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INTRODUZIONE AL DIRITTO PENALE E ALLA POLITICA CRIMINALE

♦ 1. DIRITTO PENALE, REATO, PENA

Il diritto penale disciplina i fatti che costituiscono reato e le relative sanzioni. Il reato è punito con sanzioni
consistenti in pene (volte ad assicurare la prevenzione generale) e misure di sicurezza (volte a recuperare
alla società gli autori del reato). La funzione del diritto penale è quella di tutelare gli interessi umani in un
rapporto corretto fra i concetti di autorità e di libertà. Nel 1948 è stata approvata una Costituzione nella quale
sono stati enunciati i valori fondanti del nuovo Stato repubblicano. Vi è la possibilità di individuare un
catalogo di valori ai quali, il legislatore ordinario, poteva ispirarsi nel predisporre le linee della protezione
giuridico penale. Da un punto di vista formale il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione
comporta l’applicazione di una sanzione penale; da un punto di vista sostanziale è ciò che turba gravemente
l’ordine etico, che rende impossibile p pone in grave pericolo l’esistenza o la conservazione della società.
Nela giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel definire ciò che si deve intendere per
‘’materia penale’’ agli effetti dell’applicazione dei principi di garanzia, ha affermato che occorre considerare di
natura penale ogni illecito al quale l’ordinamento reagisce con una sanzione caratterizzata da un contenuto
sostanzialmente punitivo. Quest’ordinamento tende ad estendere l’applicazione delle garanzie a tutte le
situazioni in cui si rinviene una limitazione forte della libertà delle persone. Il codice penale pr4evede due
sanzioni: pene e misure di sicurezza, che vengono applicate dal giudice penale nel quadro di un processo
penale. La funzione essenziale della pena deve essere individuata con la minaccia di una sanzione
giustamente proporzionata alla gravità del reato, cercando di disincentivare i consociati dal delinquere. La
funzione rieducativa (art.27, comma 3 Cost.) ha determinato mutamenti nella disciplina della pena
detentiva, sia in riferimento alle modalità del trattamento carcerario, sia nella prospettiva della sostituzione
del carcere con spazi più o meno ampi di esecuzione penale fuori dal carcere. La stessa Costituzione
precisa che le pende devono ‘’tendere’’ alla rieducazione del condannato; la loro esecuzione deve in ogni
caso cessare quando la sanzione inflitta sia stata interamente espiata mentre essa dovrà essere comunque
scontata quand’anche il condannato risulti ‘’rieducato’’ prima della sua scadenza.

♦ 2. EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO PENALE

Il diritto penale moderno nasce con l’Illuminismo. Numerose regole enunciate in quell’epoca costituiscono
tuttora principi cardine delle legislazioni penali europee. Cesare Beccaria sostenne come il diritto penale
deve fornire una protezione forte dei beni umani fondamentali, deve essere utilizzato soltanto quando si riveli
strumento strettamente necessario a tali esigenze di tutela (extrema ratio di tutela). La pena deve colpire
l’autore del reato in una misura proporzionale alla gravità del fatto commesso; la proporzione deve
riguardare sia la quantità sia il tipo della sanzione. La pena deve essere uguale per tutti, indipendentemente
dalle condizioni personali e sociali del reo. Sul piano culturale, all’impostazione rigorosamente utilitaristica
del pensiero illuministico, si sono affiancare impostazioni che si richiamavano ad astratti criteri di giustizia:
impostazioni che, pur mantenendo in linea di principio il concetto della giusta proporzione tra reato e
sanzione, hanno aperto la strada all’utilizzazione di pene che rispondevano alla necessità di punizioni
‘’esemplari’’.
La scuola classica di diritto penale si afferma in Italia a partire dai primi decenni dell’800 sulla base del
pensiero liberale con maggior esponente Francesco Carrara. Caratteristico è stato il tentativo di costruire un
sistema ‘’astratto’’ di diritto penale, ancorato ai valori della ragione assoluta. Compito del giurista è la
costruzione del sistema dei reati e delle pene secondo criteri di razionalità scientifica generali. Vengono
riproposti i capisaldi delle idee liberali, sottolineando come nessuno deve essere punito per le solo intenzioni
e pensieri: si dà per scontato che reato e responsabilità penale presuppongono la realizzazione di un ‘’fatto’’
e di un elemento psicologico doloro o colposo; si subordina la possibilità di configurare tale responsabilità
alla presenza di capacità di intendere e di volere del soggetto agente (‘’libero arbitrio’’). Per finire, il
perfezionamento degli strumenti di analisi tecnica, un approccio metodologico i cui risultati influenzano
ancora oggi la teoria generale del reato e l’approfondimento degli elementi costitutivi dell’illecito penale.
L’elaborazione della scuola classica ha influenzato l’elaborazione del codice penale Zanardelli del 1889: i
principi di stretta legalità e di irretroattività della legge penale sono stati formulati in modo tecnicamente
appropriato; la pena di morte è stata eliminata; il sistema sanzionatorio si è articolato in un complesso di
sanzioni diverse dal carcere; è stato enunciato il principio di colpevolezza quale presupposto indispensabile

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della responsabilità penale e posto a fondamento della stessa imputabilità.
Con la scuola positiva si assiste ad un cambiamento radicale nell’approccio al tema del diritto penale. I
positivisti hanno seguito il metodo induttivo tipico della ricerca sul campo e hanno posto al centro della loro
attenzione l’uomo delinquente; hanno negato l’esistenza del libero arbitrio e che pertanto il suo autore è un
anormale che deve essere rieducato, aiutato a recuperare il suo equilibrio psichico. La pena è stata sostituita
da una misura di natura preventivo-speciale destinata a rimuovere le cause della devianza. La sua durata
doveva essere indeterminata e destinata a durare fino a che fosse venuta a cessare la sua pericolosità
sociale. Nonostante questo progetto di codice penale positivista pubblicato nel 1921, non ebbe seguito a
causa delle vicende politiche italiane del periodo immediatamente successivo (avvento del fascismo): le idee
positiviste penetrarono nella struttura del codice penale Rocco del 1930.
Entrambe le scuole vengono però ritenute inaccettabili. Compito del giurista deve essere quello di
interpretare correttamente le leggi e costruire dogmaticamente gli istituti giuridici in conformità agli enunciati
legislativi. Vi è una nuova impostazione metodologica: scienza giuridica e politica criminale diventano mondi
separati, ovvero la prima si deve occupare soltanto della realtà normativa ‘scelta’ dal legislatore, la seconda
è appannaggio esclusivo di politici e sociologi il cui compito è interpretare le leggi dello Stato e procedere ad
elaborazioni dogmatiche di quanto desumibile dal diritto positivo.
Per la riforma del codice penale, era necessario <<integrare e completare le norme del codice del 1889>>. Il
codice penale fascista sarebbe stato comunque caratterizzato da forti profili di continuità rispetto alla cultura
giuridica ed alla codificazione liberale del secolo precedente. Secondo la concezione fascista, lo Stato
sarebbe manifestazione di un potere in grado di volere ed agire autonomamente per il conseguimento dei
suoi obbiettivi. In questa prospettiva, vi è la proiezione di uno Stato forte, impegnato nella repressione
penale a scapito dei diritti dei cittadini. Nonostante tutto però, numerose furono le rotture rispetto alle regole
garantiste dei sistemi liberali:
1. Responsabilità oggettiva;
2. Norme che si prestavano ad applicazioni molto più discrezionali;
3. Svalutazione del concetto di bene giuridico, infatti il nuovo codice ha previsto numerosi reati di pericolo
presunto. Si crea la punizione per la disobbedienza degli imperativi giuridici, intesa come sintomo di
ribellione alla volontà dello Stato;
4. Ripristino della pena di morte;
5. Amplia utilizzazione dell’ergastolo;
6. Affiancamento delle misure di sicurezza alle pene: si applicano a chi socialmente pericoloso, e ha
commesso un reato.

Caduto il fascismo, l’8 gennaio 1945 il Guardasigilli Tupini insediò una Commissione di riforma del codice
penale. Non pervenne a nessun risultato. Alcuni degli stessi componenti hanno elogiato il tecnicismo del
codice Rocco e sostenuto che esso, tolti alcuni aspetti, poteva essere mantenuto trattandosi di un codice
‘’tecnicamente impeccabile’’. Nel 1946, l’Assemblea Costituente pensò che sarebbe stato opportuno
procrastinare le riforme dei codici, per poterli adeguare ai nuovi principi sui quali si sarebbe fondato il nuovo
Stato repubblicano. Entrata in vigore la Costituzione, con le elezioni del 1948, il mutamento della situazione
politica interna favorì una faticosa opera di riforme settoriali.
L’influenza della Costituzione si ha su due piani: da un lato su quello delle norme che prevedono principi di
garanzia ed enunciano regole in materia di responsabilità e sanzioni penali; dall’altro su quello
dell’enunciazione dei diritti di libertà e diritti sociali. Il principio di colpevolezza è tornato ad essere
considerato centrale; il bene giuridico è ritornato a costituire uno degli architravi della teoria del reato e della
funzione del diritto penale; la concezione di una pena con finalità rieducativa. Cominciò a manifestarsi un
nuovo modo di concepire il ruolo del giurista. In un’analisi critica dei contenuti della legislazione vigente
consentì di affiancare la prospettiva politica criminale a quella della dogmatica giuridica. Si sono affermate
così, nuove linee di tendenza: da un lato si è tornati a concepire la funzione del diritto penale sul terreno
della tutela degli interessi ed a rivalutare il concetto di bene giuridico sia come classificazione dei reati sia
come strumento di politica criminale; dall’altro si sono assunti i valori costituzionali come punto di riferimento
per la costruzione di un nuovo sistema dei reati assegnando così alla Costituzione un ruolo entrale della
costruzione del sistema dei reati. Importante è anche il tema del sistema sanzionatorio: la Costituzione,
stabilendo che anche le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ha posto le premesse per
una trasformazione della disciplina della sanzione penale.

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♦ 3. PRINCIPI GENERALI DI POLITICA CRIMINALE

POLITICA CRIMINALE: insieme di strumenti che il sistema predispone per contrastare la criminalità.
POLITICA PENALE: affronta il problema della criminalità ricorrendo a strumenti strettamente penali. Quindi
include la politica criminale a un ambito di intervento più ampio (la politica criminale usa anche strumenti non
penali es. sanzioni amministrative o disciplinari).
POLITICA SOCIALE: ha come oggetto qualunque fenomeno sociale. Deve intervenire in via preventiva per
contrastare i fattori predisponenti alla commissione del reato. Sono interventi come quelli sul piano educativo
per evidenziare gli effetti negativi dell’uso di sostanze stupefacenti.
DIRITTO PENALE: insieme delle regole che disciplinano i presupposti della responsabilità penale e le
conseguenze sanzionatorie. Assicura all’autore del reato garanzie su un duplice versante: tutela dagli abusi
del potere punitivo, cioè non sarà punito se non nel rispetto delle garanzie previste dall’ordinamento, e tutela
dagli abusi dell’autodifesa privata, ovvero tutela da arbitrarie forme di vendetta provata attuate dalla vittima o
da altri per essa.
Vi sono dei limiti di ordine costituzionale alle scelte di politica criminale (necessario porre limiti per limitare
il potere politico in questo ambito):
1. DIVIETI DI INCRIMINAZIONE: è il divieto di incriminare condotte che costituiscono esercizio
di diritti e libertà costituzionali, il cui esercizio non può costituire reato. Sono divieti rivolti al
legislatore, che non può prevedere come reato fatti che integrano l’esercizio di diritti e libertà
costituzionali, e all’interprete, che deve interpretare le leggi salvaguardando il rispetto dei diritti e
sollevare la questione di legittimità costituzionale. Talvolta è possibile una interpretazione
costituzionalmente orientata della norma penale, il cui ambito di applicazione è ridefinito in modo da
salvaguardare la libertà individuale. Altre volte, l’affronto tra norma penale e norma costituzionale
non lascia spazio ad una interpretazione adeguatrice della prima alla seconda e l’unico esito
possibile è costituito dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale.

2. LIMITI DI INCRIMINAZIONE: i principi costituzionali che limitano le scelte di politica


criminale possono essere dimostrativi, che consentono alla Corte Costituzionale di dichiarare
illegittimi le norme in contrasto con i principi costituzionali, o argomentativi, che hanno un contenuto
più flessibile in quanto sono indirizzi dati al legislatore il quale non può dichiarare l’illegittimità
costituzionale della norma.
- PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA: la legge deve descrivere in modo sufficientemente
preciso le norme perché i consociati devono poter prevedere in anticipo quali comportamenti sono
vietati. È dunque un limite generale alla politica criminale perché limita il legislatore nella stesura
delle norme penali. È debole in quanto costituisce solo un limite strutturale. La Corte Costituzionale
ha affermato che la garanzia costituzionale impone al legislatore l’obbligo di descrivere solo fatti che
corrispondano a situazioni riscontrabili nella realtà.

- PRINCIPIO DI MATERIALITÀ: impone al legislatore di incriminare solo comportamenti


umani esteriormente percepibili. Art.25, comma 2 Cost. <<Nessuno può essere punito se non in
forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso>>. Sono incompatibili con questo
principio: il diritto penale della volontà, che incentra il disvalore della fattispecie sull’elemento
soggettivo dell’autore più che sulla condotta, proponendo di equiparare la pena per il delitto tentato a
quella del delitto consumato, in quanto in entrambi è identica la volontà di trasgredire la norma
penale; il diritto penale dell’atteggiamento interiore, che pone al centro della reazione penale
l’atteggiamento spirituale del soggetto rispetto ai beni giuridici; il diritto penale della pericolosità, nel
quale si punisce l’autore pericoloso il cui comportamento rivela solo come sintono del rischio di
commissione dei reati.

- PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ: la pena deve essere rivolta verso fatti offensivi di beni
giuridici. Si può parlare di offensività in astratto, che si rivolge al legislatore in sede di formulazione
delle norme, e offensività in concreto che si rivolge al giudice e interprete. Il fondamento
costituzionale del principio di offensività in astratto sta negli art. 25-27: se la pena intervenisse per
sanzionare fatti che non offendono alcun bene giuridico, la sua funzione sarebbe limitata. Una

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sfumatura del principio di offensività è il principio di ragionevolezza, che impone l’utilizzo della
ragione: es. dichiarata illegittima la norma che puniva penalmente la mendicità non invasiva
(chiedere l’elemosina) per paura che potesse portare ad altri reati e disturbo della quiete pubblica.
Oggi è stata riconosciuta l’assenza del legame tra il mendicante e il criminale. Questo principio
esclude la legittimità del diritto penale d’ autore, secondo il quale un reato veniva punito se
commesso da un soggetto precedentemente condannato (es. dichiarata illegittima la norma secondo
la quale un soggetto veniva condannato se trovato in stato di ebrezza solo se già precedentemente
condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità delle persone).Non può inoltre essere
punito chi compie azioni moralmente non accettate ma che non ledono alcun bene giuridico, in
quanto condotte appartenenti alla propria sfera privata (distinzione tra diritto penale e morale, es.
comportamenti che attengono alla morale sessuale come omosessualità, prostituzione di
maggiorenni, o atti osceni come la pornografia).

- PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ: la tutela del bene deve apparire proporzionata al


ricorso della sanzione penale che incide, direttamente o indirettamente, sulla libertà personale. Deve
considerarsi il tipo di bene offeso (patrimonio con furto o vita con omicidio) e la modalità di
aggressione (inganno o violenza). Possono essere considerati meritevoli di tutela penale quegli
interessi che godono di riconoscimento nel contesto sociale, ovvero i beni che costituiscono la realtà
pre-normativa delle quali il legislatore prende atto. Questa indicazione pone due conseguenze: la
prima è la necessità di considerare i beni giuridici alla luce dei rapporti sociali nei quali si inseriscono
e dai quali sono influenzati. Il legislatore riveste un ruolo di filtro, poiché gli spetta il compito di
razionalizzare le istanze punitive e non rincorrere i bisogni emotivi di punizioni che emergono dalla
società. La seconda conseguenza è delegittimazione del diritto penale promozionale, che cercava il
rispetto di valori nei quali la comunità non crede o per la cui tutela consideri sproporzionato il
sacrificio della libertà personale (es. introduzione del reato di adulterio in difesa dei valori del
matrimonio).

- PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ: (art. 13 e 27, comma 3, Cost.) il ricorso alla sanzione


penale deve sussistere solamente nel momento in cui risulterebbero inefficaci altri strumenti di tutela
meno afflitti: il diritto penale è dunque l’extrema ratio a cui deve ricorrere il legislatore. Si tratta di un
principio che contribuisce a garantire al diritto penale il carattere della frammentarietà: il diritto
penale non può assicurare una tutela totale ai beni giuridici, ma deve intervenire solo laddove le
offese appaiono più gravi e sia presente un bisogno di pena che non può essere soddisfatto con
strumenti meno invasivi.

- PRINCIPIO DI EFFICACIA DELLA TUTELA: deve essere efficace alla tutela del bene il
ricorso alla sanzione penale (es. introduzione del reato di immigrazione clandestina che avrebbe
dovuto tutelare la regolarità dei flussi migratori, ci è stato assolutamente inutile).

3. OBBLIGHI DI INCRIMINAZIONE: obblighi espressamente previsti dalla Costituzione come


l’art 13, comma 4, Cost che prevede che sia <<punita ogni violenza fisica o morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizione di libertà>>. Non sono previsti obblighi costituzionali impliciti. La
Costituzione non può imporre la tutela penale perché spetta al legislatore vagliare la legittimità del
ricordo al diritto penale in forza di criteri di sussidiarietà e di efficacia della tutela. La questione più
attuale riguarda oggi gli obblighi di incriminazione da fonti sovrannazionali. L’art 117, Cost. prevede
che debbano essere rispettate le norme derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali. La mancata attuazione di una norma sovranazionale comporta il mancato rispetto
dell’art. 117 della Costituzione.

- PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA: è questo un limite di incriminazione alle scelte del


legislatore ed esprime il rifiuto di fondare la responsabilità penale su basi esclusivamente oggettiva e
richiede anche una imputazione soggettiva. Si traduce in un limite di politica criminale perché il
legislatore non può prevedere forme di imputazione oggettiva del fatto.

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♦ 4. LA RISERVA DI LEGGE

Principio di legalità: i precetti penali devono provenire da una legge emanata dal Parlamento
democraticamente eletto. Inoltre deve essere chiara e precisa, in modo tale che tutti i cittadini possano
cogliere senza incertezze i contorni e i limiti dei fatti penalmente vietati.
I quattro corollari del principio di legalità della legge penale:
1. RISERVA DI LEGGE: impone che i precetti penali siano frutto dell’attività normativa dell’organo elettivo
che rappresenta tutti i cittadini, comprese le minoranze (art. 25, comma 2, Cost.);
2. IRRETROATTIVITÀ DELLA LEGGE PENALE: implica invece che la legge debba sempre essere
previa ai fatti commessi perché possa essere applicata, tutelando le condotte del cittadino al momento
del fatto. In materia penale non esiste dunque la retroattività: una determinata condotta diventa reato
solamente se considerata tale nel momento in cui è stata commessa e non successivamente (art. 25,
comma 2, Cost.);
3. PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA: impone che la norma sia chiara e precisa in modo che possa
essere compresa da tutti consociati;
4. PRINCIPIO DI TASSATIVITÀ: impone al giudice di applicare la norma penale ai soli casi in essa
tassativamente descritti impedendo quindi qualsiasi tipo di interpretazione analogica.

Ratio di garanzia e ratio di certezza si intrecciano nell’attribuire un ruolo assolutamente centrale al principio
di legalità. La prima tutela i consociati da possibili arbitri del potere politico ogni qual volta sia in gioco la
libertà personale; la seconda prevede delle forme di pubblicazione della legge (sulla Gazzetta Ufficiale) che
ne garantiscono la conoscibilità da parte di tutti coloro che sono obbligati a rispettare le norme penali.

Negli anni si è parlato di:


1. LEGALITÀ SOSTANZIALE: non è il solo reato che va contro la norma penale, ma è anche
quello che va contro il sano sentimento del popolo o contro gli interessi del proletariato. La legalità in
senso sostanziale oggi non è più presa in considerazione per ovvi motivi;
2. LEGALITÀ FORMALE: è invece il modello che impone al giudice di considerare reato solo ciò che è
espressamente previsto come tale dalla legge penale.

Le leggi regionali possono essere considerate leggi penali? Sono emanate dal Consiglio regionale (organo
elettivo) che però rappresenta una sola parte della popolazione italiana. Queste leggi possono essere
applicate solamente nel territorio regionale.
Fino ad ora la dottrina ha escluso le leggi regionali dalle fonti del diritto penale sulla base di alcuni principi
costituzionali:
art. 3, Cost: PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA: un medesimo comportamento non può essere penalmente
lecito in una regione e sanzionato in quello confinante.
art. 120, comma 1, Cost. impedisce che le Regioni emanino leggi che possano ostacolare la libera
circolazione dei consociati tra le Regioni stesse.

Oggi la questione è stata risolta dall’art. 117, Cost. che prevede che l’ordinamento penale sia di esclusiva
competenza statale.

Le consuetudini sono un modo consueto ed abituale di operare. In materia penale esistono 4 forme di
consuetudini che pongono differenti questioni di legittimità:
1. CONSUETUDINE INCRIMINATRICE: l’art. 25, Cost. vieta assolutamente l’applicazione di questa prima
forma di consuetudine. Un comportamento per essere disciplinato dalla materia penale deve essere stato
introdotto dalla legge: non è dunque ammissibile che un determinato comportamento ritenuto criminoso
dalla comunità possa divenire di materia penale.
2. CONSUETUDINE ABROGATRICE: il fatto che una norma penale non venga applicata per molto tempo
non significa che sia stata abrogata.
3. CONSUETUDINE INTEGRATRICE: Secondo questa ipotesi, la Costituzione potrebbe attribuire rilievo a
determinate situazioni sulla base di usi della comunità: viene dunque esclusa anche questa consuetudine
dal diritto penale.

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4. CONSUETUDINE SCRIMINANTE: può il giudice applicare una causa di giustificazione non codificata ma
rilevante in virtù di un uso consolidato nella comunità? Per alcuni sì, per altri no.

Può una legge penale rinviare la descrizione di uno o più elementi costitutivi della fattispecie penale ad una
fonte inferiore?
Secondo la riserva di legge relativa, portata avanti dalla dottrina che cercava di salvare il salvabile dalla
legislazione penale fascista, questo era possibile se il rinvio della descrizione della fattispecie penale in un
regolamento fosse esplicitamente richiesto dalla legge.
Secondo la riserva di legge assoluta, oggi applicata, tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico devono
essere indicati dalla legge penale. È dunque da considerarsi illegittima la norma penale che rinvia la
descrizione di un suo fatto tipico (anche se dalla legge).
Nel caso in cui la legge penale rinvii ad un precedente regolamento, la riserva assoluta è rispettata nel caso
del rinvio recettizio, ovvero quando l’amministrazione non può più modificare l’atto regolamentare dopo
l’entrata in vigore della legge che lo richiama. Se invece l’amministrazione è in grado di modificare l’atto
regolamentare (rinvio mobile), allora la riserva assoluta è violata perché una successiva modifica del
regolamento potrebbe modificare gli elementi costitutivi del reato.
Diverso è il rinvio tecnico, es. in materia di stupefacenti la legge rimanda per l’individuazione delle sostanze
da considerarsi stupefacenti ad una tabella periodicamente aggiornata dal Ministero della Salute.
Ancora diverse sono le norme penali in bianco, quelle norme penali generali che rimandano a un
provvedimento amministrativo per una loro ‘’sufficiente specificazione’’.

 ORDINAMENTO PENALE NAZIONALE E ORDINAMENTO COMUNITARIO


Il problema principale attiene all’individuazione dell’incidenza delle fonti comunitarie sul diritto penale
nazionale. Secondo il principio di legalità infatti le leggi sovranazionali non possono avere potestà legislativa
in materia penale dal momento che solo il Parlamento può legittimare i fatti vietati e le relative pene (potestà
normativa diretta).
Ma le fonti comunitarie possono imporre agli stati membri l’introduzione di fattispecie incriminatrici a tutela di
interessi comunitari. Ci ha trovato sostegno in particolare con il Trattato di Lisbona del 2007, che con l’art 83,
TFUE, prevede che il Parlamento Europeo ed il Consiglio Europeo possano stabilire “norme minime relative
alla definizione di reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una
dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare
necessità di combatterli su basi comuni”.

Inoltre il ruolo della Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato il principio della preminenza
del diritto comunitario, in virtù del quale in un contrasto tra norma interna e norma europea, prevale quella
europea. Vi sono 3 modelli attraverso i quali i Paesi europei recepiscono le direttive dell’Unione:
1. UNIFICAZIONE: individuazione di un unico strumento penale vigente in tutti gli ordinamenti degli Stati
membri. È ancora molto difficile da raggiungere se non vi sarà una Costituzione Europea e se gli organi
deliberativi dell’Unione acquistino base elettiva, rappresentativa e democratica.
2. ASSIMILAZIONE: l’Unione impone ai Paesi membri di estendere la tutela penale interna a specifici interessi
dell’Unione stessa.
3. ARMONIZZAZIONE: gli Stati membri sono chiamati a introdurre nuove fattispecie incriminatrici modellate
sulle indicazioni e previsioni contenute nelle direttive dell’Unione.

 CONTRASTO TRA NORMA PENALE INTERNA E NORMA COMUNITARIA


Il giudice italiano deve attenersi alla disciplina europea in virtù del solito principio di preminenza del diritto
comunitario. Se si tratta di un contrasto dell’ordinamento interno con una norma di un Trattato, il giudice è
tenuto a disapplicare la norma: cessano tutte le conseguenze dell’applicazione della norma valente nel
Paese ma non per l’Unione. Se il contrasto è solo parziale, il giudice è tenuto a disapplicare solo la parte in
contrasto. Occorre ricordare che il giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale sulle norme
interne che violano principi contenuti in una direttiva dell’UE vale anche nei confronti delle norme di favore.
Infine, anche a livello interpretativo, la prevalenza del diritto comunitario impone al giudice di scegliere tra le
diverse interpretazioni quella più conforme ai principi del diritto comunitario.

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♦ 5. SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO

Secondo il principio di irretroattività della legge penale, nessuno può essere punito per un fatto che non
fosse già previsto come reato al momento del compimento del fatto stesso. Inoltre la funzione di certezza
impone che i cittadini siano in grado di sapere in anticipo e con chiarezza quali sono le possibili
conseguenze penali dei loro comportamenti.
Questo principio consente la retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al reo.
È tutelato dall’art. 3, Cost. (principio di uguaglianza), secondo il quale se un soggetto veniva punito con una
certa sanzione per un determinato comportamento, un altro soggetto che ha commesso quello stesso
comportamento non può essere punito con una sanzione più grave. Il limite sta nel fatto che il legislatore
può introdurre una deroga al principio, prevedendo che una legge più favorevole successiva non si applichi
retroattivamente, solo se l’eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza.
L’ abolitio criminis si verifica nel momento in cui una legge successiva abroga una precedente fattispecie
incriminatrice: non possono essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della legge
incriminatrice (poi abrogata) perché non avrebbe senso punire una persona per un fatto non più considerato
incriminatore. Il nostro sistema è infatti improntato sulla punizione del fatto, non della persona che lo ha
commesso. Si può parlare di abolitio criminis solo quando in concreto il fatto incriminato dalla norma
precedente non rientri più a nessun titolo nella nuova fattispecie.
La successione della legge penale nel tempo si ha invece con il criterio strutturale che impone che il fatto
concreto rientri sia nella prima che nella seconda fattispecie e che dunque la commissione dell’illecito
avvenuto prima dell’introduzione dell’abrogazione debba essere punito secondo la norma abrogante.
es. INFANTICIDIO. Non vi è continuità tra l’art. 578 c.p. che puniva l’infanticidio per causa d’onore (con pene
meno gravi dell’omicidio comune) e la sua abrogazione che sostitutiva questo delitto con quello di
“infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale”, in quanto nessuno dei fatti compresi nel primo
delitto rientra nel secondo.
L’ abolitio criminis parziale fa sì che solo alcune condotte precedentemente incriminate mantengano
rilevanza penale. es. Nel sistema originario del 1930, era punito per violenza carnale colui che aveva un
rapporto sessuale con una persona che era, al momento del fatto, “malata di mente”. Questa norma aveva
lo scopo di tutelare l’integrità sessuale degli infermi mentali, ma finiva per negargli qualsiasi diritto ad una
libera vita sessuale. Abrogata questa norma, viene oggi punito chi induce un soggetto in una situazione di
inferiorità fisica o psichica ad avere un rapporto sessuale. Nel caso della successione della legge penale in
vigore medio tempore, il giudice deve scegliere la norma più favorevole tutte le volte che siano diverse la
legge del commesso reato e quelle successive. Pertanto, può avvenire che la norma più favorevole al reo
sia quella intermedia, non in vigore né al momento del reato, né del giudizio, perché a sua volta sostituita nel
frattempo.
L’applicazione della legge penale successiva più favorevole trova un limite nel giudicato e stabilisce che il
condannato non può beneficiare delle circostanze attenuanti riguardanti il suo reato se ciò avviene dopo la
sua condanna (causa ne è che non si possono riaprire tutte le cause chiuse per un’attenuante).
L’unica eccezione è l’art 2, comma 3, c.p. il quale stabilisce che se vi è una conversione della sanzione
riguardante una certa condotta da pena detentiva a pena pecuniaria, anche se definitiva, la pena deve
mutare ed essere convertita nella corrispondente pena pecuniaria (a tutela del rispetto del bene della libertà
personale).
L’abolitio criminis e la successione delle leggi penali non si applicano alle leggi eccezionali e temporanee.
LEGGE ECCEZIONALE: dettata dalla necessità di affrontare un evento straordinario e grave ed è
legittimata a rimanere in vigore fin tanto che sussiste la situazione eccezionale che l’ha inizialmente
giustificata ed imposta.
LEGGE TEMPORANEA: prevede, al suo interno, un termine di durata oltre il quale cesserà di avere effetto.

Il decreto legge non convertito in legge entro 60 giorni dal Parlamento perde la sua efficacia ex tunc.
Tizio che commette un fatto previsto e punito dalla fattispecie incriminatrice che viene poi abrogata da un
decreto legge che non verrà mai convertito, sarà punito seguendo le conseguenze della fattispecie
incriminatrice sospesa solo momentaneamente.
Più complicato è il caso di un decreto legge favorevole al reo non convertito quando il fatto avviene in
concomitanza alla vigenza del decreto stesso. Il soggetto non potrà essere punito in quanto ha agito nella
convinzione che i suoi comportamenti fossero leciti.
Nel caso di un decreto legge sfavorevole al reo non convertito in legge in ipotesi di fatto concomitante ha
le stesse conseguenze di quello sopracitato: non produce effetti in quanto la mancata conversione in legge
esclude qualsiasi effetto penale nella sfera di libertà del cittadino.

7 – Diritto penale
♦ 6. PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA

Il principio di legalità determina il rispetto del principio di determinatezza secondo il quale le fattispecie
incriminatrici devono esprimere con precisione e chiarezza tutti gli elementi costitutivi della fattispecie.
L’art. 1 c.p. prevede che nessuno possa essere punito se non per un fatto espressamente previsto dalla
legge penale.
L’art. 25, Cost. inoltre sancisce il principio di determinatezza, che esprime la necessità di garantire con
norme chiare e precise la ratio di garanzia e di certezza. Tale principio deve garantire i destinatari della
legge penale da possibili abusi del potere giudiziario, consentiti da fattispecie descritte in termini generici,
con esagerati margini di interpretazione. I destinatari di questo principio sono quindi: il Parlamento, che
deve costruire fattispecie incriminatrici chiare e precise, il giudice, che deve limitare la sua interpretazione
delle norme penali, e il cittadino, che deve essere in grado di conoscere con precisione i limiti dei fatti
penalmente sanzionati.
Il principio di tassatività impone al legislatore di utilizzare tecniche legislative che chiariscano al massimo
grado possibile i confini dei fatti penalmente sanzionati.
A questo proposito si distingue tra:
1. Normazione casistica: tende ad elencare tutti i possibili aspetti che rientrano nella fattispecie
incriminatrice. es. il DELITTO DI ASSOCIAZIONE DI STAMPO MAFIOSO descrive analiticamente tutti i
comportamenti e le finalità di suddetti comportamenti che portano il soggetto ad essere dichiarato
mafioso. Se questa tecnica legislativa è da un lato assai rispettosa del principio di legalità perché
descrive al massimo le fattispecie incriminatrici, dall’altro appesantisce la norma penale e rischia di
tralasciare comportamenti che non essendo specificati nella norma devono essere considerati leciti.
2. Norma sintetica: definisce con certezza i limiti della rilevanza penale dei comportamenti del cittadino
alla stregua di due criteri: vi deve essere un oggetto giuridico ben definito, ovvero il bene tutelato dalla
fattispecie deve essere concepito chiaramente, e i termini utilizzati dal legislatore devono avere una
verificabilità empirica che consenta di individuarne la contestualizzazione concreta e reale.

♦ 7. INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE E DIVIETO DI ANALOGIA

Un’interpretazione del diritto penale è sempre necessaria al fine di rendere possibile quel raffronto tra
fattispecie astratta e fatto storico. L’attività interpretativa può essere ‘’autentica’’ quando il legislatore
interviene per chiarire il senso di una norma di legge, o ‘’ufficiale’’ se proviene dall’autorità amministrativa o
dagli organi dello Stato. Inoltre si distingue un’interpretazione giudiziale operata dalla magistratura, di
merito o di legittimità, nel concreto svolgersi del processo, da quella dottrinale frutto della riflessione e del
confronto scientifico tra i giuristi che studiano le norme vigenti. Nel nostro ordinamento, il precedente
giudiziario non vincola l’interprete.
Il sistema penale deve tendere ad un equilibrio tra rispetto della legalità e attività interpretativa del giudice. I
criteri fondamentali sembrano dunque essere il significato letterale delle parole della norma e l’intenzione
del legislatore, intesa come finalità di tutela.
Quando però tali criteri entrano in contrasto, questi possono risolversi attraverso:
1. criterio semantico: l’interprete deve chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati dal legislatore.
Spesso però questa interpretazione non è sufficiente: es. dal punto di vista lessicale, la norma che
punisce la PROSTITUZIONE non chiarisce se nel concetto di prostituzione stesso rientri solo la
consumazione di un rapporto sessuale in cambio di denaro o anche la PRESTAZIONE A DISTANZA
(ripresa tramite video di un soggetto che compie un atto sessuale su sé stesso dietro pagamento,
oppure registrazione di voci);
2. criterio storico: la necessità di rifarsi alla volontà del legislatore intesa come oggettivazione nel testo di
legge, di una volontà storica espressa dal Parlamento attraverso l’esercizio del proprio potere
legislativo;
3. criterio logico-sistematico: consiste nel cercare tra tutti i significati della legge penale quello più
coerente con l’ordinamento nel suo insieme, es. la ragazza 17enne che chiede esplicitamente al
fidanzato di riprenderla durante l’atto sessuale. Il materiale sul telefono del ragazzo è materiale pedo-
pornografico, punito con reclusione da 6 a 12 anni. Ma l’evidente consenso della giovane rende
irrilevante penalmente la condotta del ragazzo, o no? Ricorrendo al criterio sistematico, il consenso
rende legittimo qualunque atto sessuale compiuto da chi abbia già raggiunto i 16 anni, chiunque sia il
partner;

8 – Diritto penale
4. criterio teleologico: impone di individuare lo scopo della fattispecie incriminatrice, per interpretarla alla
luce dei mutamenti che le esigenze di tutela impongono nei diversi momenti storici. Da questo punto di
vista, la prostituzione virtuale (video o registrazioni di voci) viene con questo metodo interpretativo
considerata pienamente prostituzione.

 DIVIETO DI ANALOGIA
Per analogia si intende quel procedimento attraverso il quale viene applicato ad un caso non previsto dalla
legge una disciplina prevista per un caso simile. Legittima negli altri ambiti dell’ordinamento giuridico, con
l’art.12 delle Disposizioni sulle leggi in generali, l’analogia è vietata nel diritto penale. ‘’Le leggi penali e
quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse
considerati’’. Il principio di tassatività impone al giudice di limitare l’ambito di operatività della norma penale
ai soli fatti in essa tassativamente descritti. Problema: confine tra analogia ed interpretazione estensiva del
diritto penale, che sarebbe consentita nella misura nella quale sia rispettato il limite del significato letterale
della norma.

♦ 8. LIMITI SPAZIALI ALLA EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE

Entro quali limiti spaziali bisogna applicare il diritto penale italiano?


Sicuramente entro i confini dello Stato, ma con la tendenziale universalità operata dal codice Rocco, anche a
fatti di reato commessi all’estero da un cittadino italiano, o da uno straniero ad un cittadino italiano.
Vi sono 4 criteri alla stregua dei quali valutare l’obbligatorietà della legge penale italiana nello spazio:
1. principio di universalità: è punito qualsiasi delitto commesso da chiunque a danno di chiunque, anche
all’estero;
2. principio di territorialità: limita l’applicazione del diritto penale ai soli fatti commessi nel territorio dello
Stato;
3. principio di persona passiva: prevede l’applicazione della legge penale dello Stato a cui appartiene il
titolare del bene offeso;
4. principio di persona attiva: prevede l’applicazione del diritto penale dello Stato di appartenenza del
reo.
Ogni ordinamento giuridico disciplina l’efficacia della legge penale nello spazio attraverso la combinazione di
tutti e quattro i criteri indicati.

 PRINCIPIO DI TERRITORIALITA’
Ai sensi dell’art. 3 c.p. “La legge penale obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio
dello Stato.”. Conseguenza di questa obbligatorietà è che coloro che si trovano nel territorio dello Stato sono
tenuti ad osservarla e che ‘’chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge
italiana’’, secondo il recitato dell’art. 6, comma 1 c.p. Il primo fondamentale criterio di riferimento è dunque il
principio di territorialità. Il reato è punito ai sensi della legge italiana anche se solo la condotta è stata
tenuta in Italia e l’evento si è verificato all’estero; oppure anche se la condotta è stata tenuta interamente
all’estero, qualora l’evento si verifichi nel nostro territorio. Inoltre viene ‘’estremizzato’’ dal momento che
anche solo una parte della condotta può essere tenuta in Italia, con la conseguenza che si applicherà la
nostra legge penale anche ad un fatto avvenuto quasi completamente all’estero purché un frammento anche
minimo della condotta si sia tenuto in Italia. Infine, un reato commesso interamente all’estero <<non può
rientrare nella giurisprudenza del giudice italiano per il solo fatto che sia legalo dal vincolo della
continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai sensi
degli artt. da 7 a 10 c.p., comportano deroga del principio di territorialità sul quale si basa la giurisdizione
dello Stato italiano>>.

Con TERRITORIO DELLO STATO si intende non solo il territorio entro i confini dell’Italia, ma anche (art. 4,
comma 2) ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato, come il mare costiero (sino a 12 miglia dalle
coste) e lo spazio aereo nazionale. A questi bisogna aggiungere le navi e gli aerei italiani, considerati,
ovunque essi si trovino, territorio dello Stato - a meno che non siano soggetti, secondo il diritto
internazionale, a leggi territoriali straniere.

Ma al principio di territorialità, vanno integrate alcune disposizioni. Ad esempio, l’art. 7cp prevede una pena
per fatti compiuti INTERAMENTE ALL’ESTERO da cittadino italiano che straniero con cittadinanza. La ratio
che giustifica l’applicazione della pena è data dal principio di personalità passiva, quel principio che
concerneva i delitti che offendono direttamente un interesse dello Stato italiano. Questi delitti sono:

9 – Diritto penale
- delitti contro la personalità dello Stato italiano;
- delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di suo uso;

- delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato;

- delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato abusando dei poteri o violando i
doveri inerenti alle loro funzioni.

Vengono inoltre puniti dal sistema penale italiano i delitti avvenuti all’interno della Città del Vaticano
(art.22).
Vengono puniti dalla legge italiana anche se commessi interamente all’estero i delitti politici: delitto che
offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino (oggettivamente politico) e il
delitto comune delimitato in tutto o in parte da motivi politici (soggettivamente politico).

L’art. 9 cp prende in esame i delitti commessi all’estero da un cittadino italiano prevedendo l’applicabilità
della legge penale italiana per i delitti punibili con ergastolo o reclusione non inferiore a 3 anni.
L’art. 10 cp disciplina l’applicabilità della legge penale italiana ai delitti commessi interamente all’estero
da un cittadino straniero: se il fatto è commesso contro un cittadino italiano o a danno del nostro Stato vi è
applicabilità per i delitti puniti con ergastolo o reclusione non inferiore a 1 anno, ma con richiesta del Ministro
della giustizia nonché della presenza del reo nel territorio dello Stato.

 STRUMENTI DI COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE


L’art. 11 c.p. disciplina il rinnovamento del giudizio. Prevede che il cittadino e lo straniero, che abbiano
compiuto un reato nel territorio dello Stato, vengano sempre giudicati in Italia, anche se vi è già stato un
giudizio penale all’estero. In caso di delitto commesso all’estero si procede alla rinnovazione del giudizio solo
se vi è richiesta da parte del Ministero della Giustizia. L’art. 54 della Convenzione di applicazione
dell’Accordo di Schengen del 1985, ha introdotto il principio del ne bis in idem, secondo il quale è vietato
procedere una seconda volta, quando vi sia già stato un giudizio di condanna per un medesimo fatto e la
relativa pena sia stata scontata o sia in corso di esecuzione (ovvero un soggetto non può essere punito due
volte per lo stesso reato commesso). L’Unione Europea ha emanato alcune Decisioni Quadro, finalizzate al
reciproco riconoscimento delle sentenze penali tra Paesi membri in materia di pene detentive, misure
limitative della libertà personale, pene pecuniarie, confisca. Una sentenza di condanna emessa da un Paese
membro dell’UE viene eseguita in Italia se e solo se la persona condannata:
- ha la cittadinanza italiana
- ha residenza, dimora o domicilio in Italia
- si trova nel territorio italiano
- ha prestato il proprio consenso.

Inoltre il fatto per il quale è stata condannata deve essere previsto come reato dalla legge italiana, e la
durata e natura della pena devono essere compatibili con la stessa.

 ESTRADIZIONE
L’estradizione è l’istituto di diritto internazionale (art. 13 cp) attraverso il quale uno Stato (estradizione
attiva) consegna ad un altro Stato (estradizione passiva) che lo ha richiesto un soggetto che deve essere
giudicato o punito per i suoi crimini.
La Corte Costituzionale ha agito per porre dei limiti a questo istituto: il divieto di estradizione del cittadino o
dello straniero per reati politici.

L’estradizione, nel nostro ordinamento, è sottoposta ad una serie di principi e vincoli:


1. Requisito della doppia incriminazione: il fatto per il quale viene richiesta o concessa l’estradizione deve
essere considerato reato dalla legge italiana e da quella straniera;
2. Requisito del principio di specialità: vieta l’adozione di misure restrittive della libertà o il procedimento nei
confronti dell’estradato per fatti anteriori e diversi da quelli per i quali è stata concessa l’estradizione;
3. Requisito del principio di sussidiarietà: l’estradizione non è consentita se, per lo stesso fatto, il soggetto
sta già subendo un processo penale;

10 – Diritto penale
4. Il divieto di bis in idem impedisce l’estradizione se è già stata pronunciata sentenza irrevocabile nello Stato.

L’estradizione è oggi vietata anche quando l’imputato o il condannato corre il rischio di essere sottoposto,
nel paese richiedente, a:
- atti persecutori;
- discriminazioni per motivi di sesso, razza, opinioni politiche, etc;
- pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti;
- atti che violano uno dei diritti fondamentali dell’uomo .
È inoltre vietata l’estradizione per reati che nel Paese richiedente sono puniti con la pena di morte.

 MANDATO DI ARRESTO EUROPEO


Oggi nei Paesi dell’UE l’estradizione è stata sostituita dal mandato d’arresto europeo, provvedimento
emesso dall’autorità giudiziaria di un Paese membro, che impegna tutti gli altri a darvi esecuzione, per
l’arresto di un ricercato. L’emissione e l’esecuzione del mandato sono di esclusiva competenza
giurisdizionale. Non può essere emanato per reati politici, tranne che per i fatti di genocidio e per delitti di
terrorismo. Deve essere rifiutata la consegna del soggetto in casi di pericolo di persecuzione,
discriminazione o sottoposto alla pena di morte o a trattamenti inumani. La legge 69/2005 vieta l’esecuzione
del mandato quando il soggetto ricercato sia un minore, una donna incinta o madre di prole di età inferiore a
3 anni.

♦ 9. STRUTTURA GENERALE DEL REATO


Per quanto riguarda la struttura del reato, vi sono 3 concezioni:
1. Concezione bipartita: il reato è composto dal fatto oggettivo e dall’elemento soggettivo. Nel fatto
oggettivo sono compresi tutti gli elementi oggettivi richiesti dalla singola fattispecie incriminatrice
(elementi positivi del fatto). Però possono sussistere particolari situazioni in presenza delle quali il
fatto è autorizzato o imposto dall’ordinamento giuridico (cause di giustificazione) che possono
appunto imporre o autorizzare un fatto che, in loro assenza, costituirebbe reato. Le scriminanti
costituiscono gli elementi negativi del fatto che devono mancare affinché il reato sussista. A questo
si affianca l’elemento soggettivo in quanto la responsabilità penale non può essere fondata solo sulla
base di elementi di natura oggettiva;
2. Concezione tripartita: gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti alle tre categorie del
fatto tipico che include gli elementi oggettivi del reato, l’antigiuridicità in cui trovano collocazione le
cause di giustificazione e la colpevolezza che identifica gli elementi che consentono di muoverle al
soggetto un rimprovero per il fatto commesso;

3. Concezione quadripartita: alla concezione tripartita si aggiunge la punibilità alla quale


vanno ricondotte le cause personali di non punibilità (es. immunità parlamentare) e le cause
sopravvenute di non punibilità (consistono in comportamenti successivi al reato tenuti dal reo che
eliminano le conseguenze del reato stesso e che devono essere previste espressamente come
cause di non punibilità, altrimenti fungono da attenuanti). Ma la punibilità è estranea alle ragioni che
stanno alla base delle scelte di incriminazione (pertanto concezione non usata).

Il reato è quell’illecito per il quale l’ordinamento prevede come conseguenza sanzionatoria una pena. In
base al tipo di pena prevista, il reato si divide in delitto punito con ergastolo, reclusione o multa, e
contravvenzione punita con arresto e ammenda. L’uno non è considerato più grave dell’altro e viceversa.

♦ 10. SOGGETTI
Il soggetto attivo del reato è la persona che realizza il fatto descritto dalla singola fattispecie incriminatrice.
Per la maggior parte delle fattispecie è sufficiente l’intervento di una sola persona (forma mono soggettiva);
altre volte è invece necessario l’intervento di due o più persone (rissa) o tre o più persone (associazione a
delinquere). I reati comuni sono quei reati che possono essere commessi da chiunque. I reati propri sono

11 – Diritto penale
invece quei reati che richiedono, quale elemento costitutivo della fattispecie, particolari qualifiche personali
in capo al soggetto attivo (es. delitto di abbandono di persone minori o incapaci: questo delitto può essere
commesso solamente da coloro che hanno in capo a sé un dovere di cura e custodia nei confronti della
vittima). La qualifica richiesta per il reato proprio può essere:
- naturalistica: es. qualifica di madre nel delitto di infanticidio;
- giuridica: es. qualifica di pubblico ufficiale nel delitto contro la pubblica amministrazione.

Una sottocategoria del reato proprio è il reato di mano propria in cui è necessario che il soggetto titolare
della qualifica tenga la condotta incriminatrice anche se il fatto è commesso da più persone (es. delitto di
incesto: commesso solo se i soggetti che tengono un rapporto sessuale sono legati da vincoli di parentela).

 LE IMMUNITA’
L’art. 3 cp prevede una deroga al carattere obbligatorio della legge penale in casi espressamente previsti da
essa. Queste eccezioni sono dette immunità.
Le immunità hanno natura giuridica di cause personali di esenzione dalla pena: escludono la punibilità del
soggetto. La loro applicazione è limitata al solo soggetto a cui si riferiscono.
Si suddividono in immunità:
- funzionali: la non punibilità si limita ai reati commessi nell’esercizio delle funzioni;
- extrafunzionali: la non punibilità investe anche gli atti al di fuori delle funzioni;
- sostanziali: sono cause personali di non punibilità;
- processuali: riguardano invece il processo e consistono in ostacoli al promovimento dell’azione penale.

Tra queste vi sono le immunità previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali che non sollevano
ovviamente problemi di copertura costituzionale.
L’art. 90, Cost. prevede l’immunità funzionale del Presidente della Repubblica: egli non risponde per gli atti
commessi nell’esercizio delle sue funzioni se non per ALTO TRADIMENTO o ATTENTATO ALLA
COSTITUZIONE (in tal caso viene messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune a
maggioranza assoluta e giudicato dalla Corte Costituzionale). I Parlamentari godono di un’immunità
sostanziale (dentro e fuori dal Parlamento) volta a garantire il loro esercizio delle funzioni parlamentari al di
là di condizionamenti esterni. Questa immunità interessa le opinioni espresse e i voti dati, reati di ingiuria,
diffamazione e i reati di opinione. Inoltre l’art 68, Cost. prevede un’immunità processuale che non consente
l’adozione di specifici atti processuali senza l’autorizzazione della camera di appartenenza del parlamentare
(perquisizione personale e domiciliare, detenzione). Queste limitazioni interessano anche gli atti commessi al
di fuori dell’esercizio delle funzioni, durante e prima dell’assunzione della carica. I Consiglieri Regionali
godono delle stesse immunità parlamentari, così come i Giudici della Corte Costituzionale e i membri del
Consiglio superiore della Magistratura.

 IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO


Il soggetto passivo del reato (anche detto persona offesa) è il titolare del bene giuridico tutelato dalla
fattispecie incriminatrice.
Diverso è l’oggetto materiale del reato, costituito dalla persona o dalla cosa su cui cade la condotta del
reato: nel delitto di furto l’oggetto materiale è la cosa mobile altrui, nel sequestro di persona è il sequestrato.
Diverso ancora è il danneggiato, ossia la persona che ha subito dal reato un danno risarcibile (l’art. 185cp
prevede che ogni reato obbliga la restituzione o risarcimento del danno). Il sistema penale conferisce
rilevanza alla persona offesa a diversi fini:

1. in alcuni casi è richiesta una specifica qualifica del soggetto passivo come elemento
costitutivo della fattispecie incriminatrice (delitto di oltraggio la persona oltraggiata deve essere un
pubblico ufficiale);
2. in altri casi la specifica qualifica della persona offesa è considerata elemento circostanziale
(il delitto di attentato per finalità di terrorismo è aggravato se commesso contro persone che
esercitano funzioni giudiziarie);

12 – Diritto penale
3. il soggetto passivo può fondare una causa di non punibilità;

4. il consenso del soggetto passivo alla lesione di diritti disponibili costituisce causa di
giustificazione;

5. la persona offesa rileva anche sul piano della disciplina processuale;

6. nei delitti perseguibili a querela il soggetto passivo è il titolare del diritto di presentare
querela.

♦ 11. CONDOTTA ED EVENTO


Nella struttura del reato è essenziale accertare come prima cosa che vi sia stato il fatto tipico.
Il primo elemento costitutivo del fatto tipico è la condotta che può essere:
- attiva: detta anche azione, vi è quando c’è un movimento muscolare. Il precetto è costituito
da una norma di divieto;
- omissiva: quando consiste in un non facere (es. omissione di soccorso). Qui il precetto è
costituito da una norma di comando che impone di tenere una determinata condotta in una
determinata situazione.

Art. 42, c.p. “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione prevista dalla legge come reato se non
l’ha commesso con coscienza e volontà”
Coscienza e volontà vanno riferite esclusivamente all’azione od omissione e non all’intero fatto di reato. In
alcuni casi coscienza e volontà dell’azione o omissione corrispondono ad un dato psicologico effettivo
(coscienza e volontà reali). Vi sono situazioni in cui la coscienza e volontà sono dette potenziali, ovvero
azioni che il soggetto avrebbe potuto evitare se fosse stato maggiormente attento. Se sussiste coscienza e
volontà dell’azione o omissione si può dire che la condotta è propria del soggetto (suitas): era effettivamente
cosciente e l’ha voluta o evitata.

L’elemento della coscienza e della volontà non sussiste in tre casi:


1. in presenza di una forza maggiore (art.45): una forza della natura improvvisa, alla quale il soggetto non può
resistere né sottrarsi;
2. in caso di costringimento fisico (art.46): violenza fisica assoluta tale da non consentire al soggetto alcuna
possibilità di scelta. Del fatto commesso risponde dunque l’autore della violenza;
3. stato di incoscienza indipendente dalla volontà: una accidentalità non conoscibile e non eliminabile con
l’uso della prudenza e diligenza.

La suitas è strettamente connessa all’azione o omissione che, mancando, viene meno la stessa condotta e
il fatto non sussiste.

 I PRESUPPOSTI DELLA CONDANNA

I presupposti di condotta possono essere presupposti naturalistici, come per il delitto di aborto in cui la
donna deve essere in stato di gravidanza, oppure presupposti giuridici, come per il delitto di bigamia per il
quale è necessario che il soggetto sia già legato ad una persona da un vincolo matrimoniale avente effetti
civili. Anche questi costituiscono fatto di reato.

 LA NOZIONE DI EVENTO

Il codice penale utilizza in diversi articoli il termine evento, senza darne una definizione. Si suddivide in
evento naturalistico, modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge
come elemento costitutivo di fattispecie. È assente nei reati nei quali si limita ad incriminare una condotta
attiva o omissiva. Diversamente l’evento giuridico, offesa dell’interesse tutelati dalla norma incriminatrice.

13 – Diritto penale
Non è separabile dalla condotta: spetta all’interprete valutare caso per caso, se sia da privilegiare
l’accezione naturalistica o quella giuridica.

 DISTINZIONE DEI REATI IN RELAZIONE ALLA CONDOTTA

1. Reati di azione e reati di omissione: è presente una condotta attiva e nei reati di omissione invece vi deve
essere assenza di azione imposta da una norma;
2. Reati di pura condotta e reati di evento: nei primi la fattispecie si esaurisce in una condotta attiva o
omissiva, mentre nei secondi sono presente gli eventi naturalistici (modificazioni del mondo esterno
cagionate dalla condotta e considerate dalla legge quali elemento costitutivo della fattispecie);
3. Reati a condotta vincolata e reati a forma libera: i reati a condotta vincolata sono quei reati per i quali la
norma incriminatrice richiede specifiche modalità della condotta. I reati a forma libera sono quelli puniti per il
fatto stesso, non importa le modalità con le quali sono stati messi in atto (delitto di omicidio punito a
prescindere dalle modalità con le quali è stato messo in atto). In quest’ultimi il criterio di tipizzazione è il
nesso di causalità e per questo sono anche definiti reati causali puri o casualmente orientati;
4. Reati istantanei, reati permanenti e reati abituali: i reati istantanei sono i reati la cui condotta si realizza in
uno specifico momento. Nei reati permanenti la condotta perdura nel tempo (sequestro di persona). Questi
reati si compongono di due momenti: quello iniziale (perfezione del reato) che si realizza quando la
protrazione della condotta per un certo lasso di tempo consolida l’offesa al bene giuridico tutelato, e quello
finale (consumazione del reato) che cessa quando l’autore della condotta liberamente interrompe l’azione
o circostanze esterne la fanno cessare (intervento della polizia). I reati abituali invece richiedono la
reiterazione di una pluralità di azioni che vengono considerate come una sola condotta (es. delitto di
maltrattamenti in famiglia). Il reato abituale si distingue in reato abituale proprio (il singolo comportamento
in sé non costituisce reato ma lo diventa se unito ai suoi simili, es. lo stalking diventa reato se considerato in
maniera unitaria, e non per la singola chiamata) e reato abituale improprio (il singolo comportamento
risulta già reato in sé ma la reiterazione lo rendono abituale).

♦ 12. REATI OMISSIVI


La condotta omissiva rileva nel momento in cui vi è una norma che impone un determinato comportamento
in una determinata situazione. Deve dunque sussistere una norma perché la non azione abbia rilevanza
penale. I reati omissivi si distinguono in omissivi propri e impropri.

 REATO OMISSIVO PROPRIO


Per questi reati viene incriminata la semplice condotta omissiva e punito che non presta soccorso o non
avvisa le autorità. Requisiti necessari perché vi sia reato omissivo proprio:
1. la situazione di fatto, quella descritta dalla norma incriminatrice e che comporta l’obbligo di attivarsi;
2. la condotta omissiva del soggetto indicata nella norma incriminatrice;
3. un termine di adempimento della condotta che può essere espressa dalla norma stessa o desunta
dal giudice attraverso l’interpretazione;
4. possibilità di agire del soggetto, non deve essere impossibilitato per ragioni oggettive (incapacità di
soccorso per azioni che non sa fare).

 REATO OMISSIVO IMPROPRIO


Manca l’impedimento di un evento che il soggetto aveva l’obbligo di eliminare. Art. 40 cp “non impedire un
evento che si ha obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (clausola di equivalenza). Questo tipo di
reato presenta dei problemi di struttura, specialmente per quanto riguarda:
1. l’ambito di applicazione della clausola di equivalenza: applicabile solo ai reati con evento naturalistico, e
per tanto sono esclusi i reati di pura condotta; tale clausola non si applica ai reati dei quali la condotta
omissiva è già prevista dal legislatore in sede di tipizzazione della condotta; ultima limitazione è data
dall’inapplicabilità ai reati con condotta a tipizzazione necessariamente attiva;
2. l’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento: la norma presenta un contenuto
indeterminato colmato dalle interpretazioni attraverso soluzioni che presentano contenuti disparati e che
hanno reso incerti i confini della tutela e della responsabilità penale. Per individuare gli obblighi giuridici di
impedire l’evento sono state proposte 3 teorie:

14 – Diritto penale
 TEORIA FORMALE: solo una fonte formale può porre l’obbligo giuridico di agire
(inizialmente solo legge e contratto, successivamente anche negotiorum gestium, ovvero
gestione di affare altrui, la consuetudine e la precedente attività pericolosa)
 TEORIA FUNZIONALE: vi è l’obbligo attraverso le posizioni di garanzia che hanno 3
caratteristiche fondamentali:
 Bene vulnerabile per incapacità del titolare di tutelarlo;
 Affidamento del bene al garante prima della situazione di pericolo;
 Signoria del garante sul rischio che conduce all’evento lesivo.
 TEORIA MISTA: richiede al contempo per fondare una responsabilità da reato omissivo
l’esistenza della fonte formale che pone l’obbligo e una posizione di garanzia.
3. l’accertamento del nesso causale tra condotta omissiva ed evento non impedito.

 TIPOLOGIA DELLE POSIZIONI DI GARANZIA


Le posizioni di garanzia vengono distinte in:
1. posizione di protezione: impone di preservare il bene protetto dai rischi che possano lederne l’integrità. Il
garante ha cioè sotto la sua sfera di protezione un bene che deve salvaguardare da possibili offese (non
vale per le coppie di fatto);
2. posizioni di controllo: impongono di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare i
beni di terzi. Il garante ha sotto il proprio controllo una fonte di pericolo e diventa garante dei beni che
possono essere offesi dalla fonte che è nella sua disponibilità.

La dottrina ha aggiunto una terza tipologia di posizione di garanzia che ha ad oggetto il mancato
impedimento di reati commessi da terzi. Questa tipologia si riconduce alle due categorie precedenti.

Le posizioni di garanzia possono a loro volta essere originarie, il garante è individuato dalla norma, o
derivate, in cui le posizioni di garanzia possono essere trasferite tramite legge o anche contratto. Questo
trasferimento deve avvenire a determinare condizioni:
1. la concreta presa in carico del bene da parte del garante derivato, con la concreta
assunzione da parte del garante dei poteri-doveri impeditivi non solo giuridici, ma anche fatturali
dell’evento dannoso o pericoloso. Diverso è il caso in cui vi è la pluralità di posizioni di garanzia
succedutesi le une alle altre, in cui alla responsabilità del primo garante, per la condotta attiva o
omissiva, si aggiunge quella del garante successivo qualora abbia omesso, potendolo fare, di
intervenire sulle situazioni di rischio realizzate dal precedente garante, realizzandosi così un
concorso di cause;
2. la volontà del titolare del bene o del garante originario al suo trasferimento

♦ 13. RAPPORTI DI CAUSALITA’


Per il diritto penale il rapporto di causalità si traduce in un problema di imputazione di un evento ad una
condotta umana (art.40 cp: ‘’nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od
omissione’’). Diversamente l’art.41, che disciplina le concause, si presenta in due comma contraddittori:
- Comma 1: Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se
indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione
od omissione e l'evento;
- Comma 2: Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da
sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente
commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita.

Il punto critico del rapporto di causalità riguarda le cause sopravvenute: se queste sono state da sole
sufficienti a determinare l’evento, allora significa che sono state l’unica causa determinante.
La difficoltà di interpretazione è stata elaborata dalla dottrina con la realizzazione di quattro teorie.

1. TEORIA CONDIZIONALISTICA

15 – Diritto penale
Questa teoria sostiene che la causa sia l’insieme delle condizioni necessarie per la produzione
dell’evento. Ai fini dell’accertamento della responsabilità penale è sufficiente che la condotta costituisca una
delle condizioni dell’evento. La causalità è accertata attraverso il procedimento di eliminazione mentale,
sostenendo pertanto che un fatto è causato da un'azione od omissione quando, eliminando mentalmente
l'antecedente, viene meno il conseguente. Su questa teoria ci sono diverse critiche:
- Regresso all’infinito: se tutte le condizioni dell’evento sono causali, lo sono anche le
condizioni delle condizioni. Questa obiezione però, non tiene conto del fatto che la responsabilità
penale non si fonda solo sugli elementi oggettivi della fattispecie, ma richiede anche l’accertamento
della colpevolezza;
- Causalità alternativa ipotetica: l’intervento di un fattore causale che avrebbe comunque
prodotto l’evento all’incirca nello stesso momento. Un punto fondamentale per l’accertamento del
nesso causale sta nel prendere come secondo termine l’evento in concreto;
- Causalità addizionale: quando l’evento deriva da azioni congiunte tali che, se anche una
venisse meno, non verrebbe meno l’evento, il procedimento di eliminazione mentale dovrebbe
condurre ad escludere il nesso causale. Per tanto il procedimento di eliminazione mentale va
verificato rispetto al complesso dei fattori causali e non alle singole condotte.

Sembra così che questa teoria è incapace di esprimere la specificità del nesso causale. Infatti la causalità
non dovrebbe essere analizzata in termini naturalistici, bensì come problema di imputazione di un evento
ai fini della responsabilità penale: ossia l’evento che è riconducibile ad una condotta umana (vista come
condizione dell’evento). Questa scissione tra causalità naturalistica e imputazione giuridica è anche alla
base delle altre teorie che pertanto si presentano come correttive della stessa.

2. TEORIA DELLA CAUSALITA’ ADEGUATA


Questa teoria sostiene che la condotta umana debba costituire condizione dell’evento, ma limita la
responsabilità penale alla sola condotta idonea a produrlo. La valutazione di idoneità va effettuata secondo
un giudizio ex ante ovvero accertando se, al momento della condotta, questa costituiva un fattore probabile
di determinazione dell’evento. Obiettivo di questa teoria è restringere eccessivamente la responsabilità
penale, escludendola quando una condotta, che appariva inidonea al giudizio, lo abbia poi di fatto prodotto,
finendo con l’escludere il nesso causale tra condotta e gli effetti prodotti dalla stessa. Questa esigenza di
limitare la responsabilità penale alle quali cerca di opporsi questa teoria, può essere meglio soddisfatta
nell’ambito dell’elemento soggettivo che deve essere sempre accertato con giudizio ex ante.

3. TEORIA DELLA CAUSALITA’ UMANA


Questa teoria, elaborata da Francesco Antolisei, sostiene che la causalità delle condotte dell’uomo
presenti proprie specificità in quanto l’uomo ha una sfera di signoria che gli consente di dominare una
serie di circostanze nelle quali si inserisce la sua condotta. I fattori che rientrano in questa sfera, possono
essere considerati causati dall’uomo, in quanto dominabili; quelli che invece vi fuoriescono, non posso
essere imputabili al soggetto poiché fattori eccezionali e quindi imprevedibili. Oggi la giurisprudenza
esclude il nesso causale tra una condotta e l’evento quando, pur trattandosi di una condotta condizionale,
interviene un fattore eccezionale che interrompe il rapporto causale.

4. TEORIA DELL’IMPUTAZIONE OGGETTIVA DELL’EVENTO


Viene introdotta l’idea dell’aumento del rischio in funzione di restrizione dell’imputazione penale
rispetto ad una condotta di cui sia stato accertato il valore condizionalistico. Affinché un evento possa essere
impuntato ad una condotta sono necessari:
- la condotta deve essere condizione dell’evento;
- la condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall’ordinamento (nipote convince lo zio ricco a
farsi un viaggio in aereo sperando che l’aereo cada. L’aereo cade: il nipote non è colpevole perché il
viaggio in aereo rientra nell’ambito del rischio consentito);
- l’evento deve essere la realizzazione del rischio non consentito (il ferito che viene portato
all’ospedale e lì muore a causa di un incendio: il decesso non costituisce la concretizzazione del
rischio prodotto dal ferimento).

Ai fini dell’affermazione della responsabilità penale non basta accertare il nesso di causalità, ma è
necessaria anche la presenza di una componente psichica, in termini di dolo o di colpa.

16 – Diritto penale
 LA CAUSALITA’ OMISSIVA E L’APPRODO DELLA GIURISPRUDENZA ALLE SEZIONI UNITE
(SENTENZA FRANZESE)
I problemi sollevati dal rapporto di causalità si amplificano in presenza di una condotta omissiva: quando il
soggetto omette di intervenire, gli eventi si sviluppano secondo un decorso naturale e l’evento è l’effetto di
una serie di fattori tra i quali non rientra la condotta omissiva; solo dopo aver accertato l’efficacia causale di
questi fattori ci si potrà interrogare sull’omissione della condotta doverosa.
Si sostiene quindi che la causalità omissiva abbia natura ipotetico-normativa: normativa in quanto è la
legge a considerare equivalente alla condotta attiva quella di omesso impedimento dell’evento; e ipotetica in
quanto l’accertamento del nesso causale in presenza di condotta omissiva richiede un ragionamento di tipo
ipotetico, ovvero individuare quale azione doverosa il titolare della posizione di garanzia avrebbe dovuto
tenere e poi chiedersi se, ipotizzando presente la condotta doverosa, l’evento sarebbe venuto meno.

In alcuni casi è necessario che il rapporto d causalità sia spiegato facendo riferimento alle leggi scientifiche
che giustificano a causalità di un certo fattore rispetto ad un altro (= sussunzione sotto leggi scientifiche
di copertura). Il giudice deve necessariamente partire dal caso concreto, ridescritto, astraendo delle
connotazioni della vicenda concreta e dando rilevanza alle sue modalità tipiche e ripetibili rilevanti ai sensi
della legge scientifica. Il giudice è dunque fruitore di leggi scientifiche in modo da garantire il massimo di
certezza nell’accertamento del nesso di causalità e assicurarne la controllabilità. Talvolta le leggi sono
universali, affermano che ad un fattore segue nel100% dei casi un certo evento; ma nella maggior parte dei
casi si tratta di leggi statistiche, perché consentono di affermare che a fattori generali seguono eventi
generali solo in una certa percentuale. Agli effetti del nesso di causalità, il giudice deve considerare lo stato
delle conoscenze presenti al momento del giudizio perché il giudizio di causalità è sempre ex post.
Ragionamento diverso quando, accertato il nesso di causalità, si chiede se l’autore abbia agito con colpa:
qui la prevedibilità ed evitabilità dell’evento sono accertate con giudizio ex ante.
Per quanto riguarda l’alta o bassa percentuale di probabilità delle leggi scientifiche, la sentenza Franzese
ha rigettato un accertamento del nesso causale nel quale il grado di certezza della sua esistenza sia desunto
dal grado di certezza della legge di coperture, in quanto tale soluzione imporrebbe di ravvisare il rapporto
eziologico solo in presenza di leggi universali o con coefficiente statistico prossimo a 1. Invece, possono
essere poste a fondamento del rapporto di causalità anche leggi scientifiche che esprimono frequenze
medio-basse, a condizione che il giudice accerti che, al di là di ogni ragionevole dubbio, il caso concreto
rientri nella percentuale fissata dalla legge scientifica.

♦ 14. FATTO TIPICO E OFFENSIVITA’


Il principio di offensività in astratto sostiene che i fatti che costituiscono reato devono essere offensivi di
beni giuridici meritevoli di tutela penale. Vi è però anche un altro principio, quello di offensività in concreto.
Facciamo un esempio: Tizio passeggiando per la campagna vede un vigneto molto invitante e stacca un
acino per mangiarlo. In astratto questo gesto è punito in quanto delitto di furto ma in concreto non è stato
arrecato danno alcuno al proprietario del vigneto in quanto il singolo acino è insignificante ai fini della
vendemmia. Non sempre quindi il fatto tipico è offensivo del bene giuridico.
La dottrina si è chiesta se sia ragionevole che il diritto penale intervenga a sanzionare un fatto tipico ma in
concreto non offensivo dell’interesse tutelato. La concezione realistica del reato ha, a questo proposito,
proposto una diversa lettura dell’art 49 cp che esclude la punibilità “quando per l’inidoneità dell’azione è
impossibile l’evento dannoso o pericoloso”: il termine ‘’azione’’ indica l’intero fatto tipico; mentre ‘’evento
dannoso o pericoloso’’ va inteso come evento giuridico, come offesa all’interesse tutelato dalla norma. In
questo modo la dottrina esclude la punibilità del fatto tipico ma nel concreto non offensivo del bene
giuridico tutelato. La concezione realistica del reato è stata criticata da una parte della dottrina che
preferisce risolvere l’assenza di offesa in concreto in termini di assenza dello stesso fatto tipico, dando così
vita alla tipicità apparente. Ciò che differenzia la concezione tradizionale da quella della dottrina è il
diverso ruolo riconosciuto al principio di offensività: per la prima, l’offensività costituisce un elemento
del reato che si aggiunge agli elementi del fatto tipico; mentre la tipicità definisce l’offensività, un criterio di
interpretazione del fatto di reato. Entrambe sostengono la necessità di garantire il rispetto del principio di
offensività in concreto: il reato, per essere punibile, richiede sempre che ne si accerti la necessaria
offensività.

17 – Diritto penale
 PRINCIPIO DI IRRILEVANZA PENALE DEL FATTO
Vengono esclusi dalla rilevanza penale i fatti in cui è del tutto assente l’offesa all’interesse protetto. Vi sono i
reati bagatellari in concreto, ovvero un reato la cui significatività sta nell’esecuzione dell’offesa in concreto
arrecata ad un interesse ritenuto meritevole di tutela (furto in un grande magazzino di un bene di scarso
valore). Questo perché l’offesa è una entità graduale (gradualità del reato) e pertanto dobbiamo chiederci
se l’offesa dell’interesse tutelato, anche se scarsamente significativa, giustifichi o meno l’intervento penale.
A riguardo il legislatore ha posto due discipline per quanto riguarda il minore: il giudice pronuncia sentenza
di non luogo a procedere per l’irrilevanza del fatto se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del
comportamento; mentre per reati attribuiti alla competenza penale del Giudice di Pace, vi è esclusione di
procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, ovvero quando rispetto all'interesse tutelato,
l'esecuzione del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della
colpevolezza, non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto del pregiudizio che l'ulteriore corso
del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona
sottoposta ad indagini o dell'imputato.

 I REATI DI PERICOLO
L’offesa del bene giuridico è assicurata sia dalla lesione che dalla messa in pericolo del bene giuridico
tutelato. Si può distinguere tra:
- reati di danno: il bene è in tutto o in parte pregiudicato nella sua consistenza;
- reati di pericolo: vi è solo una probabilità di lesione del bene giuridico tutelato.

La distinzione è agevole in presenza di beni tangibili, mentre lo è meno in presenza di fattispecie poste a
tutela di beni giuridici dotati di un maggior grado di astrazione. Riferire una fattispecie ai reati di danno o di
pericolo dipende dal bene giuridico tutelato e dal grado di prossimità del fatto descritto dalla fattispecie
incriminatrice al bene giuridico. Per questo, il legislatore ricorre alle tecniche di anticipazione della tutela
penale per i reati di pericolo: non si attende che il bene giuridico sia leso, ma si anticipa la soglia di punibilità
già alla sola messa in pericolo del bene, al fine di prevenire la lesione. I reati di pericolo vengono
tradizionalmente distinti in 2 categorie:

1. Reati di pericolo concreto: in cui il pericolo è elemento costitutivo della fattispecie, che presenta
problemi riguardo alla determinatezza della nozione di pericolo poiché è di per sé vaga. Pericolo che dalla
dottrina viene identificato come giudizio di relazione tra una certa situazione e la probabilità che tale evento
dannoso di realizzi. Nell’accertamento del pericolo concreto è necessario distinguere tra:

- Il momento del giudizio indica il tempo nel quale deve essere compiuta la valutazione di
probabilità di avvenimento del pericolo, ovvero ex ante poiché il giudice deve mentalmente porsi al
momento della situazione da qualificare in termini di pericolo e chiedersi se, allora, apparisse
probabile la verificazione dell’evento;
- La base del giudizio indica gli elementi della situazione concreta dei quali il giudice deve
tenere conto nella valutazione di pericolo: il GIUDIZIO A BASE PARZIALE tiene conto delle
condizioni conoscibili da una persona avveduta posta nelle medesime condizioni; il GIUDIZIO A
BASE TOTALE prende in considerazione la totalità delle circostanze del fatto concreto presenti al
momento del giudizio. Quest’ultimo è più corretto poiché il pericolo costituisce un elemento della
fattispecie oggettiva;
- Il metro del giudizio indica i parametri che il giudice deve utilizzare nell’accertamento del
pericolo per mezzo delle leggi scientifiche di copertura (criterio della "sussunzione sotto leggi
scientifiche" secondo il quale è causa di un evento penalmente rilevante la condotta che, valutata
alla stregua di leggi universali e statistiche, "leggi di copertura", risulti in grado di produrre l'evento
stesso, il quale senza il fatto dell'uomo non si sarebbe verificato) e delle regole di esperienza.

18 – Diritto penale
2. Reato di pericolo astratto: il pericolo si limita a costituire la ratio della norma. Il legislatore infatti
descrive un fatto che, ad una valutazione astratta, mette in pericolo il bene giuridico tutelato. Come
fattispecie è più precisa in quanto la situazione pericolosa è descritta dal legislatore; però vi sono
problematiche in relazione al rispetto del principio di offensività poiché la valutazione di pericolosità
astrattamente fatta dal legislatore può non trovare corrispondenza nel fatto concreto. Per parte della dottrina,
tale tipologia di reato contrasta il principio di offensività con la violazione degli art. 25 e 27 Cost., proponendo
di ricorrere all’art.49 cp (reato impossibile per inidoneità dell’azione) escludendo la punibilità qualora il fatto
risulti in concreto non offensivo dell’interesse tutelato. La dottrina prevalente ha invece rivalutato l’importanza
dei reati di pericolo astratto nella prospettiva della tutela dei beni giuridici. Un reato di pericolo astratto
richiede una corretta tipizzazione del pericolo. A tal fine può essere utile il ricorso a termini semanticamente
pregnanti, ossia capaci di esprimere situazioni in concreto pericolose per gli interessi tutelati (es. delitto di
incendio: è un reato di pericolo astratto, ma il termine ‘’incendio’’ indica una situazione concretamente
pericolosa per l’incolumità pubblica). I reati di pericolo astratto possono essere dichiarati costituzionalmente
illegittimi solo qualora sia violato il principio di manifesta irragionevolezza, ossia il legislatore ha descritto una
fattispecie incriminatrice in modo del tutto arbitrario. Inoltre la Corte costituzionale rimette al giudice il
compito di verificare anche nei reati di pericolo astratto l’offensività in concreto.

♦ 15. CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE


In alcune situazioni un fatto, che normalmente costituirebbe un illecito penale, non è considerato tale in
quanto ‘’giustificato’’ dall’ordinamento: è il caso delle cause di giustificazione (anche dette scriminanti)
per le quali ci sono norme che autorizzano o addirittura impongono la realizzazione di quei comportamenti
penalmente rilevanti.
Diverse sono le mere cause di non punibilità, ovvero quelle situazioni in cui il legislatore stabilisce la non
punibilità per ragioni di opportunità.

 IL FONDAMENTO DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE


Sul piano formale, tale aspetto si fonda sul principio di non contraddizione: se una norma autorizza o
addirittura impone una certa condotta non è possibile ammettere che essa possa dare luogo
contraddittoriamente ad una responsabilità penale. Sul piano sostanziale, è presente una valutazione
dell’ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti: si ritiene accettabile il sacrificio
del bene di un soggetto (pur incolpevole) di fronte ad una condotta realizzata in situazione di grave pericolo,
non punendo chi ha cagionato un’offesa per salvare un bene di pari grado o addirittura di maggiore
importanza.

 LA DISCIPLINA GENERALE DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE


Questa disciplina non è delineata in maniera organica dal codice penale, ma presenta dei principi generali
(primi 2) e delle disposizioni:
- principio di riserva di legge: nessuna legge regionale né atti dell’esecutivo possono
disporre una nuova causa di giustificazione o modificare l’assetto delle scriminanti disegnate dal
legislatore statale;
- ammessa un’estensione in via analogica di una causa di giustificazione (ma per
esempio la legittima difesa “anticipata” non è ammissibile in quanto non è giustificabile il membro di
una banda che per prevenire un attacco dalla banda rivale cagioni lesioni ad alcuni membri di
questa);
- errore di fatto (art.54 comma 4): una non corretta percezione della realtà esterna che
genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe di fruire di una
causa di giustificazione (es. un soggetto ritiene erroneamente di essere aggredito e reagisce);
- errore di diritto consiste nell’erronea credenza che esista una causa di giustificazione (es.
la convinzione che esista una norma che giustifichi l’eutanasia);
- errore su una norma extra penale: il terzo comma dell'art. 47 stabilisce che «l'errore su
una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto
che costituisce reato».

19 – Diritto penale
Quando la supposizione erronea della causa di giustificazione rientra realmente nel quadro dell’art.59,
comma 4 occorre valutare se l’errore è incolpevole o determinato da colpa. Nel primo caso il soggetto non è
penalmente responsabile; nel secondo, residua una responsabilità per reato colposo se esso è previsto
dall’ordinamento nella forma colposa.

 CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO


L’art. 50 dispone che “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso di chi può
validamente disporne”. Il consenso dell’avente diritto costituisce in ambito penale una manifestazione di
volontà con la quale il titolare del diritto rinuncia alla tutela del proprio diritto. La ratio alla base di questa
causa di giustificazione è nell’interesse mancante, in quanto il consenso alla lesione o alla messa in pericolo
del bene farebbe venir meno l’interesse pubblico alla punizione del fatto di reato. In realtà, è spiegata con il
principio di bilanciamento degli interessi in conflitto, che vede la tutela penale del bene da un lato, e la libertà
di autodeterminazione del suo titolare dall’altra.
In ambito penale non sempre il consenso costituisce una causa di giustificazione. In alcuni casi infatti, il
consenso (o il dissenso) interviene come elemento del fatto tipico, che esclude in radice l’offesa
all’interesse protetto. Altre volte il consenso è implicito nella struttura della fattispecie: ciò accade nei casi in
cui la libertà di disporre di un bene costituisce espressione dello stesso diritto riconosciuto dall’ordinamento.
Il consenso è elemento implicito di fattispecie nei reati che richiedono la cooperazione della vittima o nella
circonvenzione di incapace, dove il soggetto attivo approfitta della condizione di inferiorità fisica o psichica
della vittima.
Il consenso ha invece natura giuridica di causa di giustificazione quando interviene rispetto ad un fatto
tipico offensivo del bene giuridico, giustificandone la lesione. L’art.50 indica in modo sintetico i requisiti della
scriminante, limitandosi a richiedere che il soggetto possa disporre validamente del diritto. Sono quindi
necessari 2 elementi:
1. deve trattarsi di diritto disponibile;
2. devono sussistere le condizioni per la valida rinuncia alla tutela del diritto.

Sono beni disponibili quei beni rimessi all’esclusivo interesse del singolo. Sono beni indisponibili invece
quei beni rispetto ai quali prevale l’interesse pubblico alla loro tutela. La genericità di definizione, comporta
che non sia facile individuare quali beni appartengano all’una o all’altra categoria e le difficoltà aumentano
considerando che alcuni beni sono parzialmente disponibili. Esempio è l’integrità fisica disciplinata dall’art.5
cc: non opera se l’atto di disposizione è finalizzato a salvaguardare la salute psico-fisica dello stesso
consenziente; ma stabilisce un limite invalicabile all’intangibilità dell’integrità fisica in presenza di un atto di
disposizione a favore di un terzo (es. amputazione di una mano ai fini di trapianto in favore di un amico che
in un incidente le ha perse entrambi).

Le condizioni di validità del consenso, non esplicitati nell’art.50, impongono che questo non sia viziato da
violenza e errore. È necessario che il soggetto abbia la capacità di consentire alla lesione del proprio bene
(l’età viene stabilita dal legislatore: 14 anni per la libertà sessuale, 18 anni per i beni patrimoniali). In caso di
soggetti incapaci di intendere e di volere, il consenso può essere espresso dal legale rappresentante.
Il consenso può essere espresso o tacito, da non confondersi col consenso putativo (il consenso non è
stato dato ma chi lede il bene è convinto che il consenso sia stato dato) e con il consenso presunto
(quando chi offende il bene sa che se lo avesse richiesto lo avrebbe ottenuto).

È più discusso invece il consenso per quanto riguarda i reati colposi. La dottrina è giunta a concludere che
il consenso è causa di giustificazione per quanto riguarda lesioni a beni disponibili: non è pertanto
giustificabile la lesione permanente dell’integrità fisica.

Per quanto riguarda il consenso del paziente agli interventi medici, il consenso costituisce una
condizione di liceità dell’intervento medico: senza il consenso del paziente il medico non è legittimato ad
intervenire. Per operare, il consenso deve essere informato: al paziente devono essere date tutte le
informazioni sul tipo di trattamento e sugli effetti dello stesso.
Il paziente ha però anche il diritto di rifiutare le cure sul rispetto del diritto del singolo alla salute, art. 32
Cost.. Il diritto all’autodeterminazione consente infatti di scegliere la terapia, di interromperla o di non portarla
avanti in qualunque momento della vita, anche nello stadio terminale.
Vi sono due importanti conseguenze dell’autodeterminazione:

20 – Diritto penale
1. il bene vita è diventato un bene parzialmente disponibile, esclusivamente nel limite del legittimo esercizio
della libertà di rifiuto delle cure;
2. cessa la posizione di garanzia del medico la cui condotta omissiva sarebbe stata punita penalmente ai
sensi dell’art. 40 cp.

 L’ADEMPIMENTO DI UN DOVERE
L’adempimento del dovere può derivare da una norma giuridica o da un ordine dell’autorità. Nel primo
caso occorre valutare se la norma che stabilisce una determinata attività doverosa impone realmente la
condotta che si intende scriminare. Bisogna pertanto interpretare bene la norma che impone il dovere di
agire. Più complesso è invece il secondo caso in quanto il codice penale limita la causa di giustificazione agli
ordini imposti da ‘’pubblica autorità’’. Quando l’ordine proviene da essa, è necessario distinguere a seconda
che l’ordine sia:
1. Legittimo: art.51, se l’ordinamento consente al soggetto di imporre a soggetti
gerarchicamente sottordinati determinati comportamenti astrattamente configurabili come reato;
2. Illegittimo: risponde al reato chi ha istigato alla commissione e l’esecutore. Il soggetto cui è
impartito l’ordine può sindacarne la legittimità e rifiutare l’esecuzione di un ordine che
comporterebbe un reato. L’unica possibilità per l’esecutore di sottrarsi alla responsabilità è delineata
dall’art.51, comma 3 con riferimento alla disciplina dell’errore: se il subordinato ritiene di eseguire un
ordine legittimo incorre in un errore sull’esistenza delle cause di giustificazione che esclude il dolo
(deve trattarsi di errore di fatto). All’ultimo comma dell’art.51, non è punibile chi esegue l’ordine
illegittimo, quando la norma non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine. Sono ordini
illegittimi vincolanti (militari, forze di Polizia) in cui l’ordinamento impone al subordinato di eseguire
comunque l’ordine impartito dal superiore: del reato risponde esclusivamente il soggetto
gerarchicamente sovraordinato.

 LA LEGITTIMA DIFESA
Nel codice penale vigente questa scriminante rappresenta l’esito di un bilanciamento di beni contrapposti
che vede la prevalenza dell’interesse del soggetto aggredito rispetto all’interesse dell’aggressore che viene
colpito dalla reazione difensiva della vittima dell’aggressione.
Vi sono una serie di requisiti perché la legittima difesa sia causa di giustificazione:
1. il pericolo deve essere attuale: l’offesa deve essere in corso di attuazione o quanto meno imminente;
2. il pericolo deve investire un diritto proprio o altrui. Solitamente è un pericolo di lesione di un vero e proprio
diritto soggettivo;
3. l’offesa che si tende a prevenire o bloccare deve essere ingiusta. Un’offesa, inizialmente conforme al diritto,
può divenire in caso di eccesso rispetto ai limiti posti all’intervento, ingiusta in un momento successivo.
Qualora il difensore ecceda il limite della proporzione si delinea un’offesa ingiusta che consente al primitivo
aggressore, ora divenuto aggredito, di reagire. L’ingiustizia va valutata in termini obiettivi e quindi prescinde
dalla buona fede dell’aggressore. Irrilevante è l’incapacità di intendere e di volere del soggetto che crea il
pericolo;
4. la difesa deve essere necessaria: se è possibile sottrarsi al pericolo senza alcun rischio con modalità
diverse dalla commissione di un reato nei confronti dell’aggressore deve essere privilegiata tale scelta;
5. la reazione deve essere proporzionata: il rapporto di proporzione deve essere instaurato tra il bene
aggredito e quello pregiudicato dalla reazione (es.se l’aggressore minaccia la vita dell’aggredito, questo può
ucciderlo. Non è tutelato sparare al ladro di una moto anche se è l’unico modo per fermarlo).
Occorre comunque valutare la situazione nella sua evoluzione dinamica.
In relazione al requisito della proporzione, il legislatore ha ritenuto di intervenire nel 2006 sull’artr.52. Vi sono
dei presupposti:
1. chi reagisce a difesa di sé stesso deve essere legittimamente presente nel domicilio;
2. chi reagisce con un’arma deve essere legittimato a detenerla;
3. la difesa deve essere finalizzata a difendere la “propria o altrui incolumità”.

 LO STATO DI NECESSITA’
Lo stato di necessità gode sicuramente di una minore accettazione sul piano sociale: la motivazione sta nel
fatto che il reato non punito non è compiuto nei confronti di un aggressore ma a danno di un soggetto
estraneo al pericolo che si vuole evitare attraverso la commissione di un reato.

21 – Diritto penale
L’art. 54 cp prevede che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità
di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente
causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
Sotto il profilo dell’attualità vi è coincidenza con quanto previsto dall’art.52: la valutazione dovrà essere, se
possibile, ancora più rigorosa nello stato di necessità. La tendenza a restringere l’ambito di applicazione
dello stato di necessità trova conferma nella limitazione dei beni tutelabili: il pericolo deve investire beni
inerenti alla persona.
Essenziale è il requisito della proporzionalità: non si può sacrificare la vita di un soggetto per difendere la
propria incolumità personale.

Un limite evidente dello stato di necessità è la causazione volontaria del pericolo, ovvero il soggetto che
si causa da solo uno stato di pericolo a cui poi pretende di sottrarsi a danno di un terzo. Se vi sono metodi
alternativi per sfuggire al pericolo, non si deve coinvolgere il terzo estraneo anche a costo di subire un
pregiudizio da parte del soggetto che intende sfuggire al pericolo.

 L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI


L’utilizzo di armi o mezzi di coazione fisica sono oggetto di alcuni requisiti:
1. adempiere ad un dovere del proprio ufficio (non per finalità ‘’private’’);
2. respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità per adempiere o impedire la
consumazione di alcuni reati.

I dubbi principali concernono quella che è la resistenza: richiedere una resistenza attiva nel senso di una
contrapposizione fisica al soggetto qualificato finisce per far coincidere il presupposto in questione con la
violenza stessa, annullando l’autonomia della resistenza. Il vero problema sta nell’assenza del requisito del
principio di proporzionalità che dottrina e giurisprudenza considerano requisito implicito della scriminate.
Vi sono norme speciali che consentono l’utilizzo delle armi in situazioni come quelle riguardanti la
repressione del contrabbando se:
1. il contrabbandiere è palesemente armato;
2. il contrabbando notturno;
3. il gruppo è costituito da almeno 3 soggetti e nella fuga non lasciano andare il carico.

Inoltre non è vietato l’uso delle armi anche in situazioni in cui il conducente di un autoveicolo non si sia
fermato al fermo della polizia e questi non possano raggiungerlo.

♦ 16. IL PRINCIPIO DELLA COLPEVOLEZZA


La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità del fatto al suo autore sono imposti dal principio di
colpevolezza, che impedisce di punire un soggetto per un fatto altrui ma impone che il soggetto venga
punito solamente se ha agito con dolo o colpa. Il vigente ordinamento penale punisce determinate situazioni
nelle quali pare venire preliminarmente in rilievo una certa abitudine al delitto e impone al giudice di
aumentare la pena per il recidivo. La concezione normativa della colpevolezza consente di graduare la
colpevolezza anche in relazione ai motivi che hanno spinto il reo a delinquere o che ne hanno provocato, sia
coscientemente che senza previsione, la violazione di regole cautelari.

L’idea di colpevolezza è strettamente legata alle funzioni che si sono attribuite alla pena. In ottica
retributiva, la pena veniva intesa proprio come corrispettivo della colpevolezza, proponendosi di
‘’ricompensare’’ con la sofferenza della pena, il male commesso. Poi si è affermato il paradigma preventivo
con un ruolo diverso: limite alla previsione di sanzioni penali finalizzate alla prevenzione di fatti dannosi o
pericolosi. In altre parole, la necessità di prevenire il compimento di gravi fatti offensivi di beni o interessi dei
cittadini o della collettività, non può mai superare il limite del concreto disvalore del fatto, anche sotto il profilo
della sua rimproverabilità. Dove il principio di colpevolezza trova vero e proprio fondamento è nel riferimento
alla funzione rieducativa della pena, dal momento che chi ha commesso un delitto non con colpa o dolo,
non ha bisogno di essere rieducato perché non ha mai mostrato insensibilità o disinteresse verso quei beni
giuridicamente tutelati.
La fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale conclude che, alla luce del principio di colpevolezza, è
necessaria quantomeno la colpa con riferimento agli elementi più significativi della fattispecie
incriminatrice.

22 – Diritto penale
Nella struttura della colpevolezza rientrano pacificamente il dolo, la colpa, e la conoscibilità della legge
penale. Controverso è il ruolo dell’imputabilità, che la dottrina ritiene di dover includere tra gli elementi
costitutivi positivi della colpevolezza. E poiché il soggetto non imputabile non è rimproverabile, l’imputabilità
viene considerata il primo momento della valutazione della colpevolezza. Controversa è anche la categoria
delle cause di giustificazione, dette scusanti, che integrerebbero un elemento costitutivo negativo della
colpevolezza, fondate sull’inesigibilità di una condotta conforme al precetto penale. Per inesigibilità si
intende la ratio che giustifica la previsione di alcune cause di non punibilità, dettate dall’impossibilità di
pretendere dal soggetto il rispetto del comando o del divieto penale. Le scusanti sono situazioni in cui
l’ordinamento decide di non punire un fatto penalmente rilevante (es. la madre che mente al giudice
fornendo l’alibi per il figlio in modo da fargli evitare l’ergastolo: è moralmente scorretto ma il soggetto si trova
in una situazione di perturbamento psicologico tale da indurlo a fornire falsa testimonianza). Parte della
dottrina ha ritenuto che lo stato di necessità integra una scusante. A differenza delle scriminanti, le scusanti
si applicano solamente se il soggetto agente le conosceva, e non si estendono ai concorrenti. Molto meno
accettabile è l’idea di un principio di inesigibilità, che consenta al giudice di non punire per difetto di
colpevolezza, tutte le volte che si ritenga non esigibile il rispetto del precetto penale. La difficoltà di
individuarne i parametri di valutazione porta ad escludere che il giudice possa ritenere non colpevole un
fatto, in presenza di situazioni non espressamente descritte dalla legge, anche se influiscono in modo
rilevante sulla volontà o sulle capacità psico-fisiche del soggetto.

♦ 17. DOLO
Il dolo costituisce la più grave forma di imputazione soggettiva, nonché la forma ordinaria di responsabilità
colpevole per i delitti. In alcuni casi, secondo l’art.42 comma 2, è punita a titolo di colpa o preterintenzione. I
delitti colposi sono previsti in materia di tutela dell’integrità fisica e della vita o dei delitti contro l’incolumità
pubblica che costituiscono un’anticipazione della tutela dell’incolumità individuale. Sono più rari in altre
materie e del tutto assenti in materia di delitti patrimoniali. Sono delitti puniti a titolo preterintenzionale (e
solamente se previsti dalla legge) l’omicidio preterintenzionale e l’interruzione della gravidanza. Per le
contravvenzioni, art.42 comma 4, si prevede che ciascuno risponda della propria condotta cosciente e
volontaria, sia essa dolosa che colposa. Il giudice, infatti, deve accertare la presenza del dolo o della colpa.
Nelle contravvenzioni è irrilevante che il soggetto abbia agito con dolo o colpa; la distinzione potrà essere
rilevante solo ai fini della misura della pena.
L’art 43, comma 1, c.p. sancisce che il delitto “è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o
pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è
dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. Il riferimento
all’attenzione potrebbe far ritenere che rientri nell’imputazione dolosa solo l’ipotesi nella quale l’agente
agisce proprio con il fine di realizzare l’evento. L’art.43 comma1, contiene un riferimento unicamente
all’evento. Ma vi sono delitti di mera condotta che prescindono dalla realizzazione di un evento naturalistico.
Ebbene se dovessimo prendere alla lettera la definizione di cui l’art. 43 comma 1, dovremmo ritenere
incompatibile l’imputazione dolosa con i delitti senza evento. L’art 43 non è completo, va integrato con gli art.
47 e 59 cp che dettano che l’erronea rappresentazione di uno degli elementi della fattispecie incriminatrice
(47) o di una causa di giustificazione (59) escludono la punibilità dell’agente proprio per mancanza di dolo.
L’errore del fatto è il contrario speculare della corretta rappresentazione richiesta per l’imputazione dolosa.
Pertanto gli artt. 43, 47 e 59 consentono di ricomprendere nell’oggetto del dolo di un determinato delitto tutti
gli elementi che ne definiscono la fattispecie. Il che equivale a dire che oggetto del dolo è costituito dal fatto
tipico, conforme ad una fattispecie stratta di delitto. Oggetto di rappresentazione devono essere sia gli
elementi descrittivi che normativi del fatto tipico. Nelle condotte omissive proprie, l’autore deve poter
individuare nella vicenda concreta, qual è la condotta imposta dalla legge e rendersi conto che essa è
concretamente praticabile. Nei reati omissivi impropri, sono oggetto di rappresentazione la possibilità di
agire, la posizione di garanzia rivestita rispetto al bene tutelato nonché l’azione impeditiva dell’evento.
Oggetto di volizione alla volontà potrebbe essere solo la condotta. Le conseguenze dei comportamenti
umani, sia quando intenzionalmente prodotte che quando rappresentate come certe, o anche solo possibili,
ma delle quali si accetta il rischio della verificazione, sono accettate dalla volontà umana e pertanto, volute.
Questa impostazione fa rientrare nell’oggetto della volizione (così come per la rappresentazione) tutti gli
elementi del fatto tipico con esclusione dei presupposti della condotta e delle qualifiche personali che,
essendo per definizione previe all’agire umano, non possono mai essere oggetto di volizione, ma solo di
rappresentazione. Il momento nel quale valutare la presenta del solo è la condotta, o meglio il momento nel

23 – Diritto penale
quale l’agente compie l’ultimo atto di dominio sullo svolgimento del fatto. Si parta in questo caso di dolo
concomitante alla condotta. Non rileva il dolo antecedente (il soggetto che sta conducendo in auto la
fidanzata per ucciderla ma esce fuori strada e la donna muore per ferite causate dall’incidente, deve essere
punito per omicidio colposo non doloso); né può rilevare il dolo susseguente (Tizio che prende l’ombrello di
un altro pensando sia il suo e se ne accorge a casa decidendo di tenerlo lo stesso, non ha compiuto un reato
doloso in quanto non vi era dolo al momento della commissione del reato). Non rileva neanche il dolo
generalis, quella situazione nella quale l’agente si rappresenta e vuole l’evento naturalistico, ma in termini
astratti e generici, senza che l’atteggiamento psicologico sia specificamente rivolto a tutti gli elementi
concreti del fatto storico (Tizio prende a bastonate Caio e dopo, credendolo morto, gli dà fuoco. Ma Caio
muore soffocato dal fumo. Tizio viene condannato per tentato omicidio e omicidio colposo). Con riferimento
alla condotta attiva occorre distinguere tra:

1. reati a forma libera: vi è dolo se il soggetto è consapevole di compiere il delitto (Tizio che
porge il bicchiere avvelenato);

2. reati a forma vincolata: l’agente voglia proprio la particolare modalità del fatto descritta
dalla fattispecie incriminatrice (violenza sessuale: deve esserci non solo l’atto sessuale ma anche la
violenza o la minaccia).

Nei reati omissivi (propri o impropri) la volontà dell’agente attiene alla decisione consapevole di non
compiere l’azione doverosa, cioè di non adempire all’obbligo giuridico di agire.

Attualmente la consapevolezza dell’illiceità penale continua ad essere esclusa dall’oggetto del dolo, ma
dal punto di vista pratico, non dovrà essere punito chi tale consapevolezza non potesse avere. Diversa
invece la questione per quanto attiene alla coscienza che il proprio comportamento di pone in contrasto con
i valori fondamentali della società civile, in quanto offende un bene o un interesse rilevante e meritevole della
più ampia protezione.

Vi sono diversi tipi di dolo:

1. dolo generico: la rappresentazione e volontà di commettere un fatto, che coincide in tutti i


suoi elementi con una fattispecie incriminatrice;

2. dolo specifico: tra gli elementi di fattispecie compare anche una particolare finalità che
deve muovere l’agente senza che sia necessario ad integrare la consumazione del delitto. In questi
casi occorre anche dare la prova che il soggetto era mosso dalla finalità descritta dalla norma, al fine
di trarre profitto ma anche per soddisfare qualsiasi interesse anche psichico). Spesso il dolo
specifico rende punibile un fatto altrimenti lecito (es. reato di associazione a delinquere: l’associarsi
non è reato per il cittadino, reato è per lo scopo che l’associazione ha);

3. dolo intenzionale: il soggetto agisce perché intende realizzare la condotta o causare


l’evento. L’intenzionalità non deve essere confusa con il movente che costituisce la ragione interiore,
intima, personale che spinge il reo a realizzare quel delitto. Il fatto realizzato costituisce, in questo
dolo, il fine per il quale il soggetto si determina ad agire, e costituisce la forma più grave di dolo,
proprio con riferimento all’elemento volitivo elevato;

4. dolo diretto: il soggetto, pur non agendo con la finalità di realizzare il fatto vietato dalla
norma, agisce con la consapevole certezza (o comunque alto grado di probabilità) di realizzarlo (es.
il killer che per uccidere un determinato magistrato piazza una bomba nella sua auto sapendo che
insieme al magistrato sull’auto salirà anche la figlia: dolo intenzionale per la morte del magistrato,
dolo diretto per quello della figlia);

5. dolo eventuale: il soggetto configura come possibile (non certo o altamente probabile) il
verificarsi di un reato ma agisce anche a costo di realizzarlo (es. il killer che piazza tritolo nel garage
del ministro può riconoscere come rischio quello di uccidere oltre al magistrato (dolo intenzionale) e
la figlia (dolo diretto), anche il vicino che scende in garage per prendersi la sua macchina (dolo
eventuale). In questo solo, né la volontà né la rappresentazione raggiungono un pieno compimento.

24 – Diritto penale
La difficoltà sta del colorare in termini volontaristici questa forma di dolo, dal momento che una
volontà effettiva, in senso psicologico, non è riscontrabile. La difficoltà è resa acuta dalla circostanza
che il dolo eventuale confina con la colpa cosciente: il reo esclude, nel caso concreto, in virtù delle
proprie capacità o di altri fattori conosciuti, che l’evento si verificherà). Nel dolo eventuale il soggetto
agisce ugualmente per conseguire, a qualsiasi costo, il suo obiettivo.

Art.133 cp: l’intensità del dolo è uno degli elementi del quale il giudice deve tenere conto per graduare la
pena tra il minimo e il massimo previsti. Costituiranno elementi di maggior intensità un elevato grado di
certezza della rappresentazione del fatto e la più spiccata coscienza dell’offesa all’interesse tutelato.
Correlativamente, daranno conto di minor gravità il dubbio su alcuni degli elementi costitutivi del fatto o la
mancanza della consapevolezza di offendere un interesse protetto. Sotto il profilo volitivo, oltre alla
distinzione tra dolo intenzionale e dolo diretto ed eventuale, acquista rilevanza la distinzione tra:

1. dolo d’impeto: il soggetto agisce in un momento assai prossimo a quello nel quale ha preso la
decisione;
2. dolo di proposito: tra determinazione ed esecuzione trascorre un lasso di tempo che dà conto di un
maggior consolidamento del proposito criminoso e quindi di una superiore intensità del dolo.

Anche il dolo deve essere provato con un grado di certezza che superi ogni ragionevole dubbio. Al di fuori di
eventuali dichiarazioni confessorie del reo, la prova dell’elemento psicologico potrà essere data solo
ricorrendo a delle massime di esperienza, fondate sull’id quod plerumque accidit (ciò che accade di solito).
Ma il ricorso a queste massime, pone due ordini problemi: occorre chiarire che ogni massima di esperienza
può sempre essere smentita da una diversa massima, più adeguata ed aderente al caso concreto; non
basta dare spazio ad elementi di allarme che, in linea di massima, potrebbero dar conto della
consapevolezza dell’agente. Occorre sempre che il giudice dia conto dell’effettiva consapevolezza del reo o
comunque da una sottovalutazione tale dei segnali di allarme realmente percepiti, da ritenere integrato,
quanto meno, il dolo eventuale.
♦ 18. COLPA
La colpa è la seconda forma di responsabilità colpevole. È la cauzione di un fatto vietato dalla legge
penale per violazione di regole cautelari, codificate o meno.
L’art. 43 definisce il reato “colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto
dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline”. Questa definizione è del tutto insufficiente a descrivere il contenuto reale
dell’imputazione colposa. Pertanto, deve essere integrata da quelle norme che, in materia di errore di fatto
(art.43), o in materia di cause di giustificazione (art..55 e 59) consentono di affermare che la definizione di
colpa (intesa come violazione di una regola cautelare) deve abbracciare tutti gli elementi costitutivi del fatto
tipico.

Vi sono 4 elementi costitutivi della colpa:


1. MANCANZA DI VOLONTA’ DEL FATTO: consente di distinguere il dolo dalla colpa. La mancanza di
volontà non va limitata al solo evento, ma può estendersi a qualsiasi elemento del fatto tipico. Non esclude
che l’agente del delitto colposo possa prevedere l’evento. Nell’ipotesi di colpa cosciente, il soggetto agente
si rappresenta come possibile la verificazione del fatto tipico. Egli deve escludere che il fatto si verificherà
facendo leva sulle sue reali e provate capacità ed abilità;
2. VIOLAZIONE DI REGOLE CAUTELARI: l’art. 43 distingue tra:
- Colpa generica: violazione di norme di prudenza, perizia e attenzione non scritte ma
derivanti da fonti sociali delle quali l’ordinamento pretende il rispetto;
- Colpa specifica: violazione di leggi, ordini, regolamenti e discipline cautelari scritte.
In entrambe non è sempre possibile ricondurre la responsabilità colposa al mero dovere di attuare una o
più misure cautelari. Si parla di colpa per assunzione quando si imputa al soggetto di essersi assunti
un compito che non si è in grado di portare a termine senza danni a terzi. Altre volte il rimprovero attiene
al mancato dovere di informazione come nel caso dell’avvocato che non si accerta di quali obblighi
fiscali l’ordinamento pone a carico dei liberi professionisti. Ancora, con riferimento ad attività
caratterizzate da rapporti gerarchici, la colpa può essere in eligendo, secondo cui può imputarsi al
soggetto apicale di aver non debitamente individuato coloro cui affidare un certo compito, o in
vigilando, quando non si è controllato l’operato di coloro che sono sottoposti alla sua vigilanza. Quando
si parla di COLPA GENERICA, i due parametri per valutare l’evento sono la prevedibilità e l’evitabilità.
La difficolta sta nell’individuare quale punto di osservazione assumere. Innanzitutto è da escludere

25 – Diritto penale
come assolutamente insufficiente ed inadeguato il richiamo alla prassi, secondo il quale non sarebbe
prevedibile ed evitabile tutto ciò che è causato da condotte diffuse nella prassi. Neppure può essere
corretta la scelta di rifarsi all’uomo medio. L’ordinamento deve pretendere il massimo rispetto possibile
delle regole di cautela, soprattutto quando è in gioco la tutela della vita o dell’integrità fisica di altri
soggetti. Per poter definire una condotta concretamente colposa, viene definito agente modello il
pensiero astratto di un soggetto che agisce e si muove tenendo a mente tutte le cautele possibili. Nella
COLPA SPECIFICA, il giudizio sulla prevedibilità dell’evento viene compiuta dalla fonte che pone la
regola cautelare, che possono avere un contenuto esplicito e specifico. Occorre tener presente che il
rapporto tra accertamento della violazione della regola cautelare scritta e responsabilità a titolo di colpa
specifica non è privo di accezioni sotto due diversi profili: da un lato il giudice dovrà sempre accertare se
il rispetto della regola scritta ha esaurito la misura della diligenza nel caso concreto; dall’altro lato
occorre sempre verificare se il rispetto della regola cautelare non avrebbe, in caso concreto, aumentato
il rischio di realizzazione del fatto. La prevedibilità del fatto può avere ad oggetto anche il
comportamento (doloso o colposo) di un altro soggetto. Nell’ipotesi di colpa specifica, la risposta sarà
positiva nel momento in cui la regola scritta abbia di mira anche l’impedimento di un fatto delittuoso da
parte di terze persone. Più complesso è nel caso di colpa generica: l’astratta previsione che un altro
soggetto possa tenere un comportamento non conforme al dovere di diligenza non è ancora sufficiente
per imporre a ciascun consociato di prevenire i fatti colposi altrui, in virtù del principio di affidamento.
Questo principio pone 2 limiti: non può essere invocato da chi abbia una posizione di garanzia sul terzo,
del quale si possa in astratto prevedere il comportamento non diligente; può essere invocato solo
quando non vi siano elementi concreti che indicano il soggetto a ritenere che il terzo non rispetterà le
regole cautelari. Il richiamo alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento deve essere precisato, con
riferimento all’esercizio di attività pericolose. Qui il criterio della previsione dell’evento deve essere
rapportato all’eventuale superamento del rischio consentito, cioè di quella soglia di rischio
inesorabilmente connesso all’attività stessa;

3. EVITABILITA’ DELL’EVENTO: nel delitto colposo il fatto deve verificarsi ‘’a causa’’ della
violazione della regola cautelare, accertandosi quindi della causalità della colpa, ovvero del
collegamento tra violazione del dovere di diligenza ed evento. Il giudice non potrà limitarsi ad
accertare la violazione della regola cautelare per ritenere provata la colpa, dal momento che l’evento
in concreto non appartiene al tipo di quelli che la norma stessa mira a prevenire, ovvero perché
l’evento verificatosi non costituisce la concretizzazione del rischio che la norma vuole evitare (es.
datore di lavoro che non fornisce ai suoi lavoratori i caschi protettivi; un lavoratore viene punito sulla
testa da un insetto velenoso che gli provoca una lesione. Il giudice non potrà ritenere provata la
colpa del datore). Ulteriore elemento di complessità è nelle vicende nelle quali l’evento in concreto
sia una conseguenza dell’esposizione ad un fattore di rischio dei quali, al momento della condotta, si
conosceva la pericolosità solo con riferimento a malattie diverse da quella poi manifestatasi;
4. ESIGIBILITA’ DEL COMPORTAMENTO RISPETTOSO DELLE REGOLE DI DILIGENZA:
consiste nella possibilità di esigere nel caso concreto che l’agente rispetti le regole cautelari che
avrebbero evitato il realizzarsi dell’evento.

Come per il dolo, anche la colpa può essere graduata. Nello specifico, il giudice deve tener conto del
divario tra la condotta prevista dalla regola cautelare e il comportamento in concreto tenuto dall’agente. Si
dovrà ulteriormente prendere in considerazione la misura soggettiva della colpa, con riferimento alle cause
personali che possono aver influito sulla mancanza di diligenza. Infine, la stessa maggiore o minore
evitabilità dell’evento può assurgere ad indice di valutazione del grado della prova.

Ai sensi dell’art. 45 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito, cioè un accadimento
eccezionale e assolutamente imprevedibile, che viene ad interferire con la condotta dell’agente (es. colpo di
sonno o il malore improvviso dell’automobilista). Il caso fortuito presuppone l’integrità del rapporto di
causalità materiale tra la condotta e l’evento, collocandosi come causa soggettiva di esclusione della
punibilità.

♦ 19. DISCIPLINA DELL’ERRORE


L’errore consiste nella falsata percezione della realtà o della normativa vigente. L’errore sul fatto è la prima
tipologia di errore, ovvero quella su uno degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa. Si differenzia in:

26 – Diritto penale
1. errore sul fatto di fatto: errore sulla percezione della realtà; 2. errore sul fatto di diritto: errore
sull’interpretazione della norma giuridica.

All’errore è equiparata l’ignoranza che, pur consistendo nella mancanza assoluta di conoscenza, può
portare alla medesima erronea percezione della realtà materiale o della disciplina giuridica. Ininfluente, ai fini
di escludere il dolo, l’eventuale dubbio (sia rispetto agli elementi di fatto che di diritto) perché la rilevanza
dell’errore <<è esclusa dalla sussistenza nell’agente del dubbio in merito al fatto: mentre l’errore determina il
convincimento circa l’esistenza di una situazione che non corrisponde alla realtà, il dubbio determina per
contro uno stato di incertezza, una possibilità di differente valutazione la quale impedisce il formarsi
dell’erronea certezza richiesta dalla norma>>.

L’errore di fatto sul fatto è disciplinato dall’art. 47 che sancisce: “L’errore sul fatto che costituisce reato
esclude la punibilità dell’agente” poiché l’errore qui consiste in una falsa rappresentazione della realtà che
incide sul processo di formazione della volontà e pertanto esclude il dolo. La norma infatti prosegue “se si
tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa se il fatto è preveduto dalla legge come
delitto colposo”. Ne deriva che, dopo aver escludo la punibilità a titolo di dolo, il giudice dovrà domandarsi se
l’errore stesso è dovuto a colpa, se cioè l’agente avrebbe potuto e dovuto prevedere l’evento. Diverso il caso
di un delitto per il quale non è prevista la punibilità a titolo di colpa (es. il furto): non sarà punito neppure se il
giudice dovesse ritenere che la falsa rappresentazione della realtà sia dovuta a colpa.

Errore sul fatto dovuto ad errore su legge extra penale: è questo quel tipo di errore dovuto ad una non
corretta interpretazione della norma extra penale (art. 47 comma 3, ed esclude la punibilità). Questo tipo di
errore potrà riguardare sia gli elementi normativi della fattispecie incriminatrice, sia quelli di natura normativa
etico-sociale. L’aspetto di maggior criticità consiste nel distinguere l’ipotesi in questione dall’ignoranza della
legge penale. Ma qualsiasi norma giuridica non penale, che sia richiamata, anche solo indirettamente, dalla
fattispecie incriminatrice, viene da questa incorporata, e pertanto l’eventuale errore su di essa non scusa
mai, risolvendosi in un errore sulla legge penale. Questo tipo di interpretazione dell’art.47 comma 3 finisce
per abrogare la norma in questione: qualunque errore sulla legge extra penale diviene irrilevante ai fini
della non punibilità poiché letto sempre come errore sulla legge penale in virtù dell’incorporazione
nel precetto. L’unico margine di rilevanza dell’errore sulla legge anche extra penale finisce per essere
legato all’inevitabilità dell’interpretazione normativa non corretta. A fronte di un simile interpretatio
abrogans, la nostra dottrina ha cercato di percorrere varie strade: da un lato la norma in oggetto, nel
prevedere che l’errore su legge extra penale renda non punibile l’agente, costituirebbe una sorta di deroga al
principio dell’art.5 e pertanto anche se ‘’incorporata’’ la norma extra penale sarebbe soggetta ad una
disciplina diversa; dall’altro lato, preferiscono ricondurre la regola in virtù della quale l’errore sulla legge
diversa da quella penale rileva ai fini della non punibilità, ai principi generali in materia di dolo: qualsiasi
errore sul fatto, sia di fatto che di diritto, incide negativamente sulla formazione della volontà, e pertanto non
può che escludere il dolo.

Errore sugli elementi differenziali tra fattispecie: l’errore sul fatto non esclude la punibilità per un reato
diverso.
Si possono prospettare tre diverse situazioni:
1. l’agente ignora per errore l’esistenza di un elemento della fattispecie concreta che rende
diversa e più grave l’ipotesi delittuosa: deve applicarsi la meno grave delle ipotesi;
2. l’agente ignora un elemento che rende meno grave la fattispecie (es. Tizio fermato da un
privato, che crede essere un poliziotto in borghese, lo insulta; gli insulti che Tizio gli rivolge cadono
sotto ingiuria e non oltraggio a pubblico ufficiale in virtù della disciplina del reato putativo);
3. l’agente crede per errore che nella situazione concreta sia integrato un elemento che
degrada la punibilità realizzando una meno grave fattispecie di reato (es. Tizio crede che vi sia il
consenso di Caio per la propria uccisione, ma non vi è; omicidio comune o omicidio consenziente?
La risposta si trova nel fatto che in assenza di una specifica previsione al riguardo, dovrebbe valere
la regola in materia di erronea supposizione di una causa di esclusione della pena).

Errore determinato dall’altrui inganno: l’errore sul fatto può essere frutto di un inganno prodotto da un
terzo. In questo caso, all’autore materiale del falso si applica l’art.47 (non potrà essere punito) ma ai sensi
dell’art.48, ‘’del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo’’. Per
‘’inganno’’ si deve intendere qualsiasi condotta che abbia concretamente tratto in errore l’autore materiale
del reato. Qualora il soggetto ingannato abbia tenuto la condotta criminosa per essere stato tratto in inganno,

27 – Diritto penale
ma gli si possa rimproverare di non aver utilizzato tutta la diligenza che l’ordinamento impone ai soggetti che
svolgono quel tipo di attività, egli risponderà del fatto a titolo di colpa, sempre che tale imputazione
soggettiva sia prevista per quel delitto.

Ai sensi dell’art. 49, comma 1, c.p. “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato nella
supposizione erronea che esso costituisca reato” (reato putativo): il soggetto non ritiene, per errore, che
manchi un elemento del fatto tipico, o una norma giuridica che rende penalmente rilevante il suo
comportamento; al contrario, l’erronea rappresentazione attiene proprio alla presunta, putativa commissione
di un fatto di reato.
Anche il reato putativo può essere di fatto, di diritto o per errore sulla legge penale. È reato putativo
anche il soggetto che, pur agendo in presenza di una causa di giustificazione, pensi erroneamente di essere
punibile.

La coscienza dell’illiceità penale del fatto non deve essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte
dell’agente. L’originaria formulazione dell’art.5 prevedeva una assoluta ed invincibile presunzione di
conoscenza della legge penale, anche per l’errore sulla legge penale. Con l’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana e il progressivo affermarsi del principio di colpevolezza, si è manifestata
l’esigenza di contemperare il principio ignorantia legis non excusat con la necessità di non punire soggetti
nei confronti dei quali, in virtù dell’impossibilità di conoscere il precetto penale, non è possibile muovere
alcun rimprovero. Con riferimento alle contravvenzioni, fin dagli anni ’60, si è sviluppato un primo
orientamento giurisprudenziale finalizzato a dare rilievo all’impossibilità di conoscere il precetto penale (=
buona fede nelle contravvenzioni, ovvero quell’atteggiamento psicologico in virtù del quale il soggetto
agente ha violato la norma penale, ma con la verosimile e non rimproverabile consapevolezza di agire in
maniera lecita. Con la sentenza n. 364/1988, la Corte afferma esplicitamente la rilevanza costituzionale del
principio di colpevolezza (‘’la responsabilità penale è personale’’) che, alla luce della finalità rieducativa della
pena, intende ‘’personale’’ come ‘’per fatto proprio’’ ma anche ‘’colpevole’’. Ciò non significa che si possa
punire solo quando è provata la concreta conoscenza, bensì che è sufficiente che egli avesse la possibilità di
conoscere la legge penale. Se impedita, l’ignoranza o l’errore sulla legge penale rivestono quel carattere di
inevitabilità che esclude la colpevolezza del soggetto e non consente di punirlo. Se, invece, l’agente ignora
la norma penale, ma avrebbe potuto conoscerla (ignoranza evitabile), allora è colpevole. La Corte individua
alcuni criteri oggettivi puri che rendono impossibile la conoscenza della norma penale per tutti i consociati;
invece i criteri soggettivi puri prendono in considerazione solo ed esclusivamente le caratteristiche
dell’agente e il soggetto abbia un’assoluta carenza di socializzazione. Vi sono anche criteri misti, quindi
intermedi tra i due precedentemente descritti. In ogni caso, sia criteri oggettivi puri che misti non possono
tenere in considerazione gli obblighi di informazione gravanti su coloro che esercitano un determinato tipo di
attività: per costoro infatti, sarà molto più difficile dimostrare l’inevitabilità del loro errore sulla legge penale,
rispetto al cittadino comune.

♦ 20. IPOTESI DI RESPONSABILITA’ ANOMALA


Il codice penale prevede, oltre all’ipotesi di dolo, colpa e preterintenzione, un’ulteriore forma di
responsabilità: la responsabilità oggettiva (art.42, comma 3), ovvero la responsabilità che in assenza di
dolo o colpa è fondata sul semplice nesso causale tra condotta ed evento. Il punto comune delle forme di
responsabilità è costituito dalla presenza di una volontà criminosa di partenza con uno sviluppo successivo
casualmente collegato al reato voluto. Con l’avvento della Costituzione, si afferma che in campo penale la
responsabilità oggettiva crea problemi di legittimità costituzionale contro l’art. 27, comma 1, c.p. in cui si
afferma che ‘’la responsabilità penale è solo personale’’: non è ammessa nessuna forma di responsabilità
per fatto altrui. La svolta si ebbe nel 1988 con la sentenza n. 364 che sollevava il problema dell’art. 5 c.p.
sull’inescusabilità assoluta dell’ignoranza della legge penale. La Corte riconosce che la responsabilità
oggettiva è incostituzionale allorquando investe ‘’elementi significativi’’ della fattispecie. Questo nuovo
orientamento costringe ad un’attenta revisione delle ipotesi di vera o presunta responsabilità oggettiva
presenti nell’ordinamento penale al fine di verificare la loro compatibilità con le norme della Costituzione.

 LA PRETERINTENZIONE
Il legislatore italiano conferisce una specifica autonomia, negli artt. 42-43, al delitto preterintenzionale, che
si verifica quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto
dall’agente.
L’omicidio preterintenzionale è una figura autonoma che si inserisce nell’ambito delle ipotesi di omicidio
per gravità tra dolo e colpa, e NON costituisce una circostanza aggravante del delitto di lesioni dolose. Il

28 – Diritto penale
nodo interpretativo centrale che pone il delitto preterintenzionale è costituito dal titolo effettivo di
imputazione dell’evento ‘’più grave di quello voluto’’: non deve essere voluto ma neanche ‘’previsto’’ e
accettato come probabile/possibile conseguenza del fatto doloso. I codificatori del 1930 inquadravano la
preterintenzione nell’ambito delle ipotesi di responsabilità oggettiva.

Il codice penale italiano dedica una specifica attenzione ad un’altra forma di ‘’errore’’, che si profila durante
l’esecuzione di un reato e che viene definito errore inabilità. Tra i reati aberranti rientrano:
1. Aberratio delicti: consiste nell’errore che comporta la realizzazione di un evento diverso da quello
voluto (art.83). La causa dell’errore non va ricercata in un difetto di percezione della realtà. Dovendo
trattarsi di reato ‘’non voluto’’, occorre escludere la ravvisabilità del dolo eventuale nei confronti
dell’evento diverso. Se davvero l’evento diverso non è rivestito dal dolo, art.83, stabilisce che di esso
il soggetto agente risponde ‘’a titolo di colpa’’, sempre che il fatto sia previsto dalla legge come
delitto colposo. Nel 1930, l’aberratio delicti rappresentava un esempio di responsabilità sostanziale
oggettiva: vi è comunque responsabilità in quanto chi agisce era comunque animato da una volontà
criminosa. L’inquadramento dell’aberratio criminis nell’ambito delle ipotesi di responsabilità
oggettiva, fondata sul mero nesso di causalità, suscita obiezioni, in particolare per contrasto con il
principio di personalità della responsabilità penale 8art.27, comma 1). Per questa ragione, l’art.83 è
stato reinterpretato in modo da renderlo compatibile con la nuova cornice costituzionale: la formula
‘’a titolo di colpa’’ viene intesa come indicativa di un effettivo titolo di responsabilità: il fatto è punibile
solo se sussiste la colpa. Questa interpretazione finisce per neutralizzare l’art.83: se c’è colpa ed il
fatto è previsto come reato colposo la responsabilità discende dall’applicazione dei principi generali;
se può discendere dalla realizzazione di un comportamento lecito non vi sarebbero dubbi sulla
punibilità di chi per effettiva colpa cagiona un reato colposo mentre si dedica alla realizzazione di un
fatto diverso penalmente illecito. Nel caso vi sia concorrenza di reati (aberratio delicti bioffensiva)
ovvero nel caso in cui Tizio sia riuscito a colpire la vetrina (che era il suo obiettivo) ma anche Caio
(incidente), Tizio risponderà a titolo di reato doloso per il danneggiamento della vetrina e a titolo di
reato colposo per la lesione di Caio;

2. Aberratio ictus: (art.82) è la situazione in cui l’autore di un reato realizza il fatto che realmente
intendeva compiere ma, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione, colpisce una vittima diversa da
quella designata. La profonda differenza con l’aberratio delicti consiste nel fatto che il reato
realizzato è effettivamente quello che il reo voleva commettere ma la vittima ha un’identità diversa.
La differenza invece con l’error in persona consiste nel fatto che in questa situazione, la divergenza
tra vittima reale e vittima designata è data da un difetto di rappresentazione; nell’aberratio ictus
invece l’autore del reato conosce molto bene la sua vittima ma l’errore è errore in esecuzione. Qui il
reo risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, con
le pene dei delitti colposi per un fatto che doloso non è: l’art.82, comma 1, avrebbe la funzione di
sanzionare con le pene dei reati dolosi fatti che sarebbero realizzati solamente per colpa o in
presenza di un mero rapporto di causalità materiale (responsabilità oggettiva). Si propone di
individuare un coefficiente colposo per evitare problemi di illegittimità costituzionale per contrasto
dell’art.27, comma 1: si parla qui di responsabilità anomala, secondo cui il reato sarebbe
sostanzialmente colposo ma viene punito con le pene del reato doloso. L’identità della vittima di un
reato non è elemento costitutivo del medesimo e, pertanto, non rientra nell’oggetto del dolo, salvo
ipotesi particolari. Più interessante il caso della aberratio ictus bioffensiva (art.82, comma 2),
ovvero quella situazione in cui l’autore del fatto realizza il reato voluto nei confronti della vittima
designata ma concretizza altresì un delitto, identico per titolo, nei confronti di un altro soggetto. La
norma in questione stabilisce che verrà applicata la pena per delitto doloso aumentata fino a metà
della pena. L’evento ulteriore non deve essere investito dal dolo altrimenti si avrebbe un concorso di
due delitti dolosi;

3. Aberratio causae: non ha invece rilevanza una terza circa il rapporto di causalità. Vi è divergenza
tra voluto e realizzato che emerge nella fase esecutiva: un soggetto vuole realizzare un determinato
evento ed effettivamente lo cagiona ma attraverso un iter causale diverso da quello immaginato.
Poiché di regola le norme incriminatrici non tipicizzano l’itinerario causale che determina l’evento
(l’art.575 punisce chi cagiona la morte di un uomo senza indicare la modalità di realizzazione), si
ritiene che l’‘’errore di esecuzione’’ non incida sull’elemento soggettivo e quindi la responsabilità sia
dolosa, essendo irrilevante che la causa dell’evento sia diversa da quella programmata. Controversa

29 – Diritto penale
è la soluzione di vicende in cui l’autore del fatto cagiona effettivamente l’evento che voleva
cagionare ma attraverso una successione di condotte: di esse solo l’ultima determina realmente
l’evento finale ma quando è posta in essere il reo è convinto di aver già cagionato l’evento con la
condotta precedente.

 RESPONSABILITA’ PER REATI COMMESSI A MEZZO STAMPA


Il legislatore italiano ha percepito da sempre il mezzo della stampa come un mezzo estremamente
pericoloso. In epoca fascista vi era una rigida impostazione del codice che faceva sì che venisse chiamato a
titolo di responsabile non solo l’autore dello scritto ma anche il direttore responsabile in quanto non aveva
impedito la pubblicazione di quel determinato articolo.
Con l’avvento della democrazia è stato istituito un reato apposito (art. 57) che fa riferimento alla colpa del
direttore per non aver impedito il reato doloso dell’autore.

- Inapplicabilità dell’art. 57 cp ai periodici online


L’art 57 è applicabile alla sola STAMPA, definita da legge apposita del 1948, come “tutte le riproduzioni
tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla
pubblicazione”.
La dottrina prevalente ha concluso che i periodici online non sono da considerarsi stampa e dunque non gli
si può applicare l’art 57 cp, dunque al direttore del periodico online non è estendibile l’art 57.
La responsabilità penale de direttore di un periodico online è affidata a principi generali: se viene compiuto
un reato doloso (diffamazione) il soggetto punito è l’autore del fatto. Il direttore è da considerarsi penalmente
responsabile solo se si dimostra che è l’autore del fatto o che ne è concorrente doloso.

- Responsabilità per reati commessi a mezzo stampa non periodica


Innanzitutto la stampa non periodica è il volantino, il manifesto, i libri.
Non essendoci un direttore, i soggetti a cui ci si rivolge per affidare la responsabilità sono: l’editore e lo
stampatore.
L’editore è chiamato a rispondere se l’autore della pubblicazione rimane ignoto o risulta non imputabile. Lo
stampatore è chiamato a rispondere invece se omette di indicare l’editore o se quest’ultimo non è
imputabile. In questi casi rispondono a titolo di colpa.

 CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITA’


Sono condizioni obiettive di punibilità (art. 44), le situazioni in cui per la punibilità del reato la legge richiede il
verificarsi di una condizione per la quale il colpevole risponde anche se l’evento non è da lui voluto. Sono
obiettive dal momento che esse rilevano giudizialmente.
Si differenziano dalle condizioni di procedibilità (querela, istanza, richiesta, autorizzazione a procedere),
che rappresentano ipotesi di opportunità di punibilità rimesse ad una valutazione di terzi interessati, titolari di
un potere discrezionale di rimuovere o meno un ostacolo all’esercizio obbligatorio dell’azione penale perché
queste non incidono sulla punibilità ma sulla conoscibilità del fatto da parte del giudice. Ulteriori
differenze riguardano la prescrizione (che decorre dal giorno in cui si è verificata la condizione di punibilità),
la formazione del giudicato (la sentenza assolutoria per difetto di una condizione di punibilità impedisce la
celebrazione di un secondo processo contro la stessa persona per lo stesso fatto) e il risarcimento del
danno non patrimoniale 8che dipende dalla verificazione della condizione di punibilità). È condizione
obiettiva di punibilità l’elemento ultroneo rispetto al disvalore del fatto; è elemento essenziale quello che fa
parte della materia del divieto. Ha reso ulteriormente difficoltosa la distinzione, l’elaborazione della
suddivisione delle condizioni obiettive di punibilità in 2 categorie: estrinseche, estranee all’offesa e al
disvalore del fatto costituente reato e rappresentano la volontà del legislatore di subordinare la punibilità di
un fatto a valutazioni di opportunità; e intrinseche, elementi che comportano una progressione dell’offesa
all’interesse protetto.

♦ 21. IMPUTABILITA’
L’art. 85 c.p. definisce l’imputabilità come “capacità di intendere e di volere”.
Il primo orientamento, considera l’imputabilità un requisito della capacità giuridica penale intesa come
capacità di essere sottoposto ad una pena. L’attuale codice penale colloca le norme dell’imputabilità nel
titolo IV del libro I, dedicato al reo. Se il non imputabile può commettere un reato, l’imputabilità attiene

30 – Diritto penale
esclusivamente allo status personale del soggetto. A sostegno della possibile equiparazione tra imputabile e
non imputabile, si evidenzia come anche il minore di 14 anni o l’infermo mentale possano commettere un
fatto doloso o colposo.
Il secondo, invece, vede nell’imputabilità il primo fondamentale passaggio del giudizio di
rimproverabilità che caratterizza e fonda colpevolezza. Questa impostazione, oggi la più seguita, ritiene
che l’imputabilità costituisca il primo momento di quel giudizio di rimproverabilità che il giudice deve
compiere dopo aver accertato l’esistenza di un fatto tipico ed antigiuridico. Pertanto, quando il podice parla di
‘’reato’’ o ‘’delitto’’ del non imputabile, in realtà si riferirebbe esclusivamente al fatto storico che però non può
portare ad un giudizio di colpevolezza, proprio perché non rimproverabile. Si potrebbe parlare di pseudo-
dolo e pseudo-colpa, trattandosi di atteggiamenti influenzati dalla mancanza della capacità di intendere e/o
di volere.

La capacità di intendere coincide con una corretta rappresentazione della realtà esterna, accompagnata
dalla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni.
La capacità di volere è l’attitudine ad autodeterminarsi, indirizzando i propri comportamenti verso fini ed
obiettivi scelti consapevolmente, nonché come la libertà di scegliere come comportarsi e agire, che consente
di controllare gli impulsi e le passioni.
Entrambi questi due requisiti devono essere presenti perché un soggetto possa essere considerato
imputabile in quanto la mancanza di anche solo uno dei due renderebbe non rimproverabile il fatto
commesso.
L’art.85 chiarisce che la capacità di intendere e di volere deve essere presente al momento del compimento
del fatto perché questo costituisce il riferimento temporale rispetto al quale domandarsi se il soggetto fosse
in grado di comprendere e volere i propri comportamenti. Questa imputabilità inoltre deve essere accertata
proprio con riferimento al reato commesso: può accadere che, nel medesimo istante, un soggetto sia in
grado di percepire il disvalore del proprio comportamento rispetto ad un fatto e non ad un altro. Al contrario,
il soggetto può non essere in grado di resistere ad un impulso di natura patologica, ma riuscire a
determinarsi consapevolmente verso un diverso obiettivo.
Il sistema delineato dal vigente cp, prevede alcune cause che escludono la capacità di intendere e di volere:
1. LA MINORE ETA’ (art. 97): il codice penale necessita di indicazioni e termini tassativi che
consentono di individuare con certezza quando un minore debba rispondere penalmente dei propri
atti. A tal proposito ha suddiviso tre fasce d’età con le rispettive responsabilità:
- minore di 14 anni: presunzione assoluta di imputabilità;
- maggiore di 18 anni: è sempre imputabile (con riferimento all’età) e le capacità di intendere e di
volere potrà essere esclusa solo dalla presenza di un’altra e diversa tra le cause indicate dal vigente
ordinamento penale;
- tra i 14 e i 18 anni: quel periodo rispetto al quale il conseguimento della capacità di intendere e di volere
può essere significativamente influenzata da molteplici fattori, di carattere sociale, culturale, affettivo,
relazionale, etc. Il giudice deve dunque valutare caso per caso (art.98) la capacità di intendere e di volere
del minore nel momento della commissione del reato. Il giudice dovrà interrogarsi sul conseguimento di quel
grado dio maturità sufficiente per comprendere le conseguenze dei propri comportamenti.

Per i minori e i maggiorenni, il giudizio sull’imputabilità deve essere svolto con ‘’stretto riferimento’’ al reato
commesso. Il codice vigente penale prevede che, se il minore non è imputabile (perché non ha ancora
compiuto 14 anni, oppure perché infradiciottenne ma ritenuto incapace di intendere e di volere), egli non sia
punibile; ma se socialmente pericoloso, potrà essere sottoposto alle misure di sicurezza della libertà vigilata
o del riformatorio giudiziario. Se il soggetto, facente parte della fascia 14-18 anni viene considerato
imputabile, allora potrà essere punito con una pena diminuita fino ad un terzo, in quanto la minore età
costituisce quasi una circostanza attenuante che rientra nel giudizio di bilanciamento con le eventuali
circostanze aggravanti;

2. VIIZIO DI MENTE (art.88-89): chi si trovi per infermità in uno stato di mente tale da
escludere la sua capacità di intendere e di volere, non è imputabile. Se l’infermità produce uno stato
mentale che scema grandemente la capacità di intendere e di volere, il reo risponde del reato
commesso ma la pena viene diminuita. La semi infermità di mente coincide con un disturbo non
settoriale, in maniera tale da non escludere completamente la capacità di comprendere il senso della
realtà esterna e le conseguenze dei propri comportamenti. Anche questa deve essere presente al
momento del fatto. Inoltre deve aver causalmente influito sulla commissione del reato, alla quale il

31 – Diritto penale
reo deve essere stato determinato proprio a causa del vizio di mente. Di recente è stata portata
avanti l’idea per cui non basta solamente affermare che un soggetto è affetto da infermità mentale
per essere considerato non imputabile. L’infermità può essere sia fisica che psichica, art. 222, che
disciplina le modalità del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario. (il che non comporta le stesse
condizioni di imputabilità). Inizialmente nel concetto di vizio di mente potevano rientrare solamente le
malattie mentali a base organica (schizofrenia e delirio paranoide), con esclusione di qualsiasi altro
disturbo mentale. In questo senso si è fatto avanti l’orientamento opposto che ha sostenuto che
anche situazioni diverse dalle tradizionali malattie riconosciute possano considerarsi condizioni di
imputabilità quando abbiano escluso o diminuito la capacità di intendere e di volere. Un’importante
sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2005, ha affermato che anche i disturbi
della personalità, che abbiano realmente inciso sulla capacità di intendere e di volere del soggetto,
possono escludere o diminuire l’imputabilità purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da
incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola
grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa.
Gli stati emotivi e passionali (art.90) non escludono né diminuiscono la capacità di intendere e di
volere, purché adeguatamente comprovate. Per quanto riguarda le conseguenze della declaratoria
del vizio di mente, il soggetto non può essere punito ma, se socialmente pericoloso, può essere
sottoposto a misure di sicurezza;

3. ASSUNZIONE DI SOSTANZE ALCOLICHE O STUPEFACENTI (art.85): i soggetti sotto


effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti sono da considerarsi imputabili. Una prima situazione
che esclude l’imputabilità del soggetto, è quella dell’ubriachezza dovuta a caso fortuito o forza
maggiore: se l’ubriachezza non è piena, ma la capacità di intendere e di volere è grandemente
scemata, il comma 2 dell’art.91 prevede che il soggetto è imputabile ma la pena è diminuita. Molto
più rilevante la disciplina dell’ubriachezza volontaria o colposa. È colposa l’ubriachezza di colui che,
negligentemente, non controlla la quantità di alcool ingerita, e soprattutto gli effetti che potrebbero
derivarne. In entrambi i casi, se commette un reato, il soggetto viene ritenuto imputabile, nonostante
l’evidente alterazione del suo stato mentale, e risponderà sulla base del dolo o della colpa valutata
con riferimento al reato commesso. Ci sono poi due situazioni che non escludono l’imputabilità ma
anzi, possono costituire un’aggravante: l’ubriachezza preordinata, art. 92 comma 2, finalizzata a
commettere un reato o a precostituirsi una scusa; oppure l’ubriachezza abituale, art.93, ovvero lo
stato in cui il soggetto non è solamente dedito al frequente utilizzo di bevande alcoliche, ma è anche
spesso in stato di ubriachezza. Non è da confondersi con l’intossicazione cronica da alcool o
stupefacenti, art.95, che esclude o diminuisce l‘imputabilità e che consiste in una vera e propria
alterazione mentale, di natura patologica, non più reversibile, indipendentemente dalla successiva
assunzione di altro alcool o droga. In virtù della natura patologica della cronica intossicazione, il
codice detta la stessa disciplina del vizio di mente: non imputabilità ma possibile sottoposizione a
misure di sicurezza;

4. SORDOMUTISMO (art.96): che abbia escluso la capacità di intendere e di volere del soggetto al
momento del compimento del fatto e quando l’infermità abbia inciso direttamente sul compimento
del reato. Il codice Rocco prevede che il giudice debba sempre accertarne in concreto, caso per
caso, la capacità di intendere e di volere, per verificare se la disabilità sensoriale abbia impedito, o
ostacolato, un corretto sviluppo della personalità del soggetto. L’ultima Commissione per la riforma
del codice penale aveva proposto l’eliminazione della norma in oggetto. Il codice non distingue tra
sordomutismo congenito e acquisito: entrambi potranno portare ad una declaratoria rilevante in
tema di impunibilità- colui che sia solo sordo o solo muto, non potrà ‘’beneficiare’’ dell’art.96, e se
dovesse essere ritenuto incapace di intendere e di volere a causa della propria infermità fisica, si
applicherebbe la disciplina in materia di vizio di mente.

 Actio libera in causa


La disciplina dell’imputabilità si completa con l’art.86, in virtù del quale, se un soggetto si mette in stato di
incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa, non si applica
l’art.85: egli, cioè, viene ritenuto pienamente imputabile. Si tratta dell’ipotesi della actio libera in causa cioè
di quella incapacità di intendere e di volere che è frutto di una scelta libera, volontaria e preordinata.

♦ 22. REATO CIRCOSTANZIATO

32 – Diritto penale
Le circostanze sono elementi accidentali la cui presenza non è necessaria al fine del compimento del
reato e incidendo sulla sua gravità comportando di regola una variazione della pena o una modifica della
procedibilità del reato.
La variazione della pena può essere quantitativa quando alla pena applicabile al reato base deve
aggiungersi un quantum di pena della stessa specie; o qualitativa quando la circostanza modifichi le specie
della pena.
Hanno un’efficacia extra edittale in quanto la circostanza comporta una variazione del trattamento
sanzionatorio con superamento del limite edittale indicato per la singola fattispecie incriminatrice. Le
circostanze hanno due funzioni:
1. consentono di adeguare il trattamento sanzionatorio al reale disvalore del fatto attraverso la previsione
normativa di elementi capaci di incidere sulla gravità del reato o sulla capacità a delinquere del soggetto;
2. sono garanzia del principio di legalità in quanto consentono di realizzare l’adeguamento del trattamento
sanzionatorio alla gravità del reato senza lasciare questo compito alla totale discrezionalità del giudice.

Le circostanze possono essere:


1. aggravanti: prevedono un aumento del trattamento sanzionatorio;
2. attenuanti: prevedono una diminuzione della sanzione applicabile;
3. speciali: previste espressamente in relazione ad uno o più reati;
4. comuni: applicabili a tutte le ipotesi di reato o ai reati con i quali presentano una compatibilità
strutturale.

Un’altra classificazione attiene alla tipologia della variazione della pena:


- effetto comune: pena è aumentata o diminuita fino a un terzo;
- speciali: comportano la variazione della pena superiore ad un terzo;
- autonome: il legislatore stabilisce una pena di specie diversa;
- indipendenti: pena determinata in misura indipendente rispetto a quella ordinaria;
- oggettive: riguardano le condizioni e qualità personali della persona dell’offeso;
- soggettive: riguardano le condizioni o le qualità personali del colpevole;
- tipiche: gli elementi costitutivi sono descritti in maniera tassativa dalla norma;
- indefinite: individuazione degli elementi costitutivi rimessa alla discrezionalità del giudice.

Nella disciplina originaria del codice Rocco, l’art.59 prevedeva che le circostanze aggravanti o attenuanti si
imputassero al soggetto agente oggettivamente, anche se non conosciute dall’agente o per errore ritenute
inesistenti. L’originario criterio di imputazione delle circostanze aggravanti si presentava incompatibile con il
principio della responsabilità penale personale. Nel 1990, il legislatore ha provveduto a modificare il criterio
di imputazione delle circostanze. Ai sensi dell’art.59, comma 1, <<le circostanze che attenuano la pena sono
valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti>>;
mentre nel comma 2 dello stesso articolo, sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute
ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

L’art. 60 introduce delle deroghe alla disciplina dell’imitazione delle circostanze nell’ipotesi di errore sulla
persona offesa dal reato. Si fa riferimento ai casi in cui il soggetto agente versi in errore sull’identità della
persona offesa. Non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti. Ai sensi dell’art.60, comma 2,
sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti. Le aggravanti potranno essere poste a carico del
soggetto agente solo se l’errore è dovuto a colpa mentre le attenuanti solo se oggettivamente esistenti.

 CONCORSO OMOGENEO
Bisogna distinguere la disciplina del computo a seconda che si sia in presenza di una sola circostanza o di
un concorso (omogeneo o eterogeneo) di circostanze. In presenza di una sola circostanza ad effetto

33 – Diritto penale
comune, l’aumento o diminuzione si opera sulla quantità di pena che il giudice applicherebbe se non
concorresse alcuna circostanza.
In presenza di una sola circostanza aggravante ad effetto comune, la pena è aumentata fino ad 1/3 e la
pena della reclusione non può superare i 30 anni.
Quando ricorre una sola circostanza attenuante ad effetto comune, la pena è diminuita fino ad 1/3 e alla
pena dell’ergastolo (30 anni) è sostituita la reclusione da 20 a 24 anni. Quando ricorre una sola circostanza
ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione di pena per le altre circostanza non opera sulla pena
stabilita per le predette circostanze. Il concorso di circostanze può essere omogeneo o eterogeneo a
seconda che concorrano più circostanze dello stesso segno o di diverso segno. Nel caso del concorso di
circostanze omogeneo, distinguere tra:

- ad effetto comune: l’aumento o la diminuzione della pena va operata sulla quantità di essa risultante
dall’aumento o diminuzione precedente;
- ad efficacia speciale: si applica solo la pena stabilita per la circostanza più grave, con la facoltà del giudice
di aumentarla fino ad 1/3.
- ad efficacia comune e speciale: l’aumento o la diminuzione operano sulla pena stabilita per la circostanza
ad efficacia speciale.

L’art.66 individua i limiti degli aumenti di pena nel caso di più circostanze aggravanti: la pena non può
superare il triplo del massimo stabilito dalla legge, salvo le circostanze ad effetto speciale, e comunque non
eccedere i 30 anni se si tratta di reclusione, 5 anni se si tratta di arresto.
L’art.67 individua i limiti delle diminuzioni di pena nel caso di più circostanze attenuanti: non può essere
diminuita oltre i 10 anni, in caso di ergastolo; nelle altre circostanze, la pena non può essere applicata in
misura inferiore ad 1/4 della pena originale.

 CONCORSO ETEROGENEO E GIUDIZIO DI BILANCIAMENTO


Nel codice Rocco il giudice aveva e ha tutt'ora il potere discrezionale di procedere al giudizio di
bilanciamento attraverso una valutazione qualitativa del peso delle diverse circostanze, con la possibilità di
prevalenza delle aggravanti o delle attenuanti o della loro equivalenza (=pieno rispetto del principio di
proporzione tra la pena da comminare e il fatto criminoso). Restavano comunque escluse dal giudizio di
bilanciamento le circostanze ad efficacia speciale e quelle inerenti la persona del colpevole.
Nel 1974, con il decreto legge n.99 (convertito nella legge n.220), venne attuata una riforma che ha
rappresentato l’estensione della disciplina del giudizio di bilanciamento anche alle circostanze inerenti alla
persona del colpevole e alle circostanze ad effetto speciale.

 CIRCOSTANZE BLINDATE
All’inizio degli anni ’80, il legislatore ha introdotto sempre più frequentemente delle circostanze blindate a
cui ha riconosciuto un particolare privilegio nel giudizio di bilanciamento. La blindatura del giudizio di
bilanciamento può essere a base totale, l’esclusione della dichiarazione di prevalenza o equivalenza nelle
circostanze attenuanti, o a base parziale, in cui viene preclusa al giudice la sola dichiarazione di prevalenza
delle circostanze attenuanti, rimanendo impregiudicata la possibilità che le stesse siano valutate equivalenti,
con la conseguenza della vanificazione dell’aumento di pena riconnesso alla contestazione dell’aggravante.
Le sentenze del 1985 e del 2005 hanno incentrato le soluzioni interpretative sulla nozione di facoltatività: in
un caso relativo alla possibilità o meno per il giudice di procedere al giudizio di bilanciamento e nell’altro
relativo al profilo della stessa contestazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata.
Rientra tra le circostanze blindate anche l’ipotesi della minore età. Il privilegio opera solo quando
l’attenuante concorra con aggravanti che comportano la pena dell’ergastolo o con circostanze che accedano
ad un reato che prevede nella forma base la pena dell’ergastolo.
La corte Costituzionale si è limitata a stabilire che debba essere garantita la diminuzione della pena nel caso
in cui si verifichi un concorso con circostanze che prevedono direttamente la pena dell’ergastolo. La
sentenza si inserisce nel solco dell’interpretazione prevalente che riconosce alla minore età, la natura di
circostanza in senso tecnico, che deve rientrare, a seguito della riforma del 1974, nel giudizio di
bilanciamento: tale possibilità non viola il principio di uguaglianza in quanto il giudice, nell’esercizio del suo
potere discrezionale, è in grado di determinare in ogni fattispecie concreta la pena più adeguata alle
condizioni oggettive e soggettive del fatto realizzatosi.

34 – Diritto penale
 CIRCOSTANZE ATTENUANTI GENERICHE
L’art.62-bis contempla le attenuanti generiche: il giudice può prendere in considerazione altre circostanze
qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
Riveste un ruolo di primo piano la discrezionalità del giudice finalizzata ad un migliore adeguamento della
pena alla limitata gravità del reato in modo da mitigare il trattamento sanzionatorio. Il legislatore è
intervenuto a limitare la discrezionalità del giudice con 2 interventi di riforma:
1. Con la legge ex Cirielli vengono introdotte delle imitazioni al riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche per alcune ipotesi di recidiva reiterata;
2. Con il decreto legge n.92/2008 viene introdotto un ultimo comma all’art.62-bis in cui si afferma che
<<in ogni caso, l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può
essere posta a fondamento della concessione delle circostanze di cui al primo comma>>.

 LA RECIDIVA (art. 99)


La recidiva è parte delle circostanze inerenti la persona del colpevole. Si caratterizza per la previsione di un
aumento di pena nel caso di un soggetto che dopo essere stato condannato per un reato ne commetta un
altro. Esistono diverse forme di recidiva:
1. semplice: dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, il soggetto ne commette uno nuovo non
colposo. Il soggetto può essere sottoposto ad un aumento fino ad 1/3 della pena da infliggere per il nuovo
reato. Con la riforma del 2005, la recidiva è ammissibile per i soli delitti dolosi, e l’aumento della pena è
individuato nella misura fissa di 1/3;
2. aggravata: la pena può essere aumentata fino alla metà;
3. specifica: se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole, che violano una stessa disposizione di legge
o presentano caratteri fondamentali comuni;
4. infraquinquennale: il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei 5 anni dalla condotta precedente. È
previsto un aumento della pena fino alla metà se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o
dopo l’esecuzione della pena;
5. reiterata: quando il nuovo reato è commesso da chi è già recidivo. In questi casi, l’ordinamento prevede
l’applicazione di un aumento della pena fino alla metà se si tratta di recidiva semplice o fino a 2/3 se si tratta
di recidiva aggravata.

Ai sensi dell’art.70, la recidiva si qualifica quale circostante aggravante inerente la persona del colpevole.

 REATI AGGRAVATI DALL’EVENTO


Per reati aggravati dall’evento si intendono quei delitti che subiscono un aumento della pena quando si
verifica un ulteriore evento dannoso o pericoloso oltre a quello che è richiesto per la loro esistenza. Al loro
interno vi sono tre diverse categorie:
1. EVENTO AGGRAVATORE VOLUTO: l’evento è voluto perché costituisce la realizzazione
dello scopo oggetto del dolo specifico del reato base;
2. EVENTO AGGRAVATORE INDIFFERENTE: è indifferente che il reato sia voluto o non
voluto dal momento che anche quando sia richiesta l’effettiva volizione dell’evento, essa non
produce conseguenze penalmente rilevanti;
3. EVENTO AGGRAVATORE NON VOLUTO: l’evento non deve essere voluto, in quanto
altrimenti si cadrebbe nell’applicazione della corrispondente ipotesi dolosa.

Questa ultima ipotesi pone due problemi: il titolo di imputazione dell’evento non voluto e la natura
giuridica. Si discute se possano essere qualificati come reati autonomi, rientranti nello schema della
preterintenzione, o se si tratti di reati circostanziati.

♦ 23. DELITTO TENTATO


Noi abbiamo finora parlato solamente del reato consumato nel quale la fattispecie concreta corrisponde
perfettamente a quella astratta. È fondamentale l’individuazione del momento di consumazione del delitto. I
reati ad evento naturalistico si compiono nel momento in cui si realizza l’evento stesso. La nostra
giurisprudenza reputa consumato il delitto, anche se il reo acquisisce signoria sul danaro del tutto
momentanea e apparente. I reati di mera condotta istantanea giungono a consumazione quando si
esaurisce la condotta tipica, cioè quando l’agente compie l’ultimo atto che la realizza. I reati permanenti si
consumano quando viene meno la condotta criminosa descritta dalla fattispecie. Nei reati abituali, la

35 – Diritto penale
consumazione coincide con il compimento dell’ultimo fatto che qualifica come criminoso il comportamento
dell’agente.
Può succedere che lo svolgimento dell’attività criminosa non giunga a compimento: si parla in questi casi di
delitto tentato, (art.56) cioè non portato a termine per ragioni che prescindono dalla volontà del colpevole.
In questi casi, pur in assenza della realizzazione di tutti gli elementi descritti dalla fattispecie incriminatrice,
l’ordinamento penale reagisce con una sanzione, in virtù del fatto che il colpevole manifesta una certa
capacità criminale, indipendentemente dal fatto che l’iter criminis non sia giunto a compimento. Il tentativo è
sanzionato con una pena ridotta rispetto alla corrispettiva ipotesi consumata: l’ergastolo è sostituito con la
reclusione non inferiore a 12 anni, mentre le altre pene sono ridotte da 1/3 alla metà.
Il Codice Zanardelli distingueva tra atti esecutivi, con i quali l’autore inizia a tenere la condotta tipica,
descritta dalla fattispecie incriminatrice, ed atti meramente preparatori, cioè quelli precedenti all’inizio
dell’esecuzione, prevedendo all’art.61, che fosse punito a titolo di tentativo solo colui che cominciasse, con
mezzi idonei, l’esecuzione di un delitto.

Nell’analisi degli elementi costitutivi della fattispecie oggettiva del tentativo, si risponde a titolo di delitto
tentato solo se non si verifica la consumazione del reato. Si distingue tra
1. tentativo incompiuto: la condotta non giunge a compimento;
2. tentativo compiuto: l’agente porta a termine la condotta tipica descritta dalla fattispecie ma
l’evento non si realizza.

Il codice del 1930 ha tentato di superare la precedente distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi,
prevedendo che sia punibile il compimento di atti idonei, diretti in modo non equivoco. Il primo dei due
requisiti oggettivi positivi è l’idoneità dell’atto: è idoneo quando è probabile che, nell’ordinario svolgimento
dei fatti e nel loro concatenarsi, porti alla consumazione del reato. Per valutare l’idoneità degli atti, il giudice
dovrà operare una prognosi postuma, cioè collocarsi al momento nel quale la condotta viene tenuta, per
domandarsi se, valutati ex ante, gli atti compiuti potevano portare alla consumazione del delitto. Qualsiasi
valutazione ex post porterebbe sempre ad escludere l’idoneità dell’atto dal momento che, nel tentativo, la
condotta non deve giungere a compimento. Più complessa è l’individuazione della base del giudizio che
deve essere operato dal giudice. Vi sono due soluzioni:
1. a base parziale: il giudice deve prendere in considerazione solo le circostanze del fatto conosciute o
conoscibili dal reo;
2. a base totale: tiene conto anche di quelle evenienze del fatto che non erano conoscibili dal reo o da
un terzo estraneo, e sono state scoperte solo in seguito.

Secondo elemento oggettivo positivo, si risponde per delitto tentato solo se gli atti sono diretti in modo non
equivoco a commettere un delitto: gli atti devono poter far comprendere di essere indirizzati al compimento
di una, e una sola, specifica ed individuabile, fattispecie incriminatrice. Il problema è comprendere quali
circostanze concrete possono rendere quel comportamento effettivamente univoco, con riferimento ad una
soltanto delle diverse ipotesi criminose indicate. Si sono formulate col tempo due teorie:
1. teoria soggettiva: l’atto è inequivoco quando vi sia la prova dell’intenzione criminosa
dell’agente desunta dalla confessione del colpevole, da una chiamata del complice, da esplicite
intercettazioni telefoniche, etc. Finisce per anticipare indebitamente l’inizio dell’attività punibile con
l’inizio dell’esecuzione del reato;
2. teoria oggettiva: abbracciata dalla nostra migliore dottrina, sostiene che gli atti possono
ritenersi non equivoci solo se di per sé, oggettivamente considerati, sono in grado di rivelare
l’intenzione criminosa dell’agente.

Dunque per questa teoria, al fine del tentativo punibile, assume rilevanza penale non solo l’atto esecutivo
vero e proprio del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti
preparatori, per le circostanze concrete fanno fondatamente ritenere che l’azione criminosa abbia rilevante
probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il medesimo sarà commesso a meno che non
risultino incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi escludere solo quegli eventi non
dipendenti dalla volontà del soggette agente. Quest’ultimo ha solo un modo per dimostrare di aver desistito
dal proposito criminoso: desistenza volontaria o recesso attivo. La Corte di Cassazione ha affermato che,
ai fini della punibilità del tentativo rileva l’idoneità causale degli atti compiuti al conseguimento dell’obiettivo
delittuoso nonché l’univocità della loro destinazione. Gli atti preparatori sono punibili a titolo di tentativo
quando risultino, con giudizio ex ante e con riferimento al contesto, idonei e diretti in modo non equivoco a

36 – Diritto penale
commettere il reato. Secondo una diversa impostazione, questa interpretazione tradisce la necessità di
procedere ad una valutazione realmente oggettiva della non equivocità degli atti. La sentenza del 22
dicembre 1980, n.177, della Core costituzionale, ha dichiarato che solo gli atti esecutivi possono essere
inequivoci poiché soltanto dell’inizio dell’esecuzione delittuosa, può dedursi la direzione univoca dell’atto
stesso di provocare il risultato criminoso voluto dall’agente. Un secondo argomento prende le mosse
dall’art.115 da cui si deduce la possibile rilevanza per l’ordinamento di atti che ancora non sono esecutivi dio
una fattispecie criminosa ma che, a partire dalla prima manifestazione esterna del proposito delittuoso,
predispongono i mezzi, o creano le condizioni per il delitto: quindi non sono punibili né l’accordo a
commettere un reato, né l’istigazione quando il reato stesso non è commesso. Nella difficoltà di individuare
un corretto e definitivo punto di bilanciamento tra le esigenze di prevenzione generale ed il rispetto del
principio di offensività, una soluzione ragionevole può essere quella di ritenere integrato il requisito della non
equivocità degli atti tutte le volte che, per l’inizio dell’esecuzione del reato, o in prossimità di essa, vi sia
concreta esposizione a pericolo dell’interesse tutelato. Art. 17 risponde di delitto tentato <<chi,
intenzionalmente, e mediante atti idonei, intraprenda l’esecuzione di un reato, o si accinga ad intraprenderla
con atti che immediatamente la precedono>>.

L’unico titolo di imputazione soggettiva compatibile con il tentativo è il dolo. L’art. 56 parla di ‘’delitto tentato’’
e dei delitti si risponde sempre e solo a titolo di dolo a meno che non vi sia l’eventuale responsabilità di colpa
o preterintenzione prevista espressamente prevista dalla legge. In assenza, la responsabilità per il delitto
tentato colposo deve essere esclusa. Più difficile per le situazioni in cui vi è compatibilità del tentativo con
tutte le forme di intensità del dolo ed in particolare del dolo eventuale. Una prima teoria ritiene che il dolo del
delitto tentato deve coincidere con quello del delitto consumato, anche sotto il profilo della rilevanza del dolo
eventuale. A questa teoria si contrappone quella che sostiene che il delitto tentato ha una sua piena e totale
autonomia rispetto alla corrispondente fattispecie consumata, rendendo del tutto verosimile che, dal punto di
vista dell’imputazione soggettiva, possano valere regole diverse (teoria oggi prevalentemente seguita).
L’attuale tendenza della giurisprudenza impone che, quando l’evento non si è verificato, sia comunque
possibile un intervento sanzionatorio severo, a titolo di tentato omicidio con dolo eventuale. L’attuale
ordinamento che esclude la rilevanza del dolo eventuale, tende a salvaguardare le esigenze di prevenzione
generale attraverso un allargamento della sfera di operatività del solo diretto, facendovi rientrare
comportamenti nei quali si stenta a ritrovare quella certezza della realizzazione dell’evento imposta da una
corretta ricostruzione dell’elemento soggettivo; oppure distinguendo tra dolo eventuale incompatibile con i
tentativo) e dolo alternativo, che si manifesta quando si rappresenta come certa la realizzazione di uno dei
due eventi astrattamente possibili e l’agente agisce nella consapevolezza di ledere l’uno o l’altro dei due beni
tutelati. Come in ogni delitto doloso, anche per il tentativo di pongono problemi di accertamento e di prova: la
nostra giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri che permettono, attraverso il ricordo a fondate
massime di esperienza, di ricostruire la reale intenzione dell’agente. In particolare, il giudice dovrà prendere
in considerazione il tipo di arma utilizzato, il numero e la forza dei colpi inferti, le zone del corpo della vittima
attinte.

Sono pertanto esclusi i delitti colposi nonché le contravvenzioni (in caso di commissione dolosa, potrebbero
essere oggetto di imputazione a titolo di tentativo). Per quanto attiene alle diverse categorie di delitti dolosi,
la compatibilità del tentativo è subordinata alla descrizione di una ‘’condotta delittuosa suscettibile di
interruzione’’ o alla presenza di un evento naturalistico. La configurabilità del tentativo, nei delitti omissivi
impropri è, in astratto, del tutto pacifica: colui che gravato da un obbligo giuridico non si attivi per impedire il
realizzarsi di un evento, ne risponderà a titolo di delitto tentato a partire dal momento in cui ha violato
l’obbligo di agire, qualora l’evento venga evitato dall’intervento di una terza persona, o da altri fattori
indipendenti dalla sua volontà. La compatibilità dei reati di pericolo con il tentativo è oggetto di molteplici
discussioni, dovute al fatto che, secondo alcuni, essendo pacificamente già il delitto tentato una fattispecie di
pericolo, non avrebbe senso punire il ‘’pericolo di un pericolo’’, perché si realizzerebbe un’eccessiva
anticipazione della tutela.

Alcune circostanze, sia attenuanti che aggravanti, preesistono al compimento del fatto (es. rapporto di
parentela che aggrava l’omicidio doloso). In questi casi, se l’agente risponde a titolo di tentativo, le
circostanze, già presenti al momento del fatto, produrranno effetto (aggravante o attenuate) sulla pena che il
giudice infliggerà al reo. Più complessa è l’ipotesi in cui la circostanza fosse venuta ad esistenza solo
nell’ipotesi che il reato fosse giunto a compimento. In questi casi, il rispetto del principio di legalità
imporrebbe di non tenere conto della circostanza, dal momento che essa non si è ancora realizzata quando
l’iter criminis si interrompe.

37 – Diritto penale
Cosa succede per il nostro ordinamento se l’interruzione dipende da una scelta volontaria dell’agente?
Gli ultimi 2 commi dell’art. 56 prevedono:

1. Desistenza volontaria: è una causa di non punibilità in senso stretto, cioè motivata da ragioni di
opportunità in virtù della quale, colui che intraprende la commissione di un reato e desiste
volontariamente alla sua azione, va esente da pena. La caratteristica principale è che l’agente
interrompe la condotta criminosa quando non è giunta a termine. Si tratta di una causa di non
punibilità sopravvenuta per cui l’agente potrà essere chiamato a rispondere di quegli atti che, di per
sé, abbiano già consumato una diversa fattispecie incriminatrice. La parte più difficile sta nella
valutazione della volontà della desistenza: l’ordinamento non richiede assolutamente una qualche
forma di pentimento morale. La causa di non punibilità si applica anche se l’agente ritorna sui suoi
passi solo perché reputa conveniente tornare a compiere il delitto programmato in un momento più
opportuno. Ciò che connota la volontarietà è che l’agente non abbia portato a termine l’azione
nonostante ne avesse la possibilità. Al contrario, la desistenza non sarà volontaria nel caso in cui
l’interruzione sia causata da un allarme o un imprevisto elevamento del rischio;
2. Recesso attivo: colui che, volontariamente, impedisca l’evento, è soggetto alla pena del
delitto tentato, significativamente ridotta da 1/3 alla metà. Qui, l’azione è giunta a compimento e
l’agente non ha più dominio diretto sull’azione, ma si attiva positivamente per impedire che tali effetti
si realizzino (es. Tizio butta nel fiume Caio per ucciderlo ma vendendolo travolto dall’acqua si getta e
lo salva. Tizio risponderà di tentato omicidio con recesso attivo). Per quanto attiene alla volontarietà
del comportamento, valgono le considerazioni della desistenza. Nel recesso, la circostanza
attenuante può essere applicata solo se realmente l’evento non si verifica. Se l’evento viene evitato
anche grazie all’intervento di un terzo, vi è recesso attivo quando l’agente abbia comunque offerto
un contributo decisivo all’azione salvifica.

Una particolare categoria dei delitti sono i delitti di attentato. Non si tratta di un ambito definito e disciplinato
dal cp nella parte generale, ma si un insieme di fattispecie incriminatrici accomunate dalla medesima
struttura della condotta. Dalla metà degli anni ’60 si è imposta, nella nostra dottrina, un’interpretazione della
fattispecie di attentato rispettosa del principio di offensività, che impone all’interprete di leggere le formule
codicistiche come equivalenti a quelle del tentativo. E pertanto <<attentato>>, o <<atto diretto a>> viene
inteso come ‘’atto idoneo a’’, ‘’atto diretto in modo non equivoco a’’. in tal modo, si scongiura il rischio di
punire fatti che ancora non hanno raggiunto la soglia del tentativo, cioè non hanno concretamente posto in
pericolo l’interesse tutelato.

♦ 24. CONCORSO DI PERSONE NEL REATO


Come qualsiasi attività umana, anche il reato commesso in concorso da più persone deve essere
considerato opera di tutte e, coloro che collaborano alla sua realizzazione prendono il nome di concorrenti o
compartecipi. Vi sono due tipi di concorsi: concorso eventuale, in cui la pluralità dei concorrenti non è
richiesta dalla fattispecie incriminatrice in quanto può essere svolto anche da un singolo; e concorso
necessario, dove la pluralità degli autori è elemento costitutivo della fattispecie. La possibilità di riferire il
reato a tutti i concorrenti deve fare i conti con il principio di legalità. In un ordinamento a legalità formale
risponde del reato solo chi realizza il fatto tipico descritto dalla fattispecie incriminatrice. Per espandere la
responsabilità penale a questi soggetti potrebbe essere utilizzata una nozione estensiva di autore che
considera colpevole non solo il soggetto che compie l’azione ma anche coloro che contribuiscono alla sua
realizzazione. In un sistema a legalità formale, ancorato ai principi di determinatezza e tassatività della
fattispecie penale, non può essere accolta la nozione estensiva di autore: l’autore del reato può essere solo
chi tiene la condotta tipica descritta dalla fattispecie di parte speciale (nozione restrittiva di autore). In un
sistema penale improntato al principio di legalità, una volta accolta la nozione restrittiva, le norme sul
concorso di persone (art.110 ss) svolgono una funzione di incriminazione, nel senso che rendono
penalmente rilevanti condotte che non lo sarebbero in forza della fattispecie monosoggettiva di parte
speciale (condotte atipiche). Tali nome svolgono una funzione estensiva della punibilità e, al contempo,
anche una funzione di disciplina, nel senso che alle condotte concorsuali sarà applicata la disciplina
prevista per il concorso di persone nel reato. In alcuni casi le norme sul concorso di persone svolgono
esclusivamente una funzione di disciplina: nei casi in cui ognuno dei concorrenti tenga per intero la condotta
tipica, la rilevanza penale delle condotte è già data dalla fattispecie monosoggettiva. Dunque le norme sul
concorso di persone svolgono sempre una funzione di disciplina e, talvolta, anche una funzione di

38 – Diritto penale
incriminazione: quest’ultima estende la responsabilità penale a condotte atipiche rispetto alla fattispecie
incriminatrice monosoggettiva. I sistemi penali disciplinano il concorso di persone secondo modelli diversi
che privilegiano ora la determinatezza nella descrizione del contributo concorsuale, ora l’esigenza di evitare
lacune di tutela. Distinguiamo cosi la tipizzazione differenziata dei diversi contributi concorsuali in relazione
all’importanza della tipologia del contributo; dal modello unitario improntato dal codice Rocco che non
descrive i diversi contributi concorsuali, ma considera rilevante qualsiasi apporto dato alla realizzazione del
reato: il contributo concorsuale è tipizzato sul contributo causale dato alla commissione del reato, con un
approccio fondato sulla pericolosità del reo piuttosto che sul reato stesso. Il codice Rocco non costituisce un
modello unitario puro, nel quale tutti i contributi concorsuali sono equivalenti. L’art.110 fa salve <<le
disposizioni degli articoli seguenti>> che attraverso il meccanismo delle circostanze aggravanti (artt.111-
112) e attenuanti (art.114), considerano il diverso apporto dato alla commissione del reato agli effetti della
pena. In altri termini, il codice sposta la differenziazione dei contributi dalla sede della tipizzazione
legislativa a quella della commisurazione giudiziale della pena.

La dottrina si è posta il problema di giustificare sul piano dogmatico la punibilità dei contributi concorsuali
atipici. Parte della dottrina ricorre alla teoria dell’accessorietà, secondo la quale la punibilità del contributo
atipico (fatto accessorio) si giustifica in quanto accede alla condotta dell’autore che mette in essere il fatto
tipico (fatto principale). Quanto più si arricchiscono i requisiti della condotta principale dell’autore, tanto più
si riduce la possibilità di avere un contributo accessorio. Al fine di evitare le lacune di tutela che questi ed
altri casi simili pongono (es. chi si serve di un soggetto non imputabile per la commissione di un reato), la
dottrina tedesca ha esteso la figura dell’autore in autore mediato sostenendo che non è solo autore chi
realizza la condotta tipica, ma anche chi si serve di altri per la commissione di un reato. Parte della dottrina
italiana accoglie la teoria dell’accessorietà, basandosi sull’art.115 che prevede la non punibilità dell’accordo
e dell’istigazione quando agli stessi non sia seguita la commissione del reato; accordo e istigazione
costituiscono forse di contributo concorsuale a condizione che un terzo realizzi il fatto tipico. Tuttavia, il suo
accoglimento è andato incontro a delle obiezioni: in primo luogo, la teoria non si concilia con l’esecuzione
frazionata che si presenta nei casi in cui nessuno dei concorrenti pone in essere per intero il fatto tipico, ma
ognuno ne realizza una parte; in secondo luogo, non è in grado di giustificare il concorso in un reato
proprio, quando a realizzare il fatto tipico sia l’extraneus e non l’intraneus titolare della qualifica personale
richiesta dalla fattispecie incriminatrice. Infine parte della dottrina dubita che l’art.115 possa costituire una
valida base normativa a sostegno dell’accessorietà del contributo di partecipazione. La norma sembra
essere espressione di un ordinamento penale a base oggettiva che richiede, anche in ambito concorsuale, il
rispetto dei principi di materialità e di offensività: punire l’accordo e l’istigazione, non seguiti dalla
commissione del reato, significherebbe punire un autore pericoloso più che un fatto offensivo di un bene
giuridico. Il codice Rocco ha previsto all’art.115 la possibilità di applicare una misura di sicurezza.
Una teoria diversa è quella della fattispecie plurisoggettiva eventuale in cui la tipicità dei contributi
concorsuali deve essere valutata alla luce dalla fattispecie che nasce dall’incontro dell’art.110 e le singole
fattispecie incriminatrici di parte speciale: la combinazione di queste due norme dà origine ad una nuova
fattispecie ed è rispetto a questa che va valutata la rilevanza penale delle condotte concorsuali. Si è
obiettato che tale modello risulta troppo astratto perché non indica i requisiti della fattispecie plurisoggettiva
eventuale: a quali condizioni le condotte atipiche diventano contributi di partecipazione penalmente rilevanti
ai sensi della fattispecie plurisoggettiva eventuale? Tale teoria è deficitaria ma va aggiunto che ciò dipende
dall’assoluta indeterminatezza dell’art.110 sui requisiti strutturali del concorso di persone.
Un’obiezione rivolta alle 2 teorie sta nel fatto che entrambe richiedono l’unicità del reato di cui tutti i
concorrenti rispondono; mentre può accadere che i diversi concorrenti rispondano di uno stesso fatto
materiale, ma sulla base di imputazioni soggettive diverse, chi per dolo e chi per colpa: è quella che la
dottrina ha definito teoria delle fattispecie plurisoggettive differenziate, sostenendo che il concorso di
persone dà luogo ad una pluralità di reati, tanti quante sono le condotte concorsuali.

L’indeterminatezza dell’art.110 ha sollecitato dottrina e giurisprudenza ad elaborare i requisiti del concorso di


persone, portando alla realizzazione di 4 requisiti:

1. Pluralità di concorrenti in cui ne sono sufficienti due. L’ultimo comma dell’art.112 prevede che le
circostanze aggravanti si applicano <<anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è
punibile>>. Nel nostro sistema, la figura dell’autore mediato è superflua, in quanto non è richiesto che tutti i
concorrenti siano punibili ed imputabili. L’art.111 prevede che risponde del reato chi ha determinato a
commetterlo una persona non imputabile o non punibile a cagione di una condizione o qualità personale;

39 – Diritto penale
2. Commissione di un fatto di reato: devono essere stati realizzati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie
astratta. È ammesso il concorso in un tentativo, mentre non è punibile il tentativo di concorso, ossia il fatto di
tentare, senza riuscirsi, di concorrere in un reato: lo si desume dall’art.115 che prevede la non punibilità
dell’accordo e dell’istigazione se agli stessi non segue la commissione del reato. In questi casi prevede solo
l’applicazione di una misura di sicurezza a condizione che il giudice accerti la pericolosità sociale dell’autore;

3. Contributo concorsuale: c’è bisogno di contributo da parte di ciascun concorrente. Qui giocano due principi
costituzionali: il principio di legalità in quanto la riserva di legge ed il principio di determinatezza vanno tenuti
fermi anche nella comparazione, e il principio della responsabilità per fatto proprio in quanto la funzione
estensiva delle norme sul concorso di persone deve evitare di far rispondere un soggetto per un fatto che
non gli appartiene. In relazione al tipo di contributo, si distinguono in:

 Contributo materiale: si esplica sul piano oggettivo della preparazione ed esecuzione del
reato. Vi sono diverse forme di contributo materiale: l’autore che realizza per intero il fatto tipico; il
coautore se più soggetti realizzano elementi della fattispecie incriminatrice, sia quando ognuno
realizzi per intero il fatto tipico sia in presenza di un’esecuzione frazionata; il complice che dà
contributo oggettivo alla realizzazione del delitto in fase preparatoria o in fase esecutiva. I problemi
nascono in relazione al contributo materiale atipico del complice. Si è obiettato che il criterio della
condicio sine qua non, in ambito concorsuale, sortirebbe l’effetto di restringere irragionevolmente la
punibilità, escludendo la rilevanza di condotte meritevoli di pena. Per superare queste obiezioni,
sono stati proposti criteri alternativi alla causalità condizionalistica. Uno è costituito dalla causalità
agevolative o di rinforzo, che attribuisce rilevanza concorsuale anche alle condotte che, pur non
essendo condicio sine qua non del reato, abbiano comunque agevolato o rafforzato la sua
realizzazione. Ben diverse sono le conseguenze se l’agevolazione viene accertata sulla base di un
giudizio di prognosi postuma, ossia valutando se il contributo, nel momento in cui è stato prestato
(giudizio ex ante), abbia aumentato il rischio di realizzazione del reato. In questa accezione, si
considera sufficiente che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione,
abbia aumentato la possibilità della produzione del reato. Il criterio della prognosi postuma è stato
rigettato dalla Corte di Cassazione poiché ritiene che non sia affatto sufficiente che il contributo
atipico, con prognosi di mera pericolosità ex ante, sia considerato idoneo ad aumentare la
probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post si rilevi per
contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo. In ambito
concorsuale, è la causalità condizionalistica l’unico criterio in grado di rispettare i principi di
legalità e responsabilità per il fatto proprio. Va definito il secondo termine del rapporto causale: è il
fatto di reato, poiché il concorso di persone è ipotizzabile rispetto a qualsiasi reato, sia esso di
evento o di pura condotta. In secondo luogo, il reato deve essere inteso in concreto, ossia
prendendo in considerazione le modalità specifiche di realizzazione del fatto. Lo hanno ribadito le
Sezioni Unite, imponendo, anche in ambito concorsuale, l’accertamento dell’effettivo nesso
condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato con tutte le sue
caratteristiche essenziali. Nei reati permanenti il contributo concorsuale può essere prestato anche
in epoca successiva alla perfezione del reato, sino a che perdura la permanenza, sempre che il
concorrente agisca con il dolo di partecipazione e non colo il solo scopo di aiutare l’autore del reato
ad eludere le investigazioni delle autorità (sarebbe delitto di favoreggiamento). In conclusione, la
causalità condizionalistica va mantenuta fermamente come unico criterio di delimitare il contributo
concorsuale materiale atipico e svolge una duplice funzione: da un lato è criterio di imputazione
del fatto di reato e garantisce il rispetto del principio di responsabilità per fatto proprio; dall’altro lato
esercita la fondamentale funzione di tipizzazione del contributo di partecipazione, contribuendo
a garantire il rispetto dei principi di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie penale;

 Contributo morale: è un’influenza psichica e si presenta nella forma dell’istigazione,


quando si rafforza un proposito già presente, della determinazione, quando si fa sorgere un
proposito criminoso prima inesistente, dell’accordo, quando chi vi partecipa non prenda poi parte alla
preparazione o esecuzione del reato, o del consiglio. Richiede un accertamento rigoroso della
causalità psichica: è necessario accertare che l’istigatore abbia influito sulla volontà dell’istigato,
determinando o rafforzando il proposito criminoso che si è poi tradotto nella commissione del reato.
È necessario utilizzare delle massime di esperienza che indicano che certe condotte tenute in
determinati contesti e nei confronti di certi soggetti, hanno efficacia istigatoria. In particolare,
nell’accertamento della causalità del contributo morale deve essere posta particolare attenzione alle
modalità di esecuzione del reato. L’istigazione non è causale, quindi, se l’esecutore del reato era
già risoluto nel commettere il reato in tal caso, eliminando mentalmente la condotta istigatoria, non

40 – Diritto penale
verrebbe meno la commissione del reato. La necessità di un nesso di causalità tra il contributo ed il
reato esclude la rilevanza delle condotte intervenute dopo la commissione del reato: queste non
potranno dar luogo a responsabilità a titolo di concorso nel reato. Se vi sono state promesse d’aiuto
per eludere le investigazioni o per assicurare il profitto dell’azione criminosa, sussiste responsabilità
a titolo di concorso morale. A fronte delle difficoltà di accertamento della causalità psichica, la
giurisprudenza ha ripiegato su un giudizio di prognosi postuma, accontentandosi della mera
idoneità della condotta istigatoria a rafforzare il proposito criminoso con aumento delle possibilità di
commissione del reato;

 Concorso mediante omissione: è possibile concorrere in un reato anche per mezzo di una
condotta omissiva. Nei reati omissivi propri possono rispondere della condotta omissiva coloro che
abbiano l’obbligo di intervenire per effetto della situazione tipica, ma omettano di prestare soccorso: qui le
norme sul concorso di persone svolgono solo una funzione di disciplina, perché la responsabilità per omesso
soccorso sussiste già ai sensi dell’art.593. Negli altri reati, è possibile concorrere attraverso una condotta
omissiva solo se sussiste un obbligo giuridico di impedire che altri commettano il reato: è quindi necessario
che chi omette sia titolare di una posizione di garanzia avente ad oggetto l’impedimento dei reati commessi
da terzi (art.40 in combinato disposto con l’art.110). Il concorso mediante omissione va distinto dalla
connivenza consistente nella condotta di chi, non essendo titolare di una posizione di garanzia, non
interviene davanti alla commissione di un reato: in assenza dell’obbligo giuridico di impedire il reato, l’art. 40
non è in grado di fondare alcuna responsabilità concorsuale per omissione. La Cassazione afferma che al
fine di poter ritenere il concorso morale a un fatto penalmente rilevante, occorre la sussistenza di concreti
elementi idonei a dimostrare che l’opera dell’istigatore sia venuta a incidere concretamente sulla psiche del
concorrente-autore materiale, anche solo rinsaldando il preesistente proposito criminoso di quest’ultimo.

4. Dolo di partecipazione: non è richiesto un previo accordo tra i concorrenti, ma richiede la sussistenza
di due requisiti: la rappresentazione volontà del fatto di reato, e la responsabilità e volontà di concorrere
con altri nella commissione del reato. Non è necessario che tutti siano consapevoli di concorrere con
altri, ma la presenza di tale consapevolezza consente alle norme sul concorso di svolgere la funzione di
incriminazione e di disciplina nei confronti di coloro che tale consapevolezza abbiano. La presenza del
dolo di partecipazione permette alle norme di svolgere la funzione di incriminazione in capo al
concorrente che dà contributo atipico alla commissione del reato o che realizza una condotta
parzialmente tipica nei casi di esecuzione frazionata. Nei reati a dolo specifico non è necessario che
tutti i concorrenti agiscano con la particolare finalità richiesta dalla fattispecie incriminatrice, ma è
sufficiente che un solo compartecipe abbia tale finalità, purché gli altri ne siano consapevoli. Discussa è
la rilevanza penale della condotta di chi induce taluno a commettere un reato al fine di assicurare il
colpevole alla giustizia, agente provocatore: la responsabilità viene esclusa nei casi in cui l’intervento
costituisce attività di controllo, osservazione e di contenimento dell’altrui azione illecita. Diversa è la
situazione dell’infiltrato che realizza operazioni sotto copertura: la sua non punibilità è
espressamente prevista, a determinate condizioni, dall’ordinamento.

Il codice affida al giudice il compito di differenziare le pene tra i concorrenti in relazione alla tipologia del
contributo di partecipazione attraverso circostanze aggravanti e attenuanti. Le circostanze aggravanti (art.
111-112) si applicano se taluno dei concorrenti non è imputabile o non punibile, se minorenne o inferno, se
per il reato commesso è previsto l’arresto in flagranza, per promuovere, organizzare o dirigere la
cooperazione, o se persone soggette alla propria autorità, direzione o vigilanza. L’unica circostanza che non
prende in considerazione la posizione del singolo concorrente è costituita dall’aggravante ad effetto comune
applicabile se il numero dei concorrenti non è inferiore a 5. Nelle circostanze attenuanti (art. 114), la pena
può essere diminuita per chi è stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni
stabilite dall’art.112. Particolare importanza riveste la circostanza attenuante della minima importanza che
lascia al giudice la facoltà di diminuire la pena se l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse
nel reato abbia avuto <<minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato>>. Le
circostanze attenuanti si estendono a tutti i concorrenti, mentre le aggravanti solo al concorrente che le
conosca o le abbia ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

Il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, detto anche concorso anomalo (art.116), si
tratta della situazione in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto perché intervenuta una variante
individuale al piano iniziale. Si tratta della responsabilità oggettiva più severa prevista dal codice sul

41 – Diritto penale
presupposto che chi si affida ad altri per l’esecuzione del reato corre il rischio di rispondere anche delle
eventuali conseguenze non volute. A mitigare la ferrea disciplina del concorso anomalo, c’è l’applicazione di
una circostanza attenuante obbligatoria ad effetto comune <<se il reato commesso è più grave di quello
voluto>>. Stando alla lettera della norma, l’unica possibilità di escludere la responsabilità penale risiede
nell’interruzione del nesso causale tra la condotta del concorrente ed il reato diverso non voluto per
l’intervento di un fattore eccezionale capace di spezzare l’imputazione oggettiva del fatto. La Corte ha
richiesto l’accertamento di un nesso di causalità psichica, <<concepito nel senso che il reato diverso o più
grave commesso dal concorrente debba poter rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi
e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto>>, senza spiegare
appunto come vada inteso il richiamo allo ‘’sviluppo logicamente prevedibile’’ del reato voluto. Vi sono due
soluzioni:
- Prevedibilità in astratto: mettendo a raffronto gli elementi costitutivi del reato voluto e di quello realizzato, è
possibile affermare che l’accordo per l’esecuzione di un reato rende prevedibili varianti individuali al piano
comune (es. non è prevedibile che da un furto possa derivare una violenza sessuale, trattandosi di un tipo di
violenza di natura diversa da quella in genere commessa nei reati contro il patrimonio);
- Prevedibilità in concreto: è necessario valutare, alla luce di tutti gli elementi del caso concreto, se per il
concorrente fosse prevedibile la commissione del reato diverso da parte di altro concorrente (es. se il piano
criminoso prevedeva rapina solo tramite minaccia, il fatto che uno dei concorrenti estragga un coltello e
uccide la vittima che oppone resistenza, può costituire uno sviluppo non prevedibile del reato voluto. essere
esclusa la prevedibilità. Diverso è se si conosce la particolare irascibilità e violenza del collega. Costituisce
l’unico requisito in grado di garantire il rispetto del principio di colpevolezza.

Può concorrere in un reato proprio anche chi (extraneus) non possiede la qualifica personale richiesta dalla
legge come elemento costitutivo del fatto tipico, a condizione che sia consapevole di concorrere con il
soggetto titolare della qualifica (intraneus). Non è invece necessario che sia l’intraneus a tenere la condotta
incriminatrice. Ad una diversa conclusione si deve invece pervenire laddove sia l’offesa al bene giuridico
tutelato a richiedere che l’intraneus tenga la condotta tipica (reati di mano propria). Allo stesso modo è
l’indagine sul bene giuridico tutelato a decidere se sia necessario che l’intraneus sia in dolo. L’art.117
disciplina una particolare ipotesi di concorso in un reato proprio, ossia quella nella quale la qualifica
personale determina il mutamento del titolo di reato per taluno dei concorrenti: in applicazione di questa
norma, il concorrente in extraneus risponde del reato proprio senza conoscere la qualifica personale del
concorrente intraneus. Affinché si produca questo effetto è necessario che l’extraneus sia in dolo rispetto al
reato comune e che dia un contributo alla commissione del reato proprio.

L’art. 119 tratta le cause di esclusione della pena che possono essere soggettive, si applicano alla
persona a cui si riferiscono, oppure oggettive, che si estendono a tutti i concorrenti. Le cause oggettive, che
escludono la punibilità, sono le cause di giustificazione: facendo venire meno il profilo oggettivo del reato
operano nei confronti di tutti i concorrenti. Sono invece cause soggettive le scusanti che escludono la
colpevolezza, le cause che escludono l’imputabilità e le cause personali di non punibilità: queste
escludono profili personali della responsabilità e non possono che limitare i propri effetti al concorrente a cui
si riferiscono. Analogo effetto è riconosciuto alle cause sopravvenute di non punibilità poiché tenute dopo
la commissione del reato (es. desistenza).

(Desistenza) In presenza di una compartecipazione, il concorrente non può limitarsi ad abbandonare


volontariamente l’azione criminosa concordata, in quanto la sua condotta ha già integrato con quella degli
altri concorrenti nell’ambito della preparazione o dell’inizio di esecuzione della condotta. È necessario che il
concorrente annulli il contributo dato alla realizzazione collettiva in modo che esso non possa più essere
efficace per la realizzazione del delitto ed elimini le conseguenze che fino ad allora si sono prodotte. Quanto
al recesso attivo, la sua applicazione in ambito concorsuale comporterebbe l’estensione a tutti i concorrenti,
in quanto non rientra tra le circostanze indicate dall’art.118.

L’art.113 disciplina la cooperazione nel delitto colposo, stabilendo che <<nel delitto colposo, quando
l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite
per il delitto stesso>>. Nonostante la diversa terminologia, altro non sarebbe che un concorso di persone di
un delitto colposo. Sono necessari i requisiti generali di struttura del concorso di persone della pluralità degli
agenti e della realizzazione di una fattispecie di reato che deve essere, però, un delitto colposo. Presentano

42 – Diritto penale
invece profili specifici l’elemento soggettivo, secondo cui è necessario che i concorrenti non vogliano il
fatto di reato, ma abbiano la consapevolezza dell’altrui partecipazione e non la consapevolezza del carattere
colposo dell’altrui condotta. Questo elemento soggettivo consente di distinguere la cooperazione nel delitto
colposo dal concorso di fattori colposi indipendenti in cui le diverse condotte convergono nella
produzione di un medesimo evento senza che gli autori delle stesse siano consapevoli dell’intersecarsi delle
loro azioni. Sia nella cooperazione nel delitto colposo che nel concorso di fattori colposi indipendenti, gli
autori delle condotte rispondono del delitto colposo, ma nel primo il reato è unico ed è realizzato in forma
concorsuale, nel secondo invece sussistono tanti reati quante solo le condotte colpose, accomunate dalla
causazione di un univo evento.

In presenza di un concorso di persone in un reato nulla esclude che dello stesso i concorrenti rispondano
dolosamente o colposamente a seconda che siano in dolo o in colpa rispetto al fatto. Non può essere
adottato il dogma dell’unicità del titolo di reato nei reati di cooperazione (es. Tizio induce in errore sul
carattere innocuo della sostanza che Caio sta versando a Sempronio che però ne procura la morte: Tizio
risponde a titolo di omicidio doloso mentre Caio risponde a titolo di omicidio colposo).

Il concorso di persone è possibile anche nelle contravvenzioni. Non vi è dubbio sulla configurabilità del
concorso doloso nelle contravvenzioni, ma sul concorso colposo nelle contravvenzioni la dottrina non riesce
ad essere univoca. Rispetto ad esse, valendo la diversa regola generale dell’imputazione dolosa o colposa,
l’art.110 è in grado di svolgere la propria funzione di incriminazione e di disciplina anche in relazione al
concorso colposo.

Il concorso di persone può essere:


- Eventuale: la realizzazione in forma plurisoggettiva costituisce un dato eventuale, in quanto
la fattispecie incriminatrice viene descritta dal codice in forma monosoggettiva;
- Necessario: è la legge stessa a prevedere la pluralità di concorrenti come elemento
costitutivo della fattispecie.

Abbiamo visto che uno dei requisiti per il concorso di reato è la commissione di un reato, in quanto il mero
accordo non è punibile. Tuttavia la legge può prevedere fattispecie che incriminano il semplice accordo
(reati-accordo) che, in deroga alla disposizione generale dell’art.115, prevede una clausola di riserva “salvo
che la legge disponga altrimenti”. È il caso del delitto di cospirazione politica mediante accordo che consiste
nel fatto di due o più persone che si accordano per commettere un delitto contro la personalità dello Stato. In
questo caso si punisce il semplice incontro di volontà tra più persone finalizzate alla commissione di n reato:
è un’anticipazione di tutela. Rispondono ad una analoga esigenza di anticipazione della tutela, i reati
associativi, i quali puniscono invece la costituzione di una struttura associativa finalizzata a commettere
delitti (es. associazione per delinquere, tre o più persone che si associano per commettere i cosiddetti delitti
scopo). I caratteri dell’associazione sono stati definiti dalla giurisprudenza che richiede la presenza di
un’organizzazione connotata dalla stabilità del vincolo associativo e talvolta anche dall’idoneità della stessa
a perseguire il programma criminoso. Gli associati rispondono de di questo reato a prescindere dalla
commissione dei delitti-scopo. Qualora siano realizzati, rispondono solo coloro che abbiano dato un
contributo concorsuale alla commissione del delitto-scopo: va pertanto distinta la condotta di associazione,
consistente nello svolgere un ruolo all’interno dell’organizzazione, dal concorso nel delitto-scopo che
richiede l’accertamento dei requisiti strutturali del concorso di persone. Particolarmente delicata si rivela la
valutazione del contributo morale, del quale sono chiamati a rispondere gli associati che rivestono ruoli di
vertice: va esclusa l’automatica trasformazione della condotta associativa in condotta concorsuale, ma va
attentamente accertato che rivesta ruoli dirigenziali avesse istigato il reato commesso.

♦ 27. FUNZIONI DELLA PENA


Il diritto penale partecipa alla funzione di controllo sociale in forza della sua capacità di influire sulle condotte
umane tramite norme che impongono divieti o comandi attraverso sanzioni costituite dalle pene che
consentono di identificare i fatti costituenti reato. Le pene si traducono nella privazione o limitazione di diritti
e si caratterizzano proprio per il contenuto necessariamente afflittivo. È accompagnato dal personalismo
che trova espresso rilievo costituzionale nell’art.27 comma 1, Cost.: la responsabilità penale personale fonda
la necessità che il reato sia assistito da coefficienti soggettivi minimi che assicurino la responsabilità per fatto

43 – Diritto penale
proprio colpevole, ma anche la dimensione personale della pena che si traduce in una serie di connotati
della sanzione penale. Nel nostro ordinamento, la pena si traduce ora in modo diretto con pene detentive,
ora in modo indiretto con pene pecuniarie che, in caso di insolvibilità del condannato, si convertono in
sanzioni limitative della libertà personale. Proprio il personalismo e il poter incidere sui diritti personali del
soggetto danno luogo alla previsione di garanzie sostanziali e processuali rafforzate: da un lato il principio
di legalità presenta una rigidità sconosciuta alle sanzioni civili, amministrative o disciplinari; dall’altro lato,
l’attribuzione al giudice penale della competenza in ordine all’accertamento del fatto illecito, della
responsabilità dell’autore e dell’inflizione della sanzione, comporta l’applicazione delle più garantiste regole
del processo penale.

Vi sono teorie diverse riguardo alle funzioni della pena. Secondo le teorie assolute, l’inflizione della
sanzione a seguito della commissione di un reato si giustifica per il semplice fatto che il reato è stato
commesso e l’autore ne risulta responsabile: a questo filone appartengono le teorie retributive. Secondo le
teorie relative invece, la pena si giustifica in relazione allo scopo di prevenire la commissione di reati,
rivolgendosi ora alla generalità dei consociati affinché non commettano reati (prevenzione generale), ora
all’autore del reato affinché non commetta in futuro altri reati (prevenzione speciale).

 RETRIBUZIONE
La teoria retributiva attribuisce alla pena la funzione di compensare la colpevolezza del reo. Questa teoria,
richiedendo l’equivalenza tra reato e pena, rappresenta la razionalizzazione della vendetta privata e della
legge del taglione. Ma più che questo, ne costituisce il superamento in quanto si è sviluppata a seguito
dell’attribuzione della potestà punitiva ad un soggetto terzo rispetto all’offensore o all’offeso. Devono essere
evidenziati 2 profili: il divieto di strumentalizzazione dell’autore del reato a fini di prevenzione della
criminalità, valorizza la dignità della persona umana, che deve essere salvaguardata anche quando si tratta
di autori di reati più efferati; asse portante che è il principio di proporzione tra la pena e il disvalore del
fatto nonché la colpevolezza del soggetto per il fatto.
Pertanto allo Stato non può essere attribuita la funzione di retribuire la colpevolezza di reato, ma va
salvaguardato il principio di proporzione.

 PREVENZIONE GENERALE
Secondo la teoria della prevenzione generale, la pena ha la funzione di distogliere i consociati dalla
commissione di reati. Vi sono due accezioni: secondo il modello tradizionale, la pena opera come
intimidazione e deterrenza (prevenzione generale negativa). Alle obiezioni circa la strumentalizzazione
dell’autore e l’inasprimento eccessivo dei livelli sanzionatori, la risposto la prevenzione generale positiva,
in cui il rispetto delle norme penali deriva dallo spontaneo adeguamento dei consociati al rispetto degli
interessi tutelati dalle norme penali, che svolgerebbero una funzione di socializzazione. Anche questa
proposta è andata incontro a obiezioni: alcuni temono che questa versione della prevenzione generale rischi
di riproporre una confusione tra morale e diritto. Variante della teoria positiva, vi è la funzione di
stabilizzazione del sistema: la violazione della norma penale mette in discussione l’efficacia della stessa e
compromette la fiducia che i consociati ripongono nel sistema normativo; spetta alla pena ristabilire tale
fiducia.

 PREVENZIONE SPECIALE
Secondo questa teoria lo scopo della pena è impedire che chi ha già commesso un reato torni a
commetterne in futuro. Vi sono due accezioni: prevenzione speciale negativa, la cui prevenzione si
realizza mediante la neutralizzazione o incapacitazione (materiale o giuridica) del soggetto e quindi ha lo
scopo di neutralizzare la pericolosità del soggetto; prevenzione speciale positiva che pone l’accento sulla
funzione rieducativa della sanzione per una reintegrazione dell’autore all’interno della società e la sua
rieducazione sul rispetto dei valori condivisi dalla convivenza associata. La stessa pena detentiva ha ridotto
negli anni la sua dimensione carcero-centrica a favore dello sviluppo di misure alternative alla detenzione e
di pene sostitutive che si fondano proprio sulle esigenze di rieducazione o di non-desocializzazione del
soggetto. L’idea educativa tiene conto della corresponsabilità della società nella genesi del reato: il reato
non è solo il risultato di scelte individuali, ma del contributo di vari fattori sociali ed economici.

La dottrina riconosce la compresenza delle diverse funzioni (scopi punitivi, prevenzione generale e
prevenzione speciale). Ma la polifunzionalità della pena, rischia il prevalere di una funzione a scapito
dell’altra a seconda delle esigenze interpretative o del momento storico. Il problema è coordinare le diverse

44 – Diritto penale
funzioni. Non è possibile dare una soluzione meccanica e rigida al coordinamento, ma è comunque
necessario che le diverse funzioni della pena non siano eluse, facendo prevalere una di queste sulle altre.
Deve essere delegittimata la retribuzione come funzione della pena, salvaguardando il principio di
proporzione che costituisce una garanzia inviolabile, da valutare in relazione al disvalore del fatto e alla
colpevolezza del soggetto per quel fatto (artt.3 e 27, comma 1, Cost.).
L’art. 27, comma 3 Cost. sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso
di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Pertanto, la rieducazione non può mai
essere imposta; è dovere dello Stato offrire possibilità di risocializzazione senza ridurre la pena a pura
neutralizzazione del condannato. La rieducazione va intesa come risocializzazione, ossia come
reinserimento nella società. Questa funzione della pena in termini di recupero sociale, giustifica coloro
rispetto ai quali la commissione del reato si inserisce in un contesto problematico di socializzazione e di
emarginazione; riguardo ai soggetti che sono perfettamente inseriti nelle dinamiche sociali, la funzione
rieducativa della pena si realizza attraverso l’intimidazione, in quanto deve servire da stimolo per il recupero
del rispetto degli interessi lesi dal reato.

L’art.27, comma 3, Cost. non risolve il problema del coordinamento tra prevenzione generale, speciale e
principio di proporzione. È necessario considerare la polifunzionalità della pena nelle diverse fasi in cui si
articola il percorso sanzionatorio:

1. Comminazione edittale della pena


Nel momento della previsione della pena, la sanzione penale si giustifica in funzione della tutela dei beni
giuridici e per prevenire punizioni arbitrarie dell’autore del reato. Spetta al legislatore valutare quale
pena e quali limiti edittali siano adeguati rispetto all’interesse da tutelare. L’efficacia della risposta
sanzionatoria non dipende dall’aumento dei livelli edittali di pena: alzare troppo la pena per un reato è
controproducente per due motivi: se troppo elevato, la pena diventa inapplicabile nella pratica e non si
possono punire reati con notevole differenza di gravità con sanzioni simili. Attraverso il principio di
proporzione, qualità e quantità della pena comminata in astratto diventano specchio del differente valore
attribuito dall’ordinamento ai beni giuridici offesi;

2. Commisurazione e applicazione giudiziale


Non si può rilevare la funzione di prevenzione generale nella commisurazione giudiziale. L’efficacia
generalpreventiva è condizionata dalla disciplina processuale: quanto più sarà in grado di assicurare una
condanna temporalmente ravvicinata rispetto alla commissione del fatto, tanto maggiore sarà l’effetto
deterrente. In sede di commisurazione della pena, svolge un ruolo centrale il principio di proporzione
rispetto alla gravità del fatto concreto e alla colpevolezza del soggetto. Quanto alla funzione di prevenzione
speciale, l’orientamento prevalente riconosce la capacità di giustificare una pena inferiore a quella che
appare proporzionata rispetto al fatto commesso, ma mai superiore: il giudice, a fronte dell’occasionalità o
della minore età dell’autore, potrebbe valutare adeguata una pena più bassa per esigenze di non
desocializzazione; al contrario, non potrebbe applicare una pena più elevata, ritenendo che solo un
trattamento in carcere più lungo assicuri la rieducazione del soggetto;

3. Fase esecutiva
In fase esecutiva svolge un ruolo preminente la funzione rieducativa della pena, con l’attuazione dell’art.27
comma 2, Cost. La Corte costituzionale ha riconosciuto la rieducazione come ‘’diritto per il condannato’’. Per
esigenze di prevenzione speciale, la pena può subire sospensioni o riduzioni, ma mai potrebbe essere
aumentata al di là dei limiti fissati dal giudice in sede di commisurazione della pena. In questa fase, la
funzione di prevenzione generale opera in quanto l’esecuzione della pena costituisce l’esito conclusivo:
sarebbe del tutto fallimentare un sistema che alla previsione in astratto della pena facesse seguire una
condanna, ma non la sua esecuzione. Sull’efficacia di prevenzione generale, incide la certezza della pena.

CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA: spetta alla funzione specialpreventiva aver assunto un significato


centrale nell’ammodernamento del sistema sanzionatorio. Eppure, mentre si assiste alla valorizzazione
dell’idea rieducativa, la stessa mostra segni di crisi che ha portato allo sviluppo di 2 indirizzi: le posizioni
neoretributive, sostengono che l’inflizione della pena nei confronti del reo serve a canalizzare l’aggressività
dei consociati e ristabilizzare la loro fiducia nella salvaguardia dei valori tutelati dalle norme penali (si rischia
di aprire il varco al progressivo innalzamento dei livelli sanzionatori); e il neopositivismo, che valorizza
l’autore del reato come soggetto pericoloso.

♦ 28. PENE (fotocopie)

45 – Diritto penale
Il principio di legalità con tutti i suoi sotto-principi (riserva di legge, determinatezza, tassatività e irretroattività)
trova applicazione anche in relazione alle pene. Con riguardo alla riserva di legge, l’art.25 comma 2 Cost.
prevede che <<nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto
commesso>>. La Corte intende la riserva di legge quando si tratta di determinare il trattamento
sanzionatorio. Il rispetto del principio di determinatezza non ammette pene non predeterminate legalmente
nella durata massima. Si potrebbe allora pensare che la determinatezza della pena possa essere assicurata
attraverso la previsione di pene fisse. La Corte ha dato indicazioni in senso contrario, in quanto la modalità
di i9ndividuazione della pena sta nella fissazione di limiti edittali minimi e massimi con attribuzione al potere
discrezionale del giudice della determinazione in concreto della pena. La Corte afferma che può essere
ammessa la censura sotto il profilo della legittimità costituzionale soltanto in presenza di due condizioni: la
manifesta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio, per violazione dell’art.3 Cost.; un parametro di
giudizio che imponga una ‘’soluzione costituzionalmente obbligata’’ in cui diventa essenziale il riferimento
al tertium comparationis che legittima l’intervento della Corte in materia di determinazione della pena ed
esclusivamente in presenza di discipline manifestamente arbitrarie o irragionevoli. Il potere discrezionale del
giudice di individualizzare la pena ‘’deve trovare nella legge i suoi limiti e i suoi criteri direttivi’’ che sono
fissati nell’art.133; ‘’la determinazione legislativa del minimo e del massimo della pena irrogabile per ciascun
tipo di reato non rappresenta soltanto un limite alla discrezionalità giudiziale, ma costituisce anche un
indispensabile parametro legislativo per l’esercizio di essa, un criterio guida senza il quale il potere così
riconosciuto al giudice non sarebbe riconducibile al principio di legalità’’.

L’attuale sistema sanzionatorio non prevede più la pena di morte che il codice Rocco includeva tra le pene
principali per i reati contro la personalità dello Stato, contro la persona e contro l’incolumità pubblica. Con la
caduta del regime, fu abolita per tutti i reati previsti dal codice penale e fu mantenuta solo per i reati di
collaborazione con nazisti e fascisti. Con l’entrata in vigore della Costituzione, l’ambito di applicazione fu
ristretto, disponendo dell’art.27 comma 4 Cost. che <<non è ammessa la pena di morte, se non nei casi
previsti dalle leggi militari di guerra>>. Solo con la l. Cost. 2 ottobre 2007, n.1 è stato riscritto il comma 4
dell’art.27 Cost.: <<non è ammessa la pena di morte>>. Nessuno studio ha mai dimostrato l’efficacia
general-preventiva della pena di morte. Al contempo confligge con la funzione di prevenzione speciale
positiva, in quanto nega in radice la logica rieducativa e si pone esclusivamente nella prospettiva della
neutralizzazione totale dell’autore del reato, senza contare che tale profilo rende irrimediabile l’eventuale
errore giudiziario. Più a monte, tale sanzione si pone in insanabile contrasto con la dignità della persona.
Il codice Rocco mantiene la distinzione tra pene principali (previste per ciascun reato) e pene accessorie
(sanzioni che non possono essere applicate isolatamente). Le prime sono costituite dalle pene detentive
(ergastolo, reclusione, arresto) e dalle pene pecuniarie (multa e ammenda) ai sensi dell’art. 17. I reati
possono essere sanzionati sia con la previsione esclusiva della pena detentiva o della pena pecuniaria, sia
con pena congiunta (detentiva e pecuniaria) o alternativa (detentiva o pecuniaria). Con l’entrata in vigore
della Costituzione, cambia il quadro dei valori costituzionali e la valorizzazione della funzione rieducativa
della pena impone una riflessione sia sulle modalità di esecuzione della pena detentiva sia sulla stessa
centralità del carcere nel sistema sanzionatorio, partendo la consapevolezza che il carcere non riesce a
svolgere un’effettiva funzione rieducativa. Il legislatore vara la riforma dell’ordinamento penitenziario che
si muove in due direzioni.
1. la disciplina dell’esecuzione della pena detentiva conforme ad umanità e rispetto della dignità
della persona; assoluta imparzialità, senza discriminazioni; mantenimento dell’ordine e disciplina
senza l’adozione di restrizioni non giustificabili; detenuti chiamati con il loro nome; non sono
considerati colpevoli sino a condanna definitiva; deve essere attuato un trattamento rieducativo che
tenda al reinserimento sociale degli stessi. In particolare la riforma valorizza il lavoro nella sua
funzione rieducativa: si tratta di valorizzare il lavoro e la formazione professionale sia all’interno del
carcere, sollecitando imprese pubbliche e private in tale direzione (art.20 ord. penit.), sia all’esterno
(art.21) avviando i detenuti presso imprese disposte ad assumerli;
2. le misure alternative alla detenzione: acquisita la consapevolezza che il carcere non rieduca, il
legislatore ha introdotto misure che permettono percorsi extracarcerari o parzialmente fuori dal
carcere, in modo da conciliare le esigenze di rieducazione con quelle di sicurezza.
Nel 2000, il sistema sanzionatorio, oltre all’ampliamento dello spazio riconosciuto alla pena pecuniaria, si
arricchisce con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità che diventano, in relazione alle
fattispecie a cui si applicano, pene principali a tutti gli effetti.

Come già anticipato, ai sensi dell’art. 17 le pene principali sono: per i delitti, ergastolo, reclusione e multa,
e per le contravvenzioni, arresto e ammenda.
1. Ergastolo

46 – Diritto penale
Questa pena (art.22) è perpetua e prevista per reati contro la personalità dello Stato, contro l’incolumità
pubblica, contro la vita, concorso di più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della
reclusione non inferiore ad anni 24. Si assiste ad una progressiva erosione sia del regime detentivo,
secondo cui ai condannati è permesso di usufruire, dopo almeno 10 anni di pena scontata, dei permessi
premio e del lavoro all’estero, e dopo 20 anni, della semilibertà; sia della durata della pena
dell’ergastolo: l’art. 176, comma 3 prevede la liberazione condizionale nel caso del soggetto che abbia
già scontato 26 anni. La Corte europea dei diritti dell’uomo non considera le pene perpetue in contrasto
con la garanzia convenzionale, a condizione che siano rispettati alcuni parametri: la pena non deve
essere sproporzionata rispetto al reato commesso, la protrazione della privazione della libertà personale
deve essere funzionale agli scopi che la pena può legittimamente perseguire, deve essere prevista la
possibilità di un rilascio anticipato. L’applicabilità dell’ergastolo è esclusa ai minori imputabili.

2. Pena detentiva della reclusione e dell’arresto


Le pene principali detentive sono, per i delitti, la reclusione, e per le contravvenzioni, l’arresto. Le due
tipologie si differenziano in merito alla possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione e sul
piano della ripartizione dei detenuti. Ai sensi dell’art.23 la reclusione <<si estende da 15 giorni a 24
anni>> e ai sensi dell’art.25, l’arresto <<si estende da 5 giorni a 3 anni>>. Si tratta di limiti derogabili dal
legislatore in relazione a particolari figure criminose: il sequestro a scopo di estorsione e a scopo di
terrorismo o evasione, prevede una reclusione da 25 a 30 anni.

3. Pena pecuniaria
La pena pecuniaria per i delitti è la multa, per le contravvenzioni, l’ammenda. Entrambe consistono nel
pagamento allo Stato di una determinata somma di denaro entro i limiti minimo e massimo stabiliti dalla
legge: qualora non indichi limiti minimi o massimi, si deve far riferimento ai limiti generali previsti dagli
artt.24 e 26 (la multa può oscillare da 50€ ai 50.000€; l’ammenda dai 20€ ai 25.000€). Ai sensi
dell’art.133-ter, il giudice può disporre che la multa o l’ammenda venga pagata in rate mensili da 3 a 30.
La rateizzazione può essere concessa sia a coloro che versano in una temporanea difficoltà di
pagamento, sia al soggetto non abbiente. La conversione è disciplinata dagli artt.102 e 105: le pene da
conversione della pena pecuniaria sono la libertà controllata o, a richiesta del condannato, il lavoro
sostitutivo. L’art.102 fissa come criterio di ragguaglio 12€ di pena pecuniaria per un giorno di libertà
controllata e 25€ per un giorno di lavoro sostitutivo. Oggi la corte ha modificato il criterio di ragguaglio
della libertà controllata a 250€ per un giorno.

Le pene accessorie consistono in una privazione di determinati diritti o facoltà o nella limitazione del loro
esercizio. Svolgono un’importante funzione di prevenzione generale, in quanto possono presentare un
carico afflittivo ben maggiore delle pene principali, specie laddove l’interdizione colpisce lo svolgimento
dell’attività professionale. Svolgono anche una funzione di prevenzione speciale in termini di
incapacitazione, privando il soggetto della possibilità di svolgere determinate attività, e di intimidazione.
Caratteristica delle pene accessorie è quella di un maggior automatismo che si manifesta attraverso una
ridotta discrezionalità del giudice, il quale è tenuto ad infliggere la pena accessoria in presenza dei
presupposti stabiliti dalla legge ed è vincolato nella determinazione della loro durata. Ai sensi dell’art.37
<<quando la legge stabilisce che la condotta importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa
non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della principale inflitta,
o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato>>. L’efficacia preventiva
delle pene accessorie è stata fortemente depotenziata a seguito della riforma della sospensione
condizionale della pena: con la l. 19/1990 è stata estesa la sospensione alle pene accessorie, privando
l’istituto sospensivo del contenuto ‘’sanzionatorio’’ che comunque le pene accessorie assicuravano. Le pene
accessorie non vanno confuse con le sanzioni amministrative che seguono alla commissione di un reato e
che possono avere contenuto interdittivo.

La discrezionalità del giudice appare di dimensioni più ampie nella commisurazione delle pene principali.
Fatta eccezione per l’ergastolo e per alcune rare pene fisse, il legislatore stabilisce dei limiti edittali massimi
e minimi all’interno dei quali il giudice si muove secondo la sua discrezionalità e, la sua decisione, deve
essere motivata nella redazione della sentenza (art.132), in modo più dettagliato qualora decida di applicare
una pena che si colloca verso il massimo edittale o in presenza di specifiche richieste della difesa. I criteri
indicati per l’esercizio del potere discrezionale sono stabiliti dall’art.133 che li raggruppa all’interno delle
categorie:

47 – Diritto penale
- gravità del reato deve essere desunta da: natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e
modalità dell’offesa; gravità del danno causato; intensità del dolo o grado della colpa;
- capacità a delinquere del soggetto desunta da: motivi e carattere del reo; precedenti
penali, condotta e vita del reo; condotta contemporanea e post reato; condizione di vita.
Prevalentemente si interpreta, in chiave prognostica, come possibilità che il soggetto commetta altri
fatti di reato. Non va confusa con la pericolosità sociale che l’art.203 definisce come la possibilità
che il soggetto commetta in futuro nuovi fatti di reato: le due nozioni sono eterogenee se la capacità
a delinquere esprime il grado di colpevolezza dell’autore rispetto al fatto; se invece si accoglie la
nozione in chiave prognostica, la pericolosità sociale si presenta come una capacità a delinquere di
particolare intensità, richiedendo la prima un giudizio di probabilità e la seconda la mera possibilità di
commettere reati.

Il limite dell’art.133 sta nella mancata indicazione dei criteri finalistici che siano di guida al giudice nella
lettura dei diversi criteri fissati dall’art.133. Si è allora proposto di far riferimento alla proporzionalità della
risposta sanzionatoria rispetto alla gravità del fatto e alla colpevolezza del soggetto per il fatto commesso.
Parte della dottrina rimane scettica sulla possibilità di commisurare la pena in forza del principio di
proporzione, in quanto reato e pena sono due entità non omogenee che rendono difficile quantificare in
termini di pena la colpevolezza per il fatto. Problemi specifici solleva la commisurazione della pena
pecuniaria. Anche l’ammontare della multa e dell’ammenda si commisura secondo i criteri dell’art.133;
tuttavia l’art.133-bis dispone che il giudice tenga conto anche delle condizioni economiche dell’autore del
reato, potendo aumentare la pena pecuniaria stabilita dalla legge sino al triplo o diminuirla sino ad un terzo,
<<quando per le condizioni economiche del reo, ritenga che la massima sia inefficace ovvero che la misura
sia eccessivamente gravosa>>. Si parla di sistema di commisurazione a somma complessiva in quanto
le condizioni economiche sono valutate unitariamente ai parametri che presiedono alla quantificazione della
responsabilità penale. Questa valutazione unitaria costituisce il punto debole della disciplina perché non
consente di considerare in modo adeguato le condizioni economiche del reo che condizionano
inevitabilmente l’efficacia della sanzione pecuniaria. Il legislatore non ha ritenuto di adottare per la pena
pecuniaria il sistema di commisurazione per tassi giornalieri che è sicuramente più razionale di quello
adottato dal codice penale italiano, e presuppone l’attendibilità dell’accertamento della situazione economica
dell’imputato. Questo sistema ha fatto ingresso in 2 ambiti: nella determinazione della pena pecuniaria quale
sanzione sostitutiva della pena detentiva breve e nella disciplina della responsabilità amministrativa degli
enti dipendente da reato.

Le sanzioni sostitutive sono la pena pecuniaria, la libertà controllata e la semidetenzione e la loro


sostituzione è di competenza dello stesso giudice che pronuncia la sentenza di condanna a pena detentiva,
sostituita con una delle indicate sanzioni. Invece le misure alternative alla detenzione sono applicate dal
tribunale di sorveglianza in fase esecutiva dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Con la riforma
introdotta dalla l.12 giugno 2003, n.134, si ha il progressivo ampliamento dei limiti di pena detentiva
concretamente irrogata dal giudice e ammessa alla sostituzione: in caso di condanna a pena detentiva sino
a 6 mesi, il giudice può procedere alla sostituzione con una delle tre sanzioni indicate; in caso di condanna
da 6 mesi a 1 anni, può disporre solo la libertà controllata e semidetenzione; in caso di condanna da 1 anno
a 2 anni, può essere sostituita solo con semidetenzione.

1) Semidetenzione: consiste nell’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno in un carcere e in una


serie di limitazioni come il divieto di detenere armi, sospensione della patente di guida e ritiro del
passaporto;

2) Libertà controllata: consiste nel divieto di allontanarsi dal proprio comune di residenza salvo
autorizzazione per motivi di lavoro, studio, famiglia o salute, nell’obbligo di presentarsi almeno una
volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza, divieto di detenere armi, sospensione
della patente, ritiro passaporto;

3) Pena pecuniaria: consiste nella multa per la reclusione e l’ammenda per l’arresto.

Poiché il giudice può avere a disposizione più sanzioni sostitutive, il suo potere discrezionale è finalizzato a
scegliere la sanzione più idonea al reinserimento sociale del condannato. Non può tuttavia sostituire la pena
detentiva quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato. Nel procedere alla
sostituzione, si utilizzano dei criteri di ragguaglio che prevedono che 1 giorno di pena detentiva equivale ad 1

48 – Diritto penale
giorno di semidetenzione e a 2 giorni di libertà controllata (art.57). Quanto alla pena pecuniaria, il giudice
indica il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato, tenendo conto della condizione
economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare. L’art.59 prevede alcune preclusione di
natura soggettiva alla sostituzione delle pene detentive brevi che tengono conto della pericolosità del
soggetto in ragione delle precedenti sentenze di condanna o dell’applicazione di misure di sicurezza. In caso
di inosservanza di una qualsiasi delle prescrizioni concernenti la semidetenzione o la libertà controllata, la
restante parte della pena si converte nella pena detentiva. Il mancato pagamento della pena pecuniaria porta
alla conversione in libertà controllata o lavoro sostitutivo. L’art.16 TU ha aggiunto l’espulsione dello
straniero cittadino di Stato extraeuropeo irregolarmente presente sul territorio dello Stato italiano.
Sono richiesti: la condanna per un reato non colposo, una pena irrogabile entro il limite di 2 anni,
insussistenza delle condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena e l’assenza delle
condizioni che impongono il trattenimento dello straniero.

Le misure alternative alla detenzione costituiscono lo strumento principale per dare attuazione alla
funzione rieducativa della pena. La loro importanza è duplice: alleggeriscono il circuito carcerario e si
presentano più efficaci sul piano della prevenzione speciale positiva, considerato che il tasso di recidiva dei
soggetti che accedono alle misure alternative è notevolmente più basso rispetto a quello dei detenuti che
hanno scontato la pena in carcere. Intervengono in fase di esecuzione e sono di competenza della
magistratura di sorveglianza. L’evoluzione della disciplina è stata condizionata dalla necessità di soddisfare
2 esigenze: l’esigenza deflattiva, a fronte del sovraffollamento crescente nei penitenziari italiani, e
l’esigenza di rafforzamento del senso di sicurezza collettiva. Nella direzione dell’ampliamento delle
misure alternative si sono mosse la legge Gozzini e la legge Simeone-Saraceni che hanno ampliato le
possibilità di acceso alle misure alternative dallo stato di libertà, senza passare necessariamente attraverso
un periodo di permanenza in carcere. Al contempo, il legislatore si è mosso nella direzione di differenziare i
presupposti di accesso alle misure alternative, guardando o al reato oggetto di condanna o alla tipologia
d’autore: nella prima direzione si muovono le forti restrizioni nella concessione dei benefici penitenziari per
gli autori dei reati in materia di criminalità organizzata; nella seconda le misure alternative sono state previste
dalla legge ex Cirielli nei confronti dei recidivi reiterati. Tale scelta potenziava la funzione di prevenzione
speciale negativa (neutralizzazione) della sanzione penale, contribuendo ad aumentare il numero dei
detenuti dei penitenziari italiani. Il carcere ha così consolidato la sua funzione di selettore di marginalità
sociale. A seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza
Torreggiani), sono stati rimossi alcuni automatismi riferiti ai recidivi reiterati nella concessione della
detenzione domiciliare. La Corte costituzionale ha chiaramente affermato che tali misure non possono
essere precluse agli stranieri irregolarmente presenti sul territorio dello Stato, in quanto contrasterebbe
con gli stessi principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che non opera alcuna discriminazione in merito
al trattamento sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale. L’art.16 comma 5
TU, prevede l’espulsione come misura alternativa quando debbano scontare una pena detentiva non
superiore a 2 anni.

Le misure alternative alla detenzione sono:


1. L’affidamento in prova al servizio sociale
È disciplinata dall’art.47 dell’ord. pen. I presupposti per l’applicazione di questa misura alternativa sono
la durata della pena non superiore a 3 anni e la valutazione che questa pena possa essere sufficiente alla
rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. A seguito della
crisi del sovraffollamento carcerario, il limite è stato innalzato a 4 anni, qualora il condannato abbia
serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da
giustificare il giudizio positivo sulla concessione della misura. Viene concesso dal tribunale di
sorveglianza sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità condotta collegialmente per
almeno un mese in istituto. Il legislatore ha previsto che l’affidamento in prova al servizio sociale possa
essere disposto senza procedere all’osservazione in istituto (=affidamento dalla libertà) quando il
condannato, dopo la commissione del reato, ha serbato comportamento tale da consentire in giudizio
positivo. L’affidamento prevede un programma con il servizio sociale. L’affidato è libero ma l’osservanza
di una serie di prescrizioni relative ai rapporti con i servizi sociali, alla dimora, alla libertà di locomozione,
al divieto di frequentare determinati luoghi e al lavoro, divieto di avere rapporti personali che possono
portare al compimento di altri reati. L’affidamento deve adoperarsi in favore della vittima del reato, nella

49 – Diritto penale
logica della giustizia riparativa che guarda alla sanzione penale in prospettiva di conciliazione.
L’affidamento in prova è revocabile qualora il comportamento del soggetto è contrario alla legge o alle
prescrizioni dettate (art.47, comma 11 ord.pen.). La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale per violazione degli artt. 3 e 13 della Cost. della predetta disposizione nella parte in cui, in
caso di revoca, non consente al tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da
espiare. L’esito positivo del periodo di prova comporta l’estinzione della pena detentiva ogni altro
effetto penale.
È previsto anche l’affidamento in prova in casi particolari disciplinato dall’art.94 TU stupefacenti,
finalizzato a dare prevalenza alle esigenze terapeutico-riabilitative in caso di pena detentiva da eseguire
nei confronti di persona tossicodipendente o alcoldipendente che abbia in corso un programma di
recupero o che ad esso intenda sottoporsi. Il tribunale di sorveglianza accoglie l’istanza, se ritiene che il
programma di recupero contribuisca al recupero del condannato ed assicuri la prevenzione del pericolo
che egli commetta altri reati.

2. La semilibertà
Ai sensi dell’art. 48 ord.pen. per semilibertà si intende la possibilità offerta al condannato di trascorrere
parte del giorno fuori dall’istituto carcerario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque
utili al reinserimento sociale. Rappresenta un primo gradino per valutare il processo di rieducazione del
soggetto e la possibilità di disporre l’affidamento in prova al servizio sociale. Se la semilibertà può
essere applicata per le condanne formalmente suscettibili di affidamento (con il rispetto del limite di 3
anni), in casi in cui appare sconsigliabile o prematura la misura più ampia, per condanne più lunghe è la
prima misura applicabile: in questi casi si richiede che sia stata scontata metà della pena. L’ammissione
al regime di semilibertà è disposta dal tribunale di sorveglianza in relazione ai progressi compiuti nel
corso del trattamento, quando vi sono i presupposti per un graduale reinserimento nella società. Anche
questa pena è revocabile in ogni tempo nel caso in cui il condannato non si dimostri idoneo al
trattamento (art.51 ord.pen.). In caso di mancato rientro del semilibero, se entro le 12 ore si configurerà
in un illecito di natura disciplinare; se superiore alle 12 ore verrà considerato evasione e comporterà la
sospensione della semilibertà.

3. La detenzione domiciliare
È disciplinata dall’art. 47-ter ss. ord.pen. Introdotta nel sistema penale dalla legge 66/1986 per ragioni di
tipo umanitario, i destinati possono essere: donna incinta o madre di prole inferiore ai 10 anni con lei
convivente; padre di prole inferiore a 10 anni quando la madreè deceduta o assolutamente
impossibilitata; persona in gravi condizioni di salute; persona di età superiore ai 60 anni se anche
parzialmente inabile, persona minore di 21 anni per comprovate esigenze di salute, lavoro o famiglia. La
pena della reclusione e la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro
luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza. Questa esigenza di
tipo umanitario è presente anche in altre 2 forme di detenzione domiciliare. Al fine di ridurre la presenza
in carcere di figli, è stata introdotta la detenzione domiciliare speciale: permette alle madri di prole di
età non superiore a 10 anni che abbiano espiato una certa parte di pena di scontare la restante nella
propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora. La seconda forma è prevista per i malati affetti
da AIDS o da grave deficienza immunitaria, qualora siano necessari supporti terapeutici incompatibili
con l’esecuzione carceraria. In chiave umanitaria può essere letta la detenzione domiciliare concessa a
persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia
compiuto i 60 anni di età, purché non dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza e
non condannato on l’aggravante della recidiva. La seconda linea di politica criminale ha potenziato
l’utilizzo della detenzione domiciliare come strumento di contrasto al sovraffollamento carcerario
(funzione deflattiva): forma primaria di esecuzione delle pene detentive sino a 2 anni, quando non sia
possibile disporre l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad
evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La detenzione domiciliare è revocata se il
comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la
prosecuzione delle misure e quando vengono a cessare le particolari condizioni soggettive che ne
avevano giustificato l’applicazione. Il condannato che, essendo in stato di detenzione, se ne allontana,
commette il delitto di evasione che comporta la sospensione del beneficio. Rischia di confliggere con
l’art.3 Cost. perché può tradursi in una sanzione discriminatoria, diventando una fuga dal carcere verso
una soluzione di esecuzione ‘’comoda’’ per chi dispone di una buona soluzione domiciliare. Però è la
funzione rieducativa della pena (art.27 comma3 Cost.) ad essere difficilmente conciliabile con la

50 – Diritto penale
detenzione domiciliare, se questa non è arricchita di programmi positivi nella prospettiva della
risocializzazione.

4. La liberazione anticipata
Ai sensi dell’art.54 ord.pen. la liberazione anticipata consiste nella detrazione di 45 giorni per ogni
singolo semestre di pena scontata. È concessa al condannato che ha dato prova di partecipazione
all’opera di rieducazione per il suo reinserimento nella società. La valutazione della detrazione va fatta
singolarmente per ogni singolo semestre, considerando il comportamento tenuto dal detenuto.

Un ruolo importante nel percorso verso l’applicazione di misure alternative extracarcerarie è svolto dai
permessi premio (art.30bis). Non vanno confusi con i permessi che assolvono a scopi umanitari e sono
concessi in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o eccezionalmente per eventi
di particolare gravità. I permessi premio permettono di valutare il comportamento del detenuto concedendo
allo stesso periodi limitati di libertà. I presupposti soggettivi di applicazione sono costituiti dalla regolare
condotta del detenuto in istituto e dall’assenza di pericolosità sociale. Sono previsti dei limiti temporali di
accesso al permesso premio in relazione al tipo di condanna: arresto e reclusione subito; per condanne più
elevate sono previsti diversi limiti temporali; ergastolo dopo 10 anni. La durata dei singoli permessi premio
non può essere superiore a 15 giorni, per un massimo di 45 giorni l’anno.

È opportuno affiancare la libertà condizionale che, pur essendo prevista dal cp tra le cause di estinzione
della pena, presenta elementi che la rendono omogenea alle misure alternative della detenzione. Per essere
ammessi sono necessari 3 presupposti:
1. Soggettivo: costituito dal comportamento del detenuto durante il tempo di esecuzione della
pena, non semplicemente con la buona condotta ma con comportamenti positivi dai cui poter
desumere l’abbandono delle scelte criminali e la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le
conseguenze dannose del reato;
2. Limiti di pena già scontata: il detenuto deve aver scontato almeno 30 mesi o comunque
metà della pena inflittagli. Sono ammessi anche gli ergastolani purché abbiano scontato 26 anni;
3. Risarcitorio: adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato salvo che il
condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle.

Al soggetto viene applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata ed assistita: sono previste prescrizioni
sia a scopo di controllo che di supporto per il passaggio dalla vita carceraria alla vita in libertà. La libertà
condizionale è revocata se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa
indole. In tal caso il condannato non può essere riammesso alla libertà condizionale. A riguardo vanno
segnalati 2 interventi della Corte: il primo riguarda il computo della pena residua che non può essere
automaticamente quello che il soggetto doveva ancora scontare all’atto dell’ammissione al beneficio. Spetta
al tribunale di sorveglianza determinare la pena detentiva ancora da espiare. Il secondo intervento ha
interessato la pena dell’ergastolo e riguarda l’impossibilità di essere riammessi alla liberazione condizionale
in caso di revoca. Decorso tutto il tempo della pena inflitta, senza che sia intervenuta alcuna causa di
revoca, la pena si estingue e sono revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la
sentenza di condanna o con provvedimento successivo.
Le regole di disciplina sull’ordinamento penitenziario e sulle misure alternative alla detenzione non valgono
per tutti i detenuti perché il legislatore ha previsto regole differenziate che tengono conto della pericolosità
del detenuto o del reato commesso. È possibile allora affermare che il sistema è connotato dalla
differenziazione dei percorsi penitenziari. Incidono sulle regole del trattamento penitenziario il regime di
sorveglianza particolare e il carcere duro. Il regime di sorveglianza particolare (art.14bis ord.pen.) si
applica ai condannati agli internati e agli imputati che presentano elementi di pericolosità specifica. La
sorveglianza è disposta dall’amministrazione penitenziaria per un periodo non superiore a 6 mesi, ma
prorogabile. Ha una finalità preventiva diretta a mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno del carcere;
tuttavia il destinatario può presentare un reclamo al tribunale di sorveglianza contro il provvedimento
dell’amministrazione penitenziaria che dispone le prescrizioni. Il carcere duro (art.41bis ord.pen.) comporta
limitazioni alle regole interne sul trattamento penitenziario a contrastare i collegamenti dei detenuti con la
criminalità organizzata. Introdotto nel 1992 come misura di carattere temporaneo a fronte dell’urgenza di
contrastare la criminalità di tipo mafioso, è stato successivamente prorogato sino a che nel 2002 si è
strutturato nell’ordi.pen.come regime definitivo. Il provvedimento, di competenza del Ministro della giustizia,
ha come destinatari i detenuti e gli internati per reati in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso o

51 – Diritto penale
terroristica, nonché per qualsiasi delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare
l’associazione di tipo mafioso. Il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere l’applicazione delle regole di
trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con
le esigenze di ordine e di sicurezza, quando vi siano elementi tali da far ritenere la sicurezza di collegamenti
con l’associazione criminale, terroristica o eversiva. È un regime che incide sia sulla collocazione dei
detenuti sia sulle limitazioni alle regole generali sul trattamento. Quanto alla collocazione, la detenzione
viene seguita all’interno di istituti esclusivamente dedicati ai soggetti sottoposti a questo regime in aree
insulari. La sospensione delle regole di trattamento prevede: l’adozione di misure di elevata sicurezza
interna ed esterna al fine di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o interazioni
con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione; colloqui 1 al mese ed organizzati in
modo da impedire il passaggio di oggetti e con controllo auditivo e di videoregistrazione. Tali limitazioni, nella
misura in cui incidono, richiedono un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Il provvedimento ha durata pari
a 4 anni ed è prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a 2 anni. La proroga è disposta quando
risulta la capacità dio mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività
della stessa. La differenziazione dei percorsi penitenziari interessa anche la disciplina delle misure
alternative alla detenzione, assoggettate ad una disciplina differenziata in relazione ai reati oggetti di
condanna. L’art. 4bis ord.pen. prevede limiti nell’accesso ai benefici penitenziari diversamente regolati in
relazione al tipo di reato-presupposto. Con riguardo ai reati in materia di criminalità organizzata comune e
terroristica, l’assegnazione al lavoro all’estero, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione,
esclusa la libertà anticipata, nonché la libertà condizionale, possono essere concessi solo nei casi in cui tali
detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58ter ord.pen. L’accesso ai benefici è dunque
condizionato dalla collaborazione processuale. Eccezione i casi in cui la collaborazione risulti o impossibile o
oggettivamente irrilevante: in questi casi i benefici possono essere concessi, sempre che siano acquisiti
elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Tali
eccezioni lasciano però irrisolto il problema dell’ergastolo ostativo: per i condannati alla pena dell’ergastolo
per i reati dell’art.4bis comma 1, ord.pen., la possibilità di uscire dal carcere attraverso la liberazione
condizionale è subordinata alla collaborazione processuale. La Corte costituzionale ha riconosciuto la
legittimità di questa disciplina, in quanto per gli ergastolani la possibilità che la pena sia in concreto non
perpetua dipende solo dalla collaborazione. Possono esservi casi nei quali il detenuto potrebbe non
collaborare per timore degli effetti negativi che il tradimento dell’organizzazione potrebbe avere su familiari o
persone legate da vincoli affettivi. La scelta di non collaborare non è quindi di per sé espressione della
persistenza dei collegamenti con la criminalità. L’ergastolo ostativo presenta 2 profili di illegittimità
costituzionale: contrasta con l’art.27 comma 3, Cost. perché prevede una pena detentiva certamente
perpetua che non cessa pure in presenza della rieducazione del soggetto; integra un trattamento contrario al
senso di umanità, vietato dall’art.27 comma 3, Cost. e un trattamento inumano e degradante vietato dall’art.3
CEDU che fonda la violazione dell’art.117 Cost.
Meno rigide sono le limitazioni nell’accesso ai benefici per reati quali omicidio, rapina aggravata, estorsione
aggravata, associazione per delinquere: in questi casi si prescinde dalla collaborazione ed i benefici possono
essere concessi purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la
criminalità organizzata. L’art.4bis differenzia i percorsi di accesso alle misure alternative alla detenzione per i
condannati per i reati di violenza sessuale o di reati sessuali in danno di minori. La disciplina speciale
è connotata da finalità di prevenzione speciale e di supporto terapeutico (facoltativo). La partecipazione a
questo trattamento è valutata positivamente dal tribunale di sorveglianza ai fini della concessione delle
misure alternative, che possono essere in esse concesse solo sulla base dei risultati dell’osservazione
scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno 1 anno.

Con il d.lgs. 28 agosto 2000, n.274 è stata attribuita al giudice di pace la competenza penale in relazione
a reati assoggettati a specifiche regole di disciplina processuale e sostanziale. I reati che sono stati trasferiti
alla sua competenza, hanno visto mutare il proprio trattamento sanzionatorio secondo la griglia di
sostituzione prevista dall’art.52: se era prevista la sola pena dell’ammenda o della multa, continuano ad
applicarsi le stesse pene pecuniarie; negli altri reati, invece, le pene originariamente previste, tenuto conto
della loro gravità, sono state sostituite dalle pene pecuniarie, dalla permanenza domiciliare o dal lavoro di
pubblica utilità, diversamente modulate. Non si tratta di pene principali a tutti gli effetti. La pena della
permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di
privata dimora nei giorni di sabato e domenica. La durata non è inferiore a 6 giorni e superiore a 45. Il
lavoro di pubblica utilità può essere applicato solo su richiesta del condannato e consiste nella prestazione
di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni
o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. L’attività, che può durare da 10 giorni a

52 – Diritto penale
6 mesi, viene svolta con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e
di salute del condannato. Le pene previste per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace non sono
mai di tipo carcerario ed anche la disciplina della revoca non prevede la loro conversione in pene detentive.

La commissione di un reato obbliga a riparare le conseguenze da esso derivate. L’art.185 comma 2


stabilisce che ‘’ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al
risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui’. La
restituzione è un risarcimento in forma specifica che conduce al ripristino dello status quo antecedente alla
commissione del reato. L’obbligazione di maggior rilievo è il risarcimento del danno, patrimoniale e non,
eventualmente subito anche da persona diversa dalla vittima del reato. Per il danno patrimoniale, l’art.2043
cc prevede che qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che
ha commesso il fatto a risarcire il danno. Vi sono obbligazioni nei confronti dello Stato: il condannato è
obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena e
risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili.
Più recentemente sono state riscoperte le potenzialità del risarcimento del danno attribuendo alle condotte
riparatorie natura di causa di estinzione del reato. Con giustizia riparativa si intende fare riferimento a tutti
quegli strumenti finalizzati a sollecitare l’autore del reato a porre rimedio alle conseguenze lesive della sua
condotta.

♦ 29. CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO E DELLA PENA


Il codice penale nel titolo IV del Libro II suddivide le cause di estinzione in cause di estinzione della pena
(escludono la punibilità in concreto, presupponendo l’emanazione di una sentenza di condanna e incidendo
sull’esecuzione della sanzione penale) e in cause di estinzione del reato (escludono la punibilità in astratto
operando prima della sentenza di condanna e precludendo l’applicazione della pena).
Sono cause di estinzione del reato la morte del reo, l’amnistia, la remissione della querela, la prescrizione
del reato, l’oblazione, la sospensione condizionale e il perdono giudiziale.
Sono cause di estinzione della pena la morte del reato dopo la sentenza di condanna, prescrizione della
pena, indulto, grazia, non menzione nel casello giudiziario, liberazione condizionale e la riabilitazione.
Entrambe le cause presentano una disciplina comune: hanno un’efficacia personale operando solo nei
confronti della persona a cui si riferiscono; nel caso di concorso sono sottoposte alle regole dell’art.183
secondo cui nel concorso si una causa che estingue il reato con una causa che estingue la pena, prevale la
causa che estingue il reato anche se intervenuta successivamente (quando intervengono in tempi diversi più
cause di estinzione del reato o della pena, la pena antecedente estingue il reato o la pena; se più cause
intervengono contemporaneamente, la causa più favorevole opera l’estinzione del reato o della pena);
devono essere immediatamente dichiarate dal giudice in ogni stato e grado del processo; non comportano
l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato.

 CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO


1. Amnistia: istituto giuridico in virtù del quale si estingue il reato, determinando una sentenza di
proscioglimento e, se c’è stata condanna, dà luogo alla cessazione della stessa e delle pene inflitte.
Non estingue la condanna i cui effetti penali si tiene conto in caso di recidiva e di dichiarazione di
abitualità e professionalità nel reato. Rappresenta una valvola di sicurezza con la quale fronteggiare
situazioni eccezionali che richiedono di superare le ‘’normali’’ esigenze di repressione dei reati.
L’amnistia possiede la caratteristica di istituto di applicazione generale e cancella reati individuati per
categoria. Nei primi decenni nella Repubblica, è stata utilizzata come strumento di alleggerimento del
carico giudiziario e sovraffollamento carcerario. Il comma 3 dell’art.79 mantiene il limite
dell’inapplicabilità ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge che
propone il provvedimento di clemenza. Si vuole in tal modo evitare un incentivo a delinquere nella
fondata aspettativa dell’imminente amnistia. Vi sono due generi di amnistia: amnistia propria che
opera prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, e amnistia impropria, applicabile
dopo che la sentenza è diventata definitiva che ne fa cessare quindi l’esecuzione e, oltre alla pena
principale, estingue anche le pene accessorie. L’amnistia è fruibile da recidivi e delinquenti abituali o
professionali solo qualora sia espressamente previsto dalla legge (art.151 comma 5); in caso di
silenzio da parte del legislatore, le predette categorie sono escluse.

2. Remissione della querela

53 – Diritto penale
È l'atto di manifestazione della volontà da parte del soggetto che l’ha precedentemente attivata contro un
reato di cui è stato vittima di non voler più perseguirne penalmente l’autore. La querela deve essere
presentata entro 3 mesi dal momento in cui il querelante è venuto a conoscenza del fatto. Di regola la
remissione può intervenire solo prima della condanna. Il comma 2 dell’art.152 distingue tra remissione
processuale ed extraprocessuale. Può essere anche tacita che si realizza quando il querelante ha
compiuto fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela. Occorre sottolineare che la remissione
deve essere accettata dal querelato e che esistono reati per i quali la querela è irrevocabile. È componente
di rilievo nella prospettiva di conciliazione e mediazione tra la vittima e l’autore del reato.

3. Prescrizione del reato


È causa estintiva dipendente da un fatto naturale ovvero il decorso del tempo, e attraversa tutte le fasi
processuali. Il fondamento dell’istituto non è di facile interpretazione: occorre escludere che esso sia
rinvenibile in una presunta difficoltà di raccolta del materiale probatorio a distanza di tempo dei fatti; se così
fosse non dovrebbero esservi reati imprescrittibili attesa la loro gravità. La prescrizione non si concilia con la
funzione retributiva della pena. In parte la prescrizione potrebbe essere spiegata con l’attenuazione della
funzione di prevenzione speciale della sanzione penale, ammessa solo nei confronti di imputati che non
abbiano commesso ulteriori reati dopo quello che si vorrebbe cancellare con il decorso del tempo. In
definitiva, il fondamento è ravvisabile in ragioni di opportunità, diversamente declinabili, che suggeriscono di
rinunciare a perseguire reati risalenti nel tempo, ad eccezione di quelli talmente gravi da prevedere la pena
dell’ergastolo.
Fondamentale è stabilire il criterio per stabilire il tempo necessario per la prescrizione del reato. Termini
troppo brevi infatti rischiano di creare “zone di impunità. L’attuale art.157 collega il tempo che determina la
prescrizione del reato al ‘’massimo della pena edittale stabilita dalla legge’’ e comunque ‘’non inferiore ai 6
anni se si tratta di delitto e 4 anni se si tratta di contravvenzione’’. L’art.157 comma 5 prevede che quando la
legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria il reato è estinto decorsi 3 anni dalla
consumazione del reato. Non possono cadere in prescrizione i delitti per i quali è previsto
l’ergastolo come pena per il reato base o per effetto delle aggravanti. Il termine decorre dal giorno della
consumazione. L’effettiva estensione del periodo prescrizionale è influenzato dalle cause di interruzione e
di sospensione del corso della prescrizione. L’art.159 stabilisce che ‘’il corso della prescrizione rimane
sospeso’’ in tutti i casi di sospensione del procedimento o del processo o di sospensione dei termini di
custodia cautelare imposti dalla legge, nonché in caso di richiesta di autorizzazione a procedere o di
sospensione per impedimento delle parti o dei difensori o su richiesta dell’imputato o del suo difensore. L’art.
160 prevede un elenco di atti interruttivi: dall’ordinanza applicativa di misure cautelari personali
all’interrogatorio, dalla richiesta di rinvio a giudizio alla sentenza di condanna. Gli effetti dei 2 istituti sono
diversi. In caso di sospensione la prescrizione riprende il suo corso dal giorno di cessazione della causa
sospensiva; le cause interruttive determinano in via di principio l’azzeramento del periodo antecedente ma
comunque il periodo prescrizionale non può essere dilatato oltre un certo limite.

4. Oblazione
Concerne solo le contravvenzioni, e consiste nel pagamento, prima dell’apertura del dibattimento o
dell’emissione del decreto penale di condanna, di una somma corrispondente alla terza parte del massimo
della pena stabilita dalla legge oltre alle spese del procedimento. Dal 1981 è stata istituita anche
l’oblazione discrezionale: nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa
dell’arresto o dell’ammenda il contravventore può essere ammesso a pagare, prima dell’apertura del
dibattimento, una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la
contravvenzione commessa, oltre alle spese del procedimento. Il giudice può respingere la domanda di
oblazione se considera il reato troppo grave.

5. Sospensione condizionale della pena


Ai sensi dell’art.167, se il condannato non commette un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa
indole e adempie agli obblighi impostigli, il reato è estinto e non ha luogo l’esecuzione della pena. Consente
al giudice di cognizione di bloccare l’esecuzione della pena inflitta con la sentenza di condanna individuando
un percorso alternativo. Risponde all’esigenza di evitare l’applicazione di una sanzione quando l’effettiva
esecuzione della stessa appaia eccessiva o controproducente. Lo scopo è evitare l’esecuzione di pene
detentive brevi e valorizzare la funzione specialpreventiva della pena, in quanto fornisce una
controspinta alla commissione di nuovi reati. I presupposti della sospensione condizionale sono di carattere
formale e di natura sostanziale. Il primo profilo richiede che: la pena inflitta non deve essere superiore a 2
anni e il limite sale a 3 anni per i minorenni, o a 2 anni e 6 mesi per persone di età compresa tra i 18 e i 21

54 – Diritto penale
anni; il reo non sia delinquente abituale o professionale; non sia stata già applicata in precedenza; non sia
stata pronunciata condanna intermedia a pena detentiva non sospesa. Sotto il profilo sostanziale il giudice
deve ritenere che il colpevole si asterrà dal compiere ulteriori reati (prognosi di non recidiva). Il codice
penale prevedere che la sospensione condizionale possa essere corredata da obblighi. Consistono (art.165)
in obblighi di natura riparatoria in senso stretto (restituzioni, risarcimento del danno, eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose del reato) e in senso lato (prestazione di attività non retribuita a favore
della collettività). Con la concessione della sospensione condizionale si apre un ‘’periodo di prova’’ di
regola di 5 anni, che si conclude con la declaratoria di estinzione del reato oppure con la revoca.
Quest’ultima avviene quando: viene commesso un nuovo reato; sia riportata una condanna per un delitto
commesso anteriormente ad una pena che, sommata a quella precedente, superi i limiti indicati dall’art. 163;
non vengano adempiuti gli obblighi imposti.
Si ha anche la sospensione condizionale speciale: l’ultimo comma dell’art.163 prevede che se la
condanno non è superiore ad 1 anno e vi è stata una condotta riparatoria prima della pronuncia della
sentenza di primo grado, il giudice sospenda l’esecuzione per un periodo più breve di quello ordinario (1
anno anziché 5 anni).

 CAUSE DI ESTINZIONE DELLA PENA


Intervengono quando la vicenda processuale si è conclusa ed è in corso l’esecuzione della pena inflitta con
la sentenza di condanna divenuta definitiva. Tra le cause di estinzione della pena abbiamo:
1. L’art. 171 prevede che la morte del reo, avvenuta dopo la condanna, estingue la pena: è
una conseguenza ovvia per le pene detentive, non essendo pensabile un trasferimento
dell’esecuzione su altri soggetti. Meno ovvio è il principio di personalità della responsabilità penale
che spiega l’estinzione delle pene pecuniarie. Diverse le conseguenze civili nascenti da reato:
l’art.198 richiede che l’estinzione della pena non importa l’estinzione delle obbligazioni civili nascenti
dal reato salvo multe e ammende nei casi degli artt.196 e 197;
2. Gli art.172 e 173 prevedono l’estinzione della pena per decorso del tempo distinto per
delitti e per contravvenzioni. La reclusione si estingue dopo un periodo di tempo pari al doppio della
pena inflitta e il periodo prescrizionale non può essere superiore ai 30 anni né inferiore ai 10 anni. La
multa si estingue dopo 10 anni. La pena dell’arresto e dell’ammenda hanno un termine di
prescrizione identico ovvero di 5 anni. I recidivi e delinquenti abituali e professionali sono esclusi
dalla prescrizione delle pene inflitte per i delitti, mentre nel caso di contravvenzioni è previsto il
raddoppio del termine, ovvero 10 anni;
3. L’indulto (art.174) che consiste nel condono totale o parziale di una pena principale, fruisce
dello stesso iter procedimentale dell’amnistia: la concessione avviene con la legge che deve essere
approvata da 2/3 delle Camere;
4. La grazia (art.681 cpp) è un condono personalizzato di competenza del Capo dello Stato.
Presupposto è una sentenza irrevocabile di condanna e, come l’indulto, condona in tutto o in parte la
pena principale o la commuta in una pena di specie diversa. La grazia può essere subordinata a
condizioni e, a discrezione del PdR, può estendersi anche alle pene accessorie;
5. La riabilitazione (art.178) estingue soltanto le pene accessorie e ogni altro effetto penale
della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti. Può intervenire quando sono trascorsi
almeno 3 anni dal giorno in cui il condannato ha finito di scontare la pena principale. Il termine sale a
8 anni per i casi di recidiva e a 10 anni per i delinquenti abituali e professionali. Impedisce la
riabilitazione la sottoposizione attuale a misure di sicurezza e il non aver adempiuto alle obbligazioni
civili nascenti da reato, salvo che venga dimostrata l’impossibilità di adempierle;
6. L’art.175 tratta della non menzione della condanna nel certificato del Casellario
giudiziale. Il giudice può ordinare la non menzione nel caso di prima condanna a pena detentiva
non superiore a 2 anni o a pena pecuniaria non superiore a 516€. È concessa nel caso in cui venga
inflitta congiuntamente una pena detentiva non superiore a 2 anni ed una pena pecuniaria che,
cumulata alla pena detentiva, priverebbe complessivamente il condannato della libertà personale per
un tempo non superiore a 30 mesi.

È causa di estinzione della pena anche la positiva conclusione della libertà condizionale e il positivo esito
dell’affidamento in prova al servizio sociale che estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale.

♦ 30. MISURE DI SICUREZZA

55 – Diritto penale
Il codice penale prevede, oltre alle pene, anche le misure di sicurezza in funzione di controllo e
prevenzione della pericolosità dell’autore. Si parla di sistema sanzionatorio a doppio binario. Lo schema
del codice Rocco può essere sintetizzato:
- soggetti imputabili non pericolosi —> solo pena
- soggetti non imputabili pericolosi —> solo misura di sicurezza
- soggetti imputabili pericolosi —> pena e misura di sicurezza
- soggetti semi-imputabili pericolosi —> pena e misura di sicurezza

L’art. 25, comma 3 Cost. prevede che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi
previsti dalla legge”. La menzione delle misure di sicurezza si giustifica con l’esigenza di affermare il
principio di legalità anche rispetto ad esse che incidono in modo significativo sulle garanzie individuali.
Nella logica del codice Rocco, il sistema sanzionatorio a doppio binario si fonda su una rigida separazione
tra le funzioni svolte da pene e misure di sicurezza: le prime hanno una funzione retributiva-punitiva e
deterrente; le seconde hanno lo scopo di prevenzione speciale, intesa come difesa sociale, come tutela della
collettività dal rischio e la possibilità di applicazione congiunta allo stesso soggetto. Oggi, questa rigida
dicotomia di funzioni si è affievolita: da un lato la stessa Costituzione impone di abbandonare un’idea
puramente punitiva e deterrente delle pene, prendendo posizione a favore della rieducazione; dall’altro lato,
in relazione alle misure di sicurezza, dottrina e giurisprudenza sollecitano a valorizzare, accanto alla funzione
di difesa sociale, la prevenzione speciale positiva, quindi tendendo alla rieducazione dei loro destinatari
attraverso gli interventi che appaiono più adeguati.
Un ulteriore elemento di omogeneità tra pene e misure di sicurezza sta nella loro afflittività: sia le pene che
le misure di sicurezza comportano una limitazione e privazione della libertà personale.

Anche le misure di sicurezza sottostanno ai diversi sotto-principi nel quali di specifica il principio di legalità:
1. principio di riserva di legge (art.199) secondo cui ‘’nessuno può essere sottoposto a
misure di sicurezza che non siamo espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla stessa
preveduti’’;
2. tassatività: ossia il divieto di analogia che si evince dall’utilizzo dell’avverbio
‘’espressamente’’ dell’art.199;
3. principio di determinatezza (più flessibile): la certezza della pena, intesa quale prevedibilità
delle conseguenze sanzionatorie delle proprie azioni, è ben lungi dall’essere garantita dai limiti
edittali fissati in astratto dalla legge per ogni reato, considerato lo scarto a cui si assiste tra pena
minacciata in astratto e pena in concreto inflitta e poi effettivamente scontata;
4. principio di retroattività (art.200 comma 1) secondo cui ‘’le misure di sicurezza sono
regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione’’. Ma, se dal tempo dell’applicazione
giudiziale della misura a quello della sua effettiva esecuzione la legge muta, ‘’si applica la legge in
vigore al tempo dell’esecuzione’’ (art.200, comma 2).

Le misure di sicurezza si dividono in personali e patrimoniali a seconda dei beni sui quali incidono. Quelle
personali si dividono a loro volta in detentive e non detentive.

 MISURE DI SICUREZZA PERSONALI


L’applicazione delle misure di sicurezza richiede la presenza di due presupposti, uno oggettivo e uno
soggettivo. È necessario innanzitutto il presupposto oggettivo della commissione di un reato (sufficiente un
delitto tentato) o di un quasi-reato, ovvero le uniche ipotesi in cui una misura di sicurezza viene applicata in
assenza di un reato: reato impossibile, istigazione e accordo a commetter un reato. Nei casi di quasi-reato,
se nulla viene disposto, il giudice applica la libertà vigilata.
L’altro presupposto è quello soggettivo della pericolosità sociale definita dall’art.203, comma 1: ‘’ agli
effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la
quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi
fatti preveduti dalla legge come reati’’. Questo presupposto è un giudizio prognostico di probabilità di
commissione di nuovi reati. La pericolosità sociale è accertata dal giudice sulla base delle circostanze
indicate dall’art.133, le stesse che il giudice utilizza per la commisurazione della pena. Oggi l’applicazione
delle misure di sicurezza è subordinata all’accertamento giudiziale al momento dell’applicazione della
misura con sentenza; se, nel momento in cui la misura deve essere eseguita, la pericolosità è cessata, non
si può procedere all’esecuzione. L’accertamento tramite art.133 è poco efficace, in quanto richiama elementi
del tutto generici. Le difficoltà aumentano considerato che il cpp prevede il divieto di perizia criminologica.

56 – Diritto penale
Se il giudizio di pericolosità sociale deve essere espresso in relazione a soggetti dei quali va accertata
l’imputabilità, il giudice si avvale del perito, nominato ai fini dell’accertamento dell’imputabilità, e formula uno
specifico quesito peritale anche in relazione alla pericolosità del soggetto.

Il codice prevede alcune ipotesi di pericolosità sociale qualificata con le quali il legislatore ha tipizzato la
pericolosità sociale dei soggetti imputabili.
La figura del delinquente abituale si basa sul principio secondo il quale la commissione di più reati nel
tempo allenta il freno inibitori e predispone i soggetti a commettere reati in futuro. Vi sono diverse figure di
delinquente abituale:
- abitualità presunta dalla legge (art.102): riferita esclusivamente ai delitti, la presunzione di
abitualità è fondata sulla pluralità dei delitti, sulla loro omogeneità di indole, sulla delimitazione
dell’arco temporale di commissione dei fatti e sulla non contestualità;
- abitualità ritenuta dal giudice (art.103): è fondata sul presupposto oggettivo di una
‘’carriera criminale’’ meno consistente (è sufficiente la condanna per due delitti non colposi alla quale
segua la condanna per un altro delitto non colposo), ma si richiede che il giudice valuti in concreto
se il soggetto sia da ritenere ‘’dedito al delitto’’.

Delinquente o contravventore professionale è chi viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi
del reato (srt.105). La professionalità del reato è una species di abitualità criminosa, connotata dal fatto che
il soggetto trae i mezzi di sostentamento dalla commissione di reati. Va sempre accertata in concreto dal
giudice.
Il delinquente per tendenza è chi, sebbene non recidivo o abituale o professionale, riveli una speciale
inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole (art.108). Indole
malvagia che, però, non può originare da un vizio di mente. L’autore deve essere un soggetto imputabile.
La dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato e tendenza a delinquere è comunque
subordinata all’accertamento in concreto della pericolosità sociale. Solo in presenza dell’accertamento
in concreto operano, accanto all’applicazione delle misure di sicurezza, gli altri effetti di disciplina: non si
applica l’amnistia, salvo che la legge non disponga altrimenti; si raddoppiano i tempi di prescrizione del reato
in caso di intervento di cause interruttive; le pene non si estinguono per prescrizione. Agli effetti della
dichiarazione di abitualità o di professionalità del reato, si tiene conto anche delle condotte per le quali è
intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena. La riabilitazione estingue la dichiarazione di
pericolosità sociale qualificata, facendone venire meno gli effetti.

Le misure di sicurezza personali sono detentive e non detentive.


Sono misure di sicurezza detentive:
a) assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro per i delinquenti abituali, professionali e per
tendenza;
b) ricovero in una casa di cura e di custodia per i condannati a pena diminuita per infermità mentale,
sordomutismo, intossicazione cronica;
c) ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per vizio totale di mente, sordomutismo, intossicazione
cronica;
d) ricovero in un riformatorio giudiziario destinato ai minori imputabili o non.

Sono misure di sicurezza non detentive:


a) la libertà vigilata;
b) il divieto di soggiorno in uno o più comuni per delitti contro la personalità dello Stato, contro l’ordine
pubblico o per i delitti commessi per motivi politici;
c) il divieto di frequentare osterie o locali che vendono alcool per reati commessi in stato di ubriachezza,
sempre che questa sia abituale;
d) l’espulsione dello straniero extracomunitario dallo Stato e l’allontanamento dal territorio dello Stato
del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’UE in caso di condanna dello straniero alla
reclusione per un tempo superiore ai 2 anni o condanna a pena detentiva per un delitto contro la personalità
dello Stato;

57 – Diritto penale
e) particolari restrizioni per i reati di pedopornografia come la restrizione dei movimenti e della libera
circolazione, il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati abitualmente da minori, divieto di svolgere lavori che
prevedono un contatto abituale con minori, obbligo di tenere informati gli organi di polizia sulla propria
residenza e sugli eventuali spostamenti.

Le misure di sicurezza personali sono ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di
proscioglimento. L’art.206 prevede l’applicazione provvisoria delle misure del riformatorio giudiziario,
dell’ospedale psichiatrico giudiziario e della casa di cura e di custodia; il ricovero viene revocato quando il
giudice ritenga che tali persone non siano più socialmente pericolose. Le misure hanno una durata minima,
differenziata in relazione alle diverse misure e ai destinatari delle stesse. Non è prevista una durata
massima perché ‘’non possono essere revocate se le persone ad essere sottoposte non hanno cessato di
essere socialmente pericolose’’. Hanno dunque una durata non predeterminata che si prolunga attraverso il
sistema del riesame della pericolosità. Decorso il tempo minimo di durata, il giudice riprende in esame le
condizioni della persona: se la pericolosità persiste, fissa un nuovo termine minimo; se è cessata,
l’esecuzione della misura di sicurezza viene interrotta. Abbiamo visto che alcuni autori possono essere
destinatari congiuntamente di pene e di misure di sicurezza. La regola generale impone che le misure di
sicurezza detentive sono eseguite dopo che la pena è stata scontata o estinta. Se un condannato a pena
detentiva si sottrae all’esecuzione della pena commette il reato di evasione (art.385). Qualora una persona
sottoposta a misura di sicurezza detentiva si sottragga volontariamente all’esecuzione di essa, l’art.215
prevede che ricominci a decorrere nuovamente il periodo minimo di durata della misura di sicurezza dal
giorno in cui a questa è data nuovamente esecuzione. Oggi la condotta dell’internato che si sottrae
all’esecuzione della misura sarà presa in considerazione agli effetti del giudizio di riesame della pericolosità
sociale. In caso di trasgressione degli obblighi inerenti ad una misura di sicurezza non detentiva, il codice
prevede la possibilità di applicare misure di sicurezza più incisive, anche di tipo detentivo.

 MISURE DI SICUREZZA PATRIMONIALI


Il cp prevede 2 misure di sicurezza patrimoniali:
1. Cauzione di buona condotta
Si tratta di depositare una somma di denaro: se durante l’esecuzione della misura il soggetto non
commette alcun delitto o contravvenzione punita con l’arresto, è ordinata la restituzione della somma.
Somma richiesta a titolo di deposito da 103€ a 2065€;
2. Confisca
Consiste in un provvedimento ablativo dell’acquisizione, a favore del patrimonio disponibile dello Stato,
della proprietà di determinati beni che presentano un nesso di strumentalità o derivazione del reato.
L’art.240 prevede 2 ipotesi di confisca. Nel caso di condanna è prevista la confisca facoltativa delle
cose che servirono o furono destinate a commettere il reato; del prodotto, ovvero il risultato materiale del
reato, e il profitto derivato dal reato. La confisca non presuppone l’accertamento della pericolosità
sociale dell’autore, ma presuppone la pericolosità della cosa, intesa come la disponibilità di questi beni
in capo all’autore del reato che rappresenta un possibile fattore criminogeno. Il comma 2 dell’art.201,
prevede la confisca obbligatoria di cose che costituiscono il prezzo derivato, consistente nel vantaggio
economico che l’autore ha ricevuto per commettere il reato, dei beni e strumenti informatici o telefonici
utilizzati per la commissione del reato informatico, delle cose la cui alienazione costituisce reato (cose
obiettivamente criminose). Il legislatore ha riscoperto l’importanza della confisca come strumento di
contrasto alla criminalità del profitto, ossia quelle forme di criminalità motivate dall’acquisizione di
vantaggi di natura economica. Il legislatore ha introdotto delle ipotesi particolari di confisca connotate
da alcuni elementi. Ha carattere obbligatorio e si prevede la confisca per equivalente: il giudice ordina
che sia confiscato un oggetto di valore corrispondente a quello del bene da confiscare; nonché
l’estensione dell’oggetto della confisca (es. in caso di condanna per il reato di associazione di tipo
mafioso è prevista la confisca obbligatoria anche delle cose che costituiscono l’impiego del prezzo, del
prodotto o profitto del reato).

 MISURE DI PREVENZIONE
Le misure di sicurezza sono strumenti di prevenzione post delictum in quanto presuppongono la
commissione di un reato. Il sistema penale ha una lunga tradizione di misure di prevenzione che consistono
in strumenti di intervento ante delictum, applicate prima della commissione di un reato a persone che
siano da considerare pericolose per l’ordine costituito e la tranquillità pubblica. Tradizionalmente sono state
utilizzate misure di prevenzione personali, disciplinate dagli artt.: 2,3 e 6 del codice antimafia:
a) Foglio di via obbligatorio;

58 – Diritto penale
b) Avviso orale del questore;
c) Sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, che può essere aggravata dall’obbligo di soggiorno
nel comune di residenza o di dimora abituale.
Le prime 2 sono applicate dal questore, la 3 dall’autorità giudiziaria. Destinatari delle prime due sono coloro
che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di
attività delittuose, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità
fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Il codice antimafia prevede che
la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza possa essere applicare, oltre che ai soggetti già destinatari
delle altre 2 misure, anche agli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, coloro che pongono
in essere atti preparatori obiettivamente rilevanti diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato o a compiere
atti di terrorismo anche internazionale, coloro che abbiano fatto parte di associazioni neofasciste disciolte,
persone indiziate di aver preso parte a manifestazioni di violenza in occasione di competizioni sportive.
Nel 1982 furono introdotte misure di prevenzioni patrimoniali del sequestro e della confisca. Il tribunale
ordina, ai sensi dell’art.20 cod. antimafia, ‘’il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è stata
presentata la proposta risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta
sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando si ha motivo di ritenere che
gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego’’ e ai sensi dell’art.24 cod. antimafia
‘’la confisca dei beni sequestrati di cui la persona non possa giustificare la legittima provenienza e di cui
risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo’’. I beni confiscati sono acquisiti al patrimonio
dello Stato e possono essere trasferiti in gestione ad associazioni con finalità sociali.

59 – Diritto penale

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