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La crisi del positivismo giuridico: l’”anti-giuspositivismo” di Lon


Fuller e Ronald Dworkin (Aldo Schiavello)
Filosofia del diritto (Università degli Studi di Milano)

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La crisi del positivismo giuridico: l’”anti-giuspositivismo” di Lon Fuller e Ronald Dworkin (Aldo Schiavello)

Ci sono almeno 6 fattori che hanno favorito la nascita e l’affermazione del positivismo giuridico. I primi due rientrano nella “categoria
delle trasformazioni socio - istituzionali” mentre i restanti vengono considerati come “movimenti di pensiero”.
1) Nascita dello Stato moderno: esso è definito come l’esito del “processo di monopolizzazione della produzione giuridica da
parte dello Stato”. Lo Stato moderno sorge quando lo Stato si presenta in una forma riconducibile al principio di Sovranità.
Questo avviene con la Rivoluzione francese. Con lo Stato moderno ci sono il superamento del particolarismo giuridico e il
passaggio dalla concezione dualistica del diritto (il diritto è composto da diritto positivo e diritto naturale) alla concezione
monistica (tutto il diritto è positivo).
2) Il fenomeno della codificazione: la massima espressione è il Code Napoléon del 1804. L’idea è di un diritto semplice, chiaro
ed accessibile a tutti a cui si può associare la concezione giuspositivsta di descrivere in modo avalutativo il suo oggetto (cioè
il diritto positivo) e la concezione dell’interpretazione giuridica come attività meccanica.
Tra i movimenti di pensiero che hanno reso possibile la nascita del positivismo giuridico: razionalismo illuminista, scuola dell’esegesi,
imperativismo di Bentham e Austin e Scuola storica del diritto.
3) Razionalismo settecentesco: ha difeso e teorizzato il dogma dell’onnipotenza del legislatore. Lo Stato moderno, infatti,
presuppone la monopolizzazione della produzione giuridica da parte dell’organo legislativo. Inoltre, ci sono la dottrina della
separazione dei poteri e la rappresentatività. Queste dottrine controbilanciano l’assolutezza del potere del legislatore e
contribuiscono ad affermare la concezione formalista e meccanicista dell’interpretazione giuridica.
4) La scuola dell’esegesi: ha come caratteristiche (secondo Bobbio): concezione statualistica del diritto, concezione
intenzionalistica dell’interpretazione giuridica, il culto della legge, il ricorso al principio di autorità (legislatore e i primi
esponenti della scuola). La scuola afferma la tesi della subordinazione del diritto naturale al diritto positivo. Non nega
l’esistenza del diritto naturale.
5) L’imperativismo definisce il diritto come un insieme di comandi generali ed astratti del sovrano, delimita in modo chiaro
l’ambito del diritto positivo. È contro la dottrina del diritto naturale (Bentham e Austin) condividono con i giusnaturalisti
l’adozione dell’oggettivismo etico e, da questo punto di vista, sono chiaramente distinguibili dai principali autori
giuspositivismo del 900.
6) La scuola del diritto critica radicalmente il giusnaturalismo, il razionalismo e la prospettiva meta-etica oggetti vista.
La crisi e il declino del positivismo giuridico dipendono da fattori plurimi ed eterogenei.
La crisi della sovranità è il tratto distintivo dello Stato contemporaneo. La potestas degli Stati è negata attraverso l’introduzione di
costituzioni rigide, cioè modificabili con un procedimento aggravato rispetto a quello previsto per la formazione della legge, e lunghe,
contenenti cioè una dichiarazione dei diritti. Nel 1945 viene varata la carta dell’ONU che introduce il divieto alla guerra. In questo modo
la sovranità esterna degli Stati nazionali viene ulteriormente limitata dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Lo Stato
liberale ottocentesco (lo Stato di diritto) riconosce come unici limiti alla sovranità statale le procedure che l’autorità legittima deve
rispettare per creare diritto valido, lo Stato costituzionale introduce anche limiti sostanziali di contenuto che impediscono di fare ciò che
si vuole.
L’incorporazione di valori morali nel diritto dopo la Seconda guerra mondiale ha prodotto dei cambiamenti significativi, ponendo dei
ripensamenti all’interno del positivismo giuridico. Si è aperto un dibattito tra giuspositivisti sul dogma della separabilità tra diritto e
morale e su quello della pretesa neutralità della scienza giuridica.
La costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici è un processo di trasformazione di un ordinamento al termine del quale
l’ordinamento in questione risulta totalmente impregnato dalle norme costituzionali. Questo fenomeno presenta: - una costituzione
rigida e lunga
- un controllo sulla conformità delle leggi alla costituzione
- la forza vincolante della costituzione
- la sovra - interpretazione della costituzione
- l’applicazione diretta delle norme costituzionali da parte del giudice ordinario
- l’interpretazione adeguatrice delle leggi
- l’influenza delle costituzioni sui rapporti politici
QUESTI ASPETTI FANNO VACILLARE L’IDEA CHE L’ATTIVITÀ DI INDIVIDUAZIONE E DI DESCRIZIONE DEL DIRITTO SAREBBE IL
LARGA MISURA INDIPENDENTE RISPETTO AD UN’ATTIVITÀ DI TIPO INTERPRETATIVO.
Una delle caratteristiche della filosofia e della teoria del diritto più recente: consapevolezza che la pratica giuridica richiede un esercizio
di interpretazione non solo nel caso in cui si debba attribuire un significato a determinate disposizioni normative, ma in generale. Si ha
una svolta interpretativa della teoria del diritto.
Tra i fattori della crisi del positivismo giuridico troviamo l’accusa sollevata, a seguito della Seconda Guerra Mondiale, da alcuni giuristi e
filosofi del diritto, soprattutto tedeschi: il positivismo giuridico era corresponsabile dell’avvento del nazismo (“la legge è legge”). Dato
di dimostrare la tesi che è una concezione del diritto positivista presupponga necessariamente un rispetto cieco ed acritico per l’autorità
in carica, qualsiasi essa sia. Testo è frutto della presa di coscienza delle atrocità senza precedenti commesse dal regime nazista. Gustav
Radbruch: pubblica abiura del positivismo giuridico (neo-giusnaturalismo postbellico). Fammi 60 del Novecento si assiste alla rinascita
del positivismo giuridico, soprattutto per difendere il giuspositivismo dall’accusa di immoralità.
Uno dei fattori decisivi della crisi del positivismo giuridico è il fiorire di teorie del diritto antigiuspositiviste: Fuller e Dworkin (teorie
diverse ma in comune c’è l’avversione per il positivismo giuridico) ed entrambi criticano la versione del diritto proposta da Hart.
Il denominatore comune delle teorie antigiuspositiviste è il tentativo di individuare una terza via rispetto al giusnaturalismo e al
giuspositivismo. Da un lato le teorie condividono la concezione money stica del diritto, secondo cui tutto il diritto e diritto positivo.
Dall’altro lato criticano la tesi giuspositivista sta della separabilità tra diritto e morale.
Il positivismo e la fedeltà al diritto di Fuller: 1958; replica al saggio di Hart Il positivsmo e la separazione tra diritto e morale. Il modello
delle regole di Dworkin.

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La crisi del positivismo giuridico: l’”anti-giuspositivismo” di Lon Fuller e Ronald Dworkin (Aldo Schiavello)

Dworkin, recensendo l’opera più nota di Fuller, La moralità del diritto, la definisce “un no no non riuscito di configurare in modo nuovo
il rapporto tra diritto e morale”. Infatti, i difetti della teoria di Fuller sono due: 1) fraintendimento del positivismo giuridico di Hart, che
rende la sua replica solo “presunta”; 2) scarsa attrattiva della concezione del diritto proposta da Fuller.
Fuller rivolge direttamente l’attenzione alla distinzione tra “il diritto qual è” e “il diritto quale dovrebbe essere”. Secondo lui, Hart oscilla
tra il presentare tale distinzione è come una questione di fatto e sottolineare i pericoli e le nefaste conseguenze che potrebbero derivare
dall’indebolimento di tale distinzione. Quindi si tratta di una distinzione che non è fondata su un giudizio di fatto ma su un giudizio di
valore.
I 6 argomenti di Fuller:
A) Ritiene che l’assenza di contraddizioni e la congruenza hanno maggiore affinità con ciò che è buono piuttosto che con ciò che
malvagio. Siccome la coerenza è una caratteristica essenziale di ogni sistema normativo, allora è possibile affermare che in
effetti c’è una connessione necessaria tra diritto e morale che non va sottaciuta. Ma questa tesi non è argomentata in modo
sufficiente che l’autore la presenta come una mera credenza.
B) L’importanza del positivismo giuridico alla distinzione tra diritto e morale non rappresenta una protezione efficace rispetto alla
possibilità che alcune norme giuridiche perseguano fini malvagi o che abbiano “moralità immorale”.
C) L’autore immagina che se un giudice intende perseguire, attraverso le sue decisioni, un fine che non è condiviso dalla
maggioranza dei consociati, egli adotterà la strategia di trincerarsi dietro il suo ruolo di mero applicatore del diritto piuttosto
che quella di presentare le sue decisioni come una esplicita violazione del diritto positivo in ossequio ad un diritto superiore
di immutabile. Fuller vuole rimarcare che il pericolo reale non è la commistione tra diritto e morale ma la ambigua
presentazione di ragioni morali come ragioni giuridiche.
Nota bene: nessun giuspositivista contemporaneo accoglie una concezione formalista dell’interpretazione giuridica. Inoltre,
l’idea che il giudice possa comunque sfuggire alle proprie responsabilità e estranea alla migliore tradizione del positivismo
giuridico che non fa propria la massima “la legge è legge” e rigetta la versione estrema della tesi ideologica del positivismo
giuridico.
D) Anche il regime più malvagio che si possa immaginare evita di esplicitare attraverso il diritto la propria “moralità immorale”.
Questa prudenza è una conseguenza non della separazione del diritto dalla morale ma esattamente di un’identificazione del
diritto con quelle richieste di moralità più urgenti e più agevolmente giustificabili che nessun uomo deve vergognarsi di
esprimere. Questo argomento mostra che al vocabolo diritto è sovente associato un significato emotivo favorevole. Ciò che
spinge i regimi malvagi a mostrare prudenza nell’esplicitare, con la promulgazione di norme giuridiche, gli aspetti più esecrabili
della politica da loro perseguita è proprio il desiderio di sfruttare questa carica emotiva favorevole associata al diritto. Questo
argomento, secondo Schiavello, non può essere utilizzato per falsificare la tesi della separabilità tra diritto e morale.
E) Servando l’atteggiamento dei giudici sul finire degli anni 50 il reale pericolo è quello di un eccesso di formalismo e di
un’applicazione miope del diritto. Ma, anche in questo caso, il formalismo interpretativo non è una tesi che caratterizza il
positivismo giuridico contemporaneo.
F) Questo è l’argomento più oscuro fra tutti. Fuller sostiene che la tesi della distinzione tra diritto e morale viene spesso utilizzata
come argine contro le pronunce di autorità religiose che prescrivono i giudici e ai funzionari che professano quella determinata
religione di non applicare le norme giuridiche contrarie a precetti religiosi. Ad esempio, le norme che consentono ai coniugi
di rimborsare o alle donne di abortire. Il conflitto non è tra diritto e morale ma tra norme emanate da autorità diverse. In
questo caso Fuller ha ragione, ma nessun positivista ha mai sostenuto qualcosa di diverso!
Fuller propone in alternativa al positivismo giuridico una sorta di diritto naturale procedurale. La sua idea è che il diritto è una pratica
sociale che ha una sua morale interna. Tale morale si sostanzi a di otto esigenze. In particolare, il diritto deve essere composto da norme:
generali, promulgate, tendenzialmente irretroattive, chiare, che non si contraddicano le une con le altre, che non richiedono l’impossibile,
che non siano soggette a cambiamenti troppo frequenti o improvvisi, che vi sia congruenza tra ciò che la legge dichiara il modo in cui
essa viene di fatto amministrata.
La morale interna si distingue da quella esterna perché essa indica solo le forme o le procedure che il diritto deve rispettare per
raggiungere il suo fine. Questo è il carattere eminentemente procedurale di Fuller.
Dworkin: il suo argomento è la confutazione della tesi secondo cui il diritto consisterebbe in un sistema di regole individuate attraverso
una regola di riconoscimento.
A) Le regole sono solo uno tra i diversi standard giuridici e gli standard giuridici che non sono regole rientrano nella categoria
dei principi.
B) Tra regole e principi sussiste una differenza qualitativa e non meramente quantitativa. Quindi è possibile distinguere una
regola da un principio.
C) La regola di riconoscimento consente di individuare le regole giuridiche ma non i principi giuridici.
D) Non c’è soluzione di continuità tra principi morali e principi giuridici.
Per Dworkin, la rappresentazione che del diritto offre il positivismo giuridico è incompleta: il diritto non è un sistema di regole ma un
sistema più complesso che comprende al suo interno regole e principi e che, proprio per la presenza dei principi, si confonde con la
morale. L’impatto delle critiche di Dworkin è maggiore rispetto a Fuller. Per i principi inespressi è possibile sostenere che la loro validità
è subordinata all’individuazione di una relazione con la regola di riconoscimento: un principio inespresso e valido se permette di spiegare
e/o giustificare norme espresse. Ma, la relazione indiretta dei principi inespressi con la regola di riconoscimento è una condizione
necessaria ma non sufficiente della loro validità. L’argomento della controversia a un ambito di applicazione più ampio: individuazione
dei principi inespressi, applicazione dei principi espliciti, applicazione delle norme indeterminate.
L’argomento della controversia è una grave minaccia per la SOCIAL THESIS: secondo questa tesi, l’individuazione del diritto dipende
solo da determinati fatti sociali, in particolare dei comportamenti e degli atteggiamenti convergenti dei membri qualificati, cioè i giudici,
della comunità di riferimento. L’accordo dei partecipanti su ciò che è e ciò che non è diritto si manifesta con comportamenti e
atteggiamenti convergenti e sottodetermina le norme effettivamente accolte da ciascuno dei partecipanti. Quindi, “non esiste una
regola di riconoscimento pienamente condivisa”. Non c’è soluzione di continuità tra principi morali e principi giuridici.

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