversione, dunque, le Camere stabilizzano gli effetti del decreto-
legge, rendendo permanente la disciplina da essi dettata, la quale peraltro viene in
genere ampiamente modificata ad opera della stessa legge di conversione,
mediante emendamenti riferiti solo formalmente a questa, ma in realtà modificativi
del testo del decreto-legge.
Anche quanto i margini di emendabilità della legge di conversione, i due
regolamenti seguono strade differenti.
6.6. Leggi di delega (e di delegificazione)
Con l’approvazione di una legge di delega il Parlamento demanda al Governo, ai
sensi dell’art. 76, l’esercizio della funzione legislativa su un certo oggetto. Non si
tratta di una delega “in bianco”, ma di una delega che, oltre a riguardare un oggetto
definito, deve essere temporanea e parziale: nel senso che vale per un tempo
limitato e non consente un’attività del tutto libera al Governo, posto che deve
svolgersi nel rispetto di principi e criteri direttivi indicati dal legislatore delegante.
È dunque anzitutto al legislatore delegante che l’art. 76 rivolge le sue prescrizioni, a
tutela del Parlamento nei confronti di se stesso, in modo da evitare il ripetersi di
esautoramenti della funzione legislativa parlamentare come quelli verificatisi in
epoca statutaria e fascista. Alla medesima ratio sembra rispondere l’inclusione dei
disegni di legge di delega all’interno della riserva di Assemblea ad opera dell’art. 72
comma 4. Il disegno costituzionale non osta, pertanto, a che lo stesso legislatore
delegante fissi limiti ulteriori, in particolare di tipo procedimentale.
Questi limiti ulteriori consistono in genere nel coinvolgimento preventivo di organi o
soggetti di vario genere, chiamati ad esprimere il loro parere.
La previsione assolutamente più frequente è quella dei pareri delle commissioni
parlamentari.
È per effetto della previsione del parere di commissioni parlamentari sugli schemi di
decreti legislativi che il dialogo tra Parlamento e Governo, già realizzatosi durante
l’approvazione della legge di delega, ha modo di proseguire anche
successivamente. Con un’inversione dei ruoli, però: nella fase di approvazione della
legge di delega l’ultima parola spetta al Parlamento; al contrario, nella fase di
adozione del decreto legislativo, la decisione finale compete al Governo.
A queste due fasi, necessarie, se ne aggiunge sempre più spesso una terza, a
carattere eventuale. Accade infatti ormai con regolarità che la legge di delega,
accanto alla delega principale, preveda una delega accessoria, in virtù della quale,
entro un termine successivo alla scadenza della delega “principale”, il Governo è
delegato ad adottare ulteriori decreti legislativi “integrativi e correttivi”, nel rispetto
dei medesimi principi e criteri e direttivi fissati nella legge di delega e seguendo lo
stesso procedimento delineato per l’adozione del decreto legislativo “principale”.
Simile allo schema procedimentale della delega legislativa, dal punto di vista del
“dialogo” tra Parlamento e Governo, si rivela essere quello della delegificazione.
6.7. Legge finanziaria, di bilancio, rendiconto e assestamento
Mentre la Carta costituzionale fa esclusivo riferimento alle leggi di approvazione del
bilancio e del rendiconto (ponendo all’art. 81 una riserva di iniziativa a favore del
Governo e una riserva di approvazione a favore del Parlamento), la legislazione in
materia di contabilità pubblica è venuta delineando una gamma di provvedimenti
legislativi decisamente più articolata. Si è deciso di valorizzare non la legge di
bilancio, ma la “manovra di bilancio”, avente il suo fulcro in un altro disegno di
legge, da esaminarsi insieme a quello di bilancio: il disegno di legge finanziaria.
Successivi interventi legislativi hanno ridefinito il contenuto proprio della legge
finanziaria e ulteriormente arricchito gli strumenti che compongono la manovra di
bilancio, includendovi il DPEF e i disegni di legge collegati.
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Si ritiene che il procedimento di formazione delle leggi non possa essere oggetto di
sedute segrete.
Ciò su cui vi è un ampio consenso è l’assenza di un particolare valore probatorio
degli atti parlamentari.
La dottrina prevalente è nel senso di negare un privilegiato valore probatorio all’uno
o all’altro atto parlamentare, ritenendoli tutti strumenti “ordinati al fine di dare
pubblicità materiale ei lavori delle camere nella loro realtà storica e fenomenica”.
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